Weir di Hermiston - Il Finale

di Iurin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo X ***
Capitolo 2: *** Capitolo XI ***
Capitolo 3: *** Capitolo XII ***
Capitolo 4: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 5: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo X ***


Finale di «Weir di Hermiston»
 
 
°°°
 
 
Capitolo X
 
 
… Ma si separarono.
Il loro litigio era durato solo il tempo di rincorrersi per un breve tratto, sfuggirsi e poi riprendersi, ma è stato anche segno che i tempi davvero non erano maturi. Archie aveva espresso le sue ragioni, i suoi pensieri e le sue considerazioni su quello che stava avvenendo tra lui e Kristie, ma lei aveva preso il suo parlare per un tornare sui propri passi. Per un tradimento, addirittura? Che lei addirittura pensasse che lui potesse essersi stancato di lei, così, all’improvviso, dal giorno alla notte?
Archie sicuramente non la considerava un passatempo in attesa di stimoli migliori! Come poteva anche solo pensare di esistesse qualcosa che potesse eguagliarla in freschezza e leggiadria da fargli voltare lo sguardo altrove?
Eppure Kristie si era agitata, nella sua tremenda incertezza da ragazza, la cui vanità giovanile aveva costantemente bisogno di conferme. E questo, forse, poteva essere un segnale, un segno che poteva far pensare ad Archie che sì, il loro amore esisteva e poteva ardere come un fuoco di inverno in una gelida casa, ma che fosse andava realmente alimentato un ciocco alla volta, piccolo, magari ancora verde e umido, più che gettarvi dentro tutta la foresta.
Così Archie rimase fermo, come uno spaventapasseri in un campo di grano, sulle proprie idee, scacciando i corvi della titubanza, e lo fece continuando a parlarle, ma continuando anche a tenerla stretta a sé. Fu la vicinanza dei corpi e dei cuori a riuscire a far calmare la stessa giovane donna, così, quando i due compirono entrambi un passo all’indietro, allontanandosi – ma continuando comunque a tenersi per mano – l’arrivederci fu meno ambiguo e più dolce, pieno di promesse di un nuovo incontro che non si sapeva ancora quando sarebbe avvenuto, ma che sì, ci sarebbe comunque stato, questo era innegabile.
E mentre Archie tornava a Hermiston, il suo cuore era più leggero. Aveva parlato e aveva espresso i propri timori. Aveva temuto che tutto fosse andato storto, ma invece così non era stato. Quale gioia avvolge i giovani quando si riesce a scampare il pericolo! Gli stessi passi, che calpestano l’erba bagnata dall’imbrunire, sembrano tanto leggeri che tutto il corpo si muove in un’onda sinuosa di dolce sollievo.
Il sole stava ormai tramontando, quando Archie oltrepassò la porta della propria abitazione, e, pochi gioiosi passi più tardi, quel che vide fu semplicemente Innes seduto in poltrona, accanto al camino spento. Per un attimo il buonumore di Archie si incrinò, ma lui stesso si rese subito conto che non aveva motivo di avercela con l’amico: d’altronde le proprie recenti azioni non erano state causate anche dal suo parere e dai suoi consigli? Difatti valutò quel breve cambio d’umore passeggero tanto quanto il rumore di un cavallo che nitrisce in lontananza. Probabile che fosse suggerito solo da reminiscenze un po’ troppo recenti. Ma sparirono, e fu questo l’importante.
“Caro Archie, di ritorno giusto in tempo per la cena,” esordì dunque Innes con un gran sorriso, che mise in mostra i suoi denti bianchissimi, sebbene non si alzò per salutarlo, gesto che sicuramente era stato dettato dalla ormai rinnovata confidenza che intercorreva tra i due giovani. “Hai un volto estremamente rilassato, permettimi di dirlo.”
“Permesso o non permesso, l’hai già detto,” fu ciò che Archie fu portato a rispondere, ma poi proseguì nel parlare: “Però hai ragione: mi sento meglio. Tu e Kristie avete avuto un tale influsso, su di me, che l’unica cosa che riuscivo a fare, prima, era sentirmi in colpa.”
“Ah, anche la vecchia signora ha parlato con te? E concorda con me? Incredibile, considerando la poca stima che sembra avere nei miei confronti. Ma, almeno dal canto mio, farti sentire in colpa era l’ultimo dei miei interessi,” precisò Innes, congratulandosi mentalmente con se stesso, allo stesso tempo, per la menzogna ben riuscita, “se hai agito – e, da quanto mi riesce di capire, hai agito davvero – avrei voluto che tu l’avessi fatto perché ne fossi intimamente convinto.”
“Oh, ma lo sono stato! Non sono stato chiaro nel risponderti, ma sì, ero convinto. Davvero. È meglio chiarire tutto il… contesto, prima di…” e poi fermò il proprio discorrere.
Fu Innes a riprendere la parola, allora:
“Non ti eri reso conto di aver ammesso tutto quello che prima negavi, vero?”
“Io… Già.”
Perché continuare a negare e fare la figura dell’inetto? Archie stesso sapeva che ormai, data la situazione, l’unica cosa sensata da fare fosse ammettere tutto. E poi Innes era suo amico; in più, dopo i consigli che gli aveva riservato e dopo la sua premura, come poteva lui ancora avere questa reticenza?
Timidezza, senza alcun dubbio.
“Stai arrossendo,” ci tenne a precisare l’interlocutore di Archie, il quale fece un repentino gesto di diniego con la testa, come se questo bastasse ad eliminare il colorito in più sul suo viso.
“Non è questo l’importante. Ma ammetto quello che tu sospettavi, non c’è neanche più bisogno di tornare sull’argomento.”
Innes annuì, e un sorriso smagliante e compiaciuto comparì sulle sue labbra.
“Concordo.”
Il discorso, tra loro, si concluse in questa pacifica e anche piuttosto secca maniera. Non per via di qualche turbolenza, ma perché parole spese in più non sarebbero servite, sarebbero solo state un condire concetti che erano già perfettamente espressi di per sé.
Per qualcun altro, invece, le parole non erano mai abbastanza, ma, per soddisfare il suo desiderio di parlare, domandare, rispondere – e anche ascoltare, d’altronde all’orecchio giungono comunque parole, sebbene sia un altro a pronunciarle – fu costretto ad aspettare fino a dopo cena. Ovviamente si trattava della signora Kristie. E non perché non avesse incontrato il signor Weir da quando tornò a casa, poco dopo il tramonto, ma perché, come al solito, l’ingombrante presenza di Frank Innes poneva un freno alla sua lingua – ma non ai suoi occhi che lanciavano scintille in tutte le direzioni.
E già lei stessa cominciava a pensare che una chiacchierata come quella della sera prima, ora che le sembrava tanto urgente, sarebbe stata impossibile da replicare, vista la costante esistenza di Frank Innes. Il signor Weir e il signor Innes sembravano essere tornati gli amici che erano stati prima dei loro piccoli screzi, anzi, Kristie li vedeva più affiatati, a cena, mentre parlavano e mangiavano allo stesso tempo. Di sicuro queste conversazioni si sarebbero protratte fino a notte inoltrata. E lei già aveva preso a torturarsi le mani, una volta sistemata la cucina, e si chiese se non fosse il caso di domandare al signor Weir direttamente un’udienza privata.
No, troppa supponenza, troppa ricerca di attenzioni – non che lei non le volesse, ma così sarebbe stato sconveniente – troppe pretese che lei non poteva permettersi. Così decise di andare nella sua stanza e di prepararsi per la notte, proprio come successe poco prima della loro ultima chiacchierata. Ma stavolta ci sarebbe stata? Kristie sbuffava, mentre si pettinava i capelli e pensava che forse sarebbe stato meglio mettersi sotto le coperte per non pensare e non morire dalla curiosità.
Ma poi, invece, il signor Innes decise di uscire di casa, giusto il tempo di finire le sherry del dopo-cena.
Lei se ne accorse perché udì delle voci provenire da fuori la propria finestra, le voci di Archie e dello stesso Frank che si salutavano e che dicevano che probabilmente si sarebbero rivisti direttamente la mattina seguente. Innes aveva intenzione di andare al Club e, per quella che sembrava essere un’ennesima volta, propose ad Archie di accompagnarlo, ma lui rifiutò con garbo.
Kristie si sentì rinvigorita tutta assieme.
Così indossò la propria vestaglia, proprio mentre sentiva i passi del signor Weir fermarsi nella propria stanza e la sua porta chiudersi. Lei prese la candela e uscì, ma aspettò, contando fino a sessanta – si impose di farlo il più lentamente possibile – prima di avviarsi. Non voleva sembrare che si stesse precipitando da lui, come fosse una donna in tempesta! Prese un bel respiro e aspettò, ma nella sua mente era arrivata solo a cinquanta che già stava bussando alla porta di lui.
“Avanti,” le disse lui, e lei entrò con un gran sorriso, trovandolo davanti al camino, con le mani tese in avanti per scaldarsi.
Si può ben supporre su quali temi verterono i loro dialoghi, quali furono i ringraziamenti di Archie e il sollievo e la premura di Kristie. Si può ben immaginare che Archie prese le mani della donna in uno slancio e che lei arrossì – ma non lui, stavolta.
Mentre non si può presumere dove invece si diresse il signor Frank Innes. Le sue intenzioni erano state presumibilmente chiare, le aveva espresse a voce lui stesso rimarcando anche il concetto più volte, persino chiedendo all’amico di fargli compagnia allo stesso Crossmichael Club, che lui tanto detestava! Ma fu per questo che Innes disse che avrebbe passato lì la serata: per trovarsi a viaggiare in solitudine e senza domande. Perché no, non stava affatto andando al Club, stava andando a Cauldstaneslap, in particolare nelle sue brughiere.
C’era una strana baldanza, nel suo passo, nonostante sapesse che, di lì a poco, avrebbe comunque avuto a che fare con almeno uno dei Fratelli Neri. Non che lui ne avesse paura, certo, ma non era propriamente riuscito a ingraziarseli. Stavolta non poteva far altro che soprassedere, farsi scudo di tutta la propria cortesia e del suo sorriso e, semplicemente, bussare alla porta di casa.
Ed era proprio quello che stava facendo: bussare.
Gli venne ad aprire una donna, non troppo giovane. Poteva essere la moglie di una dei Fratelli, così come poteva essere una governante, se potevano permettersela. Non lo sapeva, per cui non si azzardò a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Rimase sul neutrale.
“Buonasera,” esordì, “spero di non aver interrotto nulla. Mi chiamo Frank Innes,” dicendo questo si tolse il cappello, “e sono momentaneamente ospite a Hermiston. Volevo chiedervi di poter scambiare qualche parola con la signorina Christina.”
La donna assunse un’aria puramente perplessa, ma non fece in tempo a rispondere, perché un uomo le si affiancò. Si trattava di Dand Elliott.
“Ah, siete voi, signor Innes,” disse.
“Signor Elliott, quale sorpresa. Stavo giusto dicendo di voler scambiare due parole con vostra sorella.”
“Perché mai?”
Il sospetto si insinua sempre fin troppo facilmente, nelle menti.
“Mi sono reso conto che non abbiamo mai avuto una vera conversazione, ancora, io e lei. Nulla di grave, è solo per… conoscerci. Tutto qui.”
E, detto ciò, Innes sorrise meglio di quanto avesse mai sorriso. Ma Dand non ricambiò. Probabilmente l’avrebbe cacciato con un calcio, se Christina stessa non fosse intervenuta.
“Oh, signor Innes.”
La soglia di quella casa stava diventando sin troppo affollata, osservò, a mente, Frank, prima di rispondere ad alta voce:
“Buonasera. Stavo giusto… Oh, beh, è possibile, per me, ricevere udienza da voi?”
Forse fu la sorpresa. Forse furono le parole altolocate con cui lui si rivolse a lei, fatto sta che Christina uscì, dopo aver indossato uno scialle, e si allontanò un po’ dalla casa, in compagnia del signor Innes. Quest’ultimo le chiese il perché non essere rimasti al caldo tra le mura dell’abitazione; lei rispose che lì non avrebbero potuto parlare tranquillamente, e che, se lui aveva tanto freddo, poteva benissimo tornarsene a Hermiston.
Che caratterino! Ma a Frank non dispiaceva totalmente. Il che era un bene, visto quello che stava per fare.
D’altronde Frank Innes aveva stabilito da qualche tempo di dover assolutamente diventare un rivale di Archie Weir. E non solo facendo sì che la relazione tra lui e Christina arrivasse ad un punto di stallo! Se doveva considerarsi un rivale, doveva andare fino in fondo, doveva essere un rivale in amore.
E fu con questo pensiero in mente che Frank Innes portò avanti la successiva conversazione.
“Il mio amico, il signor Weir, mi ha detto che oggi avete parlato.”
“Noi… Sì. Anche per causa vostra, se devo essere sincera. Tutto andava bene, ma voi avete dovuto mettere bocca, signor Innes.”
Frank non si sarebbe di certo lasciato sopraffare così facilmente.
“Naturalmente ho dovuto metter bocca!”
“Io capisco che voi teniate al vostro amico, davvero… Ma saremo comunque riusciti a gestire la situazione, senza dover passare per questo brusco mutamento.”
“Io ero preoccupato per Archie, questo è giusto, e non volevo che in un prossimo futuro si ritrovasse in una qualche circostanza difficoltosa. Giustissimo. Ma non è solo per questo che ho espresso i miei dubbi su di voi. Dubbi! Ma quali dubbi? Voi siete così… perfetta, quali ostacoli voi non potreste sconfiggere?”
Christina guardò Frank con perplessità, ma non riuscì comunque a sgranare gli occhi. Si sentì anche arrossire per quel complimento detto così, con estrema semplicità, e ringraziò il fatto che non ci fosse il sole a mostrare il rossore delle sue gote.
“La gelosia ruba il senno all’uomo, signorina,” proseguì dunque il signor Innes, “e io non sono mai stato bravo a combattere contro i ladri. Anche voi siete una ladra, sapete: rubate il cuore della gente. E io come mai potrei contrastarvi?”
“Signor Innes…”
“Oh, perché tergiversare? Io volevo comportarmi da amico con Archie, questo è vero. E questo ho fatto, non c’è stato un secondo fine nel mio operare, su questo potete stare tranquilla. Ma voi… voi siete così bella, così carismatica. Avete una personalità così forte, potreste essere paragonata ad una antica Amazzone. Anzi, che dico? Lo siete sicuramente! E siete anche così giovane, davvero volete già legare la vostra vita indissolubilmente a qualcuno?”
“Ma io sono molto… affezionata al signor Hermiston, non vedo come--”
“Ma lui lo è a voi?”
Christina cominciava a sentirsi confusa. Per tutti i complimenti che stava ricevendo – non le era mai capitato che la sua vanità venisse alimentata in maniera così plateale – ma anche per l’argomento che stava venendo affrontato.
“Signor Innes, i vostri discorsi mi fanno venire il mal di testa.”
“E chiedo perdono di questo, ma vorrei che mi ascoltaste. Io sono assai certo del vostro attaccamento al mio amico, voi siete una persona sincera, e, se dite che questo attaccamento esiste, allora esiste. Ma pensate ad Archie: perché si è lasciato sedurre così velocemente dalle parole di uno come me?”
“Perché siete suo amico.”
“Ma io sono così misero… Eppure lui è venuto qui da voi e ha fatto quel che ha fatto. Perché? Perché sono riuscito a convincerlo in così poco tempo? Certo, la mia lingua è allenata,” qui fece una breve pausa, “ma le orecchie di un innamorato si chiudono di fronte a ogni protesta. Archie invece mi ha ascoltato.”
Il cuore di Christina stava battendo folle.
“So che quello che le sto dicendo è sconvolgente,” proseguì dunque Innes, “ma non potevo tenermi tutto ciò nel cuore ancora a lungo. Voi dovevate sapere cosa penso, perché voglio che siate felice. A una donna bella come voi non sta bene un’espressione triste. Voi dovete sorridere.”
Ma ora Christina non aveva voglia di sorridere.
“Avanti, signorina. Potete farmi un sorriso?”
Christina guardò Frank, e lui le pose due dita sotto il mento per farle alzare il viso, per farla stare a testa alta.
“La luna rende stelle i vostri occhi.”
Christina sorrise.
Quel sorriso portò, successivamente, ad altri ancora, perché furono gli incontri tra loro due a susseguirsi.
Innes aveva continuato a frequentarsi con Christina: dapprima si faceva trovare casualmente – ma forse neanche troppo per caso – sul cammino di lei. La salutava e scambiava con lei qualche fugace parola. Lui capì subito che una simile dispensazione di attenzioni le facevano piacere. Oh, ma all’inizio Christina era reticente, e anche molto. Gliel’aveva anche detto esplicitamente, una volta:
“Signor Innes, voi siete gentile, ma con questa situazione in corso tra me e il signor Hermiston, non mi pare il caso di intrattenere una conoscenza con voi.”
Ma anche in questo caso Frank era stato più affabile del solito, e alla fine era riuscito a convincerla che parlare, in fondo, non era niente di male. Molte signore e donne di classe avevano amici uomini, questo non impediva loro di avere comunque una felice vita privata. Parlare è lecito, l’essere umano è stato fatto per questo, e Christina – le aveva detto Innes – era anche lei una donna di classe – questo l’aveva fatta arrossire appena – quindi perché avrebbe dovuto esimersi dal comportarsi come più preferiva?
E chiacchierare era vero che fosse lecito e innocente, ma è uso comune e sensibilità verso il prossimo interrompere ogni contatto quando tali conversazioni, anche se apparentemente nate dal caso, iniziano a venir anelate e ad essere accompagnate da un cuore che batte fin troppo allegro.
E così, mentre Archie era a casa, a pensare cosa fare, a cercare di capire come dire a suo padre che intendeva passare la vita accanto ad una donna più povera di lui, che lui sicuramente avrebbe sottostimato… era in quel momento che Frank Innes aveva posato le labbra sulla fronte di Christina e lei non si era sottratta.
Il fatto fu singolare anche per quanto riguarda Innes stesso: tutto era iniziato come uno sgarbo, un attacco puramente dettato dalla noia e dalla superbia, eppure, con il passare dei giorni, uno smacco di tale portata aveva cambiato natura, e anche lui, infine, era arrivato a desiderare la compagnia della fanciulla, a desiderarla e a volerla vedere sorridere semplicemente perché era bello farlo.
Un occhio esterno avrebbe visto quei due giovani camminare tranquilli, conversare, a volte anche rimanere puramente in silenzio, oppure avrebbe potuto osservare come Innes cercasse di comportarsi il più amabilmente possibile, come Christina si beava dei suoi complimenti e delle sue premure.
Come quando, sul luogo dell’incontro, in una di quelle occasioni, Frank si presentò con, in una mano, il suo solito bastone da passeggio – quando non se lo dimenticava ad Hermiston, era un suo vezzo – e, nell’altra, un grande mazzo di fiori.
“Sono per me?” Aveva ingenuamente chiesto Christina.
“Non vedo nessun’altra,” aveva risposto lui, “a cui potrei farne dono.”
“Sono fiori di campo.”
“Sì, ho pensato che potessero piacervi. Forse era meglio dei fiori da serra, credo, sono più--”
“Oh, no, vanno benissimo! Mi piacciono i fiori di campo!”
“Dite davvero?”
“Sì, esprimono meglio gli intenti: molti uomini sono bravi ad andare a comprare fiori, basta loro pagare e vengono subito accontentati. Magari neanche li scelgono personalmente, ma fanno fare a chi di dovere. Voi li avete raccolti. Avete pensato a me mentre decidevate se quello che avevate davanti poteva entrare a far parte del mazzo o se invece non ne era sufficientemente bello.”
Innes annuì. “Avete ragione. E sono sollevato nel sentirvelo dire. Certo, è stato faticoso.”
Christina alzò entrambe le sopracciglia mentre rispondeva, curiosa e perplessa insieme, l’ombra di una successiva risata che spuntava già sulle sue labbra tenere.
“Faticoso? Avete fatto tutto di corsa, volete dire?”
“Oh, no! Mi sono preso tutto il tempo che reputavo necessario. È solo che ho dovuto rimanere piegato a lungo: la cernita dei fiori richiede tempo. La mia povera schiena non credo abbia apprezzato.”
E, detto ciò, Frank si portò la mano proprio su un fianco, riproducendo sul proprio viso quella che era palesemente una finta espressione di dolore.
Christina rise, come già lo spettatore esterno avrebbe predetto, se fosse stato presente all’epoca di questi avvenimenti.
“Oh, suvvia, parlate come se foste un povero vecchietto!”
“Ma io sono un povero vecchietto. Non vedete i peli sulle mie guance, i miei capelli? Ecco, osservate:” mentre parlava, Innes si tolse il cappello che soleva portare, specie sotto il sole, “ho proprio notato questa stessa mattina di avere dei capelli bianchi su questo lato della testa. Voi li vedete o è stata solo una mia impressione?”
Altri movimenti vennero messi in atto mentre l’affabile gentiluomo – questo sembrerebbe allo spettatore – continuava a proferire quel fiume di parole: lui si chinò in avanti, in modo da raggiungere, con il proprio viso, la stessa altezza di quello di lei; si giro appena di lato, con un piccolo sorriso ad increspargli le labbra, per farle osservare meglio il lato destro della sua testa, momentaneo oggetto di studio.
Christina rimase immobile, sul momento. La lingua le si era seccata. Non che stessero facendo qualcosa di sconveniente, questo era vero – questo avrebbe detto qualcuno – ma era la vicinanza stessa del viso di lui a renderla nervosa. Anche se, in fondo, ancora non era così pericolosamente vicino. Era una sensazione strana, una sensazione che le faceva… ballare le viscere proprio sotto il suo seno. Era un qualcosa che non aveva davvero provato fino in fondo neanche con il signor Weir.
Esitando appena, muovendosi con estrema lentezza, ma non con goffaggine, Christina allungò una mano verso di lui. Stava quasi per sfiorargli i capelli quando si fermò, con la mano ancora sospesa a mezz’aria; ma non aveva, in realtà, avuto un repentino cambio di idea, anzi: una nuova idea andò ad aggiungersi alla precedente. Christina tolse il guanto che le copriva le dita, e solo a quel punto gli toccò i capelli. Glieli spostò piano, con delicatezza, alla ricerca di quei capelli bianchi di cui li si era lamentato così espressivamente.
Frank si ritrovò a chiudere gli occhi non appena percepì la morbidezza del suo tocco. Gli sembrava una nuvola.
“Sarà la luce del sole…” disse, allora, lei, quasi in un sussurro, “ma non riesco a-- oh, no, ecco, ne ho trovato uno. E anche un altro! Avevate ragione, signor Innes.”
“Io ho sempre ragione, mia cara signorina Elliott. Vedete, allora? Sono un vecchietto. Vorrete ancora passare del tempo con me, ora, pur essendo entrata a conoscenza di questo terribile segreto?”
“Signor Innes, sono disposta a passare sopra la sua evidente età avanzata. Ma solo se mi promettete una cosa.”
Innes si voltò verso di lei, a questo punto, rimettendosi un po’ più dritto con la schiena – ma non troppo.
“Che cosa?”
“Che mi porterete altri fiori come questi.”
Una breve risata uscì dalle labbra di lui. “Toglierò il colore da tutti i prati, se fosse necessario.”
La risata di lei si aggiunse alla sua.
È portentoso, si potrebbe ben dire, quando la ricerca avara e vanitosa di attenzioni trova il gusto di dispensarle per un altrettanto egoistico senso di compiacere e di sembrare migliori di quel che si è.
Non accade più di questo tra loro, quel giorno. Ma fu non molto più tardi che l’irreparabile trovò la sua strada, ovvero quando due labbra si unirono sancendo la fine di ciò che fu e l’inizio di ciò che sarebbe stato.
Ah, se solo Frank Innes non avesse voluto compiere quello sgarbo, se fosse rimasto a Hermiston, se quel nuovo inizio non ci sarebbe stato, non ci sarebbe stata neanche la fine di quel finto gentiluomo!
Frank e Christina si diedero appuntamento sulle sponde dello Swingleburn, proprio laddove Archie, in un primo momento, aveva accompagnato Innes a pescare per fargli una cortesia, proprio laddove lo stesso Innes aveva iniziato a sospettare che Weir stesse nascondendo qualcosa.
Ma lo Swingleburn non era fatto solo per pescare. Era fatto anche per accompagnare, con il suono della sua corrente, il riposare di due giovani, stanchi dal camminare, che si erano seduti sull’erba, avvolti dall’ombra del destino e, in quel caso, anche della chioma di un albero, mossa dal sottile vento.
Frank e Christina erano seduti così vicini alla riva che lei doveva tenere l’orlo del proprio vestito lontano dall’acqua con una mano, altrimenti vi sarebbe finito dentro solamente perché mosso lievemente dal vento.
Parlavano, loro due, e si godevano il sole che filtrava dalle foglie al di sopra delle loro teste.
Poi qualcosa accade, ma non qualcosa di straordinario o avvenuto per caso, dato che fu lo stesso Innes a compiere il gesto. Ovvero: mise una mano nell’acqua dello Swingleburn, proprio lì, accanto al proprio ginocchio, e si bagnò le dita. Giocherellò con l’indice, creando tanto piccoli cerchi concentrici che andavano ad espandersi fino a scomparire, confluendo l’uno nell’altro. Poi raccolse nel palmo della mano qualcosa di più di poche gocce d’acqua, e, senza troppi sotterfugi, sollevò le mani per lanciare l’acqua fresca contro la sua interlocutrice.
Non erano due gocce, ma quel che provocarono fu giusto un macchiolina di bagnato sul suo vestito.
“Signor Innes!” esclamò, però, Christina, come prima reazione, quasi alzandosi in piedi – non lo fece, ma si spostò comunque un po’ di più verso l’albero sotto il quale si trovavano. “Cosa fate, signor Innes!”
“Suvvia, Christina, è solo un po’ d’acqua.”
Frank cercò di contagiarla con il proprio sorriso perfetto, ma, evidentemente, non ci stava riuscendo granché bene, visto che lei non ricambiò, anzi, continuò a parlare con la stessa tonalità di voce:
“Lo sappiamo io e voi che si tratta di un po’ d’acqua. Ma è acqua mista a terra, mi rimarrà una macchia, penseranno chissà cosa, di me, che non so neanche portare un vestito! Signor Innes!”
Il signor Innes, però, non smise comunque di sorridere, ma, dal canto suo, smise di parlare. Si tolse la tuba che teneva sul capo e la rovesciò, immergendola nel fiume con evidente sorpresa di Christina, che schiuse le labbra e sgranò gli occhi. Frank riempì la tuba d’acqua e, senza assolutamente svuotarla, se la rimise in testa per il verso giusto.
Inutile descrivere la cascata d’acqua fredda che finì di ricoprirlo da capo a piedi. Ed inutile parlare anche del continuo sorriso di lui, divertito, o della risata di cuore e cristallina che scaturì da lei.
“Va bene, così?” Suggerì lui.
Christina si sporse in avanti, inginocchiandosi, e lo baciò, bagnandosi il viso. Lo Swingleburn ne è ancora testimone.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo XI ***


Capitolo XI


Fu uno scandalo quando Frank Innes e Christina Elliott fuggirono assieme. Uno di quegli avvenimenti di cui si parlò per settimane, anche addirittura per mesi!, e che sicuramente, dopo anni, le donne avrebbero ricordato nelle serate in cui ci si riunisce con i vecchi membri della famiglia.
La notizia si sparse in tutto il paese… anzi, in tutti i paesi circostanti: signorotto fugge con pastorella. Ma non si parlava anche dell’animo ferito di Archie, quello no: quella, di vicenda, era nota a pochi, e forse una malinconia in un uomo già malinconico di per sé non avrebbe attirato più parole di quante gliene avrebbero solitamente riservato. Ma, nonostante questo, non si poteva dire che la sofferenza fosse minore, specie all’inizio.
L’amore a prima vista è subdolo, da questo punto di vista: invade uomini e donne con estrema prepotenza, li fa suoi, li riempie come un fantoccio piene riempito di sabbia, tanto fino quasi a farlo esplodere. E il dolore che ne deriva è proporzionale allo spazio occupato. L’amore a prima vista, quando subisce un mutamento, quando viene ostacolato, quando viene portato via senza il consenso di uno dei diretti interessati, è così: terribile, come un’onda del mare che si infrange sugli scogli. Violento. L’amore a prima vista può essere tanto esaltante, tanto gioioso, quanto nauseante e causa di insostenibili crampi allo stomaco.
E questo cominciò a provare Archie, quando tutto venne a galla.
Quello che era un amico se ne andò da Hermiston con il proprio bagaglio sulle spalle, lasciando una lettera sul tavolo della sala da pranzo, e incontrandosi poi, poco dopo, con la stessa Christina, anche lei provvista di borsa e vestiti di ricambio. Innes aveva intenzione di tornare da suo padre, di presentargli la donna che aveva intenzione di sposare e di sistemare tutte le questioni economiche. Se suo padre avesse appurato che lui avesse messo la testa a posto… era sicuro che sarebbe stato più accondiscendente che mai.
E forse Innes poteva soprassedere per un po’ anche lui sulle origini umili della ragazza che ora aveva al suo fianco. O, comunque, prolungarsi in uno dei suoi accorati e convincenti discorsi da futuro avvocato quale poteva ancora diventare.
E Archie? Come si vive il dolore, a Hermiston?

Caro amico Archie.
Caro vecchio amico.
La vita a volte ci porta davanti a bivi che dobbiamo affrontare, ci porta a scegliere in che direzione andare, sebbene entrambe portino a luoghi che ci sono cari.
Mi sono riappacificato con voi, avevamo deciso di dare inizio a quella che sarebbe stata una nuova era della nostra amicizia, ma, per quello che sto per dirvi, non solo suppongo che la nostra amicizia terminerà, ma che comincerete ad odiarmi con tutto il cuore.
So che siete un personaggio malinconico. Siete famoso per questo. So che, senza volerlo, vi alterate spesso, ma che non c’è mai una vera cattiveria ad attorcigliarvi le budella. So che dopo ogni discussione viene il perdono, in un modo o nell’altro.
Ma, dopo questa mia lettera, mi odierete. Mi detesterete e so già che non mi perdonerete mai.
Ma, come ho scritto poc’anzi, non posso evitarlo, per quanto vorrei. Perché ciò per cui vi sto perdendo è ciò che potrebbe salvarmi da altro. No, non parlo di un tesoro per sanare i miei debiti… Sì, Archie, ne sono a dir poco pieno… Anche se in realtà si potrebbe parlare comunque di un tesoro, anche se non di sonante moneta.
Sto parlando della signorina Christina Elliott, dell’allegra pastorella. Ma ne sto parlando in un modo diverso da quello da noi medesimi utilizzato qualche tempo fa.
L’ho conosciuta. Le ho parlato. Quasi per caso, quasi no. Forse ero curioso. Forse no.
E lei ha parlato a me, più e più volte, ci siamo incontrati, e ora, Archie… So che ti spezzerò il cuore e che in altrettanti piccoli pezzi lo ridurrà lei, ma io e Christina abbiano deciso di andare via assieme.
Lo so che non ti sembra giusto, e so che tu stavi solo prendendo tempo per poter parlare con tuo padre, per poter trovare le parole che avrebbero riabilitato te stesso e presentato lei sotto una fervida luce.
Ma lei vive già, di luce.
E tu queste parole non vuoi leggerle.
Io e Christina partiamo, spero che, se mai un giorno ci incontreremo di nuovo, le circostanze saranno più felici di quelle che suppongo siano ora.
Ti saluto.
Frank Innes

Ma non era tutto qui. Assieme alla lettera di Innes ve n’era un’altra, sicuramente posta lì dallo stesso Frank, ma non scritta di suo pugno. Era una lettera breve, dalla grafia tonda e studiata, ogni parola era stata scritta con il massimo impegno possibile.

Caro signor Weir,
mi dispiace tantissimo di come la vita a volte giochi con i cuori delle persone. Ha giocato con i nostri, e ora si era stancata di noi, preferendo che io iniziassi a provare un certo attaccamento per il signor Innes.
Questo non vuol dire che io non abbia nutrito affetto nei vostri confronti! Questo non dovete pensarlo mai!
Ma così sta succedendo, e chi sono io, piccola Christina Elliott, per mettermi contro il volere della Vita stessa, il volere di Dio, potrei addirittura supporre. Anzi, ne sono certa! Come potrei?
Spero riuscirete a trovare la felicità che meritate, Archie, perché siete una persona che ne ha disperatamente bisogno.
Vi saluto con il cuore in mano,
Christina Elliott

All’inizio il signor Weir affrontò la sofferenza e l’amarezza chiudendosi nella propria stanza, a chiave, senza l’evidente intenzione di uscire o di mangiare alcunché. Kristie insistette a farlo venir fuori di lì più volte, ma a nulla valsero le sue preghiere. Perché all’inizio gli chiese tutto con estrema calma, gentilezza e cortesia: Archie era un animo ferito, in quel momento, ogni parola non poteva essere che più di una carezza.
Poi, però, quando Kristie aveva cominciato a capire che così non avrebbe ottenuto nulla, cambiò metodo di approccio: iniziò a denigrare Frank e Christina. In realtà parlare male del signor Innes le era risultato facile sin da molto tempo prima, ma con la sua giovane parente era un altro discorso. Avrebbe dovuto insultarla apertamente? Fare velate allusioni? Parlarne in modo distaccato?
Ma come poteva parlare di lei senza lasciarsi infervorare, rimanendo con la voce calma, quando era lei il motivo per cui il suo adorato signor Weir si ritrovava in quello stato?
Probabilmente fu il cambio di tono – e anche la fame, a questo punto – a fare uscire Archie dalla sua camera, alla fine. Quando Kristie lo vide scendere le scale, pallido e con la barba, gli corse incontro. Non aveva affatto un bell’aspetto, lui: in quel momento possedeva una trasandatezza che non gli donava; il suo bel viso, smagrito e con le occhiaie, sembrava quello di un uomo più vecchio di lui di anni. Kristie poso una mano sul suo braccio, stringendolo, e subito gli parlò con voce calda e confortevole.
“Oh, signor Weir, finalmente avete deciso di tornare. È stato terribile non vedervi. Buon Dio, voi avete bisogno assolutamente di mangiare. Venite, venite, in questi giorni qualcosa è sempre rimasto al caldo per voi. Mangiate, e dopo: un bel bagno; vi riempirò la vasca.”
“Siete sempre così cara, Kristie,” fu la prima cosa che disse lui, con voce arrochita dall’aver poco parlato, e lei non poté far altro che sentirsi ancora più ispirata di prima.
Così Archie mangiò e Kristie gli riempì la tinozza per lavarsi, cosa che lui fece. Solo dopo si ritrovarono di nuovo insieme. Era come se Kristie non volesse staccare gli occhi da lui, come temendo che, se avesse smesso di guardarlo, lui sarebbe tornato a chiudersi nella propria stanza.
“È stato così orribile.” Riuscì, alla fine, a dire lui, e Kristie capì che poteva sedersi sulla sedia di fronte alla sua, in quel momento. “Così tremendamente orribile. Io ero qui a struggermi, a cercare le parole adatte, ero qui che mi dicevo ‘Non andare a vederla finché non sarà tutto chiarito!’. E Innes, invece – quel maledetto! – non si faceva scrupoli a riempire di sé la mia assenza.”
“È stato un vero farabutto, non c’è dubbio.”
“E lei… Perché, Kristie, perché? Perché non mi ha atteso?”
In quel momento Archibald Weir di Hermiston sembrava solamente il bambino che era stato, un bambino bisognoso di una carezza. Ma Kristie, nonostante la confidenza e la devozione, nonostante l’affetto, non osava donargliela.
Lei si limitò a sospirare.
“Le donne sono volubili, e lo sono ancora di più quando sono giovani. Ma non la sto giustificando: per quanto il cuore sia incerto, l’intelligenza e il rispetto non dovrebbero mai venir meno.”
“E l’amore? Non era forse amore, tra di noi?”
Kristie si sentì arrossire appena.
“Sono sicura di sì. Sono sicura che da parte vostra, signor Weir, l’amore sia sincero. Ma lei--”
Sia? Come può esserci ancora amore, adesso?” Archie sospirò. “Quel che provo è solo una grande, infernale delusione. Non andrò a rincorrerla. Lei ha scelto Innes, non posso di certo costringerla a seguirmi.”
“No, questo no di certo.”
“La lascerò alle sue scelte, se riusciranno a renderla felice.”
“Ma voi, voi sarete mai nuovamente felice?”
Archie posò fissamente lo sguardo su Kristie, quei suoi occhi così stanchi, nonostante la giovane età, quel volto ancora più pallido del consueto.
“Forse un giorno. Forse quando la memoria si allenterà e comincerò a dimenticare. Ma voi, Kristie, potreste aiutarmi.”
“Io? Davvero? Sarebbe ciò che non oserei mai chiedere.”
Allora Archie si alzò, ma non si mise ben ritto in piedi, quasi scivolò a terra per inginocchiarsi totalmente di fronte alla donna. Lui le prese una mano e Kristie lo guardò confusa.
“Voi siete la mia àncora, signorina Elliott, cara, cara Kristie. Come farei senza di voi? Mi promettete che rimarrete con me, finché la felicità non sarà tornata in questa casa?”
La donna posò l’altra mano sul proprio seno, all’altezza del cuore.
“Oh, signor Archie, c’è da chiederlo? Rimarrei con voi sempre, se solo me lo chiedeste.”
“Vi ringrazio.”
Archie posò la propria guancia, ora nuovamente liscia, sulla mano che teneva tra le proprie, per poi posare un casto bacio sulle nocche ancora sottili come quelle della giovane fanciulla che fu.
Ci fu qualcosa, però, per cui Archie fu costretto a rimettersi in piedi e ad allontanarsi, quasi avesse pestato uno spillo tanto appuntito da pungergli un tallone, mentre Kristie si ritrovò a sussultare, assorta com’era nei propri pensieri. E no, non si era trattato dell’entrata improvvisa della servetta dodicenne, lei sapeva di dover rimanere in cucina, se non quando veniva espressamente chiamata.
No, si trattò di un insistente, quanto potete e rumoroso bussare alla porta.
“Chi potrà mai essere? Potrebbe essere quel farabutto del signor Innes che fa ritorno?” Kristie pensò di potersi prendere la libertà di apostrofarlo in questo modo.
“No, non credo,” osservò Archie, “non avrebbe motivo di essere così irruento, anzi. Il suo bussare sarebbe pacato. Non sottomesso, ma, quantomeno, contrito, suppongo.”
E Kristie, dunque, andò ad aprire alla porta. Quando la spalancò si trovò degli uomini, di fronte, e – no – tra loro non c’era di certo il signor Innes. Non fece in tempo a dire nulla, lei, perché uno di essi la precedette.
“Ah, la zia. Perdonateci se non ci dispensiamo in convenevoli, ma l’occasione per cui ci troviamo qui non è la migliore,” disse Hob.
Sì, proprio lo stesso Hob proprietario terriero a Cauldstaneslap. E con lui vi erano i suoi fratelli, Gib, Clem e Dand. I Quattro Fratelli Neri stavano per fare irruzione a Hermiston.
Archie si sentì impallidire ulteriormente, quando li vide, sentendosi tremendamente in colpa. Si ricordò della storia che Kristie gli aveva raccontato durante una delle loro chiacchierate, e davanti agli occhi gli passò l’immagine viva e nitida dei Quattro Fratelli che, senza neanche aver bisogno dei cavalli, entravano in casa e cominciavano a calpestarlo fino a ridurlo in una rossa poltiglia.
Kristie li fece entrare con cortesia, anche se confusa a sua volta. Ma, in fondo, il motivo di quella visita improvvisa non era molto difficile da dedurre.
“Signor Weir, potete, di cortesia, spiegarci il motivo di questa lettera?” Il tono con cui Gib si rivolse a lui lo fece quasi tremare.
Quasi. Di certo non tremò comunque, di fronte a loro. Anche se Archie immaginò Gib schiaffeggiarlo con quel foglio piegato a metà che gli stava sventolando di fronte al viso.
“Calma, calma, Gib,” intervenne il ricco Clem, “non c’è bisogno di essere tanto irruenti.”
“Non ce n’è bisogno?!” Ribatté l’altro. “Eccome se ce n’è bisogno! Dovremmo prendere i cavalli, dividerci e cercare dappertutto!”
“Non siamo quelli di prima, anche se mi piacerebbe,” commentò, però, Dand, pacato, come se apparentemente la questione non gli interessasse. Il luccichio dei suoi occhi diceva altro, però.
Ma quale questione?
“Signori, signori,” fece Kristie, piazzandosi di fronte a loro come se i suoi nipoti fossero ancora dei bambini – nonostante il ‘Signori’, “Non facciamo nulla di affrettato. Possiamo ben capire il motivo per cui siete qui, e l’unica cosa che io stessa voglio fare è aiutarvi, così come sono stra-convinta che sia anche la volontà del signor Weir.”
Il signor Weir in questione girò lentamente il proprio capo verso Kristie, che, però, non lo stava guardando.
Cosa?” Pensò, e poi la sua mente elaborò una spiegazione a tutta quella faccenda: “Ecco, hanno saputo che corteggiavo Kristie. Anzi, Christina. Ora sono infuriati con me. Mi uccideranno come hanno ucciso quei banditi, come se io stesso fossi un bandito! Come potrei accettare tutto questo? Certo che no!
E, nonostante la fermezza del carattere di Archie, nonostante lui affrontasse di petto i suoi rivali – certo, a meno che questi non scappassero nel cuore della notte – gli venne l’impulso di fuggire. Stava quasi per fare un passo verso la cucina che Kristie continuò, indicando la lettera che Gib ancora aveva in mano:
“È di vostra sorella, dico bene?”
“Proprio così,” affermò Dand, con sguardo severo.
Tutto è perduto!” Esclamò, a mente, Archie.
E Dand continuò a parlare, stavolta rivolto al signor Weir, e non a sua zia:
“E voi – voi  – non dite di non saperne niente…”
“In realtà ancora non ha detto proprio niente,” commentò Gib, ma Dand non ci fece caso.
“… Di sicuro siete coinvolto in tutta questa storia.”
Archie, però, a questo punto cominciò ad essere confuso: certo che c’entrava in tutta quella storia, dato che Christina era solita passeggiare con lui, prima di essersi intrattenuta con Innes. Qualcosa non gli stava tornando, per cui la momentanea e vile – ma umana e comprensibile – paura si fece da parte e venne sostituita dal desiderio di voler capire di più.
“Potrei leggere, prima che giungiamo tutti a conclusioni troppo affrettate,” fu, dunque, la prima cosa che Archie pronunciò di fronte ai Quattro – Infuriati – Fratelli Neri, “che cosa dice la lettera che il signor Elliott tiene tra le dita?”
“Suggerite di non essere a conoscenza del suo contenuto?” Chiese Hob.
“Non solo suggerisco, ma affermo con certezza. O, perlomeno, posso solo immaginarlo. Non comprendo, però, il collegamento con la mia persona.”
“È più che ovvio il collegamento!”
“Gentiluomini miei cari, non perdiamo la calma. Non ancora, perlomeno,” intervenne Clem. “Gib, dagli la lettera e, signor Weir, sono io il signor Elliott,” parlando, Clem si prodigò in un mezzo sorriso, riferendosi evidentemente ai loro personali soprannomi, “se volete, chiamate pure Gib ‘Lo Strambo’.”
“Nessuno più mi chiama così da anni,” rispose l’interessato, mentre, comunque, porgeva ad Archie l’ormai dibattuta lettera.
“Meglio ‘Il Diavolo’?” Scherzò Dand, che venne fulminato dagli occhi di suo fratello.
Archie lesse, nel frattempo. Lo fece con occhio concentrato, e Kristie, che lo osservava con altrettanta attenzione, notò come, man mano che proseguiva con la lettura, le sua dita stringessero inconsapevolmente la carta, creando pieghe che avrebbero potuto essere scambiate per piccole crepe sottili. Poi lui terminò la lettura.
“Vostra sorella, qui,” la voce gli tremò leggermente, sul momento, ma poi Archie si schiarì la gola, ritornando ad acquistare quel controllo di sé che aveva da così poco finalmente ritrovato, “parla chiaramente di Frank Innes. Non di certo… Non di certo di… me.”
No,” pensò Archie tra sé e sé. “Di me non parla affatto.
Poi scosse la testa per eliminare definitivamente quel pensiero molesto. Aveva detto che si sarebbe lasciato tutto alle spalle. Doveva andare avanti, e doveva farlo necessariamente.
“Non giriamo intorno alla questione,” si intromise nuovamente Hob – sembrava decisamente il più pacato e riflessivo dei Quattro. “Frank Innes viveva qui e voi eravate suo ospite. Siete amici, no? Non credo che non via abbia rivelato anticipatamente quale fossero le sue intenzioni.”
“Io non sapevo niente di quello che stava architettando insieme a vostra sorella.”
“Ah, come se Christina fosse davvero coinvolta!” Sbottò Dand.
“Cosa state suggerendo?” Archie inarcò un sopracciglio, mentre formulò la domanda.
“Sto suggerendo che nostra sorella potrebbe essere stata raggirata dal vostro amico signor Innes, che possa essere stata portata via con l’inganno!”
“Questa è buona, buon Dio!”
La voce che si inserì nella conversazione fu quella di Kristie, rimasta in disparte per tutto il tempo ma che, effettivamente, non era mai andata via. Al che tutti si voltarono verso di lei, così la donna proseguì:
“Vostra sorella – mia nipote – non è stata certamente rapita, se è questo che intendete. Il signor Innes è di certo un antipatico, uno sbruffone e un farfallone, ma non è un criminale, sebbene farebbe piacere pensarlo. Quindi non è neanche un rapitore.”
“Nostra sorella non sarebbe mai fuggita in questo modo!” Esclamò Clem. “La conosco, vive insieme a me e alla mia famiglia, a Glasgow. La conosco. Mai, mai--”
“Io credo,” soggiunse Archie, interrompendolo delicatamente, “che vostra sorella non sia una bugiarda. E che abbia deciso con la propria volontà come comportarsi. Per quanto… per quanto il suo comportamento possa far male. Nella lettera ha scritto di essere partita con Frank Innes perché intenzionata a voler passare i giorni futuri con lui. Bene. Sono convinto che sia così. Nessun crimine è stato perpetrato, se non quello del… tenere nascoste le cose e del fuggire.”
Archie e Kristie si scambiarono un’occhiata eloquente, ma nessuno fece loro troppo caso. Anzi, i Quattro Fratelli Neri non li stavano proprio guardando: erano completamente presi a discutere tra di loro su cosa fosse più opportuno fare e in cosa, invece, fosse meglio non invischiarsi.
“Dobbiamo trovarla!” Diceva uno.
“Ma se è andata via perché voleva, noi cosa dovrem--” Provava a dire un altro.
“Beh, fuggire non ha mai portato nulla di buono a nessuno, da che ho memoria, specie se non si è inseguiti da dei banditi.” Protestava un altro ancora.
“In realtà ci siamo noi, ad inseguirla.” Commentava il quarto.
“Ci stai paragonando a dei banditi?”
“Neanche a nostra madre! Poteva parlarne almeno a lei, è una maschera di dolore!”
Signor Weir!” Esclamò infine Clem, al che Archie smise di passare gli occhi da uno agli altri di essi e si mise più dritto con la schiena, nel portamento da signore per bene quale lui effettivamente era.
“Ditemi, signor Elliott.”
“Abbiamo appurato che la vostra implicazione in tutta questa disgraziata faccenda è minima, ma rimane il fatto che Frank Innes è vostro amico.”
“Non mi assumerò responsabilità che non mi competono, se è questo che volete dire.”
“Ma non voglio dire questo, no.” Clem fece un breve cenno di diniego con il capo, prima di sorridere piuttosto ambiguamente. “Voglio dire che potreste darci il suo indirizzo di Glasgow, per esempio.”
Archie esitava. Doveva farlo?
“Signor Weir, non è una cattiva idea,” gli fece notare Kristie, posando una mano sul suo braccio, all’altezza del gomito, “potranno chiarire per conto loro la faccenda.”
“Gli farete del male?” Si ritrovò, però, a chiedere lui.
“Per chi ci avete preso?” Protestò Gib. “Mi era parso di aver specificato che non siamo banditi.”
“Avremo solo l’occasione di confrontarci.” Precisò Hob.
“E di parlare con Christina.” Aggiunse Dand.
“Certo, sempre che loro due si trovino davvero a Glasgow.” Proseguì Hob. “Potrebbero essere ovunque, ma lì potremmo incontrare qualcuno che, che Dio ce la mandi buona!, potrebbe avere qualche informazione in più.”
“Siete disposto a farci questo favore, signor Weir?” Gli chiese, allora, di nuovo Clem.
Archie, per una frazione di secondo, esitò ancora, ma poi si ritrovò a costringersi a scacciare il pensiero che fosse un peccato che I Quattro Fratelli Neri non volessero neanche dare una breve ma energica rastrellata al suo ‘vecchio amico’ signor Innes. Allora Archie chiese a Kristie di andargli a prendere l’occorrente per poter scrivere.
I Quattro ringraziarono, prima di uscire dalla proprietà. Si toccarono il cappello e Dand si profuse anche in un mezzo inchino.
Forse più in ‘un quarto’ d’inchino, ma tant’è,” pensò Archie.
Ed era proprio il poeta-pastore a stringere la carta con l’indirizzo di casa di Innes padre.
Archie si disse che, in fondo, non aveva fatto nulla di male: in un modo o nell’altro, d’altronde, gli Elliott sarebbero riusciti comunque ad entrarne in possesso, prima o poi. Lui aveva solo contribuito ad accelerare i tempi.
Quando, dunque, andarono via e la porta venne chiusa a chiave, per un attimo Hermiston sembrò addirittura vuota.

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Capitolo 3
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII
 
 
Il fatto che Archie Weir fosse finalmente riuscito a venir fuori dalla sua camera non voleva dire, purtroppo, che sarebbe uscito anche da Hermiston. Già in tempi più sereni Archie non era solito passare molto tempo all’aria aperta o in compagnia di una gran quantità di persone, ma, ora che, invece, i giorni non erano più così allegri, la voglia di passeggiare non era preponderante. Solo il pensiero di poter, per puro caso, incontrare qualche conoscente gli faceva spuntare una smorfia sul viso che rendeva obliqua la piega delle sue labbra. Senza contare che lui fosse propenso già di per sé a comportarsi de ‘eterno eremita’, come aveva cominciato a chiamarlo qualcuno.
Quindi rimase a Hermiston a curare la proprietà, a passare serate e gran parte delle giornate stesse con il capo chino sulla propria scrivania, a lume di candela, per studiare le carte dell’amministrazione e la contabilità. Le entrate, le uscite, le spese autorizzate o no, le spese da prendere in considerazione più attentamente, quelle evitabili e inevitabili, quelle da scartare, il costo per il mantenimento della tenuta, gli investimenti in città e i loro profitti, i risparmi messi da parte… Nei giorni a seguire furono questi gli argomenti che catturarono indissolubilmente la concentrazione del signor Weir.
O, almeno, furono questi per la maggior parte del tempo.
Singolare come, nel cercare di tenere occupata la propria mente e provare a catalizzare i propri pensieri verso un unico obiettivo per non pensare a tutto il resto, Archie cominciasse a somigliare terribilmente a suo padre. E lui se ne rendeva perfettamente conto. Sul momento non diede neanche molto peso a questa piega che stava prendendo la sua personalità, d’altronde – si disse, ragionando tra sé e sé – questa assidua e quasi assoluta attenzione agli affari era stata causata dal non voler pensare ad altro. Non era fine a se stessa, Archie non passava le serate con il naso sempre più incollato a numerosi fogli pieni di piccoli numeri solo per il puro e semplice gusto di farlo. Il motivo era diverso. Per suo padre era quello di considerare il proprio lavoro di Giudice prioritario rispetto a qualsiasi altro aspetto della sua vita, Archie compreso – forse. Quasi sicuramente. Per cui, in fin dei conti, il giovane signor Weir riusciva a scacciare la sensazione di inadeguatezza piuttosto velocemente, quando il pensiero volava pindaricamente a simili parallelismi.
Mano a mano che il tempo passava, però, quella sensazione diventava sempre più prepotente, fin quando Archie non riuscì proprio più a guardare un documento per un paio di ore di seguito senza che gli venisse una sottile nausea a bruciargli la gola.
“Cosa state facendo?” Fu praticamente la prima frase che disse Archie, dopo che ebbe stabilito che non ce l’avrebbe fatta a rimanere seduto solo un momento di più.
Così aveva deciso di uscire all’aria aperta. Ma no, non era un controsenso al suo abituale modo di comportarsi e, soprattutto, alle sue intenzioni: non uscì affatto dalla proprietà. Girò attorno alla casa, con le mani unite dietro la propria schiena, camminando a passi lunghi ma lenti. Si guardava intorno come se non vedesse quei paesaggi da tempo immemorabile.
Forse era perché, in fondo, non aveva messo naso fuori da diverso tempo. Forse perché quella era una bella giornata, in fin dei conti.
E, andando direttamente sul retro della tenuta, in un posto un po’ nascosto, come era giusto che fosse, a chi passava lungo la strada a piedi o su un cavallo o su un calesse, aveva visto Kristie dedita ad una di quelle che sicuramente erano le sue attività giornaliere. Non stava facendo niente di particolare o esaltante, pensò Archie, d’altronde stava semplicemente stendendo al sole grandi tovaglie e lenzuola appena lavate, tirandole su una per una da un cesto di vimini che lei aveva posato a terra, direttamente sull’erba.
In realtà Archie non seppe dire bene perché le pose quella domanda, dato che aveva appena appurato da sé cosa lei stesse facendo. Fatto fu che la pose e che lei, di sicuro momentaneamente persa nei propri pensieri, trasalì, sentendolo, non aspettandosi di trovarlo dietro le proprie spalle. Difatti Kristie si voltò di scatto, al suono della sua voce.
“Signor Weir, mi avete spaventata!” Si lasciò sfuggire Kristie.
“Non credevo di essere tanto brutto.”
Lei si mise brevemente a ridere, prima di riprendere il proprio lavoro.
“Siete uscito, dunque,” riprese a parlare lei. “Avete finito di lavorare?”
“Ho pensato di poter assaggiare la libertà di una breve pausa,” rispose Archie.
Kristie si chinò per prendere una tovaglia dal cesto, per poi appenderla al filo teso poco sopra la sua testa. Archie seguì involontariamente i suoi movimenti con gli occhi.
“Avete fatto bene. Quasi-quasi oggi non c’è neanche bisogno di una sciarpa, se decideste di fare una passeggiata.”
Prima di rispondere, lui si chinò e afferrò il cesto pieno di biancheria bagnata, sollevandolo per le apposite maniglie. Kristie lo guardò stupita e per un istante ogni suo movimento si bloccò. Veramente il signor Weir la stava aiutando in quel modo tanto gentile? Possibile che le stesse rendendo meno faticosa una cosa tanto… umile come pensare al bucato?
Archie notò lo sguardo di lei, ma non commentò. Si limitò a fare un piccolo sorriso. Non era un sorriso bello come quello che tante volte tutti avevano visto sulla bocca del signor Innes, ma a Kristie non dispiacque comunque.
“Non credo lo farò,” rispose infine lui.
“Oh, beh.” Kristie si strinse nelle spalle, mentre prese qualcosa di indefinito dal cesto ora tenuto più in alto. “Meglio così.” Ma, prima che Archie potesse dire alcunché, Kristie si affrettò ad aggiungere: “Intendevo: qualsiasi decisione prendiate sarà di certo la migliore.”
A lui scappò un altro sorriso, sul suo volto malinconico per natura.
“Sì, Kristie. Avevo capito.”
Rimasero lì tutto il tempo di cui lei aveva bisogno per ultimare le proprie faccende.
Questo stava accadendo ad Hermiston, dunque; e, nonostante l’attenzione sia rimasta focalizzata qui, non era detto che altrove non stesse succedendo qualcosa di altrettanto importante. Per sapere cosa, l’occhio esterno deve spostarsi a Glasgow, in particolare in una delle sue tante eleganti strade del centro cittadino.
Lì, due persone erano ferme, in piedi, sul ciglio della strada; stavano osservando una grande casa a più piani. Si trattava, ovviamente, di Innes e Christina.  E se la seconda negli occhi aveva una luce di curiosità e di ansia data dal non sapere cosa sarebbe successo di lì a poco, l’ansia degli occhi di Innes era la medesima, ma decisamente più forte: perché neanche lui sapeva cosa sarebbe potuto accadere. Avrebbe bussato, qualcuno sarebbe arrivato ad aprirgli la porta. Suo padre sarebbe stato in casa? Lo avrebbe salutato con cortesia o avrebbe inveito contro di lui per essere fuggito come un codardo in attesa che le acque si placassero? E i debitori? Erano ancora nei paraggi o poteva lui arrischiarsi ad avvicinarsi alla sua stessa dimora?
Innes sospirò e Christina, nel suo vestito migliore, in piedi accanto a lui – solo i loro bagagli posati a terra li separavano – lo udì.
“Cosa vi turba?” Gli chiese, dunque, di slancio.
Frank si voltò verso di lei con sguardo confuso, in principio, ma poi dalle sue labbra uscì un altro sospiro, sebbene decisamente più lieve del precedente. Fu quasi impercettibile.
“Ci sono delle cose che non vi ho detto, Christina,” fu la risposta di lui.
Christina continuò a guardarlo seriamente; d’altronde, con una simile premessa, lei non si aspettava nulla di più che una rivelazione quantomeno piuttosto solenne. La serietà era l’unico atteggiamento che, in quel momento, le sembrasse opportuno. E aveva scelto bene.
“Quando sono giunto a Hermiston, ospite dal signor Weir,” cominciò, infatti, a raccontare lui, “non è stato solo perché lui mi aveva mandato una lettera che mi chiedeva come stessi – oh, sì, me ne aveva mandata una, anche se poi l’avevo perduta. Il fatto era che… ero nei guai, signorina Elliott.”
“Nei guai?” Christina si coprì le labbra con la mano, ma solo per un istante, solo per sottolineare la sua sorpresa e – perché no, d’altronde? – la sua subentrata preoccupazione. “Quale genere di guai?”
“Economici, ahimè. Nello specifico: debiti. Oh, io sono una persona ricca, se così si può dire – e credo che lo si possa – ma, per studiare, ho reso il mio libraio non solo un semplice libraio con qualche entrata in più, ma un mio… affezionato creditore. Mio padre mi ha tolto i fondi per motivi talmente superflui che non sto neanche qui ad elencarvi, ho provato a rimediare a quanto avevo compiuto per il solo scopo di diventare un buon avvocato, ma… io studio legge, per l’appunto; non economia. È stato più difficile del previsto, e mi sento un codardo ad essere andato ad Hermiston solo per avere un momento di libertà.”
Christina era rimasta in silenzio tutto il tempo, per poterlo ascoltare e capire fino in fondo ogni sua parola. E cosa aveva compreso? Aveva afferrato le nozioni di base: fuga per i debiti. Ma lei aveva visto altro: aveva scorto il peso che Innes aveva portato sulle spalle, che lo sopprimeva, che, nonostante tutti i suoi sforzi, era stato troppo forte per lui, povero uomo che aveva tentato di tornare sulla via della rettitudine in tutto e per tutto. E Innes sapeva che lei avrebbe visto ciò, in lui, dato che, nel suo discorso, aveva volontariamente usato certe parole invece di altre. Come aveva detto lui, d’altronde, stava studiando per diventare avvocato, non economista: e gli avvocati sanno parlare. A Frank Innes è sempre venuto piuttosto naturale.
Christina rispose, in ogni caso:
“Ma se siete andato a Hermiston per riflettere su come fosse meglio agire, questo non vi disonora. Vuol dire che non siete definitivamente fuggito, ma che cercavate di trovare la soluzione più adeguata alle vostre esigenze. È un atto pratico, giusto? Denota organizzazione! Quindi ora che cosa avete intenzione di fare?”
“Parlerò con mio padre. Lo convincerò a ripristinare l’assegno mensile. Sanerò i miei debiti e, da quel momento in poi, sarò più cauto.”
“È molto lodevole da parte vostra.”
“Vi ringrazio.”
“E poi mi presenterete a vostro padre, dico bene?”
Innes annuì. “Certamente. Sarà la prima cosa che faremo varcata la soglia. Ma, a questo proposito, devo necessariamente collegarmi al mio discorso precedente e, soprattutto, alla premessa: anche in questo caso c’è qualcosa che non vi ho detto.”
La perplessità era andata via dalle espressioni di Christina, negli ultimi secondi, così come la confusione; ma ora entrambe erano tornate con prepotente insistenza.
“Devo preoccuparmi?” Domandò lei.
“Oh, no. Potete vederla come… un’esaltazione delle vostre doti,” si ritrovò a rispondere lui. “Dovrete recitare.”
Le labbra di Christina si schiusero fino a formare una dolce e morbida ‘O’. Recitare? Di primo acchito Christina pensò che potesse essere divertente e interessante: non aveva recitato neanche una volta, prima di allora, e avrebbe potuto considerarlo una sorta di gioco.
Poi però un’altra idea si insinuò nella sua mente, e fu su questa che lei si soffermò e, facendola propria, la utilizzò per formulare quel che disse subito dopo; la ‘O’ delle sue labbra era svanita e si era tramutata in una ‘I’ posta in orizzontale.
“Per caso, a discapito di tutto ciò che mi avete sempre detto, in realtà, di fronte a vostro padre, vi vergognate di me, signor Innes?”
Il signor Innes in questione sgranò gli occhi. “No, certamente no!”
“E allora per quale motivo dovrei prestarmi a questa farsa, qualunque sia il ruolo che voi vogliate assegnarmi?”
“Non arrivate a conclusioni troppo affrettate. Non voglio modellare la vostra persona e mostrarvi per ciò che non siete!” Fece con impeto Frank, ma, non per questo, aumentando il tono di voce – avrebbe potuto attirare l’attenzione di qualche passante. “Ma, quando andrò a parlare con mio padre, ho intenzione di presentarvi come una giovane e ricca donna. Ricca di spirito lo siete già, così come di bellezza. Ma vorrei che non mi smentiste quando mio padre penserà che siate anche ricca di denaro.”
A Christina parve che le lusinghe potessero attenuare un po’ il fastidio provato.
“Beh,” rispose infatti, “io vivo proprio qui a Glasgow con mio fratello Clem. Clement Elliott, intendo. Non in queste vie, però… Ebbene, lui ricco lo è in effetti.”
“E se vivete con lui,” O vivevate, pensò Innes, “allora non vi sarà molto difficile recitare la parte. In questo modo mio padre vi vedrà come una garanzia – sapete che mentalità spicciola hanno gli uomini d’affari più anziani – e sarà più propenso ad accontentare le mie richieste.”
Christina annuì, a questo punto. “Farò come dite. Non sarà difficile.”
E, con la consapevolezza che sarebbe stato tutto estremamente semplice e fattibile, andarono a bussare alla porta designata. O meglio, andarono insieme alla porta, e poi Innes bussò. La cameriera che andò ad aprirgli si sorprese di trovarlo lì, ma ovviamente lo fece entrare con tutti gli onori, azzardando anche una piccola riverenza nei confronti di Christina, la quale apprezzò con un sorriso.
Frank si fece dire se suo padre fosse in casa: lo era, nel suo studio al piano superiore. La cameriera lo avrebbe annunciato e, su richiesta del giovane Innes stesso, lo avrebbe fatto scendere dabbasso. Così la donna andò via, e Frank e Christina rimasero nuovamente da soli.
Si trovavano in un salotto, ovviamente una stanza adibita al ricevimento o in cui prendere il ponce nelle serate più allegre.
Christina si guardava intorno con meraviglia, esaminando ogni cosa; si soffermò, in particolare, su un arazzo posto sopra il camino di pietra: ritraeva quella che era nientedimeno che la testa di un cinghiale racchiusa all’interno di una cintura allacciata. Lei lo stava osservando con le sopracciglia aggrottate, e Innes se ne accorse, così le si avvicinò.
“Oh, io e la mia famiglia non siamo particolarmente dediti al gusto dell’orrido,” le spiegò, “Quello è il nostro stemma di famiglia. O meglio, lo stemma del nostro clan.”
Così Frank si dilungò appena: il clan scozzese degli Innes nacque all’incirca nel 1160, da quello che era un cavaliere fiammingo, tale Berowald, al quale vennero affidate le terre di Innes – da qui il nome – da Malcolm IV di Scozia. Il nipote del cavaliere, Walter, decise di assumere il cognome Innes, e da lì in poi tutta la famiglia venne appellata in quel modo. C’erano carte ufficiali che lo attestavano, ma queste arrivarono solo in seguito, nel 1226. Si susseguirono, all’interno del clan, numerosi e illustri Innes; il ventesimo capo del Clan, Sir Robert, è stato addirittura un membro del Parlamento e venne nominato baronetto nel 1625.
“Il nostro motto è ‘Be traist’, ‘Siate fedeli’, e chissà che qualche altro Innes, prima o poi, non entri anche lui nella storia,” concluse Frank con un sorriso sornione a increspargli le labbra e a scoprirgli appena i denti.
Christina era quantomeno affascinata, e adesso la testa di maiale non sembrava più così disgustosa.
Le chiacchiere, però, vennero interrotte da un rumore di passi e, nel tempo giusto di qualche secondo, necessario a entrambi per voltarsi verso la porta, il signor Innes padre fece il suo ingresso. Anzi, si poté dire che, più che altro, irruppe nella sala: passo deciso e falcate larghe, con tanta irruenza che per un momento, sebbene fosse decisamente più basso di suo figlio, sembrò quasi un gigante.
“Tu!” Esclamò, puntando il dito contro Innes e fermandosi solo a qualche passo di distanza. “Tu osi farti vedere così all’improvviso in casa mia! Sciagurato! Dopo che sei sparito nel nulla senza dir niente! Pensi che ti tratterò come un moderno figliol prodigo? Non pensarci neanche!”
“Buon pomeriggio, padre, anche io sono molto contento di vedervi di nuovo.”
Il preambolo non fu di certo dei migliori, no; ma più continuarono a parlare più la situazione parve calmarsi. Frank raccontò di aver effettuato un banale viaggio e di aver incontrato Christina lungo la proprio strada. E sì, la presentò come figlia di una Lady.
Le orecchie del signor Innes padre si fecero ancora più attente, mentre il suo tono di voce si fece più mite, via-via che scambiava qualche parola con la giovane ragazza. Frank venne accettato a casa, e, quando suo padre glielo disse, lui non poté esimersi dall’esibire un gran sorriso di soddisfazione.
E, mentre la cameriera correva a preparare il tè per tutti, Innes si rese conto che chiedere nuovamente del denaro a suo padre sarebbe stato più facile di convincere Archie a fare quel che aveva fatto.
 
Era domenica, in Scozia. In realtà era domenica in gran parte del mondo, per cui era domenica anche a Hermiston.
Archie aveva appena finito di prepararsi, in tempo per uscire e per recarsi a messa. Sarebbe stata la prima volta da giorni in cui sarebbe uscito dalla propria proprietà per recarsi in paese, tra la moltitudine di persone. Non che temesse che gli venissero riservati sguardi di qualche specifico tipo, credeva solo… che si sarebbe sentito soffocare, in qualche maniera. Opprimere. Che avrebbe voluto uscire e tornarsene chiuso nelle proprie stanze.
Per questo Kristie era pronta ad andare assieme a lui. In realtà andavano a messa insieme ogni domenica, a pensarci bene, ma stavolta era anche diverso, in qualche modo.
È strano pensare come un gesto quotidiano possa assumere sfumature differenti a seconda del modo in cui lo si guarda; come un brillante posato su un tavolo, accanto ad una piccola fonte di luce: a volte proietta sulla parete luce blu dalle forme spigolose, a volte gialle e dalle forme arrotondate, basta porsi in un’altra angolazione rispetto ad esso; a volte addirittura finisce con il generare ogni colore dell’arcobaleno.
E probabilmente Archie pensava la stessa cosa dello andare a messa quella stessa mattina.
Ma non era solo la paura – se si può definire tale – di trovarsi circondato dalle solite persone, no; d’altronde loro non sapevano cosa fosse esattamente successo. Il suo amico Frank Innes era fuggito insieme a Christina Elliott, ma nulla di più. Non sapevano quanto Archie e quanto il suo stesso cuore fossero implicati in tutta l’intera questione. Però avrebbero potuto chiedergli se avesse notizie da Innes, o come avesse preso questo specifico evento, se fosse preoccupato, cosa stesse mai pensando. E Archie non aveva la benché minima voglia di sorbirsi una tale quantità di domande, né, soprattutto, di dover dare una risposta plausibile e poco compromettente ad ognuna di esse.
Senza contare un altro fatto di non poca importanza: proprio lì, durante la messa, proprio lì, in quella stessa chiesa, con lo stesso pastore Torrance che stava proclamando il suo sermone… proprio lì, per la prima volta, i suoi occhi e quelli di Christina si era intrecciati. Proprio lì il suo cuore aveva smesso di battere, eppure, allo stesso tempo, aveva preso a battere più velocemente. Proprio lì aveva addirittura smesso di ascoltare la celebrazione, nonostante ne fosse sempre stato affascinato. Proprio lì aveva deciso che quella giovane ragazza lui l’avrebbe conosciuta e anche di più.
Il fatto che Kristie lo stesse accompagnando, nonostante corrispondesse alla normalità, era sia ordinario che straordinario, in quel momento. Proprio come se un granello di sabbia fosse temporaneamente diventato perla, prima di tornare di nuovo granello. Sempre che non decida di rimanere perla, naturalmente.
“Possiamo andare?” Le chiese lui, fermo accanto alla porta, quando anche lei fece la sua comparsa nel suo vestito migliore e con la sua sciarpa di cashmere attorno al collo.
“Certamente, signor Weir,” rispose lei.
Archie aprì la porta e la fece passare, mettendosi di lato. “Mi conoscete sin da bambino. Chiamatemi Archie. O Archibald, se proprio non vi sentite a vostro agio.”
Uscirono.
Una volta giunti in chiesa, Kristie fece per salutarlo per sedersi al suo solito posto, mentre Archie avrebbe dovuto proseguire dritto per giungere al banco che era destinato alla sua famiglia ormai da generazioni.
“Venite avanti con me,” la fermò, però, lui, “potete sedermi accanto.”
Kristie si ritrovò a sgranare gli occhi. “Ma… Lì non è il mio posto!”
“Ma è il mio, ed è anche piuttosto grande per una persona sola. Non posso decidere che cosa fare della mia stessa panca?”
Kristie gli si avvicinò, bisbigliando qualcosa che lui, sul momento, non capì; allora lei gli si fece più vicina e la ripeté.
“E poi cosa penseranno tutti?”
Archie fece un sorriso malinconico che andò a incurvargli le labbra giusto appena. “Che al signor Weir non piace più stare da solo. E che la signorina Kristie Elliott sembra essere molto fortunata,” scherzò, con l’ultima affermazione.
Lei, però, non parve afferrare lo scherzo, perché rispose con un’espressione seria, quasi solenne, di certo adeguata al luogo in cui quella singolare conversazione si stava svolgendo.
“Oh, sì, certo che sarei molto fortunata.”
“La fortuna bisogna coglierla. Ho ormai capito troppo bene che, d’altronde, non pare durare troppo a lungo, in certi casi.”
Mentre parlava, Archie posò delicatamente il palmo della mano sul gomito di Kristie, sospingendo così sia esso che lei stessa lungo la navata, facendola camminare lentamente accanto a sé. Fu un gesto pacato, senza nessun segno di irruenza o di comando, e Kristie, se avesse voluto, avrebbe potuto tirarsi indietro e sedersi da qualche altra parte in qualunque momento.
Ma non lo fece. E lei si sentì arrossire quando si sedette sulla panca degli Hermiston, e continuò ad arrossire mentre faceva finta di cominciare già a leggere la Bibbia che si era portata con sé. Forse persino Archie sarebbe arrossito, non fosse stato per il suo pallore che serviva da scudo sul suo viso ora rilassato.
Ci fu anche un mormorio, a voler essere precisi, mormorio che forse – ma forse anche no, chi può dirlo – sarebbe potuto continuare addirittura nei giorni seguenti; ma poi cessò quando il signor Torrance diede finalmente inizio alla funzione.
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XIII
 
 
La carrozza viaggiava trainata da una coppia di cavalli. La velocità non era elevatissima, altrimenti la carrozza avrebbe traballato e le ruote avrebbero rischiato di rompersi, o, quantomeno, di scheggiarsi in una strada brulla di campagna, ma non si trattava neanche di una comune passeggiata. Il motivo denotava urgenza. Il perché si può capire perfettamente, semplicemente spostando la tendina che oscurava il vetro della carrozza e constatare chi fossero di preciso i suoi occupanti.
I Quattro Fratelli Neri, in viaggio verso Glasgow.
Il motivo, ora, dovrebbe già essere chiaro.
Hob, Gib, Clem e Dand avevano discusso molto, una volta ottenuto l’indirizzo di Frank Innes, su quale fosse la strategia migliore da utilizzare. Certo, un torto era stato compiuto, questo era palese, ma l’irruenza tipica del loro animo, sebbene si fosse assopita con il tempo, era in occasioni come queste che tendeva a venir fuori in tutta la sua preponderanza. Andava controllata, non potevano essere avventati. Christina, d’altro canto, non era stata rapita, né ferita a morte come, invece, era successo al loro vecchio padre. Salire a cavallo e inseguire Frank Innes fino a farlo cadere con la faccia a mangiare lo sporco delle strade sarebbe stato quantomeno… poco ragionato.
“E Christina finirebbe per odiarci a morte,” aveva aggiunto Gib.
Per cui, nel giro di un giorno o poco più, dopo discussioni infuocate e commenti gelidi, erano giusti alla conclusione che, almeno per il momento, parlare fosse la cosa migliore da fare.
Per il momento, certo.
Tutto dipendeva da quali sarebbero state le reazioni di Innes e, soprattutto, le sue riposte; nonché la sua capacità collaborativa.
Con il fatto che Clem vivesse a Glasgow, trovare la casa giusta non fu molto complicato. La cosa più difficile, per i Quattro Fratelli, fu rimanere calmi. Ma non solo per quell’irruenza che ancora cercava di aprire la gabbia in cui stava venendo costretta, ma perché, in fin dei conti, c’era anche l’incertezza a giocare la sua parte: non potevano sapere se quel farabutto di Innes fosse effettivamente tornato a casa. E se fosse partito per un altro luogo a loro sconosciuto? E, se invece fosse davvero a Glasgow, Christina cosa avrebbe detto? Sarebbe tornata a Cauldstaneslap con loro, o il rapporto fraterno sarebbe stato irrimediabilmente compromesso?
Fu con questi pensieri e con queste domande ancora senza risposta che Hob bussò alla porta. Era un bussare che tendenzialmente si sarebbe potuto definire calmo e pacato, forse leggermente determinato, ma non che potesse far sussultare qualcuno. Eppure Innes, quando lo sentì, sì che sussultò: il che risultò strano a lui stesso, dato che, in fin dei conti, non avrebbe potuto sapere chi si celasse dietro la porta di legno massiccio; era un segno premonitore, questa sua inquietudine? La sensazione di terrore fu una finestra su ciò che sarebbe successo in futuro?
Ma il futuro, in fin dei conti, potrebbe rimanere futuro senza trasformarsi ancora in presente, difatti Innes si ritrovò a posticipare quello che sarebbe stato l’incontro con i Fratelli. Lungimiranza nel capire da un semplice bussare il pericolo imminente, forse; un altro potrebbe dire che si trattò di semplice codardia.
Fatto sta che Innes non si fece scrupolo ad agire. Disse a Christina di andare al piano di sopra.
“Chi è alla porta? Perché avete quella faccia?” Chiese lei.
“Suppongo si tratti dei vostri fratelli.”
“I miei fratelli? Sono già giunti da noi? Forse potremmo spiegare…”
“No…! Ci sarà tempo, di sicuro, per parlare con loro. Ora non è il momento, le parole da pronunciare non sono pronte.”
Christina allora salì le scale che portavano al piano superiore, con aria mesta, dopodiché Innes riuscì a intercettare la cameriera che stava andando ad aprire la porta:
“Se si tratta di quattro signori che chiedono di me, dite loro che sono settimane che non mi vedete, e che non sapete dove io sia. Né che abbiamo un ospite, è di fondamentale importanza.”
“Ma signor Innes,” rispose lei, “ora che siete tornato, come mai--”
“Non una parola,” la interruppe lui con tono risoluto, senza ombra del suo solito sorriso sornione sulle labbra o della sua espressione drammatica sul viso.
O meglio, tale espressione sussisteva, ma ora anche la cameriera riuscì a capire che fosse effettivamente genuina. Così lei annuì e, mentre andava ad aprire, Innes si pose spalle al muro proprio dietro l’angolo, in modo da poter ascoltare.
“Buongiorno,” disse una voce, che però Innes non seppe associare ad uno dei fratelli in particolare. In quel momento, nella sua testa, i quattro erano tutti fantocci con lo stesso viso, “stiamo cercando il signor Innes, vorremmo conferire con lui.”
“Il signor James Innes, al momento, è in tribunale. Credo rientrerà stasera.”
“Ah, no, noi cerchiamo il signor Frank Innes.”
“Oh. Frank Innes?” La cameriera fece una pausa, e per un momento Innes pensò al peggio. “Voi sapete dove si trova? Sono settimane che qui non si fa vedere.”
Un momento di silenzio. Innes immaginò i quattro fantocci guardarsi tra loro perplessi.
“Ne siete certa? Potrebbe essere arrivato in… compagnia di qualcuno. Non è che non ci ha fatto caso?”
“Signore, io sono a conoscenza di tutto quello che succede in questa casa, se il signor Innes fosse rientrato, io lo saprei. Se con lui ci fosse stato qualcuno, ben di più! Ma così non è, e la sua assenza è palpabile e deleteria. Se, anzi, siete a conoscenza di un suo probabile ritorno, sarebbe cortese dirmelo, così stasera potrei informare suo padre.”
Innes tirò un gran sospiro di sollievo.
“Ebbene,” disse uno degli uomini, “forse potrebbe tornare a breve. Forse. Noi comunque rimarremo in città, casomai dovesse effettivamente farsi vivo.”
Non altre parole vennero spese. Non parole, comunque di una qualche rilevanza particolare, e, dopo giusto qualche secondo, la porta venne chiusa nuovamente. Quando la cameriera, tornando indietro, passò di fronte a Innes, ancora schiacciato contro il muro come se ci fosse un fantasma a premere contro il suo torace, gli scoccò un’occhiataccia.
“Vi devo un favore, mia cara.”
L’occhiataccia non cambiò, ma Innes si sentì ancora più sollevato. Anche se per il momento.
L’ansia che stava cominciando a prendere piede a casa Innes – o, comunque, che stava andando intensificandosi – era presente anche altrove – a Hermiston, per esempio. Ma non si trattava dello stesso tipo di ansia, sebbene – sì – sempre di tale stato d’animo si trattasse. Un disagio, più che un’ansia, invisibile, intimo, spiacevole, ma al contempo, piacevole. Cosa mai era un simile turbamento? Poteva esso essere espresso a parole?
Quando la mente è a disagio, signore, parla meglio colui che meglio tace.”, diceva Pedro Calderón de la Barca, drammaturgo. Ed era vero, per Archie. Le parole non sarebbero riuscite davvero ad esprimere il disagio della sua mente; i gesti, quelli avrebbero parlato al posto suo. E no, non era un disagio brutto – come avrebbe potuto esserlo? – ma era disagio.
Perché era strano.
Perché era… particolare.
E Archie se ne rendeva conto ogni istante di più, soprattutto mentre guardava Kristie compiere le faccende di casa, lui seduto in un angoletto per non darle fastidio, come l’ultimo dei servetti. Oh, lei aveva insistito che lui non si comportasse così, che andasse a lavorare, che uscisse, che facesse qualsiasi altra cosa, piuttosto che starsene lì tranquillo, perché, nella sua mestizia, lui ogni tanto la metteva a disagio.
Disagio, disagio; che questa parola torni sempre a galla non è un caso.
Che anche lei lo provasse allo stesso modo di lui?, si chiedeva Archie. Anche per lei era strano ma bello, oppure era semplicemente spiacevole?
E Archie taceva, perché non sapeva esattamente cosa dire. Come avrebbe potuto?
“Signorina Elliott,” si era ritrovato lui a dire, una sera, parlando a bassa voce per non essere udito neanche dai personaggi dei quadri, davanti allo specchio della propria camera, “so che quanto sto per dirle potrebbe risultarle strano, che le mie parole potrebbero infastidirla o, più che altro, farmi fare la figura dello sciocco. Forse vi metterete a ridere, ma correrò il rischio. Signorina Elliott, so che mi avete visto crescere, so che forse, per voi, sono il figlio che non avete mai avuto, ma io non vi considero la madre che Dio mi ha dato per sostituire colei che ha deciso di chiamare a sé.”
Allo specchio, Archie aveva assunto un’espressione contrita.
“Oh, no, signorina Elliott, non guardatemi così, questo non vuol dire che io non sia affezionato a voi! Anzi, lo sono fin troppo. Fin troppo. Il mio cuore ha trovato pace dai tumulti, assieme a voi, l’avete curato, l’avete preso e accarezzato tra le vostri mani, fino a farlo ristabilire, fino a farlo tornare forte e pulsante. Ma ora è di nuovo in tumulto. E potrebbe venir ferito, come anche no, ciò dipende da voi, se vorrete o no, di nuovo, prendere il mio cuore con voi.”
L’espressione di Archie era di nuovo più spavalda, ma il suo cuore tradiva il suo disagio, battendo forte come se stesse davvero parlando di fronte alla diretta interessata.
“Il mio cuore batte di nuovo d’ardore per Kristie, signorina Elliott. Ma ho imparato la lezione, e gli errori non si compiono più volte di seguito, a meno che non siamo degli sciocchi. Io non mi reputo tale… ma forse voi lo farete tra poco. Perché il mio cuore sta battendo per Kristie, questo sì, ma non la fanciulla che amai, la Kristie di cui parlo siete voi.”
Le mani di Archie tremavano, tanto che dovette incrociare le braccia al petto.
Il disagio lo fece sentire stupido.
Ma, sebbene cercasse, con il proprio atteggiamento, di esprimerle quanto stesse provando in quel momento – il tono di voce gentile, qualche piccolo aiuto, il fatto di averla fatta sedere accanto a sé a messa, il fatto che ricercasse la sua compagnia non solo la sera per una chiacchierata, ma in ogni momento questo fosse stato possibile… non era possibile cibarsi di sottintesi. Alla fine Archie sapeva di dover parlare, di dover mettere tutto in chiaro, nero su bianco, una lettera fatta di intenti precisi, di intenzioni risolute, quelle per le quali un uomo non si sarebbe spettato niente altro che non fosse un ‘sì’ come risposta.
… Ma lei lo avrebbe fatto? O avrebbe riso di lui e lo avrebbe considerato solo un ragazzo un po’ più problematico rispetto agli altri, che stava solo cercando altrove l’affetto che gli era stato negato così bruscamente?
E così il disagio lo faceva tacere. Il discorso provato allo specchio continuava a rimanere un semplice allenamento, una pièce teatrale priva di spettatori.
Finché la mente non decise di agire in modo diverso, senza esporsi in maniera così palese alla mercé di lei.
“Signorina Elliott, ho deciso che stasera andrò a Crossmichael, dopo cena,” si ritrovò, dunque, a dire lui.
“Oh, quindi uscite, finalmente. Sono… contenta.”
Un’esitazione. Questo convinse Archie a proseguire.
“Sì, finalmente esco. Andrò al Club.”
“Ma voi detestate il Club.”
“Per questo non vi liberete comunque della mia presenza, perché volevo – anzi, voglio – chiedervi se, per caso, non vi andrebbe di accompagnarmi.”
Kristie sbatté le palpebre più di un paio di volte, presa alla sprovvista. Accompagnare il signor Weir al Club? Anzi, il signor Archie? Perché? Già non sopportava andare lì per conto suo, perché voleva portarci anche lei? Per un momento Kristie pensò che fosse perché aveva voglia di farle vedere quanto fosse sgradevole quel posto – e, quindi, rendere spiacevole anche a lei stessa la serata – ma poi scartò l’idea: il signor We-- Archie non avrebbe mai fatto qualcosa che le arrecasse dispiacere.
Non in quell’ultimo periodo, almeno.
Perché ultimamente Archie era… diverso. Certo, era sempre stato gentile con lei, ma ora lo era di più.
“Ma signor Archie,” si ritrovò a ripetere lei, allora, quasi senza pensarci, “voi detestate il Club.”
“Lo so,” Archie annuì, mentre rispondeva, “infatti è per questo che vi chiedo di accompagnarmi: almeno, con voi accanto, sarà tutto più piacevole.”
Di nuovo, Kristie batté le palpebre più volte, cosa che a lui non passò comunque inosservata, perché sorrise teneramente. Era uno di quei sorrisi che, sul suo volto malinconico, erano più belli in quanto più rari. E, ultimamente, a lei ne stava riservando diversi.
“Mi farete questo onore, Kristie?”
Kristie si ritrovò ad annuire.
In tutti quegli anni Kristie era stata al Club pochissime volte, e l’ultima risaliva a diversi anni prima. Si acconciò i capelli meglio che poteva, in una treccia lunga che sembrava grano ondeggiante al vento, quando lei si muoveva camminando lentamente. Non mise i propri capelli totalmente tirati all’indietro: lasciò alcune ciocche, lievemente ricce, ad incorniciarle il viso, come farebbe una tela con il quadro che deve proteggere. La treccia venne sistemata sotto la tipica cuffia.
Neanche a lei il Club piacque. C’erano uomini, più che altro, uomini che le lanciavano occhiate. Ma non a lei in quanto donna, ma perché, più che altro, in quel momento stava accompagnando il signor Weir.
Archie. Stava accompagnando Archie.
Archie che, però, rimase in silenzio per la maggior parte del tempo, e le loro conversazioni vennero riempite dal vociare di altre persone che, con loro, c’entravano ben poco. Però si guardavano, questo è vero.
Lui sembrava teso, mentre sorseggiava dell’idromele – lei preferì non prendere nulla, non se la sentiva assolutamente. E, quando, poi, finalmente parlò, anche la sua voce sembrava tesa.
“Kristie, voi… cosa pensate di me?”
“Di voi?” A Kristie la domanda sembrò piuttosto insolita. “Voi siete meraviglioso, Archie, lo sapete cosa penso, farei di tutto, per voi.”
Sì, ma…” la risposta non pareva averlo soddisfatto, data l’espressione sul suo viso. “Lo dite perché mi considerate solo un ragazzo o per altro? Come mi considerate, Kristie?”
“Oh, ma voi non siete più un ragazzo, questo lo vedo benissimo con i miei stessi occhi. Il buon Dio vi ha fatto crescere sano e forte, vi ha fatto lasciare l’infanzia alle spalle, e io sono orgogliosa di quello che siete.”
“Una madre direbbe che è orgogliosa di me. Voi vi considerate come mia madre?”
“Non mi permetterei mai di paragonarmi alla signora Jean.”
“Allora non lo fate.”
Archie si era rabbuiato e aveva spostato lo sguardo altrove. Kristie, allora, gli posò una mano sull’avambraccio, che lui stava tenendo appoggiato sul tavolo di legno.
“Che cosa avete, Archie? Cosa vi sentite? Dio, non fatemi preoccupare, l’unica cosa che voglio è vedervi felice.”
“Ma potrò davvero essere di nuovo felice?” Lui sospirò. “Io non vi considero una qualche sostituta di mia madre.”
“Così come io non vi considero mio figlio, senza offesa. Capisco quello che volete dire.”
Archie sembrò, stranamente, agli occhi di lei, più sollevato.
“Devo ammettere che la cosa mi rincuora, perché io vi considero un’amica a tutti gli effetti.”
“Questa è una delle cose più belle che mi abbiate mai detto.”
“E forse tale rivelazione potrebbe migliorare ulteriormente.”
Kristie non rispose, si limitò a guardare lievemente perplessa, confusa e, allo stesso tempo, curiosa il suo interlocutore. Archie, dal canto suo, posò una mano sulle dita che lei teneva ancora sul suo avambraccio. Non le aveva tolte nell’impeto della loro strana conversazione. Però lui posò le sue dita sulle sue, e Kristie si sentì le orecchie un po’ più calde di prima.
“E se vi dicessi che voi siete la mia nuova Kristie? Stesso nome, ma una donna totalmente diversa… Una donna migliore. Se vi dicessi che… Che vorrei che voi foste ciò che la vostra parente è stata per me un tempo e che ora è per il signor Innes?”
Senza volerlo, Kristie schiuse le labbra, sorpresa. Anzi, più che sorpresa: sconvolta! Ma non era una sensazione negativa, non era la stessa cosa che solitamente si provava di fronte a qualcosa di disgustoso. Kristie si sentiva in subbuglio, ma, in ogni caso, avrebbe voluto che quella sensazione non se ne andasse mai. Perché era bella. Genuina come il canto di un passero. ‘Bello’, in certi casi, sembra un aggettivo tanto semplice, tanto scontato… Ma non è anche il più indicato, il più pieno, il più adatto ad esprimere la vera – appunto – bellezza?
E quella dichiarazione non era una delle forme più alte di vera e propria bellezza? Per Kristie, perlomeno, lo era.
“Signor Weir…”
“Archie.”
“Archie. Siete sicuro di quello che dite?” Kristie abbassò istintivamente il tono di voce, come se qualcuno, nei dintorni, avesse potuto ascoltarli. “Avanti: guardatemi. Cosa potrei mai offrirvi? Probabilmente sono troppo vecchia persino per darvi un figlio.”
“Voi non siete vecchia.”
“Ma questo non cambia la realtà dei fatti, io non potrei--”
“Non mi interessa avere figli. Se devo scegliere, preferisco voi.”
“Oh, lo dite ora perché siete… infervorato da tutta questa… tutta questa questione; ma domani mattina, quando vi sveglierete, rimpiangerete queste parole. Noi possiamo fare in modo che nessun imbarazzo ci colga quando salirà il sole, possiamo far finta che non sia successo niente.”
“Quindi mi disprezzate a tal punto?” La mascella di Archie si era indurita, nel formulare questa domanda.
“Disprezzarvi io?”
“Naturalmente. Credete che i miei sentimenti siano mutabili come il vento, che in pochi ore vi vedrei sotto una luce diversa. Dite chiaramente che non mi vedete nello stesso modo in cui io vedo voi; forse farà più male, ma saprò che il vostro disprezzo, in realtà, non esiste.”
“Ma non esiste di già…!” Kristie esclamò queste parole mantenendo comunque un tono di voce piuttosto flebile. “Come potrei mai provare qualcosa di orribile nei vostri confronti? Voi siete tanto buono e gentile…”
“Allora permettetemi di dedicarmi a voi soltanto.” Archie strinse la mano di lei. “Lasciamo i pregiudizi a chi non sa guardare oltre il proprio naso.”
“E vostro padre? Iddio, non la prenderà affatto bene.”
“Proprio Dio mi è testimone, in questo momento: gli parlerò. Riuscirò a convincerlo delle mie intenzioni e, per la prima volta nella mia vita, lui non prevarrà. Ho provato a nascondermi in passato, ma non lo farò più: non vi è onore nel celarsi, nel vivere nelle ombre. E di certo lui non passerà all’altro mondo in tempi brevi, questo no.”
“Non oso immaginare cosa penserà di tutto questo!”
“… Quindi il tuo è un ‘sì’, Kristie?”
Kristie lo guardò, quando lui cambiò modo di rivolgersi a lei; Archie stava sorridendo.
“Sì,” mormorò lei come la più pudica delle fanciulle.
Ma fanciulla era ancora, la signorina Elliott, lo era nello spirito, lo era nell’anima. Lui l’avrebbe accettata così, si sarebbero accettati a vicenda. E forse i loro desideri comuni si sarebbero incontrati, e gli orologi dei loro cuori avrebbero, con delicatezza, appianato il tempo che ancora li separava.
Chi, invece, avrebbe voluto che il tempo passasse il più in fretta possibile si trovava a Glasgow e portava il nome di Frank Innes.
Ora che il giovane signore aveva saputo che i fratelli d Christina si trovavano in città, le cose erano cambiate; non i sentimenti verso di lei, ma il suo atteggiamento. Uscire di casa era complicato, lui e Christina sgattaiolavano via dall’entrata per la servitù – con sbigottimento generale – perché lui aveva paura che quei quattro uomini fossero costantemente vigili, dritti in piedi come militari dell’esercito, di fronte la sua abitazione. In più, come se non bastasse, Innes si era fatto dire da Christina dove Clem alloggiasse – e dove, presumibilmente, alloggiassero anche i suoi fratelli – per cui, ogni volta, evitavano di avventurarsi anche nelle vie adiacenti alla dimora degli Elliott.
Ma non era tutto qui, come se già non fosse bastato.
Con il fatto che Innes dovesse ancora saldare i propri debiti – specie con il libraio – farsi adocchiare camminando come se nulla fosse non sarebbe stato auspicabile neanche in altre zone, dovesse essere mai riconosciuto da qualche creditore.
In fin dei conti, con tutte queste restrizioni di movimento, Innes non era molto incline a lasciare la propria proprietà, in attesa di ristabilire le proprie finanze per intero e che i fratelli Elliott lo lasciassero perdere e rivolgessero la sua attenzione altrove.
E, se a Innes tutto ciò sarebbe potuto anche andare bene, per Christina non era di certo la stessa cosa. Stava diventando insofferente: lei aveva deciso di fuggire con Innes per poter passare del tempo con lui, per far capire ad entrambe le loro famiglie che la loro relazione sarebbe stata sincera, che questo era quello che lei voleva, che questo era quello che sarebbe dovuto essere. E invece si era ritrovata a mentire al signor Innes padre – che, tra le altre cose, ogni tanto le faceva persino domande alle quali lei non sapeva neanche dare una risposta! – a nascondersi dal mondo e dai suoi fratelli – quando, invece, Innes avrebbe dovuto parlare con loro, stando alle reciproche promesse. In fin dei conti, quella non era stata una fuga d’amore, quella non era una sistemazione temporanea, un nido d’amore un po’ affollato, quasi. Si stava rivelando una prigione.
Erano pensieri turbinosi, pensieri scomodi per una giovane donna, ed esternare simili considerazioni non sempre era indicato. Le avevano insegnato l’educazione, e spesso le avevano detto che, se un uomo agiva in una determinata maniera per il suo bene, avrebbe dovuto ringraziarlo e assecondarlo, proprio perché era lei l’oggetto delle sue attenzioni – sottintendendo che fossero attenzioni e decisioni eticamente corrette. Quelle di Innes lo erano? Probabilmente sì, d’altronde, al momento, lui voleva solo sfuggire da pressanti problemi che non avrebbero fatto altro se non mettere a repentaglio il loro reciproco affetto. Christina ne era convinta.
Ma, allo stesso tempo, avrebbe voluto anche fare altro.
Così, dentro di lei, comparvero gratitudine per Innes, e l’affetto provato per lui si intensifico; ma, allo stesso tempo, provò noia, provò fastidio per ogni volta che lui rimandava le loro passeggiate. E poi provò senso di colpa per averlo mentalmente odiato, anche se solo per un istante.
Innes stesso si era accorto del suo turbamento, tanto che si era preoccupato per lei, chiedendole, una volta, cosa mai stesse pensando; ma lei non osò parlare, temendo di essere vista come una giovane ma ingrata donna, temendo che, poi, Innes avrebbe smesso di guardarla con quegli occhi così luccicanti – li aveva sempre. O che avrebbe potuto smettere di sorriderle; questo era impensabile.
Eppure, mano a mano che tempo passava – sebbene si trattasse di pochi, pochissimi giorni – trattenersi divenne sempre più difficile. Alla fine non ce la fece proprio più, e parlò.
Frank la ascoltò tenendo una mano sotto il proprio mento, in una posa pensierosa, ma, allo stesso tempo, attenta.
“Mi spiace che dobbiate vivere questa situazione, e che ciò vi crei un tale malessere,” fu, dunque, la risposta di lui, subito dopo, “ma siete perfettamente a conoscenza del perché io sia costretto a questo. Costretto, invero, perché, di mia volontà, farei ben altro.”
“Ci sarà un modo alternativo, piuttosto che rimanere sempre qui.”
“Qui siamo insieme. Non è questa la cosa più importante?”
Christina fece una piccola pausa di silenzio, prima di rispondere.
“Certo che è importante. È importante, bello e stupendo. Ma queste pareti si fanno strette, e Glasgow mi piace così tanto…”
“Potremo trovare una soluzione temporanea, finché non si risolvano questi problemi e io non abbia trovato un modo per… uscirne vincitore.”
“Lo sarete sicuramente.”
“Ma le strategie vanno studiate, ecco perché mi occorre del tempo in più. Non posso, però, costringervi a rimanere qui, per cui, se mi prometterete di fare estrema attenzione, uscite voi. Passeggiate, se volete, e camminate per le vie del centro cittadino. Prima o poi vi raggiungerò.”
“Quindi… da sola?”
Innes annuì. “So che non è la cosa più allettante del mondo, ma… avete ragione a lamentarvi, ma non posso neanche accontentarvi, sebbene vorrei. Quando le pareti si faranno troppo strette, uscite – sempre dal retro, però, mi raccomando – guardatevi intorno, non fatevi vedere dai vostri fratelli, nascosti chissà dove, e camminate. Siate leggiadra come se io fossi proprio accanto a voi. D’altronde so per certo di essere nel vostro cuore: vi farò comunque compagnia, e voi ne farete a me.”

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Capitolo 5
*** Capitolo XIV ***


Capitolo XIV
 
 
Un’altra carrozza si stava dirigendo a Glasgow; simile nella fattura a quelle che già erano arrivate in città partendo da Crossmichael, non era, però, altrettanto simile alle sue gemelle, se si fosse voluto parlare di chi vi si trovava all’interno.
Difatti se ne parlerà.
Prima erano stati Innes e Christina, a partire, poi i Quattro Fratelli Neri; stavolta, all’interno della carrozza, si trovava Archibald Weir. Gli altri avevano portato con loro bagagli e valigie, Archie invece no, perché aveva intenzione di tornare a Hermiston il prima possibile. O forse, in realtà, una valigia l’aveva con sé comunque, ma si trattava di una valigia invisibile, una valigia che non occorreva impugnarla da un manico per farla sua, essendo piena solamente di buone intenzioni.
Le intenzioni di Archie erano quelle di arrivare a Glasgow in mattinata e di andare direttamente al Foro, nel quale era sicuro che avrebbe trovato suo padre – era raro che rimanesse in casa, di giorno – avrebbe parlato con lui e, poi, avrebbe preso un’altra carrozza per tornare indietro.
A quel punto, quali sarebbero stati i suoi stati d’animo?
Archie non aveva esitato a partire, memore di come erano andate le cose l’ultima volta che aveva cercato di temporeggiare. Non che temesse che ci fosse un altro traditore simile ad Innes annidato nelle vicinanze di Hermiston, ma la sua mente e il suo stesso corpo gli dissero che la fretta era indispensabile, questa volta. E, prima avrebbe avuto delle risposte, d’altronde, prima la sua agitazione sarebbe finita.
Risposte, sì. Ma le domande quali sarebbero state, invece? Archie non era riuscito a prepararsi un discorso che, ne era sicuro, non sarebbe riuscito a replicare con la giusta intonazione di fronte a suo padre, quando l’avrebbe incontrato. Però sapeva esattamente quale sarebbe stato l’argomento di conversazione e quali sarebbero stati i punti che lui avrebbe toccato maggiormente, semmai il discorso sarebbe stato portato su quelle lande, come sospinto dal vento dell’incredulità di suo padre. Solo incredulità? O, mescolata ad essa, ci sarebbe stata anche la tanto odiata disapprovazione?
Per far piacere a suo padre, Archie, capito quale grand’uomo fosse, aveva acconsentito a traferirsi a Hermiston. E se lui non fosse stato d’accordo? Avrebbe dovuto rinunciare a tutto, infine?
Ma poi come avrebbe fatto a tornare a Hermiston, sapendo quali sarebbero stati i suoi occupanti? E lui, di certo, non avrebbe avuto la benché minima voglia di cacciare nessuno da quella che era anche la sua casa da anni.
… Ma poi Archie pensò che non avrebbe affatto acconsentito. Che avrebbe lottato. Che sarebbe uscito vincitore, che avrebbe sconfitto qualsiasi rimprovero o osservazione maligna.
Se solo l’agitazione fosse andata via, certo. Perché era quella, assieme ai buoni sentimenti, a costituire la valigia che Archie aveva figurativamente con sé.
Archie rimuginò su tutto il susseguirsi delle sue emozioni, e, allo stesso tempo, su quello che sarebbe successo nelle ore che lo avrebbero accompagnato alla sera. Un pensiero gli sorse: la sera. La sera arriva sempre. Che sia stato un giorno bello o un giorno brutto, un giorno spettacolare o uno da dimenticare, da sotterrare o da rivivere, magari, la sera arriva sempre. Il buio ricopre gli oggetti, e la luce delle candele proietta ombre più lunghe addirittura degli oggetti stessi. La sera e il buio ricoprono la realtà come fossero un mantello di stoffa leggera ma asfissiante, che toglie il fiato. Ovatta i rumori e la vista, ma amplifica altre percezioni: una giornata bella, la sera, sarebbe sembrata ancora più bella, e si sarebbe aggiunta la nostalgia. Una giornata orrenda, la sera, sarebbe sembrata ancora più terribile, e si sarebbe aggiunta ansia, ulteriore angoscia, e lo stomaco del malcapitato si sarebbe irrimediabilmente chiuso.
Quella stessa sera, dopo quella giornata, che cosa avrebbe portato con sé il mantello leggero, cosparso di stelle?
Glasgow venne raggiunto con immagini un po’ più oscure in mente, ma, quando Archie mise piede a terra, sotto il sole mattiniero, riuscì a ritrovare la sua baldanza giovanile, sebbene non spesso manifesta e, se tale, mostrata in maniera meno esuberante di tutti gli altri.
Prese così la via per raggiungere il Tribunale, nel caso in cui suo padre fosse stato occupato in uno dei suoi processi. Nel caso in cui così fosse stato, Archie si disse che non sarebbe entrato in aula, né sarebbe rimasto in prossimità della porta con il rischio che qualche parola potesse comunque giungere alle sue orecchie. Se i commenti di suo padre nella veste di Giudice avessero finito per irritarlo, d’altronde, non era sicuro che sarebbe riuscito a mantenere l’affabilità che gli era necessaria. Lo avrebbe aspettato in strada.
Se invece non fosse stato lì, avrebbe chiesto informazioni, o, magari, sarebbe potuto addirittura tornare a casa.
Così continuò a incamminarsi.
Eppure, improvvisamente, il suo incedere si bloccò, ma non per un ripensamento, né per un malore. O forse, in realtà, proprio di malore si stata trattando, in un modo o nell’altro. I suoi piedi si bloccarono, le sue membra si intorpidirono quando, poco lontano da lui, che camminava lentamente, Archie intravide Christina. Quella Christina. Lui credeva che non l’avrebbe più rivista, e ora… Ora lei era lì, ed era sola; nessun Frank Innes sembrava potesse essere presente nelle attigue vicinanze.
Archie le si avvicinò.
“Signorina Elliott,” si ritrovò a dire, e lui stesso fu contento che non gli uscì dalle labbra un sussurro, un mormorio sorpreso e dispiaciuto, ma una vera e propria affermazione.
Aveva davanti la signorina Elliott e lui, semplicemente, l’aveva chiamata. Senza inflessioni nella voce. Così come qualsiasi conoscente avrebbe fatto, durante un’anonima passeggiata.
Christina si voltò, naturalmente, sentendosi chiamata. Ma forse avrebbe preferito non essere stata capace di udire, quando si rese conto dell’uomo a cui apparteneva quella voce. Strano, si disse, in effetti, lei, che non l’avesse riconosciuto subito.
“Archie,” fece lei, e la sua voce, sul momento, fu quel sussurro che lui non trovò e che non volle trovare, “voglio dire: signor Weir.”
“Come state?”
Strane conversazioni vengono intraprese in momenti ancora più insoliti. In una situazione del genere Archie avrebbe dovuto infuriarsi e chiedere spiegazioni, urlare, forse, se fosse stata nella sua natura. Ma non fu ciò che fece.
Probabilmente perché – e questa fu la sua fortuna più grande – ormai la sua mente era concentrata su qualcun altro.
“Io… bene, suppongo. Ammetto che è singolare trovarvi qui, non me lo… sarei aspettato, a dire la verità.”
“A Glasgow c’è la casa di mio padre, che fino a poco tempo fa era anche casa mia. Singolare non direi. Forse… non secondo i programmi.”
“Sì. Avete ragione.”
“Dov’è il mio vecchio amico, Frank Innes?”
Per un momento Archie fu tentato di aggiungere: ‘Avete abbandonato anche lui?’, ma gli risultò, a dire il vero, una cattiveria non richiesta dalla conversazione, per cui la sua domanda rimase più corta.
“Oh, io… Non credo che lui voglia che io ne parli. Siamo insieme – intendo: non in questo momento preciso, ovviamente – ma non so se…” Lei non finì la frase.
“Capisco,” si limitò a rispondere lui.
Conversazioni strane. Conversazioni insolite.
Così come diverso dal solito fu il silenzio che seguì quella singola parola. Entrambi sapevano di dover dire qualcosa di più che quelle domande e risposte di finta circostanza, ma come potevano? Archie avrebbe potuto invitarla a prendere un tè o un pasticcino e cogliere l’occasione per parlare, ma le azioni che avrebbero compiuto – bere, mangiare serenamente – erano così semanticamente lontane dai discorsi che avrebbero dovuto affrontare che, alla fine, lui non se la sentì.
“Archie, io…” provò, però, a dire lei.
Solo che il signor Weir, stavolta, la interruppe:
“Va bene così, Christina. Avete fatto la vostra scelta.”
A cosa sarebbero servite spiegazioni, rimproveri e scuse? Qualcosa tra loro sarebbe cambiato?
No. Certo che no.
“Ora io devo andare,” continuò Archie, dunque, toccandosi il proprio cappello in cenno di commiato.
In quel momento non gli importava neanche che Christina non gli abbia voluto dire dove si trovasse Innes, cosa avessero intenzione di fare… E di questo, lui, ne fu felice.
“Arrivederci, signor Weir.”
“Addio, Christina. Siate felice con quello che avete.”
La via che portava da suo padre venne intrapresa nuovamente dal giovane uomo.
Fortunatamente, Archie non fu costretto a chiedere a qualcuno dove mai fosse suo padre, perché – sì – era lì. E, fortunatamente in duplice maniera, non era neanche occupato a giudicare qualche poveraccio dietro la sbarra. Un criminale, certo, ma pur sempre un poveraccio, se sulle labbra del signor Weir.
Camminando, mentre si avvicinava alla sua meta, e, soprattutto, mentre si addentrava nel Tribunale alla ricerca di ciò – di colui – che stava cercando, Archie si sentì sempre più osservato. Volti di uomini che lo conoscevano, di vista o per sentito dire, volgevano a lui il loro sguardo, chiedendosi perché mai il figlio di Hermiston si trovasse lì. Cos’era successo? Quel figlio che aveva creato tanto scandalo e tanto chiacchiericcio non era, ormai, sparito totalmente dalla circolazione?
Archie poteva percepire perfettamente il peso di tutti quegli occhi sommati assieme, ma mai una volta li ricambiò o diede loro peso – magari, in realtà, giusto una volta o due – ma puntò dritto al suo obiettivo: suo padre.
Lo trovò fermo in un corridoio a parlare con due suoi colleghi, la toga ancora addosso. Archie non si premurò di capire cosa mai concernessero i loro discorsi, si limitò a fermarsi accanto a loro e a osservarli, silenziosamente, finché anche loro non si accorsero di lui.
Ovviamente fu suo padre il primo a prendere la parola:
“Archibald. Cosa ci fai qui? Non mi è stata recapitata nessuna lettera che mi preannunciasse il tuo arrivo.”
“Perdonate la mia improvvisata nel bel mezzo della mattinata, e perdonate anche la mia intromissione nei vostri discorsi.”
“Perché non sei a Hermiston? Cosa è successo?” Chiese, dunque, suo padre.
“Qualcosa. Ma nulla che vada a compromettere la vostra proprietà; da quel punto di vista, va tutto molto bene.”
“E allora per quale motivo avresti fatto questa improvvisata?”
“Vorrei… parlarvene in privato.”
“Potrai farlo questa sera a casa. Puoi avviarti e aspettarmi lì, cosa a cui avresti potuto pensare anche tu stesso.”
Ma Archie non demorse:
“Sarebbe opportuno… sarebbe gentile, da parte vostra, se io potessi conferire con voi… adesso. Si tratta di una questione di pochi minuti, d’altronde.”
Il signor Weir guardò suo figlio con un’espressione di sbigottita perplessità, inarcando entrambe le sopracciglia, ma rimanendo comunque serio. Archie non sapeva se fosse riuscito a convincere suo padre – e, se avesse fallito su questo, figurarsi su ben più importanti argomenti! – ma il caso venne in suo aiuto nell’intervento degli altri due uomini, che decisero autonomamente di congedarsi, data la situazione che si era appena venuta a creare.
Così padre e figlio andarono nell’ufficio privato del primo.
La porta quasi non fece neanche in tempo a venir chiuse che le bocche si aprirono e le parole iniziarono a venir pronunciate.
Archie strinse al petto la propria calda valigia di buoni sentimenti.
“Allora?” Chiese, dunque, suo padre. “Si può sapere a cosa devo questo? Hai contratto dei debiti? Hai subito un furto? Hermiston sta cadendo a pezzi, gestita da te? Cosa, di grazia?”
Archie si umettò le labbra, prima di rispondere.
“Vi ho detto che Hermiston sta bene. Non dovete preoccuparvi di una cosa simile.”
“Allora cosa?”
“Vorrei avere la vostra approvazione e benedizione, perché intendo sposarmi.”
Silenzio calò nella stanza, divenne tappeto sul quale i due poggiavano i piedi.
“Che vai dicendo? Con chi ti vorresti sposare, tu?”
Archie suppose che quel tono non fu certamente dei migliori.
“Con una donna, mi pare scontato.”
L’altro ghignò. “Ma quale donna vorrebbe sposare te?” Archie si ritrovò a stringere i pugni, lungo i propri fianchi. “Lo fa per il denaro?”
“No.”
“E per cosa?”
“Lo fa per amore.”
“Amore? Amore? Quale insulso motivo è, l'amore? L'amore è una malattia insana e debole, colpisce, attecchisce e poi basta un niente, un inutile dettaglio a farla sparire, come il più blando dei raffreddori. L'amore non è un motivo valido per sposarsi. Lo cantano i poeti e ne parlano gli scrittori, ma poi? Quando l'amore svanisce, dopo qualche anno, in quale gabbia pretendi di voler vivere? Se vuoi sposarti, fallo per qualcosa per cui ne valga la pena, per Dio!”
Di nuovo silenzio. Ma stavolta c’era anche imbarazzo, anche… delusione.
Ma Archie andò avanti, l’obiettivo ben fissato in mente. Si aggrappò ad esso tendendo una mano.
“Voi perché avete sposato mia madre? Lei non era tanto ricca.”
“No, non lo era. L’ho sposata proprio per amore. O comunque… credevo lo fosse. Sicuramente era simpatia. E poi avevo bisogno di un erede; certo, sei venuto su te, ma un uomo intelligente sa accontentarsi. Il presunto amore, comunque, dopo non molto tempo è andato via, quindi perché pensi che io ti dica questo? Perché io so!”
Archie sospirò, e poi ribatté:
“Mi dispiace se per voi l’amore sia una così terribile condanna… o, comunque, una così ostile menzogna. Ma il mio amore è diverso; il mio amore è vero, il mio amore è un sasso,  un mattone: mi tiene saldo a terra, e non basterà una tempesta a spazzarlo via. Su di esso costruirò la casa della mia vita. È questo il mio personale, unico e desideroso motivo che ho per sposarmi. Sono venuto qui speranzo di un vostro segno di approvazione e di letizia.”
“Approvazione? Non credi che sia troppo presto, dopo quello che hai fatto della storia di Duncan Jopp?”
“Forse. Forse sì, forse no, chi può dirlo? Io, in quel vostro segno, non smetto di sperare.”
Adam Weir guardò suo figlio di sottecchi. Archie avrebbe potuto dire quasi di riuscire a scorgere la sua mente muoversi come una macchina, elaborare, pensare.
“Lei chi è?” Chiese, allora, quasi con un mormorio.
“Come, perdonate?”
“Questa donna che, a quanto pare, vuoi far diventare mia nuora… Chi è? Mi pare giusto saperlo.”
“Oh. Beh,” improvvisamente Archie sentì la propria bocca, la propria gola e la propria lingua completamente secche, tanto che fu costretto a schiarirsi la voce, portandosi la mano, chiusa a pugno, di fronte alle labbra, “la conoscete già, a dire il vero. E avete sempre nutrito una qualche simpatia, per lei, se ben ricordo. Sta parlando di Kristie Elliott; la stessa Kristie che vive a Hermiston.”
Suo padre non rispose per un tempo che, ad Archie, parve infinito.
Cosa? Si tratta solo di uno stupido scherzo, non è così?”
“No… No, io non mi sto burlando di voi, io…”
“Ma io dico, per Dio e pure per Satana, chi vai a scegliere, tra tutte le donne che esistono? La nostra vecchia domestica? E vuoi dirmi che per lei non conterebbe solo il denaro? Stupidaggini! Cos’è, un modo per vendicarti del tuo odioso padre?”
“No! È per rendervi partecipe della mia gioia, se solo vi importasse!”
“Tu hai perso la testa.”
“Sì, forse avete ragione, ma solo perché la amo…!”
“Sciocchezze!” Sbraitò lui, ripetendo tale impropero. “Torna a Hermiston e rimanici, con te ho già perso fin troppo tempo e, se vuoi, sposatela pure, la tua Kristie! Ma non venire a dirmelo, perché non mi scomoderò per presenziare alla vostra cerimonia.”
“Ma padre!”
“Torna a Hermiston, ho detto. Torna da lei, se proprio ci tieni, ma lontani da me.”
La valigia si aprì, i buoni propositi e i buoni sentimenti volarono via.
Sulla strada del ritorno, la valigia era vuota, eppure pesava lo stesso. E pesava enormemente.
È singolare come, a volte, le cose non vadano per il verso giusto per diverse persone nello stesso istante. Come se una qualche forza cosmica, in quel momento, si stia impegnando per far girare gli eventi nel modo in cui nessuno avrebbe sperato.
Difatti, come Archie si trovava, non molto dopo il colloquio con suo padre, su una nuova carrozza, diretto a Hermiston – il signor Weir l’avrebbe diseredato? Cosa ne sarebbe stato del proprio destino? E Kristie, lei cosa avrebbe deciso, in tutta questa storia? – con domande in testa e cupezza negli occhi, nella mente e nelle espressioni del viso, così le cose stavano andando male anche per il signor Innes.
In realtà… Ancora non era cambiato niente, da come il lettore l’aveva lasciato. Ma quello che si sarebbe verificato di lì a poco… Quello fu ben più di un misero cambiamento.
Innes viveva, infatti, ancora da recluso nella propria stessa casa. Era riuscito a convincere Christina ad attendere, a pazientare che le acque si fossero calmate e a gestire le proprie giornate da sé, privandosi della sua compagnia – per quanto Innes supponesse essere una mancanza ragguardevole, per lei – ma anche lui sapeva, di certo, che le cose non sarebbero potute andare avanti per sempre in questa maniera. Frank si sentiva i Quattro Fratelli Neri sempre dietro le spalle, anche nelle sue stesse spalle, come fossero ombre che lo seguivano dappertutto. Sapeva che non era così, che forse i fratelli Elliott, in realtà, non avevano idea di dove lui si trovasse in quel momento, ma come faceva ad averne la certezza?
Christina aveva anche supposto che, magari erano addirittura tornati a Cauldstaneslap, avendo fallito la loro missione, ma, anche in questo caso, tutto era contornato dal labile lembo delle ipotesi.
Ma presto Christina stessa si sarebbe infastidita di nuovo, lui lo sapeva.
Caso volle che lui dovette mettere piede fuori dalle sue quattro mura della sua volontaria – ed elegante – prigione ben prima di quanto avesse stabilito poc’anzi.
Il fatto fu che Christina stesse rientrando dalla sua passeggiata mattutina, quella stessa mattina in cui aveva incontrato casualmente Archie, proprio lì, a Glasgow. L’umore di lei si era rabbuiata, e la sua mente si era fatta piena di pensieri, non riusciva a smettere di pensare all’incontro da poco avvenuto e ciò che esso sembrava aver comportato: Archie non le era sembrato arrabbiato con lei. Deluso, questo sì, senza alcun dubbio. Ma arrabbiato no, e non una parola di ingiuria era stata spesa, da parte di lui, nei confronti di Archie, cosa che poteva stare a significare una cosa sola: Archie non voleva riprendersela.
Non che Christina volesse, sia chiaro; di certo non aveva bisogno dell’arrivo di qualcuno che la ‘salvasse’ dalle ‘grinfie’ di Frank Innes. Eppure, in un certo qual senso, tutto ciò le diede da pensare. Vuol dire che l’aveva dimenticata? No, impossibile. Ma forse, allora, che lui era riuscito ad andare avanti, a vedere oltre. Oppure stava celando i suoi sentimenti, cosa che Archie riusciva a compiere abbastanza bene, quando non era il suo volto ad arrossire. Ma no, non era arrossito, ce ne sarebbe stato bisogno? Era veramente indifferenza, la sua, o era finta? E perché – si chiedeva lei – le continuava ad interessare?
Fu per il fatto che la sua mente fu occupata da tali riflessioni che, con la mano ancora sulla maniglia della porta di servizio, che ormai lei soleva utilizzare, non si accorse di alcuni uomini presenti dietro di lei, uno dei quali le poso una mano proprio sulla spalla.
Christina si voltò di scatto, allarmata, per poi ritrovarsi davanti persone che, invece, conosceva fin troppo bene.
“Voi!” Si ritrovò ad esclamare lei.
Il ‘Voi!’ era riferito non ad una, non a due o a tre, ma a quattro persone: i suoi fratelli.
“Sapevo che, a forza di passare qui davanti, qualcosa avremmo visto!” Esclamò, di rimando, Gib, poco prima di prendere Christina per un polso e allontanarla dalla porta.
“Lasciatemi!” Christina diede uno strattone e liberò il proprio polso. “Cosa volete?”
Domanda un po’ inutile, lo sapeva lei stessa, ma questo non impedì alle parole di uscire dalle sue labbra.
“Vogliamo te!” Fu la risposta di Dand. “Perché sei fuggita? Perché non ci hai detto niente? Ci siamo preoccupati molto, a casa anche! Nostra madre, poi, è così… in pena. Lo sai come è fatta. Cosa ti è preso, un diavolaccio?”
“Non mi è preso un diavolaccio!” Ribatté Christina. “Mi sono innamorata!”
“Innamorata! Ah!” Fu il commento di Clem. “Di Frank Innes?”
“È uno sbruffone!” Rincarò la dose Dand.
“È un uomo gentile e simpatico, e dice di amarmi!”
“Dice, dice, ma poi ti ama davvero?”
“Certo che mi ama!”
“Fratelli. Sorella,” intervenne Hob, per poter calmare gli animi, “è chiaro che Christina non voglia tornare a casa, per cui--”
“Non l’ha mica detto,” puntualizzò Clem.
“Beh, non voglio!” Confermò lei.
“Appunto,” continuò, dunque Hob. “L’unica cosa da fare, in questa situazione, è parlare a quattr’occhi con questo signor Innes. Dovremo almeno dirglielo in viso, che questo suo comportamento è stato inqualificabile.”
“Concordo.”
“È la via migliore.”
Poi Christina tornerà a Cauldstaneslap.”
“Voi siete tutti matti.”
Tutti e cinque entrare, chi spintonando, chi cercando di distaccarsi dal gruppo, dalla porta sul retro.
Frank Innes, dal canto suo, si trovava al sicuro, nelle proprie stanze. Non era neanche accanto alla finestra per non farsi scorgere dalla strada, per cui credeva di procedere, con il proprio piano, sulla strada giusta. Si allarmò non poco, dunque, quando sentì un gran fracasso dabbasso, maturato così all’improvviso.
Scese le scale piuttosto celermente, e, quando vide la causa di tutto quel fracasso, salì inconsapevolmente a ritroso un gradino, invece di scenderlo. Avrebbe potuto fare dietrofront – un’ilare imitazione di un soldato – e chiudersi nelle proprie stanze. Far finta di non esistere e di non essere mai esistito. Ma come sarebbe stata vista, la sua figura, da quel momento in poi, se avesse portato a termine queste azioni? Cristina era lì, nella sala che riusciva a intravedere dalle scale, e assieme a lei i suoi fratelli. Cosa avrebbe pensato, lei, se fosse stata trascinata su da quegli uomini per portarli al cospetto di lui, e poi Innes non si fosse fatto trovare? Quanto sarebbe calata la stima di lei nei confronti di Frank?
Troppo. Sarebbe sprofondata, avrebbe fatto un solco nel pavimento, poi un buco, poi un cratere, e avrebbe continuato a scendere, giù, giù, fino agli Abissi.
Così, per evitare che la stima di lei scendesse, fu lui a scendere le scale.
“Innes!” Quasi gridò uno dei fratelli – Innes non riuscì ad accorgersi di quale – non appena lui si ritrovò ai piedi dell’ultimo gradino.
Signor Innes.” Precisò quello che Frank riconobbe come Clem, il fratello da cui Christina viveva. “Non dimentichiamoci le buone maniere.”
“‘Buone maniere’ un corno! Quest’uomo,” Dand, il poeta che ora tanto poeta non sembrava, indicò Innes allungando addirittura tutto il braccio, “quest’uomo ha rapito nostra sorella, e io dovrei anche trattarlo come un gentiluomo?”
“Nessuno mi ha rapita!” Si intromise Christina, mentre Innes rispondeva a sua volta, assieme a lei:
“Io non ho rapito proprio nessuno.”
Le loro voci sovrapposte furono melodiose. Probabilmente sì, difatti i fratelli Elliott smisero momentaneamente di discutere su come trattare o no il giovane uomo che avevano davanti.
“Io non ho rapito nessuno,” ripeté, dunque Innes, “io e la signorina Christina, vostra sorella, abbiamo deciso di comunque accordo di recarci qui. Non per sparire definitivamente dalla circolazione, non per andare a vivere in un deserto o sulla cima di una montagna, per quanto, con lei,” Innes lanciò una lieve, tranquilla occhiata alla ragazza, “a me qualsiasi posto andrebbe bene.” Denaro a parte, pensò lui, ma non lo disse. “È una fuga d’amore.”
“È una fuga sconsiderata,” intervenne Hob, “quando avreste avuto, voi, signor Innes, la decenza di riportarla a casa, una volta che vi foste sposati?”
“Anche fosse? Chi siete voi per metterci un freno?”
“Non siamo nessuno,” rispose Gib, “ma il vostro, sicuramente, un comportamento da signore non sarebbe stato affatto.”
Innes ne aveva abbastanza.
Come si permettevano, loro, di entrare così in casa sua, prima di tutto, non invitati, con irruenza, urlando, spingendo Christina come fosse una stupida bambina scovata con il dito nella marmellata? Come si permettevano di urlargli contro, di accusarlo, di dirgli che non era un gentiluomo, di dargli praticamente del manigoldo, del rapitore, tanto simile a uno di quelli che lui stesso, in futuro, avrebbe potuto condannare all’impiccagione?
Innes ne aveva veramente abbastanza.
Voi venite qui e pretendete di istruirmi su come si dovrebbe comportare un gentiluomo? Voi? Cosa ne volete sapere, voi? Zotici di campagna che non saprebbero riconoscere un vero gentiluomo neanche se camminasse sopra di voi con il suo cavallo!” La provocazione era ben voluta, a voler ricordare certi fatti passati, ma Innes non si fermò di certo qui: “Chi ho davanti? Hob, il ‘proprietario terriero’, ma io direi di più ‘il tirchio’; Gib, ‘lo strambo’; Dand, ‘lo sguaiato’, Clem, ‘il signor Elliott’, che l’unica maniera che conosce per comportarsi da signore è indossare un costoso e pacchiano cappello di castoro. E se questo non bastasse, addirittura i vostri stessi nomi, Hob, Gib, Dand e Clem basterebbero già da soli. Sono da signori? Io non credo proprio.”
Anche durante questa, di conversazione, come tra Archie e suo padre, scese il silenzio. Ma era un silenzio diverso; i silenzi non sono tutti uguali. Questo, in particolare, lasciava presagire terribili eventi.
“Non sono un signore?” Disse, in realtà in maniera fin troppo calma, Hob – ‘il tirchio’ – ma, mentre parlava, si stava arrotolando e tirando su le maniche della propria camicia. “Per cui non dovrei sentirmi in colpa a fare questo.”
“Hob, non credo--” provò a dire Clem, ma anche lui, a sua volta, venne interrotto, e da Gib:
“Ci penso io.”
Gib scattò in avanti, le mani tese. Christina emise un grido di spavento. Innes scattò di lato, verso il camino, ed afferrò, istintivamente, l’attizzatoio di ferro battuto e puntandolo di fronte a sé. Gib si fermò appena in tempo.
“Osate fare questo in casa mia?” Esclamò Frank.
“Io oso se voi insultate me e la mia famiglia!”
Gib, nonostante si fosse precedentemente fermato per non finire infilzato, non si diede comunque per vinto: afferrò con entrambe le mani l’attizzatoio all’estremità puntata contro il proprio petto, in modo che Innes non potesse spingerla più avanti. Innes, allora, cercò di tirarla verso di sé, piuttosto, per poter sottrarre la sua arma di fortuna dalle mani dell’Elliott in questione.
Ci fu uno sforzo considerevole da parte di entrambi a voler mantenere salda la presa.
Gli altri tre fratelli urlavano di smetterla, ma forse non ne erano troppo convinti neanche loro. Vecchi diavoli volevano prendere di nuovo il sopravvento, d’altro canto.
Christina era ammutolita dalla paura, e i suoi occhi stavano cominciando già a riempirsi di lacrime.
Alla fine furono le dita più anziane di Gib a subire la forza delle più giovani braccia di Frank Innes, e l’attizzatoio tornò nelle sole mani del suo proprietario. Ma non fu così semplice. E neanche così poco doloroso.
Il contraccolpo che subì Innes fece arretrare violentemente quest’ultimo, di almeno tre brevi e scattanti passi; non aspettandoselo, inciampò e, inciampando, cadde.
Cadendo, la sua nuca sbatté sulla pietra rettangolare posta alla base del camino. Fu lo spigolo a colpire la sua testa, e all’istante la pietra grigiastra venne macchiata di pochi e insignificanti schizzi rossi.
Insignificanti solo da pulire, però. Perché, dopo quel colpo, Innes si ritrovò a spalancare gli occhi e a trattenere il fiato; l’attizzatoio gli sfuggi di mano, e quello rotolò sul tappeto; il suo corpo ebbe un rigido spasmo che sembrò tutto tranne che volontario.
I suoi occhi, ora più grandi, guardarono in alto, ma, allo stesso tempo, non guardarono più nulla. Innes non ebbe più il tempo di osservare nulla, neanche il volto della sua amata, ma solo una grande nube nera.
Christina urlò di nuovo, più forte, più a lungo, e il suo grido fu di dolore e consapevolezza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 
I funerali di Frank Innes si tennero due giorni dopo, alla Cattedrale di San Mungo di Glasgow.
Parteciparono in molti, ma non così tanti da poter riempire l’intera cattedrale. Ma sì, erano molti. La sua famiglia, i suoi amici, i suoi colleghi di corso, i vicini di casa, i conoscenti del bar, del circolo… chiunque avesse avuto a che fare con Frank Innes, anche solo per un giorno, era lì.
C’era anche Archie, ovviamente. E, assieme a lui, c’era Kristie. Accanto a loro era seduta anche la piccola servetta dodicenne: era voluta venire a tutti costi; era rimasta molto dispiaciuta dalla partenza di Frank, aveva adorato averlo a Hermiston, e ora il suo dispiacere era aumentato.
Ma la tempra della sua giovane età le avrebbe fatto passare presto il dispiacere.
Altrettanto ovviamente era presente anche il signor Adam Weir, ma non era seduto assieme a suo figlio, si era sistemato più in disparte, accanto al signor James Innes e ai suoi stimati colleghi.
Si erano guardati, entrando, Archie e Adam, ma la funzione stava per iniziare, e il più giovane dei due non voleva perdersi neanche una parola, così si affrettò ad andarsi a sedere davanti. Adam aveva guardato Kristie con cipiglio severo e pensieroso, quando la vide camminare accanto ad Archie, ma no, non fece nulla di più, per il momento.
Davanti all’altare, c’era la bara. Di legno di ciliegio, con un’immagine della Madonna intagliata da entrambi i lati più lunghi. Era chiusa, Frank non era visibile, in quell’istante, e non lo sarebbe stato più. Non avrebbe potuto assistere alla sua stessa funzione funebre.
Ma Archie sapeva che in quel momento lui li stava proprio guardando comunque.
C’era anche Christina, anche questo era sempre stato certo. Anche lei era seduta davanti, non al primo banco, ma al secondo, e aveva un fazzoletto con le iniziali di lui tra le dita – uno dei tanti pegni d’amore che i due si scambiarono, suppose Archie. I suoi occhi erano fissi sulla bara, la sua testa dondolava appena avanti e indietro.
Neanche il tempo di sposarsi che già si ritrovava vedova, povera Christina Elliott.
 
Alla fine della funzione, Archie si ritrovò… intontito. Ma è ciò che accade sempre, dopo i funerali, quando si entra ancora maggiormente nella consapevolezza che quella determinata persona non la si sarebbe potuta più incontrare, se non alla fine dei tempi.
Non che Archie avesse bramato un altro incontro con Innes, anzi, neanche prima aveva avuto la benché minima intenzione di rivederlo ancora. Però così, quando era Dio, a dividere le strade, e non lui stesso… era diverso.
Ma, a dividere definitivamente le strade di tutti i presenti i quella cattedrale, era stata anche un po’ – molto – opera dei Quattro Fratelli Neri. Di Gib un po’ più che di tutti gli altri. Non erano presenti, loro, avevano preferito non presenziare; di sicuro non sarebbero stati ben visti da nessuno – neanche Christina parlava più loro, nonostante vivessero di nuovo sotto lo stesso tetto – e creare disordini ad un funerale non era una cosa a cui sicuramente anelavano.
Per loro la storia era chiusa. Mostrarsi di nuovo a Glasgow, davanti a quelle stesse persone, non avrebbe avuto senso alcuno.
“Signorina Elliott, volevo porgervi le mie più sentite condoglianze.”
Archie era riuscito, infine, a districarsi tra la folla, fuori dalla cattedrale, e a raggiungere Christina. Era stato lui a porgerle queste ultime parole. Quando lei lo guardò, alzando il viso, lui si accorse di come i suoi occhi fossero pericolosamente umidi.
“Vi ringrazio, signor Weir,” rispose lei, “è molto gentile da parte vostra; mi rendo conto di come nessuno di noi fosse in buone acque l’un con l’altro.”
“In me troverete sempre un amico su cui potrete contare, quando ne avrete bisogno.”
“Ho sentito che vi sposerete a breve. È vero?”
Archie annuì. “È esatto. Con vostra zia.”
“Quanta… singolarità,” commentò Christina; poi sospirò. “Così come sono singolari i nostri discorsi. Siamo qui, appena dopo un funerale, e parliamo di un matrimonio, invece. Morte contro quella che può essere l’inizio di una vita. Siete fortunato a ritrovarvi nel secondo argomento e non nel primo, come me.”
“Io sono altresì convinto che facciano entrambi parte di noi, allo stesso tempo.”
Si guardarono un momento.
Poi arrivò Kristie: lei, a discapito di tutto, forse in maniera anche un po’ sconveniente, era raggiante. Ma come poteva non esserlo? Certo, data la circostanza cercò il più possibile di celare la sua gioia, ma erano i suoi stessi occhi, a cantare. Prese il braccio del suo promesso sposo, intrecciandolo con il proprio. Chi mai avrebbe detto che si sarebbe sposata, alla fine? Con il signor Weir, poi? Ci poteva essere cosa più bella, nella vita?
Ma, mentre questo avveniva nella sua mente, si rivolse comunque a sua nipote:
“Le mie condoglianze. Le più sentite, davvero. Sono molto dispiaciuta.” Kristie era sincera.
Christina annuì. “Vi ringrazio, zia.”
Forse la giovane avrebbe potuto aggiungere che sperava che Archie e sua zia vivessero felici così come avrebbero potuto vivere lei stessa e Frank Innes, ma non lo fece. Anzi, si congedò con un sorriso e gli occhi pieni di lacrime.
“Archie.”
Arche e Kristie stavano ancora guardando Christina andare via, quando, proprio in quel momento, una voce alle loro spalle parlò, e il suddetto Archie riconobbe all’istante.
Lui e Kristie si voltarono, per poi trovarsi davanti Adam Weir. Kristie lasciò istintivamente il braccio di Archie, e suo padre se ne accorse.
Poche parole vennero spese, ma il significato fu immenso: il signor Weir padre aveva cambiato idea. Archie sarebbe rimasto a Hermiston ad amministrare la proprietà, come già stabilito tanto tempo prima. Dovendo rimanere lì, allora, il giovane uomo avrebbe potuto sposare chiunque avesse voluto.
“Non aspettare anni, prima di sposarti, se già a questa età sei sicuro di quello che vuoi.” Disse, forse riferendosi anche a come era andata la propria, di vita. “Ne sei sicuro, però? È questa, la stupida domanda.”
“Ne sono sicuro.”
“Allora così sia.”
Archie sorrise. Kristie ringraziò il suo futuro suocero con le lacrima – anche lei le aveva, ora – agli occhi.
Così questa storia si chiude.
Si era aperta con le Paludi del Diavolo, con la morte e con le sue superstizioni. Anche alla fine, per quanto diversa, per quanto i motivi siano distanti, per quanto il luogo non sia il medesimo… anche alla fine la morte decide di fare la sua comparsa.
Se si sente messa da parte, dopotutto, Lei si offende. E si fa presente sempre più spesso, finché non inizia ad essere una costante dei nostri pensieri.
Eppure c’è anche vita, c’è anche speranza! Come Christina aveva esternato, dopo un funerale ci sarebbe stato un matrimonio, e il matrimonio vuol dire proprio vita, vuol dire inizio, vuol dire speranza, vuol dire gioia!
Non per tutti, non in quella storia. Ma c’era.
Lontano dalle Paludi del Diavolo e dalla bara del Tessitore, ma forse neanche troppo, solo qualche lega.
Alla fine, d’altronde, le vite degli uomini sono sempre legate le une alle altre, nel bene e nel male, nella vita e nella morte, nell’amore e nella sofferenza. Nei funerali e nei matrimoni.
Che Hermiston possa non vedere altro furore, d’ora in poi.
 
 
 
 
 
 
Fine

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