Ohana

di Fragolina84
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il lasciapassare per la libertà ***
Capitolo 2: *** Gita in spiaggia ***
Capitolo 3: *** Litigare… e fare pace! ***
Capitolo 4: *** La crudeltà del mondo ***
Capitolo 5: *** Armi non convenzionali ***
Capitolo 6: *** Festa di beneficenza ***
Capitolo 7: *** Un vecchio amico-nemico ***
Capitolo 8: *** Orribili traffici ***
Capitolo 9: *** Una telefonata ***
Capitolo 10: *** Tra le mie braccia ***
Capitolo 11: *** Ohana ***



Capitolo 1
*** Il lasciapassare per la libertà ***


Prologo


Sedevo compostamente sulla sedia di plastica, le gambe accavallate e le mani intrecciate e appoggiate in grembo. Guardavo di fronte a me, in attesa, ma del tutto rilassata. Ero certa che mi stessero guardando perciò ero ben attenta ad ogni movimento.
Sospirai, sollevando una mano per portarmi una ciocca bruna dietro l’orecchio. Mi guardai la mano, dalle unghie corte e del loro rosa naturale. Non vedevo l’ora di potermi dare di nuovo lo smalto.
Una porta si aprì dietro di me e mi imposi di non lasciar trasparire l’ansia. Sarebbe andato tutto bene, doveva andare tutto bene.
Un uomo in camice si avvicinò e aggirò la scrivania presso cui ero seduta. Prese posto sulla poltrona in pelle, appoggiando la cartellina blu che aveva in mano e alzando infine gli occhi su di me. Mi sorrise e io ricambiai.
«Dunque, signorina Bensen» disse con voce profonda. «Come si sente oggi?»
«Magnificamente, dottore» replicai.
«Molto bene» rispose compiaciuto, come a dire di essere lui la causa del mio stare bene. Prese un foglio dalla cartellina e lo girò verso di me che mi sporsi in avanti per leggerlo.
«Sono lieto di poterle consegnare il suo foglio di dimissioni» spiegò e faticai a trattenere la gioia selvaggia che provai in quel momento.
Per cinque lunghissimi e tediosi anni ero rimasta segregata in quel maledetto ospedale psichiatrico. Tutto era cominciato quando avevo scoperto il mio ragazzo a letto con la mia migliore amica. Cameron mi aveva sempre accusata di essere troppo gelosa, dicendo che non ne avevo motivo, che amava solo me e non c’era né ci sarebbe mai stata nessun’altra. La verità era stata ben diversa e i due avevano una tresca da molto tempo.
Quando l’avevo scoperto, avevo perso la testa. Avevo iniziato a seguire Cameron e la sua nuova compagna: li pedinavo ovunque andassero, andavo negli stessi ristoranti, frequentavo gli stessi posti. Avevano anche ottenuto un’ordinanza restrittiva, ma questo non mi aveva certo fermata finché un giorno avevo cercato di sfregiare quella stronza della mia ex migliore amica.
Cameron e suo padre erano ricchi avvocati e, ne ero più che certa, avevano manovrato le cose in modo che la perizia psichiatrica a cui ero stata sottoposta avesse come esito quello di farmi finire in quel posto da incubo. Io non ero pazza: io volevo soltanto un uomo che si preoccupasse per me, che mi facesse sentire amata, un uomo per il quale davvero non esistesse altra donna all’infuori di me.
Avevo odiato ogni singolo istante di quella ingiusta prigionia, e avevo giurato a me stessa che avrei fatto di tutto per uscire al più presto.
Avevo imparato ben presto a reprimere ciò che avevo dentro e a rispondere come i medici si aspettavano che facessi. Non appena avevano visto la mia buona volontà, i controlli si erano diradati così come la sorveglianza, le cui maglie si erano nettamente allargate, permettendomi di smettere di prendere quei maledetti farmaci che mi rendevano un automa privo di volontà.
Ma adesso quell’incubo era finito e quel foglio con il logo dell’ospedale era il mio lasciapassare per la libertà.

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Capitolo 2
*** Gita in spiaggia ***


Steve e Nicole sono tornati.
E ora c'è anche una piccola McGarrett!
Buona lettura

«Mamma?»
Nicole si rizzò sul gomito. La luce notturna applicata alla presa accanto alla porta spandeva un tenue chiarore nella stanza e fu a quella luce che la donna vide la piccola Evelyn accanto al letto.
«Eve, amore. Che succede?» domandò. Tese la mano e illuminò lo schermo del cellulare: erano passate da poco le due e mezza.
La bambina si sfregava gli occhi, assonnata.
«Ho fatto un brutto sogno» pigolò e Nicole tese la mano per accarezzarle la testa.
«Oh, tesoro. È tutto finito adesso. Vuoi un po’ d’acqua?» domandò.
Evelyn scosse la testa.
«Posso dormire qui?»
Steve si mosse sul letto, evidentemente sveglio anche lui.
«Amore, lo sai che non puoi dormire qui.»
Erano sempre stati categorici su quel punto, più che altro perché con il loro lavoro avevano bisogno di riposarequando era possibile e la presenza della bambina li avrebbe sicuramente disturbati.
Alla risposta della madre, Evelyn piagnucolò.
«Nicky, lascia che stia qui» borbottò Steve con voce impastata. La sera prima erano rientrati tardissimo dopo aver risolto un caso di omicidio ed entrambi erano abbastanza stremati.
«Va bene, ma solo per stavolta» capitolò Nicole. Tese le braccia e la sollevò, sistemandola fra sé e Steve. La bambina si aggrappò al braccio muscoloso del padre e gli si raggomitolò addosso.Nicole sospirò e si rimise giù.
Con tutta evidenza, il sogno non aveva lasciato alcuno strascico dato che dopo un paio di minuti Evelyn dormiva già.
Nicole si mise sul fianco sinistro, voltata verso le due persone più importanti della sua vita.
Quando lei e Steve si erano conosciuti, si erano piaciuti subito. Entrambi avevano riconosciuto nell’altro le proprie caratteristiche di dedizione e senso del dovere. Finire per stare insieme era scontato e i due si erano sposati in un luminoso mattino hawaiano.
Erano passati attraverso diverse peripezie nella loro vita insieme, nell’ultima delle quali la madre di Nicole era stata assassinata e lei era finita in prigione dopo che aveva ucciso il ragazzo responsabile dell’omicidio. L’indagine dei Five-O aveva scoperchiato un vespaio: Nicole era stata incastrata da un vecchio nemico che aveva tirati i fili dalla prigione in cui lei aveva contribuito a rinchiuderlo.
Mentre Nicole, imprigionata nel carcere di Halawa pieno di detenute che lei stessa aveva arrestato,finiva in infermeria dopo essere stata pesantemente percossa, Steve ne organizzava l’evasione con l’aiuto del suo vecchio team di Seal. Poi aveva ricostruitoquanto era successo e aveva presentato al Governatore le prove che scagionavano la moglie, che era stata totalmente riabilitata.
Pochi mesi dopo, Nicole era rimasta incinta. Era stata una gravidanza facile e serena. Non poteva dire lo stesso del parto, ma quella era un’altra storia.
Abbassò gli occhi sulla figlia, ancora rannicchiata contro Steve, e le scostò i capelli scuridalla fronte. Evelyn aveva ereditato la pelle ambrata e i capelli neri della nonna materna, hawaiana al cento percento. Sebbene il padre di Nicole fosse americano, anche Nicole aveva quei tratti somatici ma erano molto meno marcati, anche se bastavano per farla passare per una dell’isola, cosa molto utile quando doveva andare sotto copertura.
«Questo piccolo diavoletto ci ha messo in scacco stanotte» mormorò Steve.
Evelyn MaluhiaMcGarrett era decisamente il punto debole di Steve. Da quando era nata, Steve soleva dire che era diventato suo schiavo e non c’era nulla che non sarebbe stato disposto a fare per lei. Non credeva di poter amare in quel modo, ma la prima volta che l’aveva presa in braccio e Evelyn gli aveva stretto il dito con la manina minuscola, aveva capito che la sua vita era profondamente cambiata.
«Ricorda che sei stato tu a permetterle di dormire qui»replicò piccata la moglie.
Steve sospirò: «Sapevo che me l’avresti rinfacciato».
Nicole si tese verso di lui, attenta a non disturbare Evelyn e lo baciò dolcemente.
«Dovrai trovare un modo per fare ammenda» sussurrò e a Steve non sfuggì il brillio malizioso nei suoi occhi.
«Lo troverò, signora McGarrett» promise.
 
Quando, qualche ora più tardi, Nicole si svegliò, Steve era inginocchiato sul materasso. Durante la notte Evelyn si era mossa e si era rannicchiata contro il fianco della madre. Steve la stava prendendo in braccio.
«Che ore sono?» domandò la donna, assonnata.
«È presto. La metto nel suo lettino, dormi ancora un po’» rispose Steve.
Mentre Steve portava la bambina nella stanza accanto, Nicole si girò sul fianco, occupando per metà il posto di Steve. Il cuscino dell’uomo conservava ancora il suo calore e Nicole vi affondò il viso e aspirò il suo profumo. Sospirò soddisfatta.
Quando Steve si affacciò di nuovo nella stanza, rimase per un momento ad osservarla. Indossava una corta camicia da notte di semplice cotone, nera e con le spalline sottili. L’indumento si era sollevato e lasciava scoperte le cosce e intravedere le mutandine. Dio, dopo anni gli faceva lo stesso effetto della prima volta che l’aveva vista.
Non mancava giorno che non rivolgesse un pensiero di ringraziamento al Cielo che l’aveva messa sul suo cammino. Era lei che lo teneva integro, che curava le sue ferite interiori, che dava un senso alla sua vita. Aveva sempre snobbato i romantici film che tanto piacevano a Nicole e che parlavano di coppie perfette che vivevano il loro travolgente amore in barba a qualsiasi ostacolo la vita mettesse loro davanti.
Beh, loro due non erano perfetti. Ma il loro amore era una cosa sacra e luminosa e Steve avrebbe fatto di tutto per proteggerlo. Da quando era arrivata la bambina poi, il loro sentimento si era come cristallizzato in qualcosa di ancor più potente.
Certo, il mondo era diventato un posto spaventoso in cui crescere una famiglia – e loro, con il lavoro che facevano, se ne rendevano conto meglio di altri – ma ogni grammo della sua energia era finalizzato a far sì che Eve crescesse sana e felice. Il suo secondo nome, che in hawaiano significava “protetta”, gli ricordava ogni giorno la sua missione.
Ripensò a quando, da giovane, aveva preso la decisione di arruolarsi. L’Accademia ad Annapolis, gli anni con l’Intelligence della Marina e poi con i NavySeals. All’epoca, allontanato dal padre dopo la morte di sua madre, gli era sembrata la cosa migliore da fare: gli aveva dato uno scopo, un obiettivo su cui concentrarsi.
Era diventato bravo in quel che faceva, molto bravo. E, mentre comandava la sua squadra di Seal nei vari teatri di guerra in cui erano stati inviati, era orgoglioso di proteggere la sua patria e la sua gente. Era disposto a sacrificare la propria vita per gli altri, anche se erano degli sconosciuti, in virtù del giuramento che aveva fatto. E l’avrebbe fatto, senza esitare.
Ma quando nella sua vita erano entrate prima Nicole e ora sua figlia, quella consapevolezza aveva assunto un significato del tutto nuovo. A quel punto, il giuramento che aveva fatto aveva acquistato un valore diverso: ora quelle persone da proteggere non erano più degli sconosciuti ma erano parte di lui, del suo cuore, della sua anima.
Si avvicinò al letto senza fare rumore e sedette sul materasso. Le toccò la gamba nuda, risalendo lentamente. Sentì che il suo respiro cambiava e sogghignò, proseguendo con la mano verso l’alto, finché si infilò sotto la camicia da notte. Sfiorò con il dito il bordo delle mutandine, accarezzandole la curva della natica. La donna si mosse in modo voluttuoso sotto la sua mano.
Steve si chinò su di lei e le baciò la porzione di schiena lasciata scoperta dalla camicia da notte. Il bacio le provocò la pelle d’oca sulle braccia e Nicole ridacchiò. Poi si girò sulla schiena.
«Scusami» le disse. «Volevo lasciarti dormire ancora un po’, ma eri così sexy che non ho resistito».
Nicole si stiracchiò, inarcando un po’ la schiena e portando le braccia sopra la testa. Si accorse che a Steve non era sfuggito nulla del movimento e sorrise.
«Sono felice che tu mi abbia svegliata».
«Oh, non fare così» replicò Steve, socchiudendo minaccioso gli occhi.
«Perché?» domandò lei con l’aria fintamente innocente.
Steve la guardò a lungo, poi sogghignò.
«No, no! Non cadrò nella tua trappola».
«Peggio per te, comandante» replicò lei.
«O per te» aggiunse Steve, mentre si alzava.
«Sì, ti piacerebbe» ribatté lei con sarcasmo.
Steve si bloccò. Nicole lo conosceva bene e sapeva di avergli lanciato una sfida. E Steve McGarrett non lasciava mai cadere una sfida. Ciò che non si aspettava proprio era la repentinità con cui lui si mosse.
Si mise a cavalcioni su di lei, bloccandole le braccia sopra la testa. Nicole lanciò un gridolino, ma non abbastanza forte da svegliare Eve. Si divincolò, muovendosi sotto di lui, ma senza molta convinzione.
«Guai grossi per te, tenente» ringhiò, usando il nuovo grado di Nicole, promossa tenente meno di due mesi prima.
Si abbassò su di lei, facendole spostare la testa di lato per arrivare a baciarle il collo. Nicole si abbandonò alle sue attenzioni con un sospiro, piegando di più il capo per facilitargli il compito. Tentò di liberare le mani, ma Steve non glielo permise, trattenendola con fermezza.
Per tutta risposta, la donna si mosse di nuovo, con il risultato che la camicia da notte risalì ancora.
«Dio mio, donna. Vuoi stare ferma?» borbottò, abbassando gli occhi sulle mutandine di pizzo.
Lei rise, una risata morbida che le fece vibrare la gola su cui lui aveva posato la bocca.
Steve si scostò, coricandosi di fianco a lei. La circondò con il braccio e Nicole gli si strinse contro, intrecciando una gamba alle sue.
«Pensi che riusciremo a passare una domenica tranquilli?» mormorò, disegnandogli piccoli cerchi con l’indice sul torace.
«Tendo a non fare promesse che potrei non mantenere»rispose Steve con un sospiro.
La loro vita era tesa e frenetica e le chiamate in servizio arrivavano nei momenti più impensabili. Quel giorno avevano in programma una giornata in spiaggia a Waikiki con Alex, il fratello di Nicole, e Lisa. I due erano sposati da circa sei mesi. Le due donne avevano legato molto e Evelyn adorava la zia Lisa, così avevano organizzato quell’uscita.
«C’è un’altra domanda che mi frulla per la testa» aggiunse Nicole, sollevandosi e posando il mento sul petto di lui. «Come mai non siamo impegnati in eccitanti faccende in questo momento?»
Steve ghignò come un monello.
«Perché raccogliere quella sfida avrebbe significato perdere la giornata in spiaggia e sai quanto Evelyn ci tenga» rispose.
«Santo cielo, sei sempre stato così arrogante, McGarrett?» borbottò Nicole, ma era evidente che scherzava.
Steve non raccolse la provocazione e si mosse per alzarsi.
«Vado a fare una nuotata» disse. Nicole sapeva che, ogni volta che poteva, iniziava la giornata con una lunga nuotata nell’oceano. Molto spesso partecipava anche lei – anche se preferiva nuotare di pomeriggio, quando l’acqua era meno fredda – ma da quando era arrivata la bambinanon aveva più potuto seguirlo.
Lo osservò mentre si infilava i pantaloncini da bagno e faceva per uscire. Steve tuttavia si fermò sulla soglia e si girò verso di lei.
«Sappi comunque che la sfida non è dimenticata e sarà un piacere darti una bella lezione non appena possibile».
«Oh, non vedo l’ora, comandante» replicò lei maliziosa, soffiando un bacio nella sua direzione.
Steve scese e lei sentì il bip del sistema d'allarme che veniva disattivato e la porta sul retro che veniva aperta. Nicole si rassegnò ad alzarsi. Si fece una doccia veloce e indossò canottiera e shorts. Poi, dopo aver lanciato un’ultima occhiata alla stanza della figlia e averla vista profondamente addormentata, scese al piano di sotto, avendo cura di controllare che il cancelletto che Steve aveva installato per evitare che la bimba scendesse da sola fosse ben chiuso.
Si recò in cucina e preparò il caffè, dedicandosi poi a preparare una variopinta serie di sandwich che avrebbero portato in spiaggia. Quando un movimento fuori dalla casa attirò la sua attenzione vide che Steve era uscito dall’acqua. Prese il telo che aveva lasciato sulla sedia in giardino e si asciugò velocemente. Poi infilò le infradito e rientrò.
«Ah» sospirò, «l’acqua era magnifica stamattina».
Si avvicinò a Nicole e la strinse da dietro. Lei si appoggiò ai suoi pettorali: la sua pelle era ancora fresca e umida dopo la nuotata e lei si godette quel contatto. Steve abbassò il capo per baciarle il collo e nel movimento alcune gocce caddero dai capelli bagnati sulla spalla di lei. Prima che scivolassero via, Steve le lambì con la lingua, facendola rabbrividire.
«Vado a farmi la doccia» sussurrò e sembrava davvero un invito. Ma Nicole non voleva cedere tanto facilmente: dargliela vinta così presto avrebbe senz’altro accresciuto il già considerevole ego di Steve.
«Per favore, sveglia Eveprima di scendere. Io preparo la colazione».
Steve fece la doccia, lavando via la salsedine del bagno mattutino. Si asciugò velocemente i capelli e indossò maglietta e pantaloncini.
Poi entrò nella stanza della bambina che dormiva della grossa, a pancia in giù. Aveva il pollice in bocca: sicuramente aveva perso il ciuccio, che infatti vide per terra. Ormai lo teneva solo per dormire e avevano deciso che preferivano quello al fatto che si succhiasse il dito. Ma di notte spesso lo perdeva e rimediava con il pollice.
«È ora di alzarsi, Evelyn» sussurrò Steve, accarezzandole la schiena con dolcezza. La bambina sospirò, rigirandosi a pancia in su ma senza aprire gli occhi.
«Andiamo, dormigliona» ridacchiò e la prese in braccio.
Evelyn gli ciondolò fra le braccia, troppo assonnata per reagire.
«Eve» la chiamò di nuovo, mentre la portava in bagno. «Se non ti svegli non potremo andare in spiaggia con gli zii».
La frase ebbe l’effetto sperato e la bambina aprì gli occhi dal bellissimo taglio a mandorla, che erano di un intenso colore blu, un mix tra l’azzurro mare dei suoi e lo straordinario viola di sua madre.
«Quando andiamo in spiaggia?» domandò con la voce ancora piena di sonno.
«Intanto facciamo pipì, poi ci pensiamo, ok?»
Quando scesero, Nicole aveva preparato la colazione sul tavolo in veranda. Evelyn, già vestita e pronta, tese le braccia e Steve la passò a Nicole.
«Buongiorno, piccola mia».
«Ciao, mamma». Le strinse le braccia attorno al collo e le schioccò un bacio sulla guancia. «Andiamo in spiaggia?»
Nicole lanciò un’occhiataccia a Steve.
«Papà non avrebbe dovuto dirtelo così presto» borbottò. «Prima facciamo colazione, ok?»
La fece sedere sulla sua sedia e, nonostante le proteste della bambina, fecero colazione ascoltando le onde dell’oceano che mormoravano la loro litania continua.
Per fortuna Nicole aveva già preparato tutto perché non sarebbe stato possibile aspettare altro tempo. Salì a mettere il costume che coprì con un pareo e tornò al piano di sotto mentre Steve raccoglieva le borse che la donna aveva preparato accanto alla porta.
Evelyn saltellava attorno a loro, chiaramente impaziente di andare. Quando Steve aprì la porta sfrecciò fuori come un piccolo fulmine bruno e si fermò accanto alla portiera della Camaro di suo padre.
«Dai, papà! Sei lento» si lamentò.
«Ha preso decisamente da te» si lagnò Steve ma Nicole non replicò.
Mentre Steve caricava le borse nel bagagliaio, la donna assicurò Evelyn al seggiolino. Steve si mise al volante e guidò con calma fino a Waikiki Beach, parcheggiando la Camaro in un posto libero.
Nicole era al telefono con il fratello che l’aveva chiamata per dirle che erano leggermente in ritardo.
«Ok, vi aspettiamo in spiaggia. Tua nipote potrebbe diventare troppo impaziente».
Scesero e scaricarono le borse e Steve acchiappò Evelyn prima che si lanciasse in spiaggia da sola.
«Penso che tu abbia bisogno di calmarti un po’, signorina» la rimproverò.
«Ma papy! È Waikiki!»protestò la bambina, con un tono così comico che entrambi scoppiarono a ridere.
Trovarono un posto tranquillo e Steve aprì l’ombrellone colorato, mentre Nicole cercava di mettere la protezione solare a Evelyn che non la smetteva di saltellare.
«Quando arrivano gli zii?» chiese, mentre Nicole le spalmava la crema sul viso.
«Tra poco. Se stai ferma e ti fai mettere la crema forse arriveranno anche prima» sbuffò la donna.
«Papy, andiamo a vedere l’acqua?»
«Non dovrebbe essere diversa da quella che vedi tutti i giorni a casa, comunque ogni suo desiderio è un ordine, signorina McGarrett»disse Steve, prendendola per mano.
Mentre i due si allontanavano, Nicole sistemò le borse all’ombra e si tolse il pareo, restando in bikini. Stese l’asciugamano sulla sabbia e si coricò, chiudendo gli occhi e godendosi qualche momento di solitudine.
«Ehi, sorella!»
Nicole girò la testa: suo fratello Alex e la moglie Lisa venivano verso di lei, appesantiti da borse e ombrellone. Alex aveva i capelli castani e gli occhi neri di sua madre Iolana. Era basso di statura e aveva un fisico magro e asciutto. Lavorava per una grande azienda informatica per la quale sviluppava software gestionali.
Dopo una certa promiscuità in ambito donne aveva incontrato Lisa ad una convention a cui aveva partecipato per lavoro e se ne era perdutamente innamorato. La ragazza era originaria del Montana e per qualche mese avevano provato a farla funzionare a distanza. Ma le difficoltà si erano rivelate più grandi di loro.
Il destino aveva voluto che nell’azienda per cui lavorava Alex si liberasse un posto proprio in quei mesi. Lisa aveva inoltrato la domanda ed era stata scelta, perciò aveva fatto i bagagli e si era trasferita a Oahu.Avevano convissuto per un po’ – nonostante a Iolana l’idea non andasse proprio a genio – e finalmente, sei mesi prima, erano convolati a nozze.
Nicole era dispiaciuta che sua madre non avesse potuto vederli sistemati. Si rammaricava anche del fatto che non avesse visto Evelyn: le sarebbe piaciuto diventare nonna, Nicole riusciva a immaginarla benissimo mentre coccolava la bambina con gelato e biscotti fatti in casa.
Lisa sollevò gli occhiali da sole sulla testa.
«Dov’è la mia piccola Eve?» domandò.
«È andata con Steve a vedere l’acqua» rispose Nicole, mentre il fratello e la cognata si sistemavano. Si erano appena accomodati sugli asciugamani che Evelyn e Steve ritornarono dal loro giro di perlustrazione. La bambina li vide da lontano e lasciò la mano di suo padre per correre loro incontro, gettandosi tra le braccia di Lisa.
«Zia Isa» gridò.
«Ciao ranocchietta» la salutò, baciandole la sommità del capo.
«Guarda cos’ho trovato» disse la piccola, mostrandole una bella conchiglia variopinta che aveva raccolto sul bagnasciuga.
Steve arrivò con più calma e salutò i nuovi arrivati. Poi abbassò lo sguardo su Nicole: non disse nulla ma la donna lo conosceva bene e sapeva che il nuovo bikini fucsia che indossavanon lo lasciava indifferente.
«Vieni anche tu a vedere l’acqua?»le domandò. Per tutta risposta, Nicole gli tese le mani perché l’aiutasse a rimettersi in piedi.
Evelyn era impegnata con Lisa e Steve aveva sperato proprio in quello dato che voleva stare un po’ da solo con sua moglie.
«Torniamo subito» dissero e si allontanarono. Steve intercettò un paio di occhiate da parte di alcuni ragazzi. Non era per nulla strano: anche dopo la gravidanza, Nicole aveva conservato un fisico tonico e asciutto, merito anche di tutte le ore di allenamento che facevano per tenersi in forma.
Quelle occhiate gli fecero bruciare una punta di gelosia e sentì l’esigenza di passarle un braccio attorno alla vita sottile per far sapere al resto della spiaggia che Nicole era soltanto sua.
«Calmati, Superseal!» rimbeccò la donna sorridendo, dato che aveva intuito cosa passava per la testa di Steve.
Arrivarono sulla battigia. Nicole mise i piedi in acqua e voltò le spalle all’oceano, allacciandogli le mani dietro il collo. Lui le posò le mani sui fianchi e rimasero per un po’ così, con l’acqua che lambiva loro le caviglie, completamente dimentichi di tutto eccetto loro stessi, come se l’affollata spiaggia di Waikiki fosse improvvisamente deserta.
«Sei una favola con questo bikini» mormorò lui.
«Il tuo giudizio è poco obiettivo, secondo me» replicò Nicole. Poi socchiuse gli occhi: «Ti va di portarmi un po’ al largo, comandante?»
Steve la prese per mano e insieme si spinsero in acqua. Si lasciarono alle spalle le famiglie con i bambini impegnati nei loro giochi nell’acqua bassa finché il fondale cominciò a digradare. Nicole si tuffò, riemergendo poco più in là con i capelli incollati alla testa, lisci e lucenti.
Anche Steve si tuffò, nuotò verso di lei e l’afferrò alla vita. La tirò sotto, cercandole la bocca per baciarla.Riemersero ridendo e Nicole gli si aggrappò con le braccia e gli circondò la vita con le gambe. Steve la guardò negli occhi, le lunghe ciglia imperlate di goccioline scintillanti come diamanti, e la desiderò come la prima volta.
La baciò con passione, stringendola contro il petto. Fu lei la prima a staccarsi: rimase ad occhi chiusi, la fronte appoggiata a quella di Steve. L’uomo sentiva il seno premergli contro ad ogni respiro e rimase immobile, godendosi la stretta delle sue braccia attorno al collo.
«Sarà meglio tornare a riva» disse alla fine con voce roca. «Altrimenti penso che non basterà l’acqua fredda».
Nicole ridacchiò e insieme tornarono alla spiaggia. Fecero il giro lungo per tornare, passando per le docce d’acqua dolce per lavare via la salsedine, e poi tornarono agli ombrelloni.
Evelyn aveva sparso i suoi giochi sulla sabbia e stavadando sfogo alla sua creatività con le formine.
«Pensavo foste fuggiti per darvi alla pazza gioia»ammiccò Alex, tendendo il pugno che Steve colpì con il proprio.
«Il pensiero ci aveva sfiorato, in effetti».
La mattinata volò via in modo rilassato e piacevole. Steve sperava che il suo cellulare rimanesse muto almeno per quel giorno perché vedeva che le sue donne si stavano divertendo e gli sarebbe dispiaciuto dover interrompere.
Dopo pranzo Evelyn sedette fra gli asciugamani dei suoi genitori e Steve fu precettatoper aiutarla con le formine di sabbia, mentre Nicole chiacchierava con Lisa con cui aveva stretto una bellissima amicizia.
«Senti, ma dove l’hai preso quel bikini?» le chiese ad un certo punto. «È davvero carino».
«Ti piace? L’ho preso in quel nuovo negozio che hanno aperto su Kalakaua Avenue».
«Ho sentito che hanno della roba bellissima, ma hanno prezzi abbastanza alti».
«Sì, è vero» confermò Nicole. «Io e Kono ci siamo andate il giorno in cui hanno fatto l’inaugurazione, c’era il cinquanta percento di sconto».
«Mamma, cos’è questo?»domandò Evelyn, indicando il fianco sinistro della madre.
«Quella è una cicatrice, tesoro» spiegò. «Capita a volte quando una persona si fa male».
«Ti sei fatta male perché sei caduta?»
Nicole sorrise. «No, non sono caduta. È stato un uomo cattivo a farmi male».
Era accaduto anni prima, nel corso di un’operazione sotto copertura. Nicole si era infiltrata nella villa di Rafael Machado, un grosso signore della droga colombiano che teneva prigioniero ElliotReeds, uno dei più cari amici di Steve. Nello scontro a fuoco per esfiltrareElliot, Nicole era rimasta ferita al fianco. Era stata operata due volte, prima sulla nave appoggio dei Seals che avevano portato a termine l’operazione e poi all’Hawaii Medical Center. Ci aveva rimesso la milza, ma era viva e quella piccola cicatrice era un ben misero prezzo da pagare.
Machado era finito in prigione ma era riuscito a manovrare le cose anche da là. Era infatti lui il mandante dell’omicidio della madre di Nicole.
Evelyn rimase pensierosa per un po’, poi toccò con il dito il leggero rigonfiamento di tessuto cicatriziale.
«Ti fa male, mamma?»
«No, piccola. Non mi fa più male adesso» mormorò, accarezzandole il viso con dolcezza.
«E l’uomo cattivo adesso dov’è?» domandò la bambina, guardandola negli occhi.
«Il tuo papà l’ha messo in prigione e non potrà mai più farci del male».
Evelyn si voltò verso Steve con un sorriso a tutta bocca e un’espressione adorante negli occhi blu.
«Il mio papà è il più forte di tutti».
«E questo, signori miei» annunciò Steve, «mette fine a qualsiasi discorso».
Scoppiarono a ridere, ma Nicole si interruppe di colpo. Girando distrattamente gli occhi per la spiaggia aveva notato unragazzo che non doveva avere più di sedici anni. A differenza del resto delle persone in spiaggia indossava una maglietta a strisce e dei pantaloncini e si aggiravacon aria sospetta e nervosa in mezzo agli ombrelloni.
«Steve» mormorò in tono pressante. L’uomo, che aveva già notato il suo strano comportamento, seguì il suo sguardo e lo vide. Non si era accorto che Steve e Nicole lo stavano osservando ed entrambi lo videro guardarsi furtivamente attorno e poi chinarsi per prendere un portafogli da una borsa lasciata abbandonata sotto un ombrellone e infilarlo sotto la maglietta.
Non ebbero bisogno di parlare: entrambi si alzarono. Lo fecero con un sincronismo tale che Alex alzò gli occhi stupito.
«Che succede?» chiese, intuendo che qualcosa aveva attirato la loro attenzione.
«Niente di che» replicò Nicole. Poi abbassò lo sguardo su Evelyn: «Eve, adesso la zia Lisa ti porta a prendere un gelato, ok?»
Fece un cenno alla ragazza che capì al volo e si alzò, prendendoper mano la bambina e allontanandosi verso il chiosco. Steve, che non aveva perso di vista il ragazzo, si mosse per seguirlo.
«Alex, chiama la polizia. Chiedi del sergente Lukela e digli che chiediamo l’invio di una pattuglia a Waikiki Beach».
Nicole non rimase a controllare che seguisse le sue istruzioni e si incamminò sulla sabbia. Steve seguiva il ragazzo con aria indifferente. Nicole intuì che voleva spingerlo un po’ più fuori dalla calca prima di affrontarlo. Non credeva che fosse armato ma la presenza delle famiglie in spiaggia richiedeva il massimo dell’attenzione da parte loro.Nicole continuò a seguirli a una certa distanza, al margine della spiaggia: se il ragazzo fosse fuggito da quella parte, l’avrebbe fermato.
Finalmente giunsero in un punto della spiaggia dove c’era meno ressa. Il giovane ladro non si era ancora accorto di Steve e tantomeno di lei.
«Ehi, tu! Maglietta a strisce! Fermo!» gridò Steve.
Il giovane sussultò come se gli avessero sparato. Piroettò su se stesso, vide Steve a pochi passi di distanza e si mise a correre nella direzione opposta. Entrambi scattarono.
Maglia a strisce volava sulla sabbia, schivando le persone che gli si paravano davanti e saltando asciugamani e borse. Steve correva con potenza ma era più pesante e la sabbia lo intralciava, facendogli perdere terreno.
Il giovane evitò di misura una ragazza bruna che, presa alla sprovvista, perse l’equilibrio. Steve non riuscì ad evitarla del tutto e la colpì con la spalla, facendola cadere sulla sabbia.
Nicole vide che la sollevava in fretta e si accertava che stesse bene prima di rimettersi all’inseguimento del ladruncolo, ma la cosa gli aveva fatto perdere altro terreno. Il ragazzo, che era quasi arrivato al basso muretto che divideva la spiaggia dalla zona pedonale, si voltò, vide che Steve era abbastanza lontano e ghignò.
Ma non aveva notato Nicole. La donna, più leggera e veloce di Steve, era riuscita a tenere il passo e ora cominciò a convergere su di lui, ben decisa a fermarlo prima che raggiungesse la zona pedonale.
Quando Maglia a strisce si accorse di lei era davvero troppo tardi. Nicole si lanciò verso di lui, afferrandolo alla vita e tirandolo a terra. Rotolò sulla sabbia e fu in piedi con la velocità di un furetto, affrettandosi poi a bloccare le braccia del ragazzo dietro la schiena e tenendolo fermo senza troppo sforzo.
«Sta’ fermo, Lupin dei poveri!» borbottò, mentre quello continuava a dimenarsi.
Steve la raggiunse e fece allontanare i curiosi che erano accorsi vedendo la scena, mentre un’auto della polizia si fermava a poca distanza e due agenti scendevano e si dirigevano verso di loro.
«Tenente Knight!» esclamò uno di loro e Nicole riconobbe Duke Lukela. «Davvero bella la nuova uniforme dei Five-O» ridacchiò, alludendo al suo bikini e lanciandole le manette.
«Vero?» replicò lei, facendo scattare le manette ai polsi del ragazzo con gesto esperto. «Pensa a come sarà carino il detective Williams in due pezzi».
Nicole si rimise in piedi con un movimento agile, mentre Steve afferrava il giovane e lo faceva alzare.Nicole gli sollevò la maglietta e afferrò il portafogli che era rimasto inaspettatamente infilato alla cintura.
«Questo lo prendo io» gli disse, sventolandoglielo davanti al viso.
«Nicky, vado a vedere se la ragazza che ho travolto sta bene»annunciò Steve, lasciandola ad occuparsi delle formalità con Duke.
«Ero di pattuglia quando mi hanno passato la chiamata di tuo fratello» spiegò Duke.
La donna gli spiegò brevemente cos’era successo, poi gli affidò il ragazzo ammanettato e raggiunse Steve che stava parlando con la donna bruna. Era giovane e carina, probabilmente sui trenta, con i capelli raccolti con uno spillone e indossava un bikini dorato che contrastava con l’abbronzatura.
Mentre li raggiungeva, la vide sorridere. Si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio e posò una mano dalle unghie curate e dipinte di un bel rosa shock sull’avambraccio di Steve.
«Non si preoccupi, comandanteMcGarrett» mormorò suadente, sporgendosi verso di lui in modo impercettibile. «È tutto a posto, ma è stato gentile a preoccuparsi per me».
Nicole provò un immediato moto di fastidio per il modo in cui quella ragazza stava puntando Steve. Con tutta probabilità lui non se ne era nemmeno accorto e continuava a rivolgersi a lei con cortesia, ma per Nicole quei segnali erano più che evidenti.
Affrettò il passo e arrivò a fianco di Steve, posando una mano sull’ampia schiena di lui.
«Sta bene, signorina?» domandò e, senza attendere risposta, si rivolse al marito. «Tesoro, vogliamo tornare da nostra figlia?»
Godette dell’espressione della bruna che rimase davvero male quando capì che Steve era sposato e aveva anche una figlia.
Steve si congedò dalla ragazza e tornarono sui propri passi. Nicole era sicura che la ragazza li stava ancora guardando, perciò gli circondò la vita con il braccio e infilò la mano appena sotto l’elastico dei pantaloncini da bagno. Steve si girò verso di lei e la baciò sulle labbra senza smettere di camminare.

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Capitolo 3
*** Litigare… e fare pace! ***


La vita a casa McGarrett prosegue...
e c'è un nuovo personaggio pronto per fare il suo ingresso sulla scena.
E si metterà di traverso tra Steve e Nicole...

 

Il rombo della Camaro annunciò l’arrivo di Steve.
«È tornato papà!» esclamò Evelyn che stava colorando seduta sul tappeto del salotto. Nicole stava affettando dei pomodori per preparare un’insalata di contorno per cena.
«Signora McGarrett» chiamò Steve da fuori. «Puoi uscire un attimo?»
Nicole posò il coltello e si asciugò le mani con un canovaccio. Raggiunse la porta e, dopo un’ultima occhiata alla bambina, uscì.
Steve era dalla parte del passeggero e Nicole lo raggiunse.
«Ciao, comandante» lo salutò e si avvicinò per farsi dare un bacio ma si fermò quando notò il labrador retriever dorato che stava scendendo dalla Camaro.
«Ciao, piccola» rispose Steve, avvicinandosi per baciarla, ma la donna si scostò.
«Che sta succedendo?» domandò.
«Oh, lui?» chiese Steve con aria innocente, abbassando lo sguardo e guardando il cane come se lo vedesse per la prima volta. «Beh, lui è Eddie. Ti avevo parlato di Eddie, vero?»
Eddie era un cane antidroga che aveva perso il suo partner in un’operazione DEA qualche settimana prima. Il cane stesso era stato gravemente ferito ma era stato sottoposto ad un delicato intervento ed era riuscito a riprendersi del tutto.
«Sì, me ne avevi parlato. Ma che ci fa lui qui?»
Steve si strinse nelle spalle.
«Ecco… Eddie ha bisogno di un posto dove stare per un po’, finché non gli troveranno un nuovo padrone» spiegò.
«E hai pensato di farlo stare qui?»
«Eddai, Nicky. È addestrato, è un bravo cane. Non è vero, Eddie?» domandò con voce chioccia, abbassandosi per accarezzargli la testa. Nicole sbuffò.
«Hai pensato a tua figlia, Steve?» gli chiese.
«Oh, Eve lo adorerà» affermò e la donna annuì.
«Sì, infatti. E tra qualche tempo gli troveranno un nuovo padrone e dovrà andarsene. Come pensi che la prenderà Evelyn?»
Steve si raddrizzò e sorrise.
«Magari potremmo essere noi i nuovi padroni». Steve le fece l’occhiolino e le schioccò un bacio sulla bocca, aggirandola poi e dirigendosi verso la casa.
Nicole rimase immobile, esterrefatta di fronte alla sfacciataggine di suo marito.
«Potrei spararti» gli gridò dietro.
«Non hai la pistola: ho guardato bene prima di farti vedere il cane» rispose lui senza voltarsi.
Eddie ovviamente suscitò la piena approvazione di Evelyn che quella sera mangiò anche i piselli. Steve aveva preso un sacco di croccantini e lui e la bambina si dedicarono a dar da mangiare al cane mentre Nicole sparecchiava e lavava i piatti. Poi salì al piano di sopra per fare la doccia.
Aveva appena finito e si era avvolta in un asciugamano quando sentì bussare.
«Che c’è?» chiese, un po’ bruscamente.
«Wow!» replicò Steve dall’altra parte. «Ti sembra questo il modo di rispondere?»
«C’erano altri centododici modi in cui volevo risponderti, ho scelto il più carino» rispose, aprendo la porta.
Steve entrò e lanciò un’occhiata di apprezzamento a Nicole che però non reagì.
«Ancora arrabbiata per il cane?» domandò.
Nicole prese un asciugamano dallo stipetto e prese a frizionarsi i capelli.
«Pensavo che i cani ti piacessero» aggiunse.
«Non è per il cane in sé, Steve» sbottò Nicole. «È il modo in cui l’hai fatto, capisci?». Posò l’asciugamano e si girò verso di lui. «Hai deciso tutto da solo, senza nemmeno prenderti la briga di consultarmi. Ma questa è una cosa che riguarda tutta la famiglia, non credi?»
«Quel cane è un eroe. Non ha esitato a lanciarsi contro l’uomo che aveva ucciso il suo padrone ed è grazie a lui se abbiamo operato il più grande sequestro di droga nella storia di Oahu». Il tono di Steve era salito di un paio di tacche e la donna vedeva da come gesticolava che si stava innervosendo. «Aveva bisogno di un posto dove stare, ho pensato che non fosse un problema».
Nicole prese la spazzola e cominciò a spazzolarsi i capelli bagnati con foga.
«No, hai dato per scontato che non fosse un problema» esplose Nicole, posando la spazzola e girandosi verso di lui. «Ed è questo che mi manda in bestia».
«La stai facendo molto più grande di quel che è» esclamò Steve, muovendosi per uscire, ma Nicole gli si parò davanti.
«Ah sì? Tu dici?» replicò con sarcasmo per nulla celato. «Non hai pensato alla responsabilità, vero? Già facciamo una fatica micidiale per far combaciare tutti i tasselli. Il nostro lavoro, la bambina, le babysitter… e adesso abbiamo anche un cane di cui occuparci».
«È un cane poliziotto. Se noi siamo al lavoro, lui viene con noi» spiegò Steve, come se stesse parlando con qualcuno un po’ tardo. «Se è un peso così grande, puoi stare tranquilla: me ne occuperò io».
«Lo vedi? Devi sempre avere ragione» lo accusò. «Ogni tanto mi piacerebbe che ammettessi di aver sbagliato. Fallo, una volta nella vita: non sarai meno uomo, credimi».
Troppo tardi la donna si rese conto di aver esagerato. L’aveva colpito nel vivo e vide la sua espressione indurirsi e la vena sul collo gonfiarsi pericolosamente. Si pentì subito di ciò che aveva detto, ma ormai era tardi.
«Direi che non è il caso di proseguire la conversazione ora» mormorò. «Vado a mettere a letto Eve». Uscì dal bagno e lei lo lasciò andare.
Steve scese al piano di sotto e fece il solito giro per chiudere tutte le finestre e le porte. Poi attivò il sistema d’allarme: l’aveva fatto installare subito dopo essere tornato a Oahu e, quando era nata Evelyn, l’aveva ulteriormente potenziato.
Mentre faceva il giro, pensava che la discussione che aveva avuto qualche minuto prima con Nicole a proposito del cane non gli era proprio piaciuta. Non capiva dove fosse il problema: insomma, non aveva portato a casa un cucciolo. Eddie era un cane adulto e per giunta addestrato: non c’era bisogno di insegnargli dove fare pipì o che altro. E in più poteva essere una risorse preziosa per la Five-O.
Quando Eddie era stato ferito, era stato Steve a trovarlo. Aveva una pallottola nell’addome e si era trascinato a fatica in un container vuoto. Steve gli era stato accanto fino all’arrivo dei soccorsi, sorreggendogli la testa perché potesse respirare meglio e parlandogli per tenerlo tranquillo. Avevano sviluppato un legame in quel momento e Steve, che si era sempre considerato un amante dei gatti, si era ricreduto.
Eddie aveva aperto una breccia nel suo cuore e quando l’avevano chiamato dalla clinica veterinaria non ci aveva pensato due volte prima di andare a prenderlo.
Poi era arrivato a casa e Nicole aveva iniziato a brontolare. Quando avevano parlato, in giardino, pensava che fosse rimasta semplicemente sorpresa e che le servisse un po’ di tempo per abituarsi.
Ma quello che lei gli aveva detto in bagno era tutt’altra cosa.
Hai deciso tutto da solo, senza nemmeno prenderti la briga di consultarmi.
È vero, aveva deciso da solo. Ma in fondo si trattava di una sistemazione temporanea. L’aveva spiegato a Evelyn: se le cose non avessero funzionato, avrebbero dovuto trovare un nuovo padrone per Eddie e credeva che, se fosse successo, sarebbe riuscito a gestire la situazione con la bambina.
Già facciamo una fatica micidiale per far combaciare tutti i tasselli.
La loro vita era frenetica, doveva ammetterlo. I loro cellulari potevano squillare a qualsiasi ora e ogni volta dovevano mettere in pausa la propria vita e correre su una nuova scena del crimine. Quando erano solo loro due era diverso: ma adesso c’era Evelyn e non sempre era possibile trovare qualcuno che badasse a lei. Molte volte Nicole era dovuta rimanere a casa, ma non pensava che quello potesse essere un problema. E, in ogni caso, Eddie non sarebbe diventato una difficoltà in quel senso perché con il suo addestramento poteva stare su qualsiasi scena del crimine, anzi era probabile che in alcuni casi sarebbe stato una risorsa preziosa per la squadra.
Mi piacerebbe che ammettessi di aver sbagliato. Fallo, una volta nella vita: non sarai meno uomo.
Ecco, quella era la cosa davvero grave che gli aveva detto. D’accordo, un fondo di verità c’era: anche Danny gli diceva spesso la stessa cosa. Ma da lei non se l’aspettava ed era rimasto ferito dalle sue parole. Buffo: era stato rapito, legato e picchiato, aveva subìto torture che gli avevano lasciato addosso diverse cicatrici, eppure ciò che l’aveva ferito di più erano quelle poche parole uscite dalla bocca di Nicole.
Aveva sentito la rabbia montare, ma non aveva fatto l’errore di cedere alla tentazione di rispondere: sapeva che in quello stato avrebbe potuto dire cose che non pensava e così era uscito dal bagno. Ma, mentre controllava porte e finestre, non era meno furioso.
Tornò in salotto: Evelyn guardava i cartoni animati sul divano. Accanto a lei c’era il mucchio di coperte con cui avevano improvvisato un giaciglio per Eddie che, con la testa appoggiata alle zampe anteriori, dormicchiava di già. Appena sentì Steve alzò la testa, ma non si mosse.
«Dai, signorina» disse, tendendole le braccia. «È ora di andare a nanna».
Evelyn si mise in piedi sul divano e lasciò che Steve la prendesse in braccio. L’uomo spense la tv e la bambina guardò giù verso il cane.
«Buonanotte, Eddie» disse e quello scodinzolò.
«Cerca di fare il bravo stanotte» raccomandò Steve. O Nicky sparerà a uno dei due o magari ad entrambi, aggiunse dentro di sé.
Salì al piano di sopra e scostò le coperte, sistemando Evelyn con il suo pupazzetto preferito.
«Mi leggi una favola, papà?» domandò la piccola con uno sbadiglio assonnato.
«Stasera no, Eve. È tardi e domani devi andare all’asilo».
«Va bene. Ma domani sera voglio che mi leggi due favole» negoziò la bambina.
«Hooyah!» esclamò Steve ridendo. Era il grido di battaglia dei Navy Seal ed era usato per esprimere approvazione. A Evelyn piaceva quando lo usava.
Le diede un ultimo bacio e uscì dalla stanza lasciando la porta aperta. Sentì il rumore del phon in bagno e si assicurò che il cancelletto sulle scale fosse ben chiuso prima di entrare in camera da letto.
Ebbe la tentazione di prendere il cuscino e andare a dormire sul divano ma la discussione che avevano avuto non era stata così brutta da giustificare quello che, ne era certo, agli occhi di Nicole sarebbe apparso come un gesto di sfida. Perciò si sfilò la maglietta e si infilò sotto le coperte con i soli boxer.
In bagno, Nicole era rimasta per un po’ appoggiata al lavandino, quando Steve era uscito.
Le dispiaceva averlo aggredito in quel modo ma era stato più forte di lei. Nicole conosceva quel suo lato del carattere e il più delle volte non era un problema. Ma quella sera, quando l’aveva visto scendere dall’auto con Eddie, aveva perso la testa.
Da quando era nata Evelyn, la loro vita era cambiata. Era giusto che fosse così, ma Nicole amava il suo lavoro e, più di tutto, odiava non poter essere sul campo quanto prima, per proteggere le spalle di suo marito. Certo, c’erano gli altri componenti della squadra, persone a cui avrebbe affidato la sua stessa vita senza esitare. Ma conosceva il temperamento di Steve e sapeva di essere l’unica a riuscire a farlo ragionare e a evitargli di buttarsi a testa bassa in ogni situazione.
Non le pesava badare alla bambina, ovviamente. Ma restare in panchina non era proprio il suo forte, anche se era necessario, a volte: avevano due babysitter ma non sempre riuscivano a rispondere perché spesso erano costretti a chiamarle all’ultimo minuto. E, con il loro lavoro, non potevano certo portare la piccola in ufficio.
Nicole prese ad asciugarsi i capelli con il phon, operazione che tirò più in lungo del solito. Poi si mise la crema sul viso e sul corpo, finché non ebbe altro da fare se non uscire dal bagno.
Passò davanti alla porta della stanza di Evelyn e si sentì chiamare. Entrò e sedette sul letto. Evelyn era già sotto le lenzuola e Scintilla, il suo pupazzetto a forma di drago, era accanto a lei.
La donna si chinò per baciarle la fronte con delicatezza e le sistemò il cuscino.
«Tu e papà avete litegato?» le chiese, spiazzandola.
«Si dice litigato» la corresse. «E no, non abbiamo litigato. Abbiamo solo parlato».
Probabilmente avevano alzato la voce più di quanto avesse creduto e Evelyn doveva aver sentito tutto dal piano di sotto.
«A me non piace quando parlate così» borbottò la bambina. «E poi papà sembrava arrabbiato».
«Tesoro, a volte capita che gli adulti discutano di qualcosa. Ma questo non significa litigare o che non ci vogliamo bene». Nicole le scostò i capelli dalla fronte. «E papà non è arrabbiato, credimi».
«È per colpa di Eddie?» chiese. «Darò io una mano a papà per badare a lui. E poi Eddie è un bravo cane».
Nicole sorrise.
«Eve, adesso è davvero troppo tardi per parlare di Eddie. Ora devi chiudere gli occhi e dormire, ok?»
Evelyn si girò sul fianco e abbracciò Scintilla. Nicole le diede un ultimo bacio sulla testa e uscì.
Quando entrò in camera, Steve era già sotto il lenzuolo ma, contrariamente al solito, era girato verso la parete. Non era la sua posizione per dormire, ma Nicole se l’aspettava. Raggiunse il suo posto solo con la piccola luce da notte che tenevano accesa per Evelyn e si coricò, dandogli le spalle. Di solito passavano gli ultimi momenti della giornata a parlare o anche solo abbracciati, ma non quella sera.
Nicole sapeva che lui stava solo fingendo di dormire perché percepiva la tensione del suo corpo anche senza toccarlo. E sapeva altrettanto bene che doveva essere lei a fare il primo passo: l’orgoglio di Steve era come una montagna in mezzo a loro e lei aveva ferito quell’orgoglio e doveva rimediare.
«Ti chiedo scusa per quello che ti ho detto prima» mormorò. «Non pensavo davvero quelle cose».
Il materasso si mosse mentre Steve si voltava. Nicole rotolò sulla schiena e girò la testa verso di lui: nella luce fioca la sua espressione era tesa.
«Forse sono solo un po’ sotto stress, ultimamente» spiegò. «Non riesco ad essere presente come prima e mi sembra di non riuscire a fare bene né il mio lavoro né la mamma».
«Nicky…» cominciò Steve ma la donna non lo lasciò proseguire.
«Chiamo la babysitter per Evelyn perché voglio venire in ufficio ed essere utile, ma poi mi sento in colpa perché mi sembra di abbandonare nostra figlia». La donna si coprì gli occhi con la mano. «Mi sembra di impazzire a volte».
«Ehi, ehi» sussurrò Steve, prendendole la mano e facendogliela abbassare. «Perché non me l’hai detto?»
«Perché sei sempre talmente impegnato e hai così tanti pensieri per la testa che non volevo darti altre preoccupazioni. Pensavo di potermela cavare da sola».
Steve sospirò e si sollevò su un gomito: «Nicky, posso essere talmente impegnato da non riuscire a mangiare o dormire e posso avere mille pensieri in testa, ma non sarò mai così occupato da non avere tempo per te o per Evelyn».
Nicole trasse un lungo sospiro e fu lieta che fossero quasi al buio perché sentiva gli occhi pizzicare per le lacrime trattenute.
«Hai ragione, avrei dovuto parlarti delle mie difficoltà. Ma non mi erano sembrate così insormontabili, finché non hai portato a casa Eddie». Pur nella poca luce lo vide socchiudere gli occhi e si affrettò a proseguire. «Non è per il cane, Eddie mi piace e se me ne avessi parlato prima, magari non avrei fatto tante storie. Ma così mi sono sentita caricata di un altro peso e mi è sembrato troppo».
Tacquero per un lungo momento; poi Steve le cercò la mano e gliela strinse.
«Dirò questa cosa una volta soltanto, quindi ascolta bene» affermò. «Le cose che hai detto prima su di me non sono del tutto campate in aria. So che a volte ho un carattere difficile e so anche che sei stata tu a smussare molti dei miei spigoli. Ho sbagliato» proseguì, e Nicole percepì nella sua voce tutta la difficoltà di pronunciare quelle due misere parole, «perché avrei dovuto parlarti della mia decisione di portare a casa Eddie e ti chiedo scusa».
Nicole aprì la bocca per replicare ma Steve la zittì.
«Non ho finito» aggiunse, in tono più severo. «Non devi mai, dico mai, nascondermi le tue difficoltà, di qualsiasi natura esse siano. Io do per scontato che gli elementi della mia squadra siano sempre al cento percento. Se non lo sei, devo saperlo perché puoi diventare un pericolo per te stessa e gli altri». Le prese il mento e le fece girare la testa verso di sé. «Siamo intesi?»
Nicole annuì e Steve posò le labbra sulle sue. Non pensava che la litigata di prima si sarebbe risolta in così breve tempo e, se lei non avesse fatto quel primo passo, di certo le cose sarebbero andate diversamente. Ognuno di loro aveva fatto un passo indietro – e il suo gli era costato davvero tanto! – ed erano riusciti ad appianare le loro divergenze.
Nicole si mosse sotto di lui, accarezzandogli i fianchi e facendo risalire le mani sulla schiena. Steve si accorse in quel momento che indossava una di quelle cortissime camicie da notte che le lasciavano scoperte le gambe e quando inspirò a fondo si rese conto di essere immerso nel profumo di vaniglia della sua crema corpo.
Si scostò per respirare e Nicole gli circondò la nuca con le braccia perché non si allontanasse. Prese un lungo respiro, premendogli il seno contro il petto ed emise un verso di gola, come se stesse facendo le fusa.
«Che stai facendo, gattina?» chiese, mentre gli accarezzava la gamba con il piede.
«Pensavo di festeggiare la nostra riappacificazione» soffiò Nicole.
Steve reagì abbassandosi su di lei, facendo leva sulle braccia per non schiacciarla con il proprio peso e la baciò di nuovo. Ma era tutt’altro bacio adesso, selvaggio e rovente dove il primo era stato morbido e delicato. I movimenti di Nicole si fecero lenti e languidi: inarcò la schiena e si dimenò, facendo salire ancora un po’ la camicia da notte.
«Dovremmo litigare più spesso, credo» borbottò Steve. Spostò il peso sul braccio destro e posò l’altra mano sul ginocchio di lei, risalendo piano la pelle setosa. Nicole si godette la carezza ad occhi chiusi, spingendo indietro la testa.
Steve lo prese per l’invito che era e le si avventò sul collo, lambendolo con la lingua, sentendo sotto le labbra il battito accelerato del suo cuore.
«Papà?»
La vocetta acuta di Evelyn li interruppe. Steve si mosse velocemente, spostandosi da Nicole e tirandosi addosso il lenzuolo per nascondere quanto quel breve momento con la moglie l'avesse eccitato.
«Evelyn, che fai in piedi?» le chiese, mentre Nicole si abbassava l’indumento e cercava di ricomporsi.
«E se stanotte a Eddie viene sete? O se fa un brutto sogno?» disse la bambina che teneva Scintilla per la coda.
«Amore, Eddie starà benissimo» esclamò Steve. «Ma tu devi dormire adesso, oppure dovrò arrabbiarmi».
Nicole scese dal letto.
«Avanti, adesso a letto prima che mamma perda la pazienza» disse e la riaccompagnò nella sua stanza. Sedette sul letto e prese il suo libro di favole, l’unico modo sicuro per farla addormentare in breve tempo. Quando la bimba finalmente crollò, Nicole le sistemò le lenzuola e spense la luce.
Tornò in camera e si fermò sulla porta, appoggiando la spalla allo stipite e incrociando le caviglie. Steve era ancora sveglio, le braccia piegate sotto la testa: i muscoli del petto spiccavano fieri, appena spruzzati di una leggera peluria.
«Ti si sono calmati i bollenti spiriti, comandante?»
«Tu sai di essere uno schianto assoluto con quella cosa addosso, vero?» le disse. Era indeciso se si trattasse di una camicia da notte corta o di una maglia lunga, ma poco importava: gli faceva andare il sangue alla testa… o meglio, in qualche altro posto.
Nicole abbassò lo sguardo sul suo abbigliamento.
«Intendi questo straccetto?» chiese, ricevendo in risposta un cenno del capo. «Ma pensa! C’è chi spende una fortuna per della lingerie di Victoria’s Secret e io mieto vittime con una camicia da notte ordinata per pochi dollari su un catalogo online, spese di spedizione comprese!».
Steve ridacchiò: «Ho il sospetto che sia dovuto a quello che c’è sotto».
Nicole fece scivolare le mani sul proprio corpo; poi afferrò il bordo della camicia da notte e lo fece salire lentamente. Steve non batteva nemmeno gli occhi per non perdersi uno solo dei suoi movimenti. Nicole si sfilò l’indumento restando con le sole mutandine e glielo lanciò.
Steve lo avvicinò al viso per aspirarne il profumo, sempre senza staccare gli occhi da lei. Dio, amava il suo corpo. Era ancora snella come una ragazza, merito delle lunghe sessioni di allenamento a cui entrambi si sottoponevano, alle corse sulla spiaggia e alle lunghe nuotate. Il seno si era un po’ ingrossato con la gravidanza – un cambiamento di cui non si era certo lamentato – ma era ancora alto e sodo e Steve lo vide cambiare forma mentre lei appoggiava il gomito alla cornice della porta.
«Sì, è stato decisamente quello che c’era sotto a farmi effetto» commentò con voce roca, gettando da parte la camicia da notte.
«Che effetto?» replicò la donna, in tono malizioso.
«Se vieni qui te ne darò una dimostrazione».
Nicole sorrise, mordendosi il labbro inferiore. Poi chiuse la porta e raggiunse Steve.

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Capitolo 4
*** La crudeltà del mondo ***


Nuovo caso in vista per la Five-O.
L'omicidio di un ragazzino di dodici anni
porterà la squadra a scoprire una sordida verità.

 
 
Steve e Nicole erano arrivati allo Iolani Palace dopo aver lasciato Evelyn all'asilo. La donna scese, aprì il bagagliaio e ne estrasse una scatola di cartone. Stava per dirigersi verso l’ingresso del palazzo quando Steve la fermò.
«Aspetta, che cos’hai qui?» disse, avvicinandosi.
«Cos’ho?» replicò lei.
Steve tese la mano, sfiorandole l’angolo della bocca con l’indice.
«Cos’è?» chiese di nuovo lei, impaziente.
«Non so, forse è zucchero» rispose Steve perplesso. «Non ne sono sicuro, fammi sentire meglio» concluse, chinandosi per baciarla.
Quando lui si scostò, leccandosi le labbra e asserendo che sì, si trattava proprio di zucchero a velo, Nicole si guardo intorno. A quell’ora del mattino non c’era molto viavai, ma era strano che Steve si lasciasse andare a quelle manifestazioni in pubblico.
A Nicole comunque parve che non ci fosse nessuno nei paraggi anche se ebbe l’impressione che qualcuno li stesse osservando e le sembrò di cogliere un movimento dietro i grandi baniani con le loro radici aeree, come se qualcuno si fosse ritratto in fretta e furia per non essere visto.
«Ti chiedo scusa, ma non potevo lasciare che entrassi in ufficio in quel modo»si scusò Steve.
«Non c’era assolutamente zucchero a velo sulle mie labbra e tu non sei altro che uno svergognato, comandante» replicò Nicole, incamminandosi impettita verso l’ingresso.
Chin e Kono erano già arrivati e Nicole bussò sul vetro mentre passavano.
«Ho portato la colazione» disse, ed entrambi uscirono e li raggiunsero in sala ristoro.
«Che hai portato di buono, sorella?» domandò Kono, sbirciando nella scatola di cartone che la donna aveva posato sul tavolo. «Wow, bellissimi» approvò.
«Li hai fatti tu?» chiese Chin, osservando l’allegra serie di cupcakes colorati e Nicole annuì.
«Ce ne sono al limone, al cioccolato e alla cannella» spiegò, indicando i vari tipi di dolcetto.
Danny arrivò qualche minuto dopo, proprio mentre Steve versava il caffè.
«Oh, il detective Williams ci onora della sua presenza» disse con sarcasmo.
«Non hai nessun’altro da importunare? Non so, un leone mangiauomini, magari?» rispose Danny.
«Ah, lo sai che amo solo te» rispose, allungandogli una tazza di caffè. Eddie, seduto accanto alla sedia di Nicole girava la testa dall’uno all’altro, quasi seguendo i loro battibecchi. «Ti ho fatto anche il caffè».
Steve aprì il piccolo frigo e tirò fuori il burro. Ne prese un cucchiaino e lo sciolse nel caffè.
«Wo! Ma che fai?» domandò Danny con la faccia schifata.
«Che c’è?»
«Hai messo… il burro nel caffè? Ma che diavolo fai?» Danny si rivolse a Nicole senza abbandonare l’espressione inorridita. «Ma che diavolo fa?»
«Sì, lo fa piuttosto spesso»affermò la donna, mentre Steve soffiava via il vapore e prendeva un sorso della bevanda.
«Credo di stare per vomitare» borbottò Danny, fingendo un conato.«Ma perché glielo permetti?»
«Direi che è grande abbastanza da “condirsi” il caffè come gli pare» ridacchiò Nicole, dando un morso ad un cupcake alla cannella.«I Seal lo fanno, è un metodo per aumentare la concentrazione».
«Bah, preferisco essere deconcentrato» borbottò Danny, prendendo un tortino.
Il cellulare di Steve squillò prima che Steve potesse rispondergli per le rime.
«Dimmi, Duke». Rimase ad ascoltare qualche istante, poi fece un cenno al resto della squadra. «Arriviamo, subito».
«Almeno non dovrò più vederti bere quell’intruglio» bofonchiò Danny.
Con il traffico del mattino ci misero quasi mezz’ora per arrivare al parcheggio di HanaumaBay. C’erano diverse auto della Polizia con i lampeggianti accesi ed era stato predisposto un cordone di sicurezza per tenere alla larga i curiosi.
Lasciarono le auto e si incamminarono a piedi verso la spiaggia a forma di mezzaluna. La baia era un sito rinomato per lo snorkeling ed era frequentato ogni giorno da molti turisti, ma in quel momento era deserta.
«Duke, cosa abbiamo?» chiese Steve quando furono vicini al sergente della Polizia di Honolulu. Teneva il guinzaglio di Eddie che, obbediente, restava vicino alla sua gamba.
«Ciao Steve. Ragazzi» li salutò Duke. «La vittima è Derek Mallory, dodici anni».
«Oh, Dio» esclamò Nicole.
Davanti a loro, al limitare dell’alta marea, Max era inginocchiato accanto a un corpo coperto da un telo di plastica.
«Ciao Max» disse Steve quando gli furono accanto. Steve si accosciò e sollevò un lembo del telo. Nicole vide soltanto una maglietta di Captain America e distolse lo sguardo.
«Comandante» lo salutò Max. «La vittima presenta ferite compatibili con una caduta. Deve essere caduto in acqua e la corrente l’ha portato qui.Sarò più preciso dopo l’autopsia ma dalla temperatura del fegato dovrebbe essere morto tra le dieci e mezzanotte di ieri».
«Non capisco» intervenne Danny. «Non ci sono evidenze che si tratti di un omicidio quindi perché siamo qui?»
«Perché Derek è sparito ieri sera da Waikiki dove era con i suoi genitori» intervenne Duke. «I signori Mallory sono venuti in centrale verso le undici per denunciarne la scomparsa».
«Sanno già cos’è successo a Derek?» domandò Nicole.
«No» scosse la testa Duke. «Stanno venendo qui, dovrebbero arrivare a momenti».
Comunicare ai coniugi Mallory che il corpo di Derek era sotto un telo di plastica fu uno dei momenti più penosi della loro carriera. Da genitori Danny, Steve e Nicole potevano ben immaginare l’angoscia che provavano. Furono molto composti, anche se la donna vacillò e si appoggiò al marito quando Max sfilò accanto a loro con la barella.
«Signori Mallory, sono il comandante Steve McGarrett della task forse Five-O» si presentò Steve. «Questa è la mia squadra, ci occuperemo noi del caso».
«Erik Mallory» disse l’uomo, tendendogli la mano. «Lei è mia moglie Sheila».
Nicole si chiese come potessero essere così composti. Non riusciva nemmeno a pensare di perdere Evelyn ma era certa che, se fosse successo, non sarebbe riuscita ad affrontare la cosa con tanta dignità.
«Vi facciamo le nostre più sentite condoglianze per la vostra perdita» continuò Steve. «Ci dispiace dovervi fare alcune domande in questo momento ma dobbiamo ricostruire l’accaduto al più presto».
I Mallory raccontarono che erano andati a Waikiki per una passeggiata serale in compagnia con altre tre coppie di amici con cui erano in vacanza insieme.Derek e i figli delle altre coppie avevano insistito per andare a prendere un gelato e quando erano tornati, Derek non era con loro.
Lo avevano cercato ovunque, con la preoccupazione che cresceva di minuto in minuto, finché si erano rivolti alla Polizia.
«Kono, recupera i filmati delle telecamere di sorveglianza della zona» ordinòSteve e Kono scattò per obbedire, seguita da Chin e Danny a cui Steve chiese di parlare con il gestore del chiosco dei gelati per capire se aveva notato qualcosa di strano. «Duke, organizza i tuoi uomini. Voglio che perlustrino la costa, partendo da qui e muovendosi in entrambe le direzioni. Eddie vi sarà di aiuto» aggiunse.
Duke annuì e prese il guinzaglio del cane che lo seguì mentre si allontanava. Steve tornò a rivolgersi ai Mallory.
«SignoriMallory, vi rinnovo nuovamente le condoglianze. Faremo tutto quanto in nostro potere per assicurare i colpevoli alla giustizia nel più breve tempo possibile. È tutto quello che possiamo garantirvi e vi giuro sul mio distintivo che lavoreremo senza sosta per riuscirci».
«La ringrazio, comandante» replicò mestamente Erik, cingendo le spalle della moglie. Si allontanarono, salendo in auto e avviandosi seguendo il furgone del coroner.
«Va bene, Nicky» disse Steve. «Torniamo al quartier generale».
Rimasero in silenzio per tutto il viaggio. Mentre salivano in ufficio con l’ascensore, Nicole si appoggiò alla parete di fondo.
«Mi faccio schifo anche solo a pensarlo, ma ho provato una sorta di sollievo al pensiero che non fosse nostra figlia sotto quel telo».
«So cosa intendi» sospirò Steve. «Ho provato esattamente la stessa sensazione».
Quando il resto della squadra tornò, Kono e Nicole si misero subito al lavoro sui filmati che la donna aveva portato su una chiavetta. Nicole aveva già scansionato diverse foto di Derek e le usò con i suoi programmi di riconoscimento facciale mentre Danny li aggiornava.
«Il tizio dei gelati si ricordava di Derek» spiegò. «Era insieme con un gruppo di ragazzini, se li ricordava perché ci hanno messo un sacco di tempo per decidere il gelato».
«Poi però se ne sono andati» intervenne Chin. «Non ha notato nulla di strano e non ricorda di aver visto adulti con loro».
Il computer emise un bip e tutti alzarono gli occhi verso i monitor. L’immagine si era bloccata e mostrava il chiosco dei gelati. Il viso di Derek era evidenziato: aveva un cono gelato in mano ed era in gruppo con altri cinque ragazzi.
Nicole digitò alcuni comandi e fece partire il video. Si vedeva il ragazzo ridere e scherzare con gli amici. Rimasero per un po’ a gustare il gelato, poi si mossero e uscirono dall’inquadratura. Nicole passò ad una seconda telecamera e cercò il punto esatto.
Videro lo stesso gruppetto di ragazzi che camminava tranquillo, ma si accorsero subito che Derek non era più con loro. Nicole fece volare le dita sulla tastiera e lanciò una nuova ricerca.
Ritrovarono il ragazzo in un’altra inquadratura: era inginocchiato a terra e stava accarezzando un cagnolino. Era in un punto abbastanza isolato, piuttosto distante dagli amici che sembravano non essersi accorti che era rimasto indietro. Il cagnolino si muoveva e si dimenava e, anche se non c’era l’audio, videro che il ragazzino rideva felice.
«E quello chi è?» disse Danny quando un uomo comparve nell’immagine.
Nicole fermò il video e ingrandì, ma l’inquadratura non era riuscita a cogliere il viso del tizio che indossava un paio di jeans e una felpa scura.
«Qualcosa mi dice che quell’uomo è coinvolto nella scomparsa di Derek» mormorò Chin.
Nicole fece ripartire le immagini. L’uomo scambiò qualche parola con Derek che gli rispose con tranquillità. Il tizio si chinò e prese in braccio il cagnolino. Poi discusse ancora un po' con lui. Alla fine si mosse per allontanarsi in direzione del parcheggio, salvo poi fermarsi e voltarsi di nuovo verso Derek.
«Aspetta un attimo» disse Nicole, fermando di nuovo il video e andando indietro di qualche secondo. «Beccato!» esclamò, isolando un fotogramma in cui il viso dell'uomo si vedeva chiaramente. «Lancio una ricerca».
Mentre il computer elaborava i dati biometrici del sospettato, Steve la pregò di proseguire con il filmato. L’uomo con la felpa fece un cenno di invito: Derek ci pensò un po' su, poi si raddrizzò e lo seguì.
«Ho perso il conto di quante volte ho detto a mia figlia di non dar retta agli sconosciuti, come sono sicuro che abbiamo fatto anche i Mallory con Derek» borbottò Danny. «E poi, di fronte ad un cagnolino, si lasciano abbindolare in questo modo».
Nicole li seguì attraverso le telecamere fino al parcheggio. Furono fortunati: l’auto presso cui si fermarono era ben visibile. Riuscirono a vedere la targa e lanciarono una ricerca anche su quella.
«Abbiamo un riscontro dal riconoscimento facciale» annunciò Nicole, mandando le immagini sul monitor a beneficio degli altri.
«MalekoKue» lesse Kono. «Arrestato per rapina e spaccio. Rilasciato meno di due mesi fa da Halawa».
«Con tutta l’intenzione di tornarci»rilevò Steve, «se la prima cosa che fa uscito di prigione è rapire un ragazzino di dodici anni».
Nicole aggiunse il nome al numero di targa e il riscontro fu immediato: corrispondeva a una vecchia Ford registrata a nome di Maleko.
Ripresero a guardare le immagini. Maleko aprì la portiera posteriore e invitò Derek a guardare dentro. Quando lo fece, lo spinse sul sedile posteriore. Mise a terra il cagnolino e armeggiò per un po’ all’interno dell’abitacolo: l’angolazione della telecamera non era tale da poter mostrare cosa stava succedendo, ma probabilmente stava bloccando il ragazzino in qualche modo per evitare che fuggisse.
«E tutto questo succede nel parcheggio di fronte a Waikiki Beach, in uno dei luoghi più affollati di Honolulu»affermò con rabbia Danny.
Maleko alla fine si raddrizzò e chiuse di scatto la portiera. Si guardò intorno, diede un calcio al povero cagnolino che gli stava fra i piedi e si mise alla guida.
Furono interrotti dalla porta che si apriva. Si voltarono a guardare: era Duke. Si avvicinò al gruppetto e porse il guinzaglio di Eddie a Steve. L’uomo sganciò il moschettone e il cane sedette sul pavimento, guardandolo in adorazione.
«Direi che Eddie si è meritato un bella bistecca»lo lodò, porgendo a Steve un sacchetto per le prove.«L’ha trovato sulla scogliera di fronte a Koko Head».
Era un braccialetto formato da diversi fili di plastica blu e bianchi intrecciati a formare un disegno geometrico a cui erano state applicate delle perline esagonali con delle lettere. Le lettere formavano il nome “Derek”.
«Bravo il mio cagnolone» lo vezzeggiò Steve, riservandogli una carezza sulle orecchie pendule.
«Nicole, controlla se abbiamo telecamere stradali sulla Kalaniana’ole» disse Danny.
«Duke, sai dirmi il punto in cui avete trovato il braccialetto?» chiese la donna e Duke le porse un foglietto.
«Queste sono le coordinate esatte».
«Perfetto, verifichiamo».
Lanciò una ricerca con il numero di targa, ma gli unici riscontri che ebbero mostravano solo l’auto che procedeva sulla strada rispettando i limiti di velocità.
«Dopo la zona di HanaumaBay non c’è altro, mi dispiace» si scusò Nicole.
«Non è un problema» disse Steve. «Sono certo che il signor Kue non vede l’ora di chiarirci cos’è successo. Andiamo a prenderlo».
 
«Sai perché sei qui?»
Maleko tacque, fissando torvo Steve. Era ammanettato alla sedia, in una delle sale interrogatori nel sotterraneo dello Iolani Palace. Nicole era appoggiata ad una parete, a braccia conserte.
«Nicole, ti spiace?» chiese Steve.
La donna si fece avanti, pescando il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans.
«Derek Mallory, dodici anni» annunciò, mostrandogli la foto del ragazzo. «È stato trovato morto a HanaumaBay dopo una caduta dalla scogliera nei pressi di Koko Head».
Maleko lanciò un’occhiata distratta allo schermo del cellulare.
«Mai visto in vita mia» replicò.
Nicole sogghignò e cercò un’altra foto. Era il fotogramma che avevano isolato dai video di sorveglianza del parcheggio nei pressi di Waikiki.
«Risposta sbagliata, Maleko» lo contraddisse, mettendogli di nuovo davanti il cellulare. «Come vedi, abbiamo le prove che sei stato tu a rapire Derek a Waikiki».
La faccia di Maleko si contrasse in un’espressione di paura, ma durò solo un secondo.
«Ho diritto a una telefonata» sbottò.
«Sì, lo sappiamo che ce l’hai» intervenne Steve. «Ma la potrai fare quando decideremo noi e questo non è il momento».
Nicole rimise il cellulare nella tasca ma rimase di fronte a Maleko.
«Senti, sappiamo che qualcuno ti ha dato diecimila dollari in contanti e sospettiamo che quello fosse il compenso per rapire Derek, è così?»
Avevano trovato i soldi in un sacchetto di carta nascosto sul fondo dell’armadio dell’uomo quando avevano perquisito casa sua. Maleko tacque, fissando ostinatamente davanti a sé. Accanto a Nicole, Steve posò la mano sulla fondina.
«Maleko, il mio collega qui non è famoso per la sua pazienza» rilevò Nicole: sapeva che Maleko aveva notato il gesto di Steve.
«Siete poliziotti, non potete farlo» affermò il ragazzo, ma entrambi percepirono una nota di esitazione nella sua voce.
Steve rise.
«Beh sì, siamo poliziotti. Però, vedi, qui dentro non ci sono telecamere né pareti specchiate. Ciò che accade qui dentro, resta qui dentro». Il suo tono era decisamente minaccioso. «Basterà dire che hai dato di matto e ho dovuto fermarti».
«Quindi cosa volete fare? Spararmi?». L’esitazione di Maleko era diventata paura.
«Spararti? No, io non lo farei mai» affermò la donna in tono leggero. In quel momento, Steve estrasse la pistola e mise il colpo in canna. Il rumore del carrello rimbombò forte nella piccola stanza. «Il problema è che il comandante McGarrett è stato in Afghanistan e là, a furia di interrogare terroristi, si è convinto che esista un solo modo di condurre questo genere di cose. Nessuno di noi è stato in grado di fargli cambiare idea».
Maleko deglutì nervosamente e Nicole notò che era teso e sudato. Una goccia di sudore gli scivolò sulla guancia e lungo il collo.
«Nicole, puoi lasciarci soli, per favore?» mormorò Steve. Il tono calmo e tranquillo non rendeva la minaccia meno credibile.
La donna si abbassò e posò la mano sulla spalla del ragazzo.
«Maleko, dammi retta: puoi evitarti questa cosa. Dicci solo chi ti ha pagato per rapire Derek».
«Vaffanculo, conosco i miei diritti» esplose Maleko, divincolandosi sulla sedia e facendo tintinnare le manette.
«Come vuoi», mormorò rassegnata, raddrizzandosi con lentezza. Rimase a fissarlo per qualche istante, poi volse il capo verso Steve: «È tutto tuo».
Uscì senza voltarsi, mentre le grida impaurite di Maleko la seguivano.
Steve la raggiunse al piano di sopra dopo neanche dieci minuti.
«Hai fatto presto» osservò.
«Appena te ne sei andata, Malekosi è dimostrato ansioso di vuotare il sacco. Forse non gli eri simpatica» scherzò Steve.
«Sì, dev’essere stato quello».
«Malekoha fatto un nome: TayeIroha».
Nicole lo digitò velocemente e richiamò il fascicolo. Iroha era un congolese emigrato alle Hawaii anni prima. Secondo le informazioni che stavano visualizzando sullo schermo, Iroha era un pezzo grosso: gestiva una rete di banchi dei pegni e di lavanderie self service che gli fruttava un bel po’ di denaro.
«L’attività è solo una facciata, secondo Maleko» spiegò Steve. «Si tratta di un modo per riciclare denaro sporco. I veri soldi Iroha li fa con il traffico di ragazzini che vende a facoltosi uomini del sudest asiatico come schiavi sessuali».
«Che figlio di puttana» sputò Danny con disgusto.«Lui e pure i suoi compratori».
«Derek era un “ordine speciale”, come l’ha definito Maleko. Secondo lui c’è un compratore che vuole un ragazzino con le caratteristiche fisiche di Derek. Maleko, appena uscito di prigione, ha pensato che quelli che gli proponeva Iroha fossero diecimila facili facili».
«Trovo strano che uno con l’organizzazione di questo tizio si affidi a unidiota come Maleko» intervenne Kono.
«C’è una spiegazione anche per quello» proseguì Steve. «Secondo Maleko, pare che Iroha abbia perso diverse risorse negli ultimi tempi. Sembra che i suoi scagnozzi, spaventati dalla Five-O, si siano ritirati e non vogliano più lavorare per lui».
«Ma pensa!» esclamò Danny. «Funzioniamo anche come deterrente. Chiederò un aumento al Governatore».
«Dove troviamo questo pezzo di merda?» sbottò Chin. Quella vicenda li aveva toccati tutti ed erano piuttosto ansiosi di affidare il colpevole alla giustizia.
«Maleko doveva portare Derek al vecchio hotel abbandonato di Koko Head» affermò Steve. «Pare sia la base operativa dei traffici meno legali di Iroha». Nicole cercò in archivio e trovò le immagini del luogo. «Mentre era per strada, Derek ha finto di sentirsi male. Lui si è dovuto fermare e quando ha aperto la portiera per controllarlo, l’ha spinto con violenza. Maleko non se l’aspettava ed è caduto».
«Ragazzino coraggioso» mormorò Danny con un groppo a serrargli la gola.
«Purtroppo, preso dal panico, ha scavalcato il parapetto che delimita la carreggiata. Se fosse rimasto sulla strada e avesse fermato un’auto probabilmente ora sarebbe sano e salvo con i suoi genitori. Prima che Maleko riuscisse a riprenderlo, Derek è scivolato ed è precipitato dalla scogliera».
La corrente poi aveva fatto il resto, finché il corpo si era arenato sulla spiaggia dove era stato ritrovato quel mattino.
«Bene, andiamo a trovare Iroha?» chiese Danny.
Mentre si dedicavano ai preparativi, indossando i giubbetti e prendendo le armi dall’armadietto blindato, la porta in fondo al corridoio si aprì e una ragazza, scortata da un poliziotto, entrò.
Indossava una minigonna di jeans che le lasciava scoperte le gambe snelle e abbronzate e un corto top bianco che mostrava il ventre liscio su cui era stato applicato un cartellino con scritto “visitor”. Aveva in mano una scatola di cartone rosa.
Nicole la riconobbe nello stesso istante in cui lo fece Steve, ancor prima che il poliziotto che l’aveva accompagnata parlasse. Sentì il fastidioardere come un fuoco nelle vene quando Steve si mosse per andarle incontro.
«Jessica!» esclamò e la ragazza si illuminò quando la riconobbe e pronunciò il suo nome.
«Chi è?» chiese Danny, stupendosi dell’espressione livida che notò sul volto di Nicole.
«Una stronzetta che tra poco ucciderò con le miei mani» borbottò Nicole, continuando a guardare verso Steve.
«Comandante McGarrett» soffiò quella, facendo rotolare ogni parola sulla lingua. Flirtava con lui in modo decisamente provocatorio: teneva le spalle dritte in modo da spingere in fuori il piccolo seno impertinente e sporgeva un fianco verso Steve in modo troppo evidente per essere casuale. «Volevo ringraziarla per essersi preoccupato per me l’altro giorno a Waikiki e le ho portato delle malasadas».
«Oh, ma dai!» sussurrò Nicole, mentre Steve le diceva che non avrebbe dovuto disturbarsi e che era felice di notare che non avesse avuto conseguenze dal loro scontro.
«Andiamo, Nicky» la rimproverò Danny sottovoce. «Non puoi davvero essere gelosa di quella lì».
«Non sono gelosa» mugugnò, avvicinandosi ai due. Afferrò la scatola contenente le ciambelle prima che la prendesse Steve e la posò sul tavolo lì a fianco.
«Sì, grazie infinite. Molto gentile, ma stiamo lavorando» disse, con un tono tutt’altro che cordiale. Poi si rivolse a Steve: «Dobbiamo proprio andare, non credi?». Infine, voltandosi verso il sergente, lo pregò di riaccompagnarla all’uscita.
Steve salutò Jessica, chiedendosi perplesso a cosa avesse appena assistito. La donna, mortificata, se ne andò. Nicole si voltò e fece per allontanarsi.
«Nicole, nel mio ufficio» le intimò Steve e la donna si sentì come una ragazzina convocata in presidenza.
«Cos’era quello?» le chiese quando furono soli.
«Quello cosa?»replicò e a Steve non sfuggì che era tesa e teneva le mani sui fianchi in una posa piuttosto aggressiva.
«Quell’atteggiamento di prima» le spiegò.
«Ah, dimmelo tu cos’era. Steve, quella ti sta puntando come un cane che insegue un fagiano e tu nemmeno te ne accorgi».
«Voleva solo ringraziarmi per domenica e…» ma Nicole non lo lasciò proseguire.
«Ma fammi il piacere!» sbuffò. «Neanche le avessi salvato la vita».
Steve non riuscì a trattenere un sorriso.
«Non posso crederci. Sei gelosa».
«Gelosa io? Di quella lì? Non credo proprio» replicò asciutta, ma Steve non smetteva di sorridere. «Sei tu quello che sente sempre il bisogno di marcare il territorio» aggiunse.
«Esattamente quello che hai appena fatto tu, tesoro» ritorse in tutta tranquillità, le braccia muscolose incrociate sul petto.
Nicole tacque. Sì, era gelosa. Insomma, Steve era un bell’uomo ed era normale che attirasse qualche sguardo femminile, ma non le era mai capitato di provare quel fastidio. Sin dalla prima volta che aveva visto quella donna in spiaggia aveva sentito il bisogno di marcare Steve da vicino, di farle sapere che era il suo uomo e di farle capire che doveva stare al suo posto.
Non aveva previsto che quella tipa si sarebbe ripresentata e l’incontro di quel giorno le aveva mandato in corto il cervello. Era stata sgarbata, ma non ne era per nulla pentita.
Steve continuava a guardarla con un sorriso sornione dipinto sulle labbra, appoggiato a braccia conserte contro la scrivania.
«Coraggio» la sollecitò. «Se lo ammetti, sarà più facile».
«Va bene» capitolò Nicole. «Sì, hai ragione. Sono gelosa. Possiamo andare adesso?»
Steve rise e le stampò un bacio sulle labbra.
«Non hai davvero motivo di essere gelosa» la rassicurò. «Tutto ciò che voglio sei tu, dolcezza».

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Capitolo 5
*** Armi non convenzionali ***


L'organizzazione di Iroha deve essere smantellata:
la Five-O si muoverà con la solita decisione
e Nicole dimostrerà abilità di cui nemmeno suo marito era a conoscenza.

 

Il complesso doveva diventare un grande albergo di lusso ma l’impresa che intendeva costruirlo era fallita quasi subito. Della costruzione era rimasta in piedi soltanto la struttura, uno scheletro vuoto che la natura stava lentamente reclamando.
Attraverso le lenti del binocolo, Steve riusciva a vedere diversi uomini armati che pattugliavano i vari piani della struttura.
«Sono molti più di quanti ci aspettassimo» commentò con tranquillità.
«No, sono molti più di quanti tu ti aspettassi» replicò con sarcasmo neanche troppo velato Danny. «Io mi aspettavo che fossero in tanti, per questo prima di partire ti avevo detto di chiamare rinforzi».
Non appena avevano notato il movimento si erano rifugiati in un capanno in mezzo alla vegetazione da cui potevano tenere d’occhio il covo dei malviventi. A giudicare dallo strato di polvere che si era posato ovunque, la baracca doveva essere disabitata da tempo.
«Possiamo farcela» continuò Steve, come se l’amico non avesse parlato.
«Steve, noi non siamo la tua vecchia compagnia di pazzi NavySeals» sbottò Danny.
«Kono» chiamò Steve, «tu prenderai posto laggiù».
C’era un canale piuttosto profondo che costeggiava la facciata del fabbricato. Poteva essere attraversato mediante un ponte di ferro piuttosto male in arnese ma che comunque avrebbe garantito un po’ di copertura. Dall’altra parte del canale, proprio di fronte alla struttura che dovevano assaltare, c’era uno spiazzo pieno di ciarpame tra cui alcuni container abbandonati.
«Puoi salire su uno di quei container e darci copertura» spiegò Steve. Kono era di certo la loro miglior tiratrice dopo Steve.
Nicole era dietro di loro e stava ascoltando gli ordini. Sapeva che di lì a pochi minuti avrebbero dovuto entrare in azione perciò mosse le braccia e le spalle per sciogliere i muscoli. Fece roteare la testa per distendere il collo e l’occhio le cadde sulla mensola sopra la finestra.
«Steve, aspetta». L’uomo si voltò verso di lei che indicò la mensola. Steve tese la mano e afferrò l’arco da caccia che aveva attirato l’attenzione di Nicole.
«Vado io» disse la donna.
«Scusa?» fece Steve di rimando.
Lei afferrò l’arco e ne saggiò la corda. Si trattava di un modello in alluminio e fibra di vetro, leggero e versatile. Era pensato per la caccia, forse chi usava il capanno l’aveva lasciato per riprenderlo e poi non era più tornato.
«Da ragazza ho preso lezioni di scherma e di arco. Ho partecipato a diversi campionati e ho ottenuto anche dei buoni risultati» spiegò la donna. «Mio padre sosteneva che fossero discipline utili a formare il carattere». Gli altri la guardavano come se avesse appena confessato di avere due cervelli.
«Tu sai tirare con l’arco?» domandò Steve. «Non me l’avevi detto».
«Non ce n’è stata l’occasione» considerò Nicole. «Oh, santo cielo: non guardatemi in quel modo, è davvero così strano?»
Steve si riscosse.
«No, affatto. Ma non credo che sia una buona idea. Insomma… un arco? Siamo seri».
Danny roteò gli occhi nelle orbite.
«Se una cosa non fa bang, per lui è assolutamente inutile». Poi si rivolse direttamente al collega. «Se Kono spara un colpo di fucile, quei simpaticoni sentiranno la detonazione e addio effetto sorpresa». Indicò Nicole che aveva recuperato una faretra piena di frecce. «Quel coso invece è silenzioso e Nicole può eliminare le minacce davanti a noi senza mettere in allarme l’intera valle».
Steve ci pensò su un po’. In effetti Danny aveva ragione – anche se gli scocciava ammetterlo – e, data l’inferiorità numerica, l’effetto sorpresa poteva essere la loro unica chance.
«Ci sai fare davvero con quell’arco?» si accertò Steve e Nicole annuì.
«È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho tirato, ma è come andare in bicicletta» affermò con sicurezza.
«Va bene, ok» consentì Steve. «Tu ti piazzi dall’altra parte del complesso e ci apri la strada». Le afferrò la spalla e la strinse: «Nicky, dovrai essere i nostri occhi, ok?»
«Ok» rispose la donna, rivolgendosi poi a Kono. «Dammi il tuo fucile. Non sono una tiratrice abile come te, ma quando l’effetto sorpresa sarà finito potrò darvi copertura con quello».
Kono sganciò la cinghia del fucile e glielo passò. Nicole se lo agganciò al giubbetto: poi mise la faretra sulle spalle e l’arco a tracolla, con la corda di traverso sul petto.
«Dovrete guidarmi voi per attraversare il ponte senza che mi vedano» disse e Steve annuì. Poi le sfiorò la guancia con le dita.
«Sta attenta, ok?» sussurrò.
«Anche tu» rispose lei.
Poi uscì. Usò la vegetazione per nascondersi e, procedendo piegata, si mosse più in fretta che poteva. Arrivò al ponte di ferro e vide che da vicino era messo peggio di quanto fosse sembrato. Era completamente arrugginito e la grata di pavimentazione era crollata in alcuni punti. Sperò che non cedesse mentre stava passando. Anche il parapetto di ferro era arrugginito e alcuni tratti erano caduti nel canale sottostante.
«Ok, mi muovo» sussurrò.
Strisciò sul ponticello, facendo attenzione a non pesare troppo sui supporti arrugginiti. Dopo qualche metro arrivò alla prima delle aperture.
«Ferma» la bloccò Steve. Sapeva che i suoi colleghi stavano tenendo d’occhio le guardie che passeggiavano avanti e indietro per i piani del palazzo abbandonato. Evidentemente in quel momento stavano guardando verso di lei, quindi Nicole attese pazientemente che Steve le desse il via libera.
Qualche istante dopo sentì la sua voce nell’auricolare.
«Ok, puoi avanzare».
Riprese a muoversi, centimetro dopo centimetro. Altre due volte dovette attendere che Steve le comunicasse che la via era libera per procedere, ma alla fine riuscì ad arrivare dall’altra parte. Anche lì la vegetazione era alta e incolta e le offrì la copertura che le serviva per raggiungere uno dei container.
Vide che sul tetto c’erano dei bidoni e delle casse che sarebbero stati perfetti per celarla. A terra c’era una grossa bobina di legno e la usò per aiutarsi a raggiungere il tetto del container.
«Ok, sono in posizione» disse nel microfono. Poi, mentre gli altri si muovevano, si liberò del fucile e lo mise da parte. Controllò di nuovo l’arco e posò la faretra a portata di mano.
Tenne d’occhio Steve e gli altri mentre avanzavano furtivamente e nel frattempo sfilò una freccia dalla faretra e la incoccò, attendendo che fossero in posizione.
«Ok, Nicky. Noi siamo pronti».
Steve le comunicò che avevano raggiunto la scala sul lato sinistro. La grande struttura di fronte a lei era priva di pareti quindi aveva piena visibilità. Un uomo con una camicia di jeans pattugliava il primo piano, proprio sulla scala che Steve e gli altri dovevano salire.
«Va bene, facciamo questa cosa» mormorò Nicole. «Attendete il mio ok».
Nicole, in ginocchio dietro un bidone arrugginito, prese un lungo respiro e incoccò la prima freccia. Tirò a sé la corda finché l’impennaggio della freccia le sfiorò le labbra ma il braccio le tremava e dovette allentare la tensione.
Chiuse per un momento gli occhi e tornò indietro nel tempo. Vide se stessa mentre, nel giardino dietro casa, si allenava a colpire il bersaglio che suo padre aveva fissato ad un supporto a diversi metri di distanza.
«Il respiro, Kalea» diceva suo padre. «Regola il respiro. E tieni il braccio ben teso».
E poi la freccia partiva, dritta e veloce, e coglieva il bersaglio nel centro.
Riaprì gli occhi e fissò lo sguardo sull’uomo in jeans. Steve e la squadra contavano su di lei e non poteva deluderli. Incoccò di nuovo la freccia e mirò. Stavolta il braccio resse la tensione della corda e quando la lasciò andare Nicole sapeva già che avrebbe colto il bersaglio.
La freccia annullò in un istante la distanza e, silenziosa portatrice di morte, colpì l’uomo alla testa. Era una freccia pensata per la caccia, forse il proprietario dell’arco soleva cacciare cinghiali, ed era abbastanza pesante da assicurare una penetrazione eccezionale. Quello infatti cadde a terra e rimase immobile.
«Fuori uno» disse, prendendo una seconda freccia.
Vide Steve iniziare a salire la scala in modo furtivo, con il fucile imbracciato. Dal canto suo, Nicole tenne d’occhio il resto della struttura: doveva cercare di prevedere quali fossero le mosse dei loro avversari per anticiparle: più fosse riuscita a mantenere l’effetto sorpresa e meno possibilità c’erano che uno dei suoi compagni fosse ferito.
Vide un secondo uomo muoversi verso la squadra e li fermò con un comando secco. Tutti si immobilizzarono all’istante, cercando riparo dietro le poche pareti divisorie ancora in piedi.
Nicole attese che l’uomo si allontanasse dagli altri. Vide che si avvicinava ai Five-O ma tentare un tiro in movimento era pericoloso, quindi mantenne il sangue freddo, anche se la freccia era già pronta per essere lanciata.
Il nemico si fermò un istante, voltandosi nella sua direzione e Nicole lanciò. Non riuscì a seguire il dardo ma vide l’uomo portare le mani alla gola e scivolare a terra.
«Via libera» annunciò.
«Due frecce, due centri?» domandò Steve. «Ma non avevi detto che era da tanto che non usavi un arco?»
«Due colpi fortunati» replicò Nicole. «Prega che la mia buona stella non mi abbandoni».
Vide i colleghi proseguire. La strada era sgombra fino alla scala successiva che li avrebbe portati al terzo piano dove Nicole vide che il numero di guardie era maggiore. Fermò Steve e gli altri e si prese qualche secondo per pensare alla miglior strategia da adottare.
«Steve, ci sono due uomini sul pianerottolo sopra di voi» spiegò la donna. «Non posso beccarli entrambi, non sono così veloce».
«D’accordo, Nicky. Che proponi?»
«Posso prendere quello più vicino a te, ma l’altro è appoggiato ad un pilastro e non ho la visuale libera».
Steve tacque per un istante, poi l'auricolare le portò la sua risposta.
«Va bene. All'altro ci penso io».
Nicole vide che Steve sganciava il fucile e lo passava a Danny che lo seguiva. L’unica possibilità che aveva era di affrontarlo a mani nude, contando quell’attimo di sorpresa che l’avrebbe colto vedendo cadere il suo compagno, quindi l’arma l’avrebbe intralciato. Steve fece segno agli altri di restare dov’erano e salì qualche altro gradino.
«Nicky, quando sei pronta» sussurrò.
Nicole prese due frecce. Una la tenne nella sinistra, la stessa mano con cui afferrò l’impugnatura, mentre l’altra la incoccò: era un trucco che la aveva insegnato il suo istruttore tanto tempo prima per lanciare due dardi in rapida successione, ma non era sicura di riuscire a farcela.
Scagliò la freccia che colpì il malvivente all’occhio. Quello stramazzò e Steve balzò fuori dal nascondiglio. Come speravano, il secondo uomo era rimasto sorpreso nel vedere il compagno cadere come un sacco con una lunga freccia che gli spuntava dall’orbita e Steve lo colpì al volto con un potente pugno. Il tizio barcollò e Steve ne approfittò per mettersi dietro di lui e passargli il braccio attorno alla gola, così da impedirgli di prendere aria e di gridare un avvertimento.
Nicole assistette ai sussulti dei due, finché ogni reazione da parte del nemico cessò e Steve lo adagiò a terra. Non appena la via fu libera, gli altri raggiunsero Steve e Danny gli rese il fucile.
Proseguirono ancora, salendo un altro piano ma i nemici erano sempre di più e Nicole aveva solo altre tre frecce.
«Quanti colpi hai ancora, Nicky?» chiese Steve, quasi avesse intuito i suoi pensieri.
«Solo tre. Non potrò darvi una mano ancora per molto. Fermi ora» disse, vedendo un gruppetto di tre nemici sopra di loro. Uno era proprio sulla sommità della scala mentre gli altri due erano un po’ discosti e fumavano una sigaretta. Quando Nicole riferì a Steve la loro posizione, lui disse che dovevano provare a separarli.
«Proverò a muovere qualcosa, magari uno o due di loro verranno a controllare e tu potrai occuparti dell'altro».
Era una mossa rischiosa perché poteva far saltare la loro copertura, ma non c’erano alternative.
«Va bene, dammi un momento».
Nicole si asciugò il sudore sulla fronte. Il sole picchiava forte e il riverbero sul tetto di quel container era terrificante. Si asciugò i palmi sui pantaloni per essere sicura di avere una presa salda sull’arco e si mise in posizione.
«Pronta» disse. Al di là del fossato asciutto vide Steve prepararsi ai piedi della scala, riparato dietro uno schermo di lamiera e Danny raccogliere da terra qualcosa, forse un calcinaccio, e lanciarlo contro la lamiera. Nicole non udì alcun rumore, vide solo uno sbuffo di polvere, ma l’uomo più vicino alla scala evidentemente sì perché alzò di scatto la testa e si girò verso i due compagni. Disse qualcosa ma Nicole non sapeva cosa, la distanza era troppa per poter udire quanto aveva detto.
I due compagni, ancora presi dalla loro sigaretta, fecero un cenno con il capo ma non si mossero mentre l’altro prese a discendere la scala.
«Steve, uno in arrivo» mormorò, ma non ebbe risposta.
Quando l’uomo ebbe raggiunto il piano inferiore, si guardò intorno. Nicole poteva vedere che i suoi colleghi erano tutti al riparo e sapeva che lui non poteva scorgerli. Il tizio guardò brevemente a terra ma sembrava piuttosto confuso, quindi si voltò verso l’esterno, puntando la propria arma vagamente in direzione di Nicole che però era nascosta bene e non poteva essere vista.
Non appena si fu girato, Steve gli spuntò alle spalle. Aveva raccolto un pezzo di filo elettrico e lo passò velocemente attorno al collo dell'uomo, tirando con forza verso di sé. La donna assistette alla lotta con un po' di apprensione ma tutto finì in pochi istanti e il tizio privo di sensi fu trascinato da una parte.
«Nicky, gli altri due sono sempre nella stessa posizione?» chiese Steve.
«Sì, non si sono mossi… aspetta!»
Proprio mentre parlava i due avevano gettato i mozziconi e imbracciato i fucili, avvicinandosi alla scala.
«Steve, si stanno muovendo» lo avvisò e l’altro confermò che i due stavano chiamando il loro compagno, fosse insospettiti dal fatto che non fosse ancora tornato di sopra.
«Scendono» aggiunse la donna, incoccando una freccia. Mirò alla testa del secondo uomo: era un tiro in movimento, molto difficile e, anche se il fattore vento era praticamente nullo, c’erano molte variabili da considerare e lei non aveva tempo di farlo. Perciò, non appena fu allineata, lasciò partire la freccia.
Il dardo non colpì dove aveva previsto ma colse il guerrigliero alla spalla. Fu comunque sufficiente a farlo barcollare, tanto che perse l’equilibrio e rovinò contro il suo compagno, trascinandolo giù per la scala ai piedi della quale Chin e Danny li misero entrambi fuori combattimento.
«Nicky, situazione?» s'informò subito Steve, preoccupato che il trambusto avesse allarmato altri nemici, ma Nicole lo tranquillizzò: nessuno pareva aver sentito nulla.
«Steve, io ho solo due frecce. Sopra di voi la strada è sgombra fino all’ultimo piano dove però è concentrato il grosso della banda. Vedo almeno una decina di uomini ma è sicuro che ce ne saranno altri»
«Direi che il tuo contributo è stato fondamentale» replicò Steve. «Ora è arrivato il momento di accendere un po’ la festa».
«Aspetta, ho un’idea» aggiunse Nicole.
Aprì una delle tasche anteriori del giubbetto e ne estrasse una granata stordente. Poi prese un paio delle fascette che usavano per immobilizzare i sospettati e le usò per fissarla alla freccia. Controllò che fosse il più possibile bilanciata, mentre spiegava a Steve cosa intendeva fare.
«Diavolo, donna» rispose il marito. «Sapevo di aver fatto un affare a sposarti, ma non osavo sperare tanto».
Nicole soffocò una risata, chiedendosi per l’ennesima volta se Steve fosse nato senza il gene della paura dato che si preparava ad assaltare un covo nemico in pesante inferiorità numerica e ancora aveva voglia di scherzare, e udendo Danny che gli dava dell’idiota.
«Spero che funzioni» borbottò, valutando il peso extra della granata sulla freccia. «Ok, ci sono. Mettevi al riparo».
Fissò lo sguardo sul suo obiettivo. C’erano almeno sei o sette uomini all’ultimo piano, troppo ravvicinati perché potesse essere sicura del numero. Si concentrò su quello che doveva fare: tenne la freccia con la punta appoggiata a terra ed afferrò la sicura della granata.
Diede un’altra occhiata al palazzo abbandonato, poi strappò la sicura e sollevò velocemente l’arco. Mirò alla parete che faceva da sfondo al gruppetto di nemici e scoccò.
La freccia colpì il muro ma non vi si conficcò e, mentre il gruppetto di uomini la osservava incerto, la granata esplose. Nicole vide il lampo di luce e udì la forte esplosione pensata proprio per stordire e disorientare le vittime.
Mentre nell’auricolare le risuonava il grido di Steve che invitava i compagni ad intervenire, la donna prese il fucile che aveva tenuto a portata di mano e, usando come supporto un bidone arrugginito, si mise in posizione.
Attraverso l’ingrandimento del mirino ogni dettaglio le fu subito chiaro. La granata aveva colto di sorpresa i nemici, accecandoli e privandoli temporaneamente dell’udito. Aveva sicuramente anche richiamato il resto della banda e fu su quelli che Nicole si concentrò, lasciando alla squadra il compito di rendere inoffensivi gli altri.
Vide un altro uomo sbucare da dietro un pilastro e sparò. Il fucile le rinculò contro la spalla e vide che aveva colpito nel segno. Sparò una seconda volta quando un’altra figura le balzò davanti e vide con chiarezza la testa ributtata indietro e la nuvola di sangue vaporizzata nell’aria.
Staccò per un momento l’occhio dal mirino per controllare Steve e gli altri ma vide che se la stavano cavando benissimo. Mentre li osservava vide Chin abbassare la testa di scatto mentre la parete dietro cui si stava riparando veniva colpita e l’intonaco si sgretolava: un guerrigliero in tuta mimetica, nascosto dietro una cassa, lo aveva preso di mira.
Nicole puntò il fucile e fece fuoco ma, per un caso fortuito, quello si abbassò per ricaricare proprio in quel momento e la pallottola andò a vuoto. Nicole cambiò caricatore e riprese la mira, ma di nuovo lo mancò. Frustrata, fissò il selettore sul fuoco a raffica e spedì un bel po’ di proiettili contro il bordo della cassa. Non sapeva se l’aveva beccato, ma quello non di rialzò più, quindi la minaccia era neutralizzata.
«Grazie, Kalea» disse Chin.
La donna si guardò intorno alla ricerca di un altro bersaglio ma non ce n’erano. Anche le armi di Steve e gli altri tacevano.
«Ok, ragazzi. Avanziamo» ordinò Steve. «Nicole, raggiungici da questa parte».
Nicole mise un caricatore nuovo nel fucile e abbandonò l’arco. Scese dal container e tornò indietro verso il ponte di ferro. Si tenne bassa, al di sotto del parapetto malconcio, nel caso qualche cecchino fosse ancora appostato.
Arrivò al primo punto in cui il rivestimento arrugginito era caduto e si lanciò dall’altra parte. Un singolo colpo di fucile risuonò nell’aria surriscaldata: la pallottola colpì il ferro e rimbalzò via sibilando.
«Cazzo» imprecò Nicole, cercando di stare più bassa possibile. Non era sicura che quel ferro marcio avrebbe fermato i colpi.
«Nicky, che succede?» domandò Steve dopo aver udito lo sparo.
«C’è un cecchino, forse sul tetto. Mi ha inchiodata sul ponte» spiegò.
«Chin, Kono restate qui. Danny, con me». Steve diede le indicazioni con tono secco e autoritario. «Nicky, resta lì, ci pensiamo noi».
Nicole sganciò il fucile e lo imbracciò. Poi prese un caricatore dalla tasca del giubbetto e, sempre restando al coperto, lo lanciò al di là del varco aperto nella balaustra. Come aveva previsto, il movimento attirò l’attenzione del cecchino che sparò in quella direzione. Nicole saltò su e spedì una raffica verso il tetto del complesso, affrettandosi a tornare al coperto quando il tiratore nascosto puntò su di lei.
Alcuni proiettili forarono il ferro arrugginito che era la sua unica protezione e le passarono a pochi centimetri dalla testa.
«Nicky, quando ho detto resta lì, intendevo resta lì al coperto» borbottò Steve. Ansimava, e Nicole intuì che stava facendo le scale per raggiungere il tetto.
«Scusa» replicò lei.
Udì Steve intimare a qualcuno di abbassare l’arma ma la risposta fu una raffica di spari.
«Ma perché diavolo non fanno mai quello che chiedo?» sbottò.
«Perché chiedi nel modo sbagliato, arrogante che non sei altro» replicò Danny.
Come facessero quei due a comportarsi con tanta leggerezza nel mezzo di una sparatoria era un mistero. Nicole tenne la testa bassa finché gli spari tacquero.
«Libero» annunciò Steve. La donna si alzò e rivolse lo sguardo al palazzo: Steve era in piedi sul tetto e guardava verso di lei.
«Grazie, capo» disse, rivolgendogli un cenno.
«Servo suo, tenente» rispose l’altro. «Raggiungici».
Sapendo che la strada era libera Nicole corse verso il palazzo senza preoccuparsi di cercare copertura. Giunta sotto la struttura prese a salire veloce i piani deserti. Aveva da poco imboccato l’ultima rampa quando udì del trambusto attraverso l’auricolare.
«Steve, Iroha sta scappando» gridò Chin.
«No, non scappa» replicò Steve tranquillo.
Si udì un singolo sparo e poi le urla di qualcuno.
«Te l’avevo detto che non scappava» confermò Steve e Nicole sbucò al piano.
I suoi colleghi erano a poca distanza, attorno ad un corpo a terra che Danny stava disarmando in quel momento. Steve lo aveva colpito alla gamba, mettendolo fuori combattimento. Chin si avvicinò all’uomo, prendendo una fascetta per arrestarlo.
«TayeIroha, sei in arresto per rapimento e traffico di esseri umani» gli disse, leggendogli i suoi diritti.
Nicole si avvicinò a passo lento, ansimando per riprendere fiato dopo la lunga salita. Era quasi arrivata accanto a Steve quando un movimento attirò la sua attenzione.
Un uomo era sbucato da dietro un grosso pilastro. Nessuno degli altri poteva vederlo, erano tutti impegnati a guardare Iroha a terra. L’uomo alzò la pistola tenendola con due mani davanti a sé e Nicole vide che mirava a Steve che in quel momento gli voltava le spalle e aveva il fucile basso.
Sapeva che non c’era tempo per un avvertimento perciò fece l’unica cosa che le venne in mente. Si lanciò contro Steve, urtandolo con una spallata e togliendolo dalla linea di fuoco.
Gli spari si confusero in un’unica detonazione, ma ne sentì tre arrivare a segno. Cadde addosso a Steve, mentre Danny e Kono, voltandosi in fretta verso il cecchino nascosto, sparavano. Pur nella confusione, lo vide cadere, centrato alla testa da una pallottola.
Sapeva di essere stata colpita, provava un forte dolore al petto e i colpi ricevuti le avevano mozzato il respiro. Steve la prese tra le braccia, reggendole la testa nella piega del gomito e abbassando lo sguardo sul suo corpo.
«Nicky!» gridò.
«Non…» provò a dire lei, ma le mancava il fiato e le parve che la vista si stesse scurendo. «Non… respiro. Steve!».
«Ok, tranquilla. Ci penso io» rispose. Con dita frenetiche sganciò il giubbetto e Danny lo aiutò a sfilarglielo. «Respira, piccola» mormorava.
Senza la pressione del giubbetto Nicole poté trarre un respiro, poi un secondo. Ma il cuore le batteva a mille per la scarica di adrenalina e i suoi polmoni cercavano convulsamente altro ossigeno.
Steve le sollevò la maglietta e si abbandonò ad un sospiro di sollievo quando non vide sangue. Il torace di Nicole era intatto.
«Sono tutti qui, Steve» disse Danny, mostrandogli i fori sulla stoffa. «Salvata dal giubbetto».
Steve controllò il resto del suo corpo, ma non trovò nulla. Riportò lo sguardo al suo viso, accarezzandole la guancia con la mano libera.
«Stai bene, piccola. Tranquilla, è tutto a posto».
«Fa male» replicò Nicole, digrignando i denti.
«Eh, lo credo che fa male. Ti sei beccata tre pallottole, facile che tu abbia anche una o due costole rotte». Poi alzò lo sguardo verso Danny: «Chiama la polizia, dì loro che abbiamo preso Iroha e che mandino qualcuno a prenderlo. Voi finite di perlustrate questo posto, io resto con lei».
Steve si sistemò meglio, tenendo Nicole contro il petto. Aveva ancora il respiro accelerato ma aveva ripreso colore e si vedeva che stava meglio. L’uomo prese il cellulare e chiamò un’ambulanza, mentre Nicole protestava debolmente dicendo che non gli serviva andare in ospedale.
«Ah, non ti serve?» chiese Steve quando ebbe riattaccato. «Non pensavo di aver sposato Wonder Woman».
Nicole non poté trattenere una risata e sussultò per il dolore al costato.
«Ecco, appunto» aggiunse Steve con un sorriso. Poi si fece serio: «Ti devo la vita. Se non mi avessi tolto di mezzo, quei proiettili mi avrebbero preso in pieno».
«Tu hai salvato la mia così tante volte che non riuscirò mai a ricambiare» rispose Nicole, sollevando una mano per accarezzargli il viso velato di un’ombra di barba.
Steve abbassò la testa e le baciò le labbra con dolcezza.
Udirono le sirene della polizia e dell’ambulanza. Qualche minuto dopo i paramedici arrivarono e Steve lasciò che si occupassero di lei.
«Steve, Nicole sta bene?» domandò Danny attraverso l’auricolare.
«Sì, sta bene. La porteranno in ospedale per un controllo, ma non dovrebbe aver subìto danni».
«C’è qualcosa che dovresti vedere quaggiù»
Steve disse che sarebbe sceso e si inginocchiò accanto a Nicole. I paramedici l’avevano assicurata alla barella ed erano pronti a portarla giù, nonostante lei protestasse che non era necessario e poteva scendere da sola.
«Nicky, vado da Danny. Ti raggiungo in ospedale appena possibile, ok?». Poi si rivolse ai paramedici: «Avete il mio permesso di sedarla, se diventa insopportabile».
Quando arrivò di sotto, Danny gli indicò un’area poco lontana, proprio alle pendici del cratere di Koko Head. La zona brulicava di poliziotti e Steve si fece avanti. C’era un’apertura scavata nella roccia vulcanica del pendio: era stata chiusa da un pesante cancello, al di là del quale Steve vide molti materassi buttati a terra.
Il pavimento era sporco e ricoperto di immondizia e il luogo puzzava di umanità miserabile.
«Era qui che tenevano i ragazzi prima di venderli» mormorò Danny alle sue spalle. La polizia stava facendo uscire tutti, prestando loro soccorso. C’erano ragazzini sporchi e impauriti, di otto, dieci o dodici anni.
La rabbia di Steve divampò ma la tenne sotto controllo. Poi, incapace di restare oltre in quel luogo di sofferenza, uscì e l’amico lo seguì.
«Fa’ portare Iroha al quartier generale» disse con voce terribile. «Mettetelo in una stanza per gli interrogatori, ma non procedete finché non sarò arrivato io».
«Steve, quell’uomo è ferito. Dovrebbe andare in ospedale» provò a farlo ragionare Danny, ma Steve non lo ascoltava.
«Se muore, non perderemo molto».

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Capitolo 6
*** Festa di beneficenza ***


Nicole ha rischiato grosso,
ma il giubbotto ha fatto il suo dovere ed è salva.
Terminato il lavoro, la Five-O avrà un posto d'onore
alla festa di beneficenza organizzata dal Governatore.

Quando Steve arrivò in ospedale, Nicole stava facendo una lastra al torace, quindi la aspettò seduto su una sedia di plastica in sala d’attesa.
Pochi minuti dopo la vide tornare sulle proprie gambe. Aveva l’aria di essersi ripresa del tutto, ma si muoveva in maniera un po’ rigida. Quando lo vide, sorrise: Steve sentì il petto stringersi in una morsa al pensiero di quanto era stato vicino a perderla.
«Sei venuto a controllare se mi sto comportando bene?» gli chiese.
«No, sono venuto a prenderti perché immagino che tu abbia già chiesto al medico di dimetterti» rimbeccò Steve. «Che dice il dottore?» le chiese, indicandole il torace.
«Puoi chiederglielo tu» rispose, indicando dietro la spalla di Steve.
Il dottor Kahale tese la mano a Steve.
«Buongiorno, comandante. Sua moglie è stata molto fortunata. Ha rimediato solo qualche ammaccatura, non ci sono costole rotte né altri danni».
«Visto?» sussurrò Nicole. «Magari la storia di Wonder Woman non è poi così strampalata».
Entrò nella sua stanza per recuperare le sue cose.
«Comandante, sua moglie ha già chiesto di essere dimessa» gli spiegò il dottore e Steve annuì.
«Sì, purtroppo la conosco bene. Crede che ci possano essere problemi?»
«No, non credo. Fosse per me, la terrei in osservazione per almeno qualche ora, ma temo che dovrei chiederle in prestito le manette per farla stare qui» ridacchiò.
«Sì, ha centrato il problema» convenne Steve. «La prego, faccia preparare i documenti. Penserò io a tenerla d’occhio».
«D’accordo. Cerchi di farla riposare il più possibile» raccomandò il dottore, allontanandosi.
«Sì… non lo farà, ma grazie del consiglio».
Sbrigarono le formalità abbastanza in fretta e tornarono allo Iolani Palace.
Iroha era stato portato nel sotterraneo, ma Steve si prese tutto il tempo, facendosi pure la doccia e cambiandosi prima di scendere.
Il sangue aveva formato una bella pozza sotto la sedia a cui era ammanettato, ma ora non sanguinava più e alzò su Steve uno sguardo truce quando entrò con Danny.
«Quello che avete fatto fuori era mio fratello» sputò con rabbia.
«Di chi parli?» domandò Steve con calma. «Ne abbiamo fatti fuori parecchi dei tuoi oggi».
«Quello che ha beccato la tua signora, McGarrett» sibilò.
Il pugno di Steve si mosse senza che lui si rendesse conto di aver dato il comando. Colse Iroha alla guancia, ributtandogli la testa dall’altro lato e aprendogli un taglio sullo zigomo.
«Se vuoi continuare a parlare di mia moglie, sappi che io posso andare avanti così tutto il giorno. Tu, invece» aggiunse, indicando la gamba ferita, «dovresti vedere un dottore al più presto».
«Senti, Taye» intervenne Danny, «il mio amico Steve diventa abbastanza suscettibile quando gli toccano sua moglie quindi, se non vuoi uscire di qui in un sacco per cadaveri, fa’ un favore a te stesso e collabora».
«Collaborare? Perché dovrei?» domandò, raddrizzandosi sulla sedia con una smorfia. «Finirò in carcere a vita, non vedo cosa possiate offrirmi».
Steve prese il cellulare e cercò qualcosa nella galleria immagini.
«Visto che hai nominato mia moglie» disse, mettendogli lo schermo davanti al viso, «parliamo un po’ della tua».
Iroha si immobilizzò. Gli tremavano le labbra mentre alzava lo sguardo su Steve.
«Non puoi toccarla» biascicò, ma era evidente che aveva perso il suo sangue freddo.
«Hai ragione, io non posso toccarla» confermò Steve. «Né voglio farlo, d’altronde. Lei è una vittima quanto i ragazzini che vendevi al miglior offerente. Ma lo Stato delle Hawaii potrebbe non pensarla come me e potrebbe fermarla mentre gira per Kalakaua Avenue sulla sua Porsche, decidendo di rimandarla in Congo. Perché è da lì che venite, vero? Cosa pensi che succederà in quel caso?»
Il prigioniero crollò la testa in avanti e Steve gli vide una lacrima scendere dall’angolo dell’occhio e mescolarsi al sangue che era sgorgato dalla ferita allo zigomo.
«Iroha, noi possiamo impedire che questo accada. Ma tu devi fare la cosa giusta e la devi fare adesso» lo sollecitò Danny.
Iroha collaborò: fece i nomi di tutti quelli a cui aveva venduto i ragazzi e Steve e la squadra, in sinergia con il dipartimento, passarono i successivi giorni a smantellare tutta la rete di clienti. Fecero più arresti di quanti ne avessero mai fatti, rastrellando un bel po’ di feccia. E, dato che il commercio di esseri umani di Iroha si era espanso anche sul Continente, passarono le informazioni alle altre squadre di polizia, coordinando una maxi operazione in diversi Stati che fece loro guadagnare il plauso del Governatore.
Nicole rimase a casa a riprendersi. Era stata fortunata che il giubbotto avesse fermato i proiettili, ma quegli impatti avevano comunque lasciato il segno. Così, stupendo parecchio Steve, aveva acconsentito a restare in disparte. Evelyn restava all’asilo tutto il giorno, quindi Nicole approfittò di quei giorni per riposare e rilassarsi con la compagnia di Eddie che non la lasciava un istante e con cui sviluppò presto un ottimo rapporto.
Il pomeriggio del quarto giorno, mentre stava tornando dall'asilo dove aveva preso Evelyn, Steve la chiamò sul cellulare.
«Ciao Steve. Io edEve stiamo tornando dall'asilo» disse.
«Ciao papy» gridò Evelyn dal sedile posteriore. «Sai, oggi ho fatto un disegno di Eddie. La maestra ha detto che è molto bello».
«Oh, non vedo l’ora di vederlo, piccola mia» replicò Steve.
«Torni tardi anche stasera, papà?» si lamentò la bambina.
«No, tesoro. Stasera papà torna presto. Nicky, sarai felice di sapere che l'operazione Iroha è conclusa. I ragazzi vorrebbero festeggiare all'Hilton stasera, che ne dici?»
Dal sedile posteriore echeggiò un assordante “sììì”.
«Anche volendo, adesso sarebbe difficile dire di no!» esclamò Nicole.
«Va bene, tra poco sarò a casa. Vi amo» concluse Steve.
Per quando Steve tornò, Evelyn era lavata e pronta. Stava giocando con le bambole in salotto, con Eddie che faceva finta di sonnecchiare nella sua cuccia.
Steve baciò Nicole.
«Ciao dolcezza. Stai bene?»
Da quando era stata colpita glielo chiedeva in continuazione e Nicole alzò gli occhi al cielo.
«Non alzare gli occhi quando mi preoccupo per te» la sgridò. «O dovrò sculacciarti» aggiunse in un sussurro carico di malizia.
«Oh, ti prego, fallo» replicò lei, i luminosi occhi viola accessi di passione. «Vado a fare la doccia mentre tu badi alla signorina McGarrett» e lo lasciò lì impalato a guardare il suo ancheggiare mentre saliva al piano di sopra.
Quando uscì dalla doccia i due stavano parlando al piano di sotto.
«Steve, il bagno è tutto tuo» gli gridò dal piano superiore.
«Arrivo» rispose lui.
Nicole indossò un paio di morbidi pantaloni di cotone bianchi e un top di un rosso brillante senza spalline con una fascia elastica sul seno. Se lo stava infilando proprio nel momento in cui Steve, che non aveva sentito salire, entrò nella stanza pertanto si affrettò ad abbassarlo. Purtroppo a Steve non era sfuggito il suo frettoloso tentativo di occultare le sue condizioni.
«È tanto brutto?»
«Cosa?» chiese la donna con leggerezza, ma aveva capito benissimo a cosa alludeva Steve.
«Fammi vedere» ordinò, ma Nicole scosse la testa.
«Non è niente» minimizzò, e fece per uscire dalla stanza. Ma Steve la bloccò afferrandole il polso.
«Fa’ vedere» ordinò di nuovo, stavolta in tono più dolce.
Nicole sospirò e, rassegnata, sollevò la maglia.
Steve trasalì. Le tre ecchimosi causate dall’urto dei proiettili avevano formato un enorme livido che andava dal seno al ventre. L’ematoma era cremisi in corrispondenza dei punti in cui le pallottole l’avevano colpita, sfumava nel violaceo per finire in un brutto color bruno-giallastro ai bordi.
«Dio» esalò l’uomo, allungando una mano per sfiorarle la pelle.
«È solo un livido, si riassorbirà» lo tranquillizzò, coprendosi in fretta.
«No, non è solo un livido, maledizione» sbottò, colpendo lo stipite della porta con il pugno.
«Ehi, Steve». Nicole gli accarezzò il viso, poi gli prese il mento per fargli girare la testa in modo che la guardasse negli occhi. «Le cose brutte accadono e a volte dobbiamo accettarle».
«E cosa dovrei farmene di questa frase da biscotto della fortuna?»
«Prenderla per la verità che è» replicò Nicole.
«Nicky…» cominciò Steve, ma la donna gli posò l’indice sulle labbra per farlo tacere.
«No» disse tranquilla.
«Come sarebbe a dire no?»
«No a quello che stavi per chiedermi» aggiunse e Steve inarcò un sopracciglio.
«E cosa stavo per chiederti?»
Nicole sedette sul letto e accavallò le gambe.
«Beh, di sicuro dapprima hai pensato di chiedermi di rinunciare al mio distintivo» iniziò, e represse un sorriso quando vide la faccia di Steve. «Poi, dato che la misura ti sembrava troppo drastica, hai pensato di virare su un più ragionevole cambio di mansione, proponendomi di astenermi dal lavorare sul campo e restare in ufficio come supporto».
L’espressione di Steve era impagabile. Nicole pensò di raccomandargli di chiudere la bocca, ma non voleva infierire troppo, quindi tacque. Steve annaspò, forse cercando una replica, ma evidentemente non trovò le parole perché non emise un suono, tanto che Nicole ritenne di dovergli andare in aiuto.
«Non serve che ti affanni a trovare le parole. La mia risposta è comunque no ad entrambe le proposte».
Steve sbuffò e sedette accanto a lei.
«A Evelyn non ci pensi?» chiese.
La moglie si umettò le labbra e gli prese la mano fra le proprie.
«Steve, voglio che tu mi ascolti con attenzione ora». Nicole prese un lungo respiro e gli strinse la mano. «Quando mi sono lanciata su di te, non ho pensato a nient’altro che a salvarti la vita. In quel momento eri sbilanciato, con l’arma bassa. Quell’uomo ti avrebbe centrato alla testa e io dovevo fare qualcosa e l’unica che mi è venuta in mente è stata spostarti dalla traiettoria».
Percepì un fremito nella mano di Steve, come se lui avesse rabbrividito alle sue parole.
«Poteva andare male?» si chiese. «Sì, poteva. Potevo beccare una di quelle pallottole nel collo o in qualche altro punto vitale. Ma tu avresti fatto lo stesso per me, a parti invertite».
«È diverso».
Lei scosse la testa.
«No, non è diverso». Sollevò la mano di Steve e se la posò sul petto, all’altezza del cuore. Lei fece lo stesso con lui, appoggiando il palmo sul suo torace. «Lo senti? Non è diverso, è lo stesso battito».
Steve taceva e lei poteva leggergli negli occhi chiari tutto il tormento che le sue parole gli stavano scatenando dentro. Sapeva che dentro di lui provava l’istinto forte e primordiale di proteggerla, di evitare che il mondo potesse toccarla.
Nicole si scostò delicatamente e si tese verso il comodino, afferrando il distintivo. Glielo mise davanti agli occhi.
«Non posso rinunciare, Steve» affermò con sicurezza. «Questo è quello che sono, è quello che siamo noi». Gli sfiorò il viso con il dorso della mano. «È un lavoro pericoloso, ma siamo una squadra. Ci copriamo le spalle a vicenda, sul lavoro e anche nella vita privata. Noi siamo Ohana».
«Nicky, che avrei fatto se ti fosse successo il peggio?»
«Saresti andato avanti, come chiunque altro».
Steve scosse la testa, sconsolato.
«Steve, da quando ti ho conosciuto, ti ho visto gettarti in ogni situazione di pericolo possibile. Tu sei sempre in prima linea e rischi più di tutti noi di prenderti una pallottola: come credi che mi senta io?»
«Io non…» mormorò Steve.
«Quando ho deciso di sposarti, sapevo a cosa andavo incontro» proseguì la donna. «Sapevo che la vita sarebbe stata complicata e che saremmo stati spesso sotto il segno del pericolo. Ma l’ho accettato perché ti amavo e sai cos’è cambiato da allora? Assolutamente niente».
Steve infilò una mano nella massa bruna dei suoi capelli e l'attirò a sé per baciarla. E mentre lei rispondeva al bacio, sentì la paura retrocedere. Nicole era lì, viva e vitale fra le sue braccia, e con il solito miracolo che accadeva quando era al suo fianco, il mondo smise di spaventarlo.
Nicole si scostò con dolcezza e lo guardò negli occhi.
«Ora vai a farti la doccia o faremo tardi» sussurrò.
Quando, più tardi, parcheggiarono nei pressi dell'Hilton, Steve prese in braccio la bambina mentre Nicole teneva il guinzaglio di Eddie. Danny aveva prenotato un tavolo all’aperto e c’erano tutti i loro amici: Chin e Malia, Kamekona, Kono e Adam, Max Bergman e Mindy Shaw, Danny, Grace e Melissa, la sua nuova compagna.
«Oh, ma guarda chi si è degnato di apparire» li apostrofò Danny quando arrivarono a portata d’orecchio.
«Ehi, falla finita» gli rispose Nicole. «Tu che hai fatto prima di venire qui? Io avevo una figlia, una cane e un McGarrett da preparare!»
«Ma che c’entro io?» protestò Steve e la compagnia scoppiò a ridere.
Evelyn si divincolò fra le braccia di Steve non appena vide Danny. L’uomo la mise a terra e lei corse verso di lui che fu lesto a scostare la sedia dal tavolo per prenderla al volo.
«Ciao, zio Danno».
«Ma ciao, Piccola Rambo» la salutò. Evelyn amava tutte le persone attorno a quel tavolo, ma per Danny aveva una vera e propria adorazione, seconda solo a quella per Steve.
«Come stai, sorella?» le chiese Kono.
«Sto bene, grazie. Ci vorrà un po’ perché il livido scompaia, ma sto bene».
Fu una serata spensierata e piacevole. Eddie rimase spaparanzato sotto la sedia di Steve mentre i loro amici facevano a turno per tenere in braccio Evelyn che alla fine si addormentò appoggiata al petto di sua madre.
Quando fu il momento di rincasare, Steve prese delicatamente tra le braccia la bambina: Nicole non poteva sollevare pesi per qualche tempo.
Si diressero verso il parcheggio. Nicole teneva Eddie al guinzaglio e il cane camminava tranquillo, gettando di tanto in tanto un’occhiata a Steve. La donna si fermò accanto alla Camaro in attesa che Steve, che battibeccava con Danny, arrivasse.
Si chinò su Eddie, grattandogli le orecchie. Mentre era accucciata vicino all’animale, ebbe di nuovo la strana sensazione di essere osservata, come qualche giorno prima davanti allo Iolani Palace. Alzò la testa e scrutò le ombre al limitare del parcheggio. Si raddrizzò, aguzzando lo sguardo, ma non colse nulla di strano.
«Ah, Steve» disse Danny ormai vicino, distogliendola dai suoi pensieri, «la cena di gala per il Governatore di domani sera: è proprio necessaria?»
«Temo di sì» confermò l’amico. «Oltre al fatto che l’invito ufficiale è proprio sulla tua scrivania, anche se non l’hai aperto, c’è che dopo l’operazione che ha smantellato la rete di Iroha il Governatore vorrà vantarsi di noi con i suoi amici, quindi non possiamo mancare». Si voltò verso Nicole. «Giusto, amore?». Nicole, ancora distratta, annuì.
«Uff, ti odio quando hai ragione» sbuffò Danny.
«Quindi mi odi sempre» replicò Steve, aprendo la macchina e sistemando Evelyn sul seggiolino.
 
La serata era fresca e piacevole e il rumore dell’oceano sembrava il respiro di un gigante addormentato. Il sole era appena tramontato e il cielo era ancora un tripudio di colori, come se un pittore ispirato si fosse divertito con la sua tavolozza.
«Tesoro, sei pronta?» chiamò Steve mentre si sistemava i gemelli. Si diede un’occhiata allo specchio e raddrizzò la cravatta già impeccabile.
«Arrivo!» rispose Nicole dal piano di sopra.
Steve infilò il cellulare nella tasca interna della giacca e varcò la soglia del salotto.
«Faremo tardi stasera, Madison» disse alla giovane babysitter che, seduta sul tappeto e appoggiata al tavolino, stava colorando con un pastello a cera.
«Sì, la signora mi aveva già avvisata la scorsa settimana. Non si preoccupi, mi sono portata da leggere» rispose con un sorriso.
Madison aveva diciassette anni e ormai da due era una delle loro babysitter fisse. Era brava, disponibile e sempre puntuale. Era una grande studiosa e una ragazza davvero responsabile: non avrebbero potuto trovare di meglio.
Solitamente non le chiedevano di trattenersi oltre il tramonto ma quella era una sera speciale. Il Governatore aveva organizzato una serata di gala con una raccolta fondi per un’associazione benefica e aveva invitato anche i Five-O.
«Papy, ti piace il mio disegno?» domandò una vocetta acuta e Steve si accosciò accanto al tavolino.
Prese il disegno che Evelyn gli porgeva, piegando la testa di lato per osservarlo come un critico d’arte. La bambina aveva disegnato un sacco di fiori su un prato di un verde brillante e quello che sembrava vagamente un cane.
«Direi che è stupendo, piccola mia» affermò. «Eddie poi è davvero somigliante».
Eddie sollevò la testa dalla sua cuccia ed emise un basso brontolio.
«Dovevi finire di leggermi la favola stasera» borbottò la bimba, in vago tono di rimprovero.
«Lo so, zuccherino. Ma stasera mamma e papà devono uscire. La storia te la leggerà Madison e io troverò un modo per farmi perdonare domani sera, ok?»
Evelyn ci pensò su per un po’, picchiettandosi il pastello sul labbro inferiore. Steve represse un sorriso dato che Nicole era solita fare lo stesso gesto quando era pensierosa.
«Va bene» capitolò alla fine.
«Okay, ora dai un bacio al tuo papà».
Steve le raccomandò di fare la brava e afferrò le chiavi della macchina, tornando in ingresso.
«Nicky, ma non sei ancora…» cominciò, ma il resto della frase gli morì sulle labbra quando la vide scendere le scale.
Sua moglie indossava un abito lungo con la gonna di nero chiffon e il corpetto di luccicanti strass argentei. Aveva le spalline sottili e Nicole si era coperta le spalle con uno scialle di raso argento. I capelli erano raccolti da alcune forcine, in modo da lasciare scoperto il lungo collo aggraziato.
Scese le scale lentamente, senza staccare gli occhi dai suoi.
«A costo di sembrare banale» biascicò Steve quando si fermò davanti a lui, «sei splendida».
Lei sorrise e sporse le labbra per chiedere un bacio. Steve posò la bocca sulla sua e le circondò la vita sottile con le mani, trattenendola contro di sé.
«Chiama Danny» ansimò quando lei si ritrasse con dolcezza. «Digli che la bambina non sta bene e stasera non possiamo uscire».
Nicole gli colpì lo stomaco con un pugno leggero.
«E useresti tua figlia come scusa in questo modo?» domandò.
«Senza pensarci due volte» rispose lui con un sorriso da monello.
La donna rise e lo aggirò per entrare in salotto e salutare Evelyn.
«Sei bella bella, mamma» disse la piccola mentre le stampava un umido bacio sulla guancia.
«Grazie, amore» replicò. «Tu fai la brava e non fare arrabbiare Madison». Poi si rivolse alla ragazza: «Per qualsiasi problema, non esitare a chiamarci, ok?»
«Nicky, arriveremo in ritardo se non la smetti».
Finalmente Nicole si raddrizzò, prese la pochette e lo seguì fuori.
Steve l’attese accanto alla portiera del passeggero.
«Non credo di averti detto quanto sei affascinante stasera» sussurrò la donna, infilando le mani sotto la giacca per abbracciarlo. Lui si chinò per baciarla, ma lei si inarcò all’indietro.
«Scusa, ma stasera siamo invitati o siamo in servizio di sicurezza?»
«Siamo ospiti» rispose Steve con espressione perplessa. «Perché?»
Nicole gli scostò un po’ la giacca e accennò alla pistola nella fondina ascellare. «E questa?»
«Tesoro, i guai ci seguono come un'ombra. Lasciare a casa la mia pistola non è un’opzione da considerare!»
Era vero, ne avevano passate di tutti i colori nella loro vita insieme. Vivevano costantemente sul filo del rasoio e Nicole era grata al destino che le aveva fatto incontrare Steve. Con lui si sentiva sempre al sicuro, che fossero a casa o stessero braccando un pericoloso criminale. Il suo addestramento era inciso nel suo DNA e lo rendeva un’insostituibile risorsa per la Five-O e un marito e un padre che avrebbe fatto di tutto per proteggere la propria famiglia.
Steve le aprì la portiera della Camaro e l’aiutò a salire. Poi fece il giro e si mise al volante.
Il party si teneva presso la villa del Governatore. Quando arrivarono, un uomo in divisa fece loro segno di entrare e Steve imboccò il vialetto a bassissima velocità.
La villa, con il suo bel colonnato bianco, era completamente illuminata. Sul prato davanti alla grande dimora erano stati disposti dei grandi gazebo rotondi con la copertura bianca e sotto ognuno di quei ripari si raccoglievano gli ospiti.
Steve fermò l’auto davanti all’ingresso principale e scese, lasciando però il motore acceso. Un inserviente in livrea aprì la portiera di Nicole e lei scese, mentre un parcheggiatore prendeva le chiavi dalle mani di Steve e si metteva al volante, portando l’auto sul retro.
Nicole accettò il braccio che Steve le porgeva e insieme si diressero verso gli altri ospiti, guardandosi intorno e salutando i volti conosciuti.
Sotto i gazebo c’erano tavoli di cibo e bevande e camerieri in divisa bianca gironzolavano intorno con vassoi di tartine e bicchieri di frizzante vino bianco. C’erano sedie e panchine di ferro battuto sparse qua e là e ovunque c’erano piante ricoperte di lucine bianche e fiocchi di tulle.
«Davvero notevole» esclamò ammirata Nicole, prendendo la flûte che Steve le porgeva.
Videro il Governatore Denning più avanti, che conversava amabilmente con il capo della Polizia. Sua moglie gli stava accanto in un bell’abito argento e sorrideva radiosa: ormai la sua gravidanza era più che evidente e la feconda rotondità del suo ventre si intuiva benissimo sotto il vestito.
I due si diressero verso di loro e, quando furono lì accanto, Denning interruppe la sua conversazione per stringere la mano a Steve.
«Ben arrivati» li salutò, rivolgendo un cenno del capo a Nicole.
«Ci scusi per il ritardo, le ultime raccomandazioni alla babysitter mi hanno distratta» spiegò Nicole.
«La vostra Evelyn cresce bene?» s’informò la moglie del Governatore, portando senza accorgersene una mano al ventre.
«Anche troppo in fretta!» esclamò Nicole.
Rimasero a chiacchierare per qualche minuto finché l’attenzione di Denning fu reclamata da qualcun altro e si allontanarono.
«Hai visto?» sussurrò Steve abbassandosi verso l’orecchio della moglie. «Anche il capo della Polizia era armato».
«Sicuro» replicò la donna soavemente. «Ma la sua pistola di certo non ha il colpo in canna e la sua fondina era allacciata. Scommetto che lo stesso non possiamo dire della tua»
«Ecco Danny» indicò Steve, felice di cambiare discorso, notando l’amico davanti al bar allestito sul prato.
Lo raggiunsero, salutando lui e Melissa.
Mentre erano lì li raggiunsero anche Chin e Kono. Chin teneva un braccio attorno alla vita di Malia, divenuta sua moglie solo quattro mesi prima, mentre il fidanzato di Kono non aveva potuto partecipare in quanto impegnato in un viaggio d’affari sul continente.
La serata trascorse piacevolmente e quando Nicole sbirciò l’orologio, era mezzanotte passata. Picchiettò sul braccio di Steve che stava ridendo all’ennesima battuta di Danny.
«Tesoro, è mezzanotte passata» gli fece notare. «Penso sia meglio rientrare, Madison vorrà andare a casa».
«Hai ragione».
«Allora andiamo anche noi» aggiunse Danny. Quindi si congedarono dal Governatore e tutti insieme raggiunsero l’area dove i parcheggiatori attendevano.
Finalmente recuperarono la Camaro e poterono avviarsi verso casa. Quando arrivarono in Piikoi Street, Steve parcheggiò come sempre sul vialetto e, prima di scendere, le raccomandò di restare a bordo.
Poi fece velocemente il giro, le aprì la portiera e le tese la mano. Lei sorrise e scosse la testa ma prese la mano e scese dall’auto.
«Come mai tutta questa galanteria?»
«Beh, se ti dà fastidio posso smetterla in qualsiasi momento» borbottò.
Per tutta risposta, Nicole lo baciò. Fu un bacio lungo e dolce, un tenero mescolarsi di respiri, una delicata carezza di labbra.
«Lo sai di essere terribilmente sexy stasera, vero piccola?» le chiese con un filo di voce quando si staccarono.
Nicole ridacchiò.
«Andiamo in casa, dai» replicò ridendo, precedendolo.
A pochi passi dalla porta però la donna si bloccò di colpo. Steve la superò di un passo, prima di fermarsi a sua volta e girarsi verso di lei con espressione perplessa.
Nicole lo prese per il braccio: Steve sentì la tensione in quella stretta. Nicole fissava un punto dietro di lui e Steve si girò d’istinto.
La porta d’ingresso era solo accostata e una lama di luce filtrava attraverso la fessura. La maniglia pendeva verso il basso, chiaramente forzata, e il legno attorno alla serratura era scheggiato e danneggiato in modo evidente.
Steve cambiò atteggiamento in pochi secondi. Estrasse velocemente la pistola e Nicole sentì in maniera distinta il clic della sicura che veniva tolta. La spinse dietro di sé: la donna non era armata e non protestò.
Si erano trovati tante volte in situazioni simili, ma in quel momento era tutto diverso. La porta di casa loro era stata forzata e qualche tempo prima non ci avrebbero pensato molto prima di fare irruzione, con la speranza di beccare chi fosse stato tanto sprovveduto da entrare in casa di due ex militari, entrambi agenti della task force del Governatore. Ma adesso c’era Evelyn.
I due raggiunsero in fretta la porta, posizionandosi ai lati di essa.
«Sta dietro a me» raccomandò Steve in un sussurro e spinse il battente.
Entrò con la pistola tesa davanti a sé, controllando velocemente la zona. Nicole lo seguì e vide subito il corpo di Madison riverso a terra. Si chinò subito sulla ragazza: la pelle era calda, il polso forte e regolare. La girò sulla schiena: aveva un bernoccolo sulla fronte ma per il resto sembrava illesa.
Fece un cenno di assenso verso Steve.
«Ok, vado su» disse, salendo le scale e scomparendo al piano di sopra.
Accertatasi che Madison stava bene ed era solo priva di sensi, Nicole si sfilò i tacchi e corse al sottoscala. Aprì la porticina e infilò il braccio all’interno, cercando a tentoni sopra il piccolo architrave finché la sua mano si chiuse sul calcio di una pistola.
Era una Kel-Tec 9mm, una pistola leggera e compatta che Steve aveva messo lì in via precauzionale. Controllò che fosse carica – anche se sapeva che Steve controllava regolarmente quella e le altre armi che tenevano in casa – e si sentì meno allo scoperto con il peso familiare della pistola fra le mani. Non era la sua arma personale, che era chiusa a chiave nell’armadio blindato al piano di sopra, ma andava bene comunque.
Il suo istinto le urlava di salire a controllare Evelyn, ma lo mise a tacere: doveva controllare il piano e verificare che non ci fossero minacce.
Il salotto era libero e si spostò in cucina, notando subito che la porta di servizio era stata forzata come quella principale. Si accostò all’uscita, sbirciò cautamente all’esterno e si lanciò fuori, affrettandosi a mettersi al coperto della vegetazione che faceva da confine tra la loro e la proprietà vicina.
Scandagliò il buio con lo sguardo: alla luce della luna, qualcosa di chiaro in mezzo all’erba attirò la sua attenzione.
«Oh no, Eddie» mormorò, correndo in quella direzione e accovacciandosi accanto all’animale. Non appena posò la mano sul manto del cane si accorse che respirava. Lo accarezzò e la sua mano incontrò un piccolo dardo narcotizzante piantato nel collo.
Nicole riportò l’attenzione a ciò che la circondava, tendendo la pistola davanti a sé. C’era qualcos’altro sul prato, proprio al limitare della spiaggia. Corse lì e il cuore le si fermò nel petto.
La pistola le scivolò di mano e dimenticò di essere del tutto allo scoperto. Sentì i passi di Steve dietro di sé ma non si voltò.
«Nicky».
«Lo so» replicò lei con voce piatta, continuando a guardare per terra.
Steve seguì il suo sguardo: fra l’erba, appena prima dell’inizio della loro spiaggia privata, c’era un pupazzetto rosa a forma di drago.
«Hanno preso Evelyn».

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Capitolo 7
*** Un vecchio amico-nemico ***


Evelyn è stata rapita e la Five-O al completo
sarà impegnata nelle ricerche.
Per ritrovarla, Steve e Nicole dovranno chiedere aiuto
ad una loro vecchia conoscenza.

 
Nicole si era tolta l’abito da sera, indossando jeans e maglietta, e stava passeggiando nervosamente per il salotto quando Danny e gli altri arrivarono.
«Ehi, tesoro» disse Danny, aprendo le braccia. «Vieni qui».
La donna si abbandonò per un attimo tra le braccia dell’amico, mentre Chin e Kono entravano e si avvicinavano.
«Cos’è successo?» chiese Chin quando Nicole si raddrizzò.
«Sono arrivati via mare, ci sono i segni di un gommone tirato in secca sulla spiaggia» spiegò. «La porta principale e quella di servizio sono forzate, devono essere entrati contemporaneamente da entrambe le parti».
«Pensate che fossero in tanti?» indagò Kono.
«Non so, ci sono molte orme sulla spiaggia, ma sono molte confuse». Nicole indicò il pavimento. «Hanno colpito Madison, l’hanno tramortita e poi hanno preso la bambina. Crediamo che siano fuggiti via mare, il pupazzo di Evelyn era abbandonato al limitare del prato».
«Madison sta bene?» s’informò Danny e la donna annuì.
«Ha un bernoccolo e forse un leggero trauma cranico, ma non le hanno fatto del male. Sta andando in ospedale per un controllo ma penso che si riprenderà».
«Dov’era Eddie?» chiese Chin.
«Eddie era fuori. Gli hanno sparato un sedativo, si sta riprendendo ora». Nicole indicò con il pollice verso il giardino sul retro. «Mindy è già arrivata e gli ha fatto un prelievo di sangue. Lo analizzerà per identificare la sostanza che gli hanno inoculato, così potremo capire quando tempo è rimasto fuori combattimento».
«Dov’è Steve?» chiese Danny.
«È andato a tirare giù dal letto i vicini per chiedere se qualcuno ha notato movimenti strani o se hanno telecamere puntate verso la spiaggia». Nicole non aveva smesso di camminare mentre ricostruiva i fatti. «La Scientifica sta arrivando per verificare se ci sono impronte o altri indizi, ma dubito che ne troveranno. Questi tizi sembrano ben organizzati».
Aveva appena finito di parlare quando udirono il rumore di un furgone che si fermava davanti alla villetta. Pochi istanti dopo Fong e la sua squadra entrarono.
«Ciao Fong» lo salutò Nicole.
«Mi dispiace per quello che è successo» replicò il giovane. «Ci mettiamo subito al lavoro».
«Ok, grazie Charlie». Gli indicò la porta forzata. «Potete cominciare da qui, poi ci sono la porta sul retro e la camera di Eve al piano di sopra. Beh, la casa la conosci, fa' quel che devi».
Si spostarono all’esterno per lasciarli lavorare e Chin e Kono andarono ad esaminare i segni lasciati dal gommone sulla spiaggia. Nicole rimase in silenzio, appoggiata alla balaustra di legno della veranda.
Si sentiva intorpidita, come se i suoi sensi fossero disattivati. Al centro del petto, dove sapeva trovarsi il cuore, non sentiva nulla se non un groviglio di ansia e paura.
Da quando era con la Five-O avevano lavorato a molti casi di rapimento: in quelle occasioni aveva detto a quei genitori che li capiva, che sapeva cosa stavano provando. Ma ora che lei e Steve erano stati colpiti dalla stessa disgrazia, si rendeva conto che non aveva mai capito. Perché nulla poteva preparare un genitore a quella prova: non riusciva a ragionare, non riusciva a pensare a nient’altro che non fosse la sua bambina in mano a chissà chi.
«Li troveremo» disse piano Danny al suo fianco. «E finiranno in galera per il resto dei loro giorni».
«Sbagli su una cosa» lo contraddisse la donna. «Nessuno di loro finirà in galera perché nessuno di loro sarà così fortunato da sopravvivere quando li avrò trovati».
Disse quella frase in tono talmente piatto e privo di emozione che Danny rabbrividì. Non ebbe dubbi che Nicole avrebbe fatto quello che aveva detto e fu contento di vedere Steve tornare: se c’era uno che poteva gestire quell’emergenza, era lui.
I due si abbracciarono: Steve aveva l’aria risoluta di sempre e, anche se la preoccupazione gli incideva pesantemente i tratti del volto, era teso e pronto all’azione.
«Grazie di essere qui, ragazzi» disse, girando lo sguardo su tutti loro. «I vicini non hanno visto né sentito nulla, purtroppo. Ma i Reynolds hanno le telecamere di sicurezza e ho scaricato i filmati» concluse, mostrando loro una chiavetta USB.
«Ok» intervenne Nicole. «Dobbiamo andare al quartier generale, ho bisogno della mia attrezzatura». Aveva disperatamente bisogno di qualcosa da fare.
Fong e la sua squadra non avevano ancora finito ma Steve non voleva perdere tempo quindi gli lasciò le chiavi di casa e gli raccomandò di setacciare l’intero edificio alla ricerca di prove.
Eddie non si era ancora ripreso del tutto dall’effetto del sedativo e Mindy si offrì di tenerlo con sé, facendolo salire sulla sua auto e dirigendosi al laboratorio per le analisi sul campione di sangue che aveva prelevato all’animale.
Gli altri salirono in auto e raggiunsero in fretta lo Iolani Palace. Steve e Nicole rimasero in silenzio per tutto il tragitto: nessuno dei due aveva voglia di parlare e nessuno dei due sapeva cosa dire. L’enormità di quello che era successo li aveva annichiliti.
Quando parcheggiò e spense il motore, Steve le prese la mano prima che potesse scendere.
«Ti giuro che riporterò a casa nostra figlia» disse. Nicole si aggrappò a quelle parole, alla sicurezza con cui le aveva pronunciate, alla ferma determinazione che leggeva nei suoi occhi.
«So che lo farai» rispose. «Lo faremo insieme».
Quando arrivarono in ufficio si misero subito al lavoro.
Danny fece la segnalazione alla Polizia, fornendo alcune foto della bambina e chiedendo che fossero distribuite ad ogni agente in servizio. Chiese anche che venisse creato subito un numero per le segnalazioni e che rimanesse attivo ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Se fosse stato necessario, si sarebbe messo lui stesso al centralino.
Kono si dedicò a preparare volantini con la foto di Evelyn che il giorno seguente avrebbero distribuito a tutti i loro contatti. Avevano amici e informatori in tutta l'isola e, considerando anche tutti quelli che dovevano loro un favore, potevano contare su un bel po’ di persone.
Chin lanciò una ricerca su tutti i sospettati che potevano avercela con Steve e Nicole e che magari erano appena tornati in libertà.
I due, nell’ufficio di quest’ultima, si misero a esaminare i video forniti dai vicini. Non ne ricavarono molto: le telecamere erano ovviamente puntate sulla proprietà dei Reynolds, ma riuscirono ad isolare alcuni fotogrammi in cui si vedeva un gommone scuro fendere le acque diretto verso la loro piccola porzione di spiaggia. Secondo l’ora segnata sulla registrazione, il gommone era arrivato attorno alle dieci e ventotto.
Nicole usò tutti i programmi che aveva per cercare di schiarire e migliorare le immagini ma non ne ricavò altro che sagome indistinguibili. Ma, anche se non riusciva a riconoscere nulla di utile, quelle sagome le incendiarono le viscere di rabbia.
Scorsero le immagini ma non trovarono il momento in cui i rapitori se ne erano andati. Forse erano fuggiti seguendo un’altra rotta, oppure avevano navigato più al largo e quindi al di fuori della portata della telecamera.
«Qualcosa di utile?» domandò Danny, affacciandosi all’ufficio.
«Praticamente nulla» replicò Nicole, passando le scarse immagini che aveva isolato sui monitor della sala centrale. Lei e Steve si spostarono nella sala principale.
«Chin, trovato qualcosa?» chiese Steve, ma l’altro sbuffò.
«Con tutti i casi che abbiamo trattato, c’è una lunga lista di persone che potrebbe avere il dente avvelenato con voi» spiegò. «Hai pensato che potrebbe essere Iroha? Meno di una settimana fa gli abbiamo rovinato gli affari».
«Dubito che abbia avuto il tempo di organizzarsi così presto, soprattutto visto che è in prigione» obiettò Steve. «Però di sicuro domani mattina… beh, stamattina» aggiunse, dando uno sguardo all’orologio e notando che erano quasi le quattro, «andrò a farci una chiacchierata».
«Di certo non l’hanno presa per chiederci dei soldi» commentò Nicole, controllando per l’ennesima volta che il suo cellulare fosse carico e avesse segnale. «È più probabile che ci chiedano di rilasciare qualcuno che abbiamo arrestato o di girarci dall’altra parte mentre qualcuno fa entrare un carico di droga o roba simile».
«Spero di sbagliarmi» intervenne Danny, «ma non vorrei che la mandassero per le lunghe: più la tengono in ostaggio e più sarete disperati e pronti a rispondere sì a qualsiasi richiesta faranno».
Non c’era molto altro che potessero fare. Steve convinse Chin e Kono ad andare a casa a riposare, ma non riuscì a farsi ascoltare da Danny, che rimase con loro a bere caffè per tenersi sveglio.
Alle otto del mattino non era ancora arrivata alcuna richiesta da parte dei rapitori. Nicole prese la Camaro di Steve e raggiunse l’ospedale.
Madison aveva passato la notte in osservazione ma sarebbe stata presto dimessa.
«Mi dispiace per quello che è successo, signora McGarrett» si scusò la ragazza. «Avrei dovuto fare qualcosa di più».
«Non voglio sentirti dire queste cose» la rimproverò Nicole. «Sono io che devo scusarmi con te per quello che è successo».
«Li avete trovati?» chiese la ragazza e Nicole scosse la testa.
«Non ancora. Per questo sono qui, ho bisogno del tuo aiuto».
Madison non seppe darle molte informazioni. Aveva messo Evelyn a letto da un po’ e stava leggendo seduta sulla poltrona in salotto quando un forte rumore alle sue spalle l’aveva fatta saltare in piedi. Erano entrati due uomini, con il volto coperto da un passamontagna. Lei aveva gridato e uno dei due l’aveva colpita.
«Non ricordo altro, purtroppo. Mi dispiace».
«Tranquilla, va tutto bene» la rassicurò. «Se dovesse venirti in mente qualcos’altro, chiamami per favore».
«Lo farò senz’altro. Spero che ritroviate Evelyn al più presto».
Nicole uscì e si mise al volante, guidando fino al furgone dei gamberi di Kamekona. Quando la vide, il gigante le si fece incontro con un enorme sorriso che si spense quando vide la sua espressione. Nicole gli spiegò in fretta cos’era successo la notte prima.
«Ti ho portato questi» disse, porgendogli uno scatolone di volantini. «Qui vedi sempre tanta gente, magari potresti…»
«Consegnerò personalmente uno di questi volantini ad ognuna delle persone che verranno qui, sorella» le assicurò Kamekona.
«Mahalo, amico mio».
C’era un’altra sosta che doveva fare e ci mise tre quarti d’ora per arrivare fino alla zona del Pupukea. Parcheggiò nei pressi di un cottage sulla spiaggia, scese dall’auto e raggiunse la veranda, bussando alla porta. Qualche istante dopo la porta si aprì.
«Kalea, ciao» la salutò Kawika, sorpreso di vederla. Indossava soltanto un paio di pantaloncini e i tatuaggi spiccavano fieramente sul petto e sulle braccia.
«Scusami se sono piombata qui in questo modo, ma è un’emergenza e mi serve il tuo aiuto».
Lui si fece serio e la scrutò con i suoi occhi castani, invitandola a sedersi sulle sedie di vimini.
«Evelyn è stata rapita ieri notte» disse e vide la pena negli occhi dell’amico.
«Rapita? Ma chi…?»
«Non lo sappiamo. Per questo ho bisogno di te». Kawika era il leader dei Kapu, un gruppo di hawaiani che proteggeva l’isola cercando di salvaguardare il modo di vivere e le tradizioni locali. «Kawika, tu hai occhi e orecchie ovunque sull'isola. Io e Steve abbiamo bisogno di quegli occhi e di quelle orecchie».
«Mobiliterò immediatamente la mia gente. Vi daremo tutto l’aiuto possibile. Voi siete Ohana, non vi abbandoneremo. Faremo tutto il possibile per ritrovare la piccola Maluhia».
Le sue parole erano un grande attestato di stima. La madre di Nicole era hawaiana e Kawika sapeva che lei rispettava le tradizioni del popolo delle isole. Steve, pur essendo di etnia continentale, era nato e cresciuto ad Oahu, suo nonno era morto sull'Arizona nell’attacco a Pearl Harbour e lui stesso era impegnato ogni giorno a proteggere quelle stesse isole che Kawika amava.
Kawika l’accompagnò all’auto. Le cinse la nuca con la mano, attirandola vicina e appoggiando la fronte alla sua. Rimasero così per qualche istante, ad occhi chiusi. Nicole sentì una lacrima colarle dall’angolo dell’occhio.
«Mahalo, fratello» disse.
 
Tre giorni dopo, Nicole e Steve erano disperati.
Non c’erano state né una rivendicazione né una richiesta di riscatto di qualche tipo. Le innumerevoli segnalazioni che erano arrivate alla polizia si erano rivelate prive di fondatezza e avevano avuto l’unico effetto di farli correre a destra e a manca inseguendo chimere.
Steve era andato ad Halawa a parlare con Iroha. Era stato molto persuasivo – si era beccato un richiamo ufficiale dal Governatore per i modi poco ortodossi che aveva usato con il prigioniero – ma non era arrivato a nulla. Era certo che Iroha non fosse coinvolto nel rapimento di sua figlia.
Martedì mattina Steve si svegliò alle prime luci dell’alba. Nicole non era al suo fianco, ma non era stupito: da quando avevano rapito Evelyn dormiva pochissimo e, per quanto presto si svegliasse, non la trovava mai a letto.
Scese al piano di sotto e la trovò in veranda. Sedeva sul divanetto di vimini, le gambe raccolte contro il petto. Sorseggiava distrattamente una tazza di caffè con lo sguardo perso verso l’oceano. Il cellulare era sul tavolino: non lo perdeva mai di vista.
Steve sedette accanto a lei che però non diede cenno di essersene accorta: soffiò via il vapore dalla tazza e prese un altro sorso di caffè. Steve si accorse che tremava: l’aria mattutina conservava il fresco della notte, lo percepiva pizzicare sul torace nudo.
Le mise un braccio attorno alle spalle.
«Piccola, stai tremando».
La donna sussultò, come se fino a quel momento non si fosse resa conto che Steve era al suo fianco.
«Non stiamo facendo abbastanza» disse, voltandosi verso di lui. Aveva profonde occhiaie bluastre e il colorito malsano come se non prendesse sole da mesi. I suoi colori, di solito vividi e accesi, erano tutti spenti: il viola dei suoi occhi, il castano vibrante dei suoi capelli, il rosso scuro delle sue labbra.
«Tutti stanno facendo il massimo, Nicky» spiegò Steve con dolcezza. «Il Dipartimento, i nostri amici. Tutti stanno facendo di tutto per aiutarci».
«Non è abbastanza» ripeté, scattando in piedi. La tazza le sfuggì di mano e cadde sul pavimento di legno, sporcandolo di caffè. «Se fosse abbastanza, Evelyn sarebbe qui».
Era vicina al punto di rottura, Steve se ne accorse in quel momento. Era stato così impegnato in quelle frenetiche ore da non avvedersi di quello che stava capitando alla sua compagna.
«Nicky, adesso devi calmarti» le disse, alzandosi lentamente in piedi.
«Calmarmi?» gli fece eco. «Calmarmi? Non posso calmarmi. Mia figlia è là fuori chissà dove». Gli occhi le si riempirono di lacrime: la sua voce si era alzata in crescendo e Steve vide che tremava come una foglia, di certo non a causa dell’aria frizzante.
«Lo so» replicò con una calma che non provava. «Ma so anche che non la stai aiutando, in questo momento». Fece un passo verso di lei che lo guardava con gli occhi spalancati. «Non commettere l’errore di credere di essere l’unica in pena per Evelyn».
«Vado a vestirmi» disse, muovendosi per entrare in casa ma Steve fece un passo di lato e le sbarrò il passo.
«Non finché non avremo risolto questa cosa».
«Togliti di mezzo, Steve» sibilò.
«No» replicò lui con decisione.
Lei abbassò lo sguardo. Aveva il respiro accelerato e le mani strette a pugno.
«Vuoi risolvere questa cosa?» gli chiese, riprendendo le sue parole di poco prima, la voce tesa e vibrante. «Trova nostra figlia».
Era un colpo basso, ma Steve sapeva che non era davvero lei a parlare. Erano la sua rabbia e il suo terrore.
Nicole si mosse per schivarlo, ma lui la prese per le braccia.
«Credi che per me non sia la stessa cosa? Sono il padre di quella bambina» le disse, obbligandola a guardarlo negli occhi.
«Lasciami andare, Steve» lo pregò, ma lui strinse ancora di più la presa, incurante di farle male. Cercò di scrollarsi di dosso le sue mani, ma Steve non era disposto a cedere.
«Darei ogni singolo battito del mio cuore per riaverla e ti giuro che la riporterò a casa. Troverò Evelyn: questa è la mia missione, dovessi mettere a ferro e fuoco l’isola per riuscirci. Ed è per questo che non posso permettermi di mollare o di perdere concentrazione, anche se sarebbe più facile abbandonarsi alla disperazione o cedere alla tentazione di spaccare tutto, come ho voglia di fare da quando ho visto la porta di casa nostra forzata».
Aveva parlato in tono duro e deciso e Nicole era rimasta immobile ad ascoltarlo. Quando ebbe finito di parlare, lei scoppiò a piangere. Si arrese e Steve modificò la presa per stringerla al petto. Lei gli si aggrappò, abbracciandolo in modo convulso come un naufrago che si aggrappi ad un salvagente. Singhiozzava con violenza, il corpo scosso dalla forza di quel pianto straziante.
«Così, piccola» sussurrava Steve, accarezzandole i capelli. «Lascia che venga fuori».
Le gambe le cedettero e Steve si inginocchiò con lei sul pavimento di legno, senza smettere di stringerla a sé. Lasciò che piangesse tutte le lacrime che aveva tenendola nel cerchio delle sue braccia, mormorandole tutte le rassicurazioni che gli venivano in mente.
Dopo un bel po’, Nicole smise di piangere. Era esausta, Steve lo percepiva nell’arrendevolezza con cui era abbandonata contro di lui, ma sapeva che quella era stata la liberazione di cui aveva bisogno.
Rimasero in silenzio mentre il sole sorgeva su un nuovo giorno.
«Mi dispiace» disse alla fine.
«È tutto a posto, piccola. Va tutto bene» la rassicurò con la guancia posata sul suo capo. Poi le fece alzare il volto: il viso era gonfio e congestionato, gli occhi erano pesti e arrossati. «La ritroveremo, te lo prometto. Ma ho bisogno che tu tenga duro, Nicky. Non puoi mollarmi adesso. Sei più forte di quello che credi e io ho bisogno della tua forza».
La donna annuì, tirando su con il naso.
«Ora vai a lavarti gli occhi, io preparo la colazione» le disse. «Abbiamo una lunga giornata davanti».
Lei rientrò. Steve rimase un momento sulla veranda. Si appoggiò alla balaustra e si accorse che gli tremavano le mani. Nonostante le parole che aveva detto a Nicole, quella situazione lo spaventava da morire. Il suo addestramento era l’unica cosa che lo teneva integro ma tutto ciò che desiderava era riavere sua figlia fra le braccia. L’ansia era una bestia feroce che gli dilaniava il petto, ma non avrebbe mai ceduto a quei sentimenti. Non poteva: riportare a casa Evelyn era l’unico obiettivo che aveva in mente e così sarebbe stato finché non avesse riconsegnato la bambina all'abbraccio di Nicole.
Nicole scese dopo una ventina di minuti. Si era fatta la doccia e il suo viso non recava più traccia del tormento di prima. Era vestita e pronta, pistola e distintivo già agganciati alla cintura.
Steve stava versando il caffè nelle tazze e Nicole lo abbracciò da dietro, incrociando le mani sul suo petto. Gli baciò la schiena nuda e Steve appoggiò la caraffa e coprì le mani della moglie con le proprie.
«Mahalo» gli disse con semplicità. «Ho perso un po' la testa, credo».
Steve si volse e le prese il viso fra le mani, baciandola sulle labbra con delicatezza.
«Ho avuto un’idea stanotte» disse la donna.
«Per questo poi ti vengono le occhiaie» replicò, notando che le aveva mascherate un po' con il trucco.
Nicole lo ignorò e gli spiegò che cosa aveva in mente.
«Va bene. Ma chiama Danny e dì che venga con te». Lei parve voler replicare, ma Steve la precedette. «È un ordine, tenente. Non farmelo ripetere» e la donna capitolò.
Chiamò Danny mentre lo raggiungeva a bordo della sua Audi RS5 e insieme raggiunsero il penitenziario di Halawa. Furono fatti entrare in una saletta spoglia con un tavolo e un paio di sedie e attesero.
Pochi minuti più tardi una guardia aprì la porta e introdusse nella stanza un detenuto con la tipica tuta arancione. Il giovane dai capelli scuri era ammanettato e brontolò irritato mentre prendeva posto sulla sedia di metallo.
Poi notò Danny e si appoggiò allo schienale.
«Ah, ecco» esclamò. «Poteva essere solo la Five-O a rompermi le palle prima di colazione». Poi girò lo sguardo e vide Nicole. «Beh, almeno ti sei portato una compagnia più carina del comandante McGarrett. Buongiorno, agente Knight» soffiò, facendo le fusa come sempre di fronte a una bella donna.
«Tenente» lo corresse, scostandosi con una spallata dal muro a cui era appoggiata a braccia conserte.
«Ciao SangMin, è sempre un piacere vedere la tua brutta faccia» chiosò Danny.
SangMin era stato il primo caso della Five-O. Era un trafficante di esseri umani che Steve e i suoi avevano arrestato prima che Nicole entrasse nella task force. Era collegato a Victor Hesse, il terrorista che aveva ucciso il padre di Steve e grazie a lui erano riusciti a fermarlo prima che lasciasse Oahu.
Nel corso degli anni, SangMin li aveva aiutati con alcuni casi divenendo una sorta di informatore anche se conservava un rapporto di amore-odio con la Five-O.
«A che debbo il discutibile piacere della vostra compagnia a quest'ora del mattino?» domandò.
«Abbiamo bisogno di informazioni che tu sicuramente puoi recuperare» spiegò Danny.
«Beh, al giusto prezzo…» mormorò socchiudendo gli occhi.
«Sì, del prezzo parleremo dopo». Nicole fece un gesto spazientito con la mano. «Intanto vediamo di capire se puoi procurarti quello che ci serve»
«Abbiamo bisogno che tu ci dia tutte le informazioni che hai sul traffico di esseri umani sull'isola» intervenne Danny.
«Tu ne eri l'esponente di spicco e abbiamo bisogno di sapere chi ha preso il tuo posto e chi se ne occupa ora» aggiunse la donna.
«Ah, tesoro» ridacchiò Sang Min. «Questa è un’informazione davvero preziosa».
«Tenente, SangMin» scandì Nicole. «Se mi chiami ancora tesoro ti faccio saltare i denti».
«Eri così irritabile anche prima di conoscere McGarrett?»
Nicole chiuse gli occhi e prese un lungo respiro per calmarsi: sapeva che non sarebbe stato facile.
«Sang, sai bene che adoro queste nostre chiacchierate» affermò con pesante sarcasmo. «Però oggi non ho davvero tempo di stare qui».
«È davvero un peccato» sospirò il detenuto. «Mi avete rinchiuso in questo noiosissimo posto e venite a disturbarmi addirittura prima di colazione: il minimo che potreste fare è farmi un po' di compagnia».
«SangMin, tre giorni fa hanno rapito mia figlia».
L’uomo interruppe la sua tirata e si fece immediatamente serio: poteva avere un passato da trafficante di vite umane ma era lui stesso padre e aveva sempre evitato di occuparsi di bambini.
«Non abbiamo ricevuto alcuna richiesta quindi pensiamo che possa essere stata presa da qualcuno che traffica bambini» concluse, senza riuscire a impedirsi di rabbrividire.
«Il leader in quel campo era Iroha. So che l’avete preso qualche giorno fa» considerò SangMin e Nicole scosse la testa.
«Mio marito l’ha già interrogato, lui non è coinvolto».
SangMin rimase in silenzio per un po', finché Nicole riprese la parola.
«Sang, so che anche tu hai un figlio, quindi penso tu possa immaginare cosa stiamo passando io e Steve» gli disse, abbassandosi per guardarlo negli occhi. «Quindi dimmi il tuo prezzo».
«Come hai detto tu, tenente» mormorò restituendole lo sguardo, «io ho un figlio e mi sto perdendo tutta la sua infanzia. Penso tu sappia già che cosa voglio».
«Non so se sarà possibile» replicò la donna e l’altro si rilassò nuovamente contro lo schienale.
«Allora niente informazioni. Mi dispiace» affermò, in tono di scusa.
Nicole aveva avuto paura proprio di quello. SangMin sapeva che avrebbero fatto di tutto per riavere la bambina ed era ben deciso a sfruttare la cosa a suo vantaggio.
«Danny» chiamò Nicole e insieme uscirono.
Appena fuori la donna prese il cellulare e chiamò Steve.
«Steve, SangMin vuole i domiciliari» disse quando le rispose.
«Il Governatore non li concederà mai» replicò.
«Ce lo deve. Abbiamo ripulito l’isola da tutta una serie di delinquenti. Questa potrebbe essere l’unica possibilità di recuperare informazioni utili a trovare Evelyn».
«Ci proverò. Resta lì, ti richiamo».
Danny, appoggiato con la schiena alla porta della cella dove SangMin attendeva, la osservava.
«Sarà dura, Nicky».
«Lo so. L’unica possibilità è che Denning si metta una mano sul cuore e voglia ringraziarci per quanto stiamo facendo per Oahu».
Steve richiamò dopo una decina di minuti, che la donna passò a camminare avanti e indietro.
«Il Governatore ha accettato» le disse e la donna percepì la sorpresa nel suo tono. «Dovrà portare la cavigliera ma potrà tornare a casa».
«Grazie a Dio» disse Nicole.
Tornò nella stanza con SangMin che era ancora seduto tranquillo.
«È la tua giornata fortunata. Avrai i domiciliari con la cavigliera elettronica».
SangMin si alzò con un sorriso sulle labbra.
«Tornate domani mattina con i documenti per farmi uscire di qui, vedrò cosa posso fare».

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Capitolo 8
*** Orribili traffici ***


Passano le ore e di Evelyn nessuna traccia.
Sarà Sang Min a fornire loro un indizio.
Una flebile traccia, l'unica piccola possibilità
di ritrovare la bambina.
 
Il mattino seguente Danny e Nicole tornarono ad Halawa. La donna aveva i documenti per il trasferimento ai domiciliari di Sang Min in una cartellina.
Incontrarono il prigioniero nella stessa stanza del giorno prima e Nicole gettò la cartellina sul tavolo.
«Qui c’è quanto hai chiesto» gli disse. «Dimmi che hai qualcosa per me o li strappo e te li faccio ingoiare».
«Tranquilla, sono un uomo di parola» replicò Sang Min con strafottenza e Danny sollevò un sopracciglio ma non disse niente.
«Allora parla, uomo di parola» lo sollecitò Nicole.
«C’è un tizio, si chiama Donn Pauhai». Disse il nome con disprezzo e quando proseguì capirono perché. «Quell'idiota aveva tentato di avviare l’attività quando io ero ancora sulla piazza, ma non ha mai ottenuto granché. Poi voi mi avete beccato e il posto è rimasto vacante, quindi Donn ha pensato di insediarsi sul trono del re».
«Non vorrei smontarti la corona, ma non eri granché neanche tu come re» borbottò Danny.
«Le volete o no queste informazioni che mi avete chiesto?»
«Sì, le vogliamo» intervenne Nicole. «Danny, per favore».
«Donn ha fatto affari d’oro negli ultimi anni, si è fatto più furbo e mi dicono che sta lavorando bene. Chiunque voglia entrare illegalmente a Oahu deve passare da Donn. Ma so che non disdegna nemmeno i traffici in uscita, però…»
«Però?» lo incitò Danny.
«Però non so se abbia preso la bambina» disse. «Non mi pare un lavoro fatto da lui. Di solito sceglie bene le sue vittime, predilige ragazzi e ragazze senza famiglia in modo che nessuno possa denunciarne la scomparsa». SangMin alzò lo sguardo verso Nicole. «Rapire la figlia dei McGarrett non è il modo migliore per non attirare l’attenzione».
«Dove lo troviamo?»
«Sei fortunata, tes… tenente» si corresse, ricordando l’avvertimento del giorno prima. «Secondo i miei contatti, Donn ha un carico in partenza stanotte da Barbers Point».
Era una traccia, l’unica che avevano. Dopo quattro giorni senza alcuna notizia, quell'indizio era l’unica flebile speranza.
«Mahalo, Sang Min» lo ringraziò Nicole. «Ti sei guadagnato quei documenti» disse, indicandoli. «E la mia riconoscenza.»
Lui chinò appena il capo e, per una volta, tenne la bocca chiusa. Danny diede un colpo alla porta che fu prontamente aperta per farli uscire e precedette Nicole.
«Tenente» disse Sang Min mentre stava varcando la soglia. Nicole si fermò e si voltò verso di lui. «Spero che tu riesca a ritrovare tua figlia» mormorò.
La donna rimase sorpresa dalla sincerità che lesse negli occhi scuri di Sang Min. Non disse nulla: gli rivolse un breve cenno del capo e se ne andò.
Lei e Danny raggiunsero in fretta lo Iolani Palace e misero a conoscenza i colleghi delle informazioni ricevute. Mentre Danny esponeva i fatti, Nicole digitò in fretta sulla tastiera e recuperò il fascicolo di Donn Pauhai. Si trattava di un hawaiano dalla pelle olivastra e gli occhi scuri e un incolto cespuglio di capelli ricci sulla testa. Era stato arrestato in passato per piccoli furti e possesso e spaccio di droga ma, stando a quanto aveva detto SangMin, si era evoluto negli anni e ora trovava più remunerativo trafficare in esseri umani.
«Secondo quanto sostiene Sang Min» precisò Nicole, «Donn controlla il traffico di vite umane sull’isola, in ingresso e in uscita. Ha un carico in partenza stasera dal molo di Barbers Point su una nave battente bandiera delle Filippine, la Syrius».
Recuperò la foto della nave che si presentò davanti a loro come un natante di medie dimensioni, piuttosto malconcio. I trafficanti usavano tenere le navi in perfette condizioni a livello di motori e attrezzature, ma vecchie e cadenti all’esterno per non attirare l’attenzione.
«Nicky, dov’è la Syrius in questo momento?» chiese Steve.
La donna accedette alle immagini satellitari.
«Eccola qui» disse, evidenziandola sullo schermo con un cerchio giallo. Era ormeggiata al molo ed era l’unica di quelle dimensioni.
«C’è da dire che, sempre secondo SangMin, Evelyn potrebbe non essere lì» annunciò Danny con delicatezza. Sapeva quanto Steve e Nicole desiderassero trovare la bambina, ma dovevano essere pronti alle cattive notizie.
«Va bene» disse Steve. Danny notò una nuova risolutezza nello sguardo del suo migliore amico: lui era un uomo d’azione e rimanere per giorni senza poter far nulla per trovare la bambina l’aveva provato. Ma ora avevano un obiettivo, il primo da sabato notte.
«È sicuro che attenderanno il buio per caricare e noi saremo al molo con loro».
Arrivarono al molo di Barbers Point che era già buio. Si raggrupparono attorno alle auto, facendo gli ultimi preparativi prima dell'azione, controllando le armi e verificando di avere munizioni e caricatori di riserva.
«Ragazzi» disse Steve quando furono pronti. «Non c’è bisogno che vi raccomandi la massima attenzione. Evelyn potrebbe essere su quella nave, quindi dobbiamo fermarli senza mettere in pericolo lei e gli altri che potrebbero essere a bordo».
Nicole agganciò il suo H&K 416 alla cinghia e lo imbracciò per verificarne per l’ennesima volta il mirino.
«Capo, sono in posizione». La voce di Kono arrivò loro attraverso l’auricolare. Era partita qualche minuto prima per posizionarsi su un punto elevato per dar loro copertura con il suo fucile da cecchino.
«Com’è la situazione?» le chiese.
«La nave è bassa sull’acqua quindi è carica» replicò la ragazza. «Ci sono almeno cinque uomini armati in coperta, sembra che siano quasi pronti a salpare».
«Va bene, entriamo in azione. Danny, Chin, voi coprite questo lato» disse, indicando la parte posteriore della nave sull’immagine satellitare mostrata dal computer posato sul bagagliaio della Camaro. «Nicky, con me».
Usarono la copertura dei container accatastati sulla banchina per avvicinarsi, finché Steve le indicò con il pugno chiuso di fermarsi. Si sporse con cautela dall'angolo del container: la Syrius era proprio davanti a loro.
La nave era quasi completamente buia ma, come aveva detto Kono, contò cinque uomini armati. Passeggiavano con calma sul ponte, gettando occhiate distratte attorno. Il fatto che si nascondessero in piena vista, a due passi dalla bellissima spiaggia di Ko Olina, lo fece infuriare.
«Danny, siete in posizione?» sussurrò nel microfono e quando ricevette l’assenso del collega, scambiò uno sguardo e un cenno del capo con Nicole.
«Fermi! Five-O!» gridò.
A bordo della nave si scatenò il finimondo. Le guardie armate che gli erano sembrate annoiate e indolenti reagirono con prontezza, aprendo il fuoco in direzione del molo. Le pallottole sibilarono, colpendo il metallo dei container e perdendosi nella notte. Steve udì la detonazione secca e precisa del fucile di Kono e vide uno dei malviventi colpito alla testa precipitare in acqua.
Steve e gli altri si unirono alla sparatoria, costringendo quelli della nave a tenersi al di sotto del parapetto.
«Avanzo, coprimi» disse a Nicole e corse avanti mentre la donna mitragliava il ponte della nave per evitare che qualcuno potesse prenderlo di mira. Steve si fermò al riparo di alcuni bidoni e stavolta toccò a lui coprire l’avanzata di Nicole finché la donna si accucciò al suo fianco.
«Che facciamo?» gridò Danny. «Aspettiamo che finiscano le munizioni?»
Steve si alzò a metà e sparò una raffica contro le teste dei nemici che si ripararono abbassandosi di scatto.
«Steve!» chiamò Kono con voce concitata. «Stanno tagliando gli ormeggi».
In quel momento udirono la potente vibrazione del motore: il capitano aveva dato potenza per staccarsi dalla banchina e uscire dal porto, sottraendosi così alle loro armi.
«Resta qui» ordinò Steve e si lanciò in avanti, cercando di arrivare più vicino al bordo del molo. Immediatamente gli spari si concentrarono su di lui, obbligandolo a cercare riparo.
Disperata, Nicole si rese conto che la nave si stava allontanando sempre di più e fra poco non sarebbe più stato possibile salire a bordo: non poteva permetterlo.
A poca distanza, proprio sul limitare del molo, c’era una serie di casse e di bidoni che formava una specie di rampa. Nicole si liberò del fucile e, prima che Steve potesse fermarla, si lanciò verso quella specie di trampolino.
Salì in velocità e si diede lo slancio per superare il braccio di mare con un salto. Si aggrappò al parapetto, stringendo i denti quando colpì la murata: il giubbetto la protesse ma le ecchimosi rimediate nello scontro con la banda di Iroha non erano ancora guarite del tutto.
Si tirò su a forza di braccia, scavalcando la murata. Si mise al riparo ed estrasse la pistola dalla fondina, sparando alle spalle dei nemici.
«Nicky, sei impazzita?» sbottò Steve.
«Ho un pochino da fare adesso, ne parliamo dopo» ansimò.
Ne uccise uno e ne ferì un altro, ma il suo diversivo aveva creato scompiglio sulla nave: un paio di malviventi, spaventati dall’evolversi della situazione, gettarono le armi e si buttarono fuori bordo.
La nave continuava a muoversi e ormai distava diversi metri dal molo. Nicole si mosse con tutta la fretta che poteva, usando qualsiasi cosa come copertura: doveva raggiungere la cabina di pilotaggio e far invertire la rotta.
Quando arrivò nei pressi della timoneria, si accostò alla porta e si fermò.
«Donn!» chiamò. «È finita, amico».
Due spari esplosero contro di lei che si accucciò nel tentativo di evitarli.
«Oh, non ho tempo per queste cose!» esplose. Si gettò a terra e rotolò dentro la timoneria. Vide per un solo istante le gambe di Donn e fece fuoco. Donn ruggì di dolore mentre la gamba gli si piegava sotto.
Nicole si rialzò e gli si avvicinò, continuando a tenerlo sotto tiro mentre quello cercava di recuperare la pistola.
«No, no! Sta’ fermo, figlio di puttana» gli gridò, ma dato che Donn continuava a tentare di raggiungere l’arma che gli era scivolata dalla mano, la donna lo colpì al volto con un calcio che lo fece rotolare dell’altra parte.
Steve la stava chiamando incessantemente alla radio e finalmente gli rispose.
«Ho preso Donn» disse, chinandosi per bloccargli le mani con una fascetta, mentre quello continuava ad insultarla. «E sta' zitto, idiota» proruppe.
Poi si raddrizzò e si mise ai comandi.
«Donn è ferito, fate venire i paramedici mentre io vedo di far accostare questo bastimento».
«Non eri in Marina prima di unirti a noi?» domandò Danny. «Non dovrebbe essere così difficile».
«Che vuoi farci, ero abituata alle portaerei» replicò.
Ridusse la potenza dei motori e spostò il timone, avvicinandosi al molo. Non aveva tempo per le sottigliezze perciò colpì la banchina con discreta violenza, mettendosi subito in panne. Corse fuori: c’erano altre cime da ormeggio oltre a quelle che l’equipaggio aveva tagliato e Nicole le lanciò a Steve e Chin che attendevano a terra, mentre Danny e Kono stavano recuperando i delinquenti che si erano lanciati in acqua.
Steve e Chin assicurarono la nave alle bitte e posizionarono una passerella, salendo infine a bordo.
«Più tardi discuteremo dell'incoscienza delle tue azioni» borbottò Steve, puntandole contro l’indice. Poi passò oltre, deciso ad andare sottocoperta. Lui e Nicole scesero di sotto con le pistole spianate, nel caso qualcuno dei malviventi fosse rimasto nascosto. Arrivarono alla stiva senza incontrare resistenza ed entrarono.
Entrambi accesero le torce applicate alle pistole e ciò che si parò loro davanti li lasciò basiti. C’erano ventidue gabbie grandi quanto bastava per un cane di grossa taglia chiuse da un pesante lucchetto e in ognuna c’era un prigioniero accovacciato. Erano rimasti completamente al buio perciò si coprivano gli occhi di fronte alla luce.
«Va tutto bene» disse Steve. «Tutto bene».
Nicole trovò le chiavi appese ad un gancio dietro la porta e le gettò a Steve che le prese al volo e si chinò per aprire le gabbie.
Lei intanto perlustrò la stiva, puntando la torcia su ogni viso.
«Evelyn» chiamò. «Evelyn McGarrett».
La speranza si affievoliva man mano che procedeva, finché arrivò all’ultima gabbia e si rese conto che Evelyn non c’era.
«Non è qui» disse, voltandosi e rimettendo la pistola nella fondina. Era quello a cui SangMin aveva cercato di prepararla ma aveva sperato così tanto che si sbagliasse e che Evelyn fosse a bordo di quella nave che ora la delusione era intollerabile.
Danny e Kono arrivarono in quel momento. Steve diede loro le chiavi, pregandoli di occuparsi di liberare i ragazzi prigionieri, mentre lui e Nicole risalivano in coperta.
Raggiunsero la timoneria: i paramedici erano arrivati e stavano stabilizzando il ferito sotto gli occhi attenti di Chin. A Chin bastò un’occhiata al volto teso di entrambi per capire che Evelyn non era fra i prigionieri.
«Signori, dovete uscire» fece la donna appena entrata.
«Tenente, quest’uomo deve ricevere cure al più presto. Dobbiamo fermare l'emorragia» disse uno di loro, inginocchiato accanto a Donn.
«Quest’uomo deve rispondere ad alcune domande e deve farlo al più presto. Insisto perché vi allontaniate» rincarò Steve.
I due si scambiarono un’occhiata; poi, rimettendosi in spalla la borsa con l’attrezzatura, si raddrizzarono. Passando accanto a Steve, uno di loro si fermò: «Se accadrà il peggio, lei sarà ritenuto responsabile».
«Ne prendo nota» replicò Steve con calma, indicandogli l’uscita.
Quando furono usciti Steve afferrò Donn per il bavero della camicia e, incurante delle sue grida di dolore, lo sbatté a sedere sulla poltrona del timoniere, ammanettandolo in modo che non potesse muoversi.
«Sai chi siamo?» chiese Nicole, piantata davanti a lui a gambe larghe.
«Tutti sull’isola conoscono i cani da guardia del Governatore» replicò Donn, sputando a terra con disprezzo.
«Buona questa, nessuno ci aveva ancora definiti in questo modo» approvò Steve.
«Già, però al momento siamo solo Nicole e Steve McGarrett» intervenne la donna. «Genitori di una bambina rapita quattro giorni fa. Tu non ne sai niente, vero?»
Donn sogghignò: «No, ma stringerei volentieri la mano a chi ha avuto l’idea».
Il desiderio di prenderlo a pugni vibrò nelle vene di Nicole, ma si trattenne.
«Senti, Donn» disse invece. «Ci sono due modi per risolvere la cosa. Nel modo facile tu ti levi dalla faccia quel sorriso strafottente e parli con noi, così faremo rientrare i paramedici e potranno curarti quella brutta ferita. In quello difficile, tu non parli, noi ci arrabbiamo e io ti sparo all’altra gamba».
Donn rise e alzò su di lei uno sguardo sfrontato. «Non puoi farlo».
Per tutta risposta Nicole estrasse la pistola, sganciò il caricatore e lo sostituì con uno nuovo, puntandogliela poi contro la gamba sana.
«Sarà scarica» obiettò, salvo poi trasalire con violenza quando lei tese il braccio ed esplose un colpo che mandò in frantumi uno dei vetri della cabina. Donn girò lo sguardo preoccupato su Steve.
«Vedi, quando hai detto che siamo i cani da guardia del Governatore» spiegò Steve, «non avevi forse idea che questo volesse dire avere piena immunità. Ti è chiaro che cosa significa? Significa che lei è libera di spararti».
«Hai cinque secondi, Donn» annunciò Nicole, abbassando la pistola fino a toccare la coscia dell'uomo.
«Vaffanculo».
«Non è quello che voglio sentire, Donn. Cinque…» e iniziò il conto alla rovescia.
«Non sfidarla, credimi» gli disse Steve, battendogli una pacca sulla spalla e allontanandosi di qualche passo fino a raggiungere Chin sulla soglia della timoneria.
«Quattro…»
«Ehi! Non puoi lasciarmi con questa pazza» gridò Donn, girando la testa per seguirlo.
«Tre…»
«Non so nulla di tua figlia, lo giuro» urlò, ormai terrorizzato.
«Due…» continuò Nicole come se non avesse parlato, premendo ancor più la pistola sulla coscia dell’uomo, che si divincolò con veemenza. Il sudore gli colava sul viso e gli inzuppava la camicia.
«Devi credermi, non sono stato io».
«Dovrai essere più convincente di così. Uno…»
«Non so niente di tua figlia, lo giuro. Te lo giuro, non sono stato io e non so chi sia stato. Lo giuro, lo giuro» gridò tutto d'un fiato. Tremava tanto da far tintinnare le manette contro il telaio della poltrona.
«Desolata per la tua gamba, Donn».
«NO! No, ti prego. Io non c’entro nulla con il rapimento di tua figlia» implorò, ma Nicole premette il grilletto.
Il clic del colpo a vuoto risuonò forte nella piccola cabina e Donn la guardò senza capire, inebetito dalla paura. Nicole gli mise davanti agli occhi la pistola, mostrandogli che era scarica.
«C’era un solo proiettile in quel caricatore» spiegò. «Grazie per la collaborazione, Donn».
Donn si accasciò sulla sedia come un sacco vuoto e Nicole uscì, permettendo infine ai paramedici di prendersi cura di lui.

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Capitolo 9
*** Una telefonata ***


Otto giorni.
Tanti ne sono passati da quando Evelyn è stata rapita.
Steve e Nicole sono disperati... e i rapitori lo sanno bene.
 
Danny sbirciò l’orologio: era ora di andare a prendere Grace all’allenamento di pallavolo.
Chiuse il computer e prese le chiavi dell’auto, spegnendo la luce nel suo ufficio.
Nicole era alla sua scrivania, le cuffie sulle orecchie. Stava sicuramente esaminando le ultime segnalazioni pervenute. Erano già state verificate tutte e nessuna si era rivelata fondata, eppure lei insisteva per ascoltarle alla ricerca di qualche indizio che poteva essere sfuggito.
Danny sentiva una gran pena per lei e Steve. Aveva un’idea di cosa stesse provando: anni prima sua figlia era stata rapita da un ex collega corrotto che cercava vendetta per essere stato incastrato dalla sua testimonianza. Grace era rimasta nelle mani dell’uomo per meno di un giorno, ma in quelle ore lui era morto diecimila volte. Evelyn mancava ormai da otto giorni: non sapeva se lui sarebbe stato in grado di resistere così a lungo senza impazzire.
Aprì la porta dell’ufficio di Nicole e la donna si abbassò le cuffie sul collo.
«Steve non è ancora tornato?»
«No, si è fermato dal Governatore per aggiornarlo sulla situazione». Si appoggiò allo schienale della poltrona e abbandonò la testa all’indietro. «Non che ci siano novità degne di nota, purtroppo».
«La troveremo, Nicky» affermò e lei girò la testa per fissarlo.
«Non mentire» replicò. «Facciamo questo lavoro da troppo tempo per crederci ancora. Può essere chissà dove, non necessariamente su quest’isola. Ammesso che sia ancora viva».
Un singhiozzo le squarciò il petto. Danny la raggiunse e la cinse con il braccio, posando la guancia sulla testa di lei. La tenne stretta mentre piangeva in silenzio. Non seppe quanto erano rimasti così, ma alla fine Nicole si scostò.
«Devi andare a prendere Grace» disse, asciugandosi le lacrime con i palmi.
«Sicura che posso lasciarti?» chiese. «Posso chiamare Rachel» aggiunse, ma Nicole scosse la testa.
«Vai, sto bene» affermò, anche se non era vero.
Danny la salutò e uscì. Nicole si sistemò di nuovo le cuffie e riprese ad ascoltare le segnalazioni ricevute quel giorno. Erano sempre meno: nonostante l’impegno di tutti, l’interesse mediatico dietro il rapimento di Evelyn stava scemando.
Il suo cellulare vibrò sul piano della scrivania. Era un numero sconosciuto, ma non diede particolare peso alla cosa e rispose: «Tenente Knight».
Dall’altra parte udì uno strano respiro, poi una voce pesantemente contraffatta.
«Vuoi rivedere tua figlia, tenente?»
Nicole drizzò la testa di scatto. Qualcosa le diceva che quella non era una telefonata come le altre.
«Chi parla?»
«Se vuoi rivedere tua figlia viva devi fare tutto quello che ti dirò» rispose lo sconosciuto, ignorando la sua domanda.
«Come faccio a sapere che non è un bluff?»
«Il pupazzo preferito di tua figlia è un piccolo drago di nome Scintilla» asserì la voce metallica e Nicole balzò in piedi, mandando la sedia a sbattere contro il muro: quello era un particolare che non avevano divulgato di proposito. Se il tizio sapeva di Scintilla, voleva dire che era o era stato in contatto con lei.
«Cosa vuoi?» disse e l’altro ridacchiò.
«Vedo che ho catturato la tua attenzione. Molto bene». Il cuore di Nicole batteva all'impazzata, quasi assordandola. La voce proseguì: «C’è un vecchio impianto di depurazione abbandonato, tra Waimanalo e Kailua; segnati queste coordinate» spiegò, dandole i riferimenti che lei scrisse su un foglietto. «Devi venire da sola, non parlare con nessuno, né con tuo marito né con nessun altro, o tua figlia muore».
Quelle parole le gelarono il sangue nelle vene. Era evidente che si trattava di una trappola, ma non aveva scelta. Quando fosse stata là, si sarebbe fatta venire una qualche idea per venirne fuori.
«Ci vogliono venticinque minuti dallo Iolani Palace all’impianto. Se ci metti in minuto di più penserò che hai provato a rintracciarmi o che ti sei fermata a parlare con qualcuno e tua figlia morirà».
«D’accordo, va bene. Ho capito. Verrò da sola».
Udì il clic di fine comunicazione e si mosse immediatamente. Afferrò le chiavi della sua Audi e, disdegnando l’ascensore, prese le scale, sperando di non incontrare nessuno. Fu fortunata e arrivò alla sua auto senza problemi.
Salì e avviò il motore, manovrando in retromarcia per uscire dal parcheggio. Avrebbe potuto accendere sirena e lampeggianti, ma non voleva attirare l’attenzione quindi guidò veloce ma senza esagerare, seguendo le indicazioni del navigatore.
Mancavano cinque minuti all’appuntamento quando imboccò una strada sterrata. Un cartello sgangherato e arrugginito segnalava la direzione verso il luogo che il rapitore le aveva indicato.
La vegetazione delle Hawaii aveva ripreso possesso della zona e Nicole sentì le foglie strisciare sulla carrozzeria. Proseguì fino a una delle grandi vasche dell’impianto e si fermò, spegnendo il motore.
Si era scatenato uno dei soliti acquazzoni ma anche con il velo di pioggia poteva vedere che il sito doveva essere abbandonato da tempo. Ogni cosa attorno a lei era fatiscente e diroccata, a partire dalle baracche di lamiera che dovevano essere servite da uffici, in passato. Per terra c’erano cartacce e sacchi di immondizia strappati.
Il cellulare di Nicole squillò: era di nuovo il numero sconosciuto.
«Sei stata puntuale, brava» disse. «Ora lascia le chiavi nel quadro e scendi, lentamente».
Nicole fece quanto le era stato ordinato e rimase in piedi accanto all’auto. La pioggia la inzuppò la maglietta e le bagnò i capelli.
«Metti il vivavoce e appoggia il cellulare sul tettino».
Di nuovo, obbedì.
«Ora, getta pistola e distintivo».
Nicole staccò l’arma dalla cintura e la gettò lontano, sotto un grosso cespuglio, fra l’erba incolta. Stessa sorte toccò al suo distintivo.
«Hai altre armi addosso?» chiese. «Pensa bene prima di rispondere: ti perquisiremo prima di portarti da lei e se ti troviamo addosso qualcosa…» lasciò la frase in sospeso e Nicole si abbassò di scatto. Sollevò la gamba del pantalone e gettò via la pistola che teneva nella fondina alla caviglia.
«Bene, vedo che ci intendiamo a meraviglia» approvò. «Ora prendi il cellulare, togli la batteria e gettalo. Poi fai tre passi di lato e attendi».
Nicole seguì le indicazioni e si spostò. All’improvviso qualcosa le si appoggiò sul collo e una potente scarica elettrica le fece perdere conoscenza.
 
Steve parcheggiò la Camaro davanti allo Iolani Palace e rimase per un momento in auto, carezzando il pelo di Eddie che sedeva sul sedile del passeggero. L’incontro con il Governatore non era stato granché utile: Denning gli aveva assicurato il pieno appoggio delle forze dell’ordine, ma Steve era davvero preoccupato.
Erano passati troppi giorni senza alcuna notizia e quell’inattività cominciava davvero a pesargli. Era furioso, con se stesso e con il mondo. Con se stesso per non essere riuscito a proteggere la sua famiglia e con il mondo che gli aveva portato via la sua bambina. L’unica cosa che lo faceva andare avanti era il desiderio di mettere le mani su chi aveva preso Evelyn. Non aveva alcuna importanza quanto ci sarebbe voluto o quante risorse avrebbe dovuto usare: avrebbe trovato quei bastardi e avrebbe vendicato tutto il dolore che avevano provocato.
«Andiamo, bello» disse rivolto a Eddie e scese dall’auto, notando che la RS5 di sua moglie non era più nel parcheggio. Lo trovò strano perché gli aveva detto che lo avrebbe aspettato al quartier generale, quindi salì in ufficio.
Danny, Chin e Kono erano nei rispettivi uffici, ma quello di Nicole era vuoto. Steve entrò in quello del suo migliore amico.
«Danno, sai dov’è Nicole?» chiese.
Danny sospirò: «No, quando sono uscito per andare a prendere Grace era qui ma quando sono rientrato non c’era più. Forse è andata a casa prima, era davvero provata».
Steve annuì.
«Senti, Steve» aggiunse l’amico. «È meglio se vai a casa anche tu, non hai una bella cera». Si alzò e si avvicinò, mettendogli una mano sulla spalla. «Fratello, Evelyn ha bisogno che tu e Nicole siate concentrati al massimo, non potete mollare, ok?»
«Sì» rispose Steve e Danny colse una preoccupante esitazione nel suo tono. Mai, nei tanti anni in cui avevano lavorato insieme, gli era capitato di vederlo in quelle condizioni. Steve era sempre determinato e pronto all’azione, aveva sempre un piano in mente, per quanto folle potesse essere. Ma quella situazione lo stava logorando. Anzi, stava logorando tutti loro perché erano Ohana e se un membro della famiglia è in difficoltà, tutti soffrono con lui.
«Vai a casa, Steve» consigliò Danny. «Resta un po’ con Nicole. Ci siamo noi qui, ti chiameremo in caso di novità».
Steve seguì il suo consiglio senza obiettare e anche quello era un sintomo di quanto quella situazione lo stesse mettendo a dura prova.
Quando arrivò alla villetta in Piikoi Street vide subito che l’auto di Nicole non c’era. Aggrottò la fronte: ma dov’era finita?
Prese il cellulare e la chiamò, ma si attivò subito la segreteria. Steve provò il primo fremito di allarme, mentre faceva partire una seconda chiamata.
«Dimmi, capo» disse Kono.
«Kono, ho bisogno che mi rintracci il cellulare di Nicole» ordinò senza preamboli.
«Il cellulare di Nicole?» chiese l’altra, incredula. «Steve, va tutto bene?»
«Non lo so» replicò. «Fai in fretta, per favore».
Udì in sottofondo il rumore della tastiera del suo computer.
«Steve, non ho alcun riscontro. Il cellulare di Nicole sembra spento».
Il fremito di allarme che aveva provato prima divenne più reale.
«Riesci ad agganciare il GPS della sua Audi?»
Mentre Kono lanciava la ricerca la sentì parlare con Danny e Chin per aggiornarli.
«È all’aeroporto» gli comunicò alla fine e il suo tono esprimeva tutta la sorpresa che anche Steve stava provando.
L’uomo avviò il motore e lanciò l’auto in uno stretto testacoda, ripartendo nella direzione opposta. Eddie, sballottato sul sedile, guaì una protesta.
«Ragazzi, c’è qualcosa che non va» borbottò.
«Recupera i filmati delle telecamere fuori dal palazzo», intervenne Danny rivolgendosi a Kono. «Dobbiamo capire a che ora è andata via».
Mentre la squadra lavorava al quartier generale, Steve correva come un pazzo per le strade di Honolulu, con la sirena che ululava e i lampeggianti accesi.
«Eccola» disse Chin. «Steve, è uscita alle cinque e venti».
«Io me ne sono andato alle cinque, è uscita poco dopo di me» aggiunse Danny.
«Ok» replicò Steve. «Controllate se ha ricevuto qualche chiamata prima di uscire».
«Sì, c’è una chiamata da un numero prepagato, irrintracciabile». Chin digitò alcuni comandi. «Hanno parlato per sette minuti. Poi Nicole ha ricevuto un’altra chiamata dallo stesso numero circa mezz’ora più tardi e hanno parlato per altri cinque minuti».
Nel frattempo Steve era arrivato nel parcheggio dell’aeroporto. Kono agganciò il suo GPS e lo guidò fino a che si fermò dietro l’auto di Nicole. Scese e si avvicinò al veicolo, la mano pronta sulla pistola. L'Audi era vuota: Steve provò la maniglia.
«È aperta, le chiavi sono nel quadro».
C’era decisamente qualcosa che non andava: Nicole non avrebbe mai lasciato la sua macchina in quel modo. Qualcos’altro attirò la sua attenzione. Il profumo di vaniglia di Nicole era guastato da un sentore acre di fumo di sigaretta.
Steve premette il pulsante sulla plancia e aprì il bagagliaio. Si avvicinò con cautela, timoroso di quello che avrebbe potuto trovare, ma era vuoto eccetto che per la cassetta di sicurezza con lo stemma della Five-O e che conteneva la loro attrezzatura.
«Steve» lo chiamò Chin, «sto accedendo alle telecamere dell’aeroporto, la troveremo».
«No, lei non è qui» replicò Steve, chiudendo il bagagliaio e recuperando le chiavi. «Qualcun altro ha portato qui la RS5 e l’ha abbandonata, sperando forse che venisse rubata. Recupera i dati del suo GPS, devo sapere dov’è stata prima di arrivare qui».
Steve rimase in attesa, passeggiando avanti e indietro come un leone in gabbia. Il suo istinto gli diceva che Nicole era in pericolo ma doveva restare calmo e non farsi prendere dall'irruenza. Era certo che la scomparsa di sua moglie avesse a che fare con il rapimento di Evelyn e di sicuro qualcuno l’aveva chiamata dicendole di avere notizie della bambina, attirandola in una trappola.
«Steve, quando Nicole ha ricevuto la seconda chiamata era in quello che sembra in impianto abbandonato nei pressi di Kailua. Ti mando l’indirizzo».
«Ok». Steve aprì il baule della Camaro e infilò il giubbotto antiproiettile. Poi si mise al volante e sgommò via facendo fumare i pneumatici sull’asfalto. «Raggiungetemi là».
Arrivarono praticamente insieme e Steve fermò l’auto in derapata, scendendo con la pistola già impugnata. Ormai era buio ma alla luce dei fari vide tracce fresche di pneumatici che erano compatibili con quelli dell'Audi. Fece cenno ai suoi compagni e si dedicarono a perquisire il luogo con l’esperienza dovuta alla lunga pratica, ma non trovarono nulla. Eddie gironzolava per la zona, il naso incollato al terreno.
Alla fine si riunirono davanti al cofano della Camaro di Steve che era furibondo e, incapace di stare fermo, si muoveva nervosamente, stringendo e rilassando il pugno nel tentativo di controllarsi.
«Se non l’avrà già fatto qualcun altro, quando la ritrovo la ammazzo io per non avermi detto nulla».
«Steve, probabilmente non ha avuto scelta» provò a difenderla Danny, ma Steve non lo lasciò proseguire.
«Ti rendi conto che adesso hanno mia figlia e mia moglie?» gridò. «Tutta la mia vita ora è nelle mani di quei bastardi, chiunque siano. Hanno una leva potentissima: se mi diranno di spararmi un colpo in testa per salvarle, lo farò».
Danny gli posò le mani sul petto.
«Adesso cerca di calmarti, fratello» gli disse, cercando di farlo ragionare. «Tieni questa rabbia per quando troveremo quei maledetti, ora non ti serve». Riuscì a spingerlo indietro e a farlo appoggiare al muso dell’auto. «Chin, chiama la Scientifica. Devono setacciare questo posto, magari troveranno qualche indizio».
Lui e Kono si allontanarono un po’, lasciandoli soli. Steve rimase a testa china, svuotato di ogni emozione. Gli sembrava un orrido incubo, ma purtroppo quella era la cruda verità e il suo cervello continuava a ripetergli che le aveva perse entrambe, noioso come un disco rotto.
Tutte le torture e le percosse che aveva subìto erano niente in confronto a quello che stava passando in quel momento, al dolore straziante che gli rodeva dentro come un animale che si stesse nutrendo della sua anima.
Doveva fare qualcosa, qualsiasi cosa, fosse anche setacciare ogni singola casa di Oahu, o sarebbe uscito pazzo del tutto.
In quel momento, Eddie abbaiò e Steve sollevò la testa di scatto. Il cane aveva il muso infilato in cespuglio a pochi passi di distanza e Steve lo raggiunse.
«Ehi, bello. Fammi vedere cos’hai trovato» lo richiamò. «Bravo, Eddie».
Il distintivo di Nicole brillò quando si chinò per raccoglierlo. Lì accanto c’erano due pistole, l’arma personale di sua moglie e la piccola pistola che usava portare alla caviglia.
«Qui c’è il suo cellulare» disse Danny, raddrizzandosi con l’apparecchio in mano. «La batteria è stata staccata, di certo perché non potessimo rintracciare la posizione di Nicole».
Steve raccolse il distintivo e si raddrizzò, stringendolo nel pugno guantato. Alzò gli occhi al cielo nero su cui le stelle cominciavano a comparire come minuscole lucciole.
Ti prego, Dio. Fammele ritrovare vive. Sono tutto quello che ho: ti scongiuro, non lasciare che me le portino via. Non potrei sopravvivere.
 
Nicole tornò alla coscienza con lentezza.
Aprì cautamente gli occhi: si trovava in una stanza buia, forse un seminterrato. Era sdraiata sul fianco su un duro pavimento di cemento.
La testa le faceva un male cane e provava un intenso bruciore alla nuca. Quando mosse la mano per portarla dietro la testa si accorse che era strettamente legata con una ruvida corda. Fu costretta a muovere entrambe le mani e trattenne un gemito quando sfiorò la pelle sulla nuca: aveva una specie di piccola ustione ed era quella a provocarle dolore.
All’improvviso ricordò com’era finita lì: la scarica del teaser che l’aveva tramortita le aveva lasciato quei segni dietro il collo.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato perché le avevano tolto l’orologio e in quel luogo non c’erano finestre che potessero aiutarla a valutare lo scorrere del tempo. Di sicuro, dopo averle fatto perdere conoscenza, l’avevano spostata: era praticamente certa di non essere più al vecchio impianto di depurazione.
Si mosse con cautela, girandosi a pancia in su. Qualcosa tintinnò e Nicole percepì un peso sul piede. Si raddrizzò con fatica e fece scorrere le mani fino alla caviglia destra: aveva diversi giri di una pesante catena d’acciaio avvolti attorno alla caviglia e fermati con un grosso lucchetto.
Afferrò la catena e provò a tirare ma non cedette di un millimetro: probabilmente era fissata ad un muro o a qualche altro supporto molto stabile, quindi desistette. Non poteva sapere quanto tempo sarebbe rimasta lì dentro e doveva risparmiare le forze.
Sedette per terra: a parte l'ustione sulla nuca non aveva altre ferite, se non contava quelle al suo orgoglio. Si era fatta fregare come una novellina, pur se prima di partire aveva avuto la sensazione che potesse trattarsi di una trappola.
Anche perché, a ben pensarci, cosa aveva ottenuto? Non sapeva se Evelyn fosse viva, né dove fosse. E ora, i rapitori avevano preso anche lei: qualsiasi cosa avessero chiesto a Steve, lui avrebbe acconsentito pur di riportarle a casa sane e salve.
Già, Steve. Se non l’aveva già fatto, avrebbe rintracciato la sua Audi con il GPS ma, quando fosse arrivato sul luogo, non avrebbe trovato altro che le sue armi e il distintivo. Di certo era furioso con lei per non avergli parlato della telefonata che aveva ricevuto e poteva immaginare come si sentisse in quel momento, con tutta la sua famiglia nelle mani dei rapitori.
Non aveva molto senso tormentarsi con quei pensieri. Quello che doveva fare era raccogliere quante più informazioni possibili per cercare di uscire da lì. Anche perché quel buio compatto sembrava quasi avere una consistenza solida e doveva fare qualcosa per cercare di tenere impegnato il cervello.
Misurò la catena che risultò molto corta, forse meno di un metro. Si alzò in piedi, tendendo le braccia per cercare di capire dove si trovasse. Trovò l’anello infisso nel muro a cui era fissata la catena e provò di nuovo a smuoverlo ma senza risultati.
Si trovava in un angolo della stanza perché riuscì a toccare due pareti che al tatto risultarono di cemento come il pavimento. Tese le braccia verso l’alto e si accorse che, mettendosi in punta di piedi, riusciva a toccare il soffitto che, a differenza delle pareti, era di legno.
Il buio era fitto come non credeva possibile e attorno a lei non c’era davvero nulla che potesse esserle utile per liberarsi o almeno per cercare di capire dove si trovasse. C’era solo un secchio di latta, che probabilmente doveva servirle per i bisogni. Così, rassegnata, sedette per terra e si raggomitolò nell'angolo. Chi l’aveva portata in quel luogo prima o poi sarebbe tornato e allora forse avrebbe avuto un’opportunità.
Si umettò le labbra secche e si accorse in quel momento di avere una gran sete. In effetti, la temperatura nella stanza era soffocante: la maglietta era zuppa di sudore e l’escoriazione sulla nuca bruciava come se ci avessero versato sopra dell'acido.
Si impose di non pensarci. Steve le aveva insegnato delle tecniche utili a rilassarsi e ad estraniarsi dalle situazioni spiacevoli e le mise in pratica, cercando di regolare il respiro e il battito del cuore.
Non seppe quanto tempo era passato, ma alla fine udì il rumore di una chiave che girava in una serratura e una lama di luce cadde sul pavimento. Nicole spalancò gli occhi, guardandosi attentamente attorno.
Era effettivamente in un seminterrato. Una scala di legno laccato di bianco scendeva dal piano di sopra, dall’altro lato della stanza rispetto a dove era lei. La luce veniva dalla porta che era stata aperta alla sommità della scala, ma era luce artificiale quindi Nicole non poteva capire se era notte o giorno.
L'angolo in cui si trovava lei era completamente vuoto ma, al di fuori della sua portata, c’erano scaffali pieni di roba. Riconobbe un set di valigie, degli attrezzi da giardino e un bel po’ di scatolame. Sembrava il normale seminterrato di una normale casa di Oahu. Poteva essere ovunque.
Qualcuno prese a scendere la scala. Nicole rimase immobile nel suo angolo: osservava la persona che stava scendendo ma, con la luce alle spalle, non riusciva a vederla. Indossava delle semplici sneakers e un paio di pantaloni bianchi; era una donna e ne ebbe la certezza quando vide che indossava una camicetta a fiori.
La donna arrivò al fondo della scala e Nicole strinse gli occhi nel tentativo di vederle il volto, ma quella sembrava ben attenta a mantenerlo nell'ombra. La sconosciuta rimase in silenzio a lungo, fissandola. Se cercava di intimidirla, aveva sbagliato persona.
«È un grande piacere averti qui, tenente».
«Vorrei dire lo stesso, ma la sistemazione lascia un po’ a desiderare a mio avviso» replicò Nicole, sollevando le mani strettamente legate.
L’altra ridacchiò.
«Sì beh, scusa se non è l'Hilton». Nicole conosceva quella voce, ne era sicura. Solo che non riusciva a inquadrarla bene. Era certa di averla già sentita, e anche molto di recente. «Avrei voluto fare le cose in modo diverso, sai? Non era necessario arrivare a questo punto» continuò.
«Senti, stronza» sbottò Nicole. «Non stare tanto a menarla per le lunghe: dov’è mia figlia?»
«Oh, sì. La piccola Evelyn».
Sentirla pronunciare il nome di Evelyn in quel modo le fece calare una nebbia rossa davanti agli occhi ma si impose di stare calma e di ascoltare quello che quella tizia aveva da dire.
«Evelyn sta bene, puoi stare tranquilla» disse, suadente. «Ma temo di non poter mantenere quello che ti è stato detto al telefono». Nicole tacque finché l’altra proseguì. «Credo che non sia una buona idea farti vedere la bambina».
Nicole sogghignò: «Non ci crederai ma me l'aspettavo».
«È solo che le ho già detto che la mamma se n’è andata, che la mamma ha abbandonato lei e papà. È ovvio che ora non posso permetterti di vederla».
La donna balzò in piedi, rapida come un fulmine e si tese in avanti per quanto glielo permetteva la catena.
«Tu hai fatto cosa?» gridò.
«Non devi preoccuparti, Evelyn andrà nelle migliori scuole e avrà il meglio che si può trovare a Oahu. Ci penserò io. Anzi» aggiunse, «ci penseremo io e il comandante McGarrett».
Il modo in cui pronunciò il nome di suo marito le fece tornare di colpo la memoria. Ma sì, quella voce! Come aveva fatto a non riconoscerla prima? Avevano pensato a pedofili, assassini, trafficanti di esseri umani… e Evelyn era stata rapita da…
«Jessica?»
«Oh, hai capito, finalmente. Ti facevo più sveglia, tenente».
«Jessica, cosa stai facendo?» domandò Nicole.
«È colpa tua!» urlò, avventandosi contro Nicole che alzò istintivamente le mani per proteggersi il viso. «Bastava che ti mettessi da parte e mi lasciassi vivere in pace con il mio Steve. Invece hai voluto fare di testa tua e adesso pagherai con la vita».
«Sei completamente pazza».
«Io non sono pazza!» le gridò in faccia, estraendo la pistola che aveva tenuto infilata nella cintura sulla schiena e gliela puntò al volto.
Nicole si abbassò di scatto.
«Calma! Ehi, calma!» disse, sollevando lentamente le mani e tenendole davanti a Jessica, sperando che si tranquillizzasse e abbassasse l’arma. Intanto calcolava la distanza che la separava da lei, ma era troppa: se si fosse lanciata su Jessica avrebbe rischiato di prendersi un proiettile in corpo e tutto sarebbe finito in quello scantinato buio.
«Hai ragione tu, Jessica. Non sei pazza» tentò di blandirla. «Ho sbagliato a dirti quelle cose e ti chiedo scusa. Sono contenta che Evelyn sia con te, so che baderai a lei al meglio». Tutto dentro di lei si rattrappiva dal ribrezzo nel pronunciare quelle parole, ma doveva calmare Jessica.
La mano della ragazza tremava, il dito era piegato sul grilletto. Nicole rimase immobile a testa china, sperando che lo prendesse per un atto di sottomissione. Funzionò perché alla fine Jessica abbassò la pistola e salì le scale senza dire altro. La porta si richiuse e Nicole piombò di nuovo nell’oscurità.
Quella ragazza non le era piaciuta dal primo momento in cui l’aveva vista, ma non l'avrebbe mai creduta capace di arrivare a tanto. Era decisamente pazza: per qualche motivo tutto da scoprire doveva aver puntato Steve e si era fatta l’idea che, eliminata Nicole, lui sarebbe stato libero per lei. Il pensiero che quella psicopatica armata tenesse in custodia Evelyn la faceva rabbrividire.
Doveva aggrapparsi all’idea che non avrebbe mai fatto del male alla bambina, era l’unica cosa che poteva sostenerla. Quanto a lei, la sua situazione non era delle più rosee: sebbene fosse sicura che Jessica non aveva il coraggio di ucciderla, la sarebbe bastato tenerla rinchiusa in quello scantinato. Se fosse rimasta bloccata in quel posto soffocante, senz’acqua, per un tempo sufficiente, non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di sprecare un proiettile.
«Devo trovare il modo di andarmene da qui» mormorò a se stessa e, afferrando di nuovo la catena, prese a strattonarla con forza.

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Capitolo 10
*** Tra le mie braccia ***


Evelyn e Nicole sono scomparse
e a Steve non è arrivata alcuna richiesta di riscatto.
Chi sono questi misteriosi rapitori?

Steve stava impazzendo. Evelyn mancava ormai da nove giorni, Nicole da quasi ventiquattr’ore. Non aveva notizie di nessuna delle due, né era arrivata alcuna rivendicazione.
Non riusciva a capire cosa fosse successo, non riusciva a pensare. Tutta quella situazione era completamente surreale: perché rapire Eve e Nicole per poi non chiedere qualcosa in cambio?
Danny bussò con le nocche alla porta di vetro del suo ufficio e Steve gli fece cenno di entrare.
«Devo andare, Steve» gli disse in tono di scusa. «Devo andare a prendere Grace».
«Sì, ok» rispose Steve, assente.
Quei giorni lo avevano provato oltre ogni dire. Danny si accorse delle occhiaie scure e gli parve che avesse nuove rughe sulla fronte e attorno alla bocca. Non poteva immaginare se stesso nella medesima situazione: non ce l’avrebbe fatta. Eppure Steve andava avanti, non mollava: perdere non era nel suo vocabolario.
«Dovresti dormire in un vero letto» sottolineò Danny, lanciando un’occhiata alla coperta gettata sul divano: quella notte Steve non se l’era sentita di tornare nella sua casa vuotae aveva dormito in ufficio. «Puoi venire da me se vuoi».
«Ti ringrazio, Danno. Ma sto bene».
«Non è vero, ma fingerò di crederti»rispose, salutandolo e uscendo.
Quando fu solo, Steve cedette alla tentazione di lasciarsi andare. Era stanco, mortalmente stanco. Quella immobilità, la mancanza di informazioni… tutta quella storia lo stava uccidendo poco alla volta e, forse per la prima volta in vita sua, non aveva idea di come risolverla.
Appoggiò le braccia sulla scrivania e vi abbandonò sopra la testa. Si addormentò immediatamente.
Si svegliò di soprassalto mezz’ora più tardi, quando il suo cellulare squillò accanto al suo orecchio. Si passò una mano sul viso nel tentativo di spazzare via i residui di sonno.
«Dimmi, Duke» disse, aprendo la comunicazione.
«Steve, c’è una segnalazione per Evelyn» rispose Duke. «Si tratta di una donna, sembra molto agitata».
«Passa pure» replicò Steve, raddrizzandosi sulla poltrona.
Udì un fruscìo e un respiro dall’altra parte.
«Sono il comandante McGarrett. Con chi parlo?»
Non ci fu risposta. Un fremito gli corse lungo le braccia: aveva la sensazione che quella telefonata fosse diversa dalle altre. Tacque, in attesa.
«Non ho molto tempo» esclamò all’improvviso una voce dall’altro capo. «Loro potrebbero scoprirlo».
Steve balzò in piedi. Ora era assolutamente certo che quella telefonata fosse diversa.
«Ok, stia calma» cercò di rassicurarla. «Chi potrebbe scoprirlo?» tentò, ma la donna si agitò.
«No, no» ansimò. «Non posso farlo».
«La scongiuro, non riattacchi» pregò. «Lei sa dov’è Evelyn? Sa dov’è mia figlia? La prego». Ci fu un lungo silenzio, talmente prolungato che Steve controllò che non fosse caduta la linea. «È ancora lì?»
«3845 PokapahuPlace. Venga solo» e riattaccò.
Steve non ci pensò nemmeno per un secondo. Afferrò le chiavi e corse di sotto.
Conosceva l’indirizzo: era una zona residenziale di lusso ai piedi del cratere di Diamond Head. La raggiunse in dieci minuti, pur evitando sirene e lampeggianti: la donna gli era sembrata molto preoccupata che la scoprissero quindi non voleva mettere in allarme i rapitori, chiunque fossero.
Percorse lentamente tutta la via: il 3845 era l’ultima villetta. Era una bella casa in stile moderno, costruita su un terrapieno cintato da una bordura di bassi cespugli, perfettamente potati tutti nella stessa forma e alla stessa altezza.
Steve parcheggiò la Camaro sul vialetto, davanti alla porta del garage. Le luci in casa erano accese ma le tende erano tirate e non gli permisero di vedere all’interno.
Scese dall’auto e nascose la pistola con i lembi della camicia, avvicinandosi alla porta d’ingresso e suonando il campanello. Rimase lì davanti, guardandosi intorno. Non riusciva a capire come quel posto potesse essere collegato al rapimento di Evelyn: era una zona di lusso, perché qualcuno della zona avrebbe dovuto rapire sua figlia?
Certo, c’era la possibilità che Evelyn non fosse tenuta prigioniera nei paraggi, ma allora perché la donna che lo aveva chiamato gli era sembrata così spaventata dal fatto che potessero scoprirla?
La porta si aprì e Steve si voltò.
«Jessica?» chiese sorpreso. Era l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere e un furioso campanello d’allarme prese a squillargli assordante nel cervello.
«Svelto, entri» disse in tono pressante, sbirciando le ombre dietro di lui, timorosa che qualcuno li vedesse insieme. Vagamente confuso, Steve la oltrepassò ed entrò in casa ma aveva fatto appena pochi passi quando la scarica del teaser lo tramortì, facendolo stramazzare sul pavimento.
Quando ritornò in sé, Steve era disteso di schiena su un tappeto, i polsi bloccati da una fascetta di plastica. Scosse la testa per schiarirsi la mente, ignorando il mal di testa lancinante che il movimento gli provocò.
Si guardò intorno. Era in una grande sala arredata in stile moderno con mobili di pregio. Il tappeto su cui era disteso era soffice e spesso e si armonizzava con il resto della stanza con la sua fantasia astratta.
A poca distanza da lui, seduta con le gambe accavallate su un divano di pelle nera, Jessica stava leggendo una rivista, del tutto ignara che lui si fosse svegliato.
«Dov’è Evelyn?» chiese con voce dura.
Jessica abbassò la rivista e la appoggiò sul tavolino. Poi si chinò su di lui.
«Oh, tesoro» disse con dolcezza. «Sono così felice che tu ti sia finalmente svegliato».
Steve si mosse, strattonando le fascette che gli morsero dolorosamente la carne.
«Amore, ti farai male così». La voce di Jessica trasudava miele.
«Dov’è Evelyn?»ripeté e il sorriso sbocciò sulle labbra di Jessica.
«Nostra figlia è di là che dorme» sussurrò Jessica, accarezzandogli il viso. Il cuore di Steve perse un battito: Evelyn era lì, in quella casa. Non gli era tuttavia sfuggito il modo in cui aveva calcato quelle due parole e d’un tratto colse uno strano luccichio negli occhi di Jessica e notò un lieve tremito nelle sue mani.
«Mi dispiace di essere tornato così tardi stasera» improvvisò. «Avrei dovuto avvisarti che avrei fatto tardi al lavoro».
«Non preoccuparti, amore» replicò Jessica senza un istante di esitazione. «So quanto è importante il tuo lavoro. Ciò che fai, è per me ed Evelyn».
Aveva colpito nel segno. Jessica era sicuramente disturbata e aveva sviluppato un’ossessione per lui, tanto da arrivare a prendere la bambina e a pensare che fosse sua. Di certo era coinvolta anche nella sparizione di Nicole.
«Dov’è Nicole?» chiese con dolcezza. L’espressione sul viso di Jessica cambiò in un lampo, facendosi livida di rabbia.
«Non avrebbe dovuto mettersi tra di noi» sbottò, voltandogli le spalle e prendendo a camminare per il salotto. Steve vide che aveva una pistola, infilata nella cintola dei jeans. «Voleva portarti via da me. Dovevo fare qualcosa, capisci?»
Steve avrebbe voluto avventarsi su di lei e costringerla a parlare, ma si impose di stare calmo. Jessica era chiaramente pazza e doveva muoversi con prudenza per non spaventarla e ottenere da lei le informazioni che gli servivano.
Si mosse con cautela, rimettendosi in piedi.Non appena si fu raddrizzato, Jessica gli si fece incontro. Si appoggiò a lui, posandogli la testa sul petto. L’istinto gli gridò di spingerla via, ma non lo fece. L’occhio gli cadde sulla poltrona alle spalle di Jessica: la sua pistola era appoggiata con noncuranza sul cuscino.
Si scostò con delicatezza e le fece alzare il viso verso il suo.
«Cos’hai fatto a Nicole?» domandò e di nuovo vide quel luccichio febbrile negli occhi di lei.
«Ancora nulla» gli rispose e Steve faticò a trattenere il sollievo. Quel “ancora nulla” voleva dire che sua moglie era ancora viva. Doveva solo trovare il modo per farsi dire dove fosse in quel momento.
«Perché sei così interessato a lei?» indagò Jessica, socchiudendo gli occhi.
«Non lo sono» negò, imponendosi di accarezzarle il viso. La sentì tremare sotto il suo tocco, ma la sua espressione era sospettosa.
«Non dovresti pensare alle altre donne, dovresti pensare solo a me» esclamò, la voce spezzata dalla rabbia.
«Io penso solo ed esclusivamente a te, Jessica» replicò in un mormorio accorato, ma capì di essere stato troppo precipitoso nel chiederle di Nicole.
Jessica fece due passi indietro, scostandosi da lui.
«Sì, questa l’ho già sentita» sibilò. «Anche Cameron aveva detto la stessa cosa, e intanto se la faceva con la mia migliore amica. Anche tu te la fai con quella puttana: è così, Steve?»
Steve fece per replicare che non era vero nulla, ma un movimento lo distrasse. Evelyn comparve nel corridoio: indossava un pigiamino rosa e abbracciava un peluche a forma di drago che ricordava vagamente Scintilla, avanzando a piedi scalzi stropicciandosi gli occhi.
Il tempo si fermò. Il cervello di Steve generò e scartò decine di piani per prendere la bambina, ma non poteva dimenticare che Jessica era armata. Non gli sarebbe importato beccarsi una pallottola pur di salvare sua figlia, ma non poteva metterla in pericolo in quel modo.
Mentre ancora stava cercando di decidere cosa fare, Jessica si mosse fulminea. Prese in braccio Evelyn, stringendola al petto.
«Tesoro, mi dispiace» disse, rivolta alla bambina che non si era accorta che Steve era nella stanza. «Papà purtroppo non ci vuole bene».
«Evelyn, sono papà» la chiamò e la bambina si raddrizzò e si volse verso di lui. L’espressione di pura gioia che le vide sul volto fu una staffilata in pieno petto e rischiò davvero di metterlo in ginocchio.
«Papà!» gridò, divincolandosi dalla stretta di Jessica per farsi mettere a terra e correre da lui. La donna però non la mollò e Steve la vide portare la mano dietro di sé, evidentemente per prendere la pistola.
«Se papà non ci vuole, non ci avrà nessuno» disse sommessamente.
Non poteva più attendere. Jessica aveva superato il punto di rottura e non c’era più nulla che lui potesse fare o dire per tranquillizzarla. Doveva agire e doveva farlo subito.
Si lanciò in avanti e, nonostante i polsi ancora legati, afferrò la pistola e la puntò verso Jessica. La sua anima si accartocciò al pensiero di avere un’arma puntata in direzione di Evelyn, ma ancor più lo spaventò vedere l’arma che Jessica aveva recuperato e che ora puntava alla testa di sua figlia.
«È finita, Jessica» disse, con una calma che era ben lungi dal provare. «Metti giù la pistola».
Evelyn era immobile, i grandi occhi blu colmi di terrore, ma non piangeva e Steve sentì il petto scoppiare d’orgoglio.
«Avremmo potuto essere felici insieme» urlò la donna, il volto trasfigurato dall’ira. «Potevamo crescere la bambina con amore, sarebbe stato meraviglioso».
«Metti giù la pistola» scandì lentamente, ma Jessica proseguì come se lui non avesse parlato.
«Sarebbe stata una vita meravigliosa, ma tu hai scelto lei. LEI!» gridò, ormai completamente fuori controllo. «Adesso non avrai più niente. Non avrai lei, non avrai me e nemmeno la bambina».
Jessica aveva ancora Evelyn stretta al petto ma si era sporta in avanti per sputargli addosso tutta la sua rabbia. I suoi occhi videro una piccolissima opportunità: il suo cervello la registrò ancor prima che lui ne fosse consapevole e mandò un impulso al suo indice che tirò il grilletto.
Colpì Jessica alla spalla destra. La pistola le sfuggì di mano e si accasciò. Steve balzò in avanti e si chinò per prendere in braccio Evelyn che gli si aggrappò subito al collo, nascondendo il volto contro la sua spalla, mentre lui recuperava la pistola di Jessica che piagnucolava tenendosi la ferita.
Steve individuò la cucina e fece sedere Evelyn sul bancone. Lo stringeva con forza sorprendente, sicuramente terrorizzata dall’esperienza vissuta.
«Eve, devi lasciarmi adesso. Papà deve liberare le mani» le spiegò ma la bambina scosse la testa. «Papà resta qui vicino a te, amore. Ma devi lasciarmi andare, ok?»
Lentamente la stretta si allentò. Steve prese un grosso coltello dal lavandino e, con un po’ di fatica, riuscì a tagliare la fascetta.
«Ora devi restare qui, Evelyn» le disse. Doveva assolutamente immobilizzare Jessica prima che si riprendesse dallo choc. «Papà torna subito».
Evelyn raccolse le gambe al petto e appoggiò la testa sulle ginocchia. Steve le diede un bacio sul capo e tornò precipitosamente nell’altra stanza. Quando lo vide, Jessica parve tornare in sé e cercò di alzarsi.
Steve l’afferrò per le braccia e la sollevò senza sforzo. La sbatté con violenza contro la parete, torcendole le braccia all’indietro senza alcun riguardo per la ferita. La donna gemette e lui provò un piacere feroce. Prese una fascetta dalla tasca e le bloccò i polsi, stringendola finché le penetrò profondamente nella carne.
Poi la fece girare e la spinse nuovamente contro il muro, puntandole la pistola al volto.
«Dov’è Nicole?» le gridò in faccia, ma Jessica piagnucolava e non diede cenno di averlo sentito. Ripeté la domanda altre due volte, ma capì che non ne avrebbe ricavato nulla e aveva fretta di tornare da Evelyn.
La fece sedere su una sedia della sala da pranzo, usando una seconda fascetta per assicurarla alla gamba del massiccio tavolo in acciaio e cristallo. Poi tornò in cucina.
Evelyn non si era mossa di un millimetro e Steve la raggiunse. Le fece alzare la testa: i suoi occhi erano colmi di lacrime e tanto grandi da riempirle tutto il viso.
«Va tutto bene. È finita, amore. È tutto finito, c’è papà qui con te». Evelyn scoppiò a piangere e gli si gettò fra le braccia.
Steve la strinse, sentendo quel piccolo corpicino tremare contro il suo. L’ansia e le preoccupazioni di quel giorno evaporarono in un istante e le gambe gli cedettero. Cadde in ginocchio mentre le lacrime sgorgavano dai suoi occhi, inaspettate e brucianti come acido; l’ultima volta che aveva pianto era stato al funerale di sua madre.
Continuò a stringere sua figlia, mormorandole una serie infinita di rassicurazioni, accarezzandola e vezzeggiandola, continuando a ricoprirla di baci finché si calmò e alzò la testa.Steve prese il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni: le asciugò le lacrime e le soffiò il naso.
«Jessica mi ha detto che la mamma non ci vuole più bene ed è andata via» disse tra i singulti. «Voleva che chiamassi lei mamma e quando piangevo mi diceva che tu arrivavi presto, ma non venivi mai».
«Era una bugia. Jessica era una donna molto cattiva» commentò Steve. «La tua mamma ti ama da morire, Eve».
«Voglio andare dalla mamma. Andiamo a casa, papà?»
Steve non ebbe animo di dirle che Nicole era scomparsa perciò prese tempo.
«Prima dobbiamo chiamare lo zio Danny e dirgli che venga a prendere Jessica per portarla in prigione» le spiegò con calma.
Prese il cellulare e compose il numero dell’amico.
«Ho trovato Evelyn» disse quando l’altro aprì la comunicazione.
«Dov’è?»
«Adesso è al sicuro, in braccio a me». Gli diede velocemente l’indirizzo e lo pregò di raggiungerli al più presto, chiamando anche Chin e Kono.
Venti minuti più tardi, fu lui stesso ad aprire la porta.
«Piccola Rambo!» esclamò Danny quando la vide in braccio a Steve. La piccola lo salutò ma quando Danny cercò di prenderla in braccio, strinse le braccia al collo di Steve.
«Amore, io adesso devo parlare con Jessica, prima che vada in prigione. La zia Kono starà con te, va bene?» mormorò Steve.
«Voglio stare con te» si lamentò e Steve sospirò. La voglia di strangolare Jessica per le ferite interiori che aveva procurato a sua figlia crebbe a dismisura, accorciandogli il respiro e facendogli tendere tutti i muscoli del corpo.
«Lo so, ma farò presto». Fece cenno a Kono di avvicinarsi e quando vide cos’aveva in mano sorrise. «Guarda cosa ti ha portato la zia».
Kono sorrise mostrandogli Scintilla. Doveva averla recuperata nell’ufficio di Nicole prima di raggiungerlo lì dato che era sulla scrivania da quando lo aveva recuperato la notte che la piccola era scomparsa: Evelyn sorrise e si tese verso di lei, lasciando cadere il peluche surrogato che le aveva dato Jessica. Steve la passò fra le braccia dell’amica, facendole cenno con il capo di allontanarsi; lei annuì e si allontanò con la bambina.
Steve si voltò e rientrò in casa, seguito da Danny e Chin che notarono subito la macchia di sangue sul pavimento.
«La stronza è di là» annunciò senza inflessione nella voce. Danny scambiò un’occhiata preoccupata con Chin: la cosa non prometteva per niente bene.
Quando entrarono, Jessica girò uno sguardo atterrito su di loro.
«Vi prego, devo andare in ospedale. Sono ferita» supplicò. La camicia era intrisa di sangue che le era corso lungo il braccio ed era gocciolato sul pavimento.
«Non ci andrai» replicò Steve tranquillo. «Non finché non mi avrai detto dov’è mia moglie».
«Io non so dov’è» mugugnò.
«Non mentire!» proruppe, la voce secca e tesa come un colpo di pistola.Poi abbassò la voce a poco più di un sussurro: «Ti spiego una cosa molto semplice: tu non hai alcun valore per me. Se non avessi prestato giuramento, ti avrei già uccisa con le mie mani per quello che hai fatto alla mia famiglia. Troverò mia moglie con o senza il tuo aiuto ma finché non mi dirai dov’è, nessuno di noi chiamerà un’ambulanza per aiutarti».
Jessica ansimava come se avesse corso, continuando a far saettare lo sguardo da Steve agli altri due.
«Vi prego, ho bisogno di un medico» continuava a supplicare.
«Dicci quello che vogliamo sapere e lo avrai» rincarò Danny. «Quella ferita sembra davvero brutta, rischi di perdere il braccio».
La minaccia spaventò alquanto Jessica che sbiancò ancor di più.
«Io non volevo…» cominciò.
«Smettila!» le intimò Steve. «Non ci saranno attenuanti, non ci saranno sconti. Me ne assicurerò personalmente. L’unica cosa che avrai se collaborerai sarà un medico e la vita salva, che è molto più di quanto meriteresti». Si chinò e le strinse la spalla ferita, cavandole un rantolo. «LEI DOV’È?» gridò.
«Nel seminterrato» sputò infine e Steve partì di corsa, seguito da Danny.
La porta del seminterrato era in cucina. Era chiusa a chiave, ma Steve fece un passo indietro e la sfondò con un calcio. Si precipitò giù dalle scale, lasciando a Danny l’incombenza di trovare l’interruttore e accendere la luce.
Nicole era distesa a terra, immobile. C’era un caldo infernale in quel seminterrato e Steve si gettò su di lei. Era priva di sensi e la mano gli tremò quando la mosse per toccarle il collo in cerca del battito. Lo trovò e rilasciò d’un colpo tutto il fiato che aveva trattenuto.
Prese il coltello dalla tasca dei pantaloni e fece scattare la lama.
«Danny, vedi se trovi qualcosa per troncare quella catena» ringhiò, mentre tagliava la spessa corda che le bloccava i polsi. Doveva aver cercato a lungo di liberarsi perché la pelle dei polsi era livida ed escoriata.
Danny arrivò con un tronchese e attaccò la catena che ben presto cedette. La svolse dalla caviglia di Nicole e, appena ebbe finito, Steve la prese fra le braccia e la portò di sopra.
La adagiò con delicatezza sul divano.
«Danny, prendi dell’acqua e chiama un’ambulanza» ordinò. «Chin, dì a Kono che non faccia entrare Evelyn per nessun motivo, non voglio che veda Nicole in questo stato, è già abbastanza spaventata».
Entrambi scattarono ai compiti loro assegnati. Nicole era ancora priva di sensi: aveva le labbra secche e tirate ed era pesantemente disidratata.
«Nicky» la chiamò. «Nicky, amore, mi senti?»
Provò a schiaffeggiarle piano le guance ma Nicole non rispose. Danny arrivò con una caraffa di acqua e un bicchiere.
«L’ambulanza sta arrivando» lo informò.
Steve versò un po’ d’acqua nel bicchiere poi le prese delicatamente la testa e le fece colare poche gocce in bocca. Le massaggiò la gola, stimolandola a deglutire.
«Prendi degli asciugamani, bagnali e portali qui» disse, somministrandole altra acqua.
Danny tornò con gli asciugamani bagnati. Steve la sollevò delicatamente e le tolse la maglietta. Distese un panno umido sul divano e la adagiò di nuovo, coprendola con un secondo asciugamano bagnato. Le riprese la testa e la fece bere di nuovo, goccia a goccia, mentre Danny le posava una salvietta bagnata sulla fronte.
Versò altra acqua nel bicchiere e glielo accostò alla bocca e stavolta Nicole deglutì da sola. Posò il bicchiere e la chiamò di nuovo.
«Nicole, rispondimi. Nicky, sono Steve. Avanti, rispondimi, piccola».
Finalmente la donna aprì gli occhi. Sbatté più volte le palpebre finché fissò lo sguardo su di lui e lo mise a fuoco.
«Steve» esalò con un filo di voce.
«Sono qui» la rassicurò. Le porse di nuovo il bicchiere e Nicole prese un lungo sorso d’acqua. «Piano, dolcezza» raccomandò.
«Steve, è stata Jessica. Lei è…» biascicò e lui annuì.
«Lo so, so tutto. Jessica è di là, inoffensiva. Evelyn è fuori con Kono».
Non appena nominò la bambina, gli occhi di Nicole si spalancarono e cercò di mettersi a sedere.
«Ehi, vacci piano!» protestò Steve.
«Devo vedere Evelyn» gemette. «Dov’è?»
«Evelyn sta bene, tu però devi rimetterti giù e restare tranquilla. L’ambulanza sarà qui tra poco». Steve tentò di blandirla, ma Nicole gli afferrò il braccio con forza.
«Ti prego, ho bisogno di abbracciare mia figlia» supplicò e lui non resistette all’accorata preghiera che lesse in quegli occhi.
«Danny, nel bagagliaio della Camaro c’è una maglietta pulita». Danny si mosse per andare a prenderla, ma Steve lo fermò. «Poi dì a Kono di portare qui Evelyn».
Danny tornò qualche istante più tardi e le porse la maglietta. Era di Steve e le stava abbondante, ma non aveva importanza. Poi chiuse la porta scorrevole che dava in salotto, in modo che Evelyn non dovesse rivedere Jessica.
«Aiutami ad alzarmi» disse Nicole aggrappandosi a Steve che, brontolando che secondo lui era una pessima idea, la aiutò a mettersi in piedi.
Kono aprì la porta ed entrò. Teneva in braccio Evelyn e Nicole non riuscì a trattenere un ansito quando la vide.
«Guarda un po’ chi c’è» disse Kono alla piccola che si voltò e vide la madre.
«Mamma!» gridò. Kono la mise subito a terra ed Evelyn le corse incontro.
Nicole si chinò con qualche difficoltà e la afferrò al volo. Le gambe le cedettero, ma Steve la sostenne e la aiutò a sedersi sul divano. Con le ultime riserve di forza che aveva sollevò Evelyn e la strinse a sé.
Scoppiò a piangere. Tutta la paura di quei giorni, la tensione, l’ansia di non riuscire a ritrovare Evelyn ruppero gli argini e la donna si lasciò andare a quel pianto liberatorio. Anche Evelyn piangeva, rannicchiata contro il suo ventre, quel ventre che l’aveva portata per nove mesi.
Non riusciva a credere di averla ritrovata, non riusciva a pensare ad altro se non a Evelyn, ora al sicuro fra le sue braccia.
La scostò un po’ da sé, prendendole il viso fra le mani.
«Stai bene?» le domandò convulsamente. «Ti ha fatto del male?»
«Sto bene, mamma» singhiozzò la bambina e Nicole la strinse di nuovo contro il seno. «Avevo tanta paura».
«Non devi più avere paura, tesoro mio» la consolò. «Adesso mamma e papà sono qui, andrà tutto bene».
Le sirene dell’ambulanza fecero udire il loro lamento e pochi istanti più tardi i paramedici entrarono.Chin li accompagnò in salotto perché si occupassero di Jessica.
«Dovrebbero badare prima a te» borbottò Steve.
«Sto bene» replicò Nicole. «Ho tutto quello che mi serve proprio qui» aggiunse, prendendolo per mano.
Pochi minuti più tardi i paramedici portarono fuori Jessica, assicurata a una barella. Uno di loro si avvicinò a Nicole.
«Dovrei darle un’occhiata, signora».
«Niente in contrario, ma non ho intenzione di posare la bambina».
Il medico scambiò un’occhiata con Steve che annuì, rassegnato.
Le misurò la pressione e l’auscultò con lo stetoscopio, ma quando le disse che sarebbe stato opportuno che la portassero in ospedale per un controllo, lei scosse la testa e si rivolse a Steve.
«Andiamo a casa».
«Tesoro, credo che dovresti farti controllare» provò, ma senza troppa convinzione.
Nicole volse lo sguardo sul medico.
«Grazie, ma sto bene» disse di nuovo e quello raccolse il suo borsone e se ne andò.
«Noi andiamo con loro» disse Chin, e lui e Kono presero l’auto e seguirono l’ambulanza.
Nicole scostò ancora Evelyn da sé.
«Piccola, la mamma è molto stanca e non riesce a portarti alla macchina. Vai con lo zio Danny».
«Andiamo a casa?» domandò Evelyn con la sua vocetta.
«Sì, zuccherino» intervenne Steve. «Andiamo a casa».
Steve sorresse la moglie fino all’auto, aiutandola poi a prendere posto sul sedile del passeggero. Danny le mise in braccio la bambina e si tese per mettere la cintura di sicurezza ad entrambe.
«Sono felice che vi abbiamo ritrovate» mormorò, baciandole la guancia.
Steve si mise al volante e tornò con calma a casa. Rimasero in silenzio per tutto il tragitto tanto che quando arrivarono, Evelyn dormiva con un sorriso appena accennato sulle labbra.
L’aiutò a scendere dall’auto e la sostenne mentre raggiungevano la porta di casa. Nicole fece per salire le scale ma barcollò sul primo scalino e Steve fu veloce ad afferrarla.
«Ci penso io» disse e prese in braccio entrambe e portandole di sopra.
Nicole mise Evelyn nel loro letto: la piccola si raggomitolò abbracciando Scintilla e si mise il pollice in bocca.
Steve scese al piano di sotto e tornò poco dopo con della frutta, dell’acqua e la cassetta del pronto soccorso. Mentre Nicole sbocconcellava la frutta e beveva l’acqua a piccoli sorsi, lanciando spesso occhiate alla bambina addormentata, Steve aprì la cassetta e bagnò un batuffolo con del disinfettante, passandoglielo poi sulle abrasioni che aveva sui polsi. Non parlava e non la guardava negli occhi.
«Sei arrabbiato?» gli chiese, timorosa.
«Arrabbiato?» le fece eco. «Direi di no. Direi che furioso è un termine più appropriato».
Sapeva a cosa si riferiva. Quando se ne era andata, seguendo quella telefonata che era ovvio fosse una trappola, aveva agito in modo sconsiderato. Avrebbe dovuto fargli sapere cosa stava facendo, trovare un modo per mandargli un messaggio. Invece, accecata dalla promessa di rivedere Evelyn, aveva agito da sola.
La sua fortuna era che Jessica avesse alla fine accelerato i tempi. Se avesse aspettato solo un altro po’, lei sarebbe stata spacciata. Aveva fatto tutto benissimo fino a quel momento, ma poi era diventata ingorda.
Per Nicole era stata una fortuna, ma questo non cambiava il fatto che aveva disobbedito a Steve.
«Mi dispiace» mormorò. «Lo sapevo che doveva essere una trappola, ma la minaccia di far del male a Evelyn se avessi parlato con qualcuno ha fatto effetto».
«Ho temuto di perdervi entrambe. Credevo di impazzire quando ho trovato la tua auto abbandonata all’aeroporto e ho capito che avevano preso anche te».
Gli occhi gli si riempirono di lacrimee distolse lo sguardo. Nicole gli sedette più vicina e lo fece voltare verso di sé. Le lacrime scendevano silenziose dai suoi occhi: era la prima volta che lo vedeva piangere e il suo cuore sanguinò per lui.
«Ti chiedo scusa, posso immaginare quello che hai passato» sussurrò Nicole, accarezzandogli la guancia coperta di barba. «Ho perso la testa e ho pensato di farcela da sola».
Steve si asciugò le lacrime con il dorso della mano e si volse verso di lei.
«Ancora non riesco a credere che sia finita» sussurrò.
Entrambi si girarono a guardare Evelyn che dormiva beata in mezzo al loro letto.
«Come ti senti?» le chiese.
«Sto bene. Ho solo bisogno di fare una doccia».
Steve chiuse la cassetta del pronto soccorso e fece per scendere al piano di sotto, ma Nicole lo fermò.
«Steve! Evelyn può dormire con noi stasera?» domandò.
Lui sorrise: «Solo per stavolta. Ma ricorda che sei stata tu a permetterle di dormire qui. E con questa siamo pari!»

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Capitolo 11
*** Ohana ***


Evelyn e Nicole sono in salvo,
di nuovo tra le braccia di Steve.
É il momento di tirare le somme
di questa nuova avventura dei nostri eroi.
Spero vi sia piaciuta e che vorrete lasciarmi un commento.
Grazie a tutti coloro che sono arrivati sin qui!

 
Il mattino seguente erano tutti in ufficio.
Steve e Nicole non avevano nessuna intenzione di separarsi dalla bambina quindi l’avevano portata con loro. La piccola aveva dormito tutta la notte: forse era in grado di superare la cosa molto meglio di quanto avessero pensato. Lo stesso non si poteva dire di loro due che avevano dormito con la pistola sul comodino (cosa che non facevano mai da quando Evelyn era venuta al mondo) e si erano svegliati molte volte per controllare che fosse ancora in mezzo a loro due.
Steve la portò nel suo ufficio e la fece sedere sulla sua poltrona, mettendole davanti un album e i suoi pastelli colorati.
«Mamma e papà sono di là. Tu resta qui con Eddie e fa la brava, ok?»
Eddie si accoccolò sotto la scrivania e Steve era certo che non l’avrebbe persa di vista per un solo istante.
Lui e Nicole raggiunsero i colleghi.
Sui monitor davanti alla loro scrivania hi-tech campeggiava una foto di Jessica e Nicole sentì le viscere incendiarsi di rabbia.
«Allora, vediamo di fare il punto della situazione» iniziò Steve. «La signorina Jessica Bensen ha un fascicolo di tutto rispetto. Circa sei anni fa lei e il suo fidanzato storico, Cameron Saunders, si sono lasciati. Cameron è un avvocato, erede della Saunders&Sons, compagnia di facoltosi avvocati fondata dal nonno».
«L’ha presa bene, direi» commentò Danny.
«Benissimo» confermò Steve, sarcastico. «La Bensen si è beccata un’ingiunzione dal tribunale che avrebbe dovuto impedirle di avvicinarsi a Cameron e alla sua nuova compagna che, per inciso, era la migliore amica di Jessica».
«Il tribunale comunque non l’ha fermata» intervenne Kono, richiamando un secondo fascicolo sul monitor, «tanto che ha cercato di sfregiare la ragazza di Cameron».
«Non ci è riuscita per poco, ma tanto è bastato per farla finire in un ospedale psichiatrico, dove ha passato gli ultimi cinque anni».
«Beffando tutti, dato che è stata dimessa due mesi fa come perfettamente guarita» sottolineò Danny.
Il caso aveva voluto che si trovasse in spiaggia proprio la domenica mattina in cui c’erano anche Steve e Nicole e che, nell’inseguimento del ladro di portafogli, Steve l’avesse urtata e spinta a terra. Quando poi era tornato indietro per sincerarsi delle sue condizioni, aveva evidentemente fatto scattare qualcosa nella mente malata di Jessica.
«Perquisendo il suo appartamento abbiamo trovato cose interessanti» proseguì Chin, richiamando le immagini sui monitor.
Nicole si avvicinò per vedere meglio. Le immagini mostravano un’intera parete di una stanza del tutto tappezzata di foto di lei, Steve ed Evelyn. Nella maggior parte, sul viso di Nicole era stato tracciato un segno a croce con un pennarello rosso oppure era stato sfregiato con un taglierino.
Nicole tornò alla scrivania e ne evidenziò due, ingrandendole.
«Ricordo quei momenti. Quella era la mattina in cui ho portato i cupcakes. Ricordo di aver provato la sensazione di essere osservata» spiegò. «E qui invece eravamo nel parcheggio dell’Hilton, la sera che abbiamo festeggiato lo smantellamento dell’organizzazione di Iroha. Stessa cosa».
Anche in quell’occasione aveva avuto la strana sensazione che qualcuno si nascondesse nell’ombra, ma non avrebbe mai pensato che la cosa sarebbe potuta arrivare a quei livelli.
«Nella sua mente malata, Jessica ha pensato che io potessi sostituire Cameron» disse Steve. «Secondo lei c’era un solo ostacolo: tu» concluse, rivolto a Nicole. «Probabilmente il giorno che è venuta qui con le malasadas e tu l’hai trattata con durezza le ha fatto perdere del tutto la testa».
«Beh, direi che c’era un motivo, se quella donna non mi piaceva» commentò. «Ma come ha organizzato il rapimento e tutto il resto?» chiese poi e Kono richiamò altri file sui monitor.
«Jessica era l’unica erede di Brent Bensen, famoso magnate dell’acciaio». Sui monitor apparvero i rendiconti finanziari di Jessica e Nicole sbiancò quando vide la quantità di cifre che componevano il numero in basso a destra. «Tutti questi soldi erano vincolati a fondi fiduciari a cui la Bensen ha riavuto pieno accesso dopo essere stata dimessa dall’ospedale psichiatrico».
«Quindi ha pagato qualcuno per fare il lavoro sporco» dedusse Nicole.
«Esattamente» confermò Steve. «Abbiamo trovato diversi versamenti che sono stati fatti passare per un bel numero di conti offshore per un totale di settecentocinquantamila dollari».
Nicole si voltò a guardare Evelyn attraverso le pareti di vetro dell’ufficio di Steve. Non poteva credere che qualcuno potesse architettare una cosa del genere. Era un piano diabolico e perverso.
Evelyn alzò gli occhi e le sorrise, salutandola con la mano. Nicole sorrise a sua volta e sventolò la mano in risposta. Poi tornò a guardare i colleghi.
«Ha assoldato una compagnia di mercenari malesi che per quella cifra hanno accettato di rapire vostra figlia e poi di attirare te in trappola» spiegò Chin.
«Dove sono quei figli di puttana?» domandò lei.
«Tornati in Malesia» disse Steve e la fermò prima che potesse replicare. «Abbiamo già contattato le forze dell’ordine malesi e fornito le prove di quanto abbiamo scoperto. L’operazione per smantellare la loro rete è in corso in queste ore».
«Quando i mercenari hanno smesso di occuparsi della faccenda da professionisti quali erano» riassunse Danny, «Jessica deve aver pensato che doveva rompere gli indugi. Di certo non aveva il fegato per ucciderti, ma le sarebbe bastato attendere qualche giorno, lasciandoti senza mangiare e senza bere, perché le cose finissero in ben altro modo».
«Ma evidentemente aveva fretta di concludere o forse non sapeva più come gestire Evelyn che sicuramente continuava a chiedere di noi».
Steve spiegò che l’aveva chiamato con la scusa di avere informazioni su Evelyn ma che qualcuno avrebbe potuto accorgersi che lei stava collaborando e prendersela con lei. Così era andato a Diamond Head ed era stato tramortito con il teaser.
«Quando mi sono risvegliato ci ho messo poco a capire che Jessica era pazza e che avrei dovuto cercare raccogliere più informazioni possibili prima di affrontarla».
Il diversivo che Evelyn gli aveva involontariamente fornito era stato provvidenziale.
«Credo di non aver mai avuto tanta paura come quando ha puntato la pistola alla testa di Evelyn».
«Ha fatto COSA?» domandò Nicole, spalancando gli occhi e stringendo i pugni.
«Farò in modo che il giudice non lo dimentichi» assicurò Steve. Poi proseguì: «Ho recuperato la mia pistola, ma ho capito che era vicina ad un gesto eclatante: avrebbe ucciso la bambina e poi se stessa e dovevo fare qualcosa».
Steve sospirò, ricordando quei momenti di tensione.
«Spero di non doverlo mai più rifare, perché sparare in direzione di mia figlia è decisamente la cosa più difficile che ho fatto in vita mia».
Il resto era storia nota più o meno a tutti. Quando finalmente Jessica aveva confessato che teneva Nicole nel seminterrato, era corso di sotto e l’aveva trovata priva di sensi.
«C’era un caldo terribile in quel posto» confermò Nicole.
«Te la senti di colmare i vuoti?» propose Steve.
Nicole raccontò della telefonata che aveva ricevuto e della corsa all’impianto abbandonato dove era stata anche lei messa KO da un teaser.
«Mi sono risvegliata in quel seminterrato soffocante e ho ricevuta la visita di Jessica. Ha farfugliato qualcosa circa il fatto che avrei dovuto farmi da parte e lasciare che lei vivesse la sua vita con Steve, crescendo nostra figlia come se fosse sua. Quando l’ho accusata di essere pazza, ha preso la pistola e mi ha minacciata».
Steve picchiò il pugno contro il piano della scrivania e Nicole proseguì.
«Se mi avesse piantato una pallottola in pancia, non avrei avuto alcuna possibilità di sopravvivere. Nessuno sapeva dove fossi e sarei morta in quel buco dimenticato. Sono riuscita a calmarla abbastanza da farla allontanare».
Aveva cercato in tutti i modi di liberarsi – e i segni sui polsi lo facevano ben capire – ma non c’era stato verso e alla fine, senza acqua né viveri, aveva ceduto.
Tutti tacquero, pensando a cosa sarebbe potuto succedere se Jessica non si fosse fatta prendere dalla fretta e non avesse chiamato Steve.
«Che ne sarà di lei?» chiese Nicole con voce dura.
«Con la lista di accuse a suo carico e i suoi problemi psichiatrici, non dovremo preoccuparci di Jessica Bensen per molti anni».
«Non so se è abbastanza per ciò che ha fatto» mormorò la donna.
Steve le cinse le spalle con il braccio e l’attirò a sé, baciandole i capelli.
«Ciò che conta è che siate tutte e due sane e salve» sussurrò.
 
Steve e Nicole presero ferie per i tre giorni successivi. Avevano bisogno di una pausa, di godersi la bambina e di riprendersi dall’esperienza vissuta.
Prenotarono qualche giorno di vacanza in un bellissimo residence a Maui dove trascorsero dei giorni meravigliosi. A Evelyn non pareva vero di poter avere i suoi genitori a sua completa disposizione per tutto quel tempo ed entrambi la coccolarono e vezzeggiarono, nel tentativo di farle dimenticare al più presto quello che aveva vissuto. Per fortuna Jessica l’aveva trattata bene e la piccola non sembrava davvero aver riportato gravi ferite interiori.
Tornare alla normalità non fu facilissimo. Il rapimento di Evelyn aveva aperto loro gli occhi sulla possibilità che qualcuno prendesse di mira la piccola per ritorsione o per ottenere qualcosa da loro e questo non li faceva stare sicuramente tranquilli.Non potevano farci comunque molto ed era qualcosa con cui dovevano imparare a convivere.
Una volta tornati a Oahu, Steve e Nicole invitarono gli amici a casa per una grigliata.
Portarono fuori il tavolo, sistemandolo sul prato ed Evelyn diede una mano a Nicole per apparecchiarlo, mentre Steve preparava il barbecue. Poi lui e la bambina andarono dal macellaio a comprare bistecche e hamburger.
Quando arrivarono gli ospiti, Steve indossava un grembiule e un berretto con la visiera all’indietro e stava badando alla carne sulla griglia. Accanto a lui, Eddie lo guardava sbavando tutto il suo entusiasmo sull’erba: di certo aspettava speranzoso che qualcosa cadesse dalla griglia direttamente nella sua bocca.
Evelyn saltellava in giro, pregando suo padre di darle la paletta di plastica per dimostrargli che anche lei sapeva girare un hamburger. Quando vide Danny gli corse incontro e lui la prese al volo e le schioccò un bacio sulla guancia.
«Ciao, piccola Rambo» la salutò. «Quanti hamburger ha già bruciato tuo padre?»
«Nemmeno uno, non mi chiamo mica Danny Williams» replicò Steve.
Nicole uscì dalla cucina portando in tavola ciotole di insalata di patate e vassoi di verdure grigliate.
«Ciao Melissa. Grace, sei bellissima stasera» la salutò Nicole. «Quel vestito ti sta d’incanto».
«No, è decisamente troppo corto» borbottò Danny. Poi si rivolse a Steve: «E tu non ridere: arriverà fin troppo presto il momento in cui anche tua figlia indosserà quella roba e poi mi dirai se è tanto divertente».
«Ciao Adam, sono felice che tu sia riuscito a venire» lo salutò Nicole. «Kono, ti spiace andare a prendere le salse in cucina?»
In breve arrivarono tutti: Kawika era passato a prendere Kamekona che gli aveva caricato la macchina con un bel po’ di piatti a base di gamberi: quando Steve aveva protestato che gamberi e hamburger non andavano molto d’accordo si era quasi offeso. Dopo di loro arrivarono Max e Mindy, seguiti da Chin e Malia che lasciarono i caschi accanto alla moto. Per l’occasione Nicole aveva invitato anche suo fratello Alex e Lisa e i due furono gli ultimi ad arrivare.
Gli hamburger e le bistecche erano finalmente pronti e sedettero al lungo tavolo. Cenarono mentre il sole tramontava, immergendosi a poco a poco nell’oceano.
Le bottiglie di birra furono fatte tintinnare le une contro le altre, le risate scrosciarono. Nicole si godeva i continui battibecchi tra Steve e Danny, felice di essere tra i suoi amici più cari.
Avevano finito da un bel po’ di cenare e stavano chiacchierando quando udirono gli scoppi dei fuochi d’artificio. Evelyn si illuminò, scivolò giù dalle gambe di Kono su cui era seduta e corse verso la spiaggia.
«I fuochi!» gridò, girandosi in direzione di Waikiki.
Tutti la seguirono: solo Nicole rimase seduta sulla panca. Guardò le persone ferme sulla spiaggia che indicavano verso la baia e ridevano felici e una sensazione di calore le si diffuse nel petto. Era fortunata, davvero fortunata.
Pensò a suoi genitori e a quelli di Steve. Era certa che fossero lassù da qualche parte e che in quel momento stessero guardando verso di loro. Li ringraziò in silenzio perché era convinta che vegliassero su di loro e li proteggessero.
Steve si guardò intorno, si accorse che non era lì e la cercò con lo sguardo. Si allontanò dal gruppo e la raggiunse, accosciandosi davanti a lei.
«Che c’è?» le chiese, posando le mani sulle sue cosce.
«Niente, ragionavo solo su quanto siamo fortunati» rispose, facendo un cenno verso il gruppo che rideva e scherzava sul bagnasciuga. Nicole si portò la mano al cuore: «Ohana» disse semplicemente.
Steve si tese e la baciò.
«Mamma, papà! Vi state perdendo tutti i fuochi» protestò Evelyn, correndo verso di loro.
«Hai ragione, zuccherino. Andiamo!»
Steve la sollevò, tenendola senza sforzo sull’avambraccio sinistro. Con il destro cinse le spalle di Nicole e insieme raggiunsero il gruppo, restando a guardare le scintille colorate dei fuochi d’artificio che si riflettevano nelle acque stranamente calme dell’oceano.

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