Entanglement

di mask89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Entanglement

Capitolo I

 

Le prime luci dell’alba filtravano attraverso i due campanili del tempio che si affacciava sul mare. La timida luce solare, che attraversava le rade nuvole, rischiarava le candide pietre tagliate a mano, che costituivano la tessitura muraria delle alte torri campanarie. Lentamente cominciava a scaldare la piazza, la quale accoglieva la gente che stava affluendo silenziosamente. L’unico rumore, che rompeva quel lugubre silenzio, era il garrito dei gabbiani, i quali avidamente si aggiravano sopra le teste dei muti avventori, alla ricerca di scarti di cibo.

Il torrido caldo di luglio avrebbe trasformato in poco tempo quella piazza in un forno rovente, dove solo la brezza di mare avrebbe portato un lieve sollievo, ma questo non sembrava scoraggiare la popolazione. Nonostante l’ora non agevole, l’ampio spazio, situato al centro della città, era quasi al massimo della sua capacità. Le guardie reali riuscivano a stento a gestire quel flusso umano; donne, uomini e anche bambini. Nessun abitante della capitale del regno voleva perdersi lo spettacolo che da lì poco si sarebbe consumato. I nobili, affacciati dai balconi dei loro palazzi, che circondavano la piazza, guardavano esterrefatti quel silente fiume umano, che non sembrava avere fine. Non avevano mai visto quel luogo in quelle condizioni, neanche nei giorni più floridi del regno, neppure durante i giorni di festa. Era come se tutta la gente del mondo fosse accorsa lì. I rintocchi delle campane scandirono sette colpi, ma nessuno degli astanti sembrò farci caso. Erano troppo concentrati ad osservare il palco che sorgeva al centro dello spiazzo. Solo lo sferruzzare di ruote metalliche sul basolato fece serpeggiare, tra la moltitudine di gente lì presente, un concitato stato di agitazione. Tutti gli occhi erano concentrati sul piccolo carro, che lentamente stava avanzando dal palazzo reale, situato a un chilometro da lì, in perfetta contrapposizione con l’edificio sacro. Quando, finalmente, la figura stante sul carro fu visibile a tutta la gente, ripiombò il silenzio. Tutto il mondo taceva, anche i gabbiani avevano smesso di emettere i loro striduli versi, come a voler sottolineare maggiormente quello strano momento. Solo il lontano sciabordare delle onde, contro i frangiflutti, interrompeva quella angosciante monotonia. L’unico a non accorgersi di tutta quella tensione, quel clamore, era la figura eretta sul carro. Tutto il mondo gli sembrava indifferente. Il suo sguardo era ricolmo di calma. I suoi bei lineamenti non tradivano nessuna emozione. Solo i suoi capelli color del grano, incrostati di sudicio lerciume e i suoi vestiti logori, pieni di sangue rappreso, risaltavano il suo status di prigioniero.

Le quattro guardie reali, che accompagnavano quel piccolo cocchio trainato da un cavallo prossimo alla morte, non gli staccavano gli occhi di dosso; come se le robuste catene, che gli bloccavano sia gli arti superiori che quelli inferiori, non fossero sufficientemente sicure. Nonostante presentasse diverse ferite, che anche un osservatore poco attento avrebbe giudicato recenti, il corpo dell’uomo risultava robusto e ben allenato; ma, di certo, non sarebbe stato capace di forzare quella arzigogolata camicia di forza fatta di anelli di ferro. Nessuna sofferenza proveniva da quel viso, come se quelle piaghe inflitte nella carne appartenessero ad un altro essere. L’unico sussulto che ebbe, che passò del tutto inosservato alla maggior parte degli spettatori, fu quando il carro fu vicino al palco. Nonostante fossero presenti le maggiori cariche reali e religiose, i suoi occhi erano puntati su una minuta donna, con degli indomabili capelli rosso fuoco, dagli occhi color pece, gonfi a causa del pianto e con un prominente pancione. Si impose di non mostrare una sola emozione, volevano fiaccarlo ulteriormente nel morale e nello spirito; non avrebbe ceduto per dare loro la soddisfazione di essere riusciti a spezzarlo, doveva resistere solo un altro po’, poi tutto sarebbe finito e lei sarebbe stata salva. Il carro si era finalmente fermato davanti al patibolo, la porta dell’angusta cella si aprì sferragliando. Lo aiutarono a scendere strattonandolo, come se le ferite e le pesanti catene non costituissero già un serio impedimento ai suoi movimenti, ma rimase indifferente. Salì lentamente i gradini, non perché volesse allontanare da sé quell’amaro calice, ma i muscoli delle sue gambe erano intorpiditi e provati a causa delle torture inflittegli. Deambulare gli provocava spasmi di dolore in tutto il corpo, ma strinse i denti. Era giunto finalmente sul palco. Guardò i suoi carnefici negli occhi uno per volta, lentamente, come a sottolineare la solennità di quel momento. Deliberatamente evitò di incrociare lo sguardo della donna. La sua determinazione sarebbe stata fatta a pezzi se solo ci avesse provato.

«Quest’uomo» urlò il re alla muta folla in piazza «il primo cavaliere di Atlas, eroe della nostra ultima guerra, si è macchiato di un reato gravissimo. Ha sedotto con l’inganno una delle sacre vestali dell’ordine del tempio e l’ha ingravidata. Sapete molto bene che la legge non permette ad un cavaliere e ad una vestale di avere rapporti e consorti, fino alla fine dei loro giorni. Ebbene, quest’uomo ha calpestato questa sacra regola, imposta da quel sant’uomo di mio nonno, al fine di mantenere integro il regno. Affinché questi uomini e queste donne proteggessero e servissero, senza nessuna remora, questo bel reame.

Lui ha infranto il sacro giuramento, ed ha persino concepito un figlio con questa donna. Pertanto, verrà condannato a morte per crocifissione. La sacerdotessa, in quanto ingannata, verrà espulsa dal regno; ma, se soltanto oserà avvicinarsi in futuro ai confini, verrà giustiziata seduta stante. Questa è la giustizia del re. Cavaliere, ha qualcosa da dire prima di essere crocifisso?» 

«Beh, visto il prezzo che sto pagando, avrei preferito sedurre una più formosa.» Rispose sprezzante. Un pugno di una guardia reale lo fece piegare su sé stesso. Sentì picchiare violentemente la schiena contro un ruvido palo di legno. Un altro pugno raggiunse la sua mascella. Sentì diverse mani trafficare con le catene. Per un attimo si sentì leggero, prima che diverse mani lo immobilizzassero contro quella ruvida croce di legno. Sentì le fredde punte metalliche dei chiodi premere contro i suoi polsi e il collo dei piedi. Quattro colpi metallici dati all’unisono. Sentì le sue carni essere dilaniate da un dolore tremendo e le sue ossa frantumarsi sotto l’incedere di quei colpi, ma non urlò. La sofferenza aumentava ogni secondo che passava, ma non un solo gemito usciva dalla bocca. Avvertì la pressione di tutte quella mani sui suoi arti svanire di colpo. Violentemente, fu issato sul palco ed esposto al pubblico ludibrio degli astanti.

Il sole era ormai alto nel cielo, era quasi mezzogiorno e il caldo era già soffocante. Avvertiva le sue forze venire sempre meno, ormai era prossimo alla morte. All’improvviso sul palco ci fu del trambusto. Un araldo che scortava una donna salì sul palco ed andò a parlare con il re, che ascoltava attentamente. Nonostante la vicinanza, non riusciva a capire cosa si stessero dicendo. Vide il monarca fare un cenno della mano e l’uomo allontanarsi. Dei paggi portarono uno sgabello vicino alla croce. Una volta piazzato, il re vi salì sopra.

«Credevi veramente di potermi fregare in questo modo?!» Sussurrò al suo orecchio. «Sapevo fin dall’inizio che tu e quella puttanella eravate in combutta, che ti sei addossato la colpa per far vivere lei e il vostro bambino, ma hai perso. È stato veramente divertente vedere come sopportavi le torture stoicamente, per nulla. Cosa può fare l’amore e come può rovinare un uomo?! La profezia non si avvererà mai. Ho vinto io.» Scese con aria tronfia da quel panchetto.

«Miei sudditi, ci sono delle novità. Quest’uomo ha mentito anche in punto di morte. Ha cercato di proteggere questa puttana fino alla fine!» Indicò la donna. «Ebbene, quest’ultima era consenziente, non è stata sedotta con l’inganno. Pertanto…» si voltò verso il cavaliere con l’espressione più diabolica che aveva «condanno la vestale a morte per impiccagione!» Un boato si levò dalla folla. L’uomo provò a urlare ma, prima che potesse emettere un solo suono, una lancia lo colpì al centro dello sterno, per poi percorrergli tutto l’addome squarciandolo. Le viscere pendevano su una pozza di sangue ai suoi piedi, il mondo all’improvviso si fece nero. 

 

Avvertì il cappio intorno al collo. Non le importava. Amare Dan era l’unica cosa che aveva scelto di fare liberamente nell’arco della sua vita. Non le pesava di morire, lo avrebbe raggiunto, ma non poteva permettere che anche suo figlio perisse, a causa della cupidigia di quel re malvagio. Sentì la corda farsi sempre più stretta e l’aria mancare sempre più. Fece ricorso alle sue ultime forze per esprimere la formula magica. Un ghigno si fece largo sul suo volto. Il mondo cominciò a sfumare fino a diventare una massa informe di nero.

La folla urlò felice nel vedere i due criminali morire. La stabilità e la prosperità del regno erano salve. Tutta quell’ilarità svanì all’improvviso. Il silenzio piombò nuovamente in quella piazza. Una evidente macchia rossa si espandeva dal corpo penzolante della donna, all’altezza del bacino. Videro lentamente spuntare, tra le sue gambe, una testa con dei radi capelli rossi, ricoperta di sangue. Delicatamente, come sorretto da delle mani invisibili, videro il piccolo essere adagiarsi al suolo. Il vagito del neonato si udì per tutto l’ampio spiazzo. I dodici rintocchi delle campane, provenienti dalle due torri campanarie, sembrarono risvegliare la gente, che cominciò a scappare all’impazzata. Un bambino, nato da una donna morta, significava solo una cosa, una sciagura si sarebbe abbattuta su di loro. I soldati, incalzati dalle urla del re, si stavano avventando con le loro spade sul quel corpicino; ma rimasero con le armi a mezz’aria, perché all’improvviso era sparito nel nulla.

 

I due viandanti camminavano lentamente, attraverso la foresta situata sul limite orientale del regno di Atlas. Nonostante fosse pieno giorno, la luce faceva fatica a filtrare attraverso l’intricato fogliame degli alti alberi, il che rendeva meno gravoso marciare durante quella torrida estate. I due si fermarono sotto un’enorme quercia, per far riposare i piedi doloranti a causa del lungo cammino. La donna appoggiò la schiena dolente contro il tronco e cominciò a massaggiare lentamente il prominente pancione. L’uomo le si sedette accanto, guardandola con aria afflitta.

«È stata una follia metterci in viaggio in queste condizioni. Dovevamo aspettare che nostra figlia nascesse.»

«Sai benissimo che non era possibile. La nostra casa, il nostro ordine, tutto distrutto dalla guerra. L’unica possibilità di salvezza era fuggire e alla svelta.»

«Sono otto mesi che siamo in viaggio. Hai trascorso tutta la gravidanza a sfuggire agli sgherri del nemico. Ho perso il conto di quanti confini abbiamo passato, di quante valli abbiamo attraversato, di quante montagne abbiamo valicato. Che razza di padre e marito sono?»

«Un padre e un marito che ha a cuore la propria famiglia. Che ha aiutato fino all’ultimo secondo il proprio ordine a non perire, ma che ha dovuto arrendersi alla soverchiante brutalità del nemico. Un padre che non ha esitato a lasciare la propria terra natia, a rinnegare la propria natura, pur di mettere la sua famiglia in salvo.»

«Un marito che ti ha costretto a vivere uno dei momenti più belli della vita da fuggiasca.»

«Momenti che non avrebbero senso se tu non fossi accanto a me.»

«Mi dispiace.»

«Per cosa? Non hai nulla di cui scusarti. Sei stato tu a suggerire a Ulghur di attaccare la nostra enclave? Non mi risulta. Sei stato tu a mettere alle calcagna dei superstiti di quella mattanza, quei maledetti assassini? Non mi sembra. Quindi, smetti di dire cavolate e dammi una mano a rialzarmi, che questo pancione pesa!»

L’uomo stava per tenderle la mano, quando all’improvviso sul volto della donna si fece largo una smorfia di dolore.

«Tutto bene? La tua espressione non mi piace per niente.»

«Non ti preoccupare, è stata solo una fitta.» Face per tendere la mano verso il marito, quando una seconda fitta, più potente, la bloccò nuovamente.

«Cazzo!» Urlò. Sentì una sostanza gelatinosa e calda inumidirle le gambe. «Cazzo, cazzo, cazzo!» Imprecò nuovamente.

«Cosa succede?» Chiese preoccupato il mago.

«A quanto pare nostra figlia ha deciso di nascere, proprio qui.»

«No, no, no, no. Mancavano diversi giorni. Dovevamo arrivare nella capitale…»

«Cerca di restare calmo e lucido, dopotutto quella che soffre qui sono io.»

«Siamo nel bel mezzo del nulla. Nessuno a cui chiedere aiuto…»

«Fridrick dell’enclave di Silren. Primo dell’ordine dei maghi, ti ho detto di restare calmo!» L’uomo sembrò ridestarsi nell’udire quelle parole. Sapeva che, quando la sua dolce metà lo apostrofava in quel modo, era meglio rimanere molto attenti. «Sei il mago più potente della tua generazione, oltre che il maggior esperto in magie curative. Quindi concentrati e aiutami!»

«Hai ragione, vedrai, andrà tutto per il meglio.» Si guardò intorno alla ricerca di un terreno abbastanza pianeggiante. Lo individuò a pochi metri da loro. Percorse la breve distanza a grandi falcate. Dalla sua borsa da viaggio estrasse diversi sacchetti e strumenti. Cominciò a tracciare diversi simboli sul terreno. Mentre lavorava solerte, ogni tanto guardava con la coda dell’occhio la moglie; dalle smorfie di dolore e da come si contorceva vicino al tronco dell’albero, capì che non mancava molto al parto. Aumentò il ritmo del lavoro. Tracciare quei simboli si stava rivelando più difficile del previsto.

La venuta al mondo di una nuova vita tra i maghi era un evento raro. Quelle poche nascite, erano sempre state il frutto dell’unione tra un mago con un uomo o una donna, incapace di manipolare la forma della natura. Era la prima volta che la vita germogliava tra due esseri con le stesse capacità. Questa incapacità di generare discendenza, era stata compensata con una durata della vita ben superiore rispetto agli uomini comuni. Era la natura che li generava così. Nascevano con quel dono che allo stesso tempo era anche una maledizione. Ma, Re Ulghur non era dello stesso avviso. Dapprima si era rivelato amichevole verso la loro enclave; con il passare degli anni invece, sempre più ossessionato dalla morte. Aveva cominciato a fare strane richieste ai maghi. Quali pozioni usassero per allungare la loro vita, di rivelargli le formule per mantenere intatto il vigore. A nulla erano servite le spiegazioni fornitegli. Le richieste erano diventate sempre più pressanti, fino a sfociare in quel feroce attacco, che aveva distrutto completamente la loro comunità. Gli si formò un groppo in gola al pensiero degli amici uccisi, incarcerati e torturati. Al sacrificio che avevo compiuto per permettere a lui e ad Astrid di scappare, perché la nascita della bambina della profezia avesse compimento. L’urlo della donna lo ridestò da quei cupi pensieri. Aveva finito. Si precipitò verso di lei, la prese in braccio e delicatamente la depositò al centro di quella fitta sequenza circolare di formule. La dilatazione dell’utero era al massimo, la fase più delicata stava per iniziare. Cominciò a recitare una serie di formule, mentre le urla della donna si facevano sempre più strazianti. Ci vollero diverse spinte affinché vedesse la testolina comparire.  

«Continua così, stai andando alla grande!»

«Fanculo! Il dolore mi sta uccidendo, fa qualcosa invece di parlare!»

Si lasciò scivolare quegli improperi addosso. Anche lei sapeva molto bene che, tutte quelle formule, servivano per proteggere l’integrità fisica e della salute sua e del neonato; sul dolore non poteva farci nulla. La testa era spuntata del tutto, lentamente apparirono anche le spalle. Con tutta la delicatezza di cui era capace, comincio a tirare quel corpicino, in modo tale da poter facilitare l’operazione. Con un ultimo urlo, seguito da una poderosa spinta, finalmente il nascituro era fuoriuscito del tutto. Un vagito riecheggiò per tutta la radura, seguito da dodici colpi di campana provenienti da luogo lontano. Dal nulla fece comparire delle forbici, con cui tagliò il cordone. Poi fece apparire una bacinella con dell’acqua tiepida, per ripulire la bambina dal sangue. Si fermò un attimo a rimirarla. Non poté impedire alle lacrime di uscire. Prese dalla borsa da viaggio una coperta e l’avvolse intorno a quel minuto corpicino. Si distese accanto ad Astrid.

«È bellissima, come te.»

«Il solito adulatore! Come la chiamiamo?»

«Che ne pensi di Eir?»

«Eir? Penso che sia bellissimo…»

La stanchezza si faceva sempre più pressante. Eir e Astrid dormivano beatamente. Lanciò una magia intorno a quel luogo, in modo da renderlo invisibile e introvabile a qualsiasi essere vivente. Si addormentò sereno vicino alle due donne della sua vita.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo II

 

Il rumoreggiare della folla giungeva ovattato alle sue orecchie. Le spesse mura calcaree dell’anfiteatro, unitamente al pesante elmo in bronzo che indossava, facevano da filtro. Allentò la fibbia della calotta in cuoio, che foderava la parte intera del copricapo, la quale gli passava sotto il mento. L’alto tasso di umidità presente lì sotto, mischiato all’aria stantia, lo facevano respirare a fatica. La cella in cui era rinchiuso gli sembrò più claustrofobica del solito. Si impose di respirare lentamente, conosceva ormai da tempo quella sensazione. Ogni volta che il suo turno di combattimento si avvicinava, un senso di inquietudine lo pervadeva. Non che temesse per la sua vita o che avesse paura di procurarsi qualche ferita, ormai era abituato. Odiava con tutto sé stesso quella gente che, dall’alto degli spalti, urlava nel vedere persone che combattevano fra di loro, per il mero e disgustoso piacere. Odiava vedere i loro sorrisi compiaciuti, ogni qualvolta qualcuno, stremato dalla fatica, collassava al suolo. Odiava la loro voglia di sangue a tutti i costi. Cosa ne sapevano loro della guerra? Cosa significasse combattere? Cosa si provasse ad ammazzare un uomo a sangue freddo, solo per soddisfare la loro orrenda sete di morte. Non sapevano neppure come si impugnasse una spada o una lancia, poiché il loro maledettissimo regno conosceva un lungo periodo di pace. Cosa potevano saperne della sensazione che si provava nel vedere la vita spegnersi in un uomo? Magari la stessa persona con cui, fino a qualche giorno prima, si era condiviso lo stesso tugurio. D’altronde, che poteva saperne lui di cosa volesse dire vivere un’esistenza pacifica? Da quando aveva memoria, i suoi giochi erano state le armi e la sua istruzione il continuo esercitarsi alla lotta e alla guerra.

Scosse la testa. Prese la cote dalla sacca che era poggiata sulla panca in legno. Molare il filo della spada, prima di uno scontro, lo rilassava sempre. Era il suo modo personale per esorcizzare la paura, che tentava di attanagliarlo.

Il cozzare di un bastone di legno, contro le sbarre metalliche della cella, lo ridestò dai suoi pensieri. Aveva appena finito il suo personale rito.

«Preparati, il prossimo sei tu.»

Annuì con la testa. Si alzò in piedi, si sistemò meglio la corazza, stringendo tutte le fibbie. Poi passò ai vambraci e agli schinieri. Avanzò lentamente verso le scale che lo avrebbero portato nell’arena. Sentiva gli occhi degli altri schiavi-guerrieri puntati su di lui, ma non gli importava. Il mito che lo accompagnava non lo aveva mai minimamente interessato. Che senso aveva uscire da ogni scontro sempre vincitore e senza un graffio, se poi ritornava ad essere uno schiavo? Persino un animale aveva più libertà rispetto a lui. L’unica cosa che gli interessava era porre fine, nel modo più veloce possibile, quella pantomima che lo avrebbe visto protagonista. Non gli importava nulla delle persone che avevano pagato per lo spettacolo, delle loro proteste e degli insulti che avrebbe preso, perché non avrebbe soddisfatto le loro aspettative. 

La grata del cancello lentamente cominciò a dischiudersi. Le urla della gente aumentarono di volume, finalmente l’attrazione principale stava scendendo sul campo. Appena mise piede sul terreno polveroso e intriso di sangue dell’arena, un boato si alzò dagli spalti. Donne che urlavano estasiate il suo nome, uomini che lo insultavano e altri che lo acclamavano. Ma, tutto questo cessò, all’unico movimento della mano dell’uomo che occupava la postazione d’onore.

«Signori e signore, che oggi mi onorate della vostra presenza» cominciò l’uomo «come vi ho promesso, in onore dei dieci anni del mio governatorato in questa bella città, vi ho offerto tre giorni di spettacoli. E ora, in quest’ultimo giorno, per concludere tutto magnificamente, come ultimo spettacolo vi voglio offrire il miglior combattimento che possiate mai immaginare. Credetemi, racconterete di quest’incontro finché avrete vita. Sarete invidiati da tutte le persone di questo regno, perché nessuno sarà capace di eguagliare ciò che vedrete quest’oggi. Ecco» e indicò il gladiatore nell’arena «io vi offro Caesar, l’imbattuto, l’invincibile, il combattente senza ferite.»

La folla esplose in un boato. Il ragazzo rimase impassibile a tutte quelle parole, a tutto quell’ardore della gente. L’unica sensazione che provava era la collera. Era stufo di essere considerato una misera attrazione, per tutta la sua vita non era stato che quello. Una stupida marionetta, a cui era stato imposto di combattere per sopravvivere. Volevano lo spettacolo? Bene, glielo avrebbe fornito; non voleva certamente deludere le loro aspettative, ma lo avrebbe fatto a modo suo.

Vide entrare il suo avversario dalla porta opposta alla sua. Lo superava in altezza di almeno quindici centimetri, anche la massa muscolare era il doppio in confronto a lui. Ma non gli importava, se pensavano di spaventarlo con un energumeno di quella taglia, si sbagliavano di grosso. Estrasse la sua fida spada corta dal fodero, mentre sistemava lo scudo dietro la schiena; con un avversario di quel calibro, alla lunga, sarebbe risultato controproducente. Lo vide correre, mentre roteava l’ascia. Rimase impassibile al suo urlo di guerra; quello schiamazzo mal riuscito non poteva spaventarlo. Restò fermo in attesa fino all’ultimo secondo poi, agilmente, schivò il colpo. Continuò quella strana danza per tutto il tempo; schivava ma non affondava mai il colpo, come se fosse incapace di maneggiare un’arma. Nel frattempo, il rumoreggiare della folla aumentava. Era giunta lì alla ricerca dello spettacolo e del sangue, invece, stava assistendo ad uno strano e sgraziato balletto, fra due uomini male assortiti. Poté chiaramente sentire le urla del suo schiavista, che lo minacciava di essere frustato fino alla morte, se non avesse cominciato a darsi da fare. Sbuffò, quella prospettiva non lo spaventava minimamente. Certo, sperava di morire in modo più glorioso ma, per la vita che conduceva, morire in un’arena per mano di uno sconosciuto o in una cella resa fetida dal suo sangue, non faceva molta differenza. Vide il suo avversario ansimare sempre più, era quasi allo sfinimento. Lo osservò caricare a testa bassa e con tutta la sua potenza, voleva chiuderla lì. Era il momento giusto. Aspettò fino all’ultimo momento poi, agilmente, scartò di lato, roteò su sé stesso ritrovandosi esattamente alle sue spalle. Fulmineo, lo colpì con l’elsa della spada alla base del cranio. Il malcapitato stramazzò al suolo svenuto, non si sarebbe svegliato prima di qualche ora. La platea, che fino a quel momento aveva pesantemente protestato per quello spettacolo da strapazzo, adesso era silente; ammutolita dalla velocità di quel colpo. Ma quel silenzio fu interrotto dalle urla furenti del governatore, rivolte al suo schiavista.

«Tu, lurido venditore di morte, mi avevi promesso uno spettacolo degno d'essere cantato da tutti i bardi del regno e invece cosa mi ritrovo? Un saltimbanco. Ora, trova subito una soluzione, prima che affidi la tua testa alle cure del mio boia.»

«Io, io…non ho nessun altro combattente con cui farlo sfidare…»

«Diecimila scudi d’oro e non hai nessuno da far combattere? Chiamate il boia, che si diverta a far soffrire quest’uomo!»

«Aspetti, aspetti!» urlò disperato l’uomo «Ho un’idea. Prima, mentre ero nel ventre dell’anfiteatro, in una cella ho notato tre tipi poco raccomandabili.»

«Sono dei banditi che ho condannato a morte. Hanno ucciso oltre venti persone, tra uomini, donne e bambini.»

«Li faccia combattere contro quel traditore. Gli prometta la libertà se vinceranno. Sono sicuro che ricorreranno a ogni bassezza per avere salva la vita . La folla gradirà, ne sono certo.»

«Sembra una buona idea! Guardie, andate giù nelle celle, liberate e armate quei tre banditi, poi mandateli nell’arena a combattere contro quel bastardo.»

La gente sugli spalti approvò con un’ovazione quelle parole. Finalmente, avrebbero avuto lo spettacolo che gli era stato promesso. Caesar, invece, rimase impassibile. Aveva combattuto, aveva sconfitto il suo avversario ma, a quanto pare, non bastava. Lo volevano costringere a versare sangue e, questa volta, non avrebbe potuto esimersi.

Prese lo scudo da dietro la schiena e lo afferrò saldo nella mano sinistra. Si mise in posizione di guardia. Non sarebbe stato uno scontro facile. Non lo preoccupava il numero di avversari; non era la prima volta che si trovava in una situazione di svantaggio numerico. La sua preoccupazione era motivata dalla risma di persone che si trovava ad affrontare: tagliagole e, a quanto pare, della peggior specie. All’interno dell’arena, tra combattenti, vi era un codice d’onore da rispettare. Era uno scontro all’ultimo sangue ma, comunque, vi erano delle regole non scritte a cui si attenevano tutti; nutriva forti dubbi che quei tre le avrebbero rispettate, visto che in ballo vi era la loro libertà e la vita. Li vide entrare, il loro equipaggiamento era di prim’ordine. Gli avevano fornito armi ed armature dell’esercito. Doveva aver fatto veramente arrabbiare il governatore, per farli agghindare in quel modo. Schivò abilmente la lancia che il bandito più basso gli aveva scagliato contro. Con la coda dell’occhio la vide conficcarsi pesantemente nel terreno; estrarla avrebbe richiesto solo tempo e fatica, due cose che al momento non poteva permettersi. Il più muscoloso dei tre gli si avventò subito addosso. I suoi colpi erano potenti, ma mancava di tecnica; prevedere le sue mosse non era difficile. All’ennesimo affondo si abbassò; poi, velocemente, con la spada vibrò un colpo verso la gamba destra. Il malcapitato urlò di dolore, ma quel grido fu sopraffatto dal boato della gente, che finalmente vedeva il sangue scorrere. Si guardò subito attorno, per capire dove fossero gli altri due. Trovò il primo, vicino al cancello da cui era entrato; fece per cercare il secondo, ma non ne ebbe il tempo. Sentì intorno alla sua gola un cappio; si dimenò, ma quel bastardo non mollava la presa; anzi, ad ogni suo sforzo diveniva sempre più forte. Nella foga lasciò andare la spada, che il suo avversario fu rapido nello spedire lontano, con un calcio. Si impose di rimanere lucido e fu la sua salvezza. Vide che l’altro iniziava ad avvicinarsi velocemente, con la spada sguainata pronto a colpirlo. Deviò il colpo con lo scudo; sfruttò quel momento, in cui era privo di ogni difesa, per colpirlo con un calcio violento allo stomaco e lo vide piegarsi a terra dal dolore. Sentì la presa sul collo farsi meno pressante; approfittò di quell’attimo per sfoderare una vigorosa gomitata all’addome del suo carceriere, ma non ebbe il risultato sperato. Nonostante l’imprecazione di dolore, il bandito lo teneva ancora saldamente per la gola. Usò tutte le sue forze residue, per trascinarlo con sè al suolo. Sperava che quella mossa lo facesse cedere, ma non sortì alcun effetto. Anzi, la sua situazione peggiorò, dato che l’avversario ne approfittò per immobilizzargli il braccio dello scudo con una gamba. Si agitò disperato; era privo di difese e vide l’uomo, che poco prima aveva colpito, riprendersi e pronto a trapassarlo a morte. Chiuse gli occhi, mentre con la mano libera andava alla disperata e vana ricerca di un’arma, una qualsiasi. Ed il suo desiderio si realizzò. Sentì nel palmo un manico di legno molto familiare. Lo afferrò con tutte le sue forze e lo indirizzò contro il suo avversario. La lancia trapassò la gola del malcapitato, uccidendolo sul colpo. Sentì la pressione sul collo diminuire all’improvviso; ne approfittò per dare una poderosa testata sul naso del suo carceriere. Lo sentì guaire dal dolore. Si servì di quel momento per liberarsi completamente dalla presa. Si alzò in piedi rantolando. Si guardò rapidamente intorno. Il bandito a cui aveva squarciato il quadricipite femorale si era rimesso in piedi, ma faticava a camminare. Si sarebbe occupato di lui dopo. Si avvicinò lentamente alla sua preda. Si slacciò lo scudo e si mise a cavalcioni, immobilizzandolo. Colpì la testa del malcapitato diverse volte con il bordo dello scudo. Volevano uno spettacolo memorabile? Bene, glielo avrebbe offerto. Si fermò soltanto quando il volto dell’uomo divenne una poltiglia irriconoscibile. La folla urlava estasiata per quel macabro spettacolo. Prese la sua spada da terra e si avvicinò all’ultimo obiettivo. Lo guardava mentre cercava di sottrarsi al suo destino. Mentre cercava di scappare da lui, inciampò diverse volte, finché non si trovò bloccato contro il muro dell’arena. Gli avrebbe dato una morte rapida. Puntò la spada contro la sua testa e con un colpo secco lo decapitò. Lasciò andare l’arma a terra mentre, lentamente, si trascinava verso l’uscita. Un senso di nausea lo investì; non un uomo, un macellaio, ecco cos’era. Il pubblico estasiato inneggiava in suo onore, solo un uomo rimase impassibile a quel massacro. Con uno sguardo indecifrabile guardò il combattente lasciare l’arena, che lo aveva visto protagonista.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo III

 

Si stava passando lentamente lo strigile sulle sue gambe. Uno dei pochi aspetti positivi di essere un combattente dell’arena era la possibilità di lavarsi spesso, con acqua calda e liscivia, nei casi più fortunati con del sapone. Un autentico lusso, poiché solo le persone più abbienti delle diverse città si potevano permettere un piccolo bagno privato. La maggior parte della popolazione si doveva accontentare di lavarsi in rozze tinozze di legno, una volta alla settimana, ad essere fortunata; oppure al fiume, se ne scorreva uno nelle vicinanze dell’abitato. Si cosparse il corpo con olio profumato; amava prendersi cura di sé stesso in quel modo, non per vanità o per narcisismo, ma perché era conscio che l’unico modo, per sopravvivere in quel mondo, fosse curarsi e allenarsi costantemente. Indossò una tunica leggera di lino grezzo e si avviò verso la sua cella, era del tutto sicuro che il suo schiavista lo stesse aspettando lì. Infatti, lo trovò che passeggiava nervosamente davanti al suo tugurio. Proseguì noncurante, non era la prima volta che lo vedeva in quello stato; non sarebbe stata la prima volta che lo avrebbe minacciato di morte o di sottoporlo a chissà a quale tortura. Era avvezzo al suo sbraitare spropositato, alle sue grida piene di vuote minacce, al suo fingersi padrone della situazione, quando in realtà era solo ostaggio del volere dei suoi clienti. Notò che, nella sua mano destra, aveva il bastone di legno che usava per picchiarlo, quando era troppo svogliato durante gli allenamenti. Si fermò. Era inutile proseguire oltre, non glielo avrebbe permesso.

«Tu, figlio di puttana, per colpa tua rischiavo di morire.»

«Respiri, parli e la tua testa si trova ancora attaccata al corpo.»

«Sei una macchina della morte! Tu devi uccidere in modo spettacolare e non intrattenere il pubblico con un balletto improvvisato.»

«Io faccio quello che mi pare e piace. Non quello che vuoi tu!»

«Lurido schiavo, come osi rivolgerti al tuo padrone in questo modo? A quanto pare non ti ho inculcato abbastanza educazione.» Si apprestò a colpirlo con la mazza.

Chiuse gli occhi pronto a ricevere il colpo, ma non arrivò mai. Li riaprì, una scena strana gli si parò davanti. Uno sconosciuto tratteneva per il polso il suo padrone.

«Non si tratta così un proprio sottoposto, specialmente dopo che è uscito vincitore da una faticosa battaglia.»

«E tu chi sei? Come hai fatto ad entrare qui? E poi, non sono cazzi tuoi, come tratto i miei schiavi. Ci faccio quello che mi pare con loro.»

«Ah, sì?» Ironizzò lo sconosciuto.

«Gli ho dato cibo, un tetto, uno scopo. Hanno l’obbligo di fare ciò che gli ordino. Ho il diritto di trattarli come meglio credo.»

«Che uomo caritatevole! Quanta magnanimità concentrata in un corpo così piccolo. Devo segnalarti al Re come miglior suddito dell’anno.»

«Tieni a freno il tuo sarcasmo. La schiavitù non è proibita in questo regno, perciò non faccio nulla di illecito.»

«E avresti ragione, se tu lo avessi regolarmente comprato al mercato degli schiavi. Ma non è così, vero?»

«Come osi dire una cosa del genere? È ovvio che l’abbia comprato al mercato.»

«Ah, sì? Quale? E quando?»

«Mercato di Laxos, quindici anni fa.»

«Laxos eh? Pensi che sia uno sprovveduto? Il mercato degli schiavi non è più attivo da oltre vent’anni lì, da quando un terribile maremoto ha distrutto la città. Pensavi forse, che nominare una città, la quale si trova a migliaia di leghe da qui, ti avrebbe salvato? Stolto!»

Lo schiavista sbiancò.

«Nessuno in questo Regno sa di questo avvenimento.»

 «Allora, lo hai acquistato o no?»

«Io…»

«Tu…»

«Non sono affari tuoi! Questo è il mio schiavo. Ho un regolare contratto che lo dimostra!» Urlò, cercando di ritrovare la sua solita baldanza.

«Un regolare contratto, eh? Allora, diciamo che se fossi vagamente interessato, potresti vendermelo...»

Il vecchio scoppiò a ridere.

«Tu sei un pazzo, credi che potrei mai vendere il mio miglior combattente? È una macchina da soldi, non lo venderei per nessuna cifra al mondo.»

«Neanche per ventimila scudi d’oro?»

L’uomo deglutì rumorosamente. Quello sconosciuto era veramente disposto a spendere così tanto? Non era possibile, bleffava.

«Cinquantamila.»

«Affare fatto.» Rispose prontamente.

Lo schiavista ed il giovane combattente guardarono lo sconosciuto basiti. Aveva appena dichiarato di essere disposto a spendere cinquantamila scudi, senza battere ciglio; l’equivalente della rendita delle terre di un anno del re. Chi era costui per potersi permettere una cifra del genere? E perché si era dimostrato così interessato a Caesar? Lo schiavista lo guardò diffidente. Non era affatto convinto della bontà di quell’affermazione.

«Dimostrami che hai cinquantamila scudi d’oro.»

Lo sconosciuto prese un campanellino dalla sua tasca e lo fece suonare. Poco dopo, entrarono due uomini trasportando un forziere, che aveva l’aria di essere molto pesante. Lo depositarono davanti al vecchio incredulo e lo aprirono. Conteneva una quantità spropositata di monete d’oro.

«Abbastanza convincente come prova?»

«Chiedo venia per aver dubitato di voi, signore. Sono solo un umile schiavista, abituato a misurare la vita in base alle esperienze che ha vissuto, e non in base alla forza delle parole e del comportamento di una persona.»

«Accetto le scuse. Ora il contratto.»

L’anziano uomo richiamò un altro suo schiavo, il quale accorse prontamente. Lo fece avvicinare al suo orecchio, dandogli delle istruzioni. Subito dopo, lo vide arrivare con un volumen, che consegnò direttamente al compratore, il quale lo esaminò con interesse.

«Sembra tutto in regola. Il forziere è suo, mentre lo schiavo viene via con me. È stato un piacere.»

«Oh, il piacere è stato tutto mio. Se dovesse essere interessato, ho altra merce che le potrei mostrare

«No, grazie. Tutto ciò che mi serve è già nelle mie mani.» Si voltò e prese l’uscita, seguito a ruota da Caesar e dai suoi servitori.

Durante tutto il percorso, che portava verso l’esterno, nessuno disse una sola parola. Il misterioso compratore sembrava più interessato ai cicli di affreschi, che decoravano il corridoio che portava sia all’esterno dell’anfiteatro, che al palco d’onore. Mentre, il guerriero sembrava assorto nei suoi pensieri. Si chiedeva il motivo, per il quale quella persona ignota, avesse speso quella cifra spropositata per acquistarlo. Era bravo, ma non valeva tutto quell’oro. Non sarebbe mai riuscito a fargli recuperare tutto quel denaro. Si grattò nervosamente tra i capelli rossi; usava farlo solo quando era particolarmente pensieroso o nervoso.

Tutta quella fiumana di gente che camminava per strada lo disorientava. Era abituato alla folla, ma di solito era ben distante sugli spalti. Raramente gli capitava di camminare in pieno giorno tra le persone affaccendate. Per lo più, le sue uscite avvenivano di notte, quando la città dormiva, per godersi quei pochi attimi di pace e serenità, che gli erano concessi. Lo seguì a fatica tra gli stretti vicoli della città; per essere un uomo di una certa età si destreggiava molto abilmente tra la gente. Ad un certo punto, lo vide fermarsi in una viuzza poco frequentata. Con un gesto della mano lo invitava ad avvicinarsi, mentre con l’altra faceva suonare il campanellino. Si fermò a pochi passi da lui.

«Che fai li impalato?»

«È inappropriato che uno schiavo si avvicini al suo padrone.»

«Tu non sei un mio schiavo!»

«Mi ha comprato ed ha il contratto che mi lega a lei. Sono il suo schiavo.»

«Questo?» disse tirando fuori il volumen dalla sacca in cui lo aveva messo. «Non esiste più.» Strappò la pergamena in diversi pezzi e gettò i resti in una pozzanghera di urina, lì vicina. «Sei un uomo libero.»

«Ma cosa ha fatto?! Non potrò mai restituirle tutto quel denaro.»

«Quale denaro?»

«I cinquantamila scudi d’oro che i suoi servi hanno dato al mio ex-schiavista.» E si girò ad indicarli ma, con sua sorpresa, questi erano spariti. «Erano qui fino a qualche attimo fa» mormorò.

Lo sconosciuto scoppiò a ridere.

«Chi stavi cercando?»

«I due uomini che fino a poco fa erano con noi.»

«Oh, loro due! Li ho liberati dall’ipnosi qualche attimo fa, quando ho suonato la campanella che ho con me. Non male come trucco, eh?»

«Non sono qui per parlare di trucchi da quattro soldi. Chi sei? Perché hai pagato tutta quella cifra per me? Come farò a ripagarti? Lo ripeto, non ho nulla.»

«Hai ragione. Sono proprio un gran maleducato! Piacere, mi chiamo Davven e provengo del Regno di Atlas; ti cercavo da tempo, Ioan.»

«Hai sbagliato persona. Mi chiamo Caesar.»

«Nessun errore! Sei tu quello che cercavo. Per rispondere alle altre domande, non preoccuparti, non ho speso tutta quella cifra per riscattarti. Mai avuta tutta quella somma in vita mia!»

«Ah sì? E tutti quegli scudi d’oro?»

«Un’illusione creata dall’uso ipnotico del campanellino, un trucco davvero banale. Sono del tutto sicuro che il suo effetto sia già svanito. Ci conviene dirigerci il più velocemente possibile verso il porto, prima che il vecchio ci sguinzagli contro tutte le guardie della città. Una nave sta aspettando il nostro arrivo.» Cominciò ad incamminarsi, ma riuscì a fare a malapena pochi passi, poiché Caesar lo afferrò per il polso, bloccandolo.

«Spunti dal nulla, mi compri, mi liberi, dici di provenire da un regno che dista migliaia di leghe da qui, affermi che il mio vero nome sia Ioan e pretendi anche che io ti segua?»

Davven sospirò. Il ragazzo aveva pienamente ragione. Avrebbe voluto dirgli di più, spiegargli come stavano davvero le cose; raccontargli perché ci aveva impiegato tanto per trovarlo, ma il tempo stringeva. A convalidare quel presentimento ci penso la campana della guardia cittadina. Il trucco era stato scoperto prima del previsto. Lo schiavista aveva mosso tutte le sue leve politiche per far recuperare il suo prezioso combattente.

«Hai perfettamente ragione! Ti devo un sacco di spiegazioni. Ora, hai due possibilità: fidarti di me, seguirmi e, una volta giunti sulla nave, farmi tutte le domande del caso; oppure, rimanere qui e ritornare alla tua vecchia vita. Sai bene che le leggi di questo regno proteggono quei bastardi, che mercanteggiano in vite umane. A te la decisione.» E si incamminò.

Ioan lo guardò allontanarsi. Poi, lentamente, mosse il primo passo; successivamente, quei passi si trasformarono in corsa, permettendogli di raggiungere il misterioso Davven. Percorsero, nel modo più veloce possibile, quell’intrico di strade e viuzze, per giungere al più presto al porto. Un discreto numero di guardie era appostato sulla banchina portuale. Sfuggire sarebbe stato difficile, ma non impossibile.

«Perché non ricorri ad uno dei tuoi trucchi?»

«Non posso.»

«Cosa vuol dire che non puoi?»

«Il campanellino ha un’efficacia limitata nel tempo

«Che razza di illusionista da quattro soldi! Non sei nemmeno capace di replicare i tuoi trucchi!?»

Davven lo guardò di traverso. Nerboruto ed insolente; avrebbe faticato ad insegnargli le buone maniere.

«È complicato, ti darò tutte le spiegazioni al momento giusto.»

«Quindi?»

«Quindi useremo altre strategie.»  Prese un barattolo dalla sacca e lo aprì. «Tieni, spalmati questo colorante su quei capelli fulvi che ti ritrovi. Un altro tratto somatico meno appariscente no, eh?» Ioan lo guardò di traverso ed eseguì, controvoglia, l’ordine.

Gli passò un altro contenitore, con una diversa mistura. «È polvere di carbone, mista a grasso animale; cospargila sul viso.»

«Perché tutto questo?»

«Guardati bene intorno. Abis è conosciuta per essere una città con una forte vocazione mineraria. Quindi, non è raro vedere minatori al porto, specialmente quelli di carbone; ti confonderai come se fossi uno di loro. Prendi questo mantello logoro, avvolgiti bene e cerca di coprire il più possibile la tua corporatura. Imita una camminata claudicante. Vedi quella nave con la vela quadrata rossa? È il nostro obiettivo. Ora va!»

«E tu?»

«Non ti preoccupare per me! Inventerò qualcosa. Sei tu quello che cercano.»

Ioan si avviò verso la nave, non era a più di duecento metri dal punto in cui si trovava. Normalmente, avrebbe coperto quella distanza in pochissimi minuti, ma ora doveva essere più attento. Un passo falso, un’azione sospetta, avrebbe attirato l’attenzione di tutte le guardie lì presenti. Cominciò ad avanzare zoppicando vistosamente, sperando che la sua pantomima fosse credibile.

Era a metà del suo percorso, quando si sentì appellare da due guardie.

«Hey zoppo, fermati! Dobbiamo identificarti!»

Accelerò la sua andatura.

«Hey, stiamo dicendo a te! Fermati, o ti riduciamo ad un puntaspilli!»

Si bloccò, erano solo in due. Sarebbe riuscito a metterli fuori dai giochi in poco tempo. Poi avrebbe dovuto correre; la nave era vicina, le possibilità di riuscita non erano scarse.

I soldati erano quasi nelle sue prossimità, quando un boato si propagò per tutto il porto. Una densa cortina di fumo bianco si alzò dal deposito merci, posto alla sua destra, a centocinquanta metri circa. Le sentinelle distolsero l’attenzione da lui, per cominciare ad accorrere sul posto. Approfittò di quel trambusto per dirigersi, il più velocemente possibile, verso la sua meta. Era quasi arrivato, quando si vide affiancato da Davven.

«Piaciuto il diversivo?»

«Sei stato tu?»

«Sarò pur scarso come illusionista, ma sono un alchimista niente male! Quelle che hai appena visto sono due mie creazioni: una bomba esplosiva e una fumogena. Carine, eh?»

Ioan sorrise, quel tipo cominciava a stargli simpatico.

Salirono sulla nave. Appena misero piede sul ponte, la ciurma cominciò ad effettuare tutte le operazioni necessarie, per permettere alla nave di staccarsi dalla banchina. Il bastimento lasciò tranquillamente il porto.

 

Respirò a pieni polmoni l’aria di mare, profumava di libertà.


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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo IV

 

La radura era silenziosa. Anche il sottobosco, che di solito brulicava di vita, era stranamente muto. I pecci, dai robusti rami e dai fitti aghi, facevano filtrare con difficoltà la luce solare. Acuì i suoi sensi, l’unico suono che riuscì a percepire fu quello proveniente dalla cascata, dislocata a qualche centinaio di metri da lì. Avanzò lentamente, facendo attenzione dove mettere i piedi, per fare meno rumore possibile; non era sola e non riusciva a scacciare quella sensazione opprimente. Si appoggiò ad un tronco e si mise a sedere, i lunghi e lisci capelli biondi le danzarono davanti agli occhi, li chiuse. Considerato che i suoi sensi la stavano tradendo, avrebbe ricorso ad altri metodi. Le sue labbra si muovevano velocemente, ma tutto quello che si poteva udire era soltanto un mormorio. Si alzò in piedi di scatto, le iridi che normalmente erano verdi, avevano assunto una colorazione rosso scarlatto. Il suo intuito non si era sbagliato, tre persone erano con lei nella foresta, poteva chiaramente percepire il calore che emanavano. La stavano circondando, impedendole ogni via di fuga, l’unico modo per uscire di lì era combattere. Estrasse una spada corta dal fodero, posizionato dietro la sua schiena. Passò il palmo della mano destra sulla lama, che assunse una strana colorazione azzurra. All’ultimo secondo riuscì a schivare una freccia, che si conficcò nel tronco dell’albero, scartando verso destra. Altre frecce sibilarono sopra la sua testa, mancandola di diversi centimetri. Corse a zig-zag nella radura alla ricerca di un riparo sicuro; aveva bisogno di pensare qualche secondo con calma, per elaborare una strategia vincente. L’obiettivo dei suoi nemici era chiaro, attaccarla da lontano per stanarla e stancarla. Trovò rifugio dietro una roccia abbastanza grande, che offriva una discreta protezione. Si guardò rapidamente intorno, per cercare di capire come sfruttare al meglio l’ambiente circostante. Notò che sul terreno il fitto fogliame era ancora verde; difficilmente avrebbe preso fuoco, ma le sarebbe ritornato sempre utile come diversivo. Sui polpastrelli della mano destra fece comparire delle piccole fiammelle e cominciò a lanciarle sulle foglie. Il piano stava funzionando; una leggera cortina di fumo cominciava ad innalzarsi. Continuò finché non divenne abbastanza densa da nascondere ogni suo movimento. Grazie all’incantesimo precedente, riusciva chiaramente a distinguere i suoi nemici attraverso quella fitta nebbia artificiale; ora era lei in posizione di vantaggio. Si diresse velocemente verso quello che le era più vicino e lo mandò al tappeto con un colpo alla nuca. La stessa sorte toccò al secondo, che stramazzò al suolo senza neanche accorgersi da dove provenisse l’attacco. Sorrise; l’ultimo e sarebbe stata libera di proseguire il suo cammino. Era quasi giunta alle sue spalle, stava per sferrare il colpo decisivo quando, all’improvviso, il suo obiettivo svanì. Si girò attorno guardinga. Come era possibile?  Era davanti a lei fino a qualche secondo prima. Sentì qualcosa sibilare alle sue spalle; fece in tempo a scartare verso sinistra, prima che una lama la colpisse. Ma, non fu sufficientemente rapida; un taglio profondo si formò sotto il suo zigomo destro, mentre una ciocca di capelli biondi cadeva al suolo. Si soffermò ad osservare il suo avversario: non era un bandito qualsiasi, anche lui era capace di usare la magia elementale, per incantare le armi o per lanciare incantesimi. Non era un nemico da sottovalutare; se lo avesse fatto probabilmente avrebbe avuto la peggio. Appoggiò la mano destra al suolo, pronunciò una formula magica ed iniziò ad estrarre dal terreno uno scudo. Non era abbastanza grande da proteggerla completamente; ma, doveva centellinare le sue energie, non sapeva cosa lo sconosciuto fosse capace di fare. Schivò agilmente la sfera di fuoco che il suo nemico aveva lanciato; con la coda dell’occhio, notò che aveva finito la sua corsa contro un tronco dalbero, incenerendolo all’istante. Deglutì rumorosamente. Quell’uomo non scherzava, era lì per ucciderla, ma una domanda rimbombava nella sua testa: perché? Non lo aveva mai visto in vita sua, non che avesse stretto chissà quali grandi rapporti nei suoi diciott’anni di vita; quindi, perché tutto quell’astio immotivato? Lo vide sparire nuovamente. Sentì un fruscio di foglie alle sue spalle; questa volta non si sarebbe fatta cogliere impreparata. Parò il fendente con la sua piccola lama e approfittò di quell’apertura per cercare di colpirlo con la scudo al fianco, ma si rivelò una mossa inutile; l’uomo fu più rapido di lei, la spedì al suolo, facendola prima volare per diversi metri, grazie ad una folata di vento che aveva generato con la sua mano libera. Si alzò di scatto, ripulendosi da tutto il fogliame che le era rimasto addosso. Era decisamente un osso duro. L’aveva ferita e spedita al tappeto nell’arco di pochi minuti e lei non era riuscita minimamente a scalfirlo. Sapeva combattere e usare la magia, proprio come lei; ma, al contrario suo, sembrava molto più abituato agli scontri. Far durare troppo quel duello per lei avrebbe significato solo una cosa: una sconfitta assicurata. Doveva chiudere al più presto quella storia, se voleva avere qualche possibilità di uscire viva da quello scontro. Si guardò nuovamente attorno; non vi era nessun posto dove ripararsi in caso di un attacco diretto, poteva far affidamento solo sulle sue capacità. Gettò lo scudo a terra, contro la magia le sarebbe servito ben poco, poiché si sarebbe frantumato al primo attacco. Lo scrutò attentamente, pronta a cogliere ogni suo minimo movimento; ma, il suo avversario sembrava impassibile, era impossibile cercare di capire cosa stesse pensando. Provò a sondare i suoi pensieri, ma il suo attacco mentale venne respinto; anzi, a stento riuscì ad evitare il suo contrattacco. Era dannatamente abile, ora non vi era più alcun dubbio. Provò a lanciare una sfera di fuoco, ma venne prontamente annullata da un muro d’acqua evocato dal suo nemico. Erano in stallo, si equivalevano. L’unico modo per uscire da quell’impasse era escogitare qualcosa di diverso. Si guardò meglio attorno, le lunghe ombre degli alberi le fecero venire in mente un’idea. Considerato che si eguagliavano nell’uso della magia, si sarebbe giocata il tutto per tutto con il combattimento corpo a corpo. I colpi che si scambiarono furono rapidi e precisi. Attaccavano e paravano senza una soluzione di continuità, equivalendosi in ogni colpo. Ma, lo sforzo fisico a cui si stava sottoponendo, le stava rapidamente prosciugando le energie; ed infatti la sua gamba destra la tradì. Aveva ceduto, mentre cercava di parare l’ennesimo fendente del suo avversario. Si ritrovò distesa a terra, inerme, alla mercé del suo aguzzino. Batté frustrata il palmo della mano sinistra al suolo. Vide la lama nemica avvicinarsi pericolosamente alla sua gola, per poi fermarsi, repentinamente, a pochi centimetri da sé. Sorrise, il suo piano aveva funzionato. Era caduta nell’esatto punto in cui l’ombra era più fitta; evocare un demone ombra, da una base di partenza ottimale come quella, quando aveva colpito il terreno con la mano, era stato un gioco da ragazzi. Vedeva la sua evocazione ghermire la gola del nemico con un pugnale nero, pronto a colpire al suo ordine. Stava per dare il comando, quando una voce familiare la bloccò.

«Basta così!»

«Papà?!» Disse incredula.

«Eir, sei diventata proprio forte!»

«Papà, mi spieghi cosa diavolo succede?»

«Testavamo le tue capacità.» Rispose il misterioso nemico, che lentamente cominciò ad assumere le sembianze di una donna.

«Mamma?! Prima che perda la pazienza, mi spiegate cosa vi è saltato in mente?»

«Vieni» disse l’uomo, porgendole una mano per aiutarla a rimettersi in piedi «come ha detto mamma, testavamo le tue capacità. Sei una maga incredibile figlia mia. A soli diciotto anni, ci hai già eguagliato in capacità e potenza Eir.»

«Non sto capendo?!»

«Sei pronta per il mondo, figlia mia.» Disse la donna accarezzandole il viso. «Tenerti per sempre in questa foresta sarebbe uno spreco. Ti aspettano tante cose lì fuori.»

«Non è vero! Io sto bene qui, con voi.»

«Non dire bugie. Lo senti anche tu il richiamo del mondo. Anche se non hai il coraggio di dircelo, capiamo chiaramente che hai voglia di vedere ciò che ti abbiamo raccontato.»

«Ma io…»

«Non è un male, tesoro.» Intervenne il padre «Vuol dire che sei cresciuta, sei diventata forte ed indipendente, oltre che una bellissima donna.»

«Balle! Voi volete solo allontanarmi da casa!»

«Stai diventando irragionevole Eir, sai benissimo che non è così!»

«Dove andrò? Con chi?»

«Dovrai scoprirlo da sola figliola. Il destino è nelle tue mani.»

«Ma sarò da sola!»

«Sei stata sola per troppo tempo. Sempre qui, in questa foresta dove sei nata, nascosta da tutto e da tutti. No Eir, meriti di meglio. Lo sai, lo senti.»

«Ma vi lascerei qui da soli…»

«No», rispose la madre «anche noi andremo via. Siamo stati qui a lungo, ma lo abbiamo fatto per il tuo bene. È tempo di andare anche per noi, abbiamo la nostra strada da percorrere

«Tutto così, all’improvviso, non è giusto, non sono pronta!» Disse la ragazza, sull’orlo delle lacrime.

«La vita non è mai giusta, abbiamo noi il compito di renderla tale. Andiamo, è tempo.»

La ragazza annuì con la testa, sconsolata. Sapeva che i suoi genitori avevano ragione. Era rimasta troppo a lungo in quel luogo a soffrire la solitudine, a non sapere cosa si prova nel giocare con altri bambini, a non conoscere il significato della parola amicizia. Sapeva fosse arrivato il momento di andare, di sperimentare nuove cose, eppure non riusciva a non provare una punta di paura. Eir, la regina del bosco, la padrona degli animali, la domatrice degli elementi naturali, era terrorizzata all’idea di lasciare definitivamente la radura, la sua casa per diciotto lunghi anni. Si avviò lentamente verso l’abitazione, soffermandosi ad osservare e memorizzare ogni piccolo frammento di quel suo minuscolo mondo. L’avrebbe portato nella sua mente e nel suo cuore ovunque fosse andata; non le importava quanto il destino e le sue gambe l’avrebbero portata lontano, quel posto sarebbe stato sempre la sua oasi felice.

Cominciò a preparare il suo bagaglio. Voleva viaggiare leggera, delle scorte di viveri e qualche ricambio di vestiti andavano più che bene, al resto ci avrebbe pensato la magia. Sapeva molto bene di non poterne fare un largo uso al di fuori del bosco. Chi non era capace di manipolare la forma della natura, poteva fraintendere l’uso di tale capacità e potere, nel migliore dei casi; nel peggiore, avrebbe potuto incarcerarla e sottoporla a chissà quale tortura o addirittura ucciderla. I suoi genitori erano stati molto chiari su quel punto di vista: mai mostrare apertamente i poteri ed i prodigi di cui era capace. Non comprendeva ancora appieno  le motivazioni, ma era sicura che avevano le loro buone ragioni ed aveva la vaga impressione che presto, quando avrebbe vagato per i vari regni umani, le sarebbe stato tutto molto più chiaro. Gettò un ultimo sguardo alla sua stanza. Si soffermò sui giochi che aveva usato durante tutta la sua infanzia, costruiti a mano dai suoi genitori, senza alcun ausilio della magia. Lanciò un incantesimo su tutti loro; non voleva che il tempo o la polvere li rovinassero, sarebbe ritornata a prenderli non appena ne avrebbe avuto l’opportunità. Discese le scale, cercando di cogliere ogni piccolo particolare dell’abitazione; se solo avesse potuto farlo, l’avrebbe portata via con sé, ma ciò non era possibile. Vide che i genitori l’aspettavano vicino la porta, già carichi dei loro zaini. Percorrere quei pochissimi metri le fu difficile, ma si impose di essere forte. Doveva dar prova di essere tenace, caparbia, risoluta, capace di tener testa alle difficoltà della vita; non poteva lasciarsi andare per una cosa del genere.

«Pronta?» Disse Astrid.

Annuì leggermente con la testa.

«Vedrai figliola, il mondo che ti attende, i regni dei senza magia, sono posti fantastici. Nonostante non siano capaci di manipolare le diverse forme della natura o piegarle al loro volere, sono capaci di cose straordinarie. Quando ci rivedremo, ripenserai a questo momento con un sorriso.»

«Dici, papà?»

«Ne sono fermamente convinto!»

«Però…»

«Però…» Continuò la madre.

«Io non sono mai stata sola! E la cosa mi spaventa.»

«E non lo sarai mai. Tieni.» Le mise al collo una collanina con un pendente: il castone era a forma di due ali d’oro spiegate, su cui era montata una gemma rossa che emanava baluginii. «In questa pietra, io e mamma abbiamo immesso un po’ della nostra essenza vitale e magica. Ti saremo sempre accanto, ovunque tu vada. Non ti lasceremo mai sola. Ora va, il mondo ti attende e sono sicuro che lì fuori troverai tanti amici.»

Li abbracciò forte. Non poté impedire ad alcune lacrime di sgorgare. Aveva la convinzione, anzi sapeva, che li avrebbe rivisti nel suo girovagare per il mondo alla ricerca di uno scopo, della sua realizzazione; ma, in quel momento, quella separazione le faceva molto male. Si staccò a malincuore ed intraprese il viale che l’avrebbe portata verso nuove esperienze.

«Non piangere figlia mia. Non è un addio, non è la fine.»

Fridrick e Astrid rimasero a guardare Eir che andava via, finché non divenne un piccolo puntino all’orizzonte.

«La rivedremo mai?» Chiese la donna.

«Non lo so, ci spero però.»

«Il mondo è un posto orribile, sono sicura che lo scoprirà a sue spese. Mi preoccupa lasciarla sola.»

«Eir è molto più forte e furba di ciò che sembra, se la caverà egregiamente. Lei è destinata a grandi cose, me lo sento, lo so.»

«E noi?»

«Noi? Abbiamo una missione da compiere e il dovere di andare alla ricerca dei nostri amici, che sono sopravvissuti all’attacco di diciotto anni fa…ammesso che ce ne siano.»

Mise una mano sulla spalla della donna, per incoraggiarla.  «È tempo di andare.»

«Ci aspetta una impresa impossibile. Noi due contro un impero.»

«Lo so. Ma abbiamo il dovere di provarci.»

«Hai ragione.»

«E sono sicuro che Eir si rivelerà fondamentale anche per la nostra missione. Andiamo!»

Chiusero la porta di quella modesta ma accogliente casa in legno e pietra, nata dal nulla nel bosco, diciott’anni addietro. Lanciarono su di essa un incantesimo di protezione, in modo tale da non essere trovata o scalfita da nessuno.

Si avviarono anche loro lungo il viale che li avrebbe condotti verso la meta. Molto presto, l’intero mondo avrebbe saputo che i maghi erano tornati. Più potenti e determinati che mai.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo V


Una densa nuvola di fumo nero si alzava all’orizzonte. Il mago guardò i suoi amici, come al solito erano in ritardo, mai che riuscissero ad anticipare quell’orda famelica e distruttrice. Accarezzò la nuca del cavallo; la morbida criniera, al tatto, gli donava sempre una sensazione di tranquillità, emozione che non riusciva più a provare da tempo. Aveva perso il conto delle ore trascorse in viaggio, per tutto il continente di Thaurus; era molto stanco, ma non poteva cedere, aveva una missione da compiere; si sarebbe riposato solo dopo aver messo fine alle sofferenze della popolazione di quel continente. Guardò i suoi amici per infondere loro un po’ di coraggio. Per un attimo si sentì un codardo, un traditore nei confronti della fiducia che riponevano in lui; non aveva molte speranze per sé stesso, eppure voleva donarla agli altri. Un ipocrita, ecco come si sentiva; ma era l’unica strada percorribile, l’unico modo che conosceva per tirare avanti, per avere la forza di alzarsi dal giaciglio appena il giorno sorgeva, per continuare ancora a guardarsi allo specchio. Dopotutto, lui era il capo della gilda dei maghi, gli esseri più potenti di Thaurus e dell’intero mondo di Staras; e allora, perché non riuscivano a mettere fine a quei massacri gratuiti, perpetrati dalle forze del male? Perché gli uomini continuavano a soccombere, dinnanzi a quella soverchiante brutalità? Perché non riuscivano a contrastare quelle orde di mostri? Erano domande a cui avrebbe voluto dare una risposta, ma la verità era che non ne aveva, e lui, dannazione, doveva conoscere quelle fottutissime risposte.
Strattonò irritato le redini ed impartì al cavallo l’ordine di andare al trotto, dopotutto il villaggio non doveva essere molto distante. Durante la cavalcata nessuno dei tre uomini osò fiatare, troppo concentrati nel pensare a come porre rimedio a quella situazione. Si guardavano costantemente intorno per captare eventuali pericoli in arrivo, ma nulla si muoveva, sembrava di camminare tra la morte. La campagna intorno a loro era priva di ogni rumore e la leggera nebbia rendeva ancora più angustiante quel paesaggio.
Hatrim guardò incuriosito il cippo miliare che era posto al margine della strada, l’iscrizione riportava la distanza da percorrere per giungere al villaggio di Fels. Due chilometri, sarebbero arrivati lì nel giro di un’ora, se avessero continuato a mantenere quell’andatura; non avevano la necessità di accelerare, ormai era troppo tardi, come spesso accadeva negli ultimi tempi; inoltre, avrebbero rischiato di affaticare i cavalli inutilmente.
L’acre odore del fumo, ora, era chiaramente percepibile e non faceva presagire nulla di buono. Quando furono vicini alla palizzata del villaggio, i loro presentimenti furono ampiamente confermati; la recinzione difensiva era divelta in più punti e, dove una volta era collocata la porta d’ingresso, ora vi era solo un enorme cratere. Un vento leggero trasportava la cenere ovunque e, delicatamente, la faceva posare tra i loro capelli, come neve. Percorsero lentamente il perimetro difensivo, per cercare un agile punto di ingresso per le loro cavalcature, lo trovarono nella parte più ad oriente. La palizzata era stata completamente distrutta, l’unica traccia della sua preesistenza erano gli enormi fori, che in precedenza ospitavano i giganteschi pali appuntiti. Legarono i cavalli ad un moncone di ferro che spuntava dal terreno, unico superstite della furia distruttiva che aveva travolto quella parte del borgo. Non trovarono una sola casa integra sul loro cammino, erano state tutte incendiate, rimanevano solo gli scheletri lignei, oramai carbonizzati e prossimi al disfacimento. Si diressero verso il centro di quella piccola cittadina e quello che temevano di trovare si parò dinnanzi ai loro occhi: centinaia di corpi orrendamente dilaniati erano accatastati su quella che doveva essere stata la piazza cittadina. Non avevano risparmiato nessuno, come sempre; per quei maledetti mostri donne, uomini o bambini non avevano nessun valore, erano solo esseri da trucidare nel peggior modo possibile. Si divertivano a strappare con i loro denti aguzzi gli arti delle persone, o a dilaniare con i loro artigli i corpi; traevano piacere dalla sofferenza che impartivano, dalla lenta agonia a cui condannavano le loro prede. Orride creature della notte, nate dalla mente oscura e potente del Leviatano, che si divertivano ad assaltare villaggi in gruppo.
Un verso proveniente dal retro del pozzo, situato al margine orientale dello spiazzo, mise in allerta i tre uomini. Hatrim fece cenno ai due amici di rimanere dietro di lui; le loro espressioni erano contrariate per quell’ordine che consideravano scellerato, dato che lui era il mago più potente della gilda e non si potevano permettere di farlo rischiare. Ma lui era stato inamovibile, sarebbe andato in avanscoperta per vedere da cosa e da dove provenisse quel guaito.

Mormorò alcune parole ed una leggera aura color ametista circondò tutto il corpo; qualsiasi cosa avesse cercato di colpirlo, sarebbe stata distrutta al contatto con quella barriera. Tenere su quella difesa gli costava parecchie energie, ma nel breve periodo era capace di sopportare quella fatica. Mentre si avvicinava cautamente al pozzo, i lamenti si accentuavano sempre più; sicuramente non appartenevano ad un essere umano, il suono era troppo gutturale, ricordava più il verso di un animale ferito. Quando finalmente riuscì a vedere di cosa si trattasse, rimase senza fiato, era un’Empas. La ferita non era grave, ma gli impediva di muoversi; infatti, la lancia che le trapassava la spalla, la costringeva a restare seduta immobile contro la parete del pozzo. I grandi occhi neri sporgenti, che mal si adattavano al viso tondo e piccolo, guardavano pieni di odio il mago; anche il ritmo della respirazione aumentò vertiginosamente, infatti dal naso largo e schiacciato provenivano suoni che sottolineavano questo stato. I peli intorno alle orecchie si rizzarono. La pelle squamosa virò da una tonalità verde chiaro ad uno scuro, quasi marrone. I muscoli delle gambe e delle braccia, molto simili agli arti umani, si gonfiarono; ma ogni sforzo fu vano, non riusciva a muoversi. Era incredulo, non aveva mai avuto la fortuna di catturare un esemplare vivo, una volta tanto il fato era dalla sua parte. Chiamò a gran voce i suoi amici, che accorsero velocemente.
Alla vista di quei tre uomini il nervosismo della creatura aumentò sempre più; provò a divincolarsi, ma la lancia non si spostava di un millimetro. Cercò di colpirli con i suoi artigli bronzei, ma i tre si erano posizionati oltre il raggio di azione del braccio squamoso.

«Questo sì che è un colpo di fortuna!» Esordì Hatrim.

«Perché dovrebbe esserlo?»

«Non capisci, Ceutes? Finalmente abbiamo la possibilità di capire i punti deboli di questa creatura! Fino ad ora molte delle nostre magie si sono rivelate inefficaci; se riuscissimo a capirne la natura, potremmo trovare il modo di contrastarle più efficacemente.»

«E dici che basterebbe?» Chiese Teucos.

«La verità? Non lo so! Però, se grazie ai nostri esperimenti e alle nostre magie riusciremo a salvare un solo uomo in più, vorrebbe dire che ne sarà valsa la pena.»

«Come intendi trasportarlo? Le normali sbarre di ferro riescono a malapena a contenere la sua forza brutale.» Rispose Ceutes.

«Le rinforzeremo con la magia. Fino ad ora le nostre barriere hanno retto alla loro furia.»

«Si, ma mai per molto!»

«Hai ragione Teucos. Ma dovevamo sempre erigere una barriera che proteggesse un intero villaggio da un'orda di Empas. Questa volta è diverso, è ferita e siamo in tre. Possiamo farcela, abbiate fiducia nelle vostre capacità. Inoltre, Sieran è solo a cinque giorni di viaggio da questo posto. Possiamo farcela, dobbiamo farcela, altrimenti non meritiamo il titolo di mago che sfoggiamo con onore.»

I due maghi si guardarono negli occhi, Hatrim aveva ragione, era compito loro mettere fine a quelle incursioni che avevano gettato nel terrore il continente di Thaurus. Da quando il Leviatano era comparso, portando con sé quelle creature, tutto era andato sotto sopra. Passarono al setaccio quel villaggio per trovare del materiale ferroso; erano maghi, ma non potevano creare una gabbia di ferro dal nulla o senza una base di partenza. Per quanto fossero abili nel manipolare la forma della natura, non erano al di sopra delle leggi di quest’ultima; erano capaci di trasformare a loro piacimento, ma non di creare o distruggere; senza ferro a sufficienza, la gabbia che avrebbero creato sarebbe risultata debole.
Mentre cercavano, si ritrovarono a pensare a quanto fossero stati fortunati ad avere Hatrim a capo della loro comunità; non era solamente il mago più potente che ci fosse in circolazione, era anche un leader. Era solito stare poco tempo nel suo ufficio, gli piaceva partecipare alle missioni, ed era sempre in prima linea in caso di pericolo; non si limitava ad impartire gli ordini, era il primo ad eseguirli. Era il loro esempio, la loro guida, la persona che li spingeva costantemente a migliorarsi. Se non ci fosse stato lui, probabilmente si sarebbero arresi molto tempo addietro, alla furia distruttrice di quel mostro. Quando ebbero materiale a sufficienza, con una magia costruirono una gabbia abbastanza robusta per la loro preda.
Videro Hatrim applicare una serie di sigilli che non gli avevano mai visto fare prima, probabilmente erano una sua nuova invenzione. Poi lo videro mormorare una formula magica, che fece addormentare l’Empas; rimasero sbalorditi nel constatare che avesse fatto quella operazione delicata, con tanta semplicità. Gli diedero una mano nell’estrarre la lancia dalla spalla del mostro e poi nel tamponare la ferita. Poi, cautamente, la misero nella gabbia. La parte più difficile dell’operazione era andata a buon fine, senza nessun intoppo. Misero il loro bottino sul carro, che Hatrim aveva evocato, e partirono subito alla volta di Sieran, non avevano un solo minuto da perdere.

 

Hatrim batté furioso i pugni sul tavolo, settimane di esperimenti e nessun risultato tangibile tra le mani. In un impeto di rabbia gettò tutti i documenti e tutti gli strumenti presenti sul tavolo del laboratorio a terra. Un urlo di rabbia sgorgò dalla sua bocca. Uscì dalla stanza furente, come mai lo era stato in vita sua. Tutte le speranze che aveva riposto in quelle settimane di studio, erano state tutte vanificate dal fallimento dei suoi esperimenti sull’Empas. I risultati che aveva ottenuto erano quelli già noti. Fuoco, acqua, elettricità  ed armi riuscivano a ferire la creatura, potevano anche ucciderla, ma comportava un dispendio enorme di energie. Occorrevano due maghi abbastanza potenti per poter ferire gravemente quel mostro o una decina di uomini ben addestrati, per poterle tenere testa; non aveva avuto una sola novità dalle sue sperimentazioni, erano tutte cose che già sapeva; anzi, un risultato lo aveva ottenuto: aveva constatato, con i suoi occhi, la velocità con cui si rigeneravano i tessuti danneggiati. Nel giro di una notte, l’Empas era capace di curare tutte le sue ferite; otto ore ed era come nuovo, come se nessun oggetto o magia avesse mai scalfito la sua pelle squamosa.
Si diresse verso le celle dove era incarcerata. La nuova barriera che aveva concepito si stava dimostrando molto efficace, durante quelle settimane di prigionia non era stata minimamente scalfita dalla creatura magica. Controllò i sigilli, erano ancora in ottimo stato, non era necessario sostituirli o rigenerarli. Osservò la creatura che se ne stava tranquilla in un angolo della cella, era rannicchiata su sé stessa e grattava, con i suoi artigli bronzei, il pavimento in granito. Appena lo vide scattò in piedi e provò a saltargli addosso, ma la barriera la respinse al suolo, stordendola. Hatrim rimase impassibile a quello spettacolo: lo aveva visto mettere in atto diverse volte, durante quelle settimane; qualche secondo e la bestia sarebbe ritornata in piedi, come se nulla fosse accaduto. Osservò con attenzione il punto illuminato dal fascio di luce, che entrava dalla grata; potè notare che la pelle non si era cicatrizzata perfettamente nel punto dove, qualche settimana prima, la lancia l’aveva colpita. La colorazione non era del solito color verde che virava verso il marrone, ma era sfumata di una tonalità più chiara. Come aveva fatto a non notarlo prima? Era tentato ad avvicinarsi di più, ma preferì rimanere dov’era, la creatura si sarebbe ripresa in qualche attimo. La vide alzarsi più agguerrita che mai; il suo sguardo trasudava odio. Se fosse stata libera sicuramente lo avrebbe assaltato, per dilaniarlo con i suoi artigli e straziato la sua carne con i suoi denti aguzzi.

Ritornò velocemente nel suo ufficio e prese la sacca che aveva con sé quel giorno, prese la punta della lancia e cominciò ad esaminarla. Ad occhio non notava nulla di strano, era una comunissima lama in bronzo, finemente lavorata. Il fabbro che l’aveva forgiata sapeva ben fare il suo lavoro, considerato che non vi era nessuna crepa sulla superficie. La poggiò sul bancone e mormorò una formula. Il puntale iniziò a librarsi in aria, dapprima lentamente, poi cominciò a vorticare sempre più velocemente, finché non ci fu una piccola esplosione; diverse sfere caddero pesantemente sul bancone, erano i diversi elementi di cui era composta la lega bronzea. Lo stagno e lo zinco erano i metalli più presenti, vi era anche qualche traccia di piombo ed arsenico; ma, il suo sguardo si posò su una microscopica sferetta, che si era depositata tra le venature del legno del tavolo. La prese con una pinzetta e l’avvicinò per osservarla meglio, ossidiana. Cosa ci faceva all’interno della lega? Non era un componente che di solito si usava per forgiarla. Poteva essere lei il motivo della non perfetta cicatrizzazione della ferita? Si spostò verso l’armadietto per trovarne un pezzo di dimensioni maggiori; lo trovò nella parte più in basso, lo prese e lanciò una magia per dargli la forma che desiderava.
Si precipitò verso le celle, voleva subito mettere a frutto quella pazza idea che gli era venuta in mente. Si ritrovò nuovamente di fronte all’Empas; rigirò nella sua mando destra, diverse volte, quella specie di spada in ossidiana che aveva creato; ora che era dinnanzi al suo nemico titubava. Inspirò profondamente, dissolse la barriera, portò una mano davanti a sé ed immobilizzò al muro l’orrida creatura. Entrò nella cella. Gli sudavano le mani per la tensione, perchè non aveva mai usato una lama prima d’ora. Ripensò per un attimo a tutte le vittime di quella creatura e l’istinto ebbe la meglio, colpì il braccio con tutta la forza che aveva; un profondo squarcio si aprì lungo la parte superiore dell’arto, facendo intravedere l’osso, non lesionando nessun nervo. Una chiazza di sangue viola si spandeva sul granito della cella, mentre il mostro urlava dal dolore. Hatrim uscì dalla segreta, ripristinò la barriera e sciolse l’incantesimo di blocco. Lentamente si trascinò verso la sua camera, non si sentiva meglio della creatura che aveva appena colpito.
Il mago si svegliò di soprassalto, quanto tempo aveva dormito? Guardò verso la finestra, dalla luce che entrava, ipotizzò che doveva essere mattino inoltrato. Dopo gli avvenimenti dell’ultimo giorno, prendere sonno si era dimostrata un’impresa. Si vestì pigramente, non aveva molta voglia di fare alcunché quel giorno, ma sapeva che non era possibile. Si diresse controvoglia verso la cella, il gesto compiuto la sera prima lo perseguitava ancora; si impose di non pensare, aveva fatto quell’azione per il bene dell’umanità, cercò di convincersi di questo. Aprì il pesante portone di acciaio che portava alle prigioni e discese i gradini. La barriera era ancora al suo posto ed intatta; trovò l’Empas sempre nel solito angolo, intenta come al solito a grattare il pavimento. Tirò un sospiro di sollievo, mentre il senso di colpa divenne un po’ più leggero.
La creatura magica lo guardò di traverso con i suoi due enormi occhi grigi, evitando di avvicinarsi troppo alle sbarre, memore di ciò che era successo il giorno prima. Hatrim la guardò attentamente, la cicatrice sul braccio destro era ben visibile; la sua intuizione si era rivelata giusta, l’ossidiana poteva causare molti più danni di un’arma comune. Osservò l’Empas, qualcosa non gli tornava; acuì lo sguardo e finalmente riuscì a comprendere. Il braccio da lui colpito era paralizzato, il mostro non riusciva più a muoverlo. Un sorriso si fece largo sul viso. Era riuscito finalmente a trovare qualcosa che fermasse quelle dannate creature. Uscì da quell’angusto luogo di corsa, doveva riferire quello che aveva appreso al resto dei maghi. Finalmente potevano armare gli uomini; questo gli avrebbe consentito di guadagnare tempo, per poter terminare in tutta calma gli studi che stava portando avanti, per poter sconfiggere definitivamente il Leviatano. La fine di quella guerra era vicina, era uno dei più bei giorni della sua vita. 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo VI

 

Era in cammino da diversi giorni; in tutto quel tempo non aveva incontrato molte persone sul sentiero che stava percorrendo, soltanto qualche viandante o commerciante. Si era fermata in qualche piccolo e povero villaggio tra i boschi; lì aveva incontrato gente onesta e perbene, che l’aveva accolta volentieri nonostante la scarsità dei mezzi. Piccole oasi di felicità nel mezzo del nulla, poi nient’altro di eclatante. 

Suo padre aveva ragione: il mondo fuori dalla foresta, dove avevano sempre vissuto, era diverso; ma, non riusciva a trovarlo migliore o più interessante. L’unica cosa che l’aveva stupita in positivo, era l’enorme quantità di vegetazione e di fauna che aveva potuto osservare. Aveva letto di quelle cose soltanto sui libri dei suoi genitori, ma vederle dal vivo era tutt’altra storia: i profumi che emanavano, i colori che avevano, la morbidezza che si poteva percepire al tatto, nessun libro, per quanto accurato e dettagliato, poteva eguagliare o restituire. Era rimasta ore incantata ad osservare quelle meraviglie della natura e altrettanto tempo aveva speso a chiedersi sul perché gli uomini non si soffermassero a godere di quello spettacolo. Aveva provato a chiederlo, nella sua ingenuità, ma come risposta aveva ricevuto solo qualche grugnito, nel migliore dei casi. Infatti, alla compagnia di quei pochi sparuti umani che aveva incrociato sulla strada maestra, aveva preferito quelle degli abitanti del bosco. Cervi, pettirossi, donnole, volpi, ricci e marmotte le avevano tenuto compagnia durante il giorno, mentre gufi, civette, barbagianni e lupi, la notte. Nei momenti di sconforto, quando la mancanza dei suoi genitori si faceva sentire maggiormente, stringeva nel palmo della mano destra il pendente che le avevano regalato e subito si sentiva rincuorata.

Avanzando, osservò che il paesaggio intorno a sé cominciava a cambiare aspetto, gli alberi si facevano sempre più radi e la natura sempre più silenziosa. Nuovi suoni giungevano alle sue orecchie: meno armoniosi, meno carichi di gioia e di voglia di vivere. Ora, dei rumori metallici  erano preponderanti, seguiti dal legno che scricchiolava sotto il peso di chissà cosa e di liquidi che venivano versati in enormi contenitori di terracotta. Nonostante il suo udito l’avesse vagamente preparata, non riuscì a non rimanere sbigottita nel vedere di cosa effettivamente si trattasse. Rimase sbalordita nell’osservare un mulino ad acqua; ora le era chiaro perché il legno facesse quello strano rumore. Notò, con suo immenso stupore, che il corso del fiume era stato deviato per permettere al meccanismo di funzionare. Era affascinata ed atterrita allo stesso tempo. Apprezzava ciò che l’ingegno umano era riuscito a creare, come aveva plasmato e piegato una porzione della natura per i propri scopi; era sgomenta, perché diverse piante ed animali erano stati sacrificati per quel benessere. Fece vagare lo sguardo attorno per curiosare fra le varie attività che popolavano quel luogo. Vide fornai e panettieri all’opera, bottai che approntavano botti che, molto presto, avrebbero contenuto al loro interno del prezioso vino. Più in lontananza, vide un fabbro intento nel martellare dei ferri di cavallo su un’incudine, mentre il suo apprendista si dava da fare con il mantice per ravvivare il fuoco. Alla sua sinistra sorgeva una vetreria; osservò con interesse i vari operai darsi da fare intorno all’enorme fornace, che aveva ben quattro bocche. Esaminò con attenzione i giovani apprendisti maneggiare la fritta e metterla a riscaldare nel primo forno e, nel mentre, ascoltare il loro maestro che li istruiva sulle successive fasi lavorative. Cominciò a camminare per quello che doveva essere il quartiere produttivo della cittadina, che si apprestava a raggiungere. Prima che si potesse fermare a chiedere indicazioni, il suo olfatto fu attratto da un odore acre, pungente; seguì quella scia per poter capire di cosa si trattasse.

Quando, finalmente, riuscì a districarsi da quell’intrico di stradine, seguendo quell’odore che diventava sempre più persistente ad ogni passo che faceva, rimase sbalordita nel vedere l’edificio che aveva di fronte. Era quattro o cinque volte più grande dei fabbricati che aveva osservato fino a quel momento. La fucina del fabbro e quella del mastro vetraio potevano tranquillamente convivere nell’ampio piazzale, delimitato dalle basse mura di cinta. In quel cortile vi erano oltre cinquanta persone, tra uomini e donne, che lavoravano senza un attimo di sosta. Le enormi vasche, che potevano contenere fino a venti uomini in contemporanea, emanavo quell’olezzo che si spandeva per tutta l’area. Si guardò bene intorno, per verificare che non la stesse osservando nessuno e pronunciò una formula magica sottovoce. Finalmente riuscì a capire perché quel posto risultava tanto sgradevole all’olfatto: in quelle vasche era contenuta una soluzione di acqua, soda e, con suo gran sconcerto, urina umana e animale. Trattenne un conato di vomito; quella magia, purtroppo, le rendeva anche molto più sensibile il suo senso. L’annullò, passando la mano sul naso, con un movimento rapido. Si avvicinò con circospezione alle vasche per vedere cosa contenessero; rimase alquanto stupita nel constatare il contenuto: vestiti, di ogni taglia, forma e colore. Sentì dei passi alle sue spalle, si girò e quello che vide la lasciò a bocca aperta. Uomini e donne le cui articolazioni delle mani e dei piedi erano orribilmente deformate, gonfie e con la pelle di un colore che tendeva al rosso, come fosse ustionata. Il suo cervello fu rapido nel collegare a cosa erano dovute quelle menomazioni, quando li vide entrare nella vasca centrale, quella che conteneva la maggior quantità di abiti. Gli uomini pestavano con i piedi i vestiti, mentre le donne con le mani li passavano su di uno stricaturo in pietra. Si portò le mani al volto, come a voler mascherare l’espressione di orrore che, lentamente, si stava facendo largo.

Quella soluzione, per quanto ottima per pulire le vesti, stava causando dei danni orribili a quelle persone. Provò ad avvicinarsi ma altri uomini, che trasportavano su dei lunghi pali di legno le varie vesti bagnate, le impedirono il passaggio. Continuò a girovagare per l’ampio spiazzo; per quanto la visione precedente l’avesse abbastanza scossa, era affascinata de come gli uomini avessero dato vita a varie attività, senza l’uso della magia.

Degli enormi pentoloni in peltro destarono la sua attenzione. Erano posti sopra un fuoco la cui fiamma circondava tutta la parte inferiore. In ognuno di essi ribolliva un liquido di diverso colore, mentre degli uomini con dei lunghi pali in legno rimestavano il contenuto. Da una porta di quello che doveva essere il magazzino, vide uscire dei bambini che trasportavano delle pesanti cassette in legno. Inorridì. Cosa ci facevano in quel posto? Perché trasportavano quelle casse pesanti? Perché non erano a giocare da qualche parte o con qualcuno che gli insegnasse a leggere e scrivere? Li vide avvicinarsi accanto agli operai in attesa. Dagli enormi pentoloni estrassero della lana colorata per poi essere malamente caricata in quelle casse. Dalle diverse smorfie sui visi dei ragazzini, poté intuire che il carico, da traportare chissà dove, era notevole. Avanzavano lentamente, gravati da quel fardello, verso la parte retrostante dell’edificio da cui erano usciti. Iniziò a seguirli per vedere dove fossero diretti, quando sentì un tonfo seguito da delle urla provenire da dietro l’angolo della costruzione, a cui si stava avvicinando con circospezione. La scena che le si presentò davanti agli occhi la fece raggelare. Un bambino era caduto rovinosamente a terra, poiché era inciampato su una pietra sporgente dal terreno, cadendo sul compagno che gli era davanti. La cassa che trasportava era caduta rovinosamente sulla gamba di quest’ultimo, fratturandola. Un uomo uscì furente dal magazzino, avvicinandosi al capannello che si era formato.

«Chi è che urla in questo modo?»

«Padrone, Settimo è inciampato, nella caduta la cassa gli è sfuggita finendo sulla gamba di Quinto, che gli era poco avanti.» Disse il bambino che sembrava essere il capo di quella piccola combriccola.

L’uomo li raggiunse, preoccupato, per comprendere meglio la situazione. Quando vide il prezioso contenuto delle due casse versato a terra, il colore del volto virò da pallido a rosso nel giro di pochi secondi; del bambino che urlava dal dolore e dell’altro che cercava di prestargli soccorso non gli interessava molto.

«Tu» sibilò verso Settimo «a causa della tua goffaggine, delle preziose vesti rosso porpora sono invendibili. Riesci a comprendere il danno che mi hai causato?» Gli tirò un manrovescio sul viso. Il labbro del bambino cominciò a sanguinare copiosamente. Successivamente, prese il bastone di legno che portava attaccato alla cintura e cominciò a picchiarlo.

Eir sentì montare la rabbia dentro di sé, corse verso quell’uomo, nonostante fosse il doppio della sua taglia e la superava in altezza di diversi centimetri. Bloccò il suo braccio che era pronto a colpire nuovamente l’inerme ragazzino.

«E tu cosa vuoi, biondina?»

«Fermarti!»

«E con quale autorità? Questi sono i miei schiavi e li tratto come voglio.»

«Sono solo dei bambini.»

«Sono schiavi e sono miei. E ora vattene, mi stai facendo perdere tempo. E poi chi ti ha fatto entrare? Guardie!» Urlò, ma nessuno arrivò, poiché il trambusto che vi era lì intorno sovrastava ogni voce.

Eir non si fece intimorire; lasciò andare il braccio e si allontanò di qualche passo, guardandosi attentamente intorno. Oltre all’uomo e al gruppetto di bambini non c’era nessun’altro. Poi cominciò a mormorare una formula magica sottovoce. Lentamente i suoi occhi virarono dal verde verso l’azzurro ghiaccio. Sferrò un pugno all’altezza della bocca dello stomaco dello schiavista, che svenne sul colpo. Quell’incantesimo aveva aumentato a dismisura la sua forza ma, in compenso, le prosciugava velocemente tutte le energie. Prima che fosse troppo tardi, si avvicinò al muro di cinta e con un colpo ben assestato ne fece crollare una piccola porzione, abbastanza larga da farci passare i bambini.

Annullò la magia, l’iride ritornò verde. Inspirò ed espirò lentamente; era abbastanza provata, ma aveva ancora energie sufficienti per qualche altro trucchetto. Raggiunse il bambino che era ancora disteso a terra, si accovacciò accanto a lui ed iniziò ad esaminare la gamba con attenzione. Era rotta, ma fortunatamente la frattura non era scomposta, chiuse gli occhi e si concentrò. Posò le mani sull’arto e mormorò qualcosa. Dai palmi scaturì una luce bianca che durò qualche secondo.

«Alzati.» Pronunciò con un fil di voce, visibilmente provata dallo sforzo.

«È guarita. Grazie! Sei una fata?» Chiese stupefatto il bambino.

Eir sorrise a quella domanda, mai nessuno le aveva dato della fata prima d’ora; la cosa la divertiva.

«Beh, se pensi che lo sia, allora lo sono!» E gli diede un bacio sulla guancia. «Ora va! Anche voi» disse agli altri bambini che le erano intorno «andate, fuggite via.»

«Non possiamo» ribadì Settimo «non sappiamo dove andare e poi…lui ha i nostri contratti.»

«Che contratti?»

«Quelli della nostra vendita.»

«Capisco…Ci penso io. Però, voi andate, su!»

«E dove?» Insisté Settimo.

«Seguite la strada che porta al bosco, quando vedrete gli alberi farsi più fitti noterete un bivio; prendete la strada che va a destra, vi condurrà all’interno della foresta. Inoltratevi, troverete un piccolo villaggio al suo interno, non è molto grande, ma è gente onesta e vi accoglierebbe volentieri.» Vide gli occhi dei bambini illuminarsi per la gioia. «Ora andate.»

«Grazie fatina bionda» Risposero in coro.

Rise. Quel nomignolo che le avevano affibbiato la faceva sentire piena di gioia.

«Mi chiamo Eir, ma fatina bionda va bene lo stesso.» Li vide andare via, quando l’ultimo di loro uscì, posò la mano vicino al muro e lo fece tornare integro.

Si avvicinò all’uomo che era ancora svenuto a terra. Mise la mano sulla sua fronte e cominciò a sondargli la mente; in pochi secondi riuscì a scoprire dove fossero i contratti. Prima di avviarsi verso la sua meta prese il corpo dell’uomo e lo trascinò sotto una capannina di legno lì vicino, prese gli abiti sparsi a terra e lo ricoprì; poi, con uno schiocco delle dita, trasformò quel mucchio di vestiti in balle di fieno. Non sarebbe durata molto quella magia, ma sarebbe stata sufficiente per ciò che aveva in mente.

Sbocconcellò un po’ di pane prima di attuare l’ultima fase del suo piano, aveva bisogno di recuperare le energie. Si pulì la bocca dalle briciole, poi giunse le mani davanti al suo volto. Una luce verde cominciò ad avvolgerla ed in pochi secondi si ritrovò trasformata nel padrone di quel luogo. Entrò nella casa che sorgeva adiacente al magazzino. Al contrario della parte esterna, lì dentro regnava la quiete ed il silenzio. Si avvicinò alle scale in legno e salì. Ad ogni suo passo gli assi emettevano degli scricchiolii; non era abituata a quei rumori, nonostante la sua casa nel bosco fosse in legno, non emetteva nessun rumore simile. Si addentrò nella stanza dov’era contenuta la cassaforte; lesta, chiuse la porta alle sue spalle. Sigillò anche le imposte delle finestre e poi, con uno schiocco delle dita, accese le candele di sego lì presenti. Aprì l’armadio che conteneva lo scrigno e con una magia divelse il lucchetto. Cominciò a scorrere i vari contratti; dopo una breve ricerca, finalmente riuscì a trovare quelli che le interessavano. Sorrise ironica; l’idea di chiamare i bambini in base al progressivo del loro numero di registrazione contrattuale, solo un uomo senza scrupoli poteva partorire un’idea simile. Mise i sette fogli di papiro in una ciotola di ferro presente sulla scrivania, avvicinò una candela e gli diede fuoco. Raggiunse nuovamente l’armadio per richiudere il forziere, quando i suoi occhi notarono uno strano sacchetto sul fondo. Incuriosita, lo prese e lo aprì: era pieno di monete d’oro. Lesta, lo attaccò alla cintura che portava alla vita. Rimise la stanza in ordine, riaprì la finestra ed uscì.

Una volta all’aperto riprese le sue sembianze, sistemò il denaro nel suo zaino, annullò l’incantesimo che nascondeva l’uomo e guadagnò l’uscita da quel posto infernale. Era ormai a diversi metri dalla fullonica, quando sentì delle urla di una voce a lei nota, provenire dal posto che si era lasciata alle spalle.  Alzò il passo, mentre un sorriso beffardo lentamente si faceva largo sul suo volto.

Forse suo padre aveva ragione, dopotutto il mondo dei senza magia poteva rivelarsi molto interessante.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo VII

 

 

Il continuo rollio, alternato al beccheggio della nave, gli avevano scombussolato lo stomaco. I primi giorni di navigazione erano stati tranquilli e ricchi di emozioni; però, dopo quella burrasca che li aveva colti in mare aperto, il suo stomaco aveva accusato il duro colpo. Probabilmente era ancora da qualche parte sul ponte del bastimento, dopo quella terribile nottataccia passata in balia degli agenti atmosferici. Affermare che fosse stato un evento del tutto inaspettato, sarebbe stata un’offesa gratuita verso il nostromo che guidava, con sapienza e diligenza, la nave. Era stato capace di prevedere quella terribile tempesta con un grande anticipo, dalla mattina precedente. Quando il giorno prima lo aveva visto valutare accigliato le condizioni del cielo, aveva pensato che fosse soltanto un tipo ansioso o che il suo stato d’animo probabilmente fosse causato dall’avanzare dell’età; dopotutto, era risaputo che il periodo estivo fosse il migliore per la navigazione. Però, il canuto capitano non sembrava dello stesso avviso; più le alte nubi avanzavano verso di loro, più la sua espressione si allarmava. Che pericolo potevano presentare delle nuvole così alte nel cielo?

Lo aveva sentito sbraitare ordini ai marinai come un forsennato; fra un urlo e l’altro, aveva udito una parola a lui del tutto sconosciuta “cumulonembo”. Gli si era avvicinato per chiedergli di cosa si trattasse, magari era il nome di qualche strano mostro marino; per tutta risposta aveva ricevuto un sorriso tra il sornione ed il divertito. Archiviò quella frase di navigazione come “colpo di sole”, non poteva essere altro, per farlo sragionare in quel modo. Peccato che Davven e l’equipaggio lí presente non la pensassero come lui; lavorarono solertemente, come se un cataclisma terribile da lì a poco si sarebbe abbattuto su di loro. Sciocchi pensò, peccato che l’unico deficiente in quel gruppo si sarebbe dimostrato proprio lui. Nel giro di qualche ora l’aria divenne più fredda, la calda temperatura della mattina sembrava un lontano ricordo; inoltre, uno stormo di uccelli che volava in modo disordinato e il cui stridere provocava non poco fastidio alle orecchie, rese ancora più cupa l’espressione del capitano. Vide i marinai stringere maggiormente i legacci delle vele e rinforzare con più cura i punti deboli della nave, nel mentre Davven si avvicinó a lui con una robusta corda. Gliela passó sotto le ascelle e poi fece alcuni giri intorno alla vita, non aveva mai visto un’imbracatura di quel genere. Provò a chiedergli spiegazioni a riguardo, ma l’unica risposta che ottenne fu un grugnito ed un invito a mantenersi forte. Gli stava per chiedere il senso di quella frase, ma il fulmine che squarciò il cielo, seguito dal potente rombo, fu abbastanza eloquente. La nave in poco tempo si ritrovò in balia degli eventi; soltanto l’esperta mano del capitano, aiutato dai suoi rodati marinai, evitò l’inabissamento. Avevano ballato per tutta la notte, correndo da un capo all’altro dell’imbarcazione e cercando di far fronte a tutti i pericoli a cui il mare e la tempesta li stavano sottoponendo. Diverse volte aveva rischiato di cadere dalla paratia, come preda di quelle onde irose; solo la strana imbracatura, i tempestivi interventi dell’equipaggio e di Davven, lo avevano salvato da un epilogo terribile. A parte quegli spiacevoli episodi di quasi morte, aveva aiutato l’equipaggio a sversare diverse anfore d’olio in mare. In un primo momento gli era sembrata una cosa assurda; però, aveva potuto constatare con i suoi occhi che quell’azione permetteva alla nave di affrontare meglio le onde. Infatti, l’olio creava una specie di patina elastica sulla superficie del mare, che ostacolava il vento nel far presa sull’acqua e quindi d’innalzarla. Questo utile espediente, impediva il formarsi del frangente pericoloso, o almeno così gli era sembrato che il capitano lo avesse chiamato, fra un urlo e l’altro. Quel trucco così semplice, ma allo stesso tempo così ingegnoso, permetteva al bastimento di cavalcare facilmente le onde, senza il rischio di inabissarsi. Sorrise, aveva sbagliato nel giudicare il capitano, era un tipo in gamba; decise di trascorrere più tempo possibile vicino a lui, in modo da poter imparare qualche stratagemma. 

Soltanto con le prime luci del mattino, quel terribile temporale aveva deciso di lasciarli in pace, peccato che lo stomaco non fosse più nella sua sede naturale, da diverse ore ormai.

Vide l’anziano capitano avvicinarsi a lui, con passo fermo e deciso.

«Allora giovanotto, sei ancora convinto che io sia un vecchio rincoglionito?»

«No, penso che lei sia un vecchio stronzo!» Il capitano rise allegramente a quella battuta, come se fosse la frase più divertente del mondo.

«Perché non mi ha detto nulla?»

«Beh Ioan, anche tu dovevi sottoporti al “battesimo del mare”.»

«E questo battesimo non prevede nessun percorso iniziatico?»

«Assolutamente no!»

«Stronzo! Come me la sono cavata?»

«Per essere un pivellino, direi che è andata bene. Sei ancora vivo e, nonostante tu non sia capace di fare un nodo decente, ti sei dato da fare per aiutare l’equipaggio. Hai le palle, ragazzo.»

«Grazie. Sa dirmi dov’è finito il mio stomaco?»

«Dov’è sempre stato, ragazzo. Bevi un goccio di questo e poi vai sottocoperta, ne hai bisogno.»

Ioan prese la borraccia che gli aveva dato il vecchio lupo di mare. Beve tutto d’un fiato il contenuto. La gola e lo stomaco gli sembrarono andare a fuoco. Sentì la testa improvvisamente farsi leggera, contemporaneamente il corpo farsi pesante.

«Accidenti ragazzino, avevo detto un goccio, non di scolare il contenuto.

Poi il capitano urló: «Sagola! Vieni qui, dammi una mano. Dobbiamo portare il pivellino di sotto, ha bevuto tutto d’un fiato il distillato di uva contenuto nella fiaschetta.»

Sentì il marinaio ridere sguaiatamente, poi il buio.

 

Il mal di testa era martellante, provò ad alzarsi, ma una forza misteriosa lo respinse verso il pagliericcio.

«Non provare ad alzarti, idiota.»

«Davven?!» Biascicò.

«Chi altri?»

«Cosa mi è successo?»

«Succede che non reggi l’alcol, pivello.»

«Ma cosa dici? Nell’arena ci davano sempre del vino.»

«Ah, ora si chiama vino quella bevanda annacquata che spacciavano come tale?»

«Ma cosa stai dicendo?»

«La verità, saprai anche combattere discretamente, ma per il resto delle cose sei un pivellino. Il capitano ha ragione ad apostrofarti in quel modo.»

«Credo di essermelo meritato, l’ho sottovalutato. É una persona abile che conosce profondamente il suo mestiere, penso che gli debba delle scuse.»

«Almeno non sei uno stupido. Riconoscere i propri errori è un segno di umiltà e di grande intelligenza. Però, prima di andare, bevi questa.» Gli porse un bicchiere.

«Cos’è?» Chiese sospettoso.

«Una tisana di mia creazione, ti aiuterà a riprenderti più velocemente. Quando ti sentirai meglio raggiungimi sul ponte, dobbiamo fare una bella chiacchierata.»

Bevve lentamente quella strana bevanda; il sapore a primo impatto non era dei migliori però, più la sorseggiava, più poteva coglierne le varie sfumature: zenzero, garofano ed una lieve nota di miele. Rimase steso per un altro po’, il tempo necessario per recuperare le forze. Si mise a sedere lentamente, la testa non gli vorticava più violentemente. Solo un leggero senso di vertigine che poteva tranquillamente gestire, d’altronde era abituato a molto peggio. Fece attenzione a non inciampare tra le cuciture che univano il pagliolo al paramezzale, faticava ancora a credere che una nave “cucita” riuscisse a navigare tranquillamente in mare aperto. Eppure, filava che era una meraviglia e dimostrava una solidità straordinaria; inoltre, era facile da riparare o da manutenere, anche un inesperto come lui poteva facilmente apprendere come preservarla al meglio. Salì i gradini della scaletta in legno che l’avrebbe condotto sul ponte, la luce solare lo colpì in pieno, rendendolo cieco per qualche istante. Si portò la mano a coprire gli occhi, in modo da permettere alle pupille di adattarsi al nuovo ambiente. Vide il capitano sul castello della nave intento a guardare qualcosa in una bacinella, si avvicinò incuriosito da quello strano atteggiamento. Vide che, nella piccola tinozza in legno, vi era un disco in metallo, per il cui centro passavano tante linee, in modo da dividere la superficie in diversi settori. Ogni porzione presentava un nome. Sopra vi erano uno gnomone ed una lancetta.

«Cos’è?» Chiese incuriosito.

«Una bussola solare.»

«A cosa serve?»

«Ad orientarmi in mare aperto, per determinare la posizione della nave rispetto alla terra.»

«Ed è affidabile?»

«Ci ha sempre condotto a destinazione e lo farà anche questa volta. Entro mattinata o al massimo per il primo pomeriggio raggiungeremo la nostra meta.»

«Riesce a dire anche questo?!»

«No, me lo dicono loro.» Indicò degli uccelli che volteggiavano sulle loro teste. «Sono volatili di terra, fra un po’ cominceremo a vedere all’orizzonte il profilo del nostro obiettivo.»

«Incredibile, sa un sacco di cose. A proposito, mi scusi per lo scetticismo che ho mostrato ad inizio navigazione. É un grande capitano, mi piacerebbe molto imparare qualcosa da lei.»

«Non ti preoccupare pivellino, è una cosa che capita a tutti quando salgono per la prima volta su questa nave. Per l’insegnamento, beh, penso che ci sarà tempo e modo, Davven è un tipo che tende a formare una persona a tutto tondo.»

«Cosa vuole dire?»

«Questo devi chiederlo a lui. Ora va, la sua pazienza ha un limite molto ridotto.»

Ioan si affrettò a raggiungere Davven a prua. Lo vide scrutare intensamente l’orizzonte.

«Scusa per l’attesa.»

«Fai bene a soddisfare le tue curiosità, è un sinonimo d’intelligenza.»

«Di cosa volevi parlarmi?»

«Del tuo incontro nell’arena.»

«Sono sei giorni che navighiamo, perché ora?»

«Perché avevo bisogno di tempo per riflettere.»

«Riflettere su cosa?»

«Su quello che ti voglio dire.»

«Non riesco a capire.»

«Non capisci…Dimmi, come ti sei ritrovato quella lancia in mano, quella con cui hai trapassato il bandito quando eri a terra?»

«Era sotto lo strato di terra battuta e sabbia, era ben nascosta ma sono riuscito a percepire il manico in legno.»

«Cazzate!»

«Cosa ne sai tu dell’arena? È normale trovare delle armi sul terreno, specialmente se prima ci sono stati degli incontri!»

«Quello che dici è corretto, ma c’è una piccola cosa che ti sfugge: prima del tuo ingresso, il campo di battaglia è stato completamente ripulito. Sai perché? Per rendere l’incontro che ti vedeva impegnato più spettacolare, o almeno era quello che si augurava il governatore della città; peccato che gli hai rovinato i piani.»

«Non l’avranno notata…»

«Certo, immagino sia usuale non vedere una lancia di quasi due metri nel terreno. Perché non mi dici la verità, Ioan?»

«Cosa dovrei dirti? Me la sono ritrovata tra le mani. Un colpo di fortuna che mi ha permesso di sopravvivere, altrimenti ci sarei rimasto secco.»

«Un colpo di fortuna?»

«Si!»

Davven lo guardò con aria meditabonda, come se quelle parole non l’avessero convinto a fondo. Camminò su e giù per la nave per un po’, cercando di riflettere su ciò che aveva visto quel giorno e su quanto il ragazzo gli aveva detto. Poi, improvvisamente, si fermò dinanzi a lui, scrutandolo in modo serio.

«Ioan!»

«Che c’è Davven?»

«Ho bisogno che tu ricordi.»

«Cosa?»

«Cosa hai pensato quando eri a terra? Quando eri quasi sicuro di morire?»

«Che non volevo morire, che mi sarebbe bastata un’arma per infilzare quel bandito.»

«Quindi hai desiderato di non morire?»

«Con tutte le mie forze!»

«Capisco…Ioan, quella lancia non era a terra.»

«Hai bevuto anche tu quell’intruglio, per caso?» Il ragazzo lo guardò stupito. Non era sicuro che la persona che lo aveva salvato qualche giorno addietro stesse bene di testa.

«Non sono ubriaco, anzi, sono più lucido che mai! Ioan, tu quella lancia l’hai evocata!»

Il ragazzo scoppiò a ridere, ma prima che potesse dire qualcosa l’uomo gli prese il viso tra le mani e lo costrinse a guardarlo negli occhi.

«Pensaci bene ragazzo e rispondi con sincerità. Prima di afferrarla, avevi notato la sua presenza?»

«No…» Disse, dopo un lungo silenzio.

«E ti sembra strano che tu abbia evocato qualcosa?»

«Decisamente, visto che non so usare la magia, ammesso che questa esista.»

«E se ti dicessi che non è così?»

«Cosa vuoi dire?» Il guerriero lo fissò a lungo, una strana sensazione si fece largo in lui: gli stava celando qualcosa. «Mi stai nascondendo qualcosa!?»

«Non proprio. Voglio essere sicuro di ciò che sospetto. Fino ad allora non mi pronuncerò. Fidati di me ragazzo, ok?»

Ioan lo fissò a lungo, soppesò tutte le azioni di quei giorni, decise di fidarsi.

«Va bene. Però, appena sarai sicuro di ciò che pensi mi informerai, chiaro?»

«Perfetto.»

L’urlo del capitano li fece ritornare al presente.

«Terra in vista! A breve sbarcheremo sull’isola di Broken Henge.»

Ioan si precipitò a vedere il profilo che si stagliava all’orizzonte. Sorrise felice, non vedeva l’ora di visitare quel nuovo luogo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo VIII

 

Le enormi mura di cinta torreggiavano su di lei. Si sentiva un essere insignificante, infimo, rispetto a quella grandiosa opera dell’ingegno umano. Le pietre, finemente lavorate, formavano una tessitura muraria solida, ma allo stesso tempo elegante. Toccò incantata quelle pietre: erano lisce al tatto, non si poteva notare nessuna sbavatura o imperfezione, i mastri scalpellini avevano fatto un lavoro degno di essere ricordato nei secoli. Erano talmente ben levigate che la luce solare, rimbalzando su quella superficie perfetta e bianca, accecava chi osasse guardarle direttamente senza nessuna schermatura. Si affrettò a raggiungere la porta che consentiva l’ingresso alla città di Giz. Se sotto le mura si era sentita piccola, dinanzi al portale quella sensazione si amplificò. I tre fornici erano sormontati da quattro ordini di finestre ogivali, intervallate da paraste che terminavano con un capitello a volute. Dai lati di questo enorme corpo sporgevano due torri di cinque piani che, nella parte esterna, assumevano una forma semicircolare. Come per il blocco centrale, anche in questo caso le finestre ad ogiva erano intervallate da paraste, meno aggettanti.

Passando al di sotto del portale centrale, Eir notò che la volta era finemente lavorata a cassettoni; negli ottagoni, che andavano a formare quella intricata trama, era posto lo stemma della città: una stella a sette punte. Sui lati del portale vi erano dei bassorilievi, raffiguranti scene di guerra. Con suo enorme stupore, poté notare che quelle raffigurazioni erano estremamente dettagliate. Sui volti degli uomini si potevano chiaramente distinguere la fatica, la sofferenza, il dolore, la rabbia, la furia, la concitazione, lo smarrimento, la follia: il caleidoscopio delle emozioni tipiche della guerra. Anche i corpi erano estremamente ricchi di particolari, dalle armature finemente cesellate, ai muscoli che esprimevano chiaramente lo sforzo bellico sostenuto. Chiunque avesse fatto quel lavoro certosino era degno di lode, pensò la ragazza. In quel mese in cui aveva peregrinato per il Regno di Isel, non aveva mai visto nulla del genere; certo, era rimasta affascinata dal suburbio e dalla città di Niv, ma non erano minimamente paragonabili a quello che stava osservando ora. Quando uscì dal fornice, una cacofonia di suoni ed una fiumana di gente la investì. Dovette ricorrere a tutte le sue abilità per non essere spintonata e trascinata chissà dove da quella calca, che camminava indaffarata per la strada. Chi trasportava ceste di pane, chi anfore di vino e olio, chi assi di legno. Tutti sembravano conoscere perfettamente la meta a cui giungere, tranne lei, che si sentiva completamente avulsa da quella situazione. Era la prima volta che le capitava di trovarsi in una moltitudine del genere e la cosa nel le piaceva affatto. Si guardò intorno per capire dove andare; si girò a guardare il portale che aveva appena attraversato: l’epigrafe marmorea, che era affissa sopra i tre fornici, la colpì. Era riportato il nome: “Porta del soldato”. Decise di proseguire lungo la via d’ingresso; aguzzando la vista aveva notato degli alti palazzi in fondo a quella strada, probabilmente l’edifico che cercava era da quelle parti. Il basolato della strada, nonostante non fosse pieno mattino, era già rovente. Cominciò a togliersi alcuni indumenti più pesanti, voleva evitare di iniziare a sudare già dalle prime ore della giornata. Mentre proseguiva notò che per strada vi era gente di ogni etnia e vestita nel modo più disparato possibile; sorrise, passare inosservata non sarebbe stato affatto difficile.

Se la porta della città l’aveva impressionata, il centro cittadino l’aveva lasciata completamente senza parole. Una scala monumentale, ornata ai suoi lati da magnifiche sculture raffiguranti uomini e donne in giovane età, portava al cuore pulsante di Giz. Dopo averla salita, trattenne il fiato dallo stupore. Una stella a sette punte, di dimensioni colossali, era posta al centro dell’enorme piazza; quest’ultima era racchiusa da edifici monumentali di una bellezza impressionante. Alla sua destra, poté notare un tempio a pianta circolare, la cui cupola semisferica era sorretta da un doppio giro di colonne rastremate, che terminavano con un capitello decorato con figure antropomorfe e zoomorfe.

Anche se il suo obiettivo non era quello, incuriosita, volle visitare quell’edificio. La volta del periptero era decorata con un ciclo musivo, raffigurante le gesta eroiche del dio a cui era dedicato quell’edificio sacro. Nelle varie scene, oltre alle sue imprese, ricorrevano puntualmente i dodici segni zodiacali, un toro, il sole e la luna.

Rimase sconcertata nel constatare che quelle piccole tessere di mosaico fossero in oro, argento e pietre preziose come smeraldi, rubini, ametiste ed altre gemme dello stesso valore. Deglutì a vuoto, quel soffitto aveva un valore incalcolabile. Varcò la soglia di ingresso; notò che i battenti erano bronzei, come del resto tutto il portone ed avevano le fattezze della testa di un uomo. Al centro della sala circolare, illuminata dalla luce solare che filtrava dall’oculo centrale della cupola, si trovava la statua del dio crisoelefantina. La divinità indossava un’armatura leggera in cuoio ed era intenta a colpire un toro; sul soffitto era erano affrescate le personificazioni dei segni zodiacali, del sole e della luna. Si chiese chi avesse concepito una scena del genere.

«Impressionante, vero?»

Si girò di scatto per vedere chi fosse ad aver pronunciato quelle parole. Rimase sorpresa nello scorgere un uomo di mezz’età, vestito con una semplice tunica rossa.

«Scusami se ti ho fatto spaventare, non era mia intenzione. Sono Adda, il sacerdote di questo tempio.»

«Eir.» Rispose guardinga la ragazza.

«Perdonami, solitamente non vado in giro a spaventare la gente, ma la tua espressione di stupore mi ha particolarmente colpito. Prima volta qui, vero?»

«Sì.»

«Da dove provieni?»

«Da Abis.» Mentì.

«Ah, provieni dall’altro continente, interessante. È stato faticoso il viaggio?»

«Abbastanza.»

«E cosa ti porta qui?»

«Sono partita per conoscere il mondo, per imparare nuove nozioni e anche per visitare la terra in cui sono nati i miei avi.»

«Ottimo! Sei nel posto giusto allora. Ti piace quello che stai vedendo?»

«Qui è tutto magnifico, i portali d’ingresso in città, i palazzi, questo tempio, questa scultura.»

«Dopotutto siamo nella capitale, no?»

«Giusto…Chi è il dio raffigurato?»

«La statua è bellissima vero? È il dio Thamir, protettore del nostro esercito e della città. Dio supremo di tutti gli dèi del nostro pantheon. Creatore di tutto l’universo e di tutte le cose viventi, garante dell’equilibrio. I tuoi nonni non te ne hanno mai parlato?»

«Si…ma vederlo raffigurato dal vivo è tutt’altra cosa, si percepisce meglio quello che hai detto.» Cercò di giustificarsi.

Rimase in silenzio a guardare quell’opera d’arte. Ogni parte del corpo era perfetta, i dettagli anatomici erano impressionanti. I capelli ricci che spuntavano da sotto il copricapo frigio, su cui era incisa la stella a sette punte. I muscoli tesi per lo sforzo erano resi in un modo talmente realistico, da far sembrare il dio in movimento. Sulle mani si potevano notare le vene gonfie per la fatica. Ciò che maggiormente la sconvolse furono gli occhi, non erano dello stesso materiale del corpo, ma di un azzurro opalescente. Per un attimo poté osservare un guizzo; si stropicciò gli occhi, sicuramente era un effetto dovuto alla stanchezza del viaggio. Infatti, guardando meglio, si accorse che dipendeva dai raggi solari che colpivano quelle gemme così particolari.

«Hai ragione è magnifica.  Però, ho una domanda.»

«Chiedi pure.»

«La statua si bagna quando piove, no?»

Vide Adda ridere a crepapelle; quando si fu calmato chiamò un suo sottoposto e lo osservò mentre confabulava con il giovane ragazzo.

«Cosa ho detto di tanto divertente?» Chiese irritata.

«Nulla. Ridevo per la tua sana curiosità che, bada bene, ritengo sia molto positiva. Sono felice che tu mi abbia chiesto una cosa del genere. Di solito, chi viene qui si limita a guardare e non ad osservare. Ora cerca di prestare molta attenzione, ok?»

Lo vide fare un gesto, poi una cascata d’acqua cadde dall’oculo, che stranamente non colpì la statua; ci fu una seconda ondata ed una terza, ma l’acqua non riusciva ad intaccare il monumento, finendo direttamente nei canali di scolo posti ai piedi del basamento.

«Soddisfatta la tua curiosità?»

«Com’è possibile?»

«Mi puoi ripetere come ti chiami?»

«Eir, mi chiamo Eir.»

«Speranza. Bel nome, mi piace. Vedi Eir, molti uomini hanno provato a spiegare questo fenomeno e sai una cosa? Nessuno ci è riuscito. Credo che in natura ci siano fenomeni spiegabili ed altri no. Per questi ultimi ritengo serva la fede in qualcosa che è oltre la nostra comprensione. Ecco, si può chiamare Thamir o in un altro modo, però c’è, esiste. Per quanto riguarda il fenomeno che hai appena visto, sono sicuro che sia la presenza del dio che non permetta al simulacro di bagnarsi. Magari un giorno arriverà qualcuno che troverà la soluzione a questo enigma, ma voglio credere sia lo spirito della nostra divinità a proteggerci e vegliarci.»

Eir si limitò ad annuire in silenzio. Il suo modo d’essere, di pensare, era improntato a confrontarsi con tutto ciò che fosse misurabile e verificabile. Sicuramente su quella statua vi era una magia potente e, se avesse avuto il tempo necessario per studiarla a fondo, avrebbe trovato il modo per sciogliere l’incantesimo, ma non le sembrava il caso. Capiva perfettamente il punto di vista di Adda e, nonostante il diverso modo di intendere il mondo, gli piaceva il suo modo di pensare.

«Grazie di tutto Adda, è stato piacevole passare del tempo con te, ma ora devo andare, altrimenti rischio di non riuscire ad accedere alla biblioteca. A proposito, sai dirmi dov’è di preciso? Sapevo fosse qui, nel centro di Giz.»

«È proprio difronte a questo tempio. Ti basta attraversare la piazza, non puoi sbagliare.»

«Grazie di tutto.» Si avviò verso la sua meta.

 

Anche la biblioteca non sfigurava in quanto a monumentalità e bellezza. Sicuramente era un’opera architettonica insolita per un edificio di quel tipo, ma doveva ammettere che la sua particolarità era ciò che la rendeva unica. La facciata presentava tre colonnati sovrapposti di vario ordine, aggettanti rispetto alla parete di fondo. Questo gioco di colonne creava un particolare effetto prospettico, dando un senso di movimento. Più che una biblioteca, quella parte esterna, le ricordava l’ingresso di un teatro. Salì velocemente i gradini ed entrò nella struttura; rimase esterrefatta. L’enorme sala a pianta rettangolare era inondata dalla luce solare, che entrava dalle finestre poste ad est. Questo permetteva di sfruttare al massimo le ore diurne del giorno; inoltre, riduceva al minimo l’uso dei candelabri bronzei appesi al soffitto. Fece vagare lo sguardo per la sala, ovunque posasse gli occhi vedeva scaffali ricolmi di rotoli; alla sua destra notò delle scale, che sicuramente l’avrebbero condotta ai piani superiori. Si avvicinò cautamente al bancone, dove vide un bibliotecario intento a compilare dei voluminosi registri. Gettò un’occhiata sull’enorme epigrafe monumentale, che era posta sopra la sua testa; l’iscrizione al suo interno la fece sorridere: “Osa esser saggio!” Non poteva esserci motto migliore per quel posto.

«Buongiorno!» Vide l’uomo alzare la testa incuriosito verso di lei.

«Buongiorno. Prima volta qui?»

«Si! Come lo ha capito?» Lo vide sorridere.

«Dai tuoi occhi.» Lo guardò dubbiosa e sorpresa allo stesso tempo. Possibile che i suoi pensieri fossero così cristallini? «Non ci pensare molto, ragazza. È il tipico luccichio che avete tutti, quando venite qui per la prima volta. Dovevi vedere la mia espressione quando sono entrato qui a lavorare, terrore puro!»

Cominciò a ridere, quel simpatico vecchietto era riuscito a farla sentire a suo agio.

«Cosa cerchi all’interno della biblioteca reale di Giz?»

«Gli annali dei Regni di Irysia e Anysia.»

«Interessante, non sono in molti a chiedere questo tipo di informazioni. Ti posso chiedere come mai?»

«I miei avi sono emigrati da questo continente, trasferendosi ad Abis. Nelle storie di famiglia, mi hanno sempre parlato del Regno di Anysia che confinava con Irysia. Perciò, prima di visitare quei posti, mi piacerebbe saperne qualcosa, ed eccomi qui.» Mentì.

«Che ragazza piena di curiosità, mi piace. Seguimi, ti accompagno nella sezione giusta.»

Giunti dinnanzi agli scaffali di suo interesse, il bibliotecario cominciò ad estrarre i volumen e a disporli sul tavolo lì presente.

«Ecco» disse «questi sono tutti i codici di cui hai bisogno. Quando avrai finito non metterli al posto, chiamami e provvederò io.»

Eir lo ringrazio. Prima di mettersi a consultarli si guardò bene intorno. Si accertò che in quell’ala non ci fosse nessuno. Fece capolino con la testa nel corridoio, per verificare che l’anziano signore fosse effettivamente tornato alla sua postazione. Quando ne fu sicura, cominciò a scorrere tutti i codici contenuti in quella sezione; quello che realmente cercava era sicuramente collocato da quelle parti. Ci mise diverso tempo, ma finalmente trovò ciò che voleva. I codici contenenti la storia dell’enclave di Silren erano posti in fondo, nella parte più alta dello scaffale. Con una magia richiamò a sé quei papiri, li aprì e iniziò a leggerli, erano quelli giusti. Dal suo zaino prese un libro bianco, molto più comodo di quei rotoli. Gettò lo sguardo a destra e a manca, per verificare che non ci fosse ancora nessuno; poi lanciò un incantesimo su tutti quei papiri li presenti e trasferì il loro contenuto sul suo libro. Si sedette un attimo sulla sedia, quella magia gli era costata parecchie energie mentali. Prese del cibo dalla sua borsa e cominciò a sbocconcellare un pezzo di pane. Con un ultimo sforzo rimise a posto tutti i volumen che aveva consultato indebitamente, poi si avviò verso l’uscita.

Una volta fuori, si orientò alla ricerca di una locanda; voleva un posto tranquillo in cui riposare e pensare.

 

Adda stava asciugando il pavimento dall’acqua. Era una fortuna che non tutti i visitatori fossero curiosi come quella ragazzina. I suoi adepti non erano stati d’accordo con quell’esibizione, li aveva convinti dicendo che ci avrebbe pensato lui a pulire tutto. Stava per prendere il secchio, quando una voce bloccò il suo movimento.

«Allora, capo dei sacerdoti di Thamir, hai finito di fare il cascamorto con le ragazzine?»


 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo IX

 

 

Tutto l’equipaggio della Scorpio, compresi Ioan e Davven, era stranito da quella quiete. Solitamente, il porto di Broken Henge era un transitare continuo di barche da pesca e di navi mercantili, sporadicamente un bastimento da guerra faceva capolino da quelle parti. Quella piccola isola di forma circolare, che presentava una lunga fenditura a Nord, situata a due giorni di navigazione dalle coste a Sud del continente di Thauras, era uno strategico punto per approvvigionarsi di ulteriori scorte, prima di intraprendere la navigazione per il mare aperto; inoltre, godeva di uno status giuridico molto particolare, poiché era considerata un porto franco. La doppiarono diverse volte per cercare di capire cosa fosse accaduto e se vi fosse sicuro approdare, ma non si riusciva a scorgere nessun movimento dal ponte della nave.

Ioan vide Davven confabulare, per diverso tempo, con il capitano della nave; il forte vento gli impediva di udire cosa i due si stessero dicendo. Vide Azmir fare un cenno particolare al suo equipaggio; l’aveva visto fare diverse volte durante quel periodo di navigazione: le manovre di avvicinamento all’isola stavano per avere inizio. Osservò il marinaio, che lo aveva aiutato quando si era accidentalmente ubriacato, prendere un peso di piombo collegato ad una fune, comunemente chiamata sagola, che aveva diversi nodi tutti alla stessa distanza; siccome era sempre lui ad usare quello strumento chiamato scandaglio, si era preso l’appellativo di Sagola.

Il marinaio cominciò a scandagliare il fondale, in modo da non permettere alla nave di lesionare la chiglia o di incagliarsi in qualche secca. Il navigatore seguiva attentamente le informazioni che Sagola gli passava. Riuscirono ad attraccare alla banchina del molo agevolmente, ad aspettarli non c’era nessuno.

Nonostante le insistenze di Azmir, Davven non volle sentire ragioni: soltanto lui e Ioan si sarebbero addentrati nella cittadella di Syras, non avrebbe permesso a nessun altro di seguirli.

«Sei pronto?»

«Sì, ho preso la spada e una sacca con dei medicamenti e degli attrezzi di emergenza, nel caso ci dovesse succedere qualcosa.»

«Onestamente? Non credo. Probabilmente saremo solo noi due nella cittadina.»

«Ed è normale?»

«No. Questo posto dovrebbe brulicare di persone, invece è completamente deserta. La cosa mi preoccupa, ma non temo per le nostre vite.»

«Dici?»

«Sì! Sembri deluso, perché?»

«Avevo voglia di menare un po’ le mani, temo di essere fuori allenamento.»

«Menare le mani? Ma come diavolo parli? Comunque, non ti preoccupare, fra qualche giorno potrai “menarle” in abbondanza, anzi, mi implorerai di smettere.»

«Cosa vuoi dire?»

«In quel momento ti sarà tutto più chiaro, ora andiamo.»

I due uomini percorsero il perimetro delle mura ciclopiche della cittadella di Syras, le quali avevano un andamento ellittico ed un’altezza compresa tra i cinque e i sei metri; richiudevano una superficie di circa diecimila metri quadri. Quattro portali permettevano l’accesso alla città. Solo quello che si affacciava verso il porto, presso cui avevano attraccato, era accessibile, a differenza di tutti gli altri i quali erano bloccati dall’interno.

«Davven, da quanto manchi da questo posto?»

«Dalla primavera di un paio d’anni fa.»

«Ma è sempre stato così?»

«No. Nonostante le modeste dimensioni, Syras era una cittadina molto trafficata, in quanto porto franco. Se avessi avuto la necessità di smerciare un prodotto, ti sarebbe bastato venire qui.»

«Deduco che anche il contrabbando era fiorente.»

«Esattamente…»

«E cosa può essere successo?»

«Non saprei, per scoprirlo bisogna entrare. Sei pronto?» Vide Ioan fare un cenno positivo con la testa.

Ciò che si parò dinnanzi ai loro occhi li lasciò completamente esterrefatti. L’intero villaggio era stato quasi completamente raso al suolo; le uniche attestazioni che testimoniavano la presenza di un insediamento umano, erano gli scheletri carbonizzati delle case e degli edifici pubblici. Cominciarono a percorrere la via che li avrebbe portati verso il centro dell’abitato. Ovunque si posasse il loro sguardo, l’unica cosa che risaltava era la morte, accompagnata dalla distruzione. Furono attirati da uno strano cumulo di ossa, che si ergeva in quella che doveva essere stata una casa di medie dimensioni. Si avvicinarono con circospezione per vedere cosa fosse. Quando riuscirono a mettere a fuoco ciò che avevano davanti a loro, Ioan rabbrividì.

«È un cadavere carbonizzato.» Disse.

«Già, di un anziano, per la precisione.»

«Come puoi dirlo?»

«Osserva bene il bacino, è più stretto rispetto a quello di una donna; guarda bene l’angolo sotto pubico, è molto più chiuso rispetto a quello di sesso femminile. Per l’età, basta guardare le suture della calotta cranica» e prese il cranio in mano «Esaminale per bene, come ti sembrano?»

«Quasi saldate.»

«Esattamente. Ottimo spirito di osservazione. In base a questo, sono riuscito a dedurre che fosse una persona in età avanzata. Mio dio, deve aver fatto una fine orribile! Guarda il resto dello scheletro, dev’essere stato colpito con violenza, poi deve essere caduto su questo focolare e sarà morto bruciato vivo. Guarda le coste, sono molto più bruciate rispetto al resto delle altre ossa.»

«Come fai a sapere tutte queste cose?» Chiese incuriosito Ioan.

«Ho servito per molti anni nell’esercito di Atlas come medico. Non sono mai stato un grande combattente; certo me la cavo, ma non resisterei molto a lungo in uno scontro, in compenso sono molto abile con le arti curative e alchemiche.»

«Mi insegnerai qualcosa?»

«Tutto quello che posso, a tempo debito però, ora andiamo.»

Si avviarono verso quello che doveva essere l’edificio più grande del paese, ovvero il tempio. Mentre avanzavano, la morte e la distruzione aumentavano. Sempre più corpi carbonizzati si incontravano sulla via, sempre più desolazione. La visione che sconvolse più Ioan fu lo scheletro di un bambino che, a detta di Davven, non doveva avere più di sei mesi. Rimase disgustato nel constatare cosa potesse fare la violenza cieca dell’uomo.

Quando arrivarono nei pressi dello scheletro di quello che doveva essere stato il tempio cittadino, il cumulo di ossa che trovarono fu veramente impressionante. Erano accatastate una sopra le altre, ulteriori erano disperse intorno a quell’area.

«E così è qui che hanno compiuto la mattanza. Hanno ucciso qualsiasi cosa gli si parasse davanti; poi hanno radunato qui il resto della popolazione e hanno trucidato tutti, per poi dare fuoco all’intero villaggio. Chi diamine può aver fatto una cosa del genere?» Mormorò.

«Davven, vieni a vedere qui, c’è un altro cumulo di resti umani!»

Si avviò nella parte retrostante di quello che una volta doveva essere stato l’abside del tempio, la cui parete lesionata in più punti e prossima al crollo, resisteva ancora stoicamente. Il cumulo di ossa era impressionante, anche se non era paragonabile a quello precedente. Lo esaminò attentamente.

«No Ioan, queste sono ossa animali. Mio dio, neanche loro si sono salvati da questo scempio.» Ossa di cani, gatti, maiali, capre, agnelli e cavalli, tutti accatastati lì.

Osservò scrupolosamente quelli che dovevano essere i resti di un agnellino, dalle dimensioni non doveva avere più di qualche mese. Esaminò con attenzione tutto il terreno circostante, alla ricerca di altri indizi. Quando ebbe finito, fu capace di teorizzare quando fosse accaduto quel massacro.

«Tutto questo dev’essere avvenuto tra l’estate e l’autunno di due anni fa.»

«Come fai a dirlo con tanta certezza?»

«Queste.» E gli mostrò una serie di scheletri di agnelli di un’età compresa tra i tre ed i sei mesi. «Gli agnelli nascono in primavera; considerata l’età di questi resti ed il loro stato di decomposizione, il tutto deve essere avvenuto all’incirca due anni fa, in un periodo compreso tra l’inizio dell’estate e l’autunno.»

«Sei riuscito a ricavare tutte queste informazioni da delle semplici ossa?»

«Nulla è semplice in natura, tienilo sempre bene a mente Ioan. Ora andiamo.»

Ripassarono dall’abside, lo sguardo di Ioan fu attratto da uno strano baluginio, che proveniva da quello che una volta doveva essere stato un altare. Smosse il leggero strato di cenere che ricopriva l’oggetto. Era una fibbia in argento, a forma di giglio.

Stava per prenderla, ma Davven fu più lesto. Lo vide osservarla a lungo; poi, la sua espressione in volto si fece cupa.

«Dobbiamo andarcene subito di qui.» Esordì.

«Cosa succede?»

«Non lo so, per questo dobbiamo andare via. Ho molte domande da porre e il tempo stringe. Inoltre, è giunto il momento d’iniziare il tuo allenamento.»

 

La nave era ancorata alla fonda, Azmir si era rifiutato categoricamente di proseguire la navigazione durante le ore notturne, anche se il loro obiettivo non era molto distante. Non aveva voluto sentire ragioni. Semplicemente non riteneva utile e pratico proseguire; secondo la sua opinione sarebbe stato uno spreco di energie inutili, molto meglio aspettare la mattina seguente, poiché la brezza di mare li avrebbe dolcemente sospinti verso il loro obiettivo.

Ioan non riusciva a prendere sonno quella sera. Nonostante fossero passate più di ventiquattro ore, non riusciva a ricacciare in un angolo della sua mente le immagini di distruzione e morte a cui aveva assistito. Era abituato a veder calare la falce del triste mietitore, ma non in quel modo; lo scheletro del bambino di appena sei mesi lo aveva pesantemente sconvolto, continuava a chiedersi chi fosse capace di una barbarie di quel genere.

Salì sul ponte per prendere una boccata d’aria, magari l’aria fresca della notte lo avrebbe aiutato a schiarirsi le idee. Gettò uno sguardo verso il cielo trapunto di stelle, quando notò, con la coda dell’occhio, un bagliore provenire dalla sua sinistra. Si girò a guardare esterrefatto quello strano fenomeno.

«Incredibile, vero?»

«Davven!»

«Anche tu non riesci a prendere sonno?»

«No.»

«Cosa ti turba?»

«Syras…quel massacro perpetrato nei confronti di quelle persone innocenti, perché?»

«Fidati, lo scopriremo.»

«Pensi che a Giz troveremo una risposta alle nostre domande?»

«È probabile, dopotutto è la capitale del regno di Niv.»

«Lo spero.»

«Permetti una domanda?»

«Certo.»

«Come mai vedere certe cose ti ha sconvolto tanto? Sei un combattente, tu stesso hai ucciso…»

«Ma non in quel modo! Ho ucciso per difendere la mia vita, non per il gusto di farlo! Non ucciderei mai un bambino.» Rispose pieno di rabbia Ioan. Vide Davven sorridere. «Perché quel ghigno compiaciuto sulla faccia?»

«Perché, nonostante tutto, sei una persona buona. Comunque, ho visto che hai notato quel bagliore.» Indicò il fascio di luce nel cielo. «Vuoi sapere cos’è?»

«Sì.»

«È la luce del faro del porto di Giz.»

«Stai scherzando!?»

«Nient’affatto.»

«Ma siamo ad oltre 22 miglia dalla costa, non può essere possibile!»

«Dici? Domani mattina lo vedrai con i tuoi stessi occhi e mi darai ragione. Ora va a dormire, sarà una lunga giornata.»

 

Davven aveva maledettamente ragione, quel faro era qualcosa di straordinario. Il corpo più in basso aveva una forma ettagonale, a cui si sovrapponeva uno pentagonale, più in alto ancora una costruzione cilindrica, a cui si sovrapponeva una stella bronzea a sette punte. L’altezza doveva sfiorare all’incirca i centocinquanta metri.

«Davven» sussurrò «non dubiterò mai più delle tue parole.» Vide l’uomo sorridere.

«Stammi vicino quando scendiamo dalla nave, Giz è una città enorme, con oltre due milioni di abitanti, perdersi è facile.»

Se l’ingresso monumentale della città, un portale con due fornici denominato la porta dell’eliodromo, era sbalorditivo per la ricchezza decorativa, il loro obiettivo, ovvero un tempio a pianta circolare, lo lasciò letteralmente senza parole. Nessun edificio di Abis era minimamente paragonabile a quello, sarebbe sembrato una stalla a confronto.

«Resta qui, ti dico io quando entrare.» Attese lì diversi minuti e nel mentre osservò con molto interesse il ciclo musivo del periptero. Perse la cognizione del tempo, solo uno strattone del suo compagno di viaggio lo riportò alla realtà.

Seguì Davven all’interno dell’edificio sacro e rimase senza fiato nel vedere la scultura crisoelefantina illuminata dal fascio di luce, che entrava dall’oculum della cupola. Meraviglia, pura meraviglia, non c’era nessun’altra parola per descrivere quello che stava osservando.

«Allora, capo dei sacerdoti di Thamir, hai finito di fare il cascamorto con le ragazzine?»

Il sacerdote si voltò stupito nel sentire quella voce.

«Davven?!»

«Adda, amico mio, da quanto tempo!» E lo abbracciò.

«Mio dio, due lunghissimi anni! Finalmente sei qui! Chi è questo bel giovane accanto a te?»

«Il motivo per cui me ne sono andato, finalmente la mia ricerca è conclusa.»

«Oh, capisco. Gli hai accennato qualcosa?»

«No, ho preferito portarlo prima in questo luogo.»

«Cosa dovresti dirmi?» S’intromise Ioan.

«Seguitemi giù nelle cripte, non è saggio rimanere qui.» Disse Adda.

Ioan seguì i due uomini che facevano strada, gettò lo sguardo alla statua un’ultima volta, prima che le tenebre lo inghiottissero.

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