Il primo incontro tra Hiroshi Jito e Mitsuru Sano

di Stardust Revolution
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontro- Scontro ***
Capitolo 2: *** Combination Play! ***



Capitolo 1
*** Incontro- Scontro ***


Quella mattina era partita col piede sbagliato. Decisamente sbagliato.
Mitsuru Sano si era svegliato tardi e ora stava correndo a scuola in tutta fretta. Aveva avuto degli incubi che non lo avevano fatto dormire come si deve ed era rimasto a rigirarsi nel letto per ore e ore prima di prendere finalmente sonno e riuscire ad addormentarsi.
Da quando aveva iniziato ad andare a scuola alcuni ragazzi più grandi lo avevano preso di mira senza un reale motivo. Durante la cerimonia di apertura aveva per sbaglio sbattuto contro alcuni ragazzi più grandi che stavano dando fastidio a delle ragazze appena iscritte, e da allora quei tre tizi avevano iniziato a prenderlo in giro, a pedinarlo e a fargli brutti scherzi.
Uscì di casa finendo di abbottonarsi la divisa, tra i denti la colazione che mandò giù in fretta e furia. Mitsuru non si dava pace: “Certo che, a volte, la gente è proprio noiosa!”, pensò mentre correva, sapendo che lo avevano preso di mira solo perché loro erano più grandi di lui, in ogni senso. Superò due ciclisti e un cane che correvano ai lati della strada con sicurezza e velocità. Era magro ma molto agile, sembrava quasi una cavalletta e, nel sorpassarli, li salutò con una mano. Il cane gli abbaiò contro e lui, spaventandosi, accelerò la sua corsa. Il suo sguardo si fermò per qualche attimo su alcuni bambini molto piccoli che si passavano una palla colorata tra i piedi, mentre erano mano nella mano con le loro rispettive mamme.
Mentre sorrise a quella scena, sentì la campanella della scuola media Hirado suonare.
«Accidenti!» gridò, cercando di volare come un fulmine. Il vento gli scompigliava la massa di capelli scuri e la pesante frangia che gli copriva gli occhi. Era arrivato a scuola, era entrato e stava per fiondarsi nella sua classe, quando incrociò nel corridoio proprio i tre ragazzi più grandi. Facevano la terza media ed erano considerati dei ragazzacci perché fumavano, non andavano affatto bene a scuola ed erano degli attaccabrighe. Mitsuru frenò con entrambe le gambe la sua folle corsa mattutina. I tre ragazzi gli si erano parati davanti, quello al centro già rideva, le mani nelle tasche dei pantaloni.
«Ma guarda guarda chi abbiamo qui. Sei in ritardo, per caso?» disse ridacchiando.
Mitsuru non si lasciava intimidire facilmente. Anzi, iniziava a capire che quei tre, probabilmente, lo odiavano così tanto proprio perché non era il tipo da farsi sottomettere. E, c’è da specificarlo, quei tre erano molto più alti di lui, ma il suo carattere gli impediva di farsi mettere sotto senza dire una parola ed era molto veloce anche a scappare.
«E tu come mai sei a scuola, Kato? Oh, stai facendo finalmente il bravo assieme ai tuoi due amichetti?» lo canzonò Mitsuru, con tutto il coraggio che poteva mostrare.
Kato si accigliò e subito il suo riso scomparve dalla sua faccia, ora scura. Schioccò le dita e i suoi due compagni subito avanzarono, afferrarono Mitsuru per entrambe le braccia in un attimo.
«Ehi! Lasciatemi andare!» stava per gridare il ragazzo, ma Kato gli diede un calcio nell’addome, zittendolo. Mitsuru gemette, per qualche attimo tutto gli vorticò attorno, si sentì trascinare via nei bagni dei ragazzi. Lì, senza volerlo, vomitò la colazione appena fatta. I due amici di Kato lo lasciarono cadere a terra, ridendogli addosso e dicendogli cattiverie.
«Ti facciamo passare noi la voglia di risponderci!» disse Kato prendendo lo straccio per lavare i pavimenti che era poggiato in un secchio dell’acqua sporca, in un angolo, e iniziando a picchiare Mitsuru con quello, sporcandolo e riempiendolo di colpi.
Il ragazzo si portò le mani sulla testa, raggomitolandosi su se stesso, ma gli altri due ragazzi di nuovo cercarono di afferrarlo e di bloccargli le mani. Stavolta Mitsuru non si lasciò trovare impreparato, riuscì a svincolarsi agilmente, ma la sua unica via di fuga, l’uscita, era sbarrata da Kato stesso.
«Prendetelo e ficcategli quella testa nel cesso!» ordinò agli altri due.
Mitsuru, provò ancora a scappare anche se non aveva nessuna via di fuga e, mentre uno stava provando ad acchiapparlo per i capelli, scivolò con un piede sul pavimento mezzo bagnato e finì contro una delle porte dove c’erano i gabinetti chiusi.
«Ouch!» si lamentò il ragazzo portandosi una mano sulla testa, mentre la botta risuonava in tutto lo stanzone.
«Sei finito, microbo.» gli disse Kato avvicinandosi a lui minacciosamente.
Ma la porta dove aveva sbattuto Mitsuru si aprì con violenza.
«Non si può nemmeno stare al cesso in pace! Che state facendo qua fuori?!».
Il vocione apparteneva ad un ragazzo altrettanto imponente. Mitsuru guardò Kato e i suoi due compagni perdere colore sul viso. Conoscevano quella montagna parlante? Si stava chiedendo Mitsuru mentre cercava di capire quanto fosse dannatamente alto e imponente il nuovo ragazzo che sembrava spuntato dal nulla.
«Jito … non volevamo disturbarti.» fu il commento di Kato, che alzò le mani con una risatina, ora nervosa.
“Jito. E’ il suo nome?” pensò Mitsuru.
In un secondo Jito afferrò Kato per il colletto e nel secondo successivo aveva  già steso lui e gli altri due, che se la filarono a gambe levate, scivolando comicamente sul pavimento bagnato. Jito li guardò ridendo. A quanto pareva quella scena pietosa fu abbastanza divertente da lasciarli andare.
«Con voi non ho finito!» gli gridò mentre quelli scappavano e uscivano dal bagno come se fossero rincorsi da un toro.
Mitsuru cercò di alzarsi, ma tra il pavimento bagnato, i suoi vestiti bagnati, e il corpo dolorante lo trovò estremamente difficile.
«Ehi, tu.».
La voce di Jito lo fece sobbalzare. Si voltò a guardare la montagna che aveva davanti e che lo guardava dall’alto verso il basso.
«Non sono stato io a fare tutto quel casino! Mi hanno buttato qui dentro conto la mia volontà, io stavo andando in classe!» disse Mitsuru, con un tono arrabbiato e vagamente tremolante.
Jito lo guardò per qualche secondo, poi abbassò una mano su di lui, lo prese per la camicia e lo tirò su con un solo gesto. Mitsuru si ritrovò in piedi senza essersi alzato.
«Grazie.» disse con un sorriso sollevato, portandosi una mano tra la massa di capelli, per poi afferrare la sua cartella che era finita sotto i lavandini. Si guardò negli specchi e borbottò una serie di imprecazioni sottovoce, mentre cercava di asciugarsi e pulirsi come meglio poteva.
«Non posso andare in classe in questo stato! Maledetto di un Kato!» esclamò con rabbia. La sua frangia si spostò per un attimo dal suo viso, rivelando due occhi brillanti e arrabbiati.
«Non sei spaventato.» disse Jito.
«Eh?» fece Mitsuru, voltandosi.
«Non sei spaventato. Di solito quelli che vengono picchiati e perseguitati da quei tre se ne vanno con la coda tra le gambe, piagnucolando.».
Mitsuru si strinse nelle spalle.
«E’ un arrogante e uno sbruffone. Non ho paura di lui, mi ha preso di mira solo perché sono più basso di lui. Ma ho notato che non può competere con uno come te!» rise sonoramente.
Quella risata sorprese Jito, che ne stava a braccia conserte a fissare quello strano ragazzo, pensando che assomigliasse a uno di quei cani con il pelo arruffato davanti gli occhi.
«E’ la prima volta che vedo uno appena picchiato ridere come uno scemo!» esclamò Jito grattandosi il naso, divertito.
«Oh, davvero?» rise Mitsuru, in risposta.
Il ragazzo stava cercando di pulirsi la camicia, quando su quella gocciolarono alcune gocce rosse.
«Eh?» fece Mitsuru non capendo da dove venissero.
«Ehi, ti sei per caso aperto il cranio con la testata di prima sulla porta?» gli disse Jito avvicinandosi e indicandogli una tempia.
Mitsuru si voltò e si guardò nello specchio: un rivolo di sangue usciva dalla sua tempia sinistra.
«Quello stronzo … !» esclamò Mitsuru portandosi una mano sulla ferita.
Jito rise tra sé e sé.
«Non puoi andare in classe conciato così, andiamo in infermeria.» gli disse sorpassandolo e uscendo dal bagno.
Confuso, Mitsuru gli corse dietro.
«Volevo dirti una cosa!» gli disse.
«Mi hai già ringraziato.» rispose Jito, annoiato.
«No. Volevo dirti che hai la chiusura dei pantaloni aperta.» rise Mitsuru.
Jito sobbalzò e si affrettò a sollevare la zip. Lanciò uno sguardo minaccioso a Mitsuru, ma quello non fece una piega.
«Sei proprio strano tu.» gli disse.
«Mi chiamo Mitsuru Sano!» si presentò Mitsuru.
«Sono Hiroshi Jito. Sei uno di prima?».
«Si, frequento la prima, mi sono iscritto quest’anno. Tu sei di terza come Kato e i suoi?».
«No, faccio la seconda.».
«Wah! E anche se sei uno di seconda quei tre se la sono data a gambe a quel modo? Devi essere davvero forte! Con quelle braccia che ti ritrovi sono sicuro che li avrai pestati a dovere un sacco di volte quei tre, a giudicare dalle loro reazioni!» ridacchiò camminandogli affianco.
«Abbastanza … .» rise Hiroshi.
I due si recarono in infermeria, che però era vuota.
«Quando ti serve qualcuno non c’è mai.» borbottò Hiroshi entrando nella stanza e Mitsuru rise stringendosi nelle spalle. Vedendo che poi il ragazzo sembrava sapere dove fossero i cerotti e tutto il resto si incuriosì.
«Vieni spesso qui?» gli domandò sedendosi su una sedia e massaggiandosi le costole con una mano.
«Non proprio. Mi ci spediscono i professori assieme alle mie vittime.» ghignò.
«Oh!» sorrise Mitsuru.
Hiroshi gli lanciò un’occhiata.
«Ti hanno pestato ben bene, sicuro di stare bene? Sbaglio o ti hanno anche fatto vomitare la colazione?» gli disse indicando il suo stomaco con un gesto del capo.
«Mh.» fece Mitsuru annuendo, un po’ imbarazzato.
Hiroshi prese dell’ovatta e la diede al ragazzo, che si scostò i capelli e si disinfettò la tempia stringendo i denti. Hiroshi poi gli applicò un grosso cerotto bianco quadrato, che subito Mitsuru coprì con i capelli.
«Grazie ancora per l’aiuto.» disse Mitsuru.
Hiroshi rispose solo con un grugnito misto ad un sorriso e quella fu la prima volta che Mitsuru Sano e Hiroshi Jito si conobbero, ancora prima di iniziare a giocare a calcio assieme.
Ma Kato e i suoi non si arresero al tormentare Mitsuru. Un giorno, mentre tornava a casa da scuola nel pomeriggio, i tre gli fecero un’ imboscata.

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Capitolo 2
*** Combination Play! ***


Fu qualche giorno dopo. Mitsuru sbadigliava mentre tornava a casa. Teneva la cartella con una sola mano, poggiata sulla spalla e fischiettava. Un pallone da calcio gli volò davanti agli occhi all’improvviso.
«Scusi! E’ nostro!» gridarono dei bambini che stavano giocando lì vicino, tra l’erba del parco.
Mitsuru sorrise, rincorse la palla e iniziò a palleggiare e camminare verso i bambini che iniziarono ad acclamarlo e a battergli le mani.
«Vuoi giocare con noi?» gli propose uno di loro.
Così Mitsuru poggiò la cartella di scuola a terra e iniziò a calciare il pallone assieme ai sette bambini che ridevano e scherzavano. La palla volò via di nuovo, ma stavolta chi la fermò e la raccolse fu Kato.
Mitsuru si freddò quando lo vide, per poi sbuffare. Avanzò verso il ragazzo e allungò una mano.
«Dammela. E’ di questi bambini e ci stavamo giocando.» disse serio e senza alcun timore. Da sotto la frangia i suoi occhi brillarono.
Kato rise.
«Gliela ridarò solo se tu verrai con me.» disse.
«Dove?» fece Mitsuru.
«Non ti è dato saperlo. Devi solo seguirmi. Allora?».
Mitsuru guardò i bambini dietro di lui che lo fissavano con sguardi preoccupati e ansiosi. Annuì. Kato lanciò la palla ai bambini, uno di loro la prese al volo e guardò Mitsuru andare via.
Il sole iniziò a calare lentamente e le ombre delle cose si allungavano. Mitsuru guardava la sua ombra e quella di Kato farsi lunghe davanti a lui e proiettarsi sull’asfalto. Kato non disse più una parola, ma rideva soltanto. Ad un tratto Mitsuru provò a scappare, ma da un vicolo apparvero i due amici di Kato e di nuovo lo presero per le braccia.
«Lasciatemi! Che cosa diavolo volete da me, si può sapere?!» gridò e scalciò.
I suoi calci andarono dritti a segno e riuscì a liberarsi. Si era stancato di quei tre e così iniziò a correre come lui sapeva fare.
«Fermati, stronzetto!» gridò Kato.
«Prendetemi se siete capaci!» li derise Mitsuru facendogli la linguaccia.
Il ragazzo corse fino ad uscire dai vicoli e dalle strette strade e uscì sulla strada principale. Kato e i suoi compagni accelerarono cercando di acciuffarlo, ma ora che poteva correre liberamente Mitsuru sembrava come il vento, impossibile da acciuffare.
«Bastardo!» Kato prese una pietra dal ciglio della strada e la scagliò contro Mitsuru.
Per evitarla Mitsuru deviò verso un ponte che attraversava il fiume Nakashima e proseguì la sua fuga come se fosse la cosa più normale del mondo saltando sul muretto del ponte, sotto di lui il fiume che scorreva lentamente, ma lui correva come il vento.
«Non mi prenderete mai!» gridò il ragazzo.
Kato restò per un secondo stupefatto: come diamine faceva quel ragazzino ad avere quell’agilità e quell’equilibrio? Cieco dalla rabbia perché il suo piano era andato in fumo e perché Mitsuru era veloce, iniziò a scagliargli altre pietre assieme a brutte parole.
Mitsuru sentì le pietre lanciate come proiettili dietro di lui fischiargli accanto alla testa e, nel cercare di evitarle, scivolò con un piede. Cadde giù, nel fiume, con un tonfo.
Kato lanciò un grido di gioia, ma gli altri due si fermarono indietro, guardando quello che era appena successo con orrore. Ignorandoli, Kato oltrepassò il ponte per dirigersi verso il fiume, ma chi trovò appena sotto il ponte lo sconvolse.
 Si sentì afferrare per il collo da una mano più grande della sua faccia.
«Allora mettiamola in questo modo: non azzardarti più a rompere le scatole a Mitsuru Sano o la prossima volta le pietre che hai tirato sai dove finiranno?».
Con queste parole lo pestò con un pugno solo che bastò a lasciarlo sanguinante per terra, mentre i suoi due amici guardavano la scena da sopra ponte, facendosela sotto.
Hiroshi lasciò perdere quello che era rimasto di Kato e corse verso la riva del fiume. Arrivò giusto in tempo per tendere una mano a Mitsuru che era riuscito a raggiungere la riva.
«Stai bene?!» gli domandò, accigliato.
Mitsuru afferrò la sua mano e si lasciò trascinare fuori dall’acqua.
«Questi non sono teppisti … sono potenziali assassini! L’acqua è davvero bassa, ci ho quasi rimesso la testa!» esclamò Mitsuru tossendo, portandosi una mano sul petto.
I suoi capelli erano ora sgonfi e completamente appiattiti sulla sua testa. Si scostò dalla fronte l’onnipresente frangia, strofinandosi via l’acqua dagli occhi, riprendendo fiato, seduto sull’erba verde.
«Che è successo stavolta? Perché ti riconcorrevano?» gli domandò Hiroshi.
«E che è successo, niente! Come le altre volte! Stavo giocando a calcio con dei bambini, la palla è finita in mano di Kato e mi ha minacciato dicendo che non l’avrebbe ridata ai bambini se non l’avessi seguito. Poi sono spuntati fuori i suoi due amici e hanno provato a picchiarmi di nuovo, ma sono scappato via e si sono arrabbiati. E hanno iniziato a fare il tiro a segno!» disse tutto d’ un fiato, tossendo di nuovo, arrabbiato.
«Correvi sul muretto del ponte, come diamine hai fatto? Ti ho visto, passavo per caso e ti ho visto scappare via lungo la strada fino a qui.» gli domandò Hiroshi alzando il capo e guardando il ponte.
Mitsuru ridacchiò.
«E’ facile. Ma quello stronzo mi ha distratto e sono scivolato!» disse mordendosi un labbro.
«Facile? Non ci riuscirei mai! Sei proprio veloce e agile tu!» disse Hiroshi incrociando le braccia, pensieroso.
Mitsuru rise di nuovo, ma la sua risata fu fermata da una manciata di starnuti.
«Sei bagnato fradicio, meglio che vai a casa.» gli disse Hiroshi mentre l’altro si alzava in piedi, barcollando.
«La mia cartella… devo averla lasciata al parco!» disse Mitsuru rendendosi conto solo allora di non averla più con sé.
«Vado io a prendertela, tu non muoverti.» disse promettendo di fare in un attimo.
Passò accanto a Kato, i suoi due compagni erano scesi per sollevarlo e portarlo via.
«Provate ancora a torcergli un capello e vi butterò tutti e tre nel fiume…da cadaveri!» aggiunse guardandoli malissimo.
Mitsuru salutò buffamente con una mano Kato e gli altri due, con un sorriso stampato sulla bocca e i tre nemmeno lo guardarono. Pensò che forse, finalmente, se li era definitivamente tolto di torno.
 Risalì sulla strada, aspettando Hiroshi che arrivò dopo qualche minuto correndo con in mano la sua cartella. Mentre correva sembrava un camion. Era ovvio che tutti avessero paura di quell’armadio, i suoi colpi erano potenti come quelli di un carro armato pensò Mitsuru ridendo.
«Grazie!» gli disse riprendendo la sua cartella «Almeno i miei libri non si sono bagnati!» aggiunse contento e starnutendo ancora.
«Devi proprio cambiarti e asciugarti, casa tua è lontana?» gli chiese Hiroshi.
«Non molto. Ci arrivo con una corsa.» disse Mitsuru.
« Se vai veloce come prima ci arriverai in un attimo.» gli disse Hiroshi.
«Anche tu sei veloce! Facciamo una gara?» propose Mitsuru.
«Eh? Vuoi fare a gara a chi arriva prima a casa tua?» fece Hiroshi, aggrottando le sopracciglia, sorpreso.
«Si, dai! Anche tu sei veloce, ma sono sicuro che non riesci a starmi dietro, grosso come sei!»esclamò Mitsuru cominciando a saltellare come per scaldare i muscoli.
Hiroshi guardò quello strano ragazzo, completamente bagnato e che aveva appena rischiato l’osso del collo, pieno di energia come se non fosse successo niente. Pensò che fosse davvero davvero divertente e per lui, che era un tipo che si annoiava facilmente, quella era una novità. Così acconsentì e assieme cominciarono questa folle gara di corsa. Durante il tragitto parlarono un po’ e scoprirono che ad entrambi interessava il calcio.
Il giorno dopo Hiroshi aspettò Mitsuru fuori il cancello della scuola, ma quello non arrivò nemmeno quando suonò la campanella. E nemmeno il giorno dopo.
Annoiato e senza niente di buono da fare (aveva già fatto tre risse solo quella mattinata), nel pomeriggio si avviò verso casa di Mitsuru, col pallone tra i piedi. Arrivò davanti al cancello che era aperto, entrò e si fermò davanti alla porta. Storse il naso, si grattò la nuca e fece qualche passo indietro, ispezionando le finestre. Quella dove si trovava certamente la camera di Mitsuru era aperta. Ghignò, fece qualche palleggio con il pallone e infine lo insaccò con forza direttamente nella finestra.
Si sentì un gridò improvviso arrivare dalla stanza. Hiroshi si piegò dal ridere quando dalla finestra spuntò la testa arruffata di Mitsuru.
«Sei tu! Che ci fai sotto la mia finestra, sei impazzito o vuoi distruggermi la stanza?» gli gridò agitando un pugno in aria.
«Che ci fai tappato in casa? Sono due giorni che non vieni a scuola, esci da lì!» gli disse Hiroshi, afferrando il pallone che il ragazzo gli tirò indietro.
«Non posso, ho preso il raffreddore.» disse Mitsuru tirando su col naso.
«Oh. Aahaha! Solo gli scemi prendono il raffreddore!» rise Hiroshi.
«O solo quelli che cadono nel fiume.» disse Mitsuru facendo per chiudere la finestra.
«Dai, aspetta! Domani verrai a scuola? Oggi ti sei perso Kato: mi ha visto da lontano e ha cambiato strada ancora prima di arrivare al cancello della scuola ahahahha! Credo che oramai non ti guarderà più nemmeno con la coda dell’occhio!».
Il ragazzone rise di cuore e la sua risata rumorosa riecheggiò per tutto il quartiere. Mitsuru ridacchiò con lui, poggiò il gomito sul davanzale della finestra e la mano sul mento.
«Meglio così. Mi sei stato proprio utile, è comodo avere un bestione come te vicino!» disse.
«Ehi, attento a come parli, sei così magrolino che potrei usarti come stuzzicadenti!» gli disse Hiroshi indicandolo.
«Non ho paura di te!» gli disse Mitsuru.
Hiroshi si grattò il naso con un dito, emettendo un verso strano.
«Sbrigati a guarire, allora. Dobbiamo giocare a calcio assieme, come abbiamo detto l’altro giorno!».
Mitsuru sorrise e annuì con forza col capo.
 
Passò il tempo. Entrambi avevano guardato dagli spalti le ultime partite della Nankatsu con grande attenzione. Un giorno Mitsuru era andato da Hiroshi, annoiato come non mai dalle solite risse, e gli aveva mostrato il volto di Tsubasa Ozora, il calciatore più forte e seguito in quel momento. Da allora i due con la loro squadra avevano settato il loro incredibile obbiettivo e avrebbero battuto Tsubasa e la sua squadra con la loro intesa in campo e la loro tenacia e adesso erano lì, nel campo, faccia a faccia.
Tsubasa li guardava con il suo sorriso di fiducia stampato sul viso.
Loro due ricambiarono lo sguardo di sfida.
Il resto è storia.

 

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