Neve rossa

di MaxT
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Schianto nell'Antartide ***
Capitolo 2: *** Ghiaccio e sangue ***
Capitolo 3: *** Verso l'epicentro della minaccia ***
Capitolo 4: *** L'agguato ***



Capitolo 1
*** Schianto nell'Antartide ***


 

NEVE ROSSA

 

Capitolo 1: Schianto nell'Antartide

 

 

... E ora una notizia da New York. La sesta conferenza internazionale sull'Antartide sembra avviata alla conclusione che il trattato antartico del 1959 non sarà rinnovato. Il trattato è quindi destinato a spirare tra due anni, nel 2049. Con il proseguire del disgelo dovuto al riscaldamento globale, tratti sempre più estesi di costa risultano liberi dai ghiacci, e alcuni centri, nominalmente stazioni scientifiche, cominciano a somigliare a piccole città. La conferenza sembra avviata a finire tra le polemiche dopo che diverse nazioni hanno contestato le storiche rivendicazioni territoriali di alcuni paesi definendole sproporzionate. La Russia e la Cina hanno contestato, in particolare, le rivendicazioni australiane che si estendono a circa un terzo del ...”

Passazhirov prosyat podgotovit'sya k avariynoy posadke. Pristegnite remni bezopasnosti...”

 

“Si svegli!”.

Roger sussultò a quelle parole e aprì gli occhi, senza riconoscere ciò che aveva davanti. Un sedile... di aereo? Un altoparlante farfugliava parole incomprensibili in una lingua sconosciuta.

“Si svegli!” ripeté la giovane donna al suo fianco, scrollandolo energicamente per una spalla e cercando di sovrastare il rumore insolitamente forte dei motori. “L'aereo sta per cadere”.

“L'aereo?”. Lui si guardò in giro. Quel rumore continuo di turbine, quelle vibrazioni avvertite attraverso i braccioli, tutte quelle file di sedili vuoti di similpelle rossa e grigia...Un aereo?

A sottolineare le parole della passeggera, il microfono ripropose il suo messaggio in un inglese così da manuale che poteva essere pronunciato solo da una voce straniera: “I signori passeggeri sono pregati di prepararsi per un atterraggio di emergenza. Allacciatevi le cinture di sicurezza e rannicchiatevi contro lo schienale del sedile davanti al vostro, proteggendovi la testa con le braccia. Ripeto...”.

“Hai capito?” gridò la giovane al suo fianco. “Fai come faccio io. Cintura allacciata, testa tra le braccia, così!”.

Roger cercò di scuotersi, senza capacitarsi di cosa stesse accadendo tutt'attorno a lui. La cintura era già chiusa, restava la posizione. I suoi occhiali... era meglio toglierseli e riporli in una tasca.

I rumori dell'aereo tutt'attorno a lui coprivano alcune voci concitate provenienti dal portello aperto della cabina di pilotaggio. Sentì un sibilo, la vibrazione di qualche parte meccanica in movimento, e un leggero senso di frenata che lo spingeva ancora di più verso lo schienale di fronte. Ora il suono continuo delle turbine era sovrastato dal rumore di vortici d'aria.

L'altoparlante scandì ancora qualcosa di incomprensibile.

“Stiamo per toccare!”, gli tradusse la passeggera al suo fianco.

L'impatto sul suolo gli sembrò violentissimo. Poi l'aereo rallentò schiacciandolo sullo schienale di fronte, mentre un forte rumore di strisciamento proveniva da sotto tutto il pavimento del vano passeggeri. L'aereo fece alcune sbandate che gli diedero l'impressione che stesse per capovolgersi.

Poi di colpo finì tutto.

Per un lungo momento, un silenzio quasi stupito scese sulla scena.

Roger stava per rialzare il capo, quando sentì un pervasivo profumo che lo stordì. Rimase lì per un tempo che non avrebbe saputo quantificare.

“Tutto bene?”, gli chiese forte la voce della passeggera al suo fianco. Era una voce squillante, con un percettibile accento russo. “Tutto bene?” ripeté, scrollandolo delicatamente. “Mi senti?”.

“Sì... credo... “, rispose incerto Roger, e la guardò. Gli sembrò una principessa delle fiabe, con due occhi azzurro ghiaccio dal taglio obliquo e dei capelli neri, lisci e lucidissimi che le scendevano dalle spalle.

“Ti fa male da qualche parte? Hai battuto la testa?” chiese la passeggera allarmata.

“No... mi pare di no...”. Lui mosse con prudenza le braccia, si toccò, provò a muovere i piedi e a raddrizzarsi sullo schienale. “No, è tutto a posto”.

“Bene. Ti dispiacerebbe alzarti? Non riesco a uscire dal sedile”.

“Come... ti sei fatta male?”.

“No, non riesco perché ci sei tu tra me e il corridoio, e sei grande e grosso. Allora, ti alzi?”.

“Ah, sì, ecco... Ma perché sono in un aereo?”.

“Come, perché? Perché ci sei salito, immagino. Allora, ti levi?”.

Si aprì il portello della cabina di pilotaggio. Un uomo asciutto in divisa blu, certo uno dei piloti, si sporse nel vano passeggeri e disse qualcosa di incomprensibile, accompagnandolo con un gesto della mano verso la coda.

“Ha detto di andare nella stiva”, spiegò la bella passeggera aprendo il portello del portabagagli in alto e tirando giù un'ampia pelliccia bianca, un colbacco di pelo e una borsa. “Prendi le tue cose e corri, qui comincia a sentirsi odore di cherosene”.

Roger aprì due portabagagli a caso, e in uno trovò una giacca. Sarà la mia, si chiese. Guardandosi attorno, gli parve che non ci fosse alcun altro passeggero sull'aereo.

“Sbrigati!”, lo chiamò lei, voltandosi a metà del corridoio, “Dobbiamo andare nel vano di carico e portare fuori qualche cosa utile per sopravvivere. Il pilota ha detto che ci seguiranno tra poco”. Poi sparì in una porticina sulla paratia posteriore.

Lui la seguì, infilandosi la giacca pesante.

 

Nel vano, lei si guardò freneticamente attorno, poi si diresse verso una grande cassa nera. Su questa spiccava una chiavetta elettronica rossa fissata con nastro adesivo. “Ecco”, disse lei, “Questa è da salvare subito. Sai guidare una motoslitta?”.

Roger si strinse nelle spalle. “Credo di sì”.

Lei gli porse la chiavetta. “Bene, apri la cassa. Io cerco di abbassare la rampa di carico”.

La principessa delle fiabe armeggiò un attimo con alcuni pulsanti sulla parete, poi il ronzio di un attuatore elettrico accompagnò la lenta apertura della rampa posteriore. Al tempo stesso, si udirono alcuni scricchiolii sinistri, e subito un odore di fumo cominciò a provenire dall'esterno.

Roger, nel frattempo, aveva trovato il modo di abbattere le sponde della grande cassa nera. Al suo interno, la grossa motoslitta di un rosso fiammante sembrava pronta. Si sedette ai comandi e infilò la chiavetta in un'apertura; subito le luci del cruscotto si accesero, e una breve incomprensibile frase sintetizzata provenne da dietro di queste. Ora restava da capire quale fosse il pulsante di avviamento.

“Presto”, lo sollecitò lei, prendendo alcuni pacchi di sopravvivenza appesi a una rastrelliera sulla parete. “Due tute termiche, un pacco di pronto soccorso, due pacchi di razioni...”.

“E per i piloti? Dobbiamo prenderle anche per loro?”, chiese lui premendo quello che sembrava un interruttore di avviamento, mentre un filo di fumo nero cominciava a essere visibile dall'apertura della rampa.

“Tu esci con la slitta”, disse lei caricando quei pacchi nel portabagagli posteriore del mezzo, “Io prendo ancora qualcosa per loro e ti seguo fuori”.

Lui diede motore, e il mezzo si mosse con uno scatto e un mugghio del suo motore elettrico. Frenò, poi ripartì più dolcemente imboccando la rampa. Trattenne il respiro intanto che attraversava quella che ormai era una nuvola di fumo nero, trascinata da un forte vento diretto verso la coda dell'aereo.

 

Pochi metri all'esterno si fermò e si voltò. “Signorina...”.

“Eccomi”, gridò lei correndo giù dalla rampa con tre grossi pacchi in braccio, coprendosi naso e bocca con una manica della pelliccia. Caricò anche questi bagagli nel vano e salì a cavalcioni del mezzo. “Presto, allontanati un po'. Lì dentro va sempre peggio”.

“E i piloti?”.

“Li aspetteremo qui fuori. Vai su quello spiazzo”. Indicò uno spazio aperto senza ostacoli, a lato dei solchi lasciati sulla neve ghiacciata dall'atterraggio a carrello retratto.

Lui diede motore e si spostò nel luogo indicato, a centocinquanta metri di distanza. Lì girò il mezzo, e si fermarono a guardare.

L'aereo era un vecchissimo aviogetto di linea a decollo corto, un Antonov 72 con le insegne dell'Aviaantartika. Degli ampi ipersostentatori pendevano dal bordo di uscita alare, e due motori con getti orientabili erano collocati sui lati della fusoliera in una posizione insolitamente avanzata, poco dietro la cabina di pilotaggio. L'aereo non sembrava troppo danneggiato, ma delle lingue di fiamma si stavano sviluppando sul lato sinistro, nascosto. Il forte vento trascinava il fumo nero verso la coda, a formare una cortina che nascondeva un'ampia parte dell'orizzonte.

“L'incendio si sta propagando”, constatò Roger. “Chissà se i piloti sono usciti dall'altra parte?”.

D'improvviso una vampata squarciò l'ala sinistra dell'aereo. Da lì, il fuoco si estese velocemente a tutta la fusoliera, e a breve anche l'ala destra fu squassata da un'esplosione.

“Aspettiamo”, disse lei, “Questo non è il momento di avvicinarsi”.

Lui si guardò tutt'attorno, meravigliato. “Ma... ma questo è l'Antartide?” chiese, stringendosi il bavero per proteggersi dal vento insopportabile.

“Certo. Ma non sai neanche questo?” rispose lei, che nel frattempo aveva indossato sopra la pelliccia il top del pesante indumento a vento arancione contenuto nel pacco d'emergenza. Scese dalla motoslitta per infilarsi anche i pantaloni. “Cosa aspetti a indossare le protezioni? Quanto credi che durerai con quei vestiti, esposto al vento catabatico?”.

Roger si alzò e inizio affannosamente ad aprire uno dei pacchi, estraendo i grossi indumenti di un arancione sgargiante mentre si chiedeva cosa diavolo volesse dire 'catabatico'.

Quando ebbe finito di indossarli, riguardò la sua compagna di sventura. Ora il suo aspetto da principessa delle favole era ingoffito da tutti gli indumenti pesanti che aveva indossato, e il suo nasino perfetto era nascosto da un passamontagna di un immancabile colore arancio. Sopra i bellissimi occhi dalle iridi azzurro chiaro, ora c'erano degli occhialoni dalle lenti brunite. Così infagottata, non emergeva più nessuna traccia della sua bellezza non comune.

“Beh, ti sbrighi? Cos'hai da guardarmi?”, lo sollecitò irritata.

“Niente, niente”, si schermì Roger sollevando il cappuccio.

 

Attesero in silenzio qualche minuto, mentre le fiamme divoravano la struttura dell'aereo, trasformando le lisce lamiere dipinte di bianco e azzurro in una cenere biancastra di allumina. Alcune parti in acciaio annerite e arrugginite, come i motori, spiccavano ancora tra le ceneri. Quando il fuoco si spense e il fumo fu trascinato via fino all'ultimo filo, solo una sezione della coda e le estremità delle ali erano state risparmiate dalla distruzione totale.

“Ora andiamo a cercare i piloti”, disse lei sforzandosi per farsi sentire con il forte vento gelido. “Passa davanti al muso dell'aereo”.

Lui azionò il mezzo, aggirando i resti dell'aereo sulla destra, dalla parte opposta alla scia di fuliggine che segnava il ghiaccio.

Si fermarono, lei si alzò in piedi e chiamò ad alta voce in russo. Nessuna risposta.

Si guardarono attorno. La giornata era tersa, illuminata da un sole piuttosto basso sull'orizzonte. Tutt'attorno, a perdita d'occhio, c'era una distesa di neve ghiacciata striata di un sinistro colore rossastro che la faceva apparire quasi insanguinata, interrotta da qualche modesto rilievo di nuda roccia. Verso est, invece, l'orizzonte era mosso da un'imponente catena montuosa in distanza.

“Ma quelli sono i monti transantartici?”, chiese lui.

“Certo, cos'altro? Ma tu, davvero non ricordi dove sei?”, chiese lei diffidente.

“Non ricordo niente. Cosa ci facevo su un aereo russo, in Antartide?”.

“Io non posso saperlo. Ti posso solo assicurare che ci sei salito con i tuoi piedi”.

“E dove sono salito?” chiese lui, scuotendo il capo incredulo.

“In un piccolo aeroporto nell'interno dell'Australia. Non ricordo il suo nome, ero già sull'aereo”.

“Ma tu dove sei salita?”.

“Che t'importa?” si schermì, “Tu, piuttosto, almeno sai chi sei? Come ti chiami?”.

“Sì, certo, non sono intontito fin a questo punto. Mi chiamo … Roger Wilson”.

“E' già qualcosa”, concesse lei. “E poi?”.

“Sono nato a Perth il sei ottobre 2016, e faccio l'ingegnere minerario”.

“E qual'è il tuo ultimo ricordo?”.

“ Il mio... Non so, sono confuso. In questo momento ricordo... ma che giorno è oggi?”.

“Il 23 gennaio”.

“Ah!”. Lui restò un attimo imbarazzato. “Posso chiedere di che anno?”.

Lei si sollevò gli occhialoni e lo guardò grave. “Del 2047”.

“Ah. Allora... Vediamo... Le ultime date di cui mi ricordo credo fossero… di due anni fa. Ah, ma ho ricordi di sicuro più recenti, certo, solo che sono un po' confusi”.

Lei lo osservò sempre più grave, poi gli alzò gli occhialoni e lo guardò negli occhi. “Fermo. Ora girati verso il sole … così. Gira a destra... ora a sinistra”. Lo scrutò con attenzione. “Le pupille sembrano normali e reagiscono alla luce, nessuna anisocoria”. Sollevò una mano mostrando due dita. “Quante dita vedi?”.

“Due! Mi prendi per scemo?”.

“Non oserei mai. Ma se hai battuto la testa, vorrei essere sicura che sei in grado di guidare la motoslitta”. Si rimise gli occhialoni, e le conturbanti iridi azzurrine sparirono ancora dietro le lenti brunite.

“Non credo di avere battuto la testa, non mi fa male. E poi sono a posto, vedi, principessa?”.

Per dimostrarlo si alzò e si mise in equilibrio su un solo piede. Non gli riuscì un granché bene.

“Non sono una principessa”, rispose lei freddamente.

“E allora come ti chiami?”.

Lei ci pensò un attimo. “Puoi chiamarmi Malony. Però non chiedermi il cognome, l'indirizzo o il numero di cellulare”.

“Non ci penso proprio”, rispose lui infastidito.

“Lo so io, a cosa pensano gli uomini!”, rimbrottò lei.

Restarono in silenzio un attimo, guardando da parti opposte. Il vento continuava a sferzare, e il suo ululato si insinuava nelle orecchie attraverso i cappucci e i passamontagna.

“E ora cosa facciamo?”, chiese lui, “Aspettiamo e basta? L'aereo avrà certamente lanciato un SOS”.

“Penso anch'io che l'abbia lanciato. Però non credo che i soccorsi possano arrivare prima del tramonto”. Tirò fuori un tablet dalla borsa e lo accese. “Ora sono le quattordici. In questa stagione, a questa latitudine, il sole dovrebbe tramontare verso le otto e mezza o nove. Restano circa sei, sette ore di luce”.

“Il tuo tablet ti dice dove siamo?”. Lui cercò di adocchiare le iconcine, ma la sua presbiopia gli concesse di vedere solo figure sfuocate, e cercare gli occhiali nella tasca della giacchetta, sotto altri due strati di vestiti pesanti, gli sembrò un'impresa troppo ingrata e non strettamente necessaria.

Lei indicò un punto sullo schermo, ma i guantoni ne disturbavano la visuale di una buona parte. “Qui c'è la nostra posizione attuale, o almeno credo”.

“Come, credi?”.

“Il tablet era collegato col wi-fi dell'aereo, ed è presumibile che questa sia l'ultima posizione che ha aggiornato. Se così non fosse, siamo dell'orso”.

Con goffi movimenti delle dita guantate, Malony ridusse la scala della mappa. Nel riquadro entrarono altre macchie e puntini di dubbia interpretazione. “Oh, guarda. C'è un posto che non è neppure lontanissimo da qui”.

“Che posto?”.

“Non so, la mappa non dà nessun nome. Ma l'icona è uguale a quella delle varie stazioni scientifiche nell'Antartide”.

Lui scosse il viso. “Non suona una garanzia. E' verso l'interno”.

“Però è alla nostra portata. A occhio, sono circa duecento chilometri, e la motoslitta è certamente in grado di percorrerli da qui al tramonto”.

Roger si guardò attorno. “Il sito della caduta è facile da rintracciare, per i soccorritori. Se anche non arrivassero per stasera, possiamo attenderli nella tenda...”. Poi si fermò, dubbioso: “Perché tu hai preso anche una tenda, vero?”.

“Mi dispiace deluderti, signor smemorato. Non me ne sono ricordata, e neanche tu.”

“Io?”, si risentì lui, “Eri tu che ti eri trattenuta a prendere altra roba, o no? Sai cosa vuol dire, questo?”.

“Certo, vuol dire ciò che ho già detto: dobbiamo andare in questo posto e sperare che ci sia qualcuno ad aiutarci, oppure restare qui a pregare”. Cercò qualcosa nella borsa, ne estrasse una boccetta di profumo, si abbassò un lembo del passamontagna e si diede una spruzzata sotto il mento. “Fidati di me, Roger”.

“Ma ti pare il momento...”. Lui restò interdetto per il gesto cosi' fuori luogo, e poi, più ancora, per il profumo intenso che sembrava risvegliare un ricordo lontano che non riuscì a definire.

Lei riprese, riponendo il flaconcino: “Ti do una bella notizia: c'è un geolocalizzatore anche sulla motoslitta. Se arriveranno in zona con un elicottero, potranno seguirci facilmente”.

 

Dopo un ultimo giro più largo attorno al relitto dell'aereo, in un ultimo tentativo di trovare i membri dell' equipaggio, giunsero alla conclusione che erano tutti morti nell'incendio. Nessuno dei due si sentì di scavare tra i rottami ridotti in scaglie di allumina biancastra alla ricerca di qualche osso calcinato, così decisero di non sprecare altro tempo.

Scoprirono che la grossa motoslitta rossa celava, nei suoi portabagagli laterali, numerosi accessori utilissimi per quell'inferno gelido. La capottina pieghevole, sorretta da un telaietto smontabile da fissare sugli schienali, sarebbe stata una protezione utilissima contro il vento. In pochi minuti di lavoro, l'abitacolo della motoslitta fu reso completamente chiuso.

Una volta al riparo nel mezzo, si rifocillarono con le tavolette di cioccolata delle razioni d'emergenza, poi partirono verso la direzione indicata da Malony, che faceva da navigatrice consultando il suo tabet dal sedile posteriore del mezzo.

 

Lì vicino, in un riparo chiuso

 

Capitano, se ne stanno andando” disse il secondo pilota, osservando da un iposcopio del loro riparo chiuso.

La hostess, seduta al tavolo nella penombra, stava cercando di versare la vodka in tre bicchierini che vedeva a malapena. “Per piacere, copra quel visore, o non possiamo accendere la luce”.

Non serve guardare”, sentenziò il capitano seduto su una brandina, regolando sul massimo la stufetta elettrica del piccolo rifugio ancora gelido. “Ormai sarà quello che sarà”.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Ghiaccio e sangue ***


 

Neve rossa

 

Capitolo 2: Ghiaccio e sangue

 

 

 

Per la prima parte del loro viaggio, Roger e Malony parlarono poco. Nonostante il flusso di aria di riscaldamento, lo spazio racchiuso dalla capottina restava ancora piuttosto freddo; anche quando poterono abbassare i passamontagna dai visi, la condensa del loro alito continuava a ornarli di ritmici sbuffi bianchi.

Fu lei a rompere il silenzio: “Roger, hai detto che sei un ingegnere minerario. Sei già stato nell'Antartide?”.

Lui rispose, un po' diffidente: “Non lo ricordo con sicurezza”. In verità avrebbe giurato di sì, quell'ambiente unico non gli era del tutto nuovo, ma mano a mano che rifletteva sui suoi ricordi annebbiati ricordava anche che il trattato antartico vietava, ancora dal lontano 1959, lo sfruttamento minerario del continente ghiacciato. Era meglio evitare di dare adito a speculazioni che non sapeva dove avrebbero potuto portare, soprattutto con una straniera. Soprattutto se russa.

“E tu, Malony? Sei già stata nell'Antartide?”.

“Sì, diverse volte. Questa volta ero diretta alla stazione scientifica S.Nikolaj”.

“Sei una scienziata, o cosa?”.

“Qualcosa di simile. Sono una glaciologa”.

“Un tema attuale, quindi”.

“Attualissimo. Fino a pochi anni fa, chi parlava dell'Antartide lo immaginava candido. Quando ero bambina, molti mi dicevano che avevo delle iridi azzurre come il ghiaccio. Ma non intendevano il ghiaccio che abbiamo attorno adesso”. Fece un vago gesto, che Roger non vide, per indicare tutt'attorno. “Questo aspetto rossastro delle distese di neve ghiacciata era inimmaginabile quando ero bambina. Vaste zone dell'Antartide sono irriconoscibili a causa delle striature colorate della fillofora antartica e di altri tipi di alghe unicellulari”.

“Sembra un po' sangue”, convenne lui.

“Si, ma intendiamoci, non è così tutto l'anno. Le alghe sono organismi fotosintetici, e in primavera e in piena estate il colore dominante è il verdazzurro, o anche una specie di nero prugna. Poi, quando l'estate declina, la clorofilla viene persa e le alghe diventano rossastre. Il colore che vedi non è ancora alla sua massima saturazione, tra un mese la neve sembrerà davvero striata di sangue”.

“Inquietante”, convenne lui continuando a guidare. “Sto andando nella direzione giusta?”.

“Sì, vai tranquillo, ci penso io a correggerti se sbagli. Abbiamo già percorso più di quaranta chilometri”. Dopo un breve silenzio, riprese: “Le fioriture di fillofore nel ghiaccio sono un effetto del riscaldamento globale del clima e, al tempo stesso, ne sono una concausa. La neve colorata assorbe molta più luce dal sole, si riscalda e si scioglie prima. La velocità di scorrimento dei ghiacciai verso il mare sta aumentando, e così pure l'estensione delle zone scoperte dal ghiaccio”.

“E questo è un bene o un male?”, chiese lui con sospetto. Non aveva nessuna voglia di sorbirsi una tirata ecologista sui diritti dei poveri pinguini accaldati.

“Dipende dal punto di vista”. La sua scrollata di spalle venne completamente nascosta dai pesanti indumenti arancioni che la facevano somigliare a una specie di nano da giardino. “Dal punto di vista di un naturalista è una catastrofe. Segnerà la scomparsa di un ambiente naturale unico, e avrà grosse ripercussioni anche sugli ecosistemi costieri. Poi c'è il punto di vista delle città marittime di tutto il mondo: la vecchia previsione di un aumento del livello del mare di ottanta centimetri entro la fine del secolo è già stata quasi raggiunta, e siamo ancora all'anno 2047. Ormai nelle città costiere ci sono quartieri che si trovano con l'acqua in cantina a ogni mareggiata.

Poi c'è il punto di vista dell'aumento della temperatura: con la diminuzione dell'albedo, la Terra assorbe sempre più calore dal sole. A proposito, lo sai cos'è l'albedo?”

“Ma certo che lo so!”, rispose lui infastidito.

“Ah bene. Perché, vedi, non si può dare per scontato da uno che non sa cosa neanche in che anno siamo”.

“Beh, ora lo so, grazie alla maestrina”.

Lei tacque brevemente, offesa. “Allora non ti racconterò la parte più interessante”, disse infine.

“Brava, non raccontarmela”, rispose lui cinico. Dopo un attimo di silenzio, aggiunse: “C'è una parte interessante?”.

“Ci stavo arrivando, ma visto che non vuoi...”, rispose lei facendo il gesto di guardarsi intensamente le unghie, cosa che le riuscì malissimo con i guantoni indossati.

“Solo per capire cosa tu consideri interessante”.

“Lo dirò... solo per evitare che tu ti addormenti alla guida”. Si schiarì la voce, e riprese: “La fioritura della fillofora è un avvenimento naturale, ma la sua estensione dalla costa, dov'è iniziata una trentina di anni fa, all'interno del continente antartico è molto più rapida di quanto ci si potrebbe attendere da una diffusione naturale, tanto più che il lento movimento dei ghiacciai verso il mare dovrebbe contrastare questa diffusione, e anche i venti catabatici prevalenti al livello della superficie ghiacciata sono dall'interno verso il mare, non viceversa. Quindi esistono dubbi che questa diffusione non sia del tutto naturale”.

L'orgoglio di Roger lo trattenne ancora una volta dal domandare cosa volesse dire 'catabatico'. Preferì chiedere, invece: “Stai dicendo che qualcuno sta seminando la fillofora ad arte?”, cercando di caricare la frase con una percettibile dose di scetticismo.

“Questo è l'oggetto della mia ricerca alla stazione di S.Nikolaj”.

“E perché mai qualcuno dovrebbe farlo?”.

“Per accelerare lo scioglimento della calotta, naturalmente”.

Roger rinunciò a chiedere chi avrebbe potuto trarre vantaggio da tutto ciò. Anche senza ricordare niente dell'anno passato, non era difficile rispondersi da solo.

Malony ora taceva. Sbirciandola nello specchietto retrovisore, a Roger lei sembrava intenta a scrutare con attenzione fuori dai finestrini, prima da una parte poi dall'altra.

Il sole, che all'inizio era nettamente alla sua destra, si era lentamente spostato più di fronte e più in basso, e cominciava a dare fastidio alla vista. Lui cercò di tirarsi avanti il cappuccio su quel lato. Prima o poi avrebbe avuto bisogno di improvvisare un paraocchi, ma con cosa?

Cercò di concentrarsi sui ricordi. Gli ultimi due anni erano una nebbia confusa, ma cercò di partire da qualche sprazzo per ricucirlo in un qualcosa di coerente. Aveva un vago ricordo di essere sceso da un aereo su una pista innevata, ma era sfuggente come un sogno, e forse era solo questo.

 

Antartide, nove mesi prima

 

Benvenuti signori. Io sono il colonnello Taylor, il responsabile della sicurezza di questo sito”. L'uomo dall'espressione di mastino, in completo protettivo bianco mimetizzato da puntinature rossastre e azzurrastre, li accolse a fianco della pista di atterraggio sul ghiacciaio striato di rosso. “Vi prego, andiamo immediatamente al coperto, abbiamo ventisei minuti per rientrare alla base prima del passaggio del prossimo satellite”. La sua figura squadrata fece strada verso un gatto delle nevi in attesa.

Roger guardò alla sua destra, verso la rampa da carico del grosso aereo quadriturboelica che stavano lasciando. Altri tre cingolati gli si stavano accostando, mentre l'equipaggio, nell'ampia stiva nervata come l'interno di un gigantesco pesce preistorico, stava febbrilmente armeggiando con un carrello elevatore attorno a delle grandi casse bianche.

I passeggeri appena sbarcati si guardavano intorno, incuriositi dal surreale paesaggio di neve arrossata contornato da rilievi rocciosi che si stagliavano contro il cielo tinto di un azzurro intenso, come in alta montagna.

 

La voce allarmata di Malony lo riscosse dai suoi pensieri. “Ferma! Ferma! Cos'è quello?”.

Lui rallentò d'istinto. “Cosa?”.

“Ferma, ti dico. Lo abbiamo passato adesso. Mi sembrava un morto, un uomo morto”.

Appena lui fermò il mezzo, Malony armeggiò su una chiusura di velcro su un fianco della capottina, e dopo qualche impacciato tentativo la aprì. Il vento gelido disperse in un attimo il relativo tepore dell'abitacolo.

Roger rinunciò a gridarle di chiudere la porta, e uscì malvolentieri per andarle dietro.

Lei si era fermata davanti a qualcosa che poteva sembrare un cumuletto di neve.

Quando le si avvicinò, lui dovette constatare che Malony aveva ragione: era davvero un uomo, paludato in una tuta termica bianca e con gli sci ai piedi. Una grande chiazza di sangue gelato sulla neve si confondeva con le striature rossastre della fillofora. Ai suoi piedi aveva sci da fondo, e una delle sue gambe era extraruotata verso l'esterno in un modo innaturale. Ma quello che più impressionava erano i cinque tagli paralleli da dietro la spalla fino al fianco opposto, che attraversavano diagonalmente la schiena macchiata di rosso scuro.

Poco più in là si trovava uno zaino bianco squarciato, con alcuni oggetti dispersi al suolo; un pacco tenda lacerato, qualche indumento di ricambio e i resti di un apparecchio elettronico ormai irriconoscibile.

Lo guardarono a lungo. L'uomo non dava nessun segno di vita. Quando lei lo scosse, appariva rigido come un blocco di ghiaccio.

“Ma... cosa può essere stato?”, chiese Roger disorientato. “Sembrerebbe quasi la zampata di un orso”.

Detto questo, si guardò attorno con timore. Possibile che ci fosse un simile pericolo ad attenderli in quel sinistro deserto ghiacciato? Le orme sulla neve dura erano minime e troppo confuse per poter dare qualunque risposta; gli sembrava di riconoscere sono qualche linea disegnata dagli sci, proveniente proprio dalla direzione verso la quale stavano andando.

Anche Malony stava scrutando tutt'attorno, poi riguardò gli strappi insanguinati.

“Potrebbe sembrare proprio una zampata”. Estrasse nuovamente il tablet dalla sua borsa, e cominciò a prendere un'inquadratura.

“Ma ti sembra il momento?”, sbottò lui irritato, “Non è che vuoi una foto ricordo tutta sorridente accanto al cadavere?”.

Lei rispose gelida: “Non possiamo portarcelo dietro, ma almeno documentiamo chi era e come è morto”. Dopo alcuni scatti tutt'in giro, aggiunse: “Ora dobbiamo girarlo”.

Dopo un'ulteriore occhiata preoccupata tutt'attorno, lui annuì.

Anche facendo forza assieme, il proposito si rivelò molto difficile: il cadavere era rigido, e gli sci ai piedi creavano un grande intralcio. Lei armeggiò sopra le chiusure e li tolse, e infine riuscirono a girare il corpo.

Gli occhialoni fuori posto lasciavano intravedere un occhio sbarrato. Lei li tolse, poi spostò il passamontagna e il cappuccio, fino a rendere visibile il volto. Era un uomo giovane, dai capelli e la barba cortissimi e gli occhi chiari. La pelle della parte in basso alternava chiazze ortostatiche rossastre dove il sangue si era accumulato, e biancastre dove invece il corpo era rimasto premuto sul suolo. I morti non hanno mai un bell'aspetto, questo dovevano aspettarselo.

Lei scattò diverse inquadrature. “Se usciremo da questo guaio, almeno potremo dare un nome a quest'uomo sfortunato”, disse lei. Poi si guardò attorno preoccupata. “Presto, risaliamo sulla motoslitta”.

Gli ultimi passi prima di rientrare nel mezzo vennero fatti in fretta, guardandosi alle spalle e tutt'attorno.

“Riparti, presto!”, disse lei una volta rientrata, ancora armeggiando con l'apertura della capottina che non voleva saperne di tornare a chiudersi bene.

“Subito”.

Richiuso sommariamente l'abitacolo, lei armeggiò brevemente col suo tablet e osservò i rilievi che si intravedevano verso sudovest. “Fai una correzione di rotta. Venti gradi a sinistra. Il nostro obiettivo dovrebbe essere dietro a quelle alture senza neve all'orizzonte”.

“Va bene. Ma Malony, che cosa credi che abbia ucciso quell'uomo?”.

“Non lo so proprio, Roger. Spero tanto di non doverlo scoprire di persona”.

“I tagli sembravano dei graffi di un orso. Ma non dovrebbero esistere orsi polari in Antartide, no?”.

“Per esistere esistono, signor smemorato. L'anno scorso il WWF, con la collaborazione del governo canadese e quello australiano, hanno portato qui forse trecento orsi polari, che nell'Artico sono in piena estinzione per lo scioglimento della calotta glaciale. L'idea è che un numero limitato di orsi avrebbe potuto adattarsi a questo habitat cacciando foche e pinguini di Adelia, che per ora non sono considerati a rischio immediato. Ma la domanda è: cosa farebbe un orso polare così nell'entroterra, in questo deserto ghiacciato?”.

Lui emise un grugnito indistinto di assenso, poi aggiunse: “E se fosse stato un orso smarrito, perché non ha divorato il corpo? Non è che qui avrebbe trovato altre occasioni per mangiare”.

“Non lo so proprio”, rispose lei cupa. Tornò ad armeggiare con il tablet. Una piccola icona lampeggiante le confermò che le immagini erano state inviate attraverso il collegamento satellitare della motoslitta.

Malony tornò a scrutare l'esterno attraverso i finestrini di plastica flessibile. Chi gliel'aveva fatto fare di ficcarsi in questo guaio?

 

Mosca, due mesi prima

 

Signor colonnello Matarov, sono ai vostri ordini” esordì lei entrando nel moderno ufficio del suo superiore nel quartier generale del Servizio Informazioni Estero della Federazione Russa, il misterioso SVR-RF. Il grattacielo faceva parte di un complesso di edifici futuristici isolati nel verde nel distretto Yasenevo, fuori Mosca.

L'uomo, vestito in un elegante completo grigio fumo, restò in piedi rivolto verso l'ampia finestra panoramica per alcuni secondi. “Siediti, Malina Nikolayevna”, le disse senza voltarsi. Sembrava guardare assorto, forse senza vederlo, il bel panorama boschivo e la lunga forma a Y dell'ala sottostante, ben evidente dall'alto.

Lei sedette a disagio sulla poltroncina davanti all'immensa scrivania, chiedendosi se quest'accoglienza gelida fosse studiata.

Finalmente il colonnello si girò e andò lentamente a sedersi, con un'espressione indecifrabile sul suo viso volpino. Il suo sguardo indugiò a lungo su di lei prima che l'ufficiale iniziasse a parlare con tono grave.

Malina Nikolayevna Petrova, vogliamo offrirti una possibilità per riscattarti dal tuo recente fallimento in Cile. Non ti nascondo che la missione che ti stiamo offrendo è pericolosissima, oltreché disagevole”.

Porterò a termine qualunque missione vogliate affidarmi, signor colonnello, o morirò nel tentativo”. Si era preparata con cura questa risposta altisonante. “Cosa dovrò fare?”.

Bene, Malina Nikolayevna. Tu dovrai seguire le tracce di una nostra squadra di esplorazione nell'Antartide”. Poi, rivolto al computer sul suo tavolo, ordinò seccamente: “Immagine uno”.

Sullo schermo alle sue spalle comparve proiettata l'immagine delle fototessere di tre uomini in divisa. Gli sguardi decisi sui visi giovani erano contornati da impeccabili divise mimetiche con le magliette a sottili righe bianche e blu, portate con orgoglio da tutte le forze speciali della Federazione Russa.

Questi sono, o più probabilmente erano, il capitano Kovich e altri due membri delle forze speciali Spetsnaz. Il loro compito era avvicinarsi di nascosto a un luogo apparentemente insignificante, ma in realtà misterioso”.

 

E' proprio il luogo dove siamo diretti ora, pensa lei di malumore.

 

“Senti, Malony”, riprende lui, “Non ti sembra così strano... Sì, a parte l'orso o quel che è stato, l'Antartide è immenso e deserto. Non è che sia coperto di morti, neanche se si fossero conservati per cent'anni. Non ti pare strano che noi partiamo da un posto qualunque, percorriamo un centinaio di chilometri e lo troviamo lì, a pochi metri dal nostro percorso? Che probabilità c'erano che succedesse?”.

“Però è successo”, tagliò breve lei. Estrasse dalla borsa il suo flaconcino di profumo spray e, sollevando il passamontagna, se lo spruzzò sotto il mento.

Passò pochissimo prima che lui lo percepisse. “Questo profumo...” iniziò, poi si acquietò.

“Ti piace, Roger? Non è buono?”.

“Sì”, poi continuò a guidare in silenzio.

Malony tornò a immergersi nei suoi ricordi, fin troppo nitidi.

 

Mosca, due mesi prima

 

Immagine due!”.

Sullo schermo apparve un'immagine biancastra screziata e puntinata alla quale dapprima Malina fece fatica ad attribuire un significato.

Il colonnello Matarov si girò verso lo schermo e indicò con un puntatore laser qualcosa proprio al centro dell'inquadratura. “Questa fotografia satellitare mostra un uomo a terra, morto, proprio lungo il percorso che il gruppo del capitano Kovich avrebbe dovuto percorrere”.

Con questo suggerimento, Malina individuò rapidamente la piccola figura umana scomposta, vestita di bianco.

Il vestiario e l'equipaggiamento sembrano compatibili con quelli che avevano in dotazione. Non sappiamo perché sia morto, né abbiamo localizzato gli altri due membri del commando. Tu, Malina Nikolayevna, seguirai le tracce di questi uomini e raggiungerai questo corpo per indagare sulle cause della sua morte. La sua posizione sarà memorizzata sulla mappa nel tuo tablet”.

 

Roger continuò a guidare in silenzio. Avrebbe potuto aumentare la velocità della motoslitta, non la stava tirando al massimo. Però col trascorrere delle ore il sole, dapprima alla sua destra, si stava sempre più spostando verso il suo campo visivo, e cominciava a disturbare la sua visuale verso nordovest. “Malony, non è che questi occhialoni abbiano anche dei paraocchi? Il sole comincia ad abbagliarmi”.

“Aspetta... vediamo se ho un fazzoletto di carta...”. Lei armeggiò con la borsetta ed estrasse un blocchetto di Post-it. “Ecco, prova con questo”, disse allungandosi verso avanti per porgergli uno dei bigliettini.

Lui lo prese e lo sistemò sull'intelaiatura degli occhialoni. Era instabile, ma dava un po' di protezione dal fastidioso abbagliamento. “Grazie, Malony, va meglio. Riesci a tenere d'occhio il lato destro?”.

“Va bene”. Strizzò gli occhi guardando controsole, facendosi schermo con una mano. “Nessuna minaccia in vista, per ora”.

“Quanto manca alla destinazione?”

“Circa sessanta chilometri”.

“Speriamo che ne sia valsa la pena”.

“Lo sapremo solo quando saremo lì, Roger”. Se ci arriveremo, completò tra sé ritornando ai suoi pensieri.

 

 

 

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Capitolo 3
*** Verso l'epicentro della minaccia ***


 

Neve rossa

 

Capitolo 3: Verso l'epicentro della minaccia

 

 

Mosca, due mesi prima

 

Il colonnello Matarov continuò:“Il compito di quegli uomini era avvicinarsi a piedi a una cosiddetta stazione scientifica australiana conosciuta come AAMS-29. Nominalmente è un sito insignificante, destinato solo a registrazioni meteorologiche e visitato solo occasionalmente da squadre di manutenzione. Immagine avanti!”.

Al suo ordine vocale, l'immagine precedente venne sostituita da una vista satellitare di pochi piccoli edifici monopiano accanto a una pista di atterraggio su un ghiacciaio screziato di rosso. Parcheggiato non lontano dagli edifici, risaltava un grosso aereo da trasporto C-130.

Perché tanto interesse per quel luogo, signor colonnello?”.

Ci sto arrivando, Malina Nikolayevna. Solo di recente abbiamo notato un traffico di velivoli da trasporto del tutto sproporzionato all'apparente grandezza del sito. Alcuni indizi analizzati in retrospettiva ci fanno pensare che ciò sia iniziato già da almeno quattro anni, e che venga tenuto nascosto intenzionalmente”.

Malina annuì in silenzio. Aveva ormai intuito che il suo superiore non amava essere interrotto.

Il colonnello disse “Immagine avanti”, e sullo schermo apparve una vista a falsi colori del sito. “Questa scansione nell'infrarosso suggerisce alcune zone calde ben nascoste in questi affioramenti rocciosi a poche centinaia di metri, e perfino sotto il ghiacciaio”.

Malina annuì ancora. Le sfuggì: “Allora può essere qualche attività fatta in violazione al trattato internazionale antartico”.

Grazie per le tue ovvietà, Malina Nikolayevna. Però forse anche tu sai che tra poco più di due anni, nel 2049, quel trattato spirerà, e diverse nazioni si trovano già da tempo a scaldare i motori per partire alla conquista di quel luogo, in base al principio che chi per primo occupa i siti sarà di fatto legittimato a considerarli suoi. Noi crediamo che l'Australia abbia già iniziato da anni, in segreto, un processo di militarizzazione e di preparazione allo sfruttamento minerario dell'Antartide”.

 

Mentre Malony stava rimuginando ogni parola di quel colloquio segreto, Roger continuava a guidare la motoslitta in silenzio, scrutando il percorso davanti a loro.

I suoi ricordi confusi offrivano solo immagini incomplete, simili a frammenti di sogni.

 

Antartide, nove mesi prima

 

Presto, signori”, li sollecitò nervosamente il colonnello Taylor, “E' quasi l'ora, il Kosmos 3814 si sta avvicinando”.

Da dentro il mezzo cingolato, il guidatore in uniforme mimetica polare lasciava trasparire segni di impazienza. “Maledetto spione”, sbottò con un'occhiata risentita verso il cielo di un blu intenso.

Ventuno... ventidue”, contò l'ufficiale. “Sono tutti”. Appena l'ultimo fu salito, ordinò: “Seduti, prego, e allacciatevi le cinture”.

Con un debole ronzio di motori elettrici, il mezzo si diresse verso una delle costruzioni a lato della pista, sul cui fianco era aperto un largo portone. Appena entrati, ci furono esclamazioni di sorpresa quando il mezzo si inclinò, scendendo una ripida rampa che lo portò diversi metri sotto il livello della coltre di neve ghiacciata. Fioche lampade a led, schermate verso l'alto, visualizzavano il percorso, altrimenti immerso nella semioscurità del tunnel.

Poco più avanti, il soffitto di ghiaccio traslucido venne sostituito dalla roccia.

Passati dei robusti portoni di acciaio, la luce si fece più forte, come se non si nascondesse più agli occhi del cielo.

Il mezzo si fermò in quello che sembrava un grande parcheggio sotterraneo. Lungo il soffitto scavato nella roccia correvano tubi di condotte d'aria, cavi elettrici e chissà cos'altro. Di lato si vedeva la luce di una guardiola vetrata scavata nella montagna.

Il colonnello si alzò in piedi, impettito. Roger ne notò la figura squadrata, basso e con spalle larghe da lottatore. “Signori, benvenuti nel Grand Hotel dove alloggerete per tutto l'inverno antartico. Vi promettiamo che non avrete molto tempo per annoiarvi”.

 

“Roger...”. Dal sedile posteriore, la voce di Malony lo richiamò dal suo vagare tra immagini confuse.

“Cosa c'è?”.

“Non vorrei mandarti in paranoia, ma... ma ho avuto l'impressione di un movimento all'esterno”.

“Un orso?”, chiese lui allarmato, stringendo gli occhi per guardare contro sole.

“Mi era sembrato un cumulo di neve. Però si è mosso”.

 

Antartide, sala operativa sotterranea

 

All'interno della piccola sala operativa scavata nel cuore della montagna, il colonnello Taylor stava supervisionando i tre controllori del servizio di sicurezza esterna seduti alle loro consoles.

La porta metallica era chiusa e presidiata, e luci rosse rimarcavano che era in atto una situazione di emergenza. Grandi monitor campeggiavano sulle pareti del locale senza finestre. Su quello di fronte a loro, una mappa a falsi colori della zona veniva solcata da una linea dritta che si stava lentamente allungando verso il centro, attraverso un'area punteggiata da icone misteriose.

Il sergente Benson, alla console sinistra, era l'addetto al controllo degli automi di sorveglianza e difesa. “Signore, gli intrusi si stanno dirigendo esattamente nella nostra direzione. Saranno qui in poco più di un'ora”.

Molto male”, sbottò il colonnello Taylor, osservando chino sullo schermo dell'operatore l'immagine in distanza della motoslitta rossa che avanzava. “Speravo proprio che non ci avrebbero più riprovato”.

Pensate che i russi siano nuovamente in esplorazione?” chiese il sergente, “Non credete all'incidente aereo?”.

Penso che sia stata tutta una montatura alla ricerca di un pretesto per venire da questa parte”, disse il colonnello. “O peggio, una provocazione”. Si rivolse all'operatore alla console centrale, addetto ai sensori fissi: “Sergente Jacobs, avete individuato qualunque altra cosa?”.

Purtroppo, la segretezza dell'installazione rendeva tabù l'utilizzo di uno strumento tracciabile come un radar, per cui la sorveglianza era affidata a decine di telecamere ottiche e termiche, le cui immagini erano fuse assieme e preanalizzate da un sistema di intelligenza artificiale prima di essere rese all'operatore umano. Un ottimo sistema, a patto di guardare nella direzione giusta.

Sì signore. Un drone quadricottero li sta seguendo a circa trenta chilometri di distanza, senza avvicinarsi. Crediamo che sia quello della stazione di S. Nikolay”.

Fanno finta di cercarli, quegli ipocriti. Vogliono fregarci alla grande, questa volta”, disse il colonnello, camminando avanti e indietro come un pugile a cui abbiano appena cancellato un incontro importante. “Se li lasciamo continuare, ci arriveranno sulla porta di casa a curiosare. Se li fermiamo, rischiamo di fargli vedere le nostre difese, e loro stanno aspettando proprio questo!”. Scosse il viso con rabbioso rammarico. “Sono astuti! La mossa giusta per noi sarebbe stata quella di rovinare il loro gioco fin da subito mandandogli incontro un elicottero di soccorso da un'altra stazione, ma loro hanno fatto finta di muoversi in una direzione diversa per poi svoltare dritti verso di noi!”.

L'elicottero di soccorso più vicino disponibile è sulla costa, a oltre cinquecento chilometri. Troppo lontano per raggiungerli prima che arrivino qui”, confermò il sergente Keith dalla console a sinistra, facendo scorrere le dita su uno degli schermi. “E se mandassimo un nostro cingolato a raggiungerli, per poi dirottarli verso un altro sito?”.

Il colonnello si piantò sui piedi e chiese quasi sarcastico: “Un mezzo militare, sergente Keith? Se i russi hanno già dei sospetti su questo posto, sarebbe un modo per confermarglieli”. Riprese a camminare avanti e indietro, scuotendo il viso. “Mi dispiace, anche questi dovranno sparire, ma questa volta nel modo più pulito possibile”. Si fermò di scatto, rivolgendosi all'operatore sulla sinistra. “Sergente Benson, lo Spectre 6 è in posizione favorevole?”.

Spectre era il nome col quale erano designati i piccoli robot cingolati a difesa del sito. Questi mezzi insidiosissimi, più piccoli di un'utilitaria, erano mimetizzati con coperture flessibili che dall'esterno li facevano assomigliare a cumuli di neve, e presentavano differenti combinazioni di sensori e armamenti. Non erano veloci, ma erano l'ideale per qualunque agguato.

Sì, signor colonnello. Gli intrusi arriveranno a portata del suo Subson tra circa sei minuti”.

Bene. Trasmetta l'ordine al robot di fare fuoco appena a tiro”.

Il Subson, la nuova arma a subsuoni, era l'ideale per uccidere qualcuno in quel deserto gelido simulando una morte naturale. A differenza di un lanciamissili o di un cannoncino, poteva sparare senza che nessun fottuto spione potesse vedere assolutamente niente balenare nell'aria. Inoltre, i danni che il subsuono provocava alle pareti cellulari delle sue vittime venivano perfettamente nascosti da quelli provocati dai cristalli di ghiaccio durante il congelamento del cadavere. Nessuna eventuale autopsia avrebbe potuto mai suggerire che la causa della morte fosse stata qualcosa di diverso dall'ipotermia.

 

“Come?”, reagì scettico Roger, “Malony, i cumuli di neve non si muovono. Sei sicura che non fosse un orso, piuttosto?”

“Non sono sicura di niente”, rispose lei a bassa voce. “Vorrei solo non essere mai venuta in questo posto”.

 

Mosca, due mesi prima

 

Signor Colonnello, qualunque sia la causa della morte dei nostri Spetsnaz, che cosa impedirà che lo stesso avvenga anche a me?”.

Il colonnello Matarov spiegò, evitando di guardarla negli occhi: “Qualunque sia la minaccia, è probabile che agisca solo se può farlo di nascosto. Quando abbiamo mandato quegli uomini, non abbiamo potuto sorvegliare il loro tragitto adeguatamente: avevamo solo due satelliti Kosmos in rotta polare, che davano un tracciamento molto discontinuo della missione. Da allora abbiamo collocato ulteriori quattro Kosmos in orbita bassa polare, ciascuno dei quali passa ogni ora e mezza. Tu, Malina, ti presenterai come la sopravvissuta a un incidente aereo in cerca di soccorso, e sarai seguita dalla lunga vista di satelliti e di droni, oltreché da mezzi di soccorso che arriveranno al momento opportuno. Sarà molto difficile che chiunque osi agire contro di te, sfidando la possibilità che il suo odioso crimine venga documentato e denunciato all'opinione pubblica di tutto il mondo”.

Insomma, per mal che vada vedrete come muoio”.

Seguì un momento di silenzio pesante. “Malina Nikolayevna, tu avrai un ulteriore fattore di protezione a tuo vantaggio. Provvederemo che qualcuno ti accompagni nel tuo percorso verso quel sito”.

 

Dall'abitacolo della motoslitta, Malony rivolse lo sguardo verso il cielo. Si aggrappò al pensiero che almeno c'erano degli occhi senz'anima che vegliavano su di lei da lontano. E al di sopra di loro c'era sempre lo sguardo di Dio.

 

Antartide, sala operativa sotterranea

 

Il sergente Benson si rivolse al suo superiore: “Signore, ci siamo. Spectre 6 mi chiede conferma di fare fuoco.”

Confermare”.

Sì, signore”. Dopo qualche istante, un riquadro rosso cominciò a lampeggiare sullo schermo del sergente. “Signore! C'è un malfunzionamento del selettore di frequenza acustica. Spectre 6 non può usare il Subson. Deve passare al cannoncino?”.

Maledizione no, niente cannoncino. Risolvetela subito!”. Queste armi nuove e le loro grandi promesse, rimuginò tra sé il colonnello Taylor.

Il sergente Benson si affannò alla console, ma sapeva che non c'era modo di riparare il guasto senza far rientrare il robot alla base. “Si, signore. Ripeto l'ordine.... Negativo, ancora una volta. E l'obbiettivo sta per uscire dalla portata del Subson...”. Dopo qualche istante, riprese: “Sono usciti. Il tentativo è fallito. Cosa devo fare?”.

Dov'è Spectre 7?” , chiese il Colonnello. Spectre 7 era il gemello del 6, anche lui armato di Subson e cannoncino.

E' fuori portata, signore, dieci chilometri più a nord”.

Il colonnello osservò il grande monitor a parete. “Dobbiamo prendere tempo. C'è qualche Spectre col laser accecante in posizione utile?”.

C'era il 12 fino a poco fa, ma ormai gli danno la schiena. Il 10 e l'11 sono schierati molto più a nord”.

Il colonnello rifletté brevemente. Il fatto di essere osservati limitava drasticamente le loro opzioni.

Spectre 12 è in posizione utile per accecare il drone russo?”.

Sì, signore, è proprio in linea tra loro e il drone. Distanza costante di trenta chilometri. Mi conferma l'ordine di accecare il drone?”.

Confermo”.

Il sergente Benson armeggiò brevemente con la sua console. “Conferma!”, pronunciò in risposta a una domanda non udita. Subito un riquadro cominciò a lampeggiare sullo schermo, e il puntino scuro nel cielo mostrato da un altro schermo cominciò a muoversi lentamente di lato.

Fatto, signore. Il drone russo è accecato. E ora?”.

Il colonnello si permise un respiro profondo, sperando che il danno alle ottiche del drone non fosse dimostrabile come un attacco esterno. Poi si rivolse all'operatore a destra, addetto ai collegamenti e alle informazioni da fonti esterne. “Sergente Keith, c'è qualche fottuto Kosmos che sta osservandoli?”.

Ora sì, signore. Possiamo agire tra un minuto e mezzo, avremo una finestra di diciotto minuti fino al prossimo”.

Bene, passate gli ordini ai Bear. Azione tra novanta secondi. Sbarrare la strada alla motoslitta e farla deviare verso nord. Emettere impulsi elettromagnetici direzionali per disturbare tutte le elettroniche dell'obiettivo. Dare l'ordine a Spectre 7 per intercettarli con il suo Subson appena a portata”.

A differenza degli insidiosi cingolati Spectre, in grado di colpire a distanza, i Bear erano robot zoomorfi che simulavano in modo abbastanza fedele degli orsi polari. Inoltre contenevano sorgenti di impulsi elettromagnetici fortemente direzionali in grado di disturbare a breve distanza gli apparecchi elettronici delle spie, quali telecamere o trasmettitori di vario tipo. Erano l'ideale per sorvegliare un sito ed eliminare discretamente gli intrusi, simulando l'attacco di un animale selvaggio.

 

La voce di Roger la riscosse dai suoi ricordi. “Malony...”

“Eh? Dimmi...”.

“Siamo sempre sulla strada giusta?”.

“E' perfetta. Continua così”.

“Hai visto più niente muoversi?”.

“Niente. E poi, i cumuli di neve non si muovono”.

“Non dicevi così, prima”.

“Prima era prima”.

 

Mosca, due mesi prima

 

E chi saranno i miei compagni, signor colonnello?”.

Ci arrivo, Malina Nikolayevna. Cambio immagine!”.

La nuova immagine proiettata mostrava un giovanotto alto e un po' corpulento con gli occhiali. “Quest'uomo si chiama Roger Wilson, di Perth. E' un ingegnere minerario, che lavora da due anni a una ditta di prospezioni minerarie legata al Ministero dell'Industria australiano. Sappiamo di sicuro che è stato in Antartide già per sei mesi, che è ritornato a Perth a ottobre, e che dovrà ripartire per lavoro ai primi di febbraio. Incrociando le sue date di partenza e ritorno con le immagini satellitari degli aerei da trasporto, sospettiamo che abbia trascorso i sei mesi proprio in quel sito”.

Questo significa che ha trascorso lì tutto l'inverno antartico”.

Non crediamo che l'abbia passato in quelle quattro baracche della stazione meteorologica. Pensiamo, piuttosto, che lì vicino esista o sia in costruzione un'imponente struttura sotterranea. Abbiamo motivo di pensare che tornerà proprio in quel sito a partire da febbraio. Noi faremo in modo che ci arrivi, e pure in anticipo, ma per una via diversa da quella che gli hanno programmato”. Il colonnello Matarov guardò con intenzione Malina, e continuò: “Ora, Malina Nikolayevna, tu non hai paura di sporcarti le mani, vero?”.

Lei rispose, a disagio: “Tutto quello che serve per aiutare la madre Russia, signor colonnello”.

Lui annuì soddisfatto. “Pochi giorni prima della data della sua partenza prevista, un nostro incaricato gli telefonerà a casa, preannunciandogli che un'automobile del ministero andrà a prenderlo per una riunione urgente. Naturalmente l'automobile che arriverà a prenderlo sarà nostra, e il viaggio sarà molto rilassante per lui. Sarà narcotizzato, portato in una nostra sede sicura e verrà interrogato sotto ipnosi. Se le informazioni confermeranno i nostri sospetti, gli cancelleremo con l'ipnosi tutti i ricordi del rapimento e gli confonderemo i ricordi recenti. Inoltre, per facilitare la tua missione, gli installeremo un'àncora ipnotica: ogni volta che lo riterrai necessario, potrai fargli sentire un profumo particolare, e lui si confonderà e diventerà più docile”.

E questo mio accompagnatore in che modo dovrebbe favorirmi, signor colonnello? Se quel sito è davvero una base militare e se mi presenterò lì con un loro uomo che è stato rapito, non ci metteranno un minuto ad arrestarmi come spia”.

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** L'agguato ***


Neve rossa

 

Capitolo 4 : L'agguato

 

 

Roger riprese a parlare, guidando la motoslitta ad aggirare un primo massiccio affioramento di roccia che incombeva su di loro. “Malony, hai detto che la nostra meta è dopo quell'altro...”.

D'improvviso un movimento al margine sinistro del suo campo visivo lo fece scattare. Quello che gli era sembrato un macigno innevato d'improvviso si alzò, rivelandosi come un orso polare in agguato. Fulmineamente la belva si scagliò contro di loro.

“Aah! Attento a sinistra”, strillò Malony con un acuto di cui non l'avrebbe ritenuta capace.

Lui deviò d'istinto verso destra, facendo andare a vuoto il primo attacco dell'orso.

“Accelera , presto, ci sta alle calcagna”, gridò Malony voltandosi verso dietro.

Roger cercò di aumentare la velocità, ma c'era qualcosa che rispondeva male nei comandi della motoslitta. “Non accelera di più. Qualcosa non va”. Buttò rapidamente un'occhiata verso una scala luminosa che aveva tutta l'aria di rappresentare la carica della batteria. “Eppure non mi sembra esaurita”.

“Comunque stiamo guadagnando terreno”, constatò lei. Sentendosi un po' più sicura, sollevò il tablet per prendere qualche fotografia dell'aggressore, ma dopo un tentativo infruttuoso gemette, sconfortata: “Roger, il mio tablet non funziona più”.

“Ma ti pare il momento?” sbottò lui, “Piuttosto, sta continuando a seguirci?”.

“Si, ma abbiamo più di cento metri di vantaggio”.

“Non è che l'orso stia seguendo la scia di profumo che ti lasci dietro?”.

“Magari preferisce l'odore delle tue ascelle”, ribatté lei piccata.

Roger, irritato, decise che aveva di meglio da fare che perdersi in battibecchi.

“Bene, dimmi se si avvicina. Tento di ritornare nella direzione originale”. Cominciò a deviare verso sinistra, stando attento a non perdere il suo vantaggio sulla belva. “Sta continuando a starci dietro. Quanto a lungo è in grado di correre un orso polare?”.

“Non ho idea. Ammesso che sia davvero un orso”, rispose lei armeggiando con il suo tablet. “Strano che si sia guastato proprio adesso”.

“Guastato l'orso?”.

“Il tablet, smemorato!”.

“Addio foto ricordo”, sospirò lui.

“Addio mappa e addio bussola, pure”, aggiunse lei. E addio foto ravvicinate per gli analisti dello SVR-RF, il Servizio Informazioni Estero della Federazione Russa. Si augurò che almeno i droni e i satelliti stessero facendo il loro lavoro.

Roger sterzò dolcemente per riportarsi nella direzione corretta, tenendo d'occhio la distanza dall'orso nello specchio retrovisore. “La nostra destinazione dovrebbe essere dietro quella seconda altura là a sinistra, vero?”.

“Proprio lì”.

“Bene, torniamo ad accostarci”. Riprovò ad accelerare. Questa volta il comando rispose correttamente, e Roger portò la motoslitta alla massima velocità. “Ancora in lutto per il tuo prezioso tablet?”.

“Stranamente, ora funziona”, constatò lei. “Ora ha ripreso... Oh, no, si è fermato di nuovo!”. Torna a guardare dal finestrino. “Roger, un altro orso! Ci taglia la strada, a sinistra!”.

Anche lui vide il secondo predatore avvicinarsi. “Merda, non possiamo certo arrivare fino al mare per sfuggirgli!”. Decise di fare una sterzata nettissima sulla sinistra. “Malony, ora sposta tutto il tuo peso a sinistra”. La motoslitta, in piena velocità, si inclinò pericolosamente sulla destra.

“Perevorachivaaaaaayem!” strillò Malony, sporgendosi verso sinistra per bilanciarla fin a deformare la capottina di tessuto.

“Cosa?”

“Ci ribaltiamo!”, ripeté lei in inglese.

Dopo un lungo momento di sbilanciamento, la motoslitta completò la sterzata rimettendosi dritta, e Roger la spinse in piena velocità nel varco tra i due orsi.

I due predatori si strinsero sul mezzo che scheggiava tra di loro. L'orso sulla loro sinistra si buttò avanti, allungando una zampa artigliata verso la motoslitta che gli passava vicinissima. Gli artigli squarciarono il lato sinistro della capottina dal fronte al retro, lasciando cinque fenditure così nette che sembrano fatte con dei rasoi, i cui lembi presero a mulinare mossi dai vortici d'aria.

Il mezzo passò fortunosamente in mezzo alle due belve.

Dopo un lunghissimo attimo sospeso, Roger scrutò attraverso gli specchietti retrovisori. “Li abbiamo seminati!”, gridò trionfante, poi si concesse di aggiustarsi il passamontagna sul viso sferzato dal vento gelido.

 

Antartide, sala operativa sotterranea

 

Signore”, disse il sergente Benson senza levare gli occhi dalla sua console, “Gli intrusi sono passati proprio in mezzo ai Bear. Si stanno allontanando da Spectre 7 e stanno venendo di nuovo in questa direzione”.

Ho visto, ho visto tutto”, gemette il colonnello Taylor coprendosi gli occhi. “E per giunta quei bestioni di ferro hanno lasciato dei segni sulla motoslitta. Questo non doveva succedere!”.

Avevano ancora sei minuti prima del passaggio del prossimo Kosmos. Guardò il monitor più in alto con la mappa dello schieramento difensivo. “Ora stanno dando il fianco a Spectre 12. Forse riusciamo ad accecarli col laser. Date l'ordine”.

 

A sei chilometri di distanza, con un debole ronzio di motori elettrici, il robot si spostò rapidamente verso la posizione di tiro. I suoi cingoli di gomma, nascosti sotto la cappa biancastra che gli conferiva l'aspetto di un cumulo di neve, arrancarono per portarlo su un piccolo rilievo che gli consentisse di avere una linea di mira libera verso gli intrusi.

Appena la visuale fu sgombra, una lingua di plastica biancastra venne sollevata dall'interno, e la sommità dello specchio di puntamento del laser accecante si sporse all'esterno per alcuni centimetri. Con un soffocato rumore di circuito elettrico, l'arma lanciò la sua invisibile sciabolata di raggi infrarossi.

 

Alla guida della motoslitta, lanciata alla massima velocità, Roger chiese: “Ci stanno ancora inse...”

“Ahh!”. Un grido di Malony lo interruppe. “Non guardare a sinistra! Non guardare a sinistra!”.

“Cosa... Cosa c'è a sinistra?”. Per un attimo si voltò, poi realizzò ciò che aveva sentito e tornò a guardare davanti a sé. “Malony, cosa succede? Cosa c'è a sinistra?”.

“Non ci vedo più. Dev'essere stato un laser accecante. Non guardare!”.

“Oh, merda, chi mai potrebbe...”.

 

Antartide, nove mesi prima

 

Resti immobile solo un attimo, signor Wilson. Trattenga il respiro”. Il tecnico controllò che il mento fosse ben centrato sul supporto, poi pronunciò: “Hal, scansione 3D”. Un breve ronzio elettrico fece seguito alle sue parole. “Bene, questa è fatta, prenda pure fiato. Ora passiamo alla scansione delle retine”.

Roger guardò con interesse i macchinari del laboratorio tutt'attorno. “Mi tolga una curiosità: capisco la scansione della retina per poter aprire le porte, ma a cosa serve la scansione 3D del volto? Non ho visto nessun sensore che sfrutti questo metodo, nella base”.

Qui dentro no, ma se mai le dovesse capitare di uscire all'esterno, da questo riconoscimento potrebbe dipendere la sua vita”.

Perché? Che cosa c'è all'esterno di così pericoloso?”.

Il tecnico fece una smorfia, come per serrarsi le labbra con i denti. “Si auguri di non doverlo scoprire mai”.

 

Lentamente, Roger realizzò che un nuovo odore metallico stava avendo la meglio sul passamontagna davanti al viso e sui vortici di aria gelida che turbinavano attraverso la capottina lacerata. “Malony, sei ferita?”.

“Solo un graffio”, rispose lei a denti stretti. “Anzi, cinque graffi”.

“Oh merda! Perdi molto sangue?”. Avrebbe voluto voltarsi, ma con la motoslitta lanciata alla piena velocità non era proprio il caso.

“Solo un poco. Fai presto, Roger, raggiungi quel sito più velocemente che puoi. Forse ora abbiamo qualche minuto in cui qualcuno veglia su di noi”.

“Resisti, Malony!”. Mantenne la direzione verso il contorno dell'altura in distanza, stando attento a non guardare sulla sinistra, da dove era partito il raggio accecante. Sapeva che così non avevano molte possibilità di sfuggire a un altro agguato, ma non aveva scelta.

Quella montagna dove erano diretti sembrava pian piano più vicina. Era davvero un luogo di salvezza, o piuttosto l'epicentro della minaccia?

 

Antartide, nove mesi prima

 

Superata la pesante porta insonorizzata, cominciarono a percepire il rumore dei macchinari proveniente dal fondo del lungo tunnel. Andando avanti, sempre più si percepivano le vibrazioni propagate nel pavimento e nelle pareti di roccia grossolana, finché sboccarono in uno slargo illuminato a giorno dai fari a led. Alla loro destra, tre veicoli cingolati carichi di materiali di escavo attendevano davanti a un portone metallico chiuso. Dal tunnel di fronte, un altro cingolato carico emerse da una nebbia di polvere che sfumava le luci dal fondo, mettendosi in coda ordinatamente dietro agli altri.

Un uomo di mezz'età dall'aria autorevole, con cuffie e un microfono che si intravedevano sotto il casco da cantiere, stava scandendo: “A tutti i conducenti: mancano sei minuti alla luce verde. Tempo a disposizione per lo scaricamento: quattordici minuti. Squadra innevamento: meno venti minuti. Avete quattro minuti per la copertura nevosa. Tra venticinque minuti, tutti dovranno essere di nuovo al coperto”. Poi l'uomo si voltò verso il gruppetto e sorrise.

Oh, ecco i nuovi arrivati. Ben venuti, ragazzi”. Si tolse il casco e le cuffie, rivelando la testa calva e il viso quadrato incorniciato da una barbetta sale e pepe.

Alcune voci dal gruppo risposero al benvenuto.“Grazie” “Buongiorno”, “Piacere” “Ciao John”.

L'uomo li studiò con uno sguardo penetrante. Disse qualcosa che non fu compreso bene, coperto dal frastuono di qualche trivella proveniente dal tunnel nebbioso. Resosi conto che non veniva sentito, l'uomo si rinfilò il casco col microfono e gli auricolari e fece cenno a tutti di accendere la trasmissione.

Mi sentite ora? Ben venuti, ragazzi. Vedo alcune nuove reclute tra voi. Mi presento, il mio nome è Ben Sailor, ingegnere minerario, e sono il direttore di quella che tra qualche anno diventerà la più ricca miniera al mondo di terre rare. Scandio, olmio, neodimio sono presenti in queste rocce con una concentrazione tale da far impallidire la maggior parte delle poche, strategiche miniere sparse per il nostro pianeta. Tutte le prospezioni eseguite finora indicano che in pochi chilometri, in questi rilievi, è concentrata una quantità di questi elementi tale da poter far diventare l'Australia la prima produttrice al mondo di questi metalli indispensabili per molte tecnologie moderne”.

Le parole del direttore furono seguite da sommesse esclamazioni di meraviglia.

Molti sanno che questa risorsa ha avuto un'importanza strategica nelle contese geopolitiche, e qualcuno sospetta che sia la vera causa che ha mosso diverse guerre, invasioni e colpi di stato nell'ultimo mezzo secolo, anche se nascosta dietro pretesti ideologici, religiosi o di odio interetnico.

Inoltre questo luogo deserto, lontano da ogni ecosistema significativo, è l'ideale per stabilirvi i processi di purificazione dei materiali, altamente inquinanti ed energivori”. Dopo una breve pausa a effetto, il direttore continuò: “Per ora vale ancora il trattato internazionale antartico che vieta le rivendicazioni territoriali e lo sfruttamento minerario dell'Antartide, per cui non abbiamo iniziato l'estrazione massiva del minerale né il suo trattamento, in quanto sarebbe impossibile farlo con la dovuta riservatezza, ma mancano solo due anni alla scadenza di quel trattato obsoleto. Qui stiamo preparando le infrastrutture, le gallerie, le prospezioni per poter iniziare l'estrazione e il trattamento dei minerali in tempi brevi, e per poter rivendicare la precedenza del nostro paese nel possesso e nello sfruttamento di questo territorio ancora vergine”.

Il discorso del direttore fu accolto da un caldo applauso, smorzato dal frastuono della trivella.

L'uomo continuò: “Questo giacimento è all'interno dell'area antartica storicamente rivendicata dal nostro paese, a soli quattromila chilometri dalle nostre coste, mentre tutti i paesi che potrebbero contestarcene il possesso si trovano quasi dall'altra parte del pianeta. Nonostante ciò, i nostri militari si stanno preparando a difendere questo giacimento dalle eventuali pretese straniere, ma su questo non vi posso dire molto. Anzi, è meglio che non cerchiate di scoprire niente di più”.

 

Malony stava reclinata sullo schienale, tentando di comprimersi la ferita sul braccio sinistro. Su quel lato non riusciva a vedere niente, mentre con l'occhio destro le restava ancora qualche visione periferica, anche se scurita. La fovea della retina doveva essere stata lesa: quando cercava di fissare un dettaglio, questo veniva inghiottito da una nebbia scura e lampeggiante.

“Vai avanti veloce, Roger, la nostra unica speranza è raggiungere quel sito”.

 

Mosca, due mesi prima

 

Malina Nikolayevna, le nostre squadre di soccorso saranno allertate nel momento dell'incidente aereo, ma vi daranno il tempo di allontanarvi dal luogo dello schianto e seguire il vostro percorso fino all'obiettivo. Saranno tempestive ad arrivare nel momento esatto in cui giungerete in vista della base. Sarà un intervento di soccorso massiccio e corale in diretta TV, proprio sulle porte di quel luogo. Naturalmente i nostri elicotteri di soccorso celeranno ogni sorta di sensori e macchine fotografiche per poter documentare quel sito da vicino, ma senza presentarsi come intrusi, piuttosto come salvatori. Né a loro, né a voi potrà succedere qualcosa di male senza essere documentato e mostrato al mondo in tempo reale”.

 

“Roger...”. Lo chiamò a mezza voce lei. Aveva iniziato a provare nausea, mentre il respiro e il battito del cuore stavano pian piano accelerando. L'effetto della perdita di sangue dal braccio cominciava a farsi sentire.

“Come ti senti, Malony?” rispose lui premuroso, ma senza distogliere gli occhi dalla guida.

“Abbastanza bene”, rantolò col tono più gioioso che riuscì a fare, ma non le riuscì molto convincente. “Volevo dirti... quando sarà il momento, prova a toglierti il passamontagna, gli occhialoni e il cappuccio”.

“Che cosa? Perché?”.

“Per farti riconoscere”.

 

Mosca, due mesi prima

 

Ancora non ho capito una cosa, signor colonnello: se non sappiamo perché la precedente squadra di esploratori è scomparsa, in che modo la presenza di quel tipo dovrebbe risparmiarmi la stessa fine?”.

Il colonnello Matarov le rispose senza guardarla negli occhi: “Abbiamo motivo di pensare che, qualunque sia il modo esatto in cui è accaduto, non si ripeterà se riconosceranno una persona autorizzata ad accedere a quel sito”.

 

Roger restò incredulo. “Farmi riconoscere? E chi dovrebbe riconoscermi? Gli orsi?”.

“A te sembravano davvero degli orsi?”.

“Non ti capisco. Malony, sei sicura di sentirti bene?”.

“Non preoccuparti per me, corri. Arriva su quel sito, abbiamo i minuti contati. Falli correre. Tirala per le lunghe, fatti vedere da tutto il mondo mentre girerai attorno a quelle quattro casupole. E ricorda questo: come ultima cosa, quando non potrai fare altro, scopriti il viso e fatti riconoscere da loro”.

“Sì, Malony”, rispose lui con tono premuroso. Poveretta, è in pieno delirio.

 

Antartide, sala operativa sotterranea

 

Il sergente Keith, alla console sinistra, si voltò verso il colonnello Taylor. “Signore, anche il Kosmos 3938 è passato. Abbiamo sette minuti fino al prossimo satellite da ricognizione cinese, undici al prossimo giapponese e ventidue fino al prossimo Kosmos”.

Non mi interessano i musi gialli, sergente Keith. Al momento attuale sono i russi che ci tengono gli occhi addosso”. Il colonnello guardò le iconcine sulla mappa. “Mandate avanti Bear 12 e 14. Alzate i disturbi elettronici al massimo. In ventidue minuti possiamo farla finita e coprire quanto resta sotto una spanna di neve”.

D'improvviso si sentirono voci concitate fuori dalla porta della centrale operativa. Un militare di guardia stava opponendo un incerto rifiuto a qualcuno che insisteva. Poi la porta si spalancò. L'ingegner Ben Sailor entrò e li guardò con occhi lampeggianti. “Colonnello Jim Taylor! Posso sapere cosa state combinando a pochi chilometri dal mio impianto?”, tuonò la sua voce autorevole.

Il colonnello si voltò gelido verso l'intruso. “Ingegner Sailor, quest'area è interdetta ai civili, e io sono il solo responsabile della sicurezza di questo sito”.

Lo so già cosa state combinando! I vostri robot sono nuovamente pronti a fare a pezzi due persone, proprio sulla nostra porta di casa”.

Il colonnello, rigido, si voltò verso gli operatori. Da chi poteva essere stata divulgata quest'informazione? “Benson, prosegua seguendo le istruzioni originarie, tra un attimo tornerò a supervisionare il lavoro”. Poi, gelidamente, si rivolse all'ingegnere. “Io rispondo del mio operato solo ai miei superiori, e sto portando a termine l'incarico che mi è stato assegnato da loro. Ora vuole uscire, o devo farla accompagnare via dai soldati?”.

Il direttore scandì, deciso: “Colonnello, la sua ostinazione è stupida. L'esistenza della nostra base è già stata scoperta, e siamo sorvolati di continuo dai satelliti stranieri. Non possiamo...”.

Appunto per questo, non mi faccia perdere i pochi minuti preziosi che abbiamo prima del prossimo!”. Fece un cenno ai soldati di guardia. “Accompagnate questo civile fuori dalla sala operativa”.

I due soldati si fecero avanti, esitanti, e presero con poca convinzione le braccia dell'ingegnere, che si divincolò. “Non possiamo farci trovare con i cadaveri sulla porta di casa e gli orsi con gli artigli grondanti di sangue! Questi non sono degli spetsnaz in missione segreta in un deserto dimenticato da Dio, sono due sopravvissuti a un incidente aereo...”.

Un incidente fasullo, una montatura! Portatelo via, soldati! E' un ordine!”.

E li stanno cercando proprio qui!”, finì Sailor mentre i due soldati iniziavano a trascinarlo verso la porta.

Il colonnello gli voltò le spalle. “Sergente Benson, procedete, dunque!”.

Sì, signore. Bear 12 e 14 gli stanno andando incontro. Il 14 lo attaccherà da sinistra. Il guidatore sembra sfuggito a tutti gli impulsi laser accecanti, il che fa pensare che non guardi mai da quella parte per sua scelta. Nel momento dell'attacco di Bear 14, Spectre 12 lancerà altri impulsi laser da lontano, e se quell'uomo si volterà a guardare sarà finito”.

Ci conto. Quanto manca?”

Cento secondi all'attacco, signore”.

Di lato, il sergente Jacobs intervenne con tono allarmato: “Signore, i sensori segnalano due elicotteri provenienti da nordovest”.

Maledizione, a che distanza?”.

Solo ventidue chilometri, in avvicinamento rapido. Sono diretti proprio qui. Sei minuti all'arrivo”.

A suo fianco, il sergente Keith aggiunse: “Ce li segnalano anche dalla stazione Ross 2. Sono del soccorso navale russo. Ci segnalano inoltre un altro elicottero di soccorso neozelandese in avvicinamento da est e uno francese da nordovest”.

Il colonnello strinse i denti a queste notizie. “Lo avete capito? I russi ci vogliono fregare, ci hanno mandato addosso un sacco di testimoni con la scusa della missione di soccorso!”.

Colonnello, venti secondi all'attacco”, interruppe il sergente Benson. “Mi confermate l'ordine?”.

Confermo. Fateli sparire e seppelliteli sotto la neve. Disturbate le emissioni di tutti gli eventuali segnalatori di posizione. Quattro minuti, sergente, o ne risponderemo tutti di persona!”.

 

Roger scorse il movimento da sinistra con la coda dell'occhio, e istintivamente scartò. Vide la sagoma dell'orso vicinissima incombere sul loro mezzo. “Attenta!”.

Malony strillò buttandosi sul lato destro, e gli artigli penetrarono nuovamente nella capottina, squarciandola ancora e facendo presa sul mezzo. Con un rumore metallico, qualcosa si staccò dalla fiancata della motoslitta.

“Non guardare a sinistra”, gridò lei con quanta voce aveva in corpo.

“Tranquilla, non ho guardato”, rispose lui socchiudendo gli occhi. “Malony, sei ferita?”.

“Non più di prima. Ha preso solo la motoslitta, credo che abbiamo perso un bel pezzo di fiancata”.

 

Antartide, sala operativa sotterranea

 

Signore, Bear 14 non l'ha fermato. Inoltre non so se il laser di Spectre 12 ha avuto effetto, forse l'orso era in mezzo proprio in quel momento”.

Maledizione, Benson, lo fermi, o le giuro... Sergente Jacobs, quanto manca all'arrivo degli elicotteri?”.

Quattro minuti, signore”.

Con la fronte imperlata, il sergente Benson disse: “Bear 12 è quasi in posizione. Mi conferma l'ordine, signore?”.

Confermato. Morti e sepolti, in tre minuti! Esegua!”.

 

Sul primo elicottero

 

Tre minuti all'arrivo, colonnello Matarov”, comunicò il pilota dell'elicottero . “Si comincia a vedere l'obiettivo all'orizzonte”.

Molto bene”, rispose il colonnello seduto al suo fianco, irriconoscibile sotto il casco con la visiera. L'elegante completo civile che gli era abituale aveva lasciato il posto alla tuta arancione dei soccorritori.

Da dietro, un altro aviere armeggiò alla sua console. “Colonnello, ho perso l'audio dell'obiettivo. Il segnalatore lo dà fermo sulla neve a otto chilometri da qui, sedici gradi sulla sinistra”.

Allora siamo nel momento clou. Pilota, dirigiamoci sulle tracce del segnalatore. Trasmettere in codice all'elicottero due di continuare sull'obiettivo originale e abbassarsi con tutte le camere in funzione per documentarlo da vicino”.

Mentre l'elicottero virava a tribordo, il colonnello gongolò. “Malina Nikolayevna Petrova, da pecora nera della SVR-RF sarai promossa a martire innocente di un grande crimine internazionale. Tra poche ore, il tuo nome e la tua immagine da principessa delle favole saranno noti e rimpianti in tutto il mondo”.

 

 

“Come ti senti, Malony?” insistette Roger.

“Non preoccuparti. Arriva in quel posto, ad ogni costo! Quanto manca?”.

“Stiamo per girare attorno alla montagna”.

“Allora è subito dietro”.

Una vibrazione e un rumore di gomma che striscia cominciarono a levarsi da sotto il mezzo. “Non tradirci adesso, slitta slittina”, pregò lui. “Ancora poche centinaia di metri...”.

Il mezzo cominciò a rallentare. “Manca pochissimo, come può finire così?”, disse fra sé.

“Abbiamo passato la montagna?” chiese lei da dietro.

“Quasi. Si comincia a vedere dietro... Un edificio, là in fondo. Due. Li vedo! Tre edifici!”.

Con un bruttissimo rumore e un sussulto, la slitta rallentò fino a fermarsi. “Il cingolo! Maledizione!”. Roger si voltò verso dietro, e allora lo vide. Un altro orso, o forse lo stesso, si stava avvicinando di corsa da sinistra. La belva rallentò, e sembrò scrutarlo. Inutile tentare una fuga. Roger si alzò in piedi e uscì lentamente dal mezzo, guardandosi in giro. Ormai l'animale era a pochi metri, mentre si cominciava a sentire il battito di pale di un elicottero in lontananza. “Ormai finisce qui”, si disse, osservando la belva che si avvicinava. Nei suoi occhi vide un riflesso violetto, simile a quello delle ottiche di una telecamera, e in quel momento fu sicuro che quello che stava per porre fine alla sua vita non era un animale.

Dalla motoslitta, Malony gemette: “Roger, mostragli il viso! Togliti il passamontagna”.

Ormai la belva meccanica era a pochi metri, come indecisa. Un secondo orso stava arrivando di corsa, seguendo la traccia della motoslitta immobilizzata.

Roger si tolse gli occhiali, e si sfilò il passamontagna arancione. Abbassò il cappuccio, e lasciò che la luce del sole calante illuminasse a pieno il suo viso sferzato dal vento. Il suono ritmico dei rotori degli elicotteri rimbombava sempre più forte sul ghiacciaio e sul fianco delle montagne.

Ormai il suo destino non apparteneva più a lui.

 

 

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