Entanglement di mask89 (/viewuser.php?uid=61727)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Entanglement
Capitolo I
Le
prime luci dell’alba filtravano attraverso i due campanili
del tempio che si
affacciava sul mare. La timida luce solare, che attraversava le rade
nuvole,
rischiarava le candide pietre tagliate a mano, che
costituivano la tessitura
muraria delle alte
torri campanarie. Lentamente cominciava
a
scaldare la piazza, la
quale accoglieva la
gente che
stava affluendo silenziosamente. L’unico rumore, che rompeva
quel lugubre
silenzio, era il garrito dei gabbiani, i quali avidamente
si
aggiravano sopra le teste dei muti avventori, alla
ricerca di scarti di cibo.
Il
torrido caldo di luglio avrebbe trasformato in poco tempo
quella piazza in un forno rovente, dove solo la brezza di mare avrebbe
portato
un lieve sollievo, ma questo non sembrava scoraggiare la popolazione.
Nonostante
l’ora non agevole, l’ampio
spazio, situato al
centro della città, era
quasi al massimo della sua
capacità. Le guardie reali riuscivano a stento a gestire
quel flusso umano; donne,
uomini e anche bambini. Nessun
abitante della
capitale del regno voleva perdersi lo spettacolo che da lì
poco si sarebbe
consumato. I nobili, affacciati dai balconi dei loro palazzi, che
circondavano
la piazza, guardavano esterrefatti quel silente fiume umano, che non sembrava
avere fine. Non avevano
mai visto quel
luogo in quelle condizioni, neanche nei giorni
più floridi del regno, neppure durante i giorni
di festa. Era
come se tutta la gente del mondo
fosse accorsa lì. I
rintocchi delle campane
scandirono sette colpi, ma nessuno degli astanti sembrò
farci caso. Erano
troppo concentrati ad osservare il palco che sorgeva al centro dello
spiazzo.
Solo lo sferruzzare di ruote metalliche sul basolato fece
serpeggiare,
tra la moltitudine di gente lì presente, un concitato
stato di agitazione. Tutti gli
occhi erano
concentrati sul piccolo carro, che lentamente stava avanzando dal
palazzo
reale, situato a un chilometro da lì, in perfetta
contrapposizione con
l’edificio sacro. Quando, finalmente, la figura stante
sul carro fu visibile a tutta
la gente, ripiombò
il silenzio.
Tutto il mondo taceva, anche i gabbiani avevano smesso di emettere i
loro
striduli versi, come a voler sottolineare maggiormente quello strano
momento.
Solo il lontano sciabordare delle onde, contro i frangiflutti,
interrompeva
quella angosciante monotonia. L’unico a non
accorgersi di tutta quella
tensione, quel clamore, era la figura eretta sul carro. Tutto il mondo
gli
sembrava indifferente. Il suo sguardo era ricolmo di calma. I suoi bei
lineamenti non tradivano nessuna emozione. Solo i suoi capelli color
del grano,
incrostati di sudicio lerciume e i suoi vestiti logori, pieni di sangue
rappreso, risaltavano il suo status di prigioniero.
Le
quattro guardie reali, che accompagnavano quel piccolo cocchio trainato
da un
cavallo prossimo alla morte, non gli staccavano gli occhi di dosso;
come se le
robuste catene, che gli bloccavano sia gli arti superiori che quelli
inferiori,
non fossero sufficientemente sicure. Nonostante presentasse diverse
ferite, che
anche un osservatore poco attento avrebbe giudicato recenti, il corpo
dell’uomo
risultava robusto e ben allenato; ma, di certo, non sarebbe stato
capace di
forzare quella arzigogolata camicia di forza fatta di anelli di ferro.
Nessuna
sofferenza proveniva da quel viso, come se quelle piaghe inflitte nella
carne
appartenessero ad un altro essere. L’unico sussulto che ebbe,
che passò del
tutto inosservato alla maggior parte degli spettatori, fu quando il
carro fu
vicino al palco. Nonostante fossero presenti le maggiori cariche reali
e
religiose, i suoi occhi erano puntati su una minuta donna, con degli
indomabili
capelli rosso fuoco, dagli occhi color pece, gonfi a causa del pianto e
con un
prominente pancione. Si impose di non mostrare una sola emozione,
volevano
fiaccarlo ulteriormente nel morale e nello spirito; non avrebbe ceduto
per dare
loro la soddisfazione di essere riusciti a spezzarlo, doveva resistere
solo un
altro po’, poi tutto sarebbe finito e lei sarebbe stata
salva. Il carro si era
finalmente fermato davanti al patibolo, la porta dell’angusta
cella si aprì
sferragliando. Lo aiutarono a scendere strattonandolo, come se le
ferite e le
pesanti catene non costituissero già un serio impedimento ai
suoi movimenti, ma
rimase indifferente. Salì lentamente i gradini, non
perché volesse allontanare
da sé quell’amaro calice, ma i muscoli delle sue
gambe erano intorpiditi e
provati a causa delle torture inflittegli. Deambulare gli provocava
spasmi di
dolore in tutto il corpo, ma strinse i denti. Era giunto finalmente sul
palco.
Guardò i suoi carnefici negli occhi uno per volta,
lentamente, come a
sottolineare la solennità di quel momento. Deliberatamente
evitò di incrociare
lo sguardo della donna. La sua determinazione sarebbe stata fatta a
pezzi se
solo ci avesse provato.
«Quest’uomo»
urlò il re alla muta folla in piazza «il primo
cavaliere di Atlas, eroe della
nostra ultima guerra, si è macchiato di un reato gravissimo.
Ha sedotto con
l’inganno una delle sacre vestali dell’ordine del
tempio e l’ha ingravidata.
Sapete molto bene che la legge non permette ad un cavaliere e ad una
vestale di
avere rapporti e consorti, fino alla fine dei loro giorni. Ebbene,
quest’uomo
ha calpestato questa sacra regola, imposta da quel sant’uomo
di mio nonno, al
fine di mantenere integro il regno. Affinché questi uomini e
queste donne
proteggessero e servissero, senza nessuna remora, questo bel reame.
Lui
ha infranto il sacro giuramento, ed ha persino concepito un figlio con
questa
donna. Pertanto, verrà condannato a morte per crocifissione.
La sacerdotessa,
in quanto ingannata, verrà espulsa dal regno; ma, se
soltanto oserà avvicinarsi
in futuro ai confini, verrà giustiziata seduta stante.
Questa è la giustizia
del re. Cavaliere, ha qualcosa da dire prima di essere
crocifisso?»
«Beh,
visto il prezzo che sto pagando, avrei preferito sedurre una
più formosa.»
Rispose sprezzante. Un pugno di una guardia reale lo fece piegare su
sé stesso.
Sentì picchiare violentemente la schiena contro un ruvido
palo di legno. Un
altro pugno raggiunse la sua mascella. Sentì diverse mani
trafficare con le
catene. Per un attimo si sentì leggero, prima che diverse
mani lo
immobilizzassero contro quella ruvida croce di legno. Sentì
le fredde punte
metalliche dei chiodi premere contro i suoi polsi e il collo dei piedi.
Quattro
colpi metallici dati all’unisono. Sentì le sue
carni essere dilaniate da un
dolore tremendo e le sue ossa frantumarsi sotto l’incedere di
quei colpi, ma
non urlò. La sofferenza aumentava ogni secondo che passava,
ma non un solo gemito
usciva dalla bocca. Avvertì la pressione di tutte quella
mani sui suoi arti
svanire di colpo. Violentemente, fu issato sul palco ed esposto al
pubblico
ludibrio degli astanti.
Il
sole era ormai alto nel cielo, era quasi mezzogiorno e il caldo era
già soffocante.
Avvertiva le sue forze venire sempre meno, ormai era prossimo alla
morte.
All’improvviso sul palco ci fu del trambusto. Un araldo che
scortava una donna
salì sul palco ed andò a parlare con il re, che
ascoltava attentamente.
Nonostante la vicinanza, non riusciva a capire cosa si stessero
dicendo. Vide
il monarca fare un cenno della mano e l’uomo allontanarsi.
Dei paggi portarono
uno sgabello vicino alla croce. Una volta piazzato, il re vi
salì sopra.
«Credevi
veramente di potermi fregare in questo modo?!»
Sussurrò al suo orecchio.
«Sapevo fin dall’inizio che tu e quella puttanella
eravate in combutta, che ti
sei addossato la colpa per far vivere lei e il vostro bambino, ma hai
perso. È
stato veramente divertente vedere come sopportavi le torture
stoicamente, per
nulla. Cosa può fare l’amore e come può
rovinare un uomo?! La profezia non si
avvererà mai. Ho vinto io.» Scese con aria tronfia
da quel panchetto.
«Miei
sudditi, ci sono delle novità. Quest’uomo ha
mentito anche in punto di morte.
Ha cercato di proteggere questa puttana fino alla fine!»
Indicò la donna.
«Ebbene, quest’ultima era consenziente, non
è stata sedotta con l’inganno.
Pertanto…» si voltò verso il cavaliere
con l’espressione più diabolica che
aveva «condanno la vestale a morte per
impiccagione!» Un boato si levò dalla
folla. L’uomo provò a urlare ma, prima che potesse
emettere un solo suono, una
lancia lo colpì al centro dello sterno, per poi percorrergli
tutto l’addome
squarciandolo. Le viscere pendevano su una pozza di sangue ai suoi
piedi, il
mondo all’improvviso si fece nero.
Avvertì
il cappio intorno al collo. Non le importava. Amare Dan era
l’unica cosa che
aveva scelto di fare liberamente nell’arco della sua vita.
Non le pesava di
morire, lo avrebbe raggiunto, ma non poteva permettere che anche suo
figlio
perisse, a causa della cupidigia di quel re malvagio. Sentì
la corda farsi
sempre più stretta e l’aria mancare sempre
più. Fece ricorso alle sue ultime
forze per esprimere la formula magica. Un ghigno si fece largo sul suo
volto.
Il mondo cominciò a sfumare fino a diventare una massa
informe di nero.
La
folla urlò felice nel vedere i due criminali morire. La
stabilità e la
prosperità del regno erano salve. Tutta
quell’ilarità svanì
all’improvviso. Il
silenzio piombò nuovamente in quella piazza. Una evidente
macchia rossa si
espandeva dal corpo penzolante della donna, all’altezza del
bacino. Videro
lentamente spuntare, tra le sue gambe, una testa con
dei radi capelli rossi, ricoperta di sangue.
Delicatamente, come
sorretto da delle mani invisibili, videro il piccolo essere adagiarsi
al suolo.
Il vagito del neonato si udì per tutto l’ampio
spiazzo. I dodici rintocchi
delle campane, provenienti dalle due torri campanarie, sembrarono
risvegliare
la gente, che cominciò a scappare all’impazzata.
Un bambino, nato da una donna
morta, significava solo una cosa, una sciagura si sarebbe abbattuta su
di loro.
I soldati, incalzati dalle urla del re, si stavano avventando con le
loro spade
sul quel corpicino; ma rimasero con le armi a mezz’aria,
perché all’improvviso
era sparito nel nulla.
I
due viandanti camminavano lentamente, attraverso la foresta situata sul
limite
orientale del regno di Atlas. Nonostante fosse pieno giorno, la luce
faceva
fatica a filtrare attraverso l’intricato fogliame degli alti
alberi, il che
rendeva meno gravoso marciare durante quella torrida estate. I due si
fermarono
sotto un’enorme quercia, per far riposare i piedi doloranti a
causa del lungo
cammino. La donna appoggiò la schiena dolente contro il
tronco e cominciò a
massaggiare lentamente il prominente pancione. L’uomo le si
sedette accanto,
guardandola con aria afflitta.
«È
stata una follia metterci in viaggio in queste condizioni. Dovevamo
aspettare
che nostra figlia nascesse.»
«Sai
benissimo che non era possibile. La nostra casa, il nostro ordine,
tutto
distrutto dalla guerra. L’unica possibilità di
salvezza era fuggire e alla
svelta.»
«Sono
otto mesi che siamo in viaggio. Hai trascorso tutta la gravidanza a
sfuggire
agli sgherri del nemico. Ho perso il conto di quanti confini abbiamo
passato,
di quante valli abbiamo attraversato, di quante montagne abbiamo
valicato. Che
razza di padre e marito sono?»
«Un
padre e un marito che ha a cuore la propria famiglia. Che ha aiutato
fino
all’ultimo secondo il proprio ordine a non perire, ma che ha
dovuto arrendersi
alla soverchiante brutalità del nemico. Un padre che non ha
esitato a lasciare
la propria terra natia, a rinnegare la propria natura, pur di mettere
la sua
famiglia in salvo.»
«Un
marito che ti ha costretto a vivere uno dei momenti più
belli della vita da
fuggiasca.»
«Momenti
che non avrebbero senso se tu non fossi accanto a me.»
«Mi
dispiace.»
«Per
cosa? Non hai nulla di cui scusarti. Sei stato tu a suggerire a Ulghur
di
attaccare la nostra enclave? Non mi risulta. Sei stato tu a mettere
alle
calcagna dei superstiti di quella mattanza, quei maledetti assassini?
Non mi
sembra. Quindi, smetti di dire cavolate e dammi una mano a rialzarmi,
che
questo pancione pesa!»
L’uomo
stava per tenderle la mano, quando all’improvviso sul volto
della donna si fece
largo una smorfia di dolore.
«Tutto
bene? La tua espressione non mi piace per niente.»
«Non
ti preoccupare, è stata solo una fitta.» Face per
tendere la mano verso il
marito, quando una seconda fitta, più potente, la
bloccò nuovamente.
«Cazzo!»
Urlò. Sentì una sostanza gelatinosa e calda
inumidirle le gambe. «Cazzo, cazzo,
cazzo!» Imprecò nuovamente.
«Cosa
succede?» Chiese preoccupato il mago.
«A
quanto pare nostra figlia ha deciso di nascere, proprio qui.»
«No,
no, no, no. Mancavano diversi giorni. Dovevamo arrivare nella
capitale…»
«Cerca
di restare calmo e lucido, dopotutto quella che soffre qui sono
io.»
«Siamo
nel bel mezzo del nulla. Nessuno a cui chiedere
aiuto…»
«Fridrick
dell’enclave di Silren. Primo dell’ordine dei
maghi, ti ho detto di restare
calmo!» L’uomo sembrò ridestarsi
nell’udire quelle parole. Sapeva che, quando
la sua dolce metà lo apostrofava in quel modo, era meglio
rimanere molto
attenti. «Sei il mago più potente della tua
generazione, oltre che il maggior
esperto in magie curative. Quindi concentrati e aiutami!»
«Hai
ragione, vedrai, andrà tutto per il meglio.» Si
guardò intorno alla ricerca di
un terreno abbastanza pianeggiante. Lo individuò a pochi
metri da loro.
Percorse la breve distanza a grandi falcate. Dalla sua borsa da viaggio
estrasse diversi sacchetti e strumenti. Cominciò a tracciare
diversi simboli
sul terreno. Mentre lavorava solerte, ogni tanto guardava con la coda
dell’occhio la moglie; dalle smorfie di dolore e da come si
contorceva vicino
al tronco dell’albero, capì che non mancava molto
al parto. Aumentò il ritmo
del lavoro. Tracciare quei simboli si stava rivelando più
difficile del
previsto.
La
venuta al mondo di una nuova vita tra i maghi era un evento raro.
Quelle poche
nascite, erano sempre state il frutto dell’unione tra un mago
con un uomo o una
donna, incapace di manipolare la forma della natura. Era la prima volta
che la
vita germogliava tra due esseri con le stesse capacità.
Questa incapacità di
generare discendenza, era stata compensata con una durata della vita
ben
superiore rispetto agli uomini comuni. Era la natura che li generava
così.
Nascevano con quel dono che allo stesso tempo era anche una
maledizione. Ma, Re
Ulghur non era dello stesso avviso. Dapprima si era rivelato amichevole
verso
la loro enclave; con il passare degli anni invece, sempre
più ossessionato
dalla morte. Aveva cominciato a fare strane richieste ai maghi. Quali
pozioni
usassero per allungare la loro vita, di rivelargli le formule per
mantenere
intatto il vigore. A nulla erano servite le spiegazioni fornitegli. Le
richieste erano diventate sempre più pressanti, fino a
sfociare in quel feroce
attacco, che aveva distrutto completamente la loro comunità.
Gli si formò un
groppo in gola al pensiero degli amici uccisi, incarcerati e torturati.
Al
sacrificio che avevo compiuto per permettere a lui e ad Astrid di
scappare,
perché la nascita della bambina della profezia avesse
compimento. L’urlo della
donna lo ridestò da quei cupi pensieri. Aveva finito. Si
precipitò verso di
lei, la prese in braccio e delicatamente la depositò al
centro di quella fitta
sequenza circolare di formule. La dilatazione dell’utero era
al massimo, la
fase più delicata stava per iniziare. Cominciò a
recitare una serie di formule,
mentre le urla della donna si facevano sempre più
strazianti. Ci vollero
diverse spinte affinché vedesse la testolina comparire.
«Continua
così, stai andando alla grande!»
«Fanculo!
Il dolore mi sta
uccidendo, fa qualcosa invece di parlare!»
Si
lasciò scivolare quegli improperi addosso. Anche lei sapeva
molto bene che,
tutte quelle formule, servivano per proteggere
l’integrità fisica e della
salute sua e del neonato; sul dolore non poteva farci nulla. La testa
era
spuntata del tutto, lentamente apparirono anche le spalle. Con tutta la
delicatezza di cui era capace, comincio a tirare quel corpicino, in
modo tale
da poter facilitare l’operazione. Con un ultimo urlo, seguito
da una poderosa
spinta, finalmente il nascituro era fuoriuscito del tutto. Un vagito
riecheggiò
per tutta la radura, seguito da dodici colpi di campana provenienti da
luogo
lontano. Dal nulla fece comparire delle forbici, con cui
tagliò il cordone. Poi
fece apparire una bacinella con dell’acqua tiepida, per
ripulire la bambina dal
sangue. Si fermò un attimo a rimirarla. Non poté
impedire alle lacrime di
uscire. Prese dalla borsa da viaggio una coperta e l’avvolse
intorno a quel
minuto corpicino. Si distese accanto ad Astrid.
«È
bellissima, come te.»
«Il
solito adulatore! Come la chiamiamo?»
«Che
ne pensi di Eir?»
«Eir?
Penso che sia bellissimo…»
La
stanchezza si faceva sempre più pressante. Eir e Astrid
dormivano beatamente.
Lanciò una magia intorno a quel luogo, in modo da renderlo
invisibile e
introvabile a qualsiasi essere vivente. Si addormentò sereno
vicino alle due
donne della sua vita.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo
II
Il
rumoreggiare della folla giungeva ovattato alle sue orecchie. Le spesse
mura
calcaree dell’anfiteatro, unitamente al pesante elmo in
bronzo che indossava,
facevano da filtro. Allentò la fibbia della calotta in
cuoio, che foderava la
parte intera del copricapo, la quale gli passava sotto il mento.
L’alto tasso
di umidità presente lì sotto, mischiato
all’aria stantia, lo facevano respirare
a fatica. La cella in cui era rinchiuso gli sembrò
più claustrofobica del
solito. Si impose di respirare lentamente, conosceva ormai da tempo
quella
sensazione. Ogni volta che il suo turno di combattimento si avvicinava,
un
senso di inquietudine lo pervadeva. Non che temesse per la sua vita o
che
avesse paura di procurarsi qualche ferita, ormai era abituato. Odiava
con tutto
sé stesso quella gente che, dall’alto degli
spalti, urlava nel vedere persone
che combattevano fra di loro, per il mero e disgustoso piacere. Odiava
vedere i
loro sorrisi compiaciuti, ogni qualvolta qualcuno, stremato dalla
fatica,
collassava al suolo. Odiava la loro voglia di sangue a tutti i costi.
Cosa ne
sapevano loro della guerra? Cosa significasse combattere? Cosa si
provasse ad
ammazzare un uomo a sangue freddo, solo per soddisfare la loro orrenda
sete di
morte. Non sapevano neppure come si impugnasse una spada o una lancia,
poiché
il loro maledettissimo regno conosceva un lungo periodo di pace. Cosa
potevano
saperne della sensazione che si provava nel vedere la vita spegnersi in
un
uomo? Magari la stessa persona con cui, fino a qualche giorno prima, si
era
condiviso lo stesso tugurio. D’altronde, che poteva saperne
lui di cosa volesse
dire vivere un’esistenza pacifica? Da quando aveva memoria, i
suoi giochi erano
state le armi e la sua istruzione il continuo esercitarsi alla lotta e
alla
guerra.
Scosse
la testa. Prese la cote dalla sacca che era poggiata sulla panca in
legno.
Molare il filo della spada, prima di uno scontro, lo rilassava sempre.
Era il
suo modo personale per esorcizzare la paura, che tentava di
attanagliarlo.
Il
cozzare di un bastone di legno, contro le sbarre metalliche della
cella, lo
ridestò dai suoi pensieri. Aveva appena finito il suo
personale rito.
«Preparati,
il prossimo sei tu.»
Annuì
con la testa. Si alzò in piedi, si sistemò meglio
la corazza, stringendo tutte
le fibbie. Poi passò ai vambraci e agli schinieri.
Avanzò lentamente verso le
scale che lo avrebbero portato nell’arena. Sentiva gli occhi
degli altri
schiavi-guerrieri puntati su di lui, ma non gli importava. Il mito che
lo
accompagnava non lo aveva mai minimamente interessato. Che senso aveva
uscire
da ogni scontro sempre vincitore e senza un graffio, se poi ritornava
ad essere
uno schiavo? Persino un animale aveva più libertà
rispetto a lui. L’unica cosa
che gli interessava era porre fine, nel modo più veloce
possibile, quella
pantomima che lo avrebbe visto protagonista. Non gli importava nulla
delle
persone che avevano pagato per lo spettacolo, delle loro proteste e
degli
insulti che avrebbe preso, perché non avrebbe soddisfatto le
loro
aspettative.
La
grata del cancello lentamente cominciò a dischiudersi. Le
urla della gente
aumentarono di volume, finalmente l’attrazione principale
stava scendendo sul
campo. Appena mise piede sul terreno polveroso e intriso di sangue
dell’arena,
un boato si alzò dagli spalti. Donne che urlavano estasiate
il suo nome, uomini
che lo insultavano e altri che lo acclamavano. Ma, tutto questo
cessò,
all’unico movimento della mano dell’uomo che
occupava la postazione d’onore.
«Signori
e signore, che oggi mi onorate della vostra presenza»
cominciò l’uomo «come vi
ho promesso, in onore dei dieci anni del mio governatorato in questa
bella
città, vi ho offerto tre giorni di spettacoli. E ora, in
quest’ultimo giorno,
per concludere tutto magnificamente, come ultimo spettacolo vi voglio
offrire
il miglior combattimento che possiate mai immaginare. Credetemi,
racconterete
di quest’incontro finché avrete vita. Sarete
invidiati da tutte le persone di
questo regno, perché nessuno sarà capace di
eguagliare ciò che vedrete
quest’oggi. Ecco» e indicò il gladiatore
nell’arena «io vi offro Caesar,
l’imbattuto,
l’invincibile, il combattente senza ferite.»
La
folla esplose in un boato. Il ragazzo rimase impassibile a tutte quelle
parole,
a tutto quell’ardore della gente. L’unica
sensazione che provava era la
collera. Era stufo di essere considerato una misera attrazione, per
tutta la
sua vita non era stato che quello. Una stupida marionetta, a cui era
stato
imposto di combattere per sopravvivere. Volevano lo spettacolo? Bene,
glielo
avrebbe fornito; non voleva certamente deludere le loro aspettative, ma
lo
avrebbe fatto a modo suo.
Vide
entrare il suo avversario dalla porta opposta alla sua. Lo superava in
altezza
di almeno quindici centimetri, anche la massa muscolare era il doppio
in
confronto a lui. Ma non gli importava, se pensavano di spaventarlo con
un
energumeno di quella taglia, si sbagliavano di grosso. Estrasse la sua
fida
spada corta dal fodero, mentre sistemava lo scudo dietro la schiena;
con un
avversario di quel calibro, alla lunga, sarebbe risultato
controproducente. Lo
vide correre, mentre roteava l’ascia. Rimase impassibile al
suo urlo di guerra;
quello schiamazzo mal riuscito non poteva spaventarlo. Restò
fermo in attesa
fino all’ultimo secondo poi, agilmente, schivò il
colpo. Continuò quella strana
danza per tutto il tempo; schivava ma non affondava mai il colpo, come
se fosse
incapace di maneggiare un’arma. Nel frattempo, il
rumoreggiare della folla
aumentava. Era giunta lì alla ricerca dello spettacolo e del
sangue, invece,
stava assistendo ad uno strano e sgraziato balletto, fra due uomini
male
assortiti. Poté chiaramente sentire le urla del suo
schiavista, che lo
minacciava di essere frustato fino alla morte, se non avesse cominciato
a darsi
da fare. Sbuffò, quella prospettiva non lo spaventava
minimamente. Certo,
sperava di morire in modo più glorioso ma, per la vita che
conduceva, morire in
un’arena per mano di uno sconosciuto o in una cella resa
fetida dal suo sangue,
non faceva molta differenza. Vide il suo avversario ansimare sempre
più, era
quasi allo sfinimento. Lo osservò caricare a testa bassa e
con tutta la sua
potenza, voleva chiuderla lì. Era il momento giusto.
Aspettò fino all’ultimo
momento poi, agilmente, scartò di lato, roteò su
sé stesso ritrovandosi
esattamente alle sue spalle. Fulmineo, lo colpì con
l’elsa della spada alla
base del cranio. Il malcapitato stramazzò al suolo svenuto,
non si sarebbe
svegliato prima di qualche ora. La platea, che fino a quel momento
aveva
pesantemente protestato per quello spettacolo da strapazzo, adesso era
silente;
ammutolita dalla velocità di quel colpo. Ma quel silenzio fu
interrotto dalle
urla furenti del governatore, rivolte al suo schiavista.
«Tu,
lurido venditore di morte, mi avevi promesso uno spettacolo degno
d'essere
cantato da tutti i bardi del regno e invece cosa mi ritrovo? Un
saltimbanco.
Ora, trova subito una soluzione, prima che affidi la tua testa alle
cure del
mio boia.»
«Io,
io…non ho nessun altro combattente con cui farlo
sfidare…»
«Diecimila
scudi d’oro e non hai nessuno da far combattere? Chiamate il
boia, che si diverta
a far soffrire quest’uomo!»
«Aspetti,
aspetti!» urlò disperato l’uomo
«Ho un’idea. Prima, mentre ero nel ventre
dell’anfiteatro, in una cella ho notato tre tipi poco
raccomandabili.»
«Sono
dei banditi che ho condannato a morte. Hanno ucciso oltre venti
persone, tra
uomini, donne e bambini.»
«Li
faccia combattere contro quel traditore. Gli prometta la
libertà se vinceranno.
Sono sicuro che ricorreranno a ogni bassezza per avere salva la vita .
La folla
gradirà, ne sono certo.»
«Sembra
una buona idea! Guardie, andate giù nelle celle, liberate e
armate quei tre
banditi, poi mandateli nell’arena a combattere contro quel
bastardo.»
La
gente sugli spalti approvò con un’ovazione quelle
parole. Finalmente, avrebbero
avuto lo spettacolo che gli era stato promesso. Caesar, invece, rimase
impassibile. Aveva combattuto, aveva sconfitto il suo avversario ma, a
quanto
pare, non bastava. Lo volevano costringere a versare sangue e, questa
volta,
non avrebbe potuto esimersi.
Prese
lo scudo da dietro la schiena e lo afferrò saldo nella mano
sinistra. Si mise
in posizione di guardia. Non sarebbe stato uno scontro facile. Non lo
preoccupava il numero di avversari; non era la prima volta che si
trovava in
una situazione di svantaggio numerico. La sua preoccupazione era
motivata dalla
risma di persone che si trovava ad affrontare: tagliagole e, a quanto
pare,
della peggior specie. All’interno dell’arena, tra
combattenti, vi era un codice
d’onore da rispettare. Era uno scontro all’ultimo
sangue ma, comunque, vi erano
delle regole non scritte a cui si attenevano tutti; nutriva forti dubbi
che
quei tre le avrebbero rispettate, visto che in ballo vi era la loro
libertà e
la vita. Li vide entrare, il loro equipaggiamento era di
prim’ordine. Gli
avevano fornito armi ed armature dell’esercito. Doveva aver
fatto veramente
arrabbiare il governatore, per farli agghindare in quel modo.
Schivò abilmente
la lancia che il bandito più basso gli aveva scagliato
contro. Con la coda
dell’occhio la vide conficcarsi pesantemente nel terreno;
estrarla avrebbe
richiesto solo tempo e fatica, due cose che al momento non poteva
permettersi.
Il più muscoloso dei tre gli si avventò subito
addosso. I suoi colpi erano
potenti, ma mancava di tecnica; prevedere le sue mosse non era
difficile.
All’ennesimo affondo si abbassò; poi, velocemente,
con la spada vibrò un colpo
verso la gamba destra. Il malcapitato urlò di dolore, ma
quel grido fu
sopraffatto dal boato della gente, che finalmente vedeva il sangue
scorrere. Si
guardò subito attorno, per capire dove fossero gli altri
due. Trovò il primo,
vicino al cancello da cui era entrato; fece per cercare il secondo, ma
non ne
ebbe il tempo. Sentì intorno alla sua gola un cappio; si
dimenò, ma quel
bastardo non mollava la presa; anzi, ad ogni suo sforzo diveniva sempre
più
forte. Nella foga lasciò andare la spada, che il suo
avversario fu rapido nello
spedire lontano, con un calcio. Si impose di rimanere lucido e fu la
sua
salvezza. Vide che l’altro iniziava ad avvicinarsi
velocemente, con la spada
sguainata pronto a colpirlo. Deviò il colpo con lo scudo;
sfruttò quel momento,
in cui era privo di ogni difesa, per colpirlo con un calcio violento
allo
stomaco e lo vide piegarsi a terra dal dolore. Sentì la
presa sul collo farsi
meno pressante; approfittò di quell’attimo per
sfoderare una vigorosa gomitata
all’addome del suo carceriere, ma non ebbe il risultato
sperato. Nonostante
l’imprecazione di dolore, il bandito lo teneva ancora
saldamente per la gola.
Usò tutte le sue forze residue, per trascinarlo con
sè al suolo. Sperava che
quella mossa lo facesse cedere, ma non sortì alcun effetto.
Anzi, la sua
situazione peggiorò, dato che l’avversario ne
approfittò per immobilizzargli il
braccio dello scudo con una gamba. Si agitò disperato; era
privo di difese e
vide l’uomo, che poco prima aveva colpito, riprendersi e
pronto a trapassarlo a
morte. Chiuse gli occhi, mentre con la mano libera andava alla
disperata e vana
ricerca di un’arma, una qualsiasi. Ed il suo desiderio si
realizzò. Sentì nel
palmo un manico di legno molto familiare. Lo afferrò con
tutte le sue forze e
lo indirizzò contro il suo avversario. La lancia
trapassò la gola del
malcapitato, uccidendolo sul colpo. Sentì la pressione sul
collo diminuire
all’improvviso; ne approfittò per dare una
poderosa testata sul naso del suo
carceriere. Lo sentì guaire dal dolore. Si servì
di quel momento per liberarsi
completamente dalla presa. Si alzò in piedi rantolando. Si
guardò rapidamente
intorno. Il bandito a cui aveva squarciato il quadricipite femorale si
era
rimesso in piedi, ma faticava a camminare. Si sarebbe occupato di lui
dopo. Si
avvicinò lentamente alla sua preda. Si slacciò lo
scudo e si mise a cavalcioni,
immobilizzandolo. Colpì la testa del malcapitato diverse
volte con il bordo
dello scudo. Volevano uno spettacolo memorabile? Bene, glielo avrebbe
offerto.
Si fermò soltanto quando il volto dell’uomo
divenne una poltiglia
irriconoscibile. La folla urlava estasiata per quel macabro spettacolo.
Prese
la sua spada da terra e si avvicinò all’ultimo
obiettivo. Lo guardava mentre
cercava di sottrarsi al suo destino. Mentre cercava di scappare da lui,
inciampò diverse volte, finché non si
trovò bloccato contro il muro dell’arena.
Gli avrebbe dato una morte rapida. Puntò la spada contro la
sua testa e con un
colpo secco lo decapitò. Lasciò andare
l’arma a terra mentre, lentamente, si
trascinava verso l’uscita. Un senso di nausea lo
investì; non un uomo, un
macellaio, ecco cos’era. Il pubblico estasiato inneggiava in
suo onore, solo un
uomo rimase impassibile a quel massacro. Con uno sguardo indecifrabile
guardò
il combattente lasciare l’arena, che lo aveva visto
protagonista.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo
III
Si
stava passando lentamente lo strigile sulle sue gambe. Uno dei pochi
aspetti
positivi di essere un combattente dell’arena era la
possibilità di lavarsi
spesso, con acqua calda e liscivia, nei casi più fortunati
con del sapone. Un
autentico lusso, poiché solo le persone più
abbienti delle diverse città si
potevano permettere un piccolo bagno privato. La maggior parte della
popolazione si doveva accontentare di lavarsi in rozze tinozze di
legno, una
volta alla settimana, ad essere fortunata; oppure al fiume, se ne
scorreva uno
nelle vicinanze dell’abitato. Si cosparse il corpo con olio
profumato; amava
prendersi cura di sé stesso in quel modo, non per
vanità o per narcisismo, ma
perché era conscio che l’unico modo, per
sopravvivere in quel mondo, fosse
curarsi e allenarsi costantemente. Indossò una tunica
leggera di lino grezzo e
si avviò verso la sua cella, era del tutto sicuro che il suo
schiavista lo
stesse aspettando lì. Infatti, lo trovò che
passeggiava nervosamente davanti al
suo tugurio. Proseguì noncurante, non era la prima volta che
lo vedeva in
quello stato; non sarebbe stata la prima volta che lo avrebbe
minacciato di
morte o di sottoporlo a chissà a quale tortura. Era avvezzo
al suo sbraitare
spropositato, alle sue grida piene di vuote minacce, al suo fingersi
padrone
della situazione, quando in realtà era solo ostaggio del
volere dei suoi
clienti. Notò che, nella sua mano destra, aveva il bastone
di legno che usava
per picchiarlo, quando era troppo svogliato durante gli allenamenti. Si
fermò.
Era inutile proseguire oltre, non glielo avrebbe permesso.
«Tu,
figlio di puttana, per colpa tua rischiavo di morire.»
«Respiri,
parli e la tua testa si trova ancora attaccata al corpo.»
«Sei
una macchina della morte! Tu devi uccidere in modo spettacolare e non
intrattenere il pubblico con un balletto improvvisato.»
«Io
faccio quello che mi pare e piace. Non quello che vuoi tu!»
«Lurido
schiavo, come osi rivolgerti al tuo padrone in questo modo? A quanto
pare non
ti ho inculcato abbastanza educazione.» Si
apprestò a colpirlo con la mazza.
Chiuse
gli occhi pronto a ricevere il colpo, ma non arrivò mai. Li
riaprì, una scena
strana gli si parò davanti. Uno sconosciuto tratteneva per
il polso il suo
padrone.
«Non
si tratta così un proprio sottoposto, specialmente dopo che
è uscito vincitore
da una faticosa battaglia.»
«E
tu chi sei? Come hai fatto ad entrare qui? E poi, non sono cazzi tuoi,
come
tratto i miei schiavi. Ci faccio quello che mi pare con loro.»
«Ah,
sì?» Ironizzò lo sconosciuto.
«Gli
ho dato cibo, un tetto, uno scopo. Hanno l’obbligo di fare
ciò che gli ordino.
Ho il diritto di trattarli come meglio credo.»
«Che
uomo caritatevole! Quanta magnanimità concentrata in un
corpo così piccolo.
Devo segnalarti al Re come miglior suddito
dell’anno.»
«Tieni
a freno il tuo sarcasmo. La schiavitù non è
proibita in questo regno, perciò
non faccio nulla di illecito.»
«E
avresti ragione, se tu lo avessi regolarmente comprato al mercato degli
schiavi. Ma non è così, vero?»
«Come
osi dire una cosa del genere? È ovvio che l’abbia
comprato al mercato.»
«Ah,
sì? Quale? E quando?»
«Mercato
di Laxos, quindici anni fa.»
«Laxos
eh? Pensi che sia uno sprovveduto? Il mercato degli schiavi non
è più attivo da
oltre vent’anni lì, da quando un terribile
maremoto ha distrutto la città.
Pensavi forse, che nominare una città, la quale si trova a
migliaia di leghe da
qui, ti avrebbe salvato? Stolto!»
Lo
schiavista sbiancò.
«Nessuno
in questo Regno sa di questo avvenimento.»
«Allora, lo hai
acquistato o no?»
«Io…»
«Tu…»
«Non
sono affari tuoi! Questo è il mio schiavo. Ho un regolare
contratto che lo
dimostra!» Urlò, cercando di ritrovare la sua
solita baldanza.
«Un
regolare contratto, eh? Allora, diciamo che se fossi vagamente
interessato,
potresti vendermelo...»
Il
vecchio scoppiò a ridere.
«Tu
sei un pazzo, credi che potrei mai vendere il mio miglior combattente?
È una
macchina da soldi, non lo venderei per nessuna cifra al
mondo.»
«Neanche
per ventimila scudi d’oro?»
L’uomo
deglutì rumorosamente. Quello sconosciuto era veramente
disposto a spendere
così tanto? Non era possibile, bleffava.
«Cinquantamila.»
«Affare
fatto.» Rispose
prontamente.
Lo
schiavista ed il giovane combattente guardarono lo sconosciuto
basiti. Aveva appena dichiarato di
essere
disposto a spendere cinquantamila scudi, senza battere
ciglio; l’equivalente della rendita delle terre di un anno
del re. Chi era
costui per potersi permettere una cifra del genere? E perché
si era dimostrato
così interessato a Caesar? Lo schiavista lo
guardò diffidente. Non era affatto
convinto della bontà di quell’affermazione.
«Dimostrami
che hai cinquantamila scudi
d’oro.»
Lo
sconosciuto prese un campanellino dalla sua tasca e lo fece
suonare. Poco dopo, entrarono due uomini trasportando un forziere, che
aveva
l’aria di essere molto pesante. Lo depositarono davanti al vecchio incredulo e lo
aprirono. Conteneva una quantità
spropositata di monete d’oro.
«Abbastanza
convincente come prova?»
«Chiedo
venia per aver dubitato di voi, signore. Sono solo un
umile schiavista, abituato a misurare la vita in base alle esperienze che ha vissuto,
e non in base alla forza delle parole e del comportamento di una
persona.»
«Accetto
le scuse. Ora
il contratto.»
L’anziano
uomo richiamò un altro suo schiavo, il quale accorse
prontamente.
Lo fece avvicinare al suo orecchio,
dandogli delle istruzioni. Subito
dopo, lo vide arrivare con un volumen, che
consegnò direttamente al compratore, il quale
lo esaminò con interesse.
«Sembra tutto in regola. Il forziere
è
suo, mentre lo schiavo viene via con me. È stato un
piacere.»
«Oh,
il piacere è stato tutto mio. Se dovesse
essere interessato, ho altra
merce che le potrei
mostrare.»
«No,
grazie. Tutto ciò che mi serve è
già nelle mie mani.» Si voltò e prese
l’uscita, seguito
a ruota da Caesar e dai suoi servitori.
Durante
tutto il percorso, che portava verso l’esterno, nessuno disse una sola
parola. Il misterioso compratore
sembrava più interessato ai cicli di affreschi, che
decoravano il corridoio che
portava sia all’esterno dell’anfiteatro, che al
palco d’onore. Mentre, il
guerriero sembrava assorto nei suoi pensieri. Si chiedeva il motivo,
per il
quale quella persona ignota, avesse speso quella cifra spropositata per
acquistarlo. Era bravo, ma non valeva tutto quell’oro. Non
sarebbe mai riuscito
a fargli recuperare tutto quel denaro. Si grattò
nervosamente tra i capelli
rossi; usava farlo solo quando era particolarmente pensieroso o nervoso.
Tutta
quella fiumana di gente che camminava per strada lo
disorientava. Era abituato alla folla, ma di
solito era ben distante sugli spalti. Raramente gli capitava di
camminare in
pieno giorno tra le persone affaccendate. Per lo più, le sue
uscite avvenivano
di notte, quando la città dormiva, per godersi quei pochi
attimi di pace e
serenità, che gli erano concessi. Lo seguì a
fatica tra gli stretti vicoli
della città; per essere un uomo di una certa età
si destreggiava molto
abilmente tra la gente. Ad un certo punto, lo vide fermarsi in una
viuzza poco
frequentata. Con un gesto della mano lo invitava ad avvicinarsi, mentre
con
l’altra faceva suonare il campanellino.
Si fermò
a pochi passi da lui.
«Che
fai li impalato?»
«È
inappropriato che uno schiavo si avvicini al suo padrone.»
«Tu
non sei un mio schiavo!»
«Mi
ha comprato ed ha il contratto che mi lega a lei. Sono il suo schiavo.»
«Questo?»
disse tirando fuori il volumen
dalla sacca in cui lo aveva messo. «Non esiste
più.»
Strappò la pergamena in diversi pezzi e gettò i
resti in una pozzanghera di urina,
lì vicina. «Sei un
uomo libero.»
«Ma
cosa ha fatto?! Non potrò mai restituirle tutto quel
denaro.»
«Quale
denaro?»
«I
cinquantamila scudi d’oro che i suoi servi hanno dato al mio
ex-schiavista.» E si girò ad indicarli ma, con sua
sorpresa, questi erano
spariti. «Erano qui fino a qualche attimo fa»
mormorò.
Lo
sconosciuto scoppiò a ridere.
«Chi
stavi cercando?»
«I
due uomini che fino a poco fa erano con noi.»
«Oh,
loro due! Li ho
liberati
dall’ipnosi
qualche attimo
fa, quando ho suonato la campanella che ho con me. Non
male come trucco, eh?»
«Non
sono qui per parlare di trucchi da quattro soldi. Chi sei?
Perché hai pagato tutta quella cifra
per me? Come farò a ripagarti? Lo ripeto, non ho
nulla.»
«Hai
ragione. Sono proprio un gran maleducato!
Piacere, mi chiamo Davven e
provengo del Regno di
Atlas;
ti cercavo da tempo, Ioan.»
«Hai
sbagliato persona. Mi chiamo Caesar.»
«Nessun
errore! Sei tu quello che cercavo. Per
rispondere alle altre
domande, non preoccuparti, non ho speso tutta quella cifra per
riscattarti. Mai
avuta tutta quella somma in
vita mia!»
«Ah
sì? E tutti quegli scudi d’oro?»
«Un’illusione
creata dall’uso ipnotico del
campanellino, un trucco davvero
banale. Sono del
tutto sicuro che il suo effetto sia già svanito.
Ci conviene dirigerci il più velocemente possibile verso il
porto, prima che il
vecchio ci sguinzagli contro tutte le guardie della città.
Una nave sta
aspettando il nostro arrivo.» Cominciò ad
incamminarsi, ma riuscì a fare a malapena pochi passi,
poiché Caesar lo afferrò
per il polso, bloccandolo.
«Spunti
dal nulla, mi compri, mi liberi, dici di
provenire da un regno che
dista migliaia di leghe da
qui, affermi che il mio vero nome sia Ioan e
pretendi anche che io ti segua?»
Davven
sospirò. Il ragazzo aveva pienamente ragione.
Avrebbe
voluto dirgli di più, spiegargli come stavano davvero le
cose; raccontargli
perché ci aveva impiegato tanto per trovarlo,
ma il tempo stringeva. A convalidare quel presentimento ci penso la
campana
della guardia cittadina. Il trucco era stato scoperto prima del previsto. Lo schiavista aveva
mosso tutte le sue leve politiche per far
recuperare il suo prezioso combattente.
«Hai
perfettamente ragione!
Ti devo un sacco di spiegazioni. Ora, hai due
possibilità: fidarti di me, seguirmi e, una
volta giunti sulla nave, farmi tutte le domande del caso; oppure, rimanere qui e
ritornare alla tua vecchia vita.
Sai bene che le leggi di questo regno proteggono quei bastardi, che
mercanteggiano in vite umane. A te la decisione.» E si
incamminò.
Ioan
lo guardò allontanarsi. Poi,
lentamente, mosse il primo passo; successivamente, quei passi si
trasformarono in corsa, permettendogli di raggiungere il misterioso Davven.
Percorsero, nel modo
più veloce possibile, quell’intrico di strade e
viuzze, per giungere al
più presto al porto. Un
discreto numero di guardie era appostato sulla banchina portuale.
Sfuggire
sarebbe stato difficile, ma non impossibile.
«Perché
non ricorri ad uno dei tuoi trucchi?»
«Non
posso.»
«Cosa
vuol dire che non puoi?»
«Il
campanellino ha un’efficacia limitata nel tempo.»
«Che
razza di illusionista
da quattro soldi! Non sei
nemmeno capace di replicare i tuoi trucchi!?»
Davven
lo guardò di traverso. Nerboruto ed
insolente; avrebbe faticato ad
insegnargli le buone maniere.
«È
complicato,
ti darò tutte le
spiegazioni al momento giusto.»
«Quindi?»
«Quindi
useremo altre strategie.»
Prese un barattolo dalla sacca e lo aprì.
«Tieni, spalmati questo
colorante su quei capelli fulvi che ti ritrovi. Un altro tratto
somatico meno
appariscente no, eh?» Ioan lo guardò di traverso
ed eseguì, controvoglia,
l’ordine.
Gli
passò un altro contenitore, con una
diversa mistura.
«È polvere di carbone, mista a
grasso animale;
cospargila sul viso.»
«Perché
tutto questo?»
«Guardati
bene intorno. Abis è conosciuta per
essere una città con
una forte vocazione mineraria.
Quindi, non è raro
vedere minatori al porto, specialmente quelli di carbone; ti confonderai come se
fossi uno di loro.
Prendi
questo
mantello logoro, avvolgiti bene e cerca di coprire il più
possibile la tua
corporatura. Imita una camminata claudicante. Vedi quella nave con la
vela
quadrata rossa? È il nostro obiettivo. Ora va!»
«E
tu?»
«Non
ti preoccupare per me!
Inventerò
qualcosa. Sei tu quello che
cercano.»
Ioan
si avviò verso la nave,
non era a più di duecento metri dal punto in cui
si trovava. Normalmente,
avrebbe coperto quella distanza in pochissimi minuti, ma ora doveva
essere più
attento. Un passo falso, un’azione sospetta, avrebbe
attirato l’attenzione di tutte le guardie lì
presenti. Cominciò ad avanzare zoppicando vistosamente,
sperando che la sua
pantomima fosse credibile.
Era
a metà del suo percorso, quando si sentì
appellare da due
guardie.
«Hey
zoppo, fermati!
Dobbiamo identificarti!»
Accelerò
la sua andatura.
«Hey,
stiamo dicendo a te!
Fermati, o ti
riduciamo ad un puntaspilli!»
Si
bloccò, erano solo in due. Sarebbe riuscito a metterli fuori dai giochi in poco
tempo. Poi avrebbe dovuto
correre; la nave era vicina, le possibilità di riuscita non
erano scarse.
I
soldati erano quasi nelle
sue prossimità,
quando un boato si propagò per tutto il porto. Una densa
cortina di fumo bianco si alzò dal deposito merci, posto alla sua destra, a
centocinquanta metri circa. Le sentinelle
distolsero l’attenzione da lui, per cominciare ad accorrere
sul posto.
Approfittò di quel trambusto per dirigersi, il
più velocemente possibile, verso
la sua meta. Era quasi arrivato, quando si vide affiancato da Davven.
«Piaciuto
il diversivo?»
«Sei
stato tu?»
«Sarò
pur scarso come illusionista, ma sono un alchimista niente male! Quelle che hai appena visto
sono
due mie creazioni: una bomba esplosiva e
una fumogena. Carine, eh?»
Ioan
sorrise, quel tipo cominciava a stargli simpatico.
Salirono
sulla nave. Appena misero piede sul ponte, la ciurma
cominciò ad effettuare tutte le operazioni necessarie, per permettere alla nave di staccarsi
dalla banchina. Il
bastimento lasciò
tranquillamente il porto.
Respirò a pieni
polmoni l’aria di mare, profumava di libertà.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo
IV
La
radura era silenziosa. Anche il sottobosco, che di solito
brulicava di vita, era stranamente muto. I pecci, dai robusti rami e
dai fitti
aghi, facevano filtrare con difficoltà la luce solare.
Acuì i suoi sensi,
l’unico suono che riuscì a percepire fu quello proveniente dalla cascata,
dislocata a qualche
centinaio di metri da lì. Avanzò lentamente,
facendo attenzione dove mettere i piedi, per fare meno rumore
possibile; non era sola e
non riusciva a scacciare quella sensazione opprimente. Si
appoggiò ad un tronco
e si mise a sedere, i lunghi e lisci capelli biondi le danzarono
davanti agli
occhi, li chiuse. Considerato che i suoi sensi
la stavano tradendo, avrebbe
ricorso ad altri
metodi. Le sue labbra si muovevano velocemente,
ma tutto quello che si poteva udire era soltanto un mormorio. Si
alzò in piedi
di scatto, le iridi che normalmente erano verdi, avevano assunto una
colorazione rosso scarlatto. Il suo intuito non si era sbagliato, tre
persone
erano con lei nella foresta, poteva chiaramente percepire il calore che
emanavano. La stavano circondando, impedendole
ogni via di fuga, l’unico modo per uscire di lì
era combattere. Estrasse una
spada corta dal
fodero, posizionato dietro la
sua schiena. Passò il palmo della mano destra sulla lama,
che assunse una
strana colorazione azzurra. All’ultimo secondo riuscì
a schivare una freccia, che si conficcò nel tronco
dell’albero, scartando verso
destra. Altre frecce sibilarono sopra la sua testa, mancandola di
diversi
centimetri. Corse a zig-zag nella radura alla ricerca di un riparo
sicuro;
aveva bisogno di pensare qualche secondo con calma, per elaborare una
strategia
vincente. L’obiettivo dei suoi nemici era chiaro, attaccarla
da lontano per
stanarla e stancarla. Trovò rifugio dietro una roccia
abbastanza grande, che
offriva una discreta protezione. Si guardò rapidamente
intorno, per cercare di
capire come sfruttare al meglio l’ambiente circostante.
Notò che sul terreno il
fitto fogliame era ancora verde; difficilmente
avrebbe preso fuoco, ma
le sarebbe ritornato
sempre utile come diversivo. Sui polpastrelli della mano destra fece comparire delle piccole
fiammelle e cominciò a
lanciarle sulle foglie. Il piano stava funzionando; una leggera cortina di fumo
cominciava ad innalzarsi.
Continuò
finché non
divenne abbastanza densa da nascondere ogni suo movimento. Grazie
all’incantesimo
precedente, riusciva chiaramente a distinguere i suoi nemici attraverso
quella
fitta nebbia artificiale;
ora era lei in
posizione di vantaggio. Si diresse velocemente verso quello che le era
più
vicino e lo mandò al tappeto con un colpo alla nuca. La
stessa sorte toccò al
secondo, che stramazzò al suolo senza neanche accorgersi da
dove provenisse
l’attacco. Sorrise;
l’ultimo e sarebbe stata
libera di proseguire il suo cammino. Era quasi giunta alle sue spalle, stava per sferrare
il colpo decisivo
quando, all’improvviso, il suo obiettivo svanì. Si
girò
attorno guardinga. Come era possibile?
Era davanti a lei fino a qualche secondo prima.
Sentì qualcosa sibilare alle
sue spalle; fece
in tempo a scartare verso
sinistra, prima che una lama la colpisse. Ma, non fu sufficientemente
rapida; un taglio
profondo si formò sotto il suo zigomo destro,
mentre una ciocca di capelli biondi cadeva al suolo. Si
soffermò ad osservare
il suo avversario:
non era un bandito
qualsiasi, anche lui era capace di usare la magia elementale, per
incantare le
armi o per lanciare incantesimi. Non era un nemico da sottovalutare; se lo avesse fatto probabilmente
avrebbe avuto la peggio.
Appoggiò
la mano destra al suolo, pronunciò una formula magica ed
iniziò ad estrarre dal terreno uno scudo. Non
era abbastanza grande da proteggerla completamente; ma, doveva centellinare le sue
energie, non sapeva cosa lo
sconosciuto fosse capace di fare. Schivò agilmente la
sfera di fuoco che il suo
nemico aveva lanciato; con la coda
dell’occhio, notò che aveva finito la sua corsa
contro un tronco
d’albero,
incenerendolo all’istante. Deglutì rumorosamente. Quell’uomo non scherzava, era
lì per
ucciderla, ma una domanda rimbombava nella sua testa:
perché? Non lo aveva mai
visto in vita sua, non che avesse stretto chissà quali
grandi rapporti nei suoi
diciott’anni di vita; quindi, perché tutto
quell’astio immotivato? Lo vide sparire nuovamente.
Sentì un fruscio di foglie
alle sue spalle; questa volta non si sarebbe fatta cogliere impreparata. Parò il fendente con la
sua piccola lama e approfittò di quell’apertura
per cercare di colpirlo con la
scudo al fianco, ma si rivelò una mossa inutile;
l’uomo fu più rapido di lei,
la spedì al suolo, facendola prima volare per diversi metri,
grazie ad una
folata di vento che aveva generato con la sua mano libera. Si
alzò di scatto,
ripulendosi da tutto il fogliame che le era rimasto addosso. Era
decisamente un
osso duro. L’aveva ferita e spedita al tappeto
nell’arco di pochi minuti e lei non era riuscita minimamente
a scalfirlo.
Sapeva combattere e usare la magia, proprio come lei; ma, al contrario
suo,
sembrava molto più abituato agli scontri. Far durare troppo
quel duello per lei
avrebbe significato
solo una cosa: una
sconfitta assicurata. Doveva chiudere al più presto quella
storia, se voleva
avere qualche possibilità di uscire viva da quello
scontro. Si guardò
nuovamente attorno;
non vi era nessun posto dove ripararsi in caso di un
attacco diretto, poteva far affidamento solo sulle sue
capacità. Gettò
lo scudo a terra, contro
la magia le
sarebbe servito ben poco, poiché
si sarebbe frantumato al primo
attacco. Lo scrutò
attentamente, pronta a cogliere ogni suo minimo movimento; ma, il suo avversario sembrava
impassibile, era impossibile cercare di capire cosa stesse pensando.
Provò a
sondare i suoi pensieri, ma il suo attacco mentale venne respinto; anzi, a stento riuscì ad
evitare il suo contrattacco. Era
dannatamente abile, ora non vi era più alcun dubbio.
Provò a lanciare una sfera
di fuoco, ma venne prontamente annullata da un muro d’acqua
evocato dal suo
nemico. Erano in stallo, si equivalevano. L’unico
modo per uscire
da quell’impasse era
escogitare qualcosa di diverso. Si guardò meglio attorno, le
lunghe ombre degli
alberi le fecero venire in mente un’idea. Considerato che si eguagliavano
nell’uso della magia,
si sarebbe giocata il tutto per tutto con il
combattimento corpo a corpo. I colpi che si scambiarono furono rapidi e
precisi. Attaccavano e paravano senza una soluzione di
continuità,
equivalendosi in ogni colpo. Ma, lo sforzo fisico a cui si stava
sottoponendo,
le stava rapidamente prosciugando le energie;
ed infatti la sua gamba destra la tradì. Aveva ceduto,
mentre cercava di parare
l’ennesimo fendente del suo avversario. Si ritrovò
distesa a terra, inerme,
alla mercé del suo aguzzino. Batté frustrata il
palmo della mano sinistra al
suolo. Vide la lama nemica
avvicinarsi
pericolosamente alla sua gola, per poi fermarsi, repentinamente, a
pochi
centimetri da sé. Sorrise, il suo piano aveva funzionato.
Era caduta
nell’esatto punto in cui l’ombra era più
fitta;
evocare un demone ombra, da una base di partenza ottimale
come quella, quando aveva colpito il terreno con la mano, era stato un
gioco da
ragazzi. Vedeva la sua evocazione ghermire la gola del nemico con un
pugnale
nero, pronto a colpire al suo ordine. Stava per dare il comando, quando
una
voce familiare la bloccò.
«Basta
così!»
«Papà?!»
Disse incredula.
«Eir,
sei
diventata proprio forte!»
«Papà,
mi spieghi cosa diavolo succede?»
«Testavamo
le tue capacità.» Rispose il misterioso nemico,
che
lentamente cominciò ad assumere le sembianze di una donna.
«Mamma?!
Prima che perda la pazienza, mi spiegate cosa vi è
saltato in mente?»
«Vieni»
disse l’uomo, porgendole
una mano per aiutarla a rimettersi in piedi «come ha detto
mamma, testavamo le
tue capacità. Sei una maga incredibile figlia mia. A soli
diciotto anni, ci hai
già eguagliato in capacità e potenza
Eir.»
«Non
sto capendo?!»
«Sei
pronta per il mondo, figlia mia.»
Disse la donna
accarezzandole il viso. «Tenerti per sempre
in questa foresta sarebbe uno spreco. Ti aspettano tante cose
lì fuori.»
«Non
è vero! Io sto bene qui,
con voi.»
«Non
dire bugie. Lo senti anche tu il richiamo del mondo. Anche se
non hai il coraggio di dircelo, capiamo chiaramente che hai voglia di
vedere
ciò che ti abbiamo raccontato.»
«Ma
io…»
«Non
è un male, tesoro.» Intervenne il padre
«Vuol dire che sei
cresciuta, sei diventata forte ed indipendente, oltre che una
bellissima
donna.»
«Balle! Voi volete solo allontanarmi da casa!»
«Stai
diventando irragionevole Eir, sai benissimo che non è
così!»
«Dove
andrò? Con chi?»
«Dovrai
scoprirlo da sola figliola. Il destino è nelle tue
mani.»
«Ma
sarò da sola!»
«Sei
stata sola per troppo tempo. Sempre qui, in questa foresta
dove sei nata, nascosta da tutto e da tutti. No Eir, meriti di meglio.
Lo sai, lo senti.»
«Ma
vi lascerei qui da soli…»
«No»,
rispose la madre «anche noi andremo via. Siamo stati qui a
lungo, ma lo abbiamo fatto per il tuo bene.
È tempo di andare anche
per noi, abbiamo la nostra strada da percorrere.»
«Tutto
così, all’improvviso, non è giusto, non
sono pronta!» Disse
la ragazza, sull’orlo delle lacrime.
«La
vita non è mai giusta, abbiamo noi il compito di renderla
tale. Andiamo, è tempo.»
La
ragazza annuì con la
testa, sconsolata. Sapeva che
i suoi genitori avevano
ragione. Era rimasta troppo a lungo in quel luogo a soffrire la solitudine, a non
sapere cosa si prova nel giocare con
altri bambini, a non conoscere il significato della parola amicizia.
Sapeva fosse
arrivato il momento di andare, di sperimentare nuove cose,
eppure non riusciva a non provare una punta di paura. Eir,
la regina del
bosco, la padrona degli animali, la domatrice degli elementi naturali,
era
terrorizzata all’idea di lasciare definitivamente la radura,
la sua casa per
diciotto lunghi anni. Si avviò lentamente verso
l’abitazione, soffermandosi ad
osservare e memorizzare ogni piccolo frammento di quel suo minuscolo
mondo.
L’avrebbe portato nella sua mente e nel suo cuore ovunque
fosse andata; non le importava
quanto il destino e le sue gambe l’avrebbero portata lontano,
quel posto
sarebbe stato sempre la sua oasi felice.
Cominciò
a preparare il suo bagaglio. Voleva viaggiare leggera, delle scorte di
viveri e
qualche ricambio di vestiti andavano più che bene, al resto
ci avrebbe pensato
la magia. Sapeva molto bene di non poterne fare un largo uso al di
fuori del
bosco. Chi non era capace di manipolare la forma della natura, poteva
fraintendere l’uso di tale capacità e potere, nel
migliore dei casi; nel peggiore,
avrebbe potuto incarcerarla e sottoporla a chissà quale
tortura o addirittura
ucciderla. I suoi genitori erano stati molto chiari su quel punto di
vista: mai
mostrare apertamente i poteri ed i prodigi di cui era capace. Non
comprendeva
ancora appieno le
motivazioni, ma era
sicura che avevano le loro buone ragioni ed aveva la vaga impressione
che
presto, quando avrebbe vagato per i vari regni umani, le sarebbe stato
tutto
molto più chiaro. Gettò un ultimo sguardo alla
sua stanza. Si soffermò sui giochi
che aveva usato durante tutta la sua infanzia, costruiti a mano dai
suoi
genitori, senza alcun ausilio della magia. Lanciò un
incantesimo su tutti loro;
non voleva che il tempo o la polvere li rovinassero, sarebbe ritornata
a
prenderli non appena ne avrebbe avuto
l’opportunità. Discese le scale, cercando
di cogliere ogni piccolo particolare dell’abitazione; se solo
avesse potuto
farlo, l’avrebbe portata via con sé, ma
ciò non era possibile. Vide che i
genitori l’aspettavano vicino la porta, già
carichi dei loro zaini. Percorrere
quei pochissimi metri le fu difficile, ma si impose di essere forte.
Doveva dar
prova di essere tenace, caparbia, risoluta, capace di tener testa alle
difficoltà della vita; non poteva lasciarsi andare per una
cosa del genere.
«Pronta?»
Disse Astrid.
Annuì
leggermente con la testa.
«Vedrai
figliola, il mondo che ti attende, i regni dei senza magia, sono posti
fantastici. Nonostante non siano capaci di manipolare le diverse forme
della
natura o piegarle al loro volere, sono capaci di cose straordinarie.
Quando ci
rivedremo, ripenserai a questo momento con un sorriso.»
«Dici,
papà?»
«Ne
sono fermamente convinto!»
«Però…»
«Però…»
Continuò la madre.
«Io
non sono mai stata sola! E la cosa mi spaventa.»
«E
non lo sarai mai. Tieni.» Le mise al collo una collanina con
un pendente: il
castone era a forma di due ali d’oro spiegate, su cui era
montata una gemma
rossa che emanava baluginii. «In questa pietra, io e mamma
abbiamo immesso un
po’ della nostra essenza vitale e magica. Ti saremo sempre
accanto, ovunque tu
vada. Non ti lasceremo mai sola. Ora va, il mondo ti attende e sono
sicuro che
lì fuori troverai tanti amici.»
Li
abbracciò forte. Non poté impedire ad alcune
lacrime di sgorgare. Aveva la
convinzione, anzi sapeva, che li avrebbe rivisti nel suo girovagare per
il
mondo alla ricerca di uno scopo, della sua realizzazione; ma, in quel
momento,
quella separazione le faceva molto male. Si staccò a
malincuore ed intraprese
il viale che l’avrebbe portata verso nuove esperienze.
«Non
piangere figlia mia. Non è un addio, non è la
fine.»
Fridrick
e Astrid rimasero a guardare Eir che andava via, finché non
divenne un piccolo
puntino all’orizzonte.
«La
rivedremo mai?» Chiese la donna.
«Non
lo so, ci spero però.»
«Il
mondo è un posto orribile, sono sicura che lo
scoprirà a sue spese. Mi
preoccupa lasciarla sola.»
«Eir
è molto più forte e furba di ciò che
sembra, se la caverà egregiamente. Lei è
destinata a grandi cose, me lo sento, lo so.»
«E
noi?»
«Noi?
Abbiamo una missione da compiere e il dovere di andare alla ricerca dei
nostri
amici, che sono sopravvissuti all’attacco di diciotto anni
fa…ammesso che ce ne
siano.»
Mise
una mano sulla spalla della donna, per incoraggiarla.
«È tempo di andare.»
«Ci
aspetta una impresa impossibile. Noi due contro un impero.»
«Lo
so. Ma abbiamo il dovere di provarci.»
«Hai
ragione.»
«E
sono sicuro che Eir si rivelerà fondamentale anche per la
nostra missione.
Andiamo!»
Chiusero
la porta di quella modesta ma accogliente casa in legno e pietra, nata
dal
nulla nel bosco, diciott’anni addietro. Lanciarono su di essa
un incantesimo di
protezione, in modo tale da non essere trovata o scalfita da nessuno.
Si
avviarono anche loro lungo il viale che li avrebbe condotti verso la
meta.
Molto presto, l’intero mondo avrebbe saputo che i maghi erano
tornati. Più
potenti e determinati che mai.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo V
Una
densa nuvola di fumo nero si alzava all’orizzonte. Il mago
guardò i suoi amici,
come al solito erano in ritardo, mai che riuscissero ad anticipare
quell’orda
famelica e distruttrice. Accarezzò la nuca del cavallo; la
morbida criniera, al
tatto, gli donava sempre una sensazione di tranquillità,
emozione che non
riusciva più a provare da tempo. Aveva perso il conto delle
ore trascorse in viaggio,
per tutto il continente di Thaurus; era molto stanco, ma non poteva
cedere,
aveva una missione da compiere; si sarebbe riposato solo dopo aver
messo fine
alle sofferenze della popolazione di quel continente. Guardò
i suoi amici per
infondere loro un po’ di coraggio. Per un attimo si
sentì un codardo, un
traditore nei confronti della fiducia che riponevano in lui; non aveva
molte
speranze per sé stesso, eppure voleva donarla agli altri. Un
ipocrita, ecco
come si sentiva; ma era l’unica strada percorribile,
l’unico modo che conosceva
per tirare avanti, per avere la forza di alzarsi dal giaciglio appena
il giorno
sorgeva, per continuare ancora a guardarsi allo specchio. Dopotutto,
lui era il
capo della gilda dei maghi, gli esseri più potenti di
Thaurus e dell’intero
mondo di Staras; e allora, perché non riuscivano a mettere
fine a quei massacri
gratuiti, perpetrati dalle forze del male? Perché gli uomini
continuavano a
soccombere, dinnanzi a quella soverchiante brutalità?
Perché non riuscivano a
contrastare quelle orde di mostri? Erano domande a cui avrebbe voluto
dare una
risposta, ma la verità era che non ne aveva, e lui,
dannazione, doveva
conoscere quelle fottutissime risposte.
Strattonò
irritato le redini ed impartì al cavallo l’ordine
di andare al trotto,
dopotutto il villaggio non doveva essere molto distante. Durante la
cavalcata
nessuno dei tre uomini osò fiatare, troppo concentrati nel
pensare a come porre
rimedio a quella situazione. Si guardavano costantemente intorno per
captare
eventuali pericoli in arrivo, ma nulla si muoveva, sembrava di
camminare tra la
morte. La campagna intorno a loro era priva di ogni rumore e la leggera
nebbia
rendeva ancora più angustiante quel paesaggio.
Hatrim
guardò incuriosito il cippo miliare che era posto al margine
della strada,
l’iscrizione riportava la distanza da percorrere per giungere
al villaggio di
Fels. Due chilometri, sarebbero arrivati lì nel giro di
un’ora, se avessero
continuato a mantenere quell’andatura; non avevano la
necessità di accelerare,
ormai era troppo tardi, come spesso accadeva negli ultimi tempi;
inoltre,
avrebbero rischiato di affaticare i cavalli inutilmente.
L’acre
odore del fumo, ora, era chiaramente percepibile e non faceva presagire
nulla
di buono. Quando furono vicini alla palizzata del villaggio, i loro
presentimenti furono ampiamente confermati; la recinzione difensiva era
divelta
in più punti e, dove una volta era collocata la porta
d’ingresso, ora vi era
solo un enorme cratere. Un vento leggero trasportava la cenere ovunque
e, delicatamente,
la faceva posare tra i loro capelli, come neve. Percorsero lentamente
il
perimetro difensivo, per cercare un agile punto di ingresso per le loro
cavalcature, lo trovarono nella parte più ad oriente. La
palizzata era stata
completamente distrutta, l’unica traccia della sua
preesistenza erano gli
enormi fori, che in precedenza ospitavano i giganteschi pali appuntiti.
Legarono i cavalli ad un moncone di ferro che spuntava dal terreno,
unico
superstite della furia distruttiva che aveva travolto quella parte del
borgo.
Non trovarono una sola casa integra sul loro cammino, erano state tutte
incendiate, rimanevano solo gli scheletri lignei, oramai carbonizzati e
prossimi al disfacimento. Si diressero verso il centro di quella
piccola
cittadina e quello che temevano di trovare si parò dinnanzi
ai loro occhi:
centinaia di corpi orrendamente dilaniati erano accatastati su quella
che
doveva essere stata la piazza cittadina. Non avevano risparmiato
nessuno, come
sempre; per quei maledetti mostri donne, uomini o bambini non avevano
nessun
valore, erano solo esseri da trucidare nel peggior modo possibile. Si
divertivano a strappare con i loro denti aguzzi gli arti delle persone,
o a
dilaniare con i loro artigli i corpi; traevano piacere dalla sofferenza
che impartivano,
dalla lenta agonia a cui condannavano le loro prede. Orride creature
della
notte, nate dalla mente oscura e potente del Leviatano, che si
divertivano ad
assaltare villaggi in gruppo.
Un
verso proveniente dal retro del pozzo, situato al margine orientale
dello
spiazzo, mise in allerta i tre uomini. Hatrim fece cenno ai due amici
di
rimanere dietro di lui; le loro espressioni erano contrariate per
quell’ordine
che consideravano scellerato, dato che lui era il mago più
potente della gilda
e non si potevano permettere di farlo rischiare. Ma lui era stato
inamovibile,
sarebbe andato in avanscoperta per vedere da cosa e da dove provenisse
quel
guaito.
Mormorò
alcune parole ed una leggera aura color ametista circondò
tutto il corpo;
qualsiasi cosa avesse cercato di colpirlo, sarebbe stata distrutta al
contatto
con quella barriera. Tenere su quella difesa gli costava parecchie
energie, ma
nel breve periodo era capace di sopportare quella fatica. Mentre si
avvicinava
cautamente al pozzo, i lamenti si accentuavano sempre più;
sicuramente non
appartenevano ad un essere umano, il suono era troppo gutturale,
ricordava più
il verso di un animale ferito. Quando finalmente riuscì a
vedere di cosa si
trattasse, rimase senza fiato, era un’Empas. La ferita non
era grave, ma gli
impediva di muoversi; infatti, la lancia che le trapassava la spalla,
la
costringeva a restare seduta immobile contro la parete del pozzo. I
grandi
occhi neri sporgenti, che mal si adattavano al viso tondo e piccolo,
guardavano
pieni di odio il mago; anche il ritmo della respirazione
aumentò
vertiginosamente, infatti dal naso largo e schiacciato provenivano
suoni che
sottolineavano questo stato. I peli intorno alle orecchie si rizzarono.
La
pelle squamosa virò da una tonalità verde chiaro
ad uno scuro, quasi marrone. I
muscoli delle gambe e delle braccia, molto simili agli arti umani, si
gonfiarono; ma ogni sforzo fu vano, non riusciva a muoversi. Era
incredulo, non
aveva mai avuto la fortuna di catturare un esemplare vivo, una volta
tanto il fato
era dalla sua parte. Chiamò a gran voce i suoi amici, che
accorsero
velocemente.
Alla
vista di quei tre uomini il nervosismo della creatura
aumentò sempre più; provò
a divincolarsi, ma la lancia non si spostava di un millimetro.
Cercò di
colpirli con i suoi artigli bronzei, ma i tre si erano posizionati
oltre il
raggio di azione del braccio squamoso.
«Questo
sì che è un colpo di fortuna!»
Esordì Hatrim.
«Perché
dovrebbe esserlo?»
«Non
capisci, Ceutes? Finalmente abbiamo la possibilità di capire
i punti deboli di
questa creatura! Fino ad ora molte delle nostre magie si sono rivelate
inefficaci; se riuscissimo a capirne la natura, potremmo trovare il
modo di
contrastarle più efficacemente.»
«E
dici che basterebbe?» Chiese Teucos.
«La
verità? Non lo so! Però, se grazie ai nostri
esperimenti e alle nostre magie
riusciremo a salvare un solo uomo in più, vorrebbe dire che
ne sarà valsa la
pena.»
«Come
intendi trasportarlo? Le normali sbarre di ferro riescono a malapena a
contenere la sua forza brutale.» Rispose Ceutes.
«Le
rinforzeremo con la magia. Fino ad ora le nostre barriere hanno retto
alla loro
furia.»
«Si,
ma mai per molto!»
«Hai
ragione Teucos. Ma dovevamo sempre erigere una barriera che proteggesse
un
intero villaggio da un'orda di Empas. Questa volta è
diverso, è ferita e siamo
in tre. Possiamo farcela, abbiate fiducia nelle vostre
capacità. Inoltre,
Sieran è solo a cinque giorni di viaggio da questo posto.
Possiamo farcela,
dobbiamo farcela, altrimenti non meritiamo il titolo di mago che
sfoggiamo con
onore.»
I
due maghi si guardarono negli occhi, Hatrim aveva ragione, era compito
loro
mettere fine a quelle incursioni che avevano gettato nel terrore il
continente
di Thaurus. Da quando il Leviatano era comparso, portando con
sé quelle
creature, tutto era andato sotto sopra. Passarono al setaccio quel
villaggio
per trovare del materiale ferroso; erano maghi, ma non potevano creare
una gabbia
di ferro dal nulla o senza una base di partenza. Per quanto fossero
abili nel
manipolare la forma della natura, non erano al di sopra delle leggi di
quest’ultima; erano capaci di trasformare a loro piacimento,
ma non di creare o
distruggere; senza ferro a sufficienza, la gabbia che avrebbero creato
sarebbe
risultata debole.
Mentre
cercavano, si ritrovarono a pensare a quanto fossero stati fortunati ad
avere
Hatrim a capo della loro comunità; non era solamente il mago
più potente che ci
fosse in circolazione, era anche un leader. Era solito stare poco tempo
nel suo
ufficio, gli piaceva partecipare alle missioni, ed era sempre in prima
linea in
caso di pericolo; non si limitava ad impartire gli ordini, era il primo
ad
eseguirli. Era il loro esempio, la loro guida, la persona che li
spingeva
costantemente a migliorarsi. Se non ci fosse stato lui, probabilmente
si
sarebbero arresi molto tempo addietro, alla furia distruttrice di quel
mostro.
Quando ebbero materiale a sufficienza, con una magia costruirono una
gabbia
abbastanza robusta per la loro preda.
Videro
Hatrim applicare una serie di sigilli che non gli avevano mai visto
fare prima,
probabilmente erano una sua nuova invenzione. Poi lo videro mormorare
una
formula magica, che fece addormentare l’Empas; rimasero
sbalorditi nel
constatare che avesse fatto quella operazione delicata, con tanta
semplicità.
Gli diedero una mano nell’estrarre la lancia dalla spalla del
mostro e poi nel
tamponare la ferita. Poi, cautamente, la misero nella gabbia. La parte
più difficile
dell’operazione era andata a buon fine, senza nessun intoppo.
Misero il loro
bottino sul carro, che Hatrim aveva evocato, e partirono subito alla
volta di
Sieran, non avevano un solo minuto da perdere.
Hatrim
batté furioso i pugni sul tavolo, settimane di esperimenti e
nessun risultato
tangibile tra le mani. In un impeto di rabbia gettò tutti i
documenti e tutti
gli strumenti presenti sul tavolo del laboratorio a terra. Un urlo di
rabbia
sgorgò dalla sua bocca. Uscì dalla stanza
furente, come mai lo era stato in
vita sua. Tutte le speranze che aveva riposto in quelle settimane di
studio,
erano state tutte vanificate dal fallimento dei suoi esperimenti
sull’Empas. I
risultati che aveva ottenuto erano quelli già noti. Fuoco,
acqua, elettricità ed
armi riuscivano a ferire la creatura,
potevano anche ucciderla, ma comportava un dispendio enorme di energie.
Occorrevano due maghi abbastanza potenti per poter ferire gravemente
quel
mostro o una decina di uomini ben addestrati, per poterle tenere testa;
non
aveva avuto una sola novità dalle sue sperimentazioni, erano
tutte cose che già
sapeva; anzi, un risultato lo aveva ottenuto: aveva constatato, con i
suoi
occhi, la velocità con cui si rigeneravano i tessuti
danneggiati. Nel giro di
una notte, l’Empas era capace di curare tutte le sue ferite;
otto ore ed era
come nuovo, come se nessun oggetto o magia avesse mai scalfito la sua
pelle
squamosa.
Si
diresse verso le celle dove era incarcerata. La nuova barriera che
aveva
concepito si stava dimostrando molto efficace, durante quelle settimane
di
prigionia non era stata minimamente scalfita dalla creatura magica.
Controllò i
sigilli, erano ancora in ottimo stato, non era necessario sostituirli o
rigenerarli. Osservò la creatura che se ne stava tranquilla
in un angolo della
cella, era rannicchiata su sé stessa e grattava, con i suoi
artigli bronzei, il
pavimento in granito. Appena lo vide scattò in piedi e
provò a saltargli
addosso, ma la barriera la respinse al suolo, stordendola. Hatrim
rimase
impassibile a quello spettacolo: lo aveva visto mettere in atto diverse
volte,
durante quelle settimane; qualche secondo e la bestia sarebbe ritornata
in
piedi, come se nulla fosse accaduto. Osservò con attenzione
il punto illuminato
dal fascio di luce, che entrava dalla grata; potè notare che
la pelle non si
era cicatrizzata perfettamente nel punto dove, qualche settimana prima,
la
lancia l’aveva colpita. La colorazione non era del solito
color verde che
virava verso il marrone, ma era sfumata di una tonalità
più chiara. Come aveva
fatto a non notarlo prima? Era tentato ad avvicinarsi di
più, ma preferì
rimanere dov’era, la creatura si sarebbe ripresa in qualche
attimo. La vide
alzarsi più agguerrita che mai; il suo sguardo trasudava
odio. Se fosse stata
libera sicuramente lo avrebbe assaltato, per dilaniarlo con i suoi
artigli e
straziato la sua carne con i suoi denti aguzzi.
Ritornò
velocemente nel suo ufficio e prese la sacca che aveva con
sé quel giorno,
prese la punta della lancia e cominciò ad esaminarla. Ad
occhio non notava
nulla di strano, era una comunissima lama in bronzo, finemente
lavorata. Il
fabbro che l’aveva forgiata sapeva ben fare il suo lavoro,
considerato che non
vi era nessuna crepa sulla superficie. La poggiò sul bancone
e mormorò una
formula. Il puntale iniziò a librarsi in aria, dapprima
lentamente, poi
cominciò a vorticare sempre più velocemente,
finché non ci fu una piccola
esplosione; diverse sfere caddero pesantemente sul bancone, erano i
diversi
elementi di cui era composta la lega bronzea. Lo stagno e lo zinco
erano i
metalli più presenti, vi era anche qualche traccia di piombo
ed arsenico; ma,
il suo sguardo si posò su una microscopica sferetta, che si
era depositata tra
le venature del legno del tavolo. La prese con una pinzetta e
l’avvicinò per
osservarla meglio, ossidiana. Cosa ci faceva all’interno
della lega? Non era un
componente che di solito si usava per forgiarla. Poteva essere lei il
motivo
della non perfetta cicatrizzazione della ferita? Si spostò
verso l’armadietto
per trovarne un pezzo di dimensioni maggiori; lo trovò nella
parte più in
basso, lo prese e lanciò una magia per dargli la forma che
desiderava.
Si
precipitò verso le celle, voleva subito mettere a frutto
quella pazza idea che
gli era venuta in mente. Si ritrovò nuovamente di fronte
all’Empas; rigirò
nella sua mando destra, diverse volte, quella specie di spada in
ossidiana che
aveva creato; ora che era dinnanzi al suo nemico titubava.
Inspirò
profondamente, dissolse la barriera, portò una mano davanti
a sé ed immobilizzò
al muro l’orrida creatura. Entrò nella cella. Gli
sudavano le mani per la
tensione, perchè non aveva mai usato una lama prima
d’ora. Ripensò per un
attimo a tutte le vittime di quella creatura e l’istinto ebbe
la meglio, colpì
il braccio con tutta la forza che aveva; un profondo squarcio si
aprì lungo la
parte superiore dell’arto, facendo intravedere
l’osso, non lesionando nessun
nervo. Una chiazza di sangue viola si spandeva sul granito della cella,
mentre
il mostro urlava dal dolore. Hatrim uscì dalla segreta,
ripristinò la barriera
e sciolse l’incantesimo di blocco. Lentamente si
trascinò verso la sua camera,
non si sentiva meglio della creatura che aveva appena colpito.
Il
mago si svegliò di soprassalto, quanto tempo aveva dormito?
Guardò verso la
finestra, dalla luce che entrava, ipotizzò che doveva essere
mattino inoltrato.
Dopo gli avvenimenti dell’ultimo giorno, prendere sonno si
era dimostrata
un’impresa. Si vestì pigramente, non aveva molta
voglia di fare alcunché quel
giorno, ma sapeva che non era possibile. Si diresse controvoglia verso
la
cella, il gesto compiuto la sera prima lo perseguitava ancora; si
impose di non
pensare, aveva fatto quell’azione per il bene
dell’umanità, cercò di
convincersi di questo. Aprì il pesante portone di acciaio
che portava alle
prigioni e discese i gradini. La barriera era ancora al suo posto ed
intatta;
trovò l’Empas sempre nel solito angolo, intenta
come al solito a grattare il
pavimento. Tirò un sospiro di sollievo, mentre il senso di
colpa divenne un po’
più leggero. La creatura magica lo
guardò
di traverso con i suoi due enormi occhi grigi, evitando di avvicinarsi
troppo
alle sbarre, memore di ciò che era successo il giorno prima.
Hatrim la guardò
attentamente, la cicatrice sul braccio destro era ben visibile; la sua
intuizione si era rivelata giusta, l’ossidiana poteva causare
molti più danni
di un’arma comune. Osservò l’Empas,
qualcosa non gli tornava; acuì lo sguardo e
finalmente riuscì a comprendere. Il braccio da lui colpito
era paralizzato, il
mostro non riusciva più a muoverlo. Un sorriso si fece largo
sul viso. Era
riuscito finalmente a trovare qualcosa che fermasse quelle dannate
creature.
Uscì da quell’angusto luogo di corsa, doveva
riferire quello che aveva appreso
al resto dei maghi. Finalmente potevano armare gli uomini; questo gli
avrebbe
consentito di guadagnare tempo, per poter terminare in tutta calma gli
studi
che stava portando avanti, per poter sconfiggere definitivamente il
Leviatano.
La fine di quella guerra era vicina, era uno dei più bei
giorni della sua
vita.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo VI
Era
in cammino da diversi giorni; in tutto quel tempo non aveva incontrato
molte
persone sul sentiero che stava percorrendo, soltanto qualche viandante
o
commerciante. Si era fermata in qualche piccolo e povero villaggio tra
i
boschi; lì aveva incontrato gente onesta e perbene, che
l’aveva accolta
volentieri nonostante la scarsità dei mezzi. Piccole oasi di
felicità nel mezzo
del nulla, poi nient’altro di eclatante.
Suo
padre aveva ragione: il mondo fuori dalla foresta, dove avevano sempre
vissuto,
era diverso; ma, non riusciva a trovarlo migliore o più
interessante. L’unica
cosa che l’aveva stupita in positivo, era l’enorme
quantità di vegetazione e di
fauna che aveva potuto osservare. Aveva letto di quelle cose soltanto
sui libri
dei suoi genitori, ma vederle dal vivo era tutt’altra storia:
i profumi che
emanavano, i colori che avevano, la morbidezza che si poteva percepire
al
tatto, nessun libro, per quanto accurato e dettagliato, poteva
eguagliare o
restituire. Era rimasta ore incantata ad osservare quelle meraviglie
della
natura e altrettanto tempo aveva speso a chiedersi sul
perché gli uomini non si
soffermassero a godere di quello spettacolo. Aveva provato a chiederlo,
nella
sua ingenuità, ma come risposta aveva ricevuto solo qualche
grugnito, nel
migliore dei casi. Infatti, alla compagnia di quei pochi sparuti umani
che
aveva incrociato sulla strada maestra, aveva preferito quelle degli
abitanti
del bosco. Cervi, pettirossi, donnole, volpi, ricci e marmotte le
avevano
tenuto compagnia durante il giorno, mentre gufi, civette, barbagianni e
lupi,
la notte. Nei momenti di sconforto, quando la mancanza dei suoi
genitori si
faceva sentire maggiormente, stringeva nel palmo della mano destra il
pendente
che le avevano regalato e subito si sentiva rincuorata.
Avanzando,
osservò che il paesaggio intorno a sé cominciava
a cambiare aspetto, gli alberi
si facevano sempre più radi e la natura sempre
più silenziosa. Nuovi suoni
giungevano alle sue orecchie: meno armoniosi, meno carichi di gioia e
di voglia
di vivere. Ora, dei rumori metallici
erano preponderanti, seguiti dal legno che scricchiolava
sotto il peso
di chissà cosa e di liquidi che venivano versati in enormi
contenitori di
terracotta. Nonostante il suo udito l’avesse vagamente
preparata, non riuscì a
non rimanere sbigottita nel vedere di cosa effettivamente si trattasse.
Rimase
sbalordita nell’osservare un mulino ad acqua; ora le era
chiaro perché il legno
facesse quello strano rumore. Notò, con suo immenso stupore,
che il corso del
fiume era stato deviato per permettere al meccanismo di funzionare. Era
affascinata ed atterrita allo stesso tempo. Apprezzava ciò
che l’ingegno umano
era riuscito a creare, come aveva plasmato e piegato una porzione della
natura
per i propri scopi; era sgomenta, perché diverse piante ed
animali erano stati
sacrificati per quel benessere. Fece vagare lo sguardo attorno per
curiosare
fra le varie attività che popolavano quel luogo. Vide fornai
e panettieri
all’opera, bottai che approntavano botti che, molto presto,
avrebbero contenuto
al loro interno del prezioso vino. Più in lontananza, vide
un fabbro intento
nel martellare dei ferri di cavallo su un’incudine, mentre il
suo apprendista
si dava da fare con il mantice per ravvivare il fuoco. Alla sua
sinistra
sorgeva una vetreria; osservò con interesse i vari operai
darsi da fare intorno
all’enorme fornace, che aveva ben quattro bocche.
Esaminò con attenzione i
giovani apprendisti maneggiare la fritta e metterla a riscaldare nel
primo
forno e, nel mentre, ascoltare il loro maestro che li istruiva sulle
successive
fasi lavorative. Cominciò a camminare per quello che doveva
essere il quartiere
produttivo della cittadina, che si apprestava a raggiungere. Prima che
si
potesse fermare a chiedere indicazioni, il suo olfatto fu attratto da
un odore
acre, pungente; seguì quella scia per poter capire di cosa
si trattasse.
Quando,
finalmente, riuscì a districarsi da quell’intrico
di stradine, seguendo
quell’odore che diventava sempre più persistente
ad ogni passo che faceva,
rimase sbalordita nel vedere l’edificio che aveva di fronte.
Era quattro o
cinque volte più grande dei fabbricati che aveva osservato
fino a quel momento.
La fucina del fabbro e quella del mastro vetraio potevano
tranquillamente
convivere nell’ampio piazzale, delimitato dalle basse mura di
cinta. In quel
cortile vi erano oltre cinquanta persone, tra uomini e donne, che
lavoravano
senza un attimo di sosta. Le enormi vasche, che potevano contenere fino
a venti
uomini in contemporanea, emanavo quell’olezzo che si spandeva
per tutta l’area.
Si guardò bene intorno, per verificare che non la stesse
osservando nessuno e
pronunciò una formula magica sottovoce. Finalmente
riuscì a capire perché quel
posto risultava tanto sgradevole all’olfatto: in quelle
vasche era contenuta
una soluzione di acqua, soda e, con suo gran sconcerto, urina umana e
animale.
Trattenne un conato di vomito; quella magia, purtroppo, le rendeva
anche molto
più sensibile il suo senso. L’annullò,
passando la mano sul naso, con un
movimento rapido. Si avvicinò con circospezione alle vasche
per vedere cosa
contenessero; rimase alquanto stupita nel constatare il contenuto:
vestiti, di
ogni taglia, forma e colore. Sentì dei passi alle sue
spalle, si girò e quello
che vide la lasciò a bocca aperta. Uomini e donne le cui
articolazioni delle
mani e dei piedi erano orribilmente deformate, gonfie e con la pelle di
un
colore che tendeva al rosso, come fosse ustionata. Il suo cervello fu
rapido
nel collegare a cosa erano dovute quelle menomazioni, quando li vide
entrare
nella vasca centrale, quella che conteneva la maggior
quantità di abiti. Gli
uomini pestavano con i piedi i vestiti, mentre le donne con le mani li
passavano su di uno stricaturo in pietra. Si portò le mani
al volto, come a voler
mascherare l’espressione di orrore che, lentamente, si stava
facendo largo.
Quella
soluzione, per quanto ottima per pulire le vesti, stava causando dei
danni
orribili a quelle persone. Provò ad avvicinarsi ma altri
uomini, che
trasportavano su dei lunghi pali di legno le varie vesti bagnate, le
impedirono
il passaggio. Continuò a girovagare per l’ampio
spiazzo; per quanto la visione
precedente l’avesse abbastanza scossa, era affascinata de
come gli uomini
avessero dato vita a varie attività, senza l’uso
della magia.
Degli
enormi pentoloni in peltro destarono la sua attenzione. Erano posti
sopra un
fuoco la cui fiamma circondava tutta la parte inferiore. In ognuno di
essi
ribolliva un liquido di diverso colore, mentre degli uomini con dei
lunghi pali
in legno rimestavano il contenuto. Da una porta di quello che doveva
essere il
magazzino, vide uscire dei bambini che trasportavano delle pesanti
cassette in
legno. Inorridì. Cosa ci facevano in quel posto?
Perché trasportavano quelle
casse pesanti? Perché non erano a giocare da qualche parte o
con qualcuno che
gli insegnasse a leggere e scrivere? Li vide avvicinarsi accanto agli
operai in
attesa. Dagli enormi pentoloni estrassero della lana colorata per poi
essere
malamente caricata in quelle casse. Dalle diverse smorfie sui visi dei
ragazzini, poté intuire che il carico, da traportare
chissà dove, era notevole.
Avanzavano lentamente, gravati da quel fardello, verso la parte
retrostante
dell’edificio da cui erano usciti. Iniziò a
seguirli per vedere dove fossero
diretti, quando sentì un tonfo seguito da delle urla
provenire da dietro
l’angolo della costruzione, a cui si stava avvicinando con
circospezione. La
scena che le si presentò davanti agli occhi la fece
raggelare. Un bambino era
caduto rovinosamente a terra, poiché era inciampato su una
pietra sporgente dal
terreno, cadendo sul compagno che gli era davanti. La cassa che
trasportava era
caduta rovinosamente sulla gamba di quest’ultimo,
fratturandola. Un uomo uscì
furente dal magazzino, avvicinandosi al capannello che si era formato.
«Chi
è che urla in questo modo?»
«Padrone,
Settimo è inciampato, nella caduta la cassa gli è
sfuggita finendo sulla gamba
di Quinto, che gli era poco avanti.» Disse il bambino che
sembrava essere il
capo di quella piccola combriccola.
L’uomo
li raggiunse, preoccupato, per comprendere meglio la situazione. Quando
vide il
prezioso contenuto delle due casse versato a terra, il colore del volto
virò da
pallido a rosso nel giro di pochi secondi; del bambino che urlava dal
dolore e
dell’altro che cercava di prestargli soccorso non gli
interessava molto.
«Tu»
sibilò verso Settimo «a causa della tua
goffaggine, delle preziose vesti rosso
porpora sono invendibili. Riesci a comprendere il danno che mi hai
causato?»
Gli tirò un manrovescio sul viso. Il labbro del bambino
cominciò a sanguinare
copiosamente. Successivamente, prese il bastone di legno che portava
attaccato
alla cintura e cominciò a picchiarlo.
Eir
sentì montare la rabbia dentro di sé, corse verso
quell’uomo, nonostante fosse
il doppio della sua taglia e la superava in altezza di diversi
centimetri.
Bloccò il suo braccio che era pronto a colpire nuovamente
l’inerme ragazzino.
«E
tu cosa vuoi, biondina?»
«Fermarti!»
«E
con quale autorità? Questi sono i miei schiavi e li tratto
come voglio.»
«Sono
solo dei bambini.»
«Sono
schiavi e sono miei. E ora vattene, mi stai facendo perdere tempo. E
poi chi ti
ha fatto entrare? Guardie!» Urlò, ma nessuno
arrivò, poiché il trambusto che vi
era lì intorno sovrastava ogni voce.
Eir
non si fece intimorire; lasciò andare il braccio e si
allontanò di qualche
passo, guardandosi attentamente intorno. Oltre all’uomo e al
gruppetto di
bambini non c’era nessun’altro. Poi
cominciò a mormorare una formula magica
sottovoce. Lentamente i suoi occhi virarono dal verde verso
l’azzurro ghiaccio.
Sferrò un pugno all’altezza della bocca dello
stomaco dello schiavista, che
svenne sul colpo. Quell’incantesimo aveva aumentato a
dismisura la sua forza ma,
in compenso, le prosciugava velocemente tutte le energie. Prima che
fosse
troppo tardi, si avvicinò al muro di cinta e con un colpo
ben assestato ne fece
crollare una piccola porzione, abbastanza larga da farci passare i
bambini.
Annullò
la magia, l’iride ritornò verde.
Inspirò ed espirò lentamente; era abbastanza
provata, ma aveva ancora energie sufficienti per qualche altro
trucchetto.
Raggiunse il bambino che era ancora disteso a terra, si
accovacciò accanto a
lui ed iniziò ad esaminare la gamba con attenzione. Era
rotta, ma
fortunatamente la frattura non era scomposta, chiuse gli occhi e si
concentrò.
Posò le mani sull’arto e mormorò
qualcosa. Dai palmi scaturì una luce bianca
che durò qualche secondo.
«Alzati.»
Pronunciò con un fil di voce, visibilmente provata dallo
sforzo.
«È
guarita. Grazie! Sei una fata?» Chiese stupefatto il bambino.
Eir
sorrise a quella domanda, mai nessuno le aveva dato della fata prima
d’ora; la
cosa la divertiva.
«Beh,
se pensi che lo sia, allora lo sono!» E gli diede un bacio
sulla guancia. «Ora
va! Anche voi» disse agli altri bambini che le erano intorno
«andate, fuggite
via.»
«Non
possiamo» ribadì Settimo «non sappiamo
dove andare e poi…lui ha i nostri
contratti.»
«Che
contratti?»
«Quelli
della nostra vendita.»
«Capisco…Ci
penso io. Però, voi andate, su!»
«E
dove?» Insisté Settimo.
«Seguite
la strada che porta al bosco, quando vedrete gli alberi farsi
più fitti
noterete un bivio; prendete la strada che va a destra, vi
condurrà all’interno
della foresta. Inoltratevi, troverete un piccolo villaggio al suo
interno, non
è molto grande, ma è gente onesta e vi
accoglierebbe volentieri.» Vide gli
occhi dei bambini illuminarsi per la gioia. «Ora
andate.»
«Grazie
fatina bionda» Risposero in coro.
Rise.
Quel nomignolo che le avevano affibbiato la faceva sentire piena di
gioia.
«Mi
chiamo Eir, ma fatina bionda va bene lo stesso.» Li vide
andare via, quando
l’ultimo di loro uscì, posò la mano
vicino al muro e lo fece tornare integro.
Si
avvicinò all’uomo che era ancora svenuto a terra.
Mise la mano sulla sua fronte
e cominciò a sondargli la mente; in pochi secondi
riuscì a scoprire dove fossero
i contratti. Prima di avviarsi verso la sua meta prese il corpo
dell’uomo e lo
trascinò sotto una capannina di legno lì vicino,
prese gli abiti sparsi a terra
e lo ricoprì; poi, con uno schiocco delle dita,
trasformò quel mucchio di
vestiti in balle di fieno. Non sarebbe durata molto quella magia, ma
sarebbe
stata sufficiente per ciò che aveva in mente.
Sbocconcellò
un po’ di pane prima di attuare l’ultima fase del
suo piano, aveva bisogno di
recuperare le energie. Si pulì la bocca dalle briciole, poi
giunse le mani
davanti al suo volto. Una luce verde cominciò ad avvolgerla
ed in pochi secondi
si ritrovò trasformata nel padrone di quel luogo.
Entrò nella casa che sorgeva
adiacente al magazzino. Al contrario della parte esterna, lì
dentro regnava la
quiete ed il silenzio. Si avvicinò alle scale in legno e
salì. Ad ogni suo
passo gli assi emettevano degli scricchiolii; non era abituata a quei
rumori,
nonostante la sua casa nel bosco fosse in legno, non emetteva nessun
rumore
simile. Si addentrò nella stanza dov’era contenuta
la cassaforte; lesta, chiuse
la porta alle sue spalle. Sigillò anche le imposte delle
finestre e poi, con
uno schiocco delle dita, accese le candele di sego lì
presenti. Aprì l’armadio
che conteneva lo scrigno e con una magia divelse il lucchetto.
Cominciò a
scorrere i vari contratti; dopo una breve ricerca, finalmente
riuscì a trovare
quelli che le interessavano. Sorrise ironica; l’idea di
chiamare i bambini in
base al progressivo del loro numero di registrazione contrattuale, solo
un uomo
senza scrupoli poteva partorire un’idea simile. Mise i sette
fogli di papiro in
una ciotola di ferro presente sulla scrivania, avvicinò una
candela e gli diede
fuoco. Raggiunse nuovamente l’armadio per richiudere il
forziere, quando i suoi
occhi notarono uno strano sacchetto sul fondo. Incuriosita, lo prese e
lo aprì:
era pieno di monete d’oro. Lesta, lo attaccò alla
cintura che portava alla
vita. Rimise la stanza in ordine, riaprì la finestra ed
uscì.
Una
volta all’aperto riprese le sue sembianze, sistemò
il denaro nel suo zaino,
annullò l’incantesimo che nascondeva
l’uomo e guadagnò l’uscita da quel posto
infernale. Era ormai a diversi metri dalla fullonica, quando
sentì delle urla
di una voce a lei nota, provenire dal posto che si era lasciata alle
spalle. Alzò
il passo, mentre un sorriso beffardo
lentamente si faceva largo sul suo volto.
Forse
suo padre aveva ragione, dopotutto il mondo dei senza magia poteva
rivelarsi
molto interessante.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Capitolo
VII
Il
continuo rollio, alternato al beccheggio della nave, gli avevano
scombussolato
lo stomaco. I primi giorni di navigazione erano stati tranquilli e
ricchi di
emozioni; però, dopo quella burrasca che li aveva colti in
mare aperto, il suo
stomaco aveva accusato il duro colpo. Probabilmente era ancora da
qualche parte
sul ponte del bastimento, dopo quella terribile nottataccia passata in
balia
degli agenti atmosferici. Affermare che fosse stato un evento del tutto
inaspettato, sarebbe stata un’offesa gratuita verso il
nostromo che guidava,
con sapienza e diligenza, la nave. Era stato capace di prevedere quella
terribile tempesta con un grande anticipo, dalla mattina precedente.
Quando il
giorno prima lo aveva visto valutare accigliato le condizioni del
cielo, aveva
pensato che fosse soltanto un tipo ansioso o che il suo stato
d’animo
probabilmente fosse causato dall’avanzare
dell’età; dopotutto, era risaputo che
il periodo estivo fosse il migliore per la navigazione.
Però, il canuto
capitano non sembrava dello stesso avviso; più le alte nubi
avanzavano verso di
loro, più la sua espressione si allarmava. Che pericolo
potevano presentare
delle nuvole così alte nel cielo?
Lo
aveva sentito sbraitare ordini ai marinai come un forsennato; fra un
urlo e
l’altro, aveva udito una parola a lui del tutto sconosciuta
“cumulonembo”. Gli
si era avvicinato per chiedergli di cosa si trattasse, magari era il
nome di
qualche strano mostro marino; per tutta risposta aveva ricevuto un
sorriso tra
il sornione ed il divertito. Archiviò quella frase di
navigazione come “colpo
di sole”, non poteva essere altro, per farlo sragionare in
quel modo. Peccato
che Davven e l’equipaggio lí presente non la
pensassero come lui; lavorarono
solertemente, come se un cataclisma terribile da lì a poco
si sarebbe abbattuto
su di loro. Sciocchi pensò, peccato che l’unico
deficiente in quel gruppo si
sarebbe dimostrato proprio lui. Nel giro di qualche ora
l’aria divenne più
fredda, la calda temperatura della mattina sembrava un lontano ricordo;
inoltre, uno stormo di uccelli che volava in modo disordinato e il cui
stridere
provocava non poco fastidio alle orecchie, rese ancora più
cupa l’espressione
del capitano. Vide i marinai stringere maggiormente i legacci delle
vele e
rinforzare con più cura i punti deboli della nave, nel
mentre Davven si
avvicinó a lui con una robusta corda. Gliela
passó sotto le ascelle e poi fece
alcuni giri intorno alla vita, non aveva mai visto
un’imbracatura di quel
genere. Provò a chiedergli spiegazioni a riguardo, ma
l’unica risposta che
ottenne fu un grugnito ed un invito a mantenersi forte. Gli stava per
chiedere
il senso di quella frase, ma il fulmine che squarciò il
cielo, seguito dal
potente rombo, fu abbastanza eloquente. La nave in poco tempo si
ritrovò in
balia degli eventi; soltanto l’esperta mano del capitano,
aiutato dai suoi
rodati marinai, evitò l’inabissamento. Avevano
ballato per tutta la notte,
correndo da un capo all’altro dell’imbarcazione e
cercando di far fronte a
tutti i pericoli a cui il mare e la tempesta li stavano sottoponendo.
Diverse
volte aveva rischiato di cadere dalla paratia, come preda di quelle
onde irose;
solo la strana imbracatura, i tempestivi interventi
dell’equipaggio e di
Davven, lo avevano salvato da un epilogo terribile. A parte quegli
spiacevoli
episodi di quasi morte, aveva aiutato l’equipaggio a sversare
diverse anfore
d’olio in mare. In un primo momento gli era sembrata una cosa
assurda; però,
aveva potuto constatare con i suoi occhi che quell’azione
permetteva alla nave
di affrontare meglio le onde. Infatti, l’olio creava una
specie di patina
elastica sulla superficie del mare, che ostacolava il vento nel far
presa
sull’acqua e quindi d’innalzarla. Questo utile
espediente, impediva il formarsi
del frangente
pericoloso,
o almeno
così gli era sembrato che il capitano lo avesse chiamato,
fra un urlo e
l’altro. Quel trucco così semplice, ma allo stesso
tempo così ingegnoso,
permetteva al bastimento di cavalcare facilmente le onde, senza il
rischio di
inabissarsi. Sorrise, aveva sbagliato nel giudicare il capitano, era un
tipo in
gamba; decise di trascorrere più tempo possibile vicino a
lui, in modo da poter
imparare qualche stratagemma.
Soltanto
con le prime luci del mattino, quel terribile temporale aveva deciso di
lasciarli in pace, peccato che lo stomaco non fosse più
nella sua sede
naturale, da diverse ore ormai.
Vide
l’anziano capitano avvicinarsi a lui, con passo fermo e
deciso.
«Allora
giovanotto, sei ancora convinto che io sia un vecchio
rincoglionito?»
«No,
penso che lei sia un vecchio stronzo!» Il capitano rise
allegramente a quella
battuta, come se fosse la frase più divertente del mondo.
«Perché
non mi ha detto nulla?»
«Beh
Ioan, anche tu dovevi sottoporti al “battesimo del
mare”.»
«E
questo battesimo non prevede nessun percorso iniziatico?»
«Assolutamente
no!»
«Stronzo!
Come me la sono cavata?»
«Per
essere un pivellino, direi che è andata bene. Sei ancora
vivo e, nonostante tu
non sia capace di fare un nodo decente, ti sei dato da fare per aiutare
l’equipaggio. Hai le palle, ragazzo.»
«Grazie.
Sa dirmi dov’è finito il mio stomaco?»
«Dov’è
sempre stato, ragazzo. Bevi un goccio di questo e poi vai sottocoperta,
ne hai
bisogno.»
Ioan
prese la borraccia che gli aveva dato il vecchio lupo di mare. Beve
tutto d’un
fiato il contenuto. La gola e lo stomaco gli sembrarono andare a fuoco.
Sentì
la testa improvvisamente farsi leggera, contemporaneamente il corpo
farsi
pesante.
«Accidenti
ragazzino, avevo detto un goccio, non di scolare il contenuto.
Poi
il capitano urló: «Sagola! Vieni qui, dammi una
mano. Dobbiamo portare il
pivellino di sotto, ha bevuto tutto d’un fiato il distillato
di uva contenuto
nella fiaschetta.»
Sentì
il marinaio ridere sguaiatamente, poi il buio.
Il
mal di testa era martellante, provò ad alzarsi, ma una forza
misteriosa lo
respinse verso il pagliericcio.
«Non
provare ad alzarti, idiota.»
«Davven?!»
Biascicò.
«Chi
altri?»
«Cosa
mi è successo?»
«Succede
che non reggi l’alcol, pivello.»
«Ma
cosa dici? Nell’arena ci davano sempre del vino.»
«Ah,
ora si chiama vino quella bevanda annacquata che spacciavano come
tale?»
«Ma
cosa stai dicendo?»
«La
verità, saprai anche combattere discretamente, ma per il
resto delle cose sei
un pivellino. Il capitano ha ragione ad apostrofarti in quel
modo.»
«Credo
di essermelo meritato, l’ho sottovalutato. É una
persona abile che conosce
profondamente il suo mestiere, penso che gli debba delle
scuse.»
«Almeno
non sei uno stupido. Riconoscere i propri errori è un segno
di umiltà e di
grande intelligenza. Però, prima di andare, bevi
questa.» Gli porse un
bicchiere.
«Cos’è?»
Chiese sospettoso.
«Una
tisana di mia creazione, ti aiuterà a riprenderti
più velocemente. Quando ti
sentirai meglio raggiungimi sul ponte, dobbiamo fare una bella
chiacchierata.»
Bevve
lentamente quella strana bevanda; il sapore a primo impatto non era dei
migliori però, più la sorseggiava, più
poteva coglierne le varie sfumature:
zenzero, garofano ed una lieve nota di miele. Rimase steso per un altro
po’, il
tempo necessario per recuperare le forze. Si mise a sedere lentamente,
la testa
non gli vorticava più violentemente. Solo un leggero senso
di vertigine che
poteva tranquillamente gestire, d’altronde era abituato a
molto peggio. Fece
attenzione a non inciampare tra le cuciture che univano il pagliolo al
paramezzale, faticava ancora a credere che una nave
“cucita” riuscisse a
navigare tranquillamente in mare aperto. Eppure, filava che era una
meraviglia
e dimostrava una solidità straordinaria; inoltre, era facile
da riparare o da
manutenere, anche un inesperto come lui poteva facilmente apprendere
come
preservarla al meglio. Salì i gradini della scaletta in
legno che l’avrebbe
condotto sul ponte, la luce solare lo colpì in pieno,
rendendolo cieco per
qualche istante. Si portò la mano a coprire gli occhi, in
modo da permettere
alle pupille di adattarsi al nuovo ambiente. Vide il capitano sul
castello
della nave intento a guardare qualcosa in una bacinella, si
avvicinò
incuriosito da quello strano atteggiamento. Vide che, nella piccola
tinozza in
legno, vi era un disco in metallo, per il cui centro passavano tante
linee, in
modo da dividere la superficie in diversi settori. Ogni porzione
presentava un
nome. Sopra vi erano uno gnomone ed una lancetta.
«Cos’è?»
Chiese incuriosito.
«Una
bussola solare.»
«A
cosa serve?»
«Ad
orientarmi in mare aperto, per determinare la posizione della nave
rispetto
alla terra.»
«Ed
è affidabile?»
«Ci
ha sempre condotto a destinazione e lo farà anche questa
volta. Entro mattinata
o al massimo per il primo pomeriggio raggiungeremo la nostra
meta.»
«Riesce
a dire anche questo?!»
«No,
me lo dicono loro.» Indicò degli uccelli che
volteggiavano sulle loro teste.
«Sono volatili di terra, fra un po’ cominceremo a
vedere all’orizzonte il
profilo del nostro obiettivo.»
«Incredibile,
sa un sacco di cose. A proposito, mi scusi per lo scetticismo che ho
mostrato
ad inizio navigazione. É un grande capitano, mi piacerebbe
molto imparare
qualcosa da lei.»
«Non
ti preoccupare pivellino, è una cosa che capita a tutti
quando salgono per la
prima volta su questa nave. Per l’insegnamento, beh, penso
che ci sarà tempo e
modo, Davven è un tipo che tende a formare una persona a
tutto tondo.»
«Cosa
vuole dire?»
«Questo
devi chiederlo a lui. Ora va, la sua pazienza ha un limite molto
ridotto.»
Ioan
si affrettò a raggiungere Davven a prua. Lo vide scrutare
intensamente
l’orizzonte.
«Scusa
per l’attesa.»
«Fai
bene a soddisfare le tue curiosità, è un sinonimo
d’intelligenza.»
«Di
cosa volevi parlarmi?»
«Del
tuo incontro nell’arena.»
«Sono
sei giorni che navighiamo, perché ora?»
«Perché
avevo bisogno di tempo per riflettere.»
«Riflettere
su cosa?»
«Su
quello che ti voglio dire.»
«Non
riesco a capire.»
«Non
capisci…Dimmi, come ti sei ritrovato quella lancia in mano,
quella con cui hai
trapassato il bandito quando eri a terra?»
«Era
sotto lo strato di terra battuta e sabbia, era ben nascosta ma sono
riuscito a
percepire il manico in legno.»
«Cazzate!»
«Cosa
ne sai tu dell’arena? È normale trovare delle armi
sul terreno, specialmente se
prima ci sono stati degli incontri!»
«Quello
che dici è corretto, ma c’è una piccola
cosa che ti sfugge: prima del tuo
ingresso, il campo di battaglia è stato completamente
ripulito. Sai perché? Per
rendere l’incontro che ti vedeva impegnato più
spettacolare, o almeno era
quello che si augurava il governatore della città; peccato
che gli hai rovinato
i piani.»
«Non
l’avranno notata…»
«Certo,
immagino sia usuale non vedere una lancia di quasi due metri nel
terreno.
Perché non mi dici la verità, Ioan?»
«Cosa
dovrei dirti? Me la sono ritrovata tra le mani. Un colpo di fortuna che
mi ha
permesso di sopravvivere, altrimenti ci sarei rimasto secco.»
«Un
colpo di fortuna?»
«Si!»
Davven
lo guardò con aria meditabonda, come se quelle parole non
l’avessero convinto a
fondo. Camminò su e giù per la nave per un
po’, cercando di riflettere su ciò
che aveva visto quel giorno e su quanto il ragazzo gli aveva detto.
Poi,
improvvisamente, si fermò dinanzi a lui, scrutandolo in modo
serio.
«Ioan!»
«Che
c’è Davven?»
«Ho
bisogno che tu ricordi.»
«Cosa?»
«Cosa
hai pensato quando eri a terra? Quando eri quasi sicuro di
morire?»
«Che
non volevo morire, che mi sarebbe bastata un’arma per
infilzare quel bandito.»
«Quindi
hai desiderato di non morire?»
«Con
tutte le mie forze!»
«Capisco…Ioan,
quella lancia non era a terra.»
«Hai
bevuto anche tu quell’intruglio, per caso?» Il
ragazzo lo guardò stupito. Non
era sicuro che la persona che lo aveva salvato qualche giorno addietro
stesse
bene di testa.
«Non
sono ubriaco, anzi, sono più lucido che mai! Ioan, tu quella
lancia l’hai
evocata!»
Il
ragazzo scoppiò a ridere, ma prima che potesse dire qualcosa
l’uomo gli prese
il viso tra le mani e lo costrinse a guardarlo negli occhi.
«Pensaci
bene ragazzo e rispondi con sincerità. Prima di afferrarla,
avevi notato la sua
presenza?»
«No…»
Disse, dopo un lungo silenzio.
«E
ti sembra strano che tu abbia evocato qualcosa?»
«Decisamente,
visto che non so usare la magia, ammesso che questa esista.»
«E
se ti dicessi che non è così?»
«Cosa
vuoi dire?» Il guerriero lo fissò a lungo, una
strana sensazione si fece largo
in lui: gli stava celando qualcosa. «Mi stai nascondendo
qualcosa!?»
«Non
proprio. Voglio essere sicuro di ciò che sospetto. Fino ad
allora non mi
pronuncerò. Fidati di me ragazzo, ok?»
Ioan
lo fissò a lungo, soppesò tutte le azioni di quei
giorni, decise di fidarsi.
«Va
bene. Però, appena sarai sicuro di ciò che pensi
mi informerai, chiaro?»
«Perfetto.»
L’urlo
del capitano li fece ritornare al presente.
«Terra
in vista! A breve sbarcheremo sull’isola di Broken
Henge.»
Ioan
si precipitò a vedere il profilo che si stagliava
all’orizzonte. Sorrise
felice, non vedeva l’ora di visitare quel nuovo luogo.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Capitolo
VIII
Le
enormi mura di cinta torreggiavano su di lei. Si sentiva un essere
insignificante, infimo, rispetto a quella grandiosa opera
dell’ingegno umano.
Le pietre, finemente lavorate, formavano una tessitura muraria solida,
ma allo
stesso tempo elegante. Toccò incantata quelle pietre: erano
lisce al tatto, non
si poteva notare nessuna sbavatura o imperfezione, i mastri scalpellini
avevano
fatto un lavoro degno di essere ricordato nei secoli. Erano talmente
ben
levigate che la luce solare, rimbalzando su quella superficie perfetta
e
bianca, accecava chi osasse guardarle direttamente senza nessuna
schermatura.
Si affrettò a raggiungere la porta che consentiva
l’ingresso alla città di Giz.
Se sotto le mura si era sentita piccola, dinanzi al portale quella
sensazione
si amplificò. I tre fornici erano sormontati da quattro
ordini di finestre
ogivali, intervallate da paraste che terminavano con un capitello a
volute. Dai
lati di questo enorme corpo sporgevano due torri di cinque piani che,
nella
parte esterna, assumevano una forma semicircolare. Come per il blocco
centrale,
anche in questo caso le finestre ad ogiva erano intervallate da
paraste, meno
aggettanti.
Passando
al di sotto del portale centrale, Eir notò che la volta era
finemente lavorata
a cassettoni; negli ottagoni, che andavano a formare quella intricata
trama,
era posto lo stemma della città: una stella a sette punte.
Sui lati del portale
vi erano dei bassorilievi, raffiguranti scene di guerra. Con suo enorme
stupore,
poté notare che quelle raffigurazioni erano estremamente
dettagliate. Sui volti
degli uomini si potevano chiaramente distinguere la fatica, la
sofferenza, il
dolore, la rabbia, la furia, la concitazione, lo smarrimento, la
follia: il
caleidoscopio delle emozioni tipiche della guerra. Anche i corpi erano
estremamente ricchi di particolari, dalle armature finemente cesellate,
ai
muscoli che esprimevano chiaramente lo sforzo bellico sostenuto.
Chiunque
avesse fatto quel lavoro certosino era degno di lode, pensò
la ragazza. In quel
mese in cui aveva peregrinato per il Regno di Isel, non aveva mai visto
nulla
del genere; certo, era rimasta affascinata dal suburbio e dalla
città di Niv,
ma non erano minimamente paragonabili a quello che stava osservando
ora. Quando
uscì dal fornice, una cacofonia di suoni ed una fiumana di
gente la investì.
Dovette ricorrere a tutte le sue abilità per non essere
spintonata e trascinata
chissà dove da quella calca, che camminava indaffarata per
la strada. Chi
trasportava ceste di pane, chi anfore di vino e olio, chi assi di
legno. Tutti
sembravano conoscere perfettamente la meta a cui giungere, tranne lei,
che si
sentiva completamente avulsa da quella situazione. Era la prima volta
che le
capitava di trovarsi in una moltitudine del genere e la cosa nel le
piaceva
affatto. Si guardò intorno per capire dove andare; si
girò a guardare il
portale che aveva appena attraversato: l’epigrafe marmorea,
che era affissa
sopra i tre fornici, la colpì. Era riportato il nome:
“Porta del soldato”.
Decise di proseguire lungo la via d’ingresso; aguzzando la
vista aveva notato
degli alti palazzi in fondo a quella strada, probabilmente
l’edifico che
cercava era da quelle parti. Il basolato della strada, nonostante non
fosse
pieno mattino, era già rovente. Cominciò a
togliersi alcuni indumenti più pesanti,
voleva evitare di iniziare a sudare già dalle prime ore
della giornata. Mentre
proseguiva notò che per strada vi era gente di ogni etnia e
vestita nel modo
più disparato possibile; sorrise, passare inosservata non
sarebbe stato affatto
difficile.
Se
la
porta della città l’aveva impressionata, il centro
cittadino l’aveva lasciata
completamente senza parole. Una scala monumentale, ornata ai suoi lati
da
magnifiche sculture raffiguranti uomini e donne in giovane
età, portava al
cuore pulsante di Giz. Dopo averla salita, trattenne il fiato dallo
stupore.
Una stella a sette punte, di dimensioni colossali, era posta al centro
dell’enorme piazza; quest’ultima era racchiusa da
edifici monumentali di una
bellezza impressionante. Alla sua destra, poté notare un
tempio a pianta
circolare, la cui cupola semisferica era sorretta da un doppio giro di
colonne
rastremate, che terminavano con un capitello decorato con figure
antropomorfe e
zoomorfe.
Anche
se il suo obiettivo non era quello, incuriosita, volle visitare
quell’edificio.
La volta del periptero era decorata con un ciclo musivo, raffigurante
le gesta
eroiche del dio a cui era dedicato quell’edificio sacro.
Nelle varie scene,
oltre alle sue imprese, ricorrevano puntualmente i dodici segni
zodiacali, un
toro, il sole e la luna.
Rimase
sconcertata nel constatare che quelle piccole tessere di mosaico
fossero in
oro, argento e pietre preziose come smeraldi, rubini, ametiste ed altre
gemme
dello stesso valore. Deglutì a vuoto, quel soffitto aveva un
valore
incalcolabile. Varcò la soglia di ingresso; notò
che i battenti erano bronzei,
come del resto tutto il portone ed avevano le fattezze della testa di
un uomo.
Al centro della sala circolare, illuminata dalla luce solare che
filtrava
dall’oculo centrale della cupola, si trovava la statua del
dio crisoelefantina.
La divinità indossava un’armatura leggera in cuoio
ed era intenta a colpire un
toro; sul soffitto era erano affrescate le personificazioni dei segni
zodiacali, del sole e della luna. Si chiese chi avesse concepito una
scena del
genere.
«Impressionante,
vero?»
Si
girò di scatto per vedere chi fosse ad aver pronunciato
quelle parole. Rimase
sorpresa nello scorgere un uomo di mezz’età,
vestito con una semplice tunica
rossa.
«Scusami
se ti ho fatto spaventare, non era mia intenzione. Sono Adda, il
sacerdote di
questo tempio.»
«Eir.»
Rispose guardinga la ragazza.
«Perdonami,
solitamente non vado in giro a spaventare la gente, ma la tua
espressione di
stupore mi ha particolarmente colpito. Prima volta qui, vero?»
«Sì.»
«Da
dove provieni?»
«Da
Abis.» Mentì.
«Ah,
provieni dall’altro continente, interessante. È
stato faticoso il viaggio?»
«Abbastanza.»
«E
cosa ti porta qui?»
«Sono
partita per conoscere il mondo, per imparare nuove nozioni e anche per
visitare
la terra in cui sono nati i miei avi.»
«Ottimo!
Sei nel posto giusto allora. Ti piace quello che stai
vedendo?»
«Qui
è tutto magnifico, i portali d’ingresso in
città, i palazzi, questo tempio,
questa scultura.»
«Dopotutto
siamo nella capitale, no?»
«Giusto…Chi
è il dio raffigurato?»
«La
statua è bellissima vero? È il dio Thamir,
protettore del nostro esercito e
della città. Dio supremo di tutti gli dèi del
nostro pantheon. Creatore di
tutto l’universo e di tutte le cose viventi, garante
dell’equilibrio. I tuoi
nonni non te ne hanno mai parlato?»
«Si…ma
vederlo raffigurato dal vivo è tutt’altra cosa, si
percepisce meglio quello che
hai detto.» Cercò di giustificarsi.
Rimase
in silenzio a guardare quell’opera d’arte. Ogni
parte del corpo era perfetta, i
dettagli anatomici erano impressionanti. I capelli ricci che spuntavano
da
sotto il copricapo frigio, su cui era incisa la stella a sette punte. I
muscoli
tesi per lo sforzo erano resi in un modo talmente realistico, da far
sembrare
il dio in movimento. Sulle mani si potevano notare le vene gonfie per
la
fatica. Ciò che maggiormente la sconvolse furono gli occhi,
non erano dello
stesso materiale del corpo, ma di un azzurro opalescente. Per un attimo
poté osservare
un guizzo; si stropicciò gli occhi, sicuramente era un
effetto dovuto alla
stanchezza del viaggio. Infatti, guardando meglio, si accorse che
dipendeva dai
raggi solari che colpivano quelle gemme così particolari.
«Hai
ragione è magnifica. Però,
ho una
domanda.»
«Chiedi
pure.»
«La
statua si bagna quando piove, no?»
Vide
Adda ridere a crepapelle; quando si fu calmato chiamò un suo
sottoposto e lo
osservò mentre confabulava con il giovane ragazzo.
«Cosa
ho detto di tanto divertente?» Chiese irritata.
«Nulla.
Ridevo per la tua sana curiosità che, bada bene, ritengo sia
molto positiva.
Sono felice che tu mi abbia chiesto una cosa del genere. Di solito, chi
viene
qui si limita a guardare e non ad osservare. Ora cerca di prestare
molta
attenzione, ok?»
Lo
vide fare un gesto, poi una cascata d’acqua cadde
dall’oculo, che stranamente
non colpì la statua; ci fu una seconda ondata ed una terza,
ma l’acqua non
riusciva ad intaccare il monumento, finendo direttamente nei canali di
scolo
posti ai piedi del basamento.
«Soddisfatta
la tua curiosità?»
«Com’è
possibile?»
«Mi
puoi ripetere come ti chiami?»
«Eir,
mi chiamo Eir.»
«Speranza.
Bel nome, mi piace. Vedi Eir, molti uomini hanno provato a spiegare
questo
fenomeno e sai una cosa? Nessuno ci è riuscito. Credo che in
natura ci siano
fenomeni spiegabili ed altri no. Per questi ultimi ritengo serva la
fede in
qualcosa che è oltre la nostra comprensione. Ecco, si
può chiamare Thamir o in
un altro modo, però c’è, esiste. Per
quanto riguarda il fenomeno che hai appena
visto, sono sicuro che sia la presenza del dio che non permetta al
simulacro di
bagnarsi. Magari un giorno arriverà qualcuno che
troverà la soluzione a questo
enigma, ma voglio credere sia lo spirito della nostra
divinità a proteggerci e
vegliarci.»
Eir
si limitò ad annuire in silenzio. Il suo modo
d’essere, di pensare, era
improntato a confrontarsi con tutto ciò che fosse misurabile
e verificabile.
Sicuramente su quella statua vi era una magia potente e, se avesse
avuto il
tempo necessario per studiarla a fondo, avrebbe trovato il modo per
sciogliere
l’incantesimo, ma non le sembrava il caso. Capiva
perfettamente il punto di
vista di Adda e, nonostante il diverso modo di intendere il mondo, gli
piaceva
il suo modo di pensare.
«Grazie
di tutto Adda, è stato piacevole passare del tempo con te,
ma ora devo andare,
altrimenti rischio di non riuscire ad accedere alla biblioteca. A
proposito,
sai dirmi dov’è di preciso? Sapevo fosse qui, nel
centro di Giz.»
«È
proprio difronte a questo tempio. Ti basta attraversare la piazza, non
puoi
sbagliare.»
«Grazie
di tutto.» Si avviò verso la sua meta.
Anche
la biblioteca non sfigurava in quanto a monumentalità e
bellezza. Sicuramente
era un’opera architettonica insolita per un edificio di quel
tipo, ma doveva
ammettere che la sua particolarità era ciò che la
rendeva unica. La facciata
presentava tre colonnati sovrapposti di vario ordine, aggettanti
rispetto alla
parete di fondo. Questo gioco di colonne creava un particolare effetto
prospettico, dando un senso di movimento. Più che una
biblioteca, quella parte
esterna, le ricordava l’ingresso di un teatro.
Salì velocemente i gradini ed
entrò nella struttura; rimase esterrefatta.
L’enorme sala a pianta rettangolare
era inondata dalla luce solare, che entrava dalle finestre poste ad
est. Questo
permetteva di sfruttare al massimo le ore diurne del giorno; inoltre,
riduceva
al minimo l’uso dei candelabri bronzei appesi al soffitto.
Fece vagare lo
sguardo per la sala, ovunque posasse gli occhi vedeva scaffali ricolmi
di
rotoli; alla sua destra notò delle scale, che sicuramente
l’avrebbero condotta
ai piani superiori. Si avvicinò cautamente al bancone, dove
vide un
bibliotecario intento a compilare dei voluminosi registri.
Gettò un’occhiata
sull’enorme epigrafe monumentale, che era posta sopra la sua
testa;
l’iscrizione al suo interno la fece sorridere: “Osa esser saggio!”
Non poteva
esserci motto migliore per quel posto.
«Buongiorno!»
Vide l’uomo alzare la testa incuriosito verso di lei.
«Buongiorno.
Prima volta qui?»
«Si!
Come lo ha capito?» Lo vide sorridere.
«Dai
tuoi occhi.» Lo guardò dubbiosa e sorpresa allo
stesso tempo. Possibile che i
suoi pensieri fossero così cristallini? «Non ci
pensare molto, ragazza. È il
tipico luccichio che avete tutti, quando venite qui per la prima volta.
Dovevi
vedere la mia espressione quando sono entrato qui a lavorare, terrore
puro!»
Cominciò
a ridere, quel simpatico vecchietto era riuscito a farla sentire a suo
agio.
«Cosa
cerchi all’interno della biblioteca reale di Giz?»
«Gli
annali dei Regni di Irysia e Anysia.»
«Interessante,
non sono in molti a chiedere questo tipo di informazioni. Ti posso
chiedere
come mai?»
«I
miei avi sono emigrati da questo continente, trasferendosi ad Abis.
Nelle
storie di famiglia, mi hanno sempre parlato del Regno di Anysia che
confinava
con Irysia. Perciò, prima di visitare quei posti, mi
piacerebbe saperne
qualcosa, ed eccomi qui.» Mentì.
«Che
ragazza piena di curiosità, mi piace. Seguimi, ti accompagno
nella sezione
giusta.»
Giunti
dinnanzi agli scaffali di suo interesse, il bibliotecario
cominciò ad estrarre
i volumen e a disporli sul tavolo
lì
presente.
«Ecco»
disse «questi sono tutti i codici di cui hai bisogno. Quando
avrai finito non
metterli al posto, chiamami e provvederò io.»
Eir
lo ringrazio. Prima di mettersi a consultarli si guardò bene
intorno. Si
accertò che in quell’ala non ci fosse nessuno.
Fece capolino con la testa nel
corridoio, per verificare che l’anziano signore fosse
effettivamente tornato
alla sua postazione. Quando ne fu sicura, cominciò a
scorrere tutti i codici
contenuti in quella sezione; quello che realmente cercava era
sicuramente
collocato da quelle parti. Ci mise diverso tempo, ma finalmente
trovò ciò che voleva.
I codici contenenti la storia dell’enclave di Silren erano
posti in fondo,
nella parte più alta dello scaffale. Con una magia
richiamò a sé quei papiri,
li aprì e iniziò a leggerli, erano quelli giusti.
Dal suo zaino prese un libro
bianco, molto più comodo di quei rotoli. Gettò lo
sguardo a destra e a manca,
per verificare che non ci fosse ancora nessuno; poi lanciò
un incantesimo su
tutti quei papiri li presenti e trasferì il loro contenuto
sul suo libro. Si
sedette un attimo sulla sedia, quella magia gli era costata parecchie
energie
mentali. Prese del cibo dalla sua borsa e cominciò a
sbocconcellare un pezzo di
pane. Con un ultimo sforzo rimise a posto tutti i volumen
che aveva consultato indebitamente, poi si avviò verso
l’uscita.
Una
volta fuori, si orientò alla ricerca di una locanda; voleva
un posto tranquillo
in cui riposare e pensare.
Adda
stava asciugando il pavimento dall’acqua. Era una fortuna che
non tutti i
visitatori fossero curiosi come quella ragazzina. I suoi adepti non
erano stati
d’accordo con quell’esibizione, li aveva convinti
dicendo che ci avrebbe
pensato lui a pulire tutto. Stava per prendere il secchio, quando una
voce
bloccò il suo movimento.
«Allora,
capo dei sacerdoti di Thamir, hai finito di fare il cascamorto con le
ragazzine?»
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Capitolo
IX
Tutto
l’equipaggio della Scorpio, compresi Ioan e Davven, era
stranito da quella
quiete. Solitamente, il porto di Broken Henge era un transitare
continuo di
barche da pesca e di navi mercantili, sporadicamente un bastimento da
guerra
faceva capolino da quelle parti. Quella piccola isola di forma
circolare, che
presentava una lunga fenditura a Nord, situata a due giorni di
navigazione
dalle coste a Sud del continente di Thauras, era uno strategico punto
per
approvvigionarsi di ulteriori scorte, prima di intraprendere la
navigazione per
il mare aperto; inoltre, godeva di uno status giuridico molto
particolare,
poiché era considerata un porto franco. La doppiarono
diverse volte per cercare
di capire cosa fosse accaduto e se vi fosse sicuro approdare, ma non si
riusciva
a scorgere nessun movimento dal ponte della nave.
Ioan
vide Davven
confabulare, per diverso tempo, con il capitano della nave; il forte
vento gli
impediva di udire cosa i due si stessero dicendo. Vide Azmir fare un
cenno
particolare al suo equipaggio; l’aveva visto fare diverse
volte durante quel
periodo di navigazione: le manovre di avvicinamento all’isola
stavano per avere
inizio. Osservò il marinaio, che lo aveva aiutato quando si
era accidentalmente
ubriacato, prendere un peso di piombo collegato ad una fune,
comunemente
chiamata sagola, che aveva diversi nodi tutti alla stessa distanza;
siccome era
sempre lui ad usare quello strumento chiamato scandaglio, si era preso
l’appellativo di Sagola.
Il
marinaio
cominciò a scandagliare il fondale, in modo da non
permettere alla nave di
lesionare la chiglia o di incagliarsi in qualche secca. Il navigatore
seguiva
attentamente le informazioni che Sagola gli passava. Riuscirono ad
attraccare
alla banchina del molo agevolmente, ad aspettarli non c’era
nessuno.
Nonostante
le
insistenze di Azmir, Davven non volle sentire ragioni: soltanto lui e
Ioan si
sarebbero addentrati nella cittadella di Syras, non avrebbe permesso a
nessun
altro di seguirli.
«Sei
pronto?»
«Sì,
ho preso la
spada e una sacca con dei medicamenti e degli attrezzi di emergenza,
nel caso
ci dovesse succedere qualcosa.»
«Onestamente?
Non
credo. Probabilmente saremo solo noi due nella cittadina.»
«Ed
è normale?»
«No.
Questo posto
dovrebbe brulicare di persone, invece è completamente
deserta. La cosa mi
preoccupa, ma non temo per le nostre vite.»
«Dici?»
«Sì!
Sembri
deluso, perché?»
«Avevo
voglia di
menare un po’ le mani, temo di essere fuori
allenamento.»
«Menare
le mani?
Ma come diavolo parli? Comunque, non ti preoccupare, fra qualche giorno
potrai
“menarle” in abbondanza, anzi, mi implorerai di
smettere.»
«Cosa
vuoi dire?»
«In
quel momento
ti sarà tutto più chiaro, ora andiamo.»
I due
uomini
percorsero il perimetro delle mura ciclopiche della cittadella di
Syras, le
quali avevano un andamento ellittico ed un’altezza compresa
tra i cinque e i
sei metri; richiudevano una superficie di circa diecimila metri quadri.
Quattro
portali permettevano l’accesso alla città. Solo
quello che si affacciava verso il
porto, presso cui avevano attraccato, era accessibile, a differenza di
tutti
gli altri i quali erano bloccati dall’interno.
«Davven,
da
quanto manchi da questo posto?»
«Dalla
primavera
di un paio d’anni fa.»
«Ma
è sempre
stato così?»
«No.
Nonostante
le modeste dimensioni, Syras era una cittadina molto trafficata, in
quanto
porto franco. Se avessi avuto la necessità di smerciare un
prodotto, ti sarebbe
bastato venire qui.»
«Deduco
che anche
il contrabbando era fiorente.»
«Esattamente…»
«E
cosa può essere
successo?»
«Non
saprei, per
scoprirlo bisogna entrare. Sei pronto?» Vide Ioan fare un
cenno positivo con la
testa.
Ciò
che si parò
dinnanzi ai loro occhi li lasciò completamente esterrefatti.
L’intero villaggio
era stato quasi completamente raso al suolo; le uniche attestazioni che
testimoniavano la presenza di un insediamento umano, erano gli
scheletri
carbonizzati delle case e degli edifici pubblici. Cominciarono a
percorrere la
via che li avrebbe portati verso il centro dell’abitato.
Ovunque si posasse il
loro sguardo, l’unica cosa che risaltava era la morte,
accompagnata dalla
distruzione. Furono attirati da uno strano cumulo di ossa, che si
ergeva in
quella che doveva essere stata una casa di medie dimensioni. Si
avvicinarono
con circospezione per vedere cosa fosse. Quando riuscirono a mettere a
fuoco
ciò che avevano davanti a loro, Ioan rabbrividì.
«È
un cadavere
carbonizzato.» Disse.
«Già,
di un
anziano, per la precisione.»
«Come
puoi
dirlo?»
«Osserva
bene il
bacino, è più stretto rispetto a quello di una
donna; guarda bene l’angolo
sotto pubico, è molto più chiuso rispetto a
quello di sesso femminile. Per
l’età, basta guardare le suture della calotta
cranica» e prese il cranio in
mano «Esaminale per bene, come ti sembrano?»
«Quasi
saldate.»
«Esattamente.
Ottimo spirito di osservazione. In base a questo, sono riuscito a
dedurre che
fosse una persona in età avanzata. Mio dio, deve aver fatto
una fine orribile!
Guarda il resto dello scheletro, dev’essere stato colpito con
violenza, poi
deve essere caduto su questo focolare e sarà morto bruciato
vivo. Guarda le
coste, sono molto più bruciate rispetto al resto delle altre
ossa.»
«Come
fai a
sapere tutte queste cose?» Chiese incuriosito Ioan.
«Ho
servito per
molti anni nell’esercito di Atlas come medico. Non sono mai
stato un grande
combattente; certo me la cavo, ma non resisterei molto a lungo in uno
scontro,
in compenso sono molto abile con le arti curative e
alchemiche.»
«Mi
insegnerai
qualcosa?»
«Tutto
quello che
posso, a tempo debito però, ora andiamo.»
Si
avviarono
verso quello che doveva essere l’edificio più
grande del paese, ovvero il
tempio. Mentre avanzavano, la morte e la distruzione aumentavano.
Sempre più
corpi carbonizzati si incontravano sulla via, sempre più
desolazione. La
visione che sconvolse più Ioan fu lo scheletro di un bambino
che, a detta di
Davven, non doveva avere più di sei mesi. Rimase disgustato
nel constatare cosa
potesse fare la violenza cieca dell’uomo.
Quando
arrivarono
nei pressi dello scheletro di quello che doveva essere stato il tempio
cittadino, il cumulo di ossa che trovarono fu veramente impressionante.
Erano
accatastate una sopra le altre, ulteriori erano disperse intorno a
quell’area.
«E
così è qui che
hanno compiuto la mattanza. Hanno ucciso qualsiasi cosa gli si parasse
davanti;
poi hanno radunato qui il resto della popolazione e hanno trucidato
tutti, per
poi dare fuoco all’intero villaggio. Chi diamine
può aver fatto una cosa del
genere?» Mormorò.
«Davven,
vieni a
vedere qui, c’è un altro cumulo di resti
umani!»
Si
avviò nella
parte retrostante di quello che una volta doveva essere stato
l’abside del
tempio, la cui parete lesionata in più punti e prossima al
crollo, resisteva
ancora stoicamente. Il cumulo di ossa era impressionante, anche se non
era
paragonabile a quello precedente. Lo esaminò attentamente.
«No
Ioan, queste
sono ossa animali. Mio dio, neanche loro si sono salvati da questo
scempio.»
Ossa di cani, gatti, maiali, capre, agnelli e cavalli, tutti
accatastati lì.
Osservò
scrupolosamente quelli che dovevano essere i resti di un agnellino,
dalle
dimensioni non doveva avere più di qualche mese.
Esaminò con attenzione tutto
il terreno circostante, alla ricerca di altri indizi. Quando ebbe
finito, fu
capace di teorizzare quando fosse accaduto quel massacro.
«Tutto
questo
dev’essere avvenuto tra l’estate e
l’autunno di due anni fa.»
«Come
fai a dirlo
con tanta certezza?»
«Queste.»
E gli
mostrò una serie di scheletri di agnelli di
un’età compresa tra i tre ed i sei
mesi. «Gli agnelli nascono in primavera; considerata
l’età di questi resti ed
il loro stato di decomposizione, il tutto deve essere avvenuto
all’incirca due
anni fa, in un periodo compreso tra l’inizio
dell’estate e l’autunno.»
«Sei
riuscito a
ricavare tutte queste informazioni da delle semplici ossa?»
«Nulla
è semplice
in natura, tienilo sempre bene a mente Ioan. Ora andiamo.»
Ripassarono
dall’abside, lo sguardo di Ioan fu attratto da uno strano
baluginio, che
proveniva da quello che una volta doveva essere stato un altare. Smosse
il
leggero strato di cenere che ricopriva l’oggetto. Era una
fibbia in argento, a
forma di giglio.
Stava
per
prenderla, ma Davven fu più lesto. Lo vide osservarla a
lungo; poi, la sua
espressione in volto si fece cupa.
«Dobbiamo
andarcene subito di qui.» Esordì.
«Cosa
succede?»
«Non
lo so, per
questo dobbiamo andare via. Ho molte domande da porre e il tempo
stringe.
Inoltre, è giunto il momento d’iniziare il tuo
allenamento.»
La
nave era
ancorata alla fonda, Azmir si era rifiutato categoricamente di
proseguire la
navigazione durante le ore notturne, anche se il loro obiettivo non era
molto
distante. Non aveva voluto sentire ragioni. Semplicemente non riteneva
utile e
pratico proseguire; secondo la sua opinione sarebbe stato uno spreco di
energie
inutili, molto meglio aspettare la mattina seguente, poiché
la brezza di mare
li avrebbe dolcemente sospinti verso il loro obiettivo.
Ioan
non riusciva
a prendere sonno quella sera. Nonostante fossero passate più
di ventiquattro
ore, non riusciva a ricacciare in un angolo della sua mente le immagini
di
distruzione e morte a cui aveva assistito. Era abituato a veder calare
la falce
del triste mietitore, ma non in quel modo; lo scheletro del bambino di
appena
sei mesi lo aveva pesantemente sconvolto, continuava a chiedersi chi
fosse
capace di una barbarie di quel genere.
Salì
sul ponte
per prendere una boccata d’aria, magari l’aria
fresca della notte lo avrebbe
aiutato a schiarirsi le idee. Gettò uno sguardo verso il
cielo trapunto di
stelle, quando notò, con la coda dell’occhio, un
bagliore provenire dalla sua
sinistra. Si girò a guardare esterrefatto quello strano
fenomeno.
«Incredibile,
vero?»
«Davven!»
«Anche
tu non
riesci a prendere sonno?»
«No.»
«Cosa
ti turba?»
«Syras…quel
massacro perpetrato nei confronti di quelle persone innocenti,
perché?»
«Fidati,
lo
scopriremo.»
«Pensi
che a Giz
troveremo una risposta alle nostre domande?»
«È
probabile,
dopotutto è la capitale del regno di Niv.»
«Lo
spero.»
«Permetti
una
domanda?»
«Certo.»
«Come
mai vedere
certe cose ti ha sconvolto tanto? Sei un combattente, tu stesso hai
ucciso…»
«Ma
non in quel
modo! Ho ucciso per difendere la mia vita, non per il gusto di farlo!
Non
ucciderei mai un bambino.» Rispose pieno di rabbia Ioan. Vide
Davven sorridere.
«Perché quel ghigno compiaciuto sulla
faccia?»
«Perché,
nonostante tutto, sei una persona buona. Comunque, ho visto che hai
notato quel
bagliore.» Indicò il fascio di luce nel cielo.
«Vuoi sapere cos’è?»
«Sì.»
«È
la luce del
faro del porto di Giz.»
«Stai
scherzando!?»
«Nient’affatto.»
«Ma
siamo ad
oltre 22 miglia dalla costa, non può essere
possibile!»
«Dici?
Domani
mattina lo vedrai con i tuoi stessi occhi e mi darai ragione. Ora va a
dormire,
sarà una lunga giornata.»
Davven
aveva
maledettamente ragione, quel faro era qualcosa di straordinario. Il
corpo più
in basso aveva una forma ettagonale, a cui si sovrapponeva uno
pentagonale, più
in alto ancora una costruzione cilindrica, a cui si sovrapponeva una
stella
bronzea a sette punte. L’altezza doveva sfiorare
all’incirca i centocinquanta
metri.
«Davven»
sussurrò
«non dubiterò mai più delle tue
parole.» Vide l’uomo sorridere.
«Stammi
vicino
quando scendiamo dalla nave, Giz è una città
enorme, con oltre due milioni di
abitanti, perdersi è facile.»
Se
l’ingresso
monumentale della città, un portale con due fornici
denominato la porta
dell’eliodromo, era sbalorditivo per la ricchezza decorativa,
il loro
obiettivo, ovvero un tempio a pianta circolare, lo lasciò
letteralmente senza
parole. Nessun edificio di Abis era minimamente paragonabile a quello,
sarebbe
sembrato una stalla a confronto.
«Resta
qui, ti
dico io quando entrare.» Attese lì diversi minuti
e nel mentre osservò con
molto interesse il ciclo musivo del periptero. Perse la cognizione del
tempo,
solo uno strattone del suo compagno di viaggio lo riportò
alla realtà.
Seguì
Davven
all’interno dell’edificio sacro e rimase senza
fiato nel vedere la scultura
crisoelefantina illuminata dal fascio di luce, che entrava dall’oculum della cupola.
Meraviglia, pura meraviglia, non c’era
nessun’altra parola per descrivere quello che stava
osservando.
«Allora,
capo dei sacerdoti di Thamir, hai finito di fare il
cascamorto con le ragazzine?»
Il
sacerdote si
voltò stupito nel sentire quella voce.
«Davven?!»
«Adda,
amico mio,
da quanto tempo!» E lo abbracciò.
«Mio
dio, due
lunghissimi anni! Finalmente sei qui! Chi è questo bel
giovane accanto a te?»
«Il
motivo per
cui me ne sono andato, finalmente la mia ricerca è
conclusa.»
«Oh,
capisco. Gli
hai accennato qualcosa?»
«No,
ho preferito
portarlo prima in questo luogo.»
«Cosa
dovresti
dirmi?» S’intromise Ioan.
«Seguitemi
giù
nelle cripte, non è saggio rimanere qui.» Disse
Adda.
Ioan seguì i due
uomini che facevano strada, gettò lo sguardo alla statua
un’ultima volta, prima
che le tenebre lo inghiottissero.
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