Fire and Raven

di Laisa_War
(/viewuser.php?uid=604614)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Parte 1 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 - Parte 2 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Il funerale era stato solo l’apice di un periodo oscuro durato anni. Fu così avvilente vedere come le persone amate in vita da sua madre l’avessero abbandonata e dimenticata, dopo che le fu diagnosticata la malattia. Convivere con una persona affetta da schizofrenia non era facile, Hylde ne era perfettamente consapevole dall’adolescenza, ma lavarsene del tutto le mani, come fece suo padre, era per lei un gesto inconcepibile. All’età di sedici anni, lo vide decidere di affidare la madre alle cure di un istituto e iniziare ufficialmente una relazione con la donna con cui aveva iniziato a frequentarsi.

Per Hylde, questo significò farsi carico da sola del peggioramento della malattia di sua mamma: quella che prima era una donna fiera, legatissima alle tradizioni della propria terra d’origine, la Norvegia, la donna che le raccontava la mitologia norrena come favola della buonanotte, era diventata il fantasma di se stessa, una povera anima convinta di sentire la voce di Thor, o Freyja. Ovviamente la tradizione norrena è distribuita per gran parte dell’Europa Settentrionale, i vichinghi provenivano anche dalla Danimarca (dove Hylde era nata e cresciuta), ma sua madre conservò un attaccamento speciale alla sua patria, in particolare con Kattegat, la sua città natale.

Tutto questo fino a quando si spense, in totale solitudine, nella piccola stanza riservatale dall’istituto. Hylde ne fu distrutta talmente tanto da chiudersi in se stessa, senza sentire più nulla, senza riuscire a respirare, l’unica cosa su cui si concentrava erano lavoro e studio. Poi, di punto in bianco, evitando di avvisare qualcuno, decise di prendersi una pausa dal mondo: congelò l’appena iniziata carriera universitaria in infermieristica, si licenziò dal suo lavoro part-time e prelevò una piccola somma di denaro lasciatole in eredità dalla madre. Partì per la Norvegia pochi mesi dopo il funerale, in un viaggio commemorativo totalmente dedicato alla sua mamma.

L’aria frizzante di inizio inverno risvegliò Hylde dal fiume di ricordi in cui stava annegando. Alzò lo sguardo verso la primissima tappa del suo percorso: la baia di Kattegat, che si rivelò essere una piccola, ma popolosa città nascosta tra i fiordi norvegesi. Ogni volta che la nominava nei suoi racconti, sua madre si riempiva d’orgoglio e la sua faccia si faceva sognante e cristallina: diceva che, in antichità, vi fossero vissuti il mitico Ragnar Lothbrok coi suoi numerosi figli, altrettanto famosi, e la grande guerriera Lagertha. Peccato che ogni prova della loro esistenza era andata perduta con l’avanzare dei secoli, di loro erano rimaste solo antiche leggende.

Vide un piccolo stormo di gabbiani sorvolare pigro la costa, quasi come a godersi le ultime ore di luce prima del crepuscolo. Controllò l’ora sul cellulare e si decise ad abbandonare la panchina sulla quale aveva passato delle ore intere quel pomeriggio, anche perché il lungo cappotto di pelle sintetica che indossava iniziava a diventare superfluo contro il calo della temperatura, malgrado la leggera imbottitura felpata. Il cielo preannunciava neve.

Era un bel posto, quello: una panchina in legno piazzata su un suggestivo promontorio, in modo tale che chiunque potesse godere del panorama in tutta tranquillità.

Per tornare in città, Hylde avrebbe dovuto seguire un sentiero di terra battuta attraverso i boschi che circondavano il centro abitato. Ormai la strada era deserta, iniziava a far freddo sul serio ed i cittadini avevano già fatto ritorno presso la propria casa.
Arrivò al bivio che aveva incontrato all’andata: la strada a destra presentava una ripida discesa che portava direttamente a Kattegat, che iniziava a riempirsi della luce all’interno delle abitazioni, mentre la strada di sinistra continuava in salita ancora per qualche metro per poi appianarsi presso una piazzola dominata da una grossa statua in bronzo.

Hylde si grattò la punta del naso dopo essersi sistemata dietro l’orecchio una ciocca ribelle color rosso vivo, aveva le mani congelate, ma pensò di avere del tempo per dare un’occhiata a quella curiosa scultura. Prese la via di sinistra senza aspettare oltre, in pochi minuti arrivò alla piccola piazza deserta ed osservò quella che era sicuramente una statua celebrativa raffigurante il dio Odino, intuibile dal suo occhio bendato. Si dice l’avesse sacrificato presso il mitologico pozzo di Mimir per raggiungere la sua celebre saggezza.

«Forse è stupido...», disse fra sé e sé, «Ma a lei avrebbe fatto piacere.». Si concentrò, giunse le mani sul proprio petto e, mai avrebbe pensato di farlo in tutta la sua vita, essendo atea da sempre, pregò Odino di prendersi cura di sua mamma, di accoglierla presso il Valhalla, come lei avrebbe voluto.

Rimase sospesa in quel limbo di eternità, mantenendo le mani giunte. Poté dire di capire sua madre come mai in vita sua, come nessuno, in realtà... Era come se sentisse, provasse su di sé la potenza della natura. Sarebbe stato riduttivo dire: “Sentivo la natura parlarmi.”, ma senza dubbio sarebbe stato il modo più immediato per descrivere quella sensazione.

Mantenne gli occhi serrati, temeva che se ne avesse aperto anche solo uno spiraglio, la voce della natura sarebbe scomparsa. In lontananza, il suono di antichi tamburi.

Il verso di un corvo che volava sopra di lei, il vento farsi spazio tra i fitti aghi dei pini sempreverdi, la luce del giorno, percepita attraverso le palpebre chiuse, che si sostituiva all’oscurità, come se i giorni passassero velocemente, uno dietro l’altro, rincorrendosi, mentre lei serrava gli occhi e i tamburi suonavano.

L’acqua dei torrenti scorreva inesorabile ed incurante, il suono degli animali abitatori della foresta così pacifico, il corvo che le si avvicinava ed il fuoco. Il fuoco divoratore attorno a lei abbracciava tutto, ma il corvo era un’unica entità con esso, senza esser bruciato.
Lei serrava gli occhi, i giorni passavano e i tamburi continuavano a suonare. Il rumore della foresta si acuiva, era viva e comunicava, il fuoco bruciava senza distruggere. Un serpente silenzioso strisciava tra gli arbusti e raggiungeva il corvo, avvolgendolo, senza curarsi del suo disperato affanno, alla ricerca di ossigeno.

Gli occhi serrati, i giorni passavano, il fuoco era solo una scintilla. I tamburi non suonavano più, il corvo era scomparso. Il serpente si girava verso di lei che serrava gli occhi, la minacciava con sibili sinistri. Era vicino, spalancava le fauci sulla sua faccia.


Hylde urlò forte, aprendo di scatto gli occhi. Era sdraiata sul freddo suolo della foresta, riusciva a vedere uno sprazzo di cielo ingrigito far capolino tra le punte dei pini, i quali sembravano molto più numerosi di quelli che ricordava.
Si toccò la testa dolorante, doveva averla battuta cadendo. Cercò di mettersi a sedere con calma, per non farsi venire un capogiro, le faceva male tutto. Si scrollò dai vestiti un misto di terriccio e foglie secche, scorse sul terreno delle tracce di neve mista a ghiaccio, come se la fredda luce del sole non avesse ancora avuto la forza di scioglierla, e in quel momento realizzò una cosa, nonostante la confusione: la piazzola era sparita, come anche la statua, al loro posto solo abeti e alberi spogli.

Si alzò piano, chiedendosi cosa stesse succedendo e dove fosse finita, estrasse il telefono per capire in che area del bosco si trovasse grazie al navigatore, ma non c’era campo. Prima di farsi prendere dal panico, provò a guardarsi intorno, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere informazioni o del sentiero percorso poco prima. Entrambe le cose avrebbero richiesto un certo sforzo, poiché il giorno stava facendo spazio al crepuscolo e la visibilità si riduceva sempre di più.

Hylde s’incamminò, sfregandosi le mani l’una contro l’altra per generare un po’ di calore, il freddo si era fatto pungente e lei si sentiva congelare fin dentro le viscere. Non molto tempo dopo, individuò la fiamma di quella che doveva essere una torcia antica, il tipico bastone con un’estremità impregnata di materiale infiammabile che veniva usato in passato come fonte di luce. Sentì le voci cristalline di un paio di donne, quindi cercò di attirare la loro attenzione in un norvegese un po’ incerto, non poté far di meglio, non essendo quella la sua prima lingua.

Era stata talmente invasa dalla felicità per aver trovato qualcuno che solo dopo alcuni secondi si rese conto dell’abbigliamento bizzarro delle due donne: vestivano proprio come delle guerriere vichinghe nella loro epoca d’oro, con abiti in pelle che sembravano pesanti e molto caldi, un’armatura in tessuto resistente a proteggere spalle e busto. I dettagli che però attirarono maggiormente l’attenzione di Hylde furono l’arco, le frecce e le spade affilate. Non era tranquilla.

Dovevano esser confuse quanto lei, l’abbigliamento pareva anche per loro un elemento destabilizzante, perché si scambiarono una fugace occhiata interrogativa, squadrandola dalla testa ai piedi e avvicinando la mano dominante all’elsa delle rispettive spade, portate all’altezza della vita.

A Hylde venne in mente la domanda più idiota che potesse fare: «Scusatemi, ho per caso interrotto una rievocazione? Mi sono persa, devo tornare a Kattegat...», ma si bloccò, vedendo le due donne in difficoltà nel cogliere alcune sue parole. Probabilmente avevano capito il significato principale della frase, perché fecero dei cenni d’assenso quando sentirono il nome della città, però Hylde ripeté la frase in inglese, convinta che le avrebbe facilitate nel comprenderla molto più del suo norvegese, studiato di fretta nei mesi prima della partenza.

«Oh, cazzo!» esclamò Hylde, indietreggiando con le mani alzate, mentre le due guerriere cambiavano del tutto il loro atteggiamento e si facevano minacciose. La più alta delle due, che portava una lunga treccia bionda, urlò all’altra qualcosa come: «Parla come i Sassoni, prendiamola!», mentre cercava un posto dove appoggiare la torcia. Hylde ebbe solo pochissimi secondi per notare che le due parlavano uno strano misto di danese e norvegese dall’aria antica, purtroppo non comprese tutto alla perfezione.

Provò a dileguarsi, ma l’altra donna, quella che portava i capelli scuri in una lunga treccia legata dietro la nuca e che aveva il collo pieno di tatuaggi, le fu subito addosso, per fortuna senza spada. In quel momento, Hylde decise di provare se le lezioni di Krav Maga prese qualche tempo prima fossero servite a qualcosa. Spoiler: non proprio. Nel XXI secolo nessuno ti prepara ad affrontare i guerrieri vichinghi, o i pazzi convinti di esserlo, e lei aveva dovuto abbandonare il corso quando iniziò a studiare in università e a lavorare in quel centro commerciale. Era decisamente fuori forma, non al meglio della sua preparazione atletica.

Nonostante tutto, riuscì ad assestare qualche bel colpo, rompendo il naso della donna, che però, pur sanguinante, le piazzò un pugno allo stomaco così violento da mozzarle letteralmente il respiro. Hylde rovinò a terra sulle ginocchia, tossendo e premendosi una mano nel punto in cui le era stato tirato il colpo, poi, raggiunta anche dalla seconda guerriera, fu immobilizzata da questa, mentre l’altra le legava a forza i polsi e la strattonava per farla alzare.

Le due non ebbero comunque vita facile, Hylde si dimenò come un’ossessa per gran parte del tragitto, urlando loro ogni tipo di insulto o minaccia in tutte le lingue che conosceva. Dovettero usare ogni briciolo della loro tenacia per non farla scappare e riuscire a condurla in città.
Quando arrivarono a destinazione era già calata la notte, ora le uniche fonti di luce erano immense torce di legno e fuoco vivo disposte lungo i passaggi tra un’abitazione e l’altra. Hylde si era informata prima di partire e constatò di trovarsi chiaramente in un villaggio vichingo, le case erano esattamente come quelle illustrate nei libri di storia: scorse il legno dei telai che sorreggevano i tetti spioventi, le pareti più grosse ricoperte da intere zolle di terra. Per la strada di terra battuta c’erano galline libere e s’intravedevano i cavalli a riposo in una grossa stalla poco lontana da lì. Le poche persone che incontrarono erano degli energumeni ubriachi, i quali la squadravano con sguardi incuriositi e lascivi, soffermandosi sulla sua cascata di capelli rossi o su altre parti del corpo, cosa che le provocò un brivido di ribrezzo, ma ebbe comunque l’audacia di ricambiare con uno sguardo intimidatorio, quasi selvaggio.

Ormai Hylde non aveva più la forza di dimenarsi, era esausta, e quelle donne avevano una presa di ferro. Volle usare le ultime energie rimaste per guardarsi intorno, alla ricerca di qualche via di fuga, ma le sembrò tutto inutile.
Mentre si dirigevano verso quella che era chiaramente l’enorme longhouse della città, Hylde sentì il tipico frastuono provocato da una festa: sentì canti gutturali, persone che ballavano e saltavano divertite, tamburi a cadenzare il ritmo, un altro strumento che invece dettava la melodia. Nell’aria c’era odore di alcool e legno bruciato.

Una delle guardie poste all’ingresso della “casa lunga” si rivolse con una risata alle due: «Astrid e Torvi! Caccia grossa stasera?».
«Come sempre!» rispose quella dai capelli scuri, accennando un saluto col capo e, suggerendo all’altra di aspettare lì fuori con Hylde per impedirle di scappare, entrò. Le parve di cogliere il termine "La Straniera" e scosse il capo, pensando sarcasticamente: “Ma con che coraggio...”.

Evitò di cedere alla paura, anche se c’era la concreta possibilità di esser capitata in una comunità di pazzi, che si credevano i vichinghi del 2020. Malgrado tutto, il gelo di quella sera le fece bramare con tutta se stessa le pellicce pesanti delle guardie e di entrare in quell’edificio che emanava un calore avvolgente.

La musica e i festeggiamenti si fermarono e, poco dopo, quella che era stata chiamata Astrid tornò, facendo segno a Torvi, la donna che aveva i capelli biondi, di portar dentro Hylde, che venne leggermente spinta verso l’ingresso.



Note dell'Autrice:

Ciao a tutti!
Sono Laisa, tornata a scrivere dopo ANNI di inattività.
Spero che questa storia vi piaccia... Fatemi sapere che ne pensate, se poteste essere interessati gli ulteriori capitoli (che usciranno ogni mercoledì).

Un abbraccio sincero,
Laisa

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


La grande sala che si presentò davanti agli occhi di Hylde era mozzafiato, quasi come se l’era sempre immaginata. Era molto buia, ma illuminata abbastanza da un grande focolare centrale, che provvedeva a emanare calore e luce in tutto l’enorme ambiente.

C’erano tantissime persone, distribuite in modo caotico lungo le tavolate riccamente imbandite di cibo e boccali di birra. Notò dei musicisti seduti sui tamburi che poco prima suonavano con trasporto, altri che reggevano degli antichi strumenti a corde. Alcune donne erano sedute sulle gambe dei loro uomini, reggendosi con le braccia attorno al loro collo.

Tutti le puntavano gli occhi addosso con sincera curiosità, come se fosse stata ben più importante della festa appena interrotta, e Hylde, che odiava stare al centro dell’attenzione, si sentì in tremenda soggezione, nonostante facesse di tutto per ostentare una sicurezza per nulla affine al suo reale stato d’animo.

In fondo alla sala svettava, sopra un piccolo palco rialzato, un trono di legno minuziosamente intarsiato. Su di esso sedeva una donna molto affascinante. Hylde la scrutò, mentre veniva fatta avvicinare al palco, davanti alle tavolate: era una donna adulta, segnata dal tempo, con il viso più fiero che avesse mai visto. Aveva gli occhi chiari e i capelli biondi legati in una complicata acconciatura e decorati con una corona d’oro. Portava alle orecchie e sull’elegante vestito blu tante, luccicanti pietre rosse. Anche lei scrutava Hylde attentamente, con faccia seria e imperiosa, come se cercasse di captare le sue intenzioni, come se volesse leggerle dentro. Fece un impercettibile cenno a Torvi, che sguainò obbediente la spada.

Il cuore di Hylde prese a battere a ritmo serrato, si sentì invadere dalla paura. Con le mani legate, tentò istintivamente di coprirsi il volto e il busto, piegandosi su se stessa. Non riuscì neanche a urlare, le parole le morirono in gola.

Con sua grande sorpresa, Torvi le abbassò le mani con fare gentile e tagliò le corde, liberandole i polsi doloranti, con delle ferite superficiali che Hylde si era procurata durante il tragitto, dimenandosi. Tremava come una foglia, nonostante il caldo del focolare, ma si ostinava a mantenere una parvenza di decoro esteriore.

Fu Torvi a rompere il silenzio, spiegando ciò che era accaduto nel bosco, aggiungendo che La Straniera parlava una lingua molto simile alla loro e che conosceva l’idioma sassone. Astrid si unì al discorso, dicendo qualcosa come: «Non potevamo rischiare, quindi l’abbiamo portata qui...», e poi: «Ci ha dato del filo da torcere!», indicandosi il naso, un po’ divertita.

La donna sul trono ascoltò tutto senza staccare lo sguardo da Hylde, tenendola d’occhio, analizzandola con occhio critico, cercando di prendere una decisione. Dopo un tempo che parve infinito, chiese: «Come ti chiami? Da dove provieni?».

«Mi chiamo Hylde e vengo da...dalla Danimarca.», scandì bene lei, prima in danese, poi in norvegese, per essere il più chiara possibile e per capire in che lingua venisse compresa meglio.

La donna le fece capire la propria preferenza per il norvegese, quindi Hylde continuò: «Mi sono persa nel bosco.».

Sperava disperatamente che quello fosse uno scherzo, che facesse tutto parte di una macabra Candid Camera, però si sentì di aggiungere, pur col rischio di sembrare una stupida: «Non sono un nemico, non sono una Sassone.». usò lo stesso accento sentito da Torvi e Astrid e parlò col cuore in mano, cercò di trasmettere tutta la sincerità del mondo. Voleva solo esser lasciata in pace, aveva bisogno di dormire, si sentiva scoppiare la testa.

La donna si alzò dal trono e parlò piano e semplice, riservando a Hylde la stessa possibilità di comprensione: «Io sono Lagertha, regina di Kattegat... E ti credo.». La guardò direttamente e aggiunse, incutendo rispetto: «Ma non ti conosco, non posso fidarmi subito.».

Un uomo di mezz’età, seduto nei primi posti della tavolata più vicina, si alzò agitato, avvicinandosi al trono. Era alto e magro, quasi completamente calvo tranne che per una piccola treccia, con un’importante barba ingrigita e col contorno degli occhi decorato di nero. Parlò in modo concitato con la regina, che gli rispondeva in tono più pacato. Hylde, suo malgrado, riuscì a capire solo degli scorci di discorso.

Lui esordì con: «Io ed Helga vogliamo ospitarla...».

Lagertha si sentì evidentemente presa alla sprovvista e tentò di spiegargli perché secondo lei non fosse una buona idea: «...non la conosciamo, non possiamo rischiare...».

«Fidati di me, Lagertha!», la pregò lui, sorridendo speranzoso.

Discussero animatamente, ma sempre con rispetto reciproco. La regina era sempre più confusa e chiese, abbassando un po’ la guardia: «Perché ci tieni così tanto, Floki?».

L’uomo si illuminò, indicando Hylde: «Gli dei...gli dei pensano sia la cosa giusta. E anche io.».

Vicino al posto lasciato vacante da Floki, sedeva una donna dai capelli molto lunghi e biondi, che entrò nella discussione, a supporto dell’uomo. Aveva una voce gentilissima e dei modi davvero pacati, anche lei si era colorata il contorno degli occhi. «Ci prenderemo noi la responsabilità.», e disse anche: «Lagertha, è una ragazzina, è disarmata...». A Hylde si riempì il cuore di gratitudine nei confronti di quella coppia di persone che, pur essendo delle perfette sconosciute, avevano preso le sue parti e le avevano dato fiducia.

Il viso severo della regina, dopo alcuni secondi di valutazione, si rilassò. «State attenti. Soprattutto tu, Floki.» sentenziò, guardandolo con occhi sinceri. Si vedeva che erano legati da una profonda amicizia, nonostante il divario di autorità.

Hylde ebbe appena il tempo di tirare un sospiro di sollievo, quando un uomo verso la trentina volle manifestare il proprio dissenso. Reggeva un boccale di birra, sembrava aver già alzato molto il gomito e indossava abiti di buona fattura, doveva esser molto ricco. Avanzò barcollante verso Hylde, mostrando alla luce del fuoco metà della faccia tumefatta da una vecchia bruciatura. Le puntò contro il dito e si rivolse agli altri: «Voi dite che l’hanno voluta gli dei. E se fosse Loki? Se fosse un essere maligno al suo servizio?».

Lagertha, che desiderava chiudere quella faccenda almeno quanto Hylde, gli rivolse uno sguardo gelido: «Come?».

L’uomo fece per rispondere con veemenza, avendo notato la stizza della regina: «Guardale gli occhi, hanno il ghiaccio dentro! E i capelli sono puro fuoco!».

Lagertha sospirò con irritazione crescente, annoiata dal blaterare di quell’uomo, per il quale non provava un briciolo di simpatia. Prima che potesse ribattere, fu preceduta da un’infervorata Hylde: «Se fossi un essere malvagio, ti caverei gli occhi... e non aiuterei proprio uno di voi...». Non si preoccupò neanche di farsi comprendere e camminò con passo spedito verso Astrid, che stava nascondendo benissimo il dolore provato per il naso rotto. Con un rapido gesto imparato durante le ore di tirocinio in pronto soccorso, Hylde le raddrizzò il setto nasale, producendo un suono secco. Astrid urlò, ma si ricompose subito dopo, tastandosi il naso come nuovo, e la ringraziò con sguardo incredulo.

Il silenzio fu rotto dalla risata cristallina di un giovane, che iniziò a battere le mani con vigore, dicendo con enfasi: «Ben fatto!». Floki si unì al ragazzo con un sorriso entusiasta ed una risatina acuta: «Visto, Lagertha, è anche una guaritrice!».

La regina scosse il capo con stanchezza, arrendendosi alla singolarità della situazione. Fece segno a Floki di accompagnare Hylde al tavolo, mentre le raccomandava di mangiare qualcosa, vedendo quanto fosse pallida. Infine, ordinò al Conte Egil, così si chiamava l’uomo ubriaco, di rilassarsi e di godersi il resto dei festeggiamenti.

Dato che la situazione sembrava essersi calmata, Hylde volle ritagliarsi un momento d’intimità per chiamare il numero delle emergenze, che avrebbe dovuto funzionare anche in assenza di rete. Si ostinava a sperare che fosse tutto uno scherzo o che fosse capitata in mezzo a un gruppo di pazzi, sicuramente sarebbero state delle spiegazioni migliori rispetto a quelle che stavano balenando in testa: la prima di queste, che fosse tutto vero, che quella fosse la stessa guerriera e regina Lagertha descritta nelle leggende e che fossero tutti veri vichinghi; la seconda, che lei stesse avendo una crisi come sua madre, che stesse manifestando i sintomi della malattia. A quel punto, avrebbe preferito senza dubbio l’esser capitata in un universo ambientato 1200 anni prima.

Disse a Floki di aver bisogno di una boccata d’aria fresca e lui, con fare paterno, le prestò una delle sue pesanti pellicce, per ripararsi dal freddo esterno. Un gesto che la commosse, dopo tutta la paura provata nelle ultime ore.

La ragazza uscì di fretta e cercò uno spazio riparato e deserto dove avrebbe potuto usare il cellulare senza esser vista. Nonostante i diversi tentativi, anche il numero delle emergenze non dette segni di vita e, come se non bastasse, la batteria di scaricò del tutto, oscurando lo schermo del telefono. Hylde imprecò e si lasciò andare ad un pianto nervoso che sapeva di sconfitta, nessuno sarebbe venuto a prenderla. Era bloccata lì, in trappola.

Sentì qualcuno avvicinarsi, alle sue spalle, perciò ripose in fretta il telefono nella tasca del cappotto, quel giorno non aveva portato la borsa con sé. Si asciugò le lacrime con i palmi delle mani e si girò. Si trovò davanti al ragazzo che aveva applaudito, quando lei aveva risposto a tono al Conte Egil. Hylde rimase ad ammirarlo per un po’: si trascinava sul terreno con la sola forza delle braccia, gli occhi erano i più blu e furbi che lei avesse mai visto, il suo sguardo era pura determinazione. La guardava con un vivo interesse, il suo viso era bellissimo, dai lineamenti puliti e ben definiti, sporcati solamente da un piccolo accenno di barba e baffetti. Doveva esser giovane, presumibilmente della stessa età di Hylde, che aveva passato da poco la maggiore età.

Lui continuava ad analizzarla e lei si sentì quasi intimorita. Non osò proferir parola, fino a quando fu il ragazzo a parlare per primo: «Sono Ivar... e i tuoi vestiti sono strani.». Finì la frase con faccia seria, osservando le gambe della ragazza, coperte da jeans attillati e che terminavano con degli stivali muniti di un accenno di tacco.

Sul viso di Hylde si stampò un’espressione molto confusa, davanti alla più comica e ridicola presentazione a cui avesse mai assistito. La sua confusione si trasformò in una risata. Fu la prima risata sincera che si era concessa, dopo mesi di totale tristezza, e fu così liberatorio per lei, che amava ridere anche delle cose più stupide.

Ivar cercò di mantenere la sua aria seriosa, voleva fare l’uomo maturo, ma la sua bocca si piegò in un sorriso genuino e un po’ sghembo, contagiato dalla risata della ragazza. Hylde provò con tutta se stessa a non arrossire di fronte al fascino di quel sorriso, mentre si sedeva per terra accanto a lui, in modo tale da guardarlo bene negli occhi e presentarsi. Gli tese la mano dicendo: «Sono Hylde!».

«No...», scosse il capo lui e disse, afferrandole il polso con delicatezza e facendo aderire i loro avambracci: «Così.». Le aveva appena mostrato il tipico saluto vichingo e stettero entrambi al gioco, quando ripeterono le presentazioni, divertiti, creando una complicità tutta loro. Sul viso gli ricadeva un ciuffo ribelle, separato dal resto dei capelli ben pettinati all’indietro, rasati ai lati. Per un momento, lei si dimenticò di tutto. Erano sparite la paura, la preoccupazione, non c’era più il senso di ansia. Erano solo loro due, come ritratti di una fotografia, chiusi in quell’istante di serenità.

«Sto sentendo Ivar ridere?», chiese qualcuno con incredulità. Scoprirono che la voce apparteneva ad una bella ragazza poco più grande di loro. Era la fotocopia più giovane della donna intervenuta a difesa di Hylde e Floki davanti a Lagertha, solo che lei non aveva un accenno di trucco sugli occhi. Indossava abiti comodi, da guerriera, e alla cintura era legata la sua piccola spada.

Ivar sbuffò con finto astio: «Lei è Brandr, la figlia di Floki ed Helga, la donna che hai sentito parlare prima.», e in più disse, non richiesto: «Siamo praticamente come fratello e sorella.». Fece l’indifferente quando la ragazza gli scoccò uno sguardo allusivo, come farebbe una sorella maggiore che si accorge di dettagli invisibili prima del fratellino.

Hylde non ci fece caso e si presentò a lei, riproducendo il saluto appena imparato e provocando l’entusiasmo del ragazzo.

Brandr prese la parola: «Sei la prima persona che Ivar non insulta, questa settimana.».

Ivar nascose il velo di rossore comparso sulle proprie guance e, schiarendosi la voce, aggiunse: «Mi è piaciuto come hai risposto a Egil. Nessuno di noi lo sopporta.».

Hylde seguiva a fatica i loro discorsi, ma iniziava ad abituarsi alla loro pronuncia. «Quando sono stanca, non sopporto la stupidità.», si spiegò, rendendosi conto di quanto fosse stata impulsiva.

Il ragazzo guardò il proprio respiro condensarsi nell’aria gelida in una piccola nuvola bianca, mentre rispondeva: «La stupidità mi stanca da quando ho iniziato a comprendere il linguaggio.», e la guardò di sottecchi, sperando capisse il sarcasmo.

Hylde scoppiò a ridere: era la cosa più 2020 che un presunto vichingo potesse dire. La sua risata contagiosa conquistò i due ragazzi, che si lasciarono trasportare dall’allegria. Malgrado la bizzarra sequenza di eventi delle ultime ore non la convincesse del tutto, lei fu molto felice di parlare con delle persone della sua età. A casa, la situazione era stata da sempre molto complicata, quindi non le era mai stato semplice avere una vita sociale normale, come quella dei suoi coetanei.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


I ragazzi vennero raggiunti da Floki abbracciato alla moglie Helga. I due li osservarono commossi per un momento, godendosi il suono delle risate.

«Padre...», fece Brandr, accorgendosi della loro presenza: «...questa ragazza è un dono degli dei, ha fatto fare una battuta ad Ivar!».

«E ha fatto ridere te.» completò la madre, accarezzandole i capelli con fare affettuoso.

La coppia invitò le ragazze a seguirli verso casa, immaginando che Hylde fosse molto stanca. Dato che le sembravano delle brave persone, decise di accettare la loro gentile ospitalità e di stare al gioco. Sarebbe comunque partita l’indomani, all’alba, con la luce avrebbe avuto qualche possibilità in più di orientarsi.

Congedarono Ivar e si avviarono. La casa della famiglia di Brandr era situata fuori dalla città, su un’altura che si spogliava lentamente degli alberi della foresta. Era piccola e modesta, con un ambiente centrale più largo, occupato dal focolare ormai spento, ricco di tizzoni, un bel tavolo di legno pesante e poche sedie, completavano il povero arredamento dei rudimentali scaffali e bauli, che probabilmente contenevano utensili da cucina, o del cibo conservato. La casa disponeva anche di due camere da letto, separate dal locale centrale mediante un ritaglio di tessuto leggero, che fungeva da porta. Hylde non osò focalizzarsi sull’assenza del bagno, per non impazzire del tutto, ma avrebbe tanto desiderato potersi fare una doccia calda.

Floki disse che lei avrebbe potuto condividere il letto con Brandr quella notte, ma aggiunse, un po’ imbarazzato: «Ne costruirò uno anche per te, promesso!».

Hylde stava per dirgli quanto non fosse necessario, di non disturbarsi, ma lui la invitò a coricarsi e a riposare, chiudendo la conversazione senza nascondere la propria felicità.

Brandr le prestò una veste da notte e, con un sorriso, fece per scusarsi: «Ci ricordi molto la mia sorellina. Papà si fa prendere dall’entusiasmo.». Sembrava un po’ imbarazzata. Precedette l’imminente domanda di Hylde dicendo anche: «Si è ammalata qualche anno fa, non ce l’ha fatta.». Si strinse nelle spalle, non era abituata a mostrare palesemente le proprie emozioni.

«Mi dispiace tanto, Brandr.» fu l’unica frase che Hylde si sentì di esprimere, non c’era bisogno di aggiungere altro.

Brandr sembrò apprezzare e confessò, mentre si avvolgeva nelle pesanti coperte: «Siamo felici di averti qui.».

Lei si sentì un verme, consapevole che se ne sarebbe andata via dopo poche ore. «Lo sono anche io.», lo era davvero, non riceveva tutto quell’affetto da troppo tempo e sapeva che sarebbe stato difficile privarsene. Però doveva assolutamente trovare un modo per tornare a casa.

Dopo una notte turbolenta, dominata dal freddo e dal perenne stato di dormiveglia, Hylde si svegliò prima di tutti. Iniziava ad albeggiare proprio in quel momento, quindi non perse tempo: si vestì in fretta, facendo il meno rumore possibile, e quando fu pronta lanciò un ultimo sguardo verso Brandr, in un tacito addio. Uscì piano dalla porta della piccola abitazione e si ritrovò nell’umida aria del mattino. Una leggera nebbiolina aleggiava vicino al suolo.

Hylde si rese conto fin troppo presto della dura realtà. La casa di Floki sorgeva alla base di un promontorio, riusciva a sentire le onde del mare, grazie all’estremo silenzio di quel luogo. Si avvicinò cautamente allo strapiombo e apprese con orrore di ritrovarsi di fronte allo stesso, identico panorama che aveva ammirato per ore il pomeriggio del giorno precedente. Non c’era la panchina, ma riconobbe la forma della costa, i monti circostanti, i fiordi. Osservò bene, era lo stesso posto.

L’unico elemento differente era Kattegat: il giorno prima era una ricca e fiorente città moderna, con un porto pieno di navi e pescherecci a motore, era il tipico centro abitato norvegese, con case alte e colorate. Ora osservava un villaggio vichingo, della città moderna nemmeno una traccia. Le barche erano di legno, munite di remi e vele come unico mezzo di propulsione. Nessun cavo dell’alta tensione, nessun aereo nel cielo. Non poteva esser vero.

Kattegat si stava svegliando, il molo si riempiva pian piano di pescatori di ritorno da una fruttuosa nottata di pesca, alcuni commercianti raggiungevano quello che sembrava essere lo spazio dedicato al mercato. Alcuni uomini iniziavano a lavorare alle fortificazioni in costruzione.

Hylde s’inginocchiò a terra, portandosi le mani alla bocca, sulla faccia le si stampò un’espressione attonita, di terrore puro. Realizzò ciò che aveva pensato solo come ad una lontana e recondita ipotesi. Però, prima di lasciarsi andare completamente alla disperazione, ebbe la necessità di controllare un’ultima cosa: si addentrò nel fitto del bosco, alla ricerca di qualcosa che assomigliasse vagamente alla statua, o alla piazzola viste il giorno prima.

Camminò per diversi minuti, ma non trovò nulla. Quel luogo, adesso Hylde era pronta a dirlo, non era stato ancora creato. Fu presa dal panico, non appena arrivò a quella consapevolezza. Non riusciva a respirare, il cuore sembrava volerle esplodere nel petto e la testa pulsava dal dolore.

Dal nulla, sbucò un uomo incappucciato da alcuni alberi in lontananza. Essendo nel bel mezzo di ciò che più si avvicinasse ad un attacco di panico, Hylde non se ne accorse subito. Quando alzò lo sguardo, vide che l’uomo era molto anziano, col viso gravemente deformato, tanto da renderlo cieco. Quello sconosciuto le provocò l’ennesimo moto d’inquietudine, l’ultima cosa di cui lei avesse bisogno in quel momento.

«Giovane Hylde, è tutto vero.» affermò lui in un perfetto danese moderno, cosa che confuse ancora di più la ragazza, ma le diede modo di comunicare al meglio delle proprie possibilità.

Rise istericamente: «E tu come fai a sapere il mio nome? Chi sei, Odino? Thor?». Era incredibile come il suo sarcasmo sapesse palesarsi soprattutto nei momenti meno opportuni.

Lui scosse il capo, vagamente divertito: «No, solo un tramite. So da dove arrivi... E Odino ti ha voluta qui per un motivo molto importante.».

La ragazza tornò ad iperventilare, con copiose lacrime che le rigavano il viso segnato dallo sgomento.

«Non piangere, giovane Straniera. Gli dei vegliano da sempre su di te e tua madre, che ha raggiunto Odino nel Valhalla durante la scorsa estate.», disse il vecchio con aria solenne.

Hylde sentì montarle dentro una rabbia mai provata in vita sua, se quello fosse stato uno scherzo, era giunto il momento di farlo finire: «E tu come cazzo fai a saperlo? Chi è lo stronzo che ha organizzato questa buffonata?». Era vero, sua madre era morta nel mese di Luglio. Lo odiò con ogni fibra del suo essere, per aver anche solo osato parlare di lei.

L’uomo non si scompose minimamente di fronte alla furia della ragazza, anzi continuò: «Avrai bisogno di questa forza per sopravvivere qui, Hylde. Odino ti ha scelta.». Infine concluse, ritirandosi nel bosco: «Ricordati... Il fuoco e il corvo.». Sparì senza lasciar traccia del suo passaggio.

Hylde non ebbe neanche più la forza di provare emozioni, in lei c’era solamente una sorda apatia. Aveva ora la consapevolezza di esser sola, in un mondo che, definirlo totalmente diverso da quello in cui era cresciuta, sarebbe stato un bell’eufemismo. Per qualche assurda volontà magica, o divina, era stata buttata nel IX secolo senza che le fosse chiesto nulla. Non aveva nessuno... Ci era già abituata, ma d’ora in avanti sarebbe stato ancora più difficile del solito.

Come un fantasma, tornò in silenzio verso la casa di Floki, unico luogo in cui avesse trovato delle persone gentili, che le avessero dato fiducia fin subito, senza chieder nulla in cambio. Mentre lei li aveva chiamati “pazzi”, nella sua testa, per tutto il tempo. Era tutto vero, era lontana da casa di almeno 1200 anni. Aveva addirittura conosciuto la vera regina Lagertha, una delle più grandi guerriere della storia norrena.

Arrivando nei pressi dell’abitazione, Hylde vide, attraverso una piccola finestra, che il fuoco era stato acceso, si erano svegliati. Lo capì anche dalla discussione in atto in quella casa, dove tutti si chiedevano che fine avesse fatto.

Helga le buttò le braccia al collo, in un abbraccio materno, quando Hylde varcò la soglia, e si preoccupò ancora di più, vedendola in lacrime, col trucco del giorno prima completamente disfatto. «Non posso più tornare a casa, Helga. Non ho più nessuno.». Non singhiozzava più, gli occhi sbarrati, bagnati dalle lacrime, si erano fatti ancora più chiari di quanto fossero normalmente.

«Cos’è successo? Sei ferita?», chiese Brandr, provando a non far trasparire la propria apprensione, anche se era scattata sull’attenti quando Hylde era tornata.

Helga invitò la ragazza a sedersi su un piccolo sgabello di legno, con premurosa attenzione le accarezzò i capelli e la rassicurò: «Puoi stare da noi quanto vuoi, anche per sempre, se non trovi di meglio.».

Floki le diede man forte: «Certo! Fai parte della famiglia ora, se lo vuoi.». Vicino a lui, Brandr si lasciò andare a un sorriso incoraggiante, in sostegno alle parole dei genitori.

Hylde si coprì il volto con le mani, commossa per quella dimostrazione di affetto disinteressato e di fiducia sincera.


Quando tutti si calmarono, Helga pensò che le avrebbe fatto piacere potersi fare un bagno e prendersi qualche minuto con se stessa, per tornare ad uno stato di tranquillità. L’accompagnò quindi nella camera condivisa con Floki, dove c’era un modesto spazio dedicato all’igiene personale, dominato da una bella vasca da bagno di legno, che nel mondo di Hylde sarebbe stata un pregiato oggetto d’antiquariato.

Le due si aiutarono nel riempire quella vasca di acqua calda, scaldata in una pentola in peltro sul focolare della cucina. Nel frattempo Floki e Brandr discutevano divertiti su cosa avrebbero dovuto cucinare per colazione, senza mai arrivare ad un punto d’incontro che soddisfacesse entrambi. Helga, ruotando gli occhi, le sussurrò: «Cucino sempre io proprio per questo motivo. Così non possono lamentarsi.».

Quando ebbero finito, prima di uscire, la donna chiese a Hylde se stesse bene e lei rispose, con un sorriso incerto: «Bene... Prometto che mi abituerò presto a tutto questo.».

Helga annuì, comprensiva: «Posso chiederti da dove vieni di preciso?».

Quella domanda non spense il sorriso di Hylde, che rispose sarcasticamente: «Helga, se te lo dicessi non ci crederesti.».

La donna ridacchiò, abbandonando la questione: «Quando vorrai dirmelo, ti ascolterò.», e uscì dalla stanza, lasciandole la privacy di cui aveva bisogno. In quel momento, le ricordò tanto sua madre, che non l’aveva mai forzata a parlare di qualcosa, se non ne aveva ancora la voglia necessaria, o non avesse ancora i modi giusti per farlo. Per lei, quello era un dono: la pazienza di aspettare i tempi delle altre persone e rispettarli.

Hylde si spogliò, affrettandosi a entrare nella vasca, sentiva il freddo entrarle nelle ossa. Si immerse completamente e il contatto con l’acqua calda ebbe su di lei un effetto rinvigorente, si sentì quasi rinascere e il suo umore migliorò. Prese a lavarsi con una pastella profumata rinchiusa in un barattolino di terracotta , decorato con l’immagine di un lupo. Era incredibile pensare a quanto le cose date per scontato ogni giorno, come l’acqua corrente e quindi la possibilità di farsi un bagno caldo, non lo fossero affatto in quel mondo passato. Il semplice atto di lavarsi non era mai stato così prezioso.

Avendo finito, uscì dalla vasca e si avvolse in un panno pulito lasciatole da Helga sul letto, vicino a dei vestiti puliti. Hylde si vestì in fretta, per non disperdere il calore regalatole dal bagno: la cosa che più le creò dell’entusiasmo fu la morbidezza della biancheria di lino, la più comoda ed avvolgente mai indossata, ed il caldo dei vestiti di lana. Apprezzò molto il fatto che Helga le avesse fatto trovare dei pantaloni.

Hylde raggiunse la famiglia al tavolo, che si era riempito di latte, uova e porridge. Si rese conto solo in quel momento di avere una fame enorme, quel cibo le aveva suscitato un’acquolina impellente. Si unì a loro, sedendosi nel posto vicino al fuoco, nella speranza che il calore aiutasse i suoi capelli ad asciugarsi.

Brandr avvicinò a Hylde una tazza e Floki, che si stava fiondando sul suo piatto di uova bollite, asserì: «Helga fa il miglior porridge di tutta Kattegat!». La moglie arrossì come una ragazzina.

Hylde non riusciva neanche a ricordarsi i tempi in cui la sua famiglia usava sedersi attorno al tavolo, per consumare insieme un pasto. Non aveva ricordo della felicità che stava vivendo in quel momento.

Si gustò la colazione, cercando di seguire i discorsi degli altri. Erano tutti d’accordo sul fatto che lei dovesse innanzitutto imparare la lingua, quindi pensarono che il modo migliore di farlo fosse parlare e conversare. Così, le raccontarono degli avvenimenti più recenti: il banchetto della sera prima era stato organizzato per festeggiare la riuscita delle razzie nel Mediterraneo, a cui tutti loro avevano partecipato, insieme a tanti altri abitanti di Kattegat, guidati da Bjorn La Corazza, figlio di Lagertha e Ragnar Lothbrok.

Hylde quasi si strozzò con il latte: «Quel Ragnar?», chiese stupefatta. Non poteva crederci, il grande Ragnar Lothbrok, il protagonista della maggior parte dei racconti di sua madre.

«Proprio lui.», rispose Brandr, annuendo soddisfatta, e aggiunse: «Era il migliore amico di papà.».

Floki rivolse a Hylde un sorriso triste, mentre afferrava il proprio bicchiere in terracotta colmo di latte fresco: «Mi manca molto, ancora mi pento di non esser partito per il Wessex con lui.».

«Non potevi sapere come sarebbe finita...», lo rincuorò Helga, accarezzandogli dolcemente il dorso della mano.

«Avrei potuto aiutarlo, Helga. Fare qualcosa...», fece lui, arrabbiandosi con se stesso, provando ancora quel senso d’impotenza che aveva provato il giorno in cui apprese la notizia della sua morte. Hylde si sentì male per lui, non osava nemmeno immaginare il carico di sensi di colpa che si portava sulle spalle.

La parte razionale della famiglia, Brandr, consigliò al padre, con fare incoraggiante: «Farai meglio a usare tutta quella rabbia durante la spedizione di quest’estate, padre.»

Davanti all’espressione interrogativa di Hylde, la ragazza spiegò che Bjorn e gli altri figli di Ragnar (Ivar, il ragazzo conosciuto la sera prima, Ubbe, Hvitserk e Sigurd) avevano intenzione di vendicare il padre uccidendo il re di Northumbria, Aelle, responsabile diretto della sua morte, e re Ecbert, sovrano del Wessex, per averglielo consegnato. Volevano organizzare una grandissima armata, composta da tutti i clan e i popoli della Scandinavia. Dopotutto, Ragnar era stato il più grande e il più amato re vichingo della storia: ogni popolo a loro conosciuto sarebbe stato felice di mettere a ferro e fuoco l’Inghilterra in suo onore. Per questo la città, nei mesi a venire, si sarebbe riempita di persone e popoli stranieri, in attesa della partenza prevista per i primi mesi caldi.

«Non vedo l’ora di far saltare di nuovo qualche testa!» esclamò Brandr con sadico entusiasmo, facendo roteare in aria per poi riprendere al volo la sua ascia affilata. Si rese anche conto di essere in ritardo per l’allenamento con gli altri guerrieri della città, quindi uscì di fretta, salutando tutti e invitando Hylde a raggiungerla, se ne avesse avuto voglia.

Hylde capì di non avere un’occupazione, quindi chiese come potesse essere utile.

«Potresti aiutare Floki.», suggerì Helga, cercando lo sguardo del marito, mentre iniziava ad organizzare le stoviglie vuote per lavarle.

Floki sembrò molto felice di ricevere un aiuto in più: «Sarebbe perfetto. Ho molto lavoro da fare in questi mesi, prima della partenza.».

Helga tornò vicino al tavolo e, appoggiando una mano sulla spalla dell’uomo ancora seduto, spiegò: «Floki è il miglior costruttore di navi della Norvegia, puoi immaginare il carico di lavoro in questo momento.».

Hylde, con sguardo amabile, decise: «Sarei molto felice di aiutarti, Floki!». Non aveva mai lavorato il legno, o costruito qualcosa fino ad allora, probabilmente sarebbe stato lui a doverle dare una mano, ma l’autocommiserazione lasciò il posto alla genuina voglia di rendersi utile per quella famiglia tanto disponibile con lei.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


La luce del giorno iniziava a sovrastare, prepotente, ciò che rimaneva della notte, quando Floki uscì di casa con Hylde, per guidarla verso il proprio luogo di lavoro. Quel giorno, avrebbero apportato diverse modifiche alle navi già costruite, prima di iniziare a crearne delle nuove. L’aria era fresca e frizzantina, ma lei si sentiva protetta e al caldo, grazie alla spessa lana dei vestiti ed alla pelliccia portata come mantello sulle spalle. Le uniche parti del suo corpo esposte al freddo erano le mani e la faccia, che assunse un marcato colorito roseo proprio all’altezza delle guance.

Per arrivare alla loro destinazione, i due dovettero attraversare tutta la città e il molo, fino a raggiungere una piccola spiaggia protetta dall’alta costa rocciosa. Il panorama era interamente occupato da navi, longships, di legno, dalla linea snella ed uniforme, le loro parti più scenografiche erano le polene a forma di drago, risultato di un intenso ed attento lavoro d’intarsiatura.

Durante il tragitto, Hylde si sentì molto a disagio, a causa degli sguardi dei cittadini di Kattegat, che ormai erano tutti svegli, intenti a portare a termine i loro affari e lavori giornalieri. Gli schiavi, sia maschi che femmine, trasportavano grossi secchi d’acqua o pesanti casse di cibo e verdure fresche, alcuni di loro pulivano e rassettavano; i bambini giocavano all’aperto, coperti da capo a piedi da pellicce calde; le guardie cittadine iniziavano i consueti giri di ronda, armate e munite di scudi finemente decorati. Tutti non mancarono di rivolgerle sguardi diffidenti ed allo stesso tempo incuriositi, ma Hylde lo capiva: era la grande novità, dopo pochi giorni tutti se ne sarebbero dimenticati.

«Non farti intimidire.», intervenne Floki per rassicurarla, intuendo i suoi pensieri. Non era un gran chiacchierone, ma lo apprezzò molto per lo sforzo.

Hylde lo guardò incerta, ma alla fine convenne: «Non ti preoccupare, sapevo sarebbe andata così oggi.».

L’uomo annuì soddisfatto: «Brava ragazza!», facendole strada attraverso la città.

Lavorarono senza sosta per gran parte della mattinata, calibrando i timoni delle navi ormeggiate vicino alla spiaggia, nel punto in cui l’acqua iniziava a diventar profonda. Nel primo pomeriggio, invece, tornarono nei boschi che circondavano Kattegat e Floki insegnò a Hylde come scegliere le migliori querce per costruire le imbarcazioni: in verità, la ragazza non capì affatto il suo metodo, poiché consisteva prevalentemente nel comunicare con gli alberi e nel toccare i loro tronchi. E dato che stava già cercando di imparare una lingua, Hylde pensò che il linguaggio delle querce fosse, per il momento, un fattore trascurabile, ma si meravigliò di quanto fosse profondo il legame di Floki con la natura.

Mentre l’uomo contrassegnava un albero recintandogli il tronco con delle pietre chiare, vennero raggiunti da Ivar, esausto dopo aver setacciato la foresta per trovarli.

«Ciao, Straniera.», la salutò lui, affabile.

Hylde appoggiò delicatamente a terra il piccolo gruppo di ceppi di legno che stava trasportando e si scostò i lunghi capelli dalla faccia, tamponando il sudore che le imperlava la fronte nonostante il freddo tagliente. Malgrado la stanchezza, gli riservò un sorriso amichevole e un cenno con la testa, ricambiando il saluto.

«I tuoi vestiti non sono più strani.», constatò il ragazzo, ridendo sotto i baffi.

Lei lo squadrò, soffermando attentamente lo sguardo sugli abiti da lui indossati: «Anche i tuoi sono parecchio ordinari.». Si lasciò sfuggire un sorrisino.

«Ma guarda chi ha trascinato il suo culo fino a qui!», esclamò Floki, raggiungendoli e guardando torvo in direzione di Ivar.

Il ragazzo rispose a tono, con uno sguardo truce: «E tutto ciò che ho trovato è un vecchiaccio moribondo!».

A Hylde calò la mandibola, dopo aver strabuzzato gli occhi, di fronte a quelle parole. Si grattò nervosamente il collo, cercando velocemente un modo per distendere gli animi.

I due si guardarono arrabbiati per qualche secondo, poi scoppiarono a ridere, con Floki che correva ad abbracciare il giovane amico. “Uomini...”, pensò Hylde, scuotendo la testa, visibilmente sollevata.

Da quanto riuscì a capire, Ivar e Floki non erano riusciti a parlare privatamente al banchetto della sera prima, pur sedendo allo stesso tavolo: la conversazione si era incentrata per tutto il tempo sulla spedizione imminente, soprattutto per volere di Bjorn, il quale sarebbe stato il comandante di tutta l’operazione, in qualità di fratello più anziano.

«A proposito dell’Inghilterra...», iniziò Ivar, «...credo sia il momento di pensare a qualcosa per le mie gambe, se voglio partecipare alla battaglia.».

Hylde lo ammirò con tutta se stessa, per il modo in cui non si faceva frenare dal suo problema alle gambe e per come trovasse la forza di perseguire le proprie ambizioni in ogni modo possibile. Si odiò, invece, per aver passato la vita a compatire le persone come lui, che tentavano solo di esistere e vivere al meglio.

Floki, fiero come non mai, si accovacciò vicino ad Ivar e gli posò una mano sulla spalla: «Conta su di me, figlio di Ragnar.». Poi disse a Hylde di non aver più bisogno di lei per quel giorno, e quasi li cacciò, mentre iniziava a camminare febbrilmente avanti e indietro, pensando e pianificando tra sé e sé.


Passeggiando per il bosco in direzione di Kattegat, Ivar pensò di dover dare qualche spiegazione ad un’interdetta Hylde: «Gli piace star da solo, quando deve “creare”.».

Ora aveva tutto più senso.

«Da quanto tempo lo conosci?», gli chiese Hylde, piena di curiosità.

«Da quando sono nato!», fu la pronta risposta di Ivar, che continuò: «Mi ha cresciuto lui, mentre mio padre andava a far razzie o era occupato a governare. Mi ha insegnato tutto quello che so sugli dei.».

Fu inevitabile, la mente di Hylde corse verso il ricordo di sua madre, provocandole una stretta al cuore. Deglutì, calmandosi, e gli disse: «Devi esserci molto affezionato.».
Intanto si erano fermati e seduti su una roccia vicino a un torrente, di cui avevano usato l’acqua per rinfrescarsi le rispettive facce.

Ivar annuì e, con sguardo serio, come se gli costasse un’enorme fatica dirlo, ammise: «Lui è una delle poche persone a volermi bene per quello che sono, nonostante queste.». Si toccò le cosce, con tristezza quasi infantile.

Allora, Hylde raccolse gran parte del suo coraggio per fare quella domanda, temendo di sembrare irrispettosa: «Ci sei nato in questa condizione?».

Lui non parve turbato, anzi le rispose con grande tranquillità: «Sì, ma adesso va meglio. Riesco anche a muoverle, qualche volta. Da piccolo, provavo spesso un forte dolore, come se mi si spezzassero le ossa.».

«Dev’essere stato terribile.», disse Hylde, sentendo quasi il suo stesso dolore al solo pensiero della sofferenza che doveva aver provato.

Ivar la guardò e lei poté vedere chiaramente la sua fragilità, dietro a quella corazza di furbizia che era la sua faccia. Ammise: «Sì, ma almeno avevo mia madre. Lei si occupava di me, preparava anche una specie di crema per aiutarmi col dolore.». Guardò altrove, lontano da Hylde, con un’espressione triste.

Lei capì: «Anche io ho perso mia madre da poco. Mi dispiace tanto.».

«Com’era lei?», le chiese, ancora senza ricambiare lo sguardo della ragazza e muovendosi nervosamente.

Sembrò sorpresa della domanda, non aveva mai ricevuto la richiesta di descrivere sua mamma, prima di allora. Ci pensò un attimo, poi rispose: «Era una donna dolcissima. Mi ha sempre rispettata per ciò che sono, anche quando mi comportavo male con lei. Era la mia “insegnante” di mitologia, come lo è stato Floki per te. Aveva quell’assurda capacità di capire l’essenza delle persone, si fidava ciecamente del suo istinto, cosa che le ho sempre invidiato.». Concluse, asciugandosi una lacrima che aveva preso a scenderle sulla guancia.

Ivar provò un moto di tristezza nel vederla così vulnerabile: «Mi sarebbe piaciuto conoscerla.».

«Anche io avrei voluto conoscere la tua.», gli dedicò un sorriso che, seppur spento, lo coinvolse e spronò a farne uno a sua volta.

Per spezzare un po’ l’atmosfera nostalgica, Ivar raccolse un piccolo sassolino e lo lanciò nel torrente, consigliandole di partecipare agli allenamenti che lui faceva con i suoi fratelli: «C’è anche Brandr. Con le asce è brava, ma io lo sono di più. Posso insegnarti qualcosa, se ti va.».

Hylde si trovò spiazzata, non aveva mai pensato a combattere sul serio. Krav Maga le serviva solo a scopo difensivo, e non era stato nemmeno così efficace: pensò all’enorme livido spuntatole al centro dell’addome. «Non so se ne sono in grado, Ivar...», confessò lei, intimidita dall’idea di combattere con armi vere.

«Dico solo che potresti imparare qualcosa per difenderti. Sceglierai tu se usare o no quelle tecniche su qualcuno.», provò a convincerla lui. Ci teneva proprio, ma non lo avrebbe mai ammesso apertamente.

Il verdetto fu: «Va bene, mi hai convinta. Ma sappi che lo faccio solo per te!». Dopotutto, Hylde voleva passare altro tempo con lui e, allo stesso tempo, non voleva dargli un dispiacere, per qualche assurda ragione. Rise e lo incoraggiò: «Dai, fammi strada!».

Stavolta fu lui a rimanere spiazzato: «Come? Adesso?». Quasi balbettò, mai si sarebbe sognato di convincerla così facilmente.

Lei annuì entusiasta, era perlomeno curiosa di assistere all’allenamento. Gli spiegò: «Come hai visto, Floki mi ha congedata e Helga, a quanto ho capito, aveva delle commissioni da fare... sono libera!».

Ivar sorrise di fronte all’entusiasmo della ragazza, quindi si mosse per mostrarle la strada, aiutandosi con la forza delle braccia.

Probabilmente, Hylde appoggiò un piede su un sasso smosso dal terreno, cosa che la fece scivolare vicino al torrente, per fortuna senza caderci dentro. Picchiò il fianco, ma sul momento non sentì dolore. Iniziò a ridere, mascherando l’imbarazzo per la sua innata goffaggine.

Rise di gusto anche Ivar, che infierì: «Dovrei essere io quello che non sa camminare!».

Lei cercò di soffocare le risate, che però si fecero ancora più forti, ed esclamò: «Non dovrei ridere!». Si sentiva un po’ in colpa, effettivamente. Nel frattempo, si massaggiava il fianco, avendo iniziato ad avvertire un leggero dolore: avrebbe collezionato un altro bel livido, ed era solo il suo secondo giorno a Kattegat!

Il ragazzo le si avvicinò e la spruzzò con l’acqua del torrente, minacciandola in modo scherzoso: «Hey! Così mi offendo!».


Gli allenamenti avvenivano in una piccola radura vicino a Kattegat, che col tempo i fratelli Lothbrok avevano adibito a vero e proprio campo d’addestramento. Lo spazio era delimitato da una staccionata in legno, alla quale erano appoggiate delle armi inutilizzate, come alcune lance in legno con le punte rinforzate da puro ferro, qualche spada pesante già solo alla vista e pochi scudi in legno scheggiati dall’usura. C’erano dei bersagli di paglia utili per il tiro con l’arco, o per il lancio delle asce, e con lo stesso materiale erano stati realizzati dei manichini, rivestiti con sacchi di iuta, usati di solito per gli allenamenti solitari.

Quando Hylde e Ivar arrivarono, dal cielo grigio iniziarono a cadere dei candidi fiocchi neve. Si avvertiva un freddo ancora più pungente rispetto a quello della mattina e, nonostante questo, quel luogo era già affollato.

C’era Brandr, occupata a sfidare un ragazzo alto, con due occhioni azzurri dalla stessa forma di quelli di Ivar, una lunga treccia color castano chiaro e una folta barba. Attorno a loro, due ragazzi giovani facevano il tifo, scommettendo anche qualche moneta.


--- NOTE DELL'AUTRICE ---

Ciao ragazzi!
Grazie per essere arrivati fino a qui e per aver speso parte del vostro tempo leggendo la mia storia.

Oggi il capitolo è meno lungo rispetto al solito, ma solo in vista degli intensi avvenimenti delle prossime parti!

Un grosso abbraccio,
Laisa_War

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Brandr era il ritratto della perfetta shieldmaiden, con le gambe leggermente piegate e il busto spinto in avanti, esponendo il fianco sinistro protetto da uno scudo di legno molto resistente. Il suo sguardo era pieno di competitività, mentre faceva roteare la spada stretta nella mano destra, in segno di sfida. Respirava piano e profondamente, producendo una chiara nuvola di condensa.

Gli occhi del giovane sfidante brillarono, quando furono investiti dall’unico raggio di sole sfuggito allo spesso strato di nuvole che riempiva il cielo, quel giorno. Era equipaggiato esattamente come Brandr, ma non mostrava la sua stessa determinazione, scherniva, invece, la sua sete di vittoria, non preoccupandosi nemmeno di coprire il fianco con lo scudo.

Brandr attaccò per prima con una velocità incredibile, senza un istante di esitazione, sembrava nata per quello, per combattere e scontrarsi.

Ubbe (così Ivar aveva chiamato lo sfidante, nonché suo fratello maggiore), non era così sorpreso dell’abilità della ragazza così come lo era Hylde, anzi continuava a prenderla in giro, con l’intento di farle perdere la pazienza. Nel frattempo, si manteneva in posizione di difesa, limitandosi ad evitare quegli attacchi repentini ed estremamente rapidi. Flirtava con lei, con tanto di occhiolini, si burlava di lei, conscio del fatto che Brandr fosse solita infuriarsi e a perdere il controllo.

Quando credette che fosse il momento più opportuno, Ubbe tentò un attacco frontale, levando in alto la spada come se non fosse l’arma più pesante a loro disposizione.

Un sorriso beffardo si disegnò sul viso di Brandr, la quale bloccò con fermezza quell’attacco e, dopo alcuni minuti fatti di colpi parati con gli scudi ed offensive frenate, riuscì a sottrarre la spada ad Ubbe, facendo finta di trafiggerlo con entrambe le armi in suo possesso e mettendo fine allo scontro.

Il ragazzo, caduto a terra, fu aiutato a rialzarsi da lei, che esclamò, un po’ stizzita: «Devi smetterla di sottovalutarmi.».

«Me ne ricorderò.», disse lui di rimando, quando si fu rimesso in piedi, mettendole un braccio attorno al collo e baciandole dolcemente la guancia. Con una punta d’imbarazzo, Brandr alzò gli occhi al cielo, ma non si scostò.

Il piccolo gruppo si accorse della presenza di Ivar e Hylde, la quale venne presentata con entusiasmo da lui e Brandr.

Venne investita da un principio di mancamento, quando si rese conto di trovarsi di fronte ai fratelli Lothbrok in carne ed ossa, che la riconobbero come “la ragazza della sera prima” ed ebbero tutti delle reazioni contrastanti nei suoi confronti. Il più scettico era Ubbe, cosa piuttosto comprensibile, secondo lei: come fratello maggiore, aveva la responsabilità di non fidarsi subito degli stranieri e di proteggere la sua famiglia e la città. Il secondogenito, Hvitserk, sembrava quello con i sentimenti più pacifici, Hylde gli sembrava comunque più degna di fiducia di tutti gli altri guerrieri scandinavi che iniziavano a popolare Kattegat. Sigurd, il terzo fratello in ordine di età, la studiava con lo sguardo di una persona molto attratta da ciò che sta osservando, cosa che mise a disagio Hylde, la quale si strinse nelle spalle, mentre seguiva Ivar all’interno della staccionata.

Brandr alzò il viso verso un dubbioso Ubbe, più alto di lei di almeno una testa, e tentò di calmarlo, dicendo con leggerezza: «Tranquillo, è innocua.».

«Non per molto.», esclamò Ivar con il suo classico sorrisino sghembo, sedendosi su un ceppo e mostrando le due asce afferrate poco prima. Ne tese una a Hylde, ma prima che lei potesse prenderla, Sigurd sbottò: «Tu vorresti insegnarle a combattere? Non sai nemmeno usare le gambe!».

Ivar, adirato, non si tirò indietro e urlò contro al fratello: «Stai zitto, Sigurd! Lo sai che sono più bravo di te!».

Quell’onda di gelosia e cattiveria immotivata aveva sconvolto Hylde, che rimase immobile e sbigottita. Gli altri, invece, davano l’impressione di essere divertiti dalla situazione, le loro espressioni dicevano chiaramente: “Ecco che inizia lo spettacolo!”. Tutti tranne Ubbe, che s’irrigidì, come se avesse previsto una catastrofe imminente, era palese che non amasse quei battibecchi infantili.

Sigurd continuò, con un sorriso sadico, godendo nel fare il bullo con suo fratello: «Ti piacerebbe, storpio! Perché credi che Lagertha si sia rifiutata di combattere contro di te?».

Brandr accostò la testa vicino alla spalla di Hylde per spiegarle, sottovoce: «Lagertha ha ucciso la loro madre, quando ha preso possesso della città. Ivar ha subito cercato vendetta.».

Hylde non replicò, guardava Ivar con crescente preoccupazione, percepiva la sua rabbia aumentare ed insinuarsi nella sua mente, invadendola e facendo razzia del suo buonsenso. Il suo viso contratto in una smorfia d’ira, le mani che stringevano i manici delle asce così forte da colorare di bianco le nocche, Ivar tenne lo sguardo fisso sul fratello, intimandogli un secco: «Smettila.».

«Sigurd...», lo ammonì Ubbe, con la voce seria e autoritaria, ma non servì a granché, perché suo fratello rincarò la dose: «Povero Ivar... Il piccolo cocco di mamma cercava vendetta!».

Per fortuna, Hylde capì subito cosa stesse per accadere ancor prima degli altri, e se ne meravigliò, perché sicuramente erano dotati di riflessi più veloci dei suoi: Ivar stava caricando il braccio, pronto a scagliare un’ascia dritta nel petto di Sigurd. Dalle labbra della ragazza sfuggì un asciutto: «NO!», e si precipitò ad abbassare la mano del ragazzo, impedendogli di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito amaramente.

Non appena il giovane sentì la mano di lei sul suo braccio e la sua voce, distolse lo sguardo omicida da Sigurd, irrigidendosi, prima di tranquillizzarsi e rilassare i muscoli tesi.

Lei, invece, rimproverò i due fratelli, senza preoccuparsi di sembrare inopportuna: «Vi sembra normale litigare così?». Sputò fuori quelle parole istintivamente, ignorando eventuali conseguenze.

Ubbe si dimostrò d’accordo con lei: «Hai ragione... Sigurd, da questa parte.», e allontanò il terzogenito, il cui viso si era colorato di rosso, in un misto di rabbia e vergogna. Vennero seguiti da Brandr e Hvitserk, straniti per la piega pericolosa che aveva preso quella situazione.

Hylde abbassò lo sguardo e si accorse di avere ancora la mano stretta sul tessuto che copriva l’avambraccio di Ivar, il quale guardava il fratello allontanarsi dall’altro lato del campo. Inaspettatamente, le si strinse il cuore, pensando che, con ogni probabilità, tutti avrebbero reagito in quel modo, se fossero stati attaccati così sul personale senza apparente motivo. Con delicatezza, si fece carico delle asce tenute saldamente dal ragazzo, che parve arrancare, alla ricerca di qualche parola di scusa da rivolgerle.

Lei però preferì bloccarlo, non c’era bisogno di sprecare altro tempo in quell’infelice faccenda, e domandò: «Non avevi detto di volermi fare da maestro?».

Ivar ridacchiò con evidente sollievo e indicò le asce che lei non aveva ancora posato da nessuna parte, chiedendole di porgergliene una. Prima che lei si decidesse a farlo, dovette assicurarle di essersi calmato, che non avrebbe fatto altre pazzie.

Solo allora Hylde si rese conto di quanto fossero pesanti e difficili da maneggiare quelle armi, nonostante lui lo facesse sembrare una passeggiata: avevano uno spesso manico in legno, non troppo lungo, per facilitarne il lancio durante un’ipotetica battaglia. Le lame erano in puro ferro, affilate come rasoi, elemento che la intimidì non poco. Da buona studentessa di scienze infermieristiche , pensò anche a quanto le si sarebbe infiammato il tunnel carpale, mentre un’incessante dolore le si palesava sempre di più all’altezza del polso, col passare dei minuti.

Fu difficile per Ivar non notare la goffaggine di Hylde, che la rendeva molto buffa, mentre tentava di replicare i movimenti insegnatile. Decise di aiutarla di più, perché in battaglia si sarebbe fatta ammazzare, o peggio, si sarebbe uccisa accidentalmente da sola. Così le suggerì di avvicinarsi.

Hylde arrossì di vergogna e pensò: “Sta andando così male?”. Crogiolandosi nell’autocommiserazione, si avvicinò al giovane che, dal ceppo sul quale sedeva, continuava a spiegarle tecniche di combattimento abbastanza elementari, ma tremendamente complesse per lei.

Quando furono l’uno di fronte all’altra, tutte le paure e le insicurezze di Hylde scomparvero, guardando negli occhi di Ivar, che non giudicava affatto la sua totale mancanza di prestanza atletica, come se avesse compreso il suo disagio.

Le prese delicatamente la mano che reggeva a fatica l’ascia, mostrandole la giusta impugnatura, il che le diede immediato sollievo al polso. Il tocco gentile di Ivar sulla nuda pelle della sua mano, fece avvampare il viso di Hylde, che si distrasse, facendo cadere l’arma. Scoppiarono entrambi a ridere e lei si finse oltraggiata: «Ti sei trattenuto fino ad ora con le risate, vero?». Lui fece finta di nulla, ma poi confermò i sospetti di Hylde, senza smettere di sbellicarsi.

Si sedette vicino a lui sul ceppo, dopo aver recuperato l’ascia da terra, e, mentre Ivar la guidava nei movimenti d’attacco, gli chiese: «Tu e Sigurd...litigate sempre così?».

«Sì, è sempre stato così tra noi due. Fin da quando eravamo bambini.», rispose lui con amarezza. Da seduti, era decisamente più alto di lei, di parecchi centimetri, ed Hylde si ritrovò a pensare a quanto lo trovasse attraente, in quella leggera armatura indossata sopra agli abiti civili.

Distraendosi da quei pensieri, Hylde cercò di tirargli su il morale: «Sai, mi dispiace per lui. Non sarà facile esser meno capace del suo fratello minore...».

«...che non sa neanche usare le gambe.», completò la frase Ivar, con un ghigno spietato, che però nascondeva anche una rabbia bruciante, che lo divorava da dentro, da troppo tempo.

«Arrabbiarti così tanto per qualcosa che non puoi controllare non ti porterà da nessuna parte. Mai.», disse lei, animata da un fuoco sconosciuto, mettendogli una mano sulla spalla e lasciandolo, per la prima volta, senza le parole per replicare.

Hylde continuò: «Io e Floki ti costruiremo qualcosa che ti metterà nella condizione di partecipare ad ogni battaglia che vorrai. E allora la tua rabbia avrà un senso, contro i nemici». Parlò a raffica, dimenticandosi di scandire bene le parole, per farsi capire meglio.

La sua determinazione lasciò esterrefatto Ivar, che posò la propria mano su quella appoggiata da lei sulla sua spalla, limitandosi ad annuire. La guardò intensamente e la trovò sincera, cristallina, bellissima, coi capelli e i vestiti che iniziavano a riempirsi di candidi fiocchi di neve, gli occhi color grigio ghiaccio che risaltavano più del solito.

Ruppe la magia del momento, quando si schiarì la voce, invitandola a riprendere l’allenamento e strappandole la promessa di tornare lì anche nelle giornate successive. Desiderava, bramava altro tempo in compagnia di quella strana, buffa straniera.


Molti dei giorni a venire furono caratterizzati da un’incessante tormenta. Il paesaggio circostante era completamente cambiato da quando Hylde era piombata in quel mondo: il terreno, le case, le navi ormeggiate al molo, tutto quanto era stato invaso da ghiaccio e candida neve fresca. L’inverno era davvero arrivato.

Anche gli alberi erano stati assoggettati dai cambiamenti meteorologici, infatti era diventato pericoloso, per Hylde e Floki, lavorare nei boschi, cosa che provocò forti ritardi nella costruzione della flotta. Però, per fortuna, erano riusciti a portare a termine il progetto per Ivar, ed entrambi erano impazienti di mostrargli la loro creazione, di cui andavano davvero fieri.

Le piaceva moltissimo lavorare insieme a Floki, la faceva sentire utile alla famiglia e lui le faceva da papà molto più di quanto avesse mai fatto suo padre biologico, ma sapeva di non esser granché portata per quel lavoro. Certo, aveva imparato a svolgere i compiti più semplici, sempre sotto la supervisione dell’uomo, tuttavia era consapevole che non fosse affatto la sua strada, quella non sarebbe stata la sua occupazione a lungo termine. Ne erano certi entrambi.

Con il tempo, le erano passati tutti i dolori muscolari dovuti all’intenso carico di lavoro e stress a cui Hylde era sottoposta ogni singolo giorno, senza troppe occasioni per riposare, o oziare. Era stato un piccolo trauma ritrovarsi privata delle comodità del mondo moderno, le era capitato spesso di ripensare ad Internet, alle sue playlist musicali (solo gli dei potevano sapere quanto le mancasse la sua musica, i Blink 182, i Guns ‘N Roses...), a tutte le schifezze dolci che le facevano compagnia durante i momenti più malinconici.

Nelle giornate interessate meno dalla tempesta di neve, Hylde aveva preso l’abitudine di allenarsi con Ivar, nel tardo pomeriggio, insieme anche agli altri fratelli e Brandr. Sebbene si sentisse ancora molto imbranata e inesperta, l’aiuto di Ivar fu per lei fondamentale per prender coscienza di sé, per acquisire fiducia nelle proprie capacità. Lui si dimostrò un maestro paziente ed estremamente abile, tendeva a non colpevolizzarla mai, a spronarla sempre, inducendola ad impegnarsi, per raggiungere sempre più traguardi. Era diventato il suo amico più caro e leale, dopo Brandr, la quale era considerata da Hylde come una sorella, anche se non era sempre possibile vedersi, essendosi inaspriti gli addestramenti dell’esercito che sarebbe stato guidato da Bjorn in Inghilterra, mancavano pochi mesi alla partenza.

Gli allenamenti pomeridiani avevano dato a Hylde l’occasione di passare del tempo anche con gli altri fratelli Lothbrok, cosa che permise loro di conoscerla di più, e quindi di potersi fidare di lei. Perfino Ubbe si era arreso, abbandonando lo scetticismo iniziale, soprattutto grazie all’intercessione di Brandr, per la quale provava una fiducia e un rispetto incredibili. Era anche palese agli occhi di tutti che quelli non fossero gli unici sentimenti che egli rivolgesse alla giovane shieldmaiden, che fu felicissima di avere una quasi-sorella con cui confidarsi riguardo all’argomento.

Un giorno, al campo d’addestramento, si era avvicinata di soppiatto a Hylde, per chiederle: «Secondo te è vero che gli piaccio?». Sussurrò piano quelle parole, rossa in viso, con evidente imbarazzo, sperando che Ubbe non le sentisse.

Hylde, che era rimasta davvero stranita da quella domanda, credendo stesse scherzando, tornò subito seria e le mise entrambe le mani sulle spalle: «Brandr, quando ti guarda i suoi occhi prendono letteralmente fuoco. Se non è interesse quello, io sono Thor in persona!». Ogni volta che riusciva a fare un discorso lungo e ben articolato, provava una sincera soddisfazione, era la prova che lo studio della lingua stesse procedendo benissimo.

Brandr si era imbarazzata ancora di più, era capace di combattere un’orda di nemici senza batter ciglio, ma non di parlare dei propri sentimenti: «Non sono brava in queste cose.». Quando Hylde le chiese se Ubbe le piacesse, era quasi entrata nel panico, prima di annuire impercettibilmente e aggiungere: «E se non fosse l’uomo giusto? Se non riuscisse a tenermi testa? Se la sua serietà soffocasse il mio spirito?».

Imbottì la testa di Hylde con una miriade di dubbi, tanto che la ragazza fu costretta ad interromperla bruscamente, scrollandole le spalle con le mani per scandire il ritmo delle sue parole: «Voi. Due. Vi. Piacete.». Ottenuta la totale attenzione di Brandr, poté continuare con più calma: «Conta solo questo, per ora. Frequentatevi, conoscetevi meglio. E se per caso scoprissi che lui non è il ragazzo giusto per te, prenderemo possesso di tutte le scorte di birra e ce le scoleremo, fino ad arrivare a cavalcare gli orsi bruni per tutta Kattegat, oltre che a dimenticare per sempre Ubbe.».

Il senso dell’umorismo di Hylde fece scoppiare a ridere Brandr, facendola rilassare e permettendole di dimenticare qualcuno dei suoi assurdi dubbi.

«Devi solo goderti questi sentimenti bellissimi e, se ci saranno problemi, li affronteremo a tempo debito.», aveva concluso Hylde, cercando di trasmettere a Brandr tutta la solidarietà di cui avesse bisogno in quel momento.



---Note dell'Autrice---

Ciao a tutti!
Come al solito, grazie di cuore per essere arrivati fino a qui!

Se volete, lasciate una piccola recensione, ci tengo davvero a leggere le vostre opinioni!

Un abbraccio,
Laisa_War

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Quella mattina, Hylde si svegliò di buon’ora e sgattaiolò nella stanza del focolare, per controllare il tempo attraverso una delle piccole finestre: la tempesta di neve era finita, il vento si era fermato e la calma era tornata, sebbene qualche piccolo fiocco di neve continuasse a cadere.

Venne raggiunta dagli altri membri della famiglia e lei scambiò uno sguardo complice con Floki, esclamando: «Oggi dovremmo riuscire a finirla!», riuscì a stento a trattenere l’emozione.

Anche Floki si rivelò parecchio entusiasta: «Possiamo consegnargliela prima del banchetto di stasera!».

Brandr ed Helga, divertite e coinvolte nella loro felicità, chiesero cosa stesse succedendo.

Floki si avvicinò al tavolo e, con fare teatrale, annunciò: «Oh, lo vedrete molto presto!», mentre Hylde rivelava che quella era una sorpresa per Ivar.

Helga e Brandr si scambiarono un sorriso confuso e continuarono a preparare la colazione.

Il luogo che Floki usava per costruire le navi si era sviluppato di pari passo con la mole di lavoro da svolgere in vista della grande spedizione, a tal punto da essere ormai considerato un vero e proprio cantiere. Ogni popolo giunto a Kattegat, ogni sovrano e ogni Jarl desiderava possedere le creazioni del famoso costruttore Floki, conosciuto per le navi resistenti e di ottima portata. La piccola spiaggia pullulava di longships e drekar in costruzione, di uomini e donne che trasportavano legna, corde e grandi vele.

Tutte quelle persone avevano dato modo a Floki di prendersi una piccola pausa e pensare quindi al progetto commissionatogli da Ivar, permettendogli di sviluppare un’idea geniale, a detta di Hylde. Lavorarono a quel progetto durante tutta la prima parte della giornata e riuscirono a completarlo perfettamente, dopo le numerose interruzioni date dalla tempesta di neve.

Dopodiché Hylde si prese del tempo per svolgere delle commissioni per conto di Helga al mercato cittadino, il quale era cresciuto considerevolmente, con l’arrivo a Kattegat delle numerose delegazioni scandinave.
Quel luogo brulicava di persone e caos, i commercianti provenivano da ogni dove e vendevano cibi, bevande e prodotti di ogni genere, cose che emanavano profumi coinvolgenti. Clienti e curiosi affollavano le bancarelle ed i carretti pieni di merce interessante, accalcandosi e contribuendo a creare quell’ambiente così caotico.

Un gruppo di ragazzini attraversò di corsa gli angusti spazi tra un banco e l’altro, così uno di loro inciampò, cadendo a terra e procurandosi un taglio sulla coscia. Probabilmente era caduto su un sasso smosso ed appuntito.

Quando vide il sangue, il ragazzino strillò, preso da panico, sotto lo sguardo attonito degli amichetti e delle persone lì vicino, che si erano chinate su di lui, per controllarne le condizioni.

Istintivamente, Hylde si precipitò verso di lui, facendosi largo tra la folla. Gli parlò con voce calma e rassicurante: «Ciao! Stai tranquillo, sono qui per aiutarti.». Gli spostò i lembi strappati dei pantaloni, scoprendo una ferita non particolarmente grave, ma profonda.

Lui smise di urlare, ma continuò a singhiozzare per il dolore.

Hylde gli accarezzò i capelli e gli chiese, per distrarlo: «Come ti chiami?», e lui, tra un singhiozzo e l’altro, rispose con un accenno di titubanza: «Hali.».

«Ciao Hali, io mi chiamo Hylde. Dovrò metterti i punti su questa ferita, ma guarirai perfettamente. Va bene?», spiegò lei con serenità, seguita dal segno di assenso di lui.

Dalla folla, emerse un uomo adulto, ma che non aveva ancora raggiunto la mezza età, chiedendo cosa fosse successo. Era molto alto e possente, con occhi scuri e una folta barba bionda, incuteva rispetto agli abitanti di Kattegat, che si spostavano con reverenza al suo passaggio, liberandogli la strada.

Il ragazzino lo riconobbe come suo padre e Hylde si sbrigò a spiegargli la situazione: «Si è ferito cadendo. Io posso aiutarlo, ma dobbiamo portarlo in un luogo più tranquillo e pulito.».

L’uomo annuì con solennità e ordinò ad uno degli uomini che lo accompagnavano di mandare un guaritore alla longhouse, successivamente sollevò il figlio senza troppe cerimonie e ordinò a Hylde di seguirlo.

Arrivati alla longhouse, furono accolti da Lagertha e da una preoccupata Torvi, che si scoprì essere la madre di Hali. Accanto a loro, si trovava un’anziana signora, Munin, che venne presentata come una dei guaritori di Kattegat, e proprio lei aveva iniziato a scaldare un grosso pezzo di ferro sul focolare lì vicino, con l’intento di cauterizzare la ferita.

Hylde la fermò subito, mentre il ragazzino tornava a piangere, terrorizzato dal ferro rovente. Le chiese se avesse con sé degli aghi e un filo sottile, nel frattempo aveva iniziato a ripulire la ferita con un po’ d’acqua.

Quando la guaritrice ebbe trovato gli strumenti richiesti, fu mandata dalla ragazza all’esterno, alla ricerca di un grosso pezzo di ghiaccio pulito, e lei ubbidì, spronata da un’incuriosita Lagertha.

Hylde spiegò ad Hali, con risolutezza, cosa avrebbe fatto: gli avrebbe sterilizzato la ferita con il vino trovato in una brocca lì vicino, subito dopo avrebbe usato il ghiaccio per rendere la sua pelle insensibile, così avrebbe potuto “mettergli i punti”. «Ti chiuderò la pelle con il filo, come se dovessi cucirla. Sarà meno doloroso del ferro caldo, te lo garantisco.», gli disse, cercando di rassicurarlo.

Il povero Hali urlò di dolore, quando Hylde prese a versare qualche goccia di vino sulla ferita, ma si calmò quasi immediatamente , non appena gli passò il ghiaccio sulla pelle. Dopo aver anestetizzato quella parte di gamba e dopo aver sterilizzato gli aghi immergendoli nel vino, gli applicò i punti, chiudendo una perfetta sutura. Per Hali, non fu così doloroso come si aspettava, pur senza una forte anestesia.

Hylde gli rivolse un sorriso sereno: «Per qualche giorno dovrai evitare i movimenti bruschi, poi toglieremo questi punti. Ti rimarrà una bella cicatrice, ma da grande potrai coprirla con un tatuaggio, se vorrai!».

Quando ebbe finito di dare istruzioni a Torvi su come bendarlo, per evitare che la ferita si infettasse durante i bagni, ad esempio, fu raggiunta dalla regina e dal padre del ragazzo, che si rivelò essere Bjorn in persona. Nei loro sguardi c’era tanta gratitudine, soprattutto per aver risparmiato ad Hali il trauma della cauterizzazione, ma non si sognarono di riferirglielo, non avrebbero espresso ciò che provavano all’ultima arrivata in città.

«Ho sentito molto parlare di te, dai miei fratelli. Finalmente posso fare la tua conoscenza.», ruppe il silenzio Bjorn, con una certa affabilità.

Avendo appena iniziato a comprendere le usanze del tempo, si scusò immediatamente con Bjorn e Lagertha per non essere mai tornata alla longhouse per porgere i propri omaggi e per ringraziarli di averla accolta in città, accennando alla grossa mole di lavoro che avevano lei e Floki per la costruzione della flotta.

La regina la interruppe: «Non mi sono mai interessate queste formalità, ho comunque i miei mezzi per controllare se gli stranieri che ospito a Kattegat siano delle brave persone.». Fece una breve pausa, facendole capire con lo sguardo che, sì, aveva indagato su di lei.
Riprese: «piuttosto, voglio che tu smetta di lavorare con Floki.».

Davanti alla confusione ed all’incredulità di Hylde, Lagertha chiarì, con una punta di gentilezza in più: «Alla città sei decisamente più utile come guaritrice, non credi?».

La giovane fu d’accordo con lei, aveva senso, in effetti.

«Puoi iniziare domani. Aiuterai Munin nei suoi compiti quotidiani.», concluse la regina, indicando l’anziana guaritrice, che in quel momento stava studiando, con curiosità, la sutura di Hylde.

Prese la parola Bjorn, incrociando le braccia sul proprio petto: «Mia madre ha ragione. E ti voglio assolutamente nella mia spedizione, conosci tecniche che possono riportare a casa, vivi, i miei migliori guerrieri.».

Hylde rimase spiazzata da quel drastico cambiamento: non avrebbe più lavorato con Floki, e la cosa la intristì notevolmente, ma avrebbe aiutato le persone, perseguendo così quella che era sempre stata la sua vocazione. La nuova prospettiva le diede una ventata d’euforia, che venne però rallentata dal carico di responsabilità addossatole da Bjorn. Nella sua “vita precedente”, Hylde rimaneva comunque una studentessa, di certo aveva accumulato esperienza durante le ore di tirocinio, ma ciò non la rendeva sicuramente capace di compiere miracoli, data la povertà di mezzi dell’epoca. Non si era neanche mai chiesta se fosse incline a partire per la grande spedizione.

“Dovrò abituarmici, a queste decisioni improvvise.”, convenne fra sé e sé, mentre Bjorn e Lagertha la congedavano.



I pensieri e le preoccupazioni della ragazza passarono in secondo piano, con l’arrivo del tardo pomeriggio. La luce del giorno aveva già iniziato a svanire, potando con sé un’aria gelida, che preannunciava l’arrivo della sera.

Non appena vide Ivar, portato sulle salde spalle di Floki, Hylde li accolse con tutto l’entusiasmo che aveva dovuto reprimere durante il giorno, senza riuscire più a trattenersi.

Lo stupore più puro si dipinse sul volto di Ivar, quando vide la robusta biga, dettagliatamente decorata con simboli vichinghi di cui Hylde ignorava il significato. Era già equipaggiata con un enorme cavallo, il quale sembrava già pronto per la battaglia, avendo già addosso tutte le protezioni e l’armatura apposita.

«L’avete fatta per me...», sussurrò Ivar con un filo di voce, visibilmente commosso, appena sceso a terra aiutato da Floki.

Hylde annuì, in risposta a quella frase, mordendosi la lingua per non iniziare a piangere, senza riuscire a parlare.

A prendere la parola fu Floki: «Sì, Ivar, queste sono le tue ali.». Toccò con aria profonda il bordo della biga e poi diede una carezza al cavallo, che scalpitava felice, voglioso di muoversi e correre.

Il giovane non perse altro tempo e si sbrigò a salire sul suo nuovo mezzo, indossando anche un elmo, come se stesse per entrare in battaglia. Nessuno si mostrò sorpreso quando Ivar ci prese subito la mano, neanche fosse la sua prima volta su un mezzo tanto veloce. Il suo viso era l’espressione più sincera del divertimento, fomentato dalle urla di Floki, oltre che dalla sua risata acuta.

Arrivò il momento in cui Ivar decise di fermarsi ed omaggiò Floki con un cenno di sentita gratitudine, seguito da: «La trovo bellissima. La cosa migliore che qualcuno abbia mai fatto per me.». Non avrebbe ammesso neanche sotto tortura quanto fosse emozionato.

Floki si schiarì la voce, sottraendosi a quelle forti emozioni, con lo scopo di spiegare al ragazzo che sul carro c’era spazio per lui ed un’altra persona, se mai avesse avuto bisogno di trasportare qualcuno.

Fu così che Ivar guardò Hylde e le tese una mano, invitandola a salire, vicino a lui. Un po’ titubante, lei decise di accettare quell’invito, issandosi sulla biga e reggendosi al bordo, che presentava una scintillante rifinitura in bronzo. Si posizionò proprio al fianco del giovane vichingo, che l’aspettava sull’unica seduta rialzata. «Reggiti forte.», fu l’unico consiglio di Ivar per la timorosa ragazza, prima che muovesse le briglie, ordinando al cavallo di partire al galoppo.

Un piccolo urlo sfuggì a Hylde per la sorpresa, la velocità era impressionante e il vento gelido sferzava con prepotenza, cosa che la costrinse a rimanere lievemente piegata in avanti, per proteggersi il viso. Allo stesso tempo, si reggeva saldamente al bordo con entrambe le mani, costretta ad un precario equilibrio.

Ivar urlava ed incitava il cavallo, divertendosi come non mai. La solita espressione corrucciata lasciava spazio ad un enorme sorriso, che contagiò anche la ragazza. Il cuore le batteva forte e l’adrenalina la rendeva energica.

Dopo qualche chilometro di corsa, Ivar decise di dare tregua alla povera Hylde, che ancora non riusciva a stare in perfetto equilibrio, tanta era la sua paura di cadere.

La giovane si portò dietro l’orecchio i capelli scompigliati dal vento, non che fosse solita domare quella chioma rossa e selvaggia, desiderava solamente la faccia libera da quelle ciocche ribelli.

Lui invece si tolse l’elmo, scoprendo il viso leggermente imperlato di sudore. Aveva un lieve fiatone, dovuto alle urla che aveva lanciato fino a poco prima a pieni polmoni.

Quando si furono calmati gli animi, Hylde ricordò il secondo regalo preparato per il giovane vichingo: estrasse dalla tasca della veste superiore una boccetta di terracotta non troppo grande e la porse ad Ivar. La sua espressione confusa la divertì molto, così lo invitò ad aprire il piccolo contenitore e ad annusarne il contenuto.

Gli occhi di Ivar divennero lucidi, facendo spiccare il loro colore blu, non appena capì. Era quasi lo stesso odore della crema che gli preparava sua madre Aslaug per il dolore alle gambe.

Non era stato facile per Hylde ritagliarsi il tempo necessario a preparare quella pomata, con tutto il lavoro che aveva da fare, senza contare la tormenta di neve degli ultimi giorni. La cosa in assoluto più difficile, però, era stato ricordarsi le proprietà medicinali delle numerose piante spontanee della Scandinavia e come riconoscerle in natura. Aveva scavato nei meandri più oscuri della sua mente, alla ricerca di vaghi ricordi inerenti agli esami di botanica sostenuti in università. Alla fine era arrivata a due perfette opzioni: Arnica e Angelica, piante con caratteristiche ottime per il tipo di dolore provato da Ivar. Grazie alle indicazioni di Helga, era riuscita a trovarle nelle radure oltre i boschi (pur perdendosi diverse volte) e, sempre grazie all’aiuto della donna, aveva portato a termine con successo la creazione della crema.

Ivar era rimasto immobile con la piccola boccetta in mano, quindi Hylde, abbastanza imbarazzata, cominciò a straparlare: «Lo so che non è neanche lontanamente paragonabile a quella di tua madre, ma so per certo che ti aiuterà col dolore. Sai, ho visto che alla fine di ogni allenamento sei sempre un po’ sofferente, quindi...». Non completò mai la frase. Le sue parole rimasero sospese nell’etere.

Ivar l’aveva abbracciata forte, circondandole la vita con le braccia solide e stringendola con impeto a sé. Da seduto, rimaneva comunque molto alto, il che gli permise di appoggiare il viso nell’incavo del collo di Hylde, godendosi il profumo della sua pelle.

Il cuore di Hylde le martellava nel petto a un ritmo quasi allarmante. Aveva spalancato gli occhi, colta davvero alla sprovvista, mai avrebbe pensato che Ivar fosse capace di un gesto d’affetto così palese, che fosse capace di trasmetterle così chiaramente la gratitudine provata. Ricambiò l’abbraccio con trasporto, accoccolando la testa sulla spalla del ragazzo, cingendogli con tenerezza il collo.

Diamine, nessuno lo aveva mai trattato con quella gentilezza disinteressata, a parte alcuni, pochissimi, membri della sua famiglia. Le altre persone preferivano tenersi a distanza da lui, sia per via della sua condizione, sia perché egli stesso si era costruito una corazza di spietatezza e crudeltà. Il motivo era semplice: per difesa, ma anche per indurre gli altri a rispettarlo.

«Lo capisco... è più efficace attaccare per primi, che essere attaccati e feriti. Se parti da una condizione di svantaggio, devi essere il doppio più efficiente per guadagnare lo stesso rispetto che agli altri viene dato di diritto.», disse Hylde quando, dopo attimi che loro avrebbero misurato in anni, si staccarono senza mai interrompere il contatto visivo, attratti com’erano l’uno dall’altra.

Ivar realizzò di non essersi mai sentito così compreso come in quel momento. Quella strana, buffa ragazza in così poco tempo era stata in grado di vedere il suo vero animo, così ben celato al mondo esterno. E la cosa che più lo meravigliò fu il fatto di non avere paura, o vergogna di farsi leggere, di farsi vedere da lei. Le parole gli uscirono di bocca come un fiume in piena: «Sono stanco di tutto questo. Voglio delle gambe normali, Hylde. Voglio essere come le altre persone.». Si mostrò alla giovane senza alcun timore, gettando una maschera indossata ormai da anni.

Hylde fece davvero fatica a mantenersi lucida, trattenendo le lacrime con ogni flebile traccia di autocontrollo rimastole. Alzò piano una mano, accarezzando con delicatezza estrema la guancia di Ivar: «Ci vuole una grande forza e un immenso coraggio ad essere diversi. Tu hai il vantaggio di vedere il mondo da una prospettiva differente... Guarda solo alla furia che la tua condizione ti ha donato: in battaglia sei una forza della natura, molto più dei tuoi fratelli. E, cazzo, tu combatti con solo una metà del corpo! Prima o poi, tutto questo darà i suoi frutti, Ivar Lothbrok!».

Quell’esempio di lucida saggezza era stato visto dal ragazzo solo un’altra volta: nelle parole che suo padre, Ragnar, gli aveva rivolto l’ultima volta che l’aveva visto, nel Wessex, prima di esser consegnato agli uomini di re Aelle.

Hylde continuò: «...ma la tua consapevolezza non cambierà il modo di pensare degli altri, almeno nell’immediato futuro. Il tuo continuare a desiderare delle gambe funzionanti è più che legittimo e comprensibile.».

Ivar le sembrò davvero scoraggiato riguardo a quell’argomento, anche se visibilmente rincuorato dalla comprensione della ragazza: «Sarebbe come desiderare la luna, o le stelle...».

«E allora inizia a mirare al cielo! Ti aiuterò io, devo solo scoprire come.», disse lei, puntando con la mano il cielo sovrastante, che si era fatto più scuro ma anche più sgombro. Non nevicava più, dagli spiragli lasciati liberi dalle poche nuvole erano spuntati gli astri luminosi e la luna piena si era unita in loro compagnia. Hylde aveva ancora quel fuoco negli occhi, avrebbe potuto sciogliere tutto il ghiaccio che ricopriva ogni elemento del paesaggio in cui erano immersi.

Ivar non poté fare a meno di osservarle il viso, per assistere allo spettacolo del fuoco crescerle dentro. Lo avrebbe aiutato davvero, quella era una promessa.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Prima del banchetto, Hylde era riuscita a tornare a casa per darsi una sistemata e togliersi dalle spalle la stanchezza di una giornata piena. Si prese tutto il tempo di cui sentiva di aver bisogno, essendo la casa vuota: tutta la famiglia era uscita presto, per godersi le gioie dei ricchi banchetti festivi di Kattegat.

Negli ultimi anni, Hylde aveva perso la voglia di partecipare alle feste, in realtà non era mai stata la persona più socievole del mondo, la vita non le aveva dato troppe occasioni e lei non aveva mai cercato di combattere contro quella situazione.

Rimase sconvolta dall’irresistibile attrazione provata verso il piccolo stelo con cui Floki ed Helga erano soliti dipingersi gli occhi: voleva andare alla festa, partecipare al banchetto... e ci voleva andare truccata. Voleva abbellirsi per una situazione che l’aveva sempre messa a disagio.

Mentre iniziava a colorarsi gli occhi chiarissimi di nero, creando un bell’effetto “sfumato”, rifletté sul motivo di tale scelta e la risposta le apparve in mente, cristallina: aveva finalmente trovato la tranquillità adatta per vivere la vita normalmente, trovando divertenti cose che in passato aveva ritenuto futili. Il suo cuore sapeva di essere nel posto giusto, circondata da persone che lei stimava e che la stimavano con la sua stessa intensità. Era dove doveva essere, dove era destinata ad essere. Era un sensazione rinvigorente, bella più di ogni altra cosa e le permetteva di non pensare a quanto in realtà fosse dura la vita di tutti i giorni, in un’epoca così lontana e diversa. Le consentiva di apprezzare le piccole gioie del momento, come una serata in cui avrebbe potuto rilassarsi e passare del tempo di qualità con le persone amate.

Indossò degli abiti diversi: non più i soliti pantaloni, ma un vestito semplice e caldo, adatto a una sera di festa. Dopo essersi coperta con una spessa pelliccia, s’incamminò verso la città, lungo l’itinerario che ormai conosceva molto bene, reggendo una torcia.

Il suono dei tamburi, delle danze e dei profondi canti investì le orecchie di Hylde già nel tragitto attraverso i boschi per giungere a Kattegat, diventata ormai un enorme centro di vita, pieno di tende e nuove abitazioni, il molo e il porto erano cresciuti di dimensione, le strade pullulavano di guerrieri e di persone mai incrociate prima. Il tempo delle occhiatacce per strada era finito, gli abitanti ormai si erano abituati alla sua presenza, come anche a quella delle decine di stranieri arrivati in città, pur rimanendo diffidenti. “Poco male...”, pensò lei, avrebbe potuto dimostrare il proprio valore come guaritrice molto presto, il che avrebbe potuto giovare alla sua reputazione, avrebbe smesso di sentirsi sempre come “l’ultima arrivata”.

Hylde capì l’importanza di quella serata solo dopo aver varcato le porte imponenti della città. Tutti, guerrieri, schiavi, contadini, civili di ogni genere facevano avanti e indietro dalla longhouse per rifornire di birra i propri boccali o i corni bovini usati come recipienti per bere, ballando e cantando, seguendo il ritmo scandito dai suonatori di tamburi. C’erano coppie che pomiciavano ad ogni angolo, persone sia giovani sia adulte che si abbandonavano a danze scatenate e a canti urlati a squarciagola. C’era vita e giovialità quella sera, non esistevano differenze di rango, tutti erano invitati a far festa fino a tardi, persino i bambini giravano ancora per le strade, festeggiando e giocando con felicità. Nella piazza davanti alla longhouse si ergeva un grande falò votivo, che sprigionava la sua luce e il suo calore insieme alle tante, piccole torce distribuite per tutta Kattegat.

La ragazza scoprì solo più tardi che quella festività, Jólablót, fosse il corrispettivo di quello che nel mondo moderno veniva chiamato Natale. Avrebbero festeggiato per alcuni giorni di seguito e, nell’ultimo giorno, avrebbero sacrificato al dio Freyr il grosso maiale che Hylde aveva visto nel recinto posto all’ingresso della città, sorvegliato da un paio di guardie. Lo scopo di quel sacrificio finale era di chiedere a Freyr la pace su tutta Midgard (la terra abitata dagli uomini) e la cessazione del freddo invernale a favore dell’arrivo della primavera e delle stagioni calde.

Hylde varcò la porta della longhouse facendosi spazio a fatica nell’enorme ressa di persone che affollavano la vasta struttura, ormai privata di alcuni tavoli e sedie, per guadagnare dello spazio in più. Il trono di Lagertha si notava appena, talmente era affollato il posto.

Fu subito notata da Brandr, che la salutò agitando la mano libera, mentre con l’altra reggeva un decoratissimo bicchiere. Hylde non poté fare a meno di notare che era seduta sulle gambe di Ubbe, il quale, accaparratosi una delle poche sedie disponibili, la teneva stretta, con un sorriso felice stampato sul viso arrossato dalla birra.

Le due giovani si scambiarono un occhiolino d’intesa, con cui Brandr fece capire a Hylde quanto fosse contenta in quel momento. Era incredibile la complicità sviluppatasi tra le due, che erano in grado di comprendersi senza nemmeno parlare, pura telepatia.

Lasciando tranquilli per i fatti loro i due innamorati, Hylde si guardò attorno alla ricerca di una faccia amica, essendo circondata da gente che non aveva mai visto. Se fosse stata sincera con se stessa, avrebbe ammesso di essere in cerca di una faccia, di una sola faccia in particolare.

Fu fermata da Floki, accompagnato da Lagertha, elegante ed impeccabile come sempre.

La regina le diede un’impercettibile pacca sulla spalla, prendendosi una confidenza che Hylde non si sarebbe mai aspettata, forse incoraggiata dal clima festoso di quella sera. «Stavamo proprio parlando di te, Hylde.», esordì lei con aria gioviale.

La ragazza, con gli occhi di ghiaccio illuminati dal fuoco delle torce distribuite per tutta la stanza, sorrise, un po’ disorientata, chiedendo implicitamente delle spiegazioni.

Lagertha parlò a Floki con amabile allegria, lasciando perdere l’atteggiamento da sovrana, ma rivolgendosi a lui come una vecchia amica avrebbe fatto: «Come ti dicevo, Hylde oggi si è dimostrata degna della fiducia della nostra città, curando mio nipote con grande maestria, pur non essendo tenuta a farlo.».

Floki guardò con sorpresa la giovane dai capelli rossi, mentre la regina continuava col tono di chi era in procinto di dare un grosso annuncio: «Ed è per questo che ho deciso di accoglierla tra i miei guaritori.». Aggiunse poi, non troppo turbata dalla delusione di Floki, conscia di aver preso la decisione giusta: «Mi dispiace toglierti la tua compagna di lavoro, amico mio, ma così potrà essere più utile a tutti i cittadini.».

Si mise in mezzo al discorso un uomo a Hylde sconosciuto, che presentava i tipici tratti somatici norreni, con occhi azzurri e lunghissimi capelli color castano chiaro, e coperto da numerosi tatuaggi, anche sul viso. Si avvicinò a Hylde con un sorriso da seduttore incallito, ma la destinataria delle sue parole fu la regina: «Sono sicuro che Kattegat sarà in buonissime mani, grazie alla vostra decisione, mia Signora.».

Lagertha riprese subito il suo ruolo di sovrana, raddrizzò la schiena riacquistando la solita aria solenne ed intervenne per accogliere e salutare il suo ospite: «Re Harald Bellachioma! Che piacere rivederti.». Non c’era gioia nel suo discorso, solo pura formalità. Aggiunse, distaccata: «Non sapevo saresti arrivato stanotte. Avrei fatto in modo di accoglierti personalmente.».

Il prestante re norreno la corresse, sempre con quel tono gioviale che iniziava ad irritare Hylde, figurarsi Lagertha: «Sono arrivato stamane, in verità. Mi sono preso del tempo per sistemare vecchi affari lasciati in sospeso, giusto in tempo per vedere questa giovane fanciulla soccorrere il piccolo figlio di Bjorn.». Ignorò Lagertha per arrangiare un inappropriato baciamano con Hylde, imbarazzata oltremodo per quelle opprimenti attenzioni.

Un brivido le percorse la schiena, quell’uomo, per quanto fosse affascinante, non le aveva trasmesso buone sensazioni, nella sua testa rimbombava una voce che le intimava di non fidarsi di lui. Per questo, quegli apprezzamenti le risultavano fuori luogo e viscidi.

Floki e Lagertha furono così gentili da liberarla da una delle situazioni più imbarazzanti della sua vita a Kattegat, allontanando Harald con la scusa di discutere i piani riguardo alla flotta. A Hylde non dispiacque affatto rimanere un po’ da sola a tirare il fiato, cosa che le permise di starsene tranquilla a sorseggiare la sua birra. Non era mai stata una gran bevitrice e non era affatto un’esperta di alcolici, ma quella birra era dannatamente buona.

La serata, per lei, prese una piega davvero positiva quando finalmente avvistò Ivar, seduto ad un tavolo dal lato opposto della sala, immerso completamente in una discussione coi fratelli Bjorn, Hvitserk e Sigurd. Discutevano bruscamente e, pur senza sentire una parola a causa del forte baccano, Hylde poté vedere i loro animi scaldarsi sempre di più.

La conversazione si trasformò presto in una litigata tra Bjorn ed Ivar, sotto lo sguardo soddisfatto degli altri due fratelli, che parteggiavano per il più anziano di loro e godevano nel vedere il fratello minore rimesso al proprio posto.

Bjorn si batté un paio di volte il pugno sul petto e Hylde riuscì di sfuggita a leggergli il labiale: «Io! Il capo sono io!», aveva detto in un evidente impeto di rabbia. Si era alzato in piedi, per sovrastare Ivar con la voce e con la presenza fisica.

Il fratello più piccolo, invece, lo sfidava con lo sguardo, facendogli capire che, nonostante gli sforzi, non gli avrebbe mai dato ragione e che non avrebbe mollato tanto facilmente. Quando Bjorn ribadì che il comando sarebbe rimasto solo nelle sue mani, senza possibilità di replica, Ivar esplose, sbattendo forte sul tavolo il proprio boccale di birra, che era schizzata ovunque. Uscì di fretta dalla longhouse.

Hylde odiava vederlo così turbato, ma prima che potesse raggiungerlo fu distratta dalla risata di alcuni uomini svedesi vicino a lei. Stavano ridendo di Ivar, del suo modo di strisciare sul terreno e di trascinare le gambe inerti, facevano battute molto sgradevoli, additandolo e chiamandolo “storpio”, come se fosse una cosa normale ed esilarante. Le venne un conato di vomito nel sentire quei commenti, con lo sdegno che s’impossessava di lei.

Prima che, incoraggiata dalla birra, potesse dire qualcosa, la precedette Ubbe, che redarguì il gruppo di combattenti: «Dovreste fare attenzione a chi fate oggetto dei vostri commenti. Quello è mio fratello, Ivar Senz’Ossa, figlio di Ragnar Lothbrok.».

Hylde avrebbe pagato oro per avere una macchina fotografica ed immortalare l’espressione che comparve sulla faccia degli svedesi dopo le parole di Ubbe. Erano la manifestazione più pura dell’imbarazzo, arrancarono delle scuse, balbettando quasi, e giurarono che se solo lo avessero saputo non si sarebbero mai permessi di parlare in quel modo.

La ragazza s’irrigidì e sputò quelle parole come se fossero veleno, indignata da quelle scuse facilone e francamente molto inutili: «Il fatto è che non dovreste permettervi in generale, con nessuno.». Raddrizzò la schiena e girò i tacchi, uscendo dall’edificio sotto lo sguardo attonito dei guerrieri, che non osarono fiatare. Brandr e Ubbe invece ridacchiarono, divertiti da quella presa di posizione e dalla drammatica uscita di scena.



La piazza di fronte all’edificio principale era ancora più piena di quanto lo fosse quando Hylde era arrivata. Vichinghi di ogni stazza, sesso ed estrazione sociale ballavano scatenati, scoordinati ed ubriachi attorno al grande falò, lasciato libero di splendere da un tempo clemente, privo di correnti d’aria fredda. Il cielo sereno, con solo qualche nuvola sparsa qua e là, ospitava una spettacolare luna piena, la cui luce si rifletteva sul mare calmo della baia di Kattegat.

Hylde fece davvero fatica ad individuare Ivar in mezzo a quella situazione a dir poco caotica, ma alla fine lo avvistò in lontananza. Si muoveva rapidamente, strisciando come un serpente sinuoso con la sola forza delle braccia ben tornite. Lo vide entrare all’interno di quella che doveva essere casa sua.

La ragazza lo seguì, ritagliandosi con enormi sforzi lo spazio per passare attraverso la ressa di persone. Arrancando, riuscì a raggiungere la casa, tuttavia si ritrovò indecisa sul da farsi. Si chiese se lui avesse effettivamente voglia di compagnia in quel momento, o se non fosse troppo strano che lei si presentasse lì senza motivi apparenti.

Infine prese coraggio, deglutì e bussò alla porta con fare incerto. «Ivar... Sono io! Ti ho visto andare via di fretta dalla festa, mi chiedevo se ti sentissi bene.», disse lei, interessata davvero a capire come stesse quell’impulsivo ragazzo.

Nessuna risposta.

Hylde scosse la testa e si obbligò a riprovare: «Posso entrare?».

Ancora nessuna risposta, ma sentì debolmente dei movimenti all’interno dell’abitazione. “Allora sta ascoltando!”, ridacchiò lei fra sé e sé, probabilmente Ivar era dietro la porta, tenendola volutamente sulle spine per il semplice gusto di renderla impaziente.

«Avanti! Dammi almeno un segno di vita!», il tono di Hylde si era fatto più leggero e scherzoso, certa di essere ascoltata.

La porta si aprì dopo pochi istanti e all’ingresso comparvero Ivar e il suo adorabile sorriso sghembo, quello che gli conferiva la sua tipica aura di furbizia. «Sai che sei proprio insopportabile?», chiese lui ironico, mettendo da parte per un secondo la rabbia che gli ribolliva nel profondo.

Hylde rispose: «Caratteristica che...mi apre molte porte.». Accompagnò quella risposta ad un sorriso davvero stupido e divertente, che strappò una risata ad un Ivar ostinato a rimaner serio.

La invitò ad entrare e le confessò: «Stavo accendendo il fuoco, per non farti sentire il freddo della casa.».

Lei capì quanto il ragazzo stesse cercando di fare un gesto gentile nei suoi confronti dal fare impacciato ed imbarazzato che aveva assunto. Per un momento, la parte oscura di Ivar era sparita. Era di nuovo lui.

La guidò verso la coppia di sedie sistemate di fronte al focolare acceso e così Hylde ne approfittò per guardarsi attorno. Era proprio una bella casa, spaziosa, adatta ad ospitare tante persone, poiché c’erano diverse camere da letto. La sala del focolare era ben arredata con mobili in legno massiccio, decorata con numerosi trofei di caccia appesi alle pareti e tappeti di pelliccia sul pavimento freddo.

«Ti ho visto turbato, al banchetto.», ruppe il ghiaccio Hylde, accomodandosi sulla sedia di fianco a lui, vicina tanto da sfiorargli le gambe con le sue.

Ivar la osservò con sguardo indagatore, con un sorriso divertito che gli faceva piegare un angolo della bocca: «Mi stavi spiando, Hylde?». Adorava stuzzicarla così, solo per vederla arrossire.

Infatti, il pallido viso della ragazza si dipinse di un accentuato color rosso e si comportò come se provasse un misto di vero imbarazzo e finta indignazione: «Non è assolutamente vero!». Si giustificò: «Cercavo solo una faccia conosciuta!».

«Mh... Se lo dici tu.», continuò a prenderla in giro lui, che non credeva a quelle scuse e si divertiva a vederla agitarsi. Ammirò il suo bel viso e si rese conto di non averla mai vista truccata, con gli occhi chiarissimi messi in risalto dal nero delle linee disegnate. La trovò davvero bella, anche con l’aiuto del semplice vestito lungo color terra bruciata che le fasciava il corpo. Era eccezionale come con lei si dimenticasse di ogni problema, di ogni cosa che lo rendesse arrabbiato o infelice.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


La serenità non durò a lungo. Tornarono seri, dopo qualche altro scambio di battute e piccole prese in giro, così Hylde radunò il suo coraggio e chiese a bruciapelo: «Cosa ti ha fatto tanto arrabbiare?». Voleva così tanto aiutarlo ad alleviare quella rabbia, voleva disperatamente che si aprisse con lei, che non facesse finta di essere tranquillo quando in realtà era tutt’altro.

Ivar deglutì rumorosamente, prendendosi del tempo per pensare alle parole da utilizzare: «Voglio il comando dell’esercito, Hylde. Ora che posso combattere, ora che so di potercela fare.». Aveva uno sguardo così profondo, così sicuro di sé, al limite dell’arroganza. Gli occhi di solito chiari e splendenti si erano fatti di un intenso blu scuro, rischiarati dalla luce del fuoco che si rifletteva in essi.

Parecchio confusa da quell’affermazione, la ragazza disse: «Pensavo che il comando lo avesse Bjorn. Il fratello più anziano e con più esperienza è lui, è normale che abbia la carica più importante, no?». Parlò con tono calmo e onesto, così come aveva sempre fatto.

Lui rispose: «Hylde, tu non capisci. Mio padre voleva che io fossi il suo diretto successore. Mi ha portato con lui nel Wessex, mi ha fatto studiare i territori, gli edifici, le usanze... Mi ha svelato tutti i segreti per sfruttarli a mio vantaggio.». Aveva iniziato a parlare con voce febbrile ed impaziente, con lo sguardo pericoloso, con brama di potere.

«Io temo che questo non sia l’atteggiamento più giusto per farti ascoltare dai tuoi fratelli. E comunque, non credo che tuo padre volesse che solo uno dei suoi figli prevalesse a discapito degli altri.». Hylde continuò a parlare serenamente in quello che le sembrava un semplice ed aperto scambio di idee, allarmata però dallo sguardo di Ivar, intriso di perfida bramosia. Non aveva mai conosciuto Ragnar, ma era sicura di avere un’opinione solida, nonostante il ragazzo non fosse affatto d’accordo, a giudicare da come scuoteva la testa, in aperto dissenso.

Oramai la ragazza aveva imparato a conoscerlo, passando così tanto tempo insieme a lui sul campo di battaglia aveva imparato a riconoscerne i gesti e le espressioni, e vedeva nitidamente anche i suoi lati più controversi. Adocchiò tutta la rabbia che egli stesse covando, pronta ad esplodere con le parole: «Lo sapevo! Sei come i miei fratelli, tutti credete che io non possa farcela!». Era un fiume in piena, pronto a rompere gli argini.

La sua furia si abbatté su di lei, designata come il bersaglio della sua frustrazione. Hylde non lo aveva mai visto così arrabbiato, soprattutto nei suoi confronti. Capiva perfettamente che il problema non erano le sue parole, benché Ivar avesse deciso che quella sera sarebbe stata lei il capro espiatorio di un disagio portato sulle spalle da troppo tempo.

Hylde si alzò istintivamente dalla sedia e si allontanò, non sentendosi più al sicuro accanto a lui. Gli occhi iniziarono a riempirsi di lacrime, in quasi vent’anni di vita non aveva ancora imparato a discutere senza che il nervoso si trasformasse in pianto.

Tentò di calmarlo, ma fu interrotta da Ivar, imbottito di odio e risentimento: «Per voi sarò sempre il fratellino storpio. Quello che viene deriso e trattato diversamente!». Prese un piccolo pugnale nascosto nello stivale e lo lanciò con tutta la sua forza verso la parete che stava proprio alle spalle di un’immobile Hylde, conficcandolo perfettamente nel legno.

Ivar fece una pausa per riprender fiato, lo scatto d’ira gli aveva fatto accelerare il respiro. Dopodiché alzò lo sguardo verso la ragazza, ma sembrò non vederla davvero, come se fosse stato annebbiato, e volle ferirla con la frase: «Soprattutto tu, Hylde, mi tratti come se fossi uno stupido idiota.». Così freddo, gelido quanto la neve perenne delle alte montagne che circondavano l’immensa radura nella quale sorgeva Kattegat.

Gli occhi della giovane erano lucidi, trasudavano una delusione che l’annichiliva come un malessere fisico. Tremò di rabbia di fronte a un trattamento che sentiva di non meritarsi. Ivar l’aveva portata al limite dell’umana sopportazione, obbligandola a metter da parte ogni briciolo di comprensione rimastole nei suoi confronti: «Se non fossi così occupato a covare tutto questo odio verso il mondo e verso te stesso, capiresti che la realtà è ben diversa da quella che descrivi tu, Ivar!». Nonostante le copiose lacrime, Hylde scandì il nome del ragazzo con una furia tale da zittirlo all’istante ed obbligarlo a prestarle attenzione.

Ivar si pentì immediatamente di ciò che aveva fatto nel momento in cui la vide piangere. Non pensava davvero quelle parole e non avrebbe mai dovuto ferirla così. Si sentì un verme e il senso di colpa era tale da non permettergli di muovere un muscolo, non gli vennero in mente neanche delle parole di scusa, ogni granello di spavalderia si era dissolto come ghiaccio al sole.

La giovane si calmò e, raccogliendo la propria pelliccia, si avviò verso la porta. Appoggiando una mano sulla maniglia, mise un punto fermo al discorso: «...e avresti capito che magari è giusto guadagnarsi il potere con l’esperienza. Fai vedere a Bjorn quanto vali e sono sicura che ti darà più libertà d’azione.». Aprì la porta e uscì chiudendola alle sue spalle. Lo sentì imprecare attraverso la parete di legno, mentre si allontanava senza smettere di singhiozzare, non più per il nervoso o la rabbia, ma per delusione e tristezza.

L’atteggiamento di Ivar l’aveva mandata fuori di testa, mai si sarebbe aspettata di diventare il bersaglio della sua furia. La cosa che più l’aveva ferita era che in quei momenti lui si fosse dimenticato della loro amicizia e della loro complicità, aveva scordato la loro reciproca fiducia.

Non se la sentiva di tornare alla festa, quindi si procurò una torcia per dirigersi verso casa.

Poco lontano dall’abitazione, girato l’angolo prima di tornare sulla strada principale, che portava direttamente alle porte di Kattegat, Hylde scorse due figure seminascoste dall’oscurità. Erano distanti diversi passi da lei, rintanati in una viottola dove la luce delle torce non arrivava direttamente. Non la notarono, anche perché si era alzata sopra la testa il cappuccio del mantello, cosa che le conferiva un’aria del tutto anonima.

Tuttavia fu proprio Hylde a notare loro, riconoscendo Harald Bellachioma ed Egil, il conte che l’aveva accusata di essere uno spirito maligno al servizio del dio Loki, durante la sua prima sera a Kattegat. Avevano un atteggiamento sospetto, mentre Harald porgeva ad Egil una piccola sacca contenente delle monete: riuscì a vederle quando il conte dalla faccia ustionata aprì la sacca per controllarne il contenuto. Dopo essersi stretti la mano con fare complice, si dileguarono e così fece anche lei. Si sentì turbata, si chiese cosa stessero tramando e quella domanda non la ricambiò con delle buone sensazioni.

Aveva quasi raggiunto le enormi porte fortificate della città, quando incontrò Sigurd, che la riconobbe subito dagli occhi, dopo aver incrociato i loro sguardi per caso.

Il ragazzo notò il trucco sbavato di Hylde, il nero attorno ai suoi occhi aveva seguito il percorso tracciato dalle lacrime, disegnando delle linee scure lungo le guance. Le chiese perché avesse pianto, preoccupandosi per lei con estrema attenzione e gentilezza, come aveva sempre cercato di fare nelle rare occasioni in cui erano rimasti da soli. Cercava in ogni modo di farle capire quanto fosse interessato a lei e Hylde lo aveva notato. Per questo provava a non rimanere spesso sola con lui, non era mai stata brava in queste cose, le creava disagio rifiutare le persone.

Hylde fu molto vaga riguardo al motivo per cui si fosse messa a piangere, in primis perché non aveva molta voglia di parlarne, e poi perché non aveva intenzione di creare ulteriori tensioni tra lui e Ivar, che avevano già un rapporto fin troppo conflittuale.

Sigurd fece la sua mossa: l’abbracciò per consolarla, facendole appoggiare la testa sul suo petto e circondandole le spalle con le braccia. Era più alto di lei e con un fisico ben piazzato, Hylde per un momento si sentì al caldo e al sicuro, circondata dalle braccia di quel ragazzo che, per quanto impacciato, stava cercando di farla stare meglio.

Provò un moto di tenerezza verso Sigurd, che in quell’esatto momento si staccò un po’ da lei e, in un gesto totalmente inaspettato, la baciò.

In un primo momento, Hylde fu tentata di ricambiare quel bacio e quell’abbraccio avvolgenti. E così fece, aggrappandosi con le mani al mantello di Sigurd, ancorandolo a sé, sempre più vicini. Non si tirò indietro neanche quando il ragazzo provò ad approfondire il bacio, con le loro lingue che si esploravano ed i loro corpi a stretto contatto.

Desiderò disperatamente di potersi godere a fondo quei tocchi intimi insieme a Sigurd, che sembrava molto propenso a continuare quell’incontro in camera da letto, o su qualsiasi superficie orizzontale... ma non era Ivar.

«Mi dispiace, non posso!», esclamò Hylde con gli occhi lucidi, allontanando da sé Sigurd con una spinta istintiva. Era costernata e davvero dispiaciuta per averlo usato solo per una ripicca infantile, in fondo lui non c’entrava nulla. Aveva voluto ferire Ivar, pareggiando i conti, e solo allora si rese conto di quanto fosse stata stupida.

Sigurd non comprese subito il gesto della ragazza e tentò quindi un altro approccio, ma non parve più così entusiasta quando vide Hylde indietreggiare, aumentando la distanza tra di loro.

Lei cercò di spiegarsi: «Non posso, Sigurd. Non provo nulla per te, mi dispiace.». Non era tenuta a scusarsi per non ricambiare i suoi sentimenti, ma lo fece comunque, perché in realtà era sempre stata consapevole di ciò che provava il ragazzo per lei.

Lui scosse la testa, arrabbiato, e non tentò più di avvicinarsi, ma Hylde sapeva di avergli spezzato il cuore e non se lo meritava. «Ivar...è lui, non è vero?», le domandò lui seccamente, sconfitto e deluso, con anche una punta di gelosia nella voce.

Non seppe rispondergli, forse per mancanza di coraggio, ma i suoi occhi erano stati più eloquenti di qualsiasi parola.

«Hylde, sappi che ti pentirai molto presto di questa scelta.», l’avvertì Sigurd, sempre con quella voce delusa che le faceva male al cuore. Continuò: «Non è una minaccia, che sia chiaro... Ma imparerai a conoscere Ivar e, fidati, ha più lati oscuri di chiunque altro.».

Si asciugò le lacrime con la mano, mentre guardava Sigurd allontanarsi a passo spedito, animato dalla forza della rabbia provata in quegli istanti. Di nuovo, non aveva saputo rispondere a quella frase, Hylde era rimasta ferma ed in silenzio, dopo avergli sussurrato un altro, sofferto: «Mi dispiace.». Teneva lo sguardo basso e le braccia tese lungo i fianchi, con le mani chiuse a pugno, intorpidite dal freddo. Odiava sentirsi l’artefice dell’infelicità altrui.

Prima di far ritorno verso casa, guardò dietro di sé, verso la dimora di Ivar e sospirò, chiedendosi come avrebbe sistemato quella situazione.


I giorni passarono veloci da quell’episodio, senza che Hylde potesse impedirlo, a causa dell’enorme quantità di lavoro che le crollò rovinosamente sulle spalle.

A quanto pareva, il riposo nei giorni del Jólablót non era contemplato per i guaritori, poiché essi venivano investiti dal doppio del lavoro che solitamente si trovavano ad affrontare: erano giornate di grandi celebrazioni, in cui le persone davano il meglio di loro stesse con l’alcol ed i festeggiamenti, soprattutto durante la notte. Si perdeva il conto di tutti gli incidenti e le risse di cui i curatori fossero chiamati a raccogliere i pezzi, erano tante, troppe le persone che si ritrovavano ferite senza sapersi nemmeno spiegare come o perché.

Fin dal suo primo giorno, Hylde dovette assistere nelle sue commissioni quotidiane la più anziana dei guaritori, presentatale da Lagertha il giorno in cui si era occupata della ferita del figlio di Bjorn. Era una signora dalla corporatura minuta, dalla schiena leggermente cifotica e dalle giunture traballanti, ma aveva una forza d’animo speciale ed una dedizione instancabile verso la propria occupazione. Non amava molto le chiacchiere, avendo un carattere decisamente austero, era una persona che prendeva davvero seriamente la propria vocazione. Aveva dei grandissimi occhi grigi contornati da rughe profonde e vestiva spesso e volentieri di nero, come il pesante mantello che portava sulle spalle, il quale riproduceva il piumaggio di un corvo.

Si percepiva dell’astio da quella che avrebbe dovuto essere a tutti gli effetti la sua mentore e Hylde già immaginava il perché: quando Hali si era fatto male, l’aveva prevaricata, mettendosi in mezzo per utilizzare una metodologia non troppo conosciuta e che aveva funzionato perfettamente. Certe dinamiche sociali non avevano tempo.

Hylde fece in modo di scusarsi il prima possibile con Munin, spiegandole che non era mai stata sua intenzione scavalcarla, che aveva profondo rispetto per il suo ruolo e la sua esperienza. Semplicemente, era a conoscenza di un metodo più efficace e sarebbe stato ingiusto non metterlo in atto, cosa che fu confermata quando andarono a far visita al giovane Hali, quasi del tutto guarito, per la gioia dei genitori.

Scoprì così che Munin, per quanto severa e poco incline al complimento, era davvero una persona intelligente, con abbastanza cervello da comprendere quanto Hylde avesse ragione, nonostante la giovane età. Non era una persona convinta di esser sempre nel giusto solo in virtù della sua veneranda età, aveva una mente aperta e curiosa d’imparare tecniche nuove per amore delle scienze mediche.

A Hylde sembrò di toccare il cielo con un dito quando poté insegnare a Munin, e col tempo a tutti i guaritori di Kattegat, tutto ciò che sapesse e che avesse imparato con lo studio, a partire dalla tecnica della sutura e come riconoscere le situazioni in cui fosse preferibile rispetto alla cauterizzazione.

Da parte sua, invece, ci fu parecchio entusiasmo nell’apprendere più nel dettaglio tutte le applicazioni medicinali delle piante spontanee che la popolazione scandinava avesse a disposizione e anche come creare delle efficaci creme ed unguenti, pratiche fondamentali in un mondo privo delle adeguate attrezzature mediche e della tecnologia.

Pian piano, superata la diffidenza iniziale, anche gli altri curatori impararono a fidarsi di lei e a chiederle consiglio nelle occasioni in cui non sapevano come procedere o che cura somministrare. Si rivelarono perciò giorni di proficuo ed intenso scambio di opinioni e conoscenze. Un dare e avere meraviglioso, in cui tutti ebbero l’opportunità d’imparare qualcosa di nuovo.

Hylde poté anche cimentarsi in alcune rudimentali tecniche di chirurgia che, per quanto antiquate, nei casi meno critici si rivelavano dei veri e propri salvavita. Benché nel mondo moderno questa branca della medicina non fosse neanche presente nella sua mente o nelle sue ambizioni, si obbligò ad acquisire quante più informazioni possibili e ad affinare maggiormente le proprie tecniche, dato che sarebbe partita per una spedizione insidiosa, insieme a persone intenzionate a sottoporsi a delle sanguinose battaglie. Più tecniche a disposizione equivalevano a più potenziali vite salvate.

I guaritori di Kattegat invece appresero, tra le altre cose, l’importanza dell’igiene e della sterilizzazione, arrivando persino ad andare in giro sempre con una boccetta di vino, o di qualsiasi altra bevanda ad alta gradazione alcolica, a portata di mano. In più, Hylde insegnò loro delle migliori e più accurate tecniche di riposizionamento delle ossa, essendo il rompersi di qualche arto l’incidente più diffuso sia in tempo di pace che di guerra.

La ragazza rimase sinceramente stupita (ed anche turbata, a dirla tutta), da come la medicina andasse di pari passo con la magia e col culto degli dei. Era difficile per lei mantenersi in una posizione neutrale, stare nel mezzo senza condizionamenti, avendo avuto la possibilità di vivere in due epoche diametralmente opposte, dal punto di vista religioso: da una parte si sentiva in dovere di conservare una certa razionalità, a causa della sua formazione atea e scientifica. Sapeva che una forte credenza potesse essere un’arma davvero potente per un malato, un aiuto per sconfiggere i propri malesseri ed accedere alla guarigione disperatamente anelata, ma Hylde aveva sempre associato ciò all’autosuggestione, al puro inganno della mente, conscia del grosso ruolo giocato dalle medicine e dalle cure nella guarigione di una persona. D’altra parte però, essendo ormai completamente immersa in quel nuovo mondo, iniziava a nutrire forti dubbi su tutto ciò che avesse creduto fino a quel momento, cominciava a sospettare che ci fosse un fondo di verità in quei culti così lontani nel tempo. D'altronde, lei era la prova vivente di quanto fosse stata efficace una preghiera ad Odino.

Oppure, magari, tutto ciò stava accadendo solo nella sua testa, tuttavia, per citare un colosso della cultura pop contemporanea, “Dovrebbe voler dire che non è vero?”.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Il carico di lavoro si rivelò più intenso del previsto e i compiti quotidiani, svolti con solerzia ammirevole, la portarono presto ad essere conosciuta e ben voluta a Kattegat, aiutandola a sconfiggere una volta per tutte l’atteggiamento guardingo dei suoi concittadini, che tanto l’aveva fatta sentire a disagio. Finalmente veniva accettata da quella che era diventata a tutti gli effetti “la sua gente”, il suo popolo.

Quegli avvenimenti del tutto positivi avevano donato a Hylde, oltre che una gioia immensa, anche una solida scusa per evitare il campo d’addestramento per i soliti allenamenti pomeridiani. Non era pronta ad affrontare la rabbia di Sigurd e tantomeno l’atteggiamento sfrontato di Ivar, sperava che la situazione si risolvesse magicamente da sola, continuando a procrastinare il momento della resa dei conti.

Di giorno le era facile non pensarci, ma poi arrivava il momento di scontrarsi con la tranquillità della notte, terreno fertile su cui far crescere e proliferare le proprie ansie e preoccupazioni, che la tormentavano tanto da non farla dormire pacificamente. La cosa si rifletteva sul suo viso, che appariva sempre stanco e provato.

Brandr, con cui divideva la stanza, si era ovviamente accorta del disagio provato da Hylde, perciò una mattina, senza alcun preavviso, decise di metterla alle strette e chiederle delle spiegazioni. «Ferma!», le urlò Brandr prima che potesse sgattaiolare fuori dalla stanza proprio per evitare l’argomento, così come aveva fatto tutte le mattine precedenti.

«Vuoi spiegarmi, una volta per tutte, cos’è successo tra te ed Ivar di così grave da farti allontanare in questo modo?», le chiese mettendosi seduta sul letto, con le braccia conserte sul petto e con aria seria, che celava la sua preoccupazione.

Hylde si era immobilizzata davanti all’uscita della camera da letto, come quando si scopre un bambino intento a compiere la sua marachella, e, prima che potesse anche solo pensare ad una scusa vera e propria, Brandr l’ammonì: «Non osare propinarmi la solita frase, tipo “Sono troppo occupata!”.». Il suo tono si fece assai minaccioso, quando aggiunse: «Ormai non ci casco più.».

In tutta sincerità, Hylde aveva già dimenticato e messo da parte, in un remoto cassetto della sua memoria, la parte drammatica della vicenda, pur essendo cosciente di aver bisogno di fare una seria chiacchierata con Ivar: dopotutto, quello scatto d’ira l’aveva spaventata. Le rimaneva un forte senso d’imbarazzo per aver mal gestito la situazione, sebbene non si sentisse la sola ed unica responsabile di come si fossero sviluppati gli eventi.

Si voltò verso Brandr, che le puntava gli occhi addosso in trepidante attesa di risposte. Con vergogna crescente e col viso sempre più purpureo, Hylde le raccontò tutto, iniziando dall’accesa discussione con Ivar. Quando arrivò alla parte del bacio tra lei e Sigurd, Brandr scoppiò a ridere.

«L’hai baciato? Sul serio?!», le chiese sgranando gli occhi e sforzandosi con tutta se stessa di non alzare troppo la voce, per non svegliare i genitori.

Hylde ci tenne a precisare che fosse stato Sigurd ad iniziare, ma confermò tutto il resto con onestà e puntualizzò anche: «Me ne sono subito pentita, però.».

«Ma tu preferisci Ivar, giusto?», domandò Brandr, cercando di far mente locale e di capirci qualcosa, poiché il suo cervello logico e preciso aveva bisogno di ordine.

«Ho fatto un disastro! Quei due si odiavano già senza il mio contributo.», piagnucolò Hylde col viso nascosto tra le mani per la vergogna, dopo aver dato all’amica una tacita risposta affermativa, annuendo con la testa. Era la prima volta che l’ammetteva lucidamente in presenza di qualcuno, e forse anche con se stessa. Il cuore prese a batterle forte.

Brandr esaurì le risate e corse in aiuto dell’amica in evidente difficoltà: «Stai tranquilla! Non devi nulla a nessuno dei due, quindi smettila di sentirti in colpa.». Aveva dei modi un po’ bruschi, ma aveva ragione. «Ed ora che hai fatto la tua scelta...», continuò lei con un viso raggiante, «...ti sarà più facile sistemare le cose con Ivar. Sigurd invece dovrà accettare la sconfitta, o se la vedrà con me.».

La pragmaticità di Brandr rasserenò l’umore di Hylde, che in tutti i giorni precedenti non aveva mai visto la situazione in modo così limpido.

La giovane guerriera si alzò dal letto ed iniziò a radunare i vestiti che avrebbe indossato quel giorno, ma prima di iniziare raccomandò a Hylde di non saltare più gli allenamenti del pomeriggio: «Altrimenti impazzirò senza di te a farmi compagnia.».

Hylde le sorrise e le promise che non sarebbe più mancata, poi si congedò, uscendo dalla stanza e raggiungendo Munin nel luogo concordato il giorno prima.

L’ansia e la trepidazione l’accompagnarono durante tutto l’arco di quella gelida giornata invernale. Dovette però ammettere di essere pronta ad affrontare Sigurd ed Ivar, desiderava ardentemente mettere un punto a quell’imbarazzante situazione. Il sostegno di Brandr aveva regalato positività al suo umore, le aveva trasmesso un senso di risolutezza davvero energizzante.

Il tardo pomeriggio arrivò alla fine di una giornata estenuante, fatta di gente malata e sofferente per il freddo, il quale penetrava nella carne fino a raggiungere le ossa, ostacolando la guarigione della maggior parte dei casi più critici. Purtroppo ad aggravare il tutto, oltre l’assenza del paracetamolo, contribuivano anche le scarse possibilità di igiene dell’epoca, problema che apparteneva soprattutto alle famiglie più modeste, e Hylde non poteva fare altro che dare qualche consiglio riguardo alla pulizia, somministrare intrugli di erbe medicinali ed assicurarsi che i malati venissero tenuti al caldo, alimentati con cibi nutrienti.

Sperimentò presto come l’inverno generasse così facilmente le proprie vittime e quanto fosse difficile superarlo, a maggior ragione per le persone dalla salute più cagionevole, che lottavano disperatamente per la vita, aggrappandocisi con tutte le loro forze.

Tutta l’angoscia vista e provata quel giorno le fece sembrare i suoi “problemi” con Sigurd ed Ivar come battibecchi infantili di poco conto, e poterli definire così fece rendere conto a Hylde di quanto lei e tutti i suoi amici fossero privilegiati a doversi preoccupare solo di questo.

Il suo timore era svanito. Percorse il sentiero battuto che da Kattegat portava al campo d’addestramento dei fratelli Lothbrok, camminando con sicurezza lungo una strada che ormai era impressa a fuoco nella sua mente.

Non appena la scorse nell’ampia vallata, Brandr sorrise radiosa, salutandola con la mano arrossata per il duro allenamento a cui si era sottoposta, scoppiava di gioia nel rivedere l’amica in quel luogo tanto importante per loro.

Notò subito l’assenza di Ivar, Hylde aveva sperato di vederlo seduto sul solito ceppo, intento a pulire le sue armi, oppure a lucidare l’elmo, o a scontrarsi con uno dei suoi fratelli. Rimase delusa di non vederlo lì insieme agli altri.

Respirò profondamente e si avvicinò alla robusta staccionata, proprio dove Sigurd stava indossando delle protezioni sopra ai propri abiti, prima di impugnare le armi e dare inizio a qualche scontro con Ubbe o Hvitserk.

Nel momento in cui la vide, fu tentato di allontanarsi, ignorandola come se nulla fosse, ma Hylde fu molto più tempestiva e mandò in fumo i suoi piani, chiamandolo per nome e chiedendogli: «Ti va di parlare?».

Le osservò il viso dispiaciuto, il quale tradiva una certa preoccupazione nell’affrontare quel discorso inevitabile, e, purtroppo per lui, non avrebbe mai saputo dirle di no. Finì d’indossare l’armatura protettiva e si avvicinò a lei, appoggiando i gomiti sulla staccionata, pronto all’ascolto.

Hylde procedette con una certa timidezza, mantenendo lo sguardo basso, e, raccogliendo tutto il suo coraggio, parlò trasmettendo al ragazzo una totale onestà: «Avevi ragione... è Ivar, è sempre stato Ivar.». Lo ammise ad alta voce, finalmente.

Sigurd s’irrigidì, era uno smacco difficile da sopportare, ma i suoi pensieri furono frenati dalla voce della ragazza, che continuò il discorso: «E non avrei dovuto ricambiare quel bacio, sapendo quello che provi. Mi dispiace.». Era sincera, senza filtro alcuno, quando alzò lo sguardo in direzione del viso del giovane uomo davanti a lei. Lo guardò negli occhi, di cui uno presentava una piccola malformazione alla pupilla, che la rendeva di forma allungata, come un minuscolo serpente, e notò quanto quel volto così piacente fosse tumefatto: presentava dei lividi qua e là, in più il labbro inferiore si era rotto, come se fosse stato preso a pugni. I ragazzi non si erano mai ridotti così, neanche dopo gli allenamenti più tosti.

«Cosa ti è successo?», domandò Hylde allarmata, mentre gli raccomandava di alleviare il dolore con della neve o del ghiaccio.

Sigurd ridacchiò con il suo tipico ghigno spietato, prendendo sottogamba quelle ferite e spiegandole: «Potrei aver detto ad Ivar che ti ho baciata.». Sembrava davvero divertito, sebbene quel gesto gli fosse costato il cambiamento dei connotati facciali.

Hylde rimase impietrita, un po’ per la reazione esagerata di Ivar e un po’ per la sfrontatezza senza limiti di Sigurd. Con gli occhi sgranati, riuscì a sussurrare solo un: «Come, scusa?».

«Tranquilla, ho chiarito che la colpa è solo mia, ma avevo voglia di concedermi una rivincita.», l’atteggiamento insolente, ma dannatamente divertito di Sigurd iniziava a darle sui nervi. Ridacchiava con l’impudenza di qualcuno abituato a prendersi gioco dei sentimenti altrui, soprattutto del fratello a lui meno simpatico.

La ragazza frenò con tutta se stessa l’istinto di reagire a sua volta con violenza, tenendo a bada l’irritazione nel vederlo così compiaciuto della sua azione. Le sovvenne poi un pensiero non troppo felice: «Per questo Ivar non si è presentato oggi? Sta male, o è ferito?».

Lui scosse la testa di fronte all’ennesima prova di quanto l’attenzione di Hylde fosse rivolta unicamente verso Ivar e dovette rassegnarsi al suo evidente non interesse. Non abbandonò il suo atteggiamento sfrontato, ma si fece comunque più serio, andando incontro alla preoccupazione della ragazza: «Non preoccuparti, è successo qualche giorno fa e l’unico ad essersi ridotto così sono io.».

Hylde si rilassò grazie a quelle parole ed ora sentiva il bisogno di vedere Ivar, per accertarsi di persona che stesse bene, ne percepiva l’urgenza ed era decisa a congedarsi, ma venne fermata da Sigurd, che non aveva ancora finito di parlarle e che aveva già captato le sue intenzioni: «Prima che tu vada da lui, volevo dirti che non avrei dovuto baciarti, sapendo già cosa provassi per Ivar.». Erano pari, si erano usati entrambi per motivi totalmente differenti, e sfortunatamente si era reso conto troppo tardi che non sarebbe servito a nulla, un bacio non le avrebbe mai fatto cambiare idea.

La giovane sorrise, comprendendo come fosse stato difficile per lui mettere da parte l’orgoglio e parlarle così sinceramente, e si sentì molto sollevata. Gli confessò che ormai considerava loro fratelli Lothbrok, nonché Brandr ed i suoi genitori, come la sua famiglia e non poteva sopportare di partire per una spedizione tanto pericolosa senza che ci fosse la massima fiducia, senza aver risolto quei piccoli conflitti.

Tese l’avambraccio verso di lui: «Amici?».

Sigurd ci pensò un attimo e, per lei, decise di archiviare definitivamente tutto il suo orgoglio di uomo ferito. «Non sarà facile per me, ma...», le si avvicinò e, intrecciando i loro avambracci, le strinse la mano con fermezza: «...sì, amici.».

Si sorrisero con tenerezza, in vista di quella che tra loro due sarebbe stata solo una bella amicizia, e Sigurd avrebbe fatto bene a prenderne atto, benché fosse già sulla strada giusta per farlo.


Hylde si sentì immediatamente più leggera all’idea di aver sistemato il rapporto con Sigurd, che era tornato ad un comportamento del tutto tranquillo nei suoi confronti, benché permanesse ancora un senso d’imbarazzo. Si sentiva come se si fosse liberata di uno dei grossi macigni che le opprimevano la bocca dello stomaco, dandole quel costante senso d’angoscia.

Aveva lasciato il campo d’addestramento poco dopo aver parlato con Sigurd, quando gli altri le avevano detto il motivo per cui Ivar non fosse presente: era una delle giornate in cui veniva affetto dai violenti dolori alle gambe. Erano ormai degli eventi sporadici, ma capitavano ancora. Di solito, succedeva dopo giorni di intensa attività fisica, quando corpo e mente venivano sottoposti a forte stress, ed il dolore era talmente debilitante da costringerlo a letto. Nessuno poteva fare nulla di significativo per lui, a parte preparargli una bevanda rilassante a base di malva e belladonna, per indurgli un sonno profondo.

Sebbene le avessero assicurato che si sarebbe ripreso dopo un paio di giorni di completo riposo, Hylde non poté fare a meno di preoccuparsi e dovette accertarsi delle sue condizioni. Corse da lui, istintivamente, senza pensarci un secondo di più.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Hylde arrestò la sua corsa verso Kattegat quando si trovò di fronte all’abitazione dei fratelli Lothbrok. Aspettò che il suo respiro tornasse regolare e che le passasse il fiatone, prima di aprire con calma la porta. Era certa di trovarlo addormentato, perciò volle assicurarsi di fare meno rumore possibile, camminando in punta di piedi e setacciando le diverse camere.

Lo trovò in una bella stanza non eccessivamente arredata, ma dall’aspetto sufficientemente confortevole, con morbidi tappeti sul pavimento e numerose coperte calde distribuite sul letto dalla struttura in legno massello, riconobbe la mano di Floki nelle raffinate intarsiature.

Accese un paio di candele, conscia del fatto che non mancasse tanto tempo al tramonto, e le posò su un piccolo tavolino vicino alla testa del letto su cui Ivar riposava.

Si sedette su uno sgabello accanto a lui e lo vide ancora sofferente, nonostante dormisse profondamente. Aveva delle marcate occhiaie, scavate sotto agli occhi ben chiusi, il viso pieno di goccioline di sudore, che Hylde tamponò via con un panno pulito, con un gesto lieve e delicato. Gli accarezzò piano la testa, muovendo le dita tra i capelli scuri liscissimi, all’inizio con un po’ d’esitazione, per paura che potesse disturbare il suo sonno. Non successe, non si svegliò, ma avvenne comunque un leggero cambiamento: il viso contratto in una smorfia di dolore si rilassò e vi comparve un sorriso rilassato.

A Hylde si scaldò il cuore di fronte a quella tenerezza, senza riuscire a credere che quella fosse la stessa persona capace di tanta rabbia e spirito vendicativo.

Lasciò la casa quando il cielo cominciò ad imbrunire, ripromettendosi di tornare a trovarlo il giorno dopo, in veste ufficiale di guaritrice.


Mantenne la promessa l’indomani, non appena concluse le proprie mansioni quotidiane e dopo aver soccorso le persone coi malesseri più impellenti, rimanendo fedele al suo ruolo ed alle sue responsabilità.

Approfittò del primo momento di calma per dirigersi verso la casa di Ivar. Bussò e venne accolta da Ubbe, che la salutò con un sorriso stanco, proprio mentre si accingeva ad uscire dall’abitazione. Prima di entrare, Hylde gli chiese come stesse Ivar e lui rispose con ironia: «Irritabile come sempre.». Era un buon segno, cosa che sollevò decisamente l’umore della ragazza. Si congedarono dopo quel breve scambio di parole, dato che Ubbe doveva vedersi con Brandr, poco tollerante verso i ritardatari.

La giovane entrò e si guardò in giro, non c’era traccia degli altri fratelli, nella casa regnava il silenzio, rotto soltanto dallo scoppiettare della legna bruciante nel focolare.

Si diresse verso la camera di Ivar ed entrò bussando sullo stipite della porta, annunciandosi. Vi trovò il ragazzo disteso comodamente sul grosso letto, col busto alzato e la schiena appoggiata ai morbidi cuscini di piume. La studiava con l’aria di chi si sente colpevole, come per capire se fosse ancora arrabbiata con lui, se lo avesse perdonato,voleva cogliere ogni minima sfumatura sul volto della ragazza.

«Hai un aspetto orribile.», esordì Hylde, trattenendo a stento un grosso sorriso divertito.

Ivar rise, mostrano i denti bianchi e sani, sollevato ne vederla di buon umore. Col suo solito sarcasmo, rispose al commento: «Così parlò la diretta discendente di Freyja.». Era segno di quanto si sentisse meglio, nonostante fosse ancora un po’ sofferente.

Hylde ricambiò la sua gioia e lo guardò con gli occhi di ghiaccio scintillanti, era contenta di rivederlo, benché la delusione provata nei giorni precedenti fosse ancora viva nella sua mente.

Il ragazzo la guardò a sua volta, per poi distogliere nuovamente gli occhi da lei, rabbuiandosi ed intimandole: «Vattene, non voglio che tu mi veda così.». E poi aggiunse, con un pizzico di sfacciataggine del tutto non richiesta: «Torna a baciare Sigurd.».

Eccolo, di nuovo sulla difensiva. Lei decise di non ascoltarlo, si avvicinò al letto su cui era disteso e replicò con grande serietà: «Non sei nella condizione di dirmi cosa fare e, francamente, non lo sarai mai.». Si sedette sulla sponda, proprio di fianco ad Ivar, che parve rassegnato di fronte alla decisione di Hylde di restare, ma anche positivamente sorpreso da quella risposta decisa.

Lei continuò a parlargli, rimanendo seria, facendosi ascoltare davvero e con attenzione: «Quel bacio con Sigurd non ha significato nulla, per me. Volevo solo pareggiare i conti con te, dopo la nostra discussione. Un gesto stupido.».

Ivar tornò a guardarla, con un ghigno incuriosito, ma ostentando ancora una certa lontananza emotiva, con tono quasi offeso: «Cosa ti ha fatto pensare che potesse fregarmene qualcosa?».

«Non lo sapevo. Ma ho visto come hai ridotto la faccia di Sigurd. Ancora una volta, hai reagito da idiota.». Hylde assestò quella scoccata meravigliandosi di se stessa, in vita sua non era mai stata così diretta, così lucida nell’esprimere la propria opinione.

Il ragazzo si zittì, consapevole di quanto lei avesse ragione, non aveva scusanti. Incassò il colpo e rimase in ascolto, rapito dalla determinazione di quella ragazza dolce, ma decisa nei momenti più giusti.

«E a proposito di azioni idiote, non permetterti mai più di mancarmi così di rispetto. Non ti ho mai trattato come uno stupido, e lo sai. Non sono io il nemico, Ivar.», concluse Hylde, reprimendo con tutta la sua volontà l’istinto di piangere, e quindi dar sfogo a tutte le emozioni messe da parte per difendersi, per essere forte. Cercò di resistere alla voglia che aveva di abbracciarlo e di rispondere così all’affetto provato nei suoi confronti.

Ivar si sciolse, sentendosi nuovamente in colpa, percependo la sofferenza della persona che aveva trattato peggio in assoluto. Senza pensarci, con un atto istintivo, le prese la mano e se la portò in grembo, giochicchiando con le sue dita, alla ricerca delle parole più sincere: «Mi dispiace, Hylde. Non meritavi di esser trattata così, ti ho spaventata, avrei potuto ferirti. Me la sono presa con te senza un motivo valido.». Spostò lo sguardo dalla mano agli occhi della ragazza, che sembrava pietrificata da quei gesti veri e genuini. «Sei l’amica più cara che ho. Non succederà più, lo giuro sugli dei di Asgard.». Era serio e avrebbe fatto di tutto per mantener fede a quelle frasi. L’avrebbe protetta da chiunque, persino da se stesso, smuovendo mari e montagne con la potenza del dio Thor solo per far sì che non si trovasse mai in pericolo.

Buttando giù quella maschera arrabbiata e delusa, Hylde si sciolse a sua volta e tornò gentile come sempre, mentre stringeva in modo delicato la mano di Ivar ancora a contatto con la sua: «Non so quanto sia saggio giurare sugli dei, ma so che manterrai la promessa.».

Archiviato definitivamente quell’argomento, decise di tirare su gli animi ad entrambi, cambiando discorso: «Ti vedo meglio oggi, ieri stavi decisamente peggio. Per fortuna l’infuso di belladonna ti ha aiutato a riposare...».

«Sei stata qui ieri?», l’interruppe lui, di nuovo sorpreso.

Hylde si strinse nelle spalle, un po’ imbarazzata: «Volevo assicurarmi che non stessi troppo male, sono pur sempre un’infer...». Si bloccò un attimo, accorgendosi dell’enorme lapsus, e si corresse subito: «Una guaritrice.».

Il giovane non ci fece troppo caso, distratto dalla gentilezza di Hylde che, pur essendo stata arrabbiata con lui, si era premurata di controllare le sue condizioni. Pensò di non meritarsi affatto quella persona nella sua vita, non riusciva a capacitarsi del perché gli dei lo avessero omaggiato così generosamente, ma scacciò via quei pensieri e fece riemergere il suo ghigno sarcastico: «Lo avevo sentito dire, che fossi diventata guaritrice...». Continuò trattenendo una risata: «...non so quanto Kattegat possa definirsi al sicuro,ora.». Quanto gli era mancato stuzzicarla così.

Iniziando a ridere, Hylde finse di offendersi ed afferrò velocemente il piccolo cuscino appoggiato sullo sgabello accanto al letto. Glielo tirò in faccia esclamando: «Stolto di un vichingo!», e lo colpì piano per diverse volte, senza fargli male.

Anche Ivar rise di gusto, parando con le mani quanti più colpi gli fosse possibile, fino a quando una piccola fitta alla gamba destra non gli impose di smettere, mettendo fine al gioco. Imprecò, scaraventando un pugno sul morbido materasso, ma il dolore passò subito, per fortuna.

Hylde si scusò per averlo fatto agitare, con la paura di avergli provocato quella fitta, e si sbrigò a consegnargli una nuova boccetta di crema per contrastare un po’ di dolore, contenuta nella piccola sacca tenuta a tracolla sul fianco. Nel frattempo, lui tentò di rassicurarla, dicendole che non era colpa sua, e prese la crema con un impeto di gioia, dato che aveva quasi finito quella che gli era stata regalata precedentemente.

«Stavo pensando che forse il dolore che provi non sia una cosa così negativa.», disse Hylde, prendendo il coraggio necessario a condividere l’idea balenatale in testa la notte prima.

Ivar la guardò come se si trovasse di fronte ad una pazza, come se lei avesse perso il senno all’improvviso.

La giovane si scusò per non essere stata abbastanza chiara, mentre lo aiutava a mettersi in una posizione più comoda, che gli alleviasse un po’ di fastidio: «Intendo dire che sarebbe peggio se non sentissi nulla. Il dolore e il fatto che qualche volta tu riesca a muovere le gambe mi fanno pensare che possa avvenire un miglioramento.».

«Stai dicendo che potrei riuscire a camminare?». Ivar era basito, con gli occhi sbarrati e la totale attenzione rivolta a Hylde, in assoluto ascolto.

Lei cercò di calmarlo e di non farlo agitare, perché non c’era nessuna garanzia, erano tutte ipotesi e nessuna certezza: «Non lo so, Ivar. Non posso prometterti nulla in questo momento.».

La fece avvicinare a sé e le accarezzò la guancia con la mano ruvida, rivelandole: «Prima sapevo di non avere possibilità, ora gli dei mi mandano te, che mi offri una via d’uscita. Mi basta questo.». Hylde, davvero commossa da quelle parole, appoggiò la sua fronte contro quella di Ivar, un contatto intimo, che rivelava quel profondo affetto che aleggiava tra di loro, nei loro cuori.

Il ragazzo rimase fermo, afferrando febbrilmente quel momento come se temesse di non poterne vivere altri in futuro, godendosi il tocco leggero della giovane donna sul suo viso e sul collo. Annuì con grande entusiasmo quando lei decise: «Cominceremo a lavorarci quando il dolore sarà sparito.».

Entrambi alzarono leggermente lo sguardo, i loro occhi si scrutavano con minuziosa attenzione, la pelle delle loro fronti sembrava prendere fuoco ad ogni secondo passato a contatto tra loro. Entrambi si sentirono grati di trovarsi lì in quel preciso ritaglio di tempo, dove nessuna cosa al mondo avrebbe potuto ferirli. Le loro labbra così vicine.

«Hylde, ti cerca... Oh.». Era stato Sigurd a parlare, rimasto impalato all’ingresso della stanza, con ancora la mano sulla maniglia della porta lignea e gli occhi spalancati. Il suo sguardo esprimeva imbarazzo e genuina, bruciante gelosia.

La ragazza si staccò subito da Ivar, rossa in viso, portandosi qualche ciocca di capelli dietro le orecchie. Ivar invece rivolse al fratello uno sguardo omicida, infastidito da come Sigurd avesse interrotto quel momento di puro idillio.

Sigurd si schiarì la voce, riprendendo il controllo, e tornò alla frase che aveva iniziato poco prima: «Munin ti cerca, faresti meglio a raggiungerla.». Abbassò lo sguardo ed uscì immediatamente di casa, volatilizzandosi.

Hylde avrebbe tanto voluto ringraziarlo di averle portato il messaggio, ma quando aprì la bocca per parlare, Sigurd aveva già abbandonato la camera. Tornò ad osservare Ivar, ancora intento a maledire mentalmente il fratello, e si congedò: «Il dovere chiama.». Gli regalò un sorriso raggiante, per stemperare un po’ d’imbarazzo.

Come al solito, il giovane vichingo non riuscì a rimaner serio di fronte all’allegria della ragazza ed annuì.

«Torno a farti visita appena mi è possibile.», gli spiegò Hylde alzandosi e dirigendosi verso l’uscita , proprio mentre Ivar le rispondeva: «La prenderò come una promessa.».

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Da allora non capitarono più litigi così ingrati tra Hylde ed Ivar, tornarono a volersi bene ed a fidarsi, prendendo quell’episodio spiacevole, di comune accordo, come un incidente di percorso.

La ragazza lo aveva perdonato di buon grado, forse influenzata da quei sentimenti che ancora non aveva avuto il coraggio di confessargli, ma anche incoraggiata dal perfetto comportamento di Ivar, che non osò più mancarle di rispetto, o cedere ad incontrollati scatti d’ira in sua presenza.

Aveva finalmente capito che Hylde non fosse lì per giudicarlo, come aveva fatto la maggioranza delle persone da lui incontrate nel corso della sua vita. Hylde era lì per supportarlo e fargli vedere le cose con occhi diversi, per fargli comprendere che nel mondo ci fosse anche spazio per sentimenti diversi dall’odio, o dal rancore. Non c’era sempre bisogno di starsene sulla difensiva, di proteggersi ergendo quella muraglia di diffidenza e lasciare tutto il resto fuori.

D’altra parte, grazie alla presenza di Ivar nella sua vita, Hylde aveva compreso i profondi benefici del tirare fuori tutta la forza d’animo di cui fosse capace, ad affrontare le difficoltà di petto, con la determinazione tenuta ben nascosta nei meandri del suo essere. Per tutto il corso della sua vita non aveva fatto altro che scappare dai problemi, cedendo di fronte a paure irrazionali e piangendosi addosso senza avere idea di come risolvere le situazioni che l’affliggevano, senza neanche provarci. Era rassicurante sapere di avere una via d’uscita nelle proprie mani, sapere che, nonostante la scarsa autostima, avesse la possibilità di ricercare in se stessa la forza di rialzarsi.

Per questo, entrambi provavano un senso di pace nello spendere del tempo insieme, entrambi imparavano qualcosa di nuovo e traevano beneficio dalla loro reciproca compagnia. Non c’era argomento di cui non discutessero tra di loro, scambiandosi opinioni e consigli. E fu proprio in questo contesto che trovò terreno fertile per crescere l’idea di Hylde riguardo alle gambe di Ivar, che si fidò completamente di lei anche in questo caso.

S’impegnò al massimo anche quando arrivò il momento di rinforzare la muscolatura, aiutato da Hylde fisicamente e mentalmente. Non lo lasciava mai da solo, soprattutto quando Ivar iniziava ad innervosirsi, stremato dal dolore e dalla fatica. Lo spronava sempre quando era ora di testare la forza e la resistenza delle gambe, ed egli raggiungeva il più alto grado di felicità ogniqualvolta riuscisse a portare a termine un movimento che fino a poco tempo prima non si sarebbe mai sognato di compiere.


«Puoi farcela, Ivar! Ti sei allenato tanto per questo momento, avanti!», lo incoraggiò Hylde con un sorriso carico di speranza.

Il tempo era passato. Ormai si era sciolto lo spesso manto di neve che ricopriva ogni cosa di quella terra gelida, amante delle temperature glaciali. Le giornate iniziavano a dilungarsi, regalando a tutti più ore di luce e sole, il quale finalmente iniziava a portare un po’ di quel vero calore tanto agognato. Lo stare fuori casa cominciava a risultare più piacevole, cosa che fece sembrare Kattegat ancor più popolosa e frenetica.

Hylde ed Ivar si erano allenati con costanza, sfruttando ogni secondo di tempo libero per giungere preparati a quel momento. Quella sarebbe stata la resa dei conti, il giorno in cui avrebbero scoperto se l’idea di Hylde fosse valida, oppure se fosse soltanto un pessimo sbaglio. La ragazza si sentiva estremamente sicura del proprio piano, ma il timore del fallimento, di far male ad Ivar, era sempre dietro l’angolo, pendendo sulla sua testa come la spada di Damocle. In caso di esito negativo, ciò che l’avrebbe più ferita in assoluto sarebbe stata la delusione che si sarebbe stampata sul viso di lui, che si era impegnato con tutto se stesso, sopportando tutta la stanchezza provata sulla propria pelle.

Ivar era seduto sul ceppo del loro campo d’addestramento, in quel momento deserto, con Hylde accovacciata davanti a lui per costringerlo a guardarla negli occhi, mentre lo spronava a provarci ancora una volta: «Ormai sei pronto, puoi farcela.». Capiva benissimo il suo stato d’animo, ma non gli avrebbe mai permesso di mollare, arrivati fino a quel punto: lo conosceva e sapeva che le sarebbe stato grato di questo, una volta terminato quell’ennesimo, difficile movimento.

«Ci sto provando, Hylde.», rispose seccamente lui, con la paura celata da una rabbia nervosa. Era vicino al perdere la pazienza, ma solo perché il timore di non farcela stava prendendo il sopravvento.

Hylde aveva imparato a non dar peso a quei sentimenti tutt’altro che costruttivi. Se lui non ci fosse riuscito, sarebbe stata lei a farsi carico di tenere alto lo spirito, di mantenere un atteggiamento positivo. All’improvviso si alzò e tese le braccia davanti al ragazzo: «Ancora una volta! Vieni da me!». Cercò di trasmettergli tutta la serenità di cui fosse capace, regalandogli sorrisi che lo calmassero.

Come prima reazione, Ivar le rivolse uno sguardo esausto, ma non riuscì a resistere con quell’atteggiamento e si rilassò. Non aveva intenzione di deluderla, si stava impegnando al massimo per aiutarlo e far sì che tutto andasse per il verso giusto, uno stato d’animo negativo non avrebbe giovato a nessuno. Si concentrò e fece forza con le gambe, aiutandosi molto coi muscoli delle braccia e del busto.

La ragazza iniziò ad agitarsi, esplodendo in una gioia contagiosa, mentre si avvicinava a lui, per sostenerlo con fermezza per alcuni secondi e poi per dargli una mano a tornare seduto sul tronco. Ce l’aveva fatta, si era alzato in piedi per la prima volta! Anche se per poco tempo, le sue gambe avevano retto il suo peso, si erano fortificate a tal punto, facendo capir loro che avrebbero potuto continuare su quel percorso. Era l’incentivo di cui sentivano il bisogno per poter proseguire con rinnovata speranza.

Per un istante, Ivar rimase fermo, incredulo. Guardava dritto davanti a sé, cercando di regolarizzare il respiro accelerato per lo sforzo fisico e per le forti emozioni. Gli occhi chiari risplendevano di luce propria, tradendo quel profondo senso di felicità che iniziava a delinearsi sul suo viso.

Decidendo di concedergli un momento, Hylde si sedette sulla nuda terra, vicina alle gambe di lui, e le venne naturale accarezzargli dolcemente la coscia con fare rassicurante, partecipando in silenzio all’intensa commozione del ragazzo. Versò lei le lacrime che Ivar tentava in ogni modo di combattere, scesero limpide lungo il suo volto, rendendo palese quanto fosse contenta.

«Sei stato fantastico.», gli sussurrò teneramente, catturando l’attenzione di Ivar, che ricambiò con un accenno di sorriso. Gli prese una mano, stringendola fra le sue: «Questa è la prova che siamo sulla strada giusta.».

Si scambiarono uno sguardo che era il ritratto della gioia più pura e il tempo si fermò. Non ci fu più alcun rumore, come se ogni forma di vita sulla Terra fosse scomparsa, come se i torrenti avessero smesso di scorrere ed il vento di soffiare tra gli alberi in procinto di riempirsi di numerose foglie verdi.

Ivar si voltò completamente verso di lei, le circondò il viso con le mani ed unì le proprie labbra alle sue.

Questa volta, Hylde non ebbe alcun dubbio a frenarla, rispose subito a quel bacio così atteso. Lo aveva sognato dalla prima volta in cui si erano scambiati delle parole, da quando quel ragazzo dallo sguardo così furbo le si era presentato davanti prendendola in giro per i suoi “abiti strani”. L’aveva fatta ridere, facendole dimenticare la paura e, col giusto tempo, l’aveva fatta sentire a casa.

Si baciarono con un’urgenza bruciante, tale da rivelare quanto entrambi lo volessero, unendo le lingue, esplorandosi. S’inebriarono delle loro rispettive anime finalmente unite e dei loro corpi che si stringeva senza lasciarsi andare, compiacendosi di quei tocchi tanto desiderati. Non percepivano il clima mite di quella primavera ancora acerba, attorno a loro, dentro di loro, c’era fuoco vivo e nient’altro.

Nel frattempo, Ivar aiutò Hylde ad alzarsi e mettersi a cavalcioni su di lui, stringendola a sé con impeto, come se cercasse di recuperare in pochi istanti tutto il tempo perso, tutto il tempo non passato insieme a lei.

Quando si divisero per riprender fiato, Hylde si prese un momento per guardare il ragazzo e pensò a quanto fosse perfetto, quel ghigno sarcastico e maledettamente astuto le fece accelerare il battito cardiaco, già messo a dura prova da quella miscela di sensazioni provate tutte in una volta.

«Cosa c’è?», le chiese Ivar con dolcezza inedita, accarezzandole piano la schiena coperta dai morbidi vestiti.

Lei giocò con l’accenno di barba che ricopriva le guance del ragazzo ed inspirò profondamente, mentre gli confessava, travolta da una certa consapevolezza: «Ho attraversato i secoli per trovarti. Sei tu, sei sempre stato tu.». Lo guardò con grande intensità, voleva imprimere nella sua mente tutte le gradazioni di blu nascoste in quegli occhi bellissimi, dal taglio leggermente incurvato verso il basso, che gli conferiva una perenne aria malinconica.

Giocando con qualche ciocca disordinata della ragazza, Ivar ricambiò quello sguardo, più esplicito di qualsiasi parola mai creata dal genere umano. Le si avvicinò, come per tornare a baciarla, ma prima di farlo le rivelò, con un tono alquanto triste: «Sento di non meritarti...». Subito Hylde cercò di smentirlo, però lui continuò: «Gli dei mi hanno portato da te, il tesoro più bello e prezioso con cui potessero omaggiarmi... E non so spiegarmi il motivo di tale dono, ma farò di tutto per celebrare questo onore, per proteggerti. Essere degno di te.». Le parlava con un amore tale da fargli brillare gli occhi.

Nessuno le aveva mai parlato così, non si era mai sentita tanto importante per qualcuno. La ragazza respinse le lacrime, che combattevano disperatamente per poter uscire e ricoprirle di nuovo il volto. Annuì, replicando: «Io e te siamo già degni di noi, solo per il fatto che siamo qui. Insieme.». Gli passò la mano tra i capelli, sistemandoglieli con cura, con fare amorevole.

Per tutto il corso della sua vita, Hylde non si dimenticò mai del sorriso che spuntò sul viso di Ivar in quell’esatto momento. Anche lui provò quella meravigliosa sensazione di sentirsi a casa, al sicuro. Era certo che, se gli fosse successo qualcosa, avrebbe sempre trovato un rifugio accogliente tra le braccia di Hylde, dove nulla avrebbe potuto scalfirlo.

Fece per baciarla di nuovo, preso da una passione irrefrenabile, tipica degli amori appena nati, ma non prima di averla stuzzicata un po’, fingendo il proprio rammarico: «Spezzerò il cuore delle mie molteplici ammiratrici...».

Invece di rispondere al bacio, Hylde lo colpì sulla spalla in risposta a quella provocazione, suscitandogli una risata roca, che però si trasformò in un chiaro verso di disappunto quando la vide alzarsi.

Ignorando completamente le lamentele del ragazzo, lei tese di nuovo le braccia in sua direzione e lo sfidò: «Se ti alzi di nuovo, potrai avere il tuo bacio.».

Ivar sbuffò: «Modo sleale per vendicarsi di una battuta innocente.».

Di rimando, Hylde ridacchiò di gusto nel vederlo così falsamente affranto da quel rifiuto e così gli rispose: «Più azioni, meno chiacchiere.». Quella frase fu seguita da ulteriori sbuffi di Ivar, che però stavolta fu molto più motivato ad alzarsi.




--- Note dell'Autrice ---

Ciao a tutti!
Grazie mille per essere arrivati fino a qui con la lettura!

Lo so, il capitolo di oggi è decisamente più corto rispetto a quelli che scrivo di solito... Il fatto è che, secondo me, gli eventi che accadono sono talmente importanti che non me la sono sentita di "inquinarli" con altre situazioni.

Tenete duro, manca pochissimo alla conclusione del primo arco narrativo, la partenza per il regno dei Sassoni è alle porte... E, fidatevi, non starete tranquilli neanche per un secondo (eheh :D).

Ancora grazie infinitamente, spero di leggere le vostre opinioni nelle recensioni, ci terrei moltissimo!

Un Abbraccio infinito,
Laisa_War

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Il tempo volò via in un impercettibile battito di ciglia e la stagione calda arrivò prima che Hylde ed Ivar potessero rendersene conto. Le temperature si fecero più clementi e le giornate di sole si palesarono più frequentemente, portando i colori della primavera in quel territorio selvaggio. Le ampie vallate si tinsero di verde grazie ai prati rigogliosi, riempitisi di fiori profumati, e i piccoli corsi d’acqua delle alte montagne, prima ricoperti in superficie da uno spesso strato di ghiaccio, erano tornati a scorrere a pieno ritmo, ricchi di trote, lucci e tantissimi altri pesci d’acqua dolce. Gli animali selvatici tornarono a popolare le foreste coi loro numerosi branchi. I raccolti dei contadini di Kattegat dettero i loro frutti e le condizioni di vita si fecero per tutti più sostenibili.

Si respirava aria di cambiamento in città, accesa da una certa frenesia, mancando ormai solo una settimana alla partenza. Tutti i cittadini lavoravano febbrilmente per prepararsi al meglio per l’inizio di quella spedizione tanto attesa, così voluta per mesi e mesi.

In casa, Hylde percepiva l’entusiasmo di Floki e Brandr, desiderosi di far giustizia contro quei Sassoni che li avevano privati del loro sovrano e amico, coi quali sentivano di aver nulla in comune. Helga, invece, era di spirito più cauto, poiché conosceva perfettamente quali pericoli comportassero spedizioni come quella. Era preoccupata e faticava a nasconderlo, pur tentando di esser partecipe dello spirito generale della famiglia. La sua paura non l’avrebbe mai fatta allontanare dal proposito di rimanere al fianco delle persone a lei più care, avrebbe seguito Floki e Brandr ovunque.

I fratelli Lothbrok erano pervasi dall’adrenalina, che cresceva di pari passo con l’avvicinarsi del giorno in cui le navi avrebbero lasciato finalmente la baia di Kattegat. Erano come intrisi dalla sete di sangue e di vendetta, morivano dalla voglia di far crollare sulle teste dei Sassoni tutta la loro furia vichinga, di non lasciar loro alcuno scampo, esattamente come loro avevano fatto con Ragnar, torturato e lasciato marcire in una fossa piena di serpenti. I porcellini erano pronti a vendicare col sangue le sofferenze del vecchio cinghiale.

Pur cominciando ad essere partecipe dello spirito vichingo, essendoci ormai completamente immersa da mesi, Hylde manteneva ancora una solida parte di sé ben ancorata al modo di pensare moderno e non era facile portare avanti la propria vita avvolta in quella dualità: da una parte, iniziò a provare divertimento, talvolta anche gioia, durante i combattimenti, scontrarsi con Ivar, Brandr e gli altri le faceva provare proprio quell’esaltazione che in quei giorni manteneva energica la maggior parte della popolazione di Kattegat. Tornare a casa di sera, stremata dal lavoro di guaritrice e dall’addestramento, la faceva sentire viva, più di quanto lo fosse stata negli anni precedenti.

Dall’altra parte, invece, non riusciva a comprendere fino in fondo la frenesia incontrollata nel voler far giustizia attraverso la violenza, attraverso la guerra. Non era stata presa in considerazione la via diplomatica, nonostante quella società ne fosse intrisa: Kattegat aveva fatto parecchi accordi per dare vita a quell’immensa armata, perfino con personaggi dalla dubbia affidabilità, come Harald Bellachioma.

Hylde dovette arrendersi all’evidenza, e cioè che quel mondo non si fondava sui principi a cui era stata abituata per tutta la sua esistenza, non le sembrava neanche giusto volerli per forza applicare a quell’epoca così diversa, nonostante le venisse naturale, certe volte. Era un mondo crudo, fatto anche di brutalità, conflitti, discordie. Prima o poi, avrebbe dovuto compiere quel salto che ancora non si sentiva pronta a compiere, per sopravvivere avrebbe fatto bene ad adattarsi a quella cultura che, per quanto l’amasse, sentiva ancora lontana.


A giudicare dal sole alto, doveva quasi essere mezzogiorno quando tutti i cittadini liberi di Kattegat e le personalità più importanti delle delegazioni straniere furono fatti radunare nella grande piazza davanti alla longhouse della regina, in attesa di assistere all’adunanza indetta da Bjorn in persona.

Hylde, Brandr, Ivar e gli altri fratelli Lothbrok aspettavano con trepidazione l’inizio di quell’affollata riunione, circondati da guerrieri e amici. C’erano anche parecchi bambini e ragazzini, figli di alcuni conoscenti ed altre shieldmaidens, costretti dai genitori a partecipare ed attendere insieme a loro. Hylde li distoglieva dallo snervante scorrere del tempo raccontando loro favole fantasiose su “misteriose scatole di metallo capaci di volare e trasportare gli uomini da una parte all’altra del mondo, in pochissimo tempo”, scatenando le risate di tutti, che si complimentavano con lei per la creatività. Tutto questo fece ridere sinceramente Hylde, immaginando quanto sarebbe stato esilarante vedere Ivar, Floki , o Brandr su un aereo.

All’improvviso, dalla longhouse uscirono Bjorn e la regina Lagertha, pronti a tenere un grande discorso. Hylde e gli altri raggiunsero Floki ed Helga in testa alla folla, a pochi piedi dalla regina e dal più anziano dei fratelli, talmente vicini che a lei sembrò di essere la loro diretta interlocutrice.

«Popolo di Kattegat e fedeli alleati...», iniziò Bjorn con tono autorevole, da vero comandante, con la fierezza ereditata dalla madre, la quale si ergeva al suo fianco con l’orgoglio degno della guerriera che era.

«Tra pochi giorni a quest’ora staremo solcando le acque del nostro mare in direzione del regno di Northumbria.». Camminava lentamente da destra a sinistra, cadenzando i passi, facendo ricadere lo sguardo da una persona all’altra, come se parlasse personalmente ad ogni donna o uomo presente.

«So che sarà un grande sacrificio per tutti noi, non sarà facile e ci scontreremo con un nemico contro il quale combattiamo da tanto tempo...». Respirava quasi affannosamente, come se tentasse di reprimere tutta la propria rabbia e risentimento.

«...Ma se il piano avrà successo, ci saremo vendicati di chi ci ha depredati del nostro re e delle terre che ci erano state promesse!». Urlò quelle parole con una furia travolgente, che scatenò l’euforia di chiunque lo stesse ascoltando. La sua voce profonda fece tremare il terreno, il suo carisma trasmetteva una sicurezza che Hylde invidiava molto.

«Siamo vichinghi e con la nostra Grande Armata ci vendicheremo col sangue dei Sassoni!». Bjorn si batté il pugno sul petto, gesto di grande potenza, che venne ripetuto da tutti, scandito da urla di assenso e gioia immensa.

Bjorn sorrideva e annuiva soddisfatto, senza arrestare i propri passi, ma dovette metter fine a quei cori estatici per aggiungere ancora qualcosa: «Insieme potremo farcela, ogni sforzo comune ci avvicinerà alla nostra vendetta, riusciremo a fare giustizia!». Concluse il discorso tra ulteriori urla di consenso, anche da parte dei vichinghi stranieri e dei loro sovrani, che lo guardavano con grande ammirazione. Dopodiché fece spazio alla madre, intenzionata a prendere la parola.

Lagertha si avvicinò alla folla ancora in visibilio, che si zittì immediatamente in un reverenziale silenzio, pronta ad ascoltare quella regina piena di fiero orgoglio: «Come regina, sono grata a tutti coloro che hanno deciso di far parte della Grande Armata, sia che facciate parte della città, sia che siate giunti da terre lontane. Io e le mie shieldmaidens rimarremo qui, a presidiare i confini di Kattegat, che amo e che ho giurato di proteggere quando l’ho riconquistata.». Per un secondo, il suo sguardo soddisfatto si posò su Ivar, il quale ricambiò con un’occhiata furente, mentre stringeva i pugni, per frenare quella rabbia che sembrava capace di ustionargli il petto.

Lagertha continuò come se nulla fosse: «A tutti noi servirà il favore degli dei, ed è per questo che organizzerò e celebrerò io stessa un grande sacrificio, che avrà luogo la notte prima della partenza.». Sul suo viso si disegnò un sorriso compiaciuto, quando la città ruggì di entusiasmo, e per nessuna ragione avrebbe spezzato quell’ondata di positività.

Dovette alzare la voce per sovrastare quell’incredibile baccano: «Partecipate, godetevi quella notte come se fosse l’ultima, inebriatevi della vicinanza dei nostri dei. Ci guideranno attraverso i tempi duri che ci attendono!».

La folla si disperse poco dopo quelle ultime parole, incendiata dal fervore più puro, tornando al lavoro con una forza rinvigorita dal sostegno della regina, del comandante e degli dei stessi.

Hylde ed Ivar seguirono gli altri e fecero per tornare alle proprie occupazioni, rimanendo però leggermente staccati dal resto del gruppo, intenti a scambiarsi in tutta tranquillità qualche sguardo complice, per promettersi d’incontrarsi verso sera e di passare così qualche ora insieme.

Ivar si trascinava a terra vicino a lei, tenendo il passo nonostante non potesse ancora camminare, e le rivolse un sorriso malizioso, dopo averle osservato e commentato il sedere, che dalla sua prospettiva riusciva ad ammirare molto chiaramente. Adorava provocare Hylde per vedere le sue reazioni, che passavano da un’iniziale punta d’imbarazzo alla piena complicità, cosa che la induceva a rispondere con lo stesso grado di malizia ed ironia. Infatti, la giovane allungò i propri passi ed ancheggiò di proposito, replicando: «Invidioso, eh?».

Il ragazzo scoppiò a ridere dalla stupidità di quel dialogo, ma dovette ammettere che fosse una bella distrazione alla mole di fatica che l’attendevano. Guardò Hylde con sincera tenerezza, non capacitandosi del perché una persona come lei potesse amarlo a sua volta, ma gliene fu grato con tutto se stesso.

Prima di avere la possibilità di dirsi altro, l’attenzione di Hylde fu richiamata da Bjorn, il quale li raggiunse per chiedere proprio a lei di seguirlo nella longhouse, per un colloquio privato con lui e Lagertha. Aveva un tono autoritario, che non avrebbe ammesso un rifiuto da parte della ragazza, la quale lanciò un’occhiata interrogativa ad Ivar, ancor più confuso di lei.

Entrando nell’accogliente edificio, fu accolta dalla regina e da Munin, che l’aspettavano sedute attorno al grosso tavolo centrale. Prese posto di fronte a loro e accanto a lei si sedette Bjorn, serio come sempre, completamente immerso nel suo ruolo di comandante.

Una giovanissima serva riempì i loro bicchieri con del vino rosso scuro, che Hylde assaggiò per educazione, pur non avendone particolarmente voglia. Aspettava con ansia che qualcuno parlasse, non era mai stata sola di fronte alle persone più importanti di Kattegat, anche se la presenza di Munin le trasmetteva una certa rassicurazione.

«Munin ci ha tessuto le tue lodi.», esordì Lagertha per metterla a suo agio, nessuno avrebbe mai potuto ignorare l’evidente tensione provata dalla ragazza. «So anche che moltissimi in città apprezzano il tuo operato come guaritrice e che gli altri curatori sono sempre alquanto felici di lavorare con te. Si fidano e ti affiderebbero la loro stessa vita.», continuò lei, le cui parole venivano supportate dall’annuire bonario dell’anziana seduta al suo fianco.

Hylde arrossì con vistoso imbarazzo nell’essere elogiata così esplicitamente dalla regina, che mai si era esposta in maniera tanto positiva nei suoi confronti, senza l’intermediazione di Floki. Per lei fu un vero e proprio onore, poiché per Lagertha provava un profondo senso di rispetto, pur partecipando al dolore di Ivar, pur essendo consapevole di come avesse ripreso possesso della città. Ammirava la sua risolutezza, il suo modo di favorire le donne, spronandole a ricercare la loro strada in un mondo che le vedeva (e che le avrebbe viste ancora per molto tempo) soprattutto come curatrici del focolare domestico. Certo, era un femminismo imperfetto, ben lontano dalla sua concezione moderna, ma rappresentava un bell’inizio.

Prese la parola Bjorn: «Hai mai partecipato ad una spedizione, Hylde? Sei mai stata in guerra?».

La ragazza lo guardò, ancor più dubbiosa di prima, e scosse il capo: «No, mai.».

Il comandante annuì, spiegandole: «Di solito, prima di attuare qualsiasi attacco, costruiamo un accampamento, in cui viene allestita una zona di cura per eventuali feriti, capisci?».

«Certo.», rispose Hylde prontamente, cercando di non dar peso allo sguardo indagatore di Lagertha, che non si perdeva una singola espressione della giovane.

«Avremmo chiesto a Munin di dirigere quella zona...», riprese a parlare Bjorn, «... ma ci ha riferito di non essere incline alla partenza, il viaggio e la tensione sarebbero troppo difficili da sopportare, alla sua età.».

Hylde spostò lo sguardo verso la sua mentore, che come al solito non era di molte parole, ma che si sbrigò subito a ricambiare con un rincuorante sorriso, facendole capire che era tutto vero, che era stata lei a decidere così.

Bjorn, mantenendo la sua autorevolezza, concluse: «Per questo, ci ha consigliato di affidarla a te.».

Lo sguardo di Hylde iniziò a balzare da Munin, a Lagertha, tornando poi su Bjorn, a ripetizione.

Comprendendo quella reazione più di quanto volesse ammettere, Lagertha la rassicurò con voce calma: «Munin ti aiuterà ad organizzare il carico dei materiali da portare sulle navi. Provvederemo a procurarti tutto ciò che ti serve.». Munin confermò la sua disponibilità ad aiutarla per tutto il tempo prima della partenza, parlando con quella sua caratteristica voce roca.

Intervenne Bjorn: «Non ti avrei mai designato per questo ruolo se non fossi assolutamente sicuro della mia scelta. Ho visto come hai curato mio figlio, come hai rimesso in sesto i miei guerrieri durante l’inverno. So per certo che si sentirebbero al sicuro, sapendoti a capo dell’ospedale da campo.». Hylde non aveva mai visto Bjorn così umano, senza quel perenne filtro di autorevolezza a renderlo freddo e distaccato, forse pensava davvero ciò che aveva detto.

La ragazza si fece convincere, anche perché sentiva di non avere troppe possibilità di rifiutarsi: «Accetto. Sarebbe un onore per me.». Si sentiva già persa, schiacciata dal peso di quella responsabilità più grande di lei. Cercò però di non darlo a vedere, davanti a loro, e come al solito mostrò una sicurezza che non le apparteneva. Si trattava di un compito che andava ben aldilà delle sue aspettative.

Prima che le permettessero di congedarsi e raggiungere Munin, che la precedette recandosi già da quel momento alla piccola bottega in cui i guaritori conservavano gli intrugli medici e vari ingredienti curativi, fu bloccata da Lagertha, intenzionata a parlarle in privato. La prese da parte, guidandola lontano da orecchie indiscrete.

Si rivolse a lei con tono calmo, con una sfumatura differente rispetto a poco prima, come se parlasse ad una figlia, come se Hylde facesse parte della sua famiglia: «Ho sentito di te ed Ivar.».

La giovane annuì con naturalezza, anche se non avevano ufficializzato la loro relazione pubblicamente. Non perché ci fosse qualcosa di male, semplicemente non c’era motivo di farlo, c’erano così tante cose di cui preoccuparsi in quel periodo che, per loro, non era necessario mettere i manifesti. In fondo, avevano sperato che quell’amore potesse rimanere ancora un po’ solo per loro, come un piccolo segreto da tenere al sicuro. Non dovevano dimostrare niente a nessuno.

«Lui ha molti lati oscuri difficili da gestire...Ho paura che ti trascini con sé, in quell’oscurità.», continuò Lagertha, prendendosi una confidenza che Hylde trovò sia lusinghiera, sia fuori luogo.

La ragazza incrociò le braccia sul petto, mettendosi sulla difensiva ed assumendo un’espressione corrucciata, non riusciva a capire dove la regina volesse andare a parare con quel discorso.

«Sai, a volte le donne forti come noi non possono fare altro che prendere atto delle azioni dei loro uomini, a cui viene data tutta l’attenzione.». Lagertha fece una pausa densa di significati non detti, era fisicamente lì, ma col pensiero sembrava lontana anni luce, immersa in ricordi che pian piano stavano riaffiorando. «Li inseguiremmo fino in capo al mondo, seguendo i loro sogni che siamo convinte siano anche nostri... Per poi rimanere da sole, senza più uno scopo, derubate di ciò che ci rendeva felici.», proseguì la regina con aria malinconica, cosa che a Hylde fece uno strano effetto di sorpresa, mai le era capitato di sentirla parlare in modo così intimo, chiaramente riferendosi a qualche importante evento della sua vita.

«Con tutto il rispetto, mia regina, posso comprendere i vostri dubbi nei confronti di Ivar. Sono a conoscenza dei vostri trascorsi e del perché tra di voi non scorra buon sangue...». Hylde fece una pausa, calibrando bene le parole, per non superare un certo limite di fronte a colei che rimaneva sempre la sovrana della città: «Detto questo, vi ringrazio della vostra preoccupazione e per l’opinione benevola che avete di me. Forse non sarò la persona più sicura di questo mondo, ma se c’è una qualcosa a cui ho giurato di tener fede sempre sono i miei ideali, le mie vocazioni ed il mio orgoglio. Nessuno, nemmeno Ivar, potrà portarmeli via.». Aveva stretto i pugni, cercando di mantenersi calma parlando di un argomento che l’aveva oltremodo agitata.

Lagertha annuì con serietà, prendendo atto del punto di vista della giovane ragazza davanti a lei: «Spero con sincerità che tutto questo non sia un errore, ma ho fede nelle tue parole, Hylde.». Fece per allontanarsi, ma rimase ad ascoltare Hylde.

«Sapete, mia madre è stata abbandonata da mio padre, suo marito, quando più era vulnerabile. So di essere ancora molto fragile, ma per fortuna ho qualche consapevolezza in più e so per certo che non capiterà a me, sarò io ad allontanarmi da qualsiasi cosa capace di ferirmi.», rivolse una sguardo pieno di forza alla regina, che parve convinta da quel discorso, ma anche abbastanza scossa da come Hylde si fosse concessa di rivelare alcuni dettagli del suo passato.

Allontanatasi dalla longhouse, la ragazza poté finalmente raggiungere Munin, che parve molto orgogliosa di aiutarla a realizzare un inventario di tutto l’occorrente adatto all’allestimento di un ospedale da campo e a stilare una lista di precise disposizioni da consegnare a chi si sarebbe occupato del riempimento delle stive delle navi. Lavorarono duramente affinché tutto risultasse perfettamente organizzato.



--- Note Dell'Autrice ---

Ciao a tutti! Grazie infinitamente per essere arrivati fino a qui!

A meno che non mi prendano colpi di testa improvvisi, questo era il penultimo capitolo prima della partenza per l'Inghilterra. Manca pochissimo alla fine del primo arco narrativo e per ora godiamoci gli ultimi attimi che i nostri protagonisti passeranno a Kattegat. Chissà quando e se ritorneranno...

Se la storia vi sta piacendo o se avete delle critiche costruttive da fare, lasciate una recensione, fatemi capire cosa ne pensiate!

Un Abbraccio gigantesco,
Laisa_War

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Parte 1 ***


--- Note dell'Autrice ---

Ciao a tutti! Come state?

Oggi si inizia con le note di me medesima (eheh), perchè ho bisogno di fare una piccola premessa: mi è stato fatto notare quanto la mia storia possa dare di più, quanto possa essere arricchita e quanto spazio possa essere riservato all'interazione tra i vari personaggi.
Io mi sono trovata estremamente d'accordo con queste critiche super costruttive, perchè amo scrivere e questo racconto mi sta letteralmente salvando... Quindi è per questo che da oggi ci saranno capitoli più lunghi, più articolati e (spero) migliori.

Fatemi sapere se vi piace questo cambio di registro. Continuate a mandarmi i vostri feedback, lasciate una recensione, perchè sono fondamentali.
Menzione particolare per Kurapika95, che con la sua fantastica recensione ha contribuito ad aprirmi gli occhi... Grazie davvero!

Ed ora vi lascio alla prima parte del Capitolo 13, l'ultimo prima della fatidica partenza!

Un Abbraccione,
Laisa_War




 
Capitolo 13 - Parte 1


 
Quello stesso giorno, il tramonto si manifestò con magnifica teatralità, riempiendo l’orizzonte di colori meravigliosi, riflessi nel pacifico specchio d’acqua che era il mare. Il cielo variopinto veniva solcato dai gabbiani in volo, che approfittavano della fresca brezza dall’odore di salsedine.

Hylde, che osservava quello spettacolo da quello che era diventato il “suo” promontorio, stremata da quella giornata così ricca di novità, si strinse nel suo mantello color terra, quando il leggero venticello le colpì il viso, provocandole dei brividi. Con la bella stagione, aveva iniziato ad indossare dei vestiti più leggeri, abbandonando la lana in favore del più delicato lino, che le permetteva di lavorare meglio, senza farle soffrire troppo il calore. Imparò sulla propria pelle quanto fosse preferibile portare sempre un mantello sulle spalle, a causa dei venti freddi del nord, che di certo non avrebbero smesso di soffiare col sopraggiungere dell’estate, e a causa delle frequenti piogge, che si alternavano a ritmo forsennato con le meravigliose giornate di sole.

Non aveva mai imparato a cucirsi gli abiti da sola, di questo si occupava Helga, che era il vero fulcro di quella famiglia così calorosa, il cuore pulsante di quel nucleo familiare. Senza di lei, che si occupava davvero di tutto, probabilmente, se ne sarebbero andati tutti alla deriva.

Non solo Helga, ma anche Floki e Brandr avevano fatto del loro meglio per far sentire Hylde parte integrante della famiglia, con tante piccole attenzioni che inizialmente l’avevano messa in imbarazzo, non essendo molto abituata a quel tipo di serenità domestica e a quell’affetto disinteressato. Le dimostravano ogni giorno la loro profonda lealtà, come quella volta in cui Floki era tornato a casa con le nocche delle mani ferite, per aver fatto a pugni con un vecchio, viscido timoniere che lavorava con lui ad una nave, dopo che costui, insieme ad altri lupi di mare, si era azzardato a sputare commenti osceni riferiti proprio a Hylde, che non passava certo inosservata, con la sua chioma dello stesso colore del fuoco vivo. Sì, Floki, che era il primo ad ignorare le dicerie della gente, il primo a consigliarle: «Non lasciarti influenzare da ciò che dicono.».

In quell’occasione, persino la calma e diplomatica Helga si era schierata dalla parte del marito, nonostante Hylde si sentisse più che mai in colpa. «Nessuno può infangare così l’onore dei membri della nostra famiglia.», aveva detto la donna, mentre tamponava via il sangue dalle mani di Floki. E, come al solito, Brandr aveva reagito con la sua sobrissima moderazione vichinga, sfoderando i muscoli ben torniti del braccio ed esclamando: «Dimmi chi è, e domani gli do il resto.».

Col tempo, le cose si erano stabilizzate, ormai Floki ed Helga consideravano Hylde come una vera e propria figlia. Invece con Brandr, non c’era neanche bisogno di dirlo, si era creato un rapporto talmente stretto di sorellanza che, forse, avrebbero potuto davvero condividere il patrimonio genetico.

Anche per Hylde stessa si era consolidato il suo essere parte della famiglia, insieme a loro si sentiva al sicuro, grazie a loro aveva ritrovato quel senso di accoglienza e protezione perso alla morte della madre. Sensazioni che le provocavano una bella serenità: sapere di importare a qualcuno, far parte di un nucleo familiare vero era quello che aveva ricercato negli ultimi anni, quasi senza saperlo, sebbene il suo carattere insicuro la portasse spesso a sentirsi in dovere di dimostrare la sua gratitudine a tutti loro, di provare d’esser degna del loro affetto.

Nonostante il freddo, Hylde non si mosse da quel tronco su cui era seduta, posizionato da Floki sul promontorio vicino a casa, quando aveva capito che per lei fosse un luogo catartico, in un gesto d’affetto paterno. Era il posto più tranquillo in assoluto, secondo lei, che aveva l’abitudine di ritirarsi lì in completa solitudine, per riflettere e riordinare le idee, cercando di assimilare tutti gli eventi che accadevano nella sua vita, specie quelli che le provocavano ansia, o paura.

Era così immersa nei propri pensieri che non si accorse minimamente dell’arrivo di Ivar, a bordo della sua biga, tant’è che sobbalzò quando lui constatò: «Sapevo che ti avrei trovata qui.». Aveva la voce calma e non troppo alta, come se percepisse inconsciamente la sacralità di quel luogo così silenzioso.

In quei mesi, il fisico di Ivar si era plasmato molto, in preparazione della battaglie che avrebbe dovuto affrontare in territorio straniero. Il torso si era scolpito, rivelando dei muscoli tonici molto piacevoli alla vista, secondo Hylde, che si era ovviamente accorta del suo cambiamento. Il petto, gli addominali, le spalle erano tutte parti del corpo che erano cresciute di volume, dopo aver intensificato gli allenamenti fisici, e ciò gli aveva conferito molta più forza e resistenza, due elementi fondamentali per la sopravvivenza. Era inoltre migliorato nell’agilità, in tutto ciò che lo rendeva un vero guerriero, al pari dei suoi fratelli.

Anche le sue gambe iniziavano pian piano a trasformarsi, per sua grande gioia, grazie ai movimenti che Hylde gli aveva insegnato per sollecitare i muscoli ancora in gran parte atrofizzati. Era però consapevole che fosse solo l’inizio, poiché quei cambiamenti erano minimi: provava ancora ribrezzo per quelle gambe che odiava, che non mostrava a nessuno, soprattutto a Hylde, con la quale evitava di proposito ogni tipo di situazione che avrebbe potenzialmente portato ad un reale approccio fisico. Lei non si era mai lamentata di questo, forse intuendo quel suo disagio, quella vergogna mortificante che lo inseguiva ovunque andasse, unita alla paura di non essere in grado di soddisfare a dovere la propria donna. Ivar però sapeva quanto fosse frustrante per lei, perché lui stesso provava i medesimi sentimenti, soffrendone in egual modo: bruciava per lei, la desiderava ogni giorno di più. Ormai ogni bacio, ogni carezza lo portavano a pensare a quanto avrebbe voluto farla sua, nel fervore tipico della loro giovane età.

Dopo aver preso posto accanto a lei, la quale non fece una piega, essendo tornata a guardare fisso nel vuoto, Ivar le passò un braccio attorno alle spalle, avvolgendola completamente. «Bjorn mi ha detto del compito che ti ha affidato. Sono orgoglioso di te, per avere accettato.», esordì lui, rompendo quel pesante silenzio con fare impacciato.

Hylde diede un segno di vita scuotendo la testa, appoggiata comodamente contro il solido petto del ragazzo, che manteneva lo sguardo su di lei, per comprendere cosa le passasse per la mente.

«Non sono adatta per quel ruolo, Ivar. Lo so io, lo sai tu, lo sanno tutti.», replicò Hylde con tono flebile, lasciando trapelare tutta la fragilità che la caratterizzava in quell’istante. Si sentiva insicura, caricata di un peso troppo ingombrante. Per quanto potesse dimostrare di essere forte e determinata in alcune occasioni, nella sua testa continuava ad aleggiare quella vocina che le remava sempre contro, esponendo quel lato della sua personalità che la rendeva una ragazza dalla scarsa fiducia in se stessa. Non sempre aveva la lucidità adatta a vedere il proprio potenziale, e Ivar lo sapeva bene.

Il giovane l’abbracciò forte e le diede un piccolo bacio vicino alla tempia, parlandole con delicatezza: «Non è affatto vero.». Si spostò leggermente e le prese il viso tra le mani, per indurla a guardarlo negli occhi: «Penso che nessuno sia più adatto di te per dirigere quell’ospedale da campo. E non sono l’unico ad esserne convinto.».

A Hylde venne naturale contraddirlo, ma lui non volle sentire ragione, non le avrebbe mai permesso di continuare a sottovalutarsi in quel modo, così la sovrastò con la voce: «Munin stessa ti ha scelta! Bjorn e gli uomini dell’esercito si fidano di te ciecamente. Hai insegnato ai guaritori più anziani cose che mai avrebbero appreso senza il tuo aiuto.». Perché non amava se stessa almeno la metà di quanto l’amasse lui?

Dagli occhi limpidi della ragazza, che mai si sarebbe sognata di distogliere lo sguardo dal volto perfetto di Ivar, iniziarono a scendere delle lacrime. La cosa lo sconvolse, temeva di averla ferita alzando la voce e di aver peggiorato la situazione, ma, con sua grande sorpresa, lei lo abbracciò a sua volta,buttandogli le braccia al collo con tanto trasporto che quasi caddero entrambi dal tronco.

Lo strinse forte a sé e gli parlò all’orecchio con voce rotta: «Sono lusingata di esser stata scelta per questa responsabilità...». Prese un bel respiro, ricacciando indietro altre numerose lacrime: «...ma la paura mi sta divorando. Ho paura che tra i feriti da soccorrere, un giorno, ci siate tu, o Brandr, o Floki...». Quel pensiero così vivido nella sua mente l’agitò ancora di più ed iniziò a singhiozzare. Ad Ivar si spezzò il cuore nel vederla così spaventata e si odiò per non poter fare nulla di materiale, di tangibile, per farla stare meglio.

Le accarezzò la schiena, tenendola stretta a sé per trasmetterle tutto il senso di sicurezza di cui fosse capace, e decise di essere del tutto sincero con lei: «Anch’io ho paura di perderti, di non riuscire a farcela.». Un sorriso spontaneo gli illuminò il volto, parzialmente nascosto dalla folta chioma rossa di Hylde, e ciò gli permetteva di godersi il buon profumo di lei. Aggiunse: «L’unica cosa che al momento mi fa stare bene è sapere che saremo insieme, e che gli dei ci sosterranno esattamente come quando ci hanno fatti incontrare.».

Hylde, che continuava a rimanere ben ancorata al collo di Ivar, non poté reprimere un sorriso, prova lampante di quanto le parole dolci del ragazzo l’avessero rassicurata. Ciò che più la fece rallegrare fu avere l’assoluta certezza che tutto il discorso di Ivar fosse davvero sincero: lui non era il tipo da ammettere a cuor leggero di avere paura e, probabilmente, di fronte ad altre persone lo avrebbe addirittura negato. Non stava mentendo per farla stare meglio e gliene fu immensamente grata.

«Una giovane saggia, una volta, mi ha detto di non farmi sopraffare dalle emozioni negative, perché questo non mi porterà alcun beneficio. Non puoi controllare l’ignoto, ma quello che puoi fare è continuare a combattere proprio come fai qui ogni giorno, con le persone che hanno bisogno di aiuto.», concluse Ivar con una certa risolutezza, prima che Hylde tornasse a guardarlo con gli occhi lucidi ed il viso sopraffatto dalla gratitudine nei suoi confronti.

«Ti ho fatto diventare sentimentale!», esclamò lei, mentre si asciugava il volto con le dita, risollevando gli animi che si erano fatti molto pesanti, provocando in lui una risata liberatoria, molto sentita.

Le rispose, stando al gioco: «Straniera, mi stai rovinando!».

Tornando seri per un attimo, Hylde gli posò un bacio sulle labbra, diventate secche per l’alzarsi del vento, e lo ringraziò per il supporto dimostrato, promettendogli che avrebbe sempre fatto del suo meglio , tentando di tenere a bada la paura, la quale non sarebbe sparita tanto facilmente.

Mentre riaccompagnava Ivar alla sua biga, con cui sarebbe tornato in città per raggiungere i fratelli, Hylde scorse dalla piccola finestra della casa gli sguardi di Helga e Floki che, non appena videro la ragazza guardare nella loro direzione, si dileguarono all’interno dell’abitazione. Quello scatto improvviso li fece sembrare assolutamente molto buffi.

Trattenendo una risata, Hylde capì tutto ed interrogò Ivar simulando un tono accusatorio: «Ti hanno mandato Floki ed Helga, non è vero?».

Il ragazzo, che stava cercando di risalire sulla biga mossa dal cavallo divenuto impaziente, raggelò e si voltò verso di lei, pregando gli dei che non si fosse arrabbiata e pensando: “Ma come fa a sapere sempre tutto?”.

Tirò un sospiro di sollievo quando la vide con le mani sui fianchi, con un’espressione tutt’altro che da persona infuriata e col viso che tradiva gli sforzi per non scoppiare a ridergli in faccia, così confessò a cuor leggero: «Giuro che è stata un’idea comune. Eravamo preoccupati per te, quindi abbiamo deciso di...».

«...di mandarti in avanscoperta.», completò lei la frase, con un sorriso benevolo.

Ivar annuì, ammettendo quell’azione combinata, e cercò di scusarsi in qualche modo, ma Hylde lo fermò subito, perché comprendeva il loro stato d’animo, lei avrebbe fatto la stessa cosa. Trainandosi sulla biga e mettendosi accanto a lui, lo baciò con tenerezza: «Sei stato di una dolcezza infinita. Grazie di esser venuto a tirarmi su il morale.».

Non essendo molto abituato ad essere ringraziato, soprattutto per la dolcezza, lato di sé che teneva ben nascosto, Ivar sorrise con un pizzico di vergogna, cosa che fece venir voglia a Hylde di abbracciarlo, conscia di averlo messo in imbarazzo. Lui non avrebbe mai ammesso quanto gli facesse piacere essere coccolato così, ma era felice di sapere che la ragazza lo avrebbe intuito comunque.

Dopo essersi salutati, Hylde rientrò a casa, dove trovò Helga e Floki davanti al focolare, intenti a cucinare un pasto caldo, con ogni probabilità una zuppa di ortaggi vari, ed a riscaldarsi le mani. Entrambi finsero indifferenza, consapevoli d’esser stati scoperti.

Lo sguardo di Hylde ricadde sullo sgabello di fianco all’ingresso, su cui era seduta Brandr, la quale era occupata a lucidare i vari componenti della sua armatura di ferro nuova, che si era fatta forgiare proprio in occasione dell’imminente spedizione. Appoggiandosi allo stipite della porta, la ragazza ridacchiò ed incrociò le braccia sul petto, mentre affermava: «Sono piuttosto sicura che sia stata tua l’idea di mandare Ivar da me, sorella.». Quelle parole fecero alzare le teste dei due coniugi, che rimasero in ascolto senza fiatare.

Per nulla sorpresa, Brandr appoggiò a terra la protezione che stava pulendo e la guardò, parlando con tono pratico: «Secondo Ivar era meglio lasciarti riflettere in solitudine, ma non potevamo lasciarti là fuori, tutta sola, senza nessuno con cui confrontarti. E sapevo che ti saresti aperta solo con lui, quindi...». Rivolse anche uno sguardo omicida ai genitori, cosa che li fece impercettibilmente tremare, mentre aggiungeva: «Vi avevo detto di non sbirciare dalla finestra.».

Non appena Floki ed Helga cominciarono a scusarsi, con delle facce che li rendevano davvero buffi, Hylde baciò Brandr sulla testa e dispensò gesti di affetto anche verso loro due, che si zittirono, sbigottiti. Dopodiché si sedette su uno sgabello accanto alla sorella, iniziando a pulire con lei un’altra parte di armatura e dichiarando: «Ivar ha ragione, mi piace riflettere da sola, ma devo ammettere che parlare subito con qualcuno mi ha aiutata tanto...». La voce le tremò: «...quindi grazie, a tutti voi.».

Quelle parole, espresse dalla ragazza con un po’ d’imbarazzo, fecero rallegrare tutti loro, in particolare Helga, che con fare materno si avvicinò a lei e l’abbracciò: «Non esitare mai a chiederci aiuto, Hylde!». Frase a cui fece eco Floki, con fare da vecchio saggio dai toni burberi: «Siamo una famiglia, e in famiglia ci si aiuta, senza pensarci un attimo.».


I preparativi di quella che sarebbe passata alla storia come la Grande Armata Pagana procedevano a buon ritmo, a Kattegat. Non c’era un singolo individuo che non si desse da fare,anche tra coloro che non avrebbero preso parte a quella mastodontica azione militare. Perfino i ragazzini erano entusiasti di dare una mano agli adulti e gioivano dell’essere incaricati di qualche semplice responsabilità, così da sentirsi utili a tutta la comunità.

Ogni giorno, Ivar non perdeva tempo, svegliandosi alle primissime luci dell’alba per dedicarsi alla manutenzione delle proprie armi e di tutto l’equipaggiamento di cui disponesse, armatura e protezioni comprese, rincasando poi quando il sole era già tramontato, dopo essersi allenato senza sosta. S’impegnava soprattutto nei combattimenti a bordo della biga, per imparare a gestirla meglio durante un ipotetico scontro.

Per lui, fu fondamentale fare tutto questo in compagnia dei fratelli e Brandr, coi quali poteva testare le proprie abilità come se avesse di fronte dei veri avversari. Fu un vero colpo, per loro, constatare quanto il fratellino più piccolo fosse diventato capace di gestire con una mano il cavallo che trainava la biga ed allo stesso tempo di maneggiare un’arma con l’altra.

Ubbe e Hvitserk reagirono come dei veri fratelli maggiori, con puro entusiasmo all’idea che anche Ivar potesse accompagnarli in battaglia, di vederlo combattere al loro fianco come aveva sempre sognato. Ogniqualvolta il ragazzo dimostrasse la propria bravura, Ubbe aveva l’abitudine di scompigliargli i capelli e di baciarlo sulla testa, urlando: «Sei un vero vichingo, Ivar! Lo sei!», cosa che provocava le risate di Brandr, la quale condivideva con loro la gioia di vedere colui che aveva sempre considerato “il piccolo Ivar” diventare un vero e proprio guerriero.

L’unico a tenersi lontano da quei festeggiamenti era Sigurd. Per quanto tentasse di dissimulare e comportarsi da uomo maturo, non riusciva a digerire i progressi di Ivar, come non sopportava di vederlo al fianco di Hylde. Certo, aveva giurato di rimanerle amico, le aveva detto di aver accettato di buon grado la “sconfitta”, tuttavia non era capace di tollerare di vederla così felice accanto a lui. In più, Ivar non perdeva occasione per stuzzicarlo sull’argomento, riprendendosi delle rivincite a cui ambiva da tempo, nonostante Hylde gli avesse chiesto di non farlo. Per questo il loro rapporto era in bilico costante, e toccava agli altri fratelli il compito di mantenere quel fragile equilibrio, aiutati inoltre dal comune senso di attesa di qualcosa più grande di loro, dall’adrenalina che scorreva nelle vene di tutti loro, tenendoli in un perpetuo stato di agitazione.

Hylde, invece, fu completamente assorbita dal suo nuovo incarico, cosa che non le regalò molti attimi di tempo libero. Passava le giornate insieme a Munin e agli altri guaritori, soprattutto coloro che sarebbero salpati con lei, che l’aiutavano ad organizzare il lavoro e i vari carichi, studiando inoltre dei piani da eseguire nel nuovo accampamento. Tutti loro la supportavano ed erano felici di condividere con lei le loro idee ed esperienze: non era mai facile, però, far concordare tutte le loro teste allo stesso tempo, ognuno aveva approcci differenti, con diverse priorità su come andasse svolto il loro lavoro, che Hylde avrebbe dovuto tenere a bada, una volta sbarcati. Per sua fortuna, facevano del loro meglio per rendere quei preparativi il meno pesanti possibile, riducendo le discussioni come se ci fosse un tacito accordo, che prevedeva una perfetta coordinazione per riportare a casa sano e salvo ogni singolo guerriero.

Sebbene la fatica la stroncasse, la giovane continuava a sentirsi grata: era nel suo elemento naturale, sapeva di essere utile ad ogni persona che sarebbe salita su quelle impressionanti imbarcazioni, che ormai dominavano tutta la visuale fino all’orizzonte, dal porto fino alle insenature dei fiordi facenti parte di quella baia così amata. Nel frattempo, però, era dominata dal peso di dover costantemente prendere delle decisioni che fossero giuste, senza troppo margine d’errore.

Il luogo che vedeva di più era sempre quella bottega, messa a disposizione per loro guaritori, costituita da un unico ambiente arricchito da vari scompartimenti in cui venivano conservati con cura tutti gli attrezzi, nonché gli infusi, creme e intrugli vari, in modo tale da assistere in poco tempo tutte le persone che si presentavano lì con dei malesseri di diverso genere: nel mondo moderno avrebbero identificato quel posto come un ibrido tra un ambulatorio ed una farmacia. C’era anche un secondo ambiente, più piccolo e più arieggiato, rispetto al primo, che costituiva il luogo in cui venivano create le numerose “medicine”, con un focolare tenuto acceso per tutto il giorno, sopra al quale era stata messa un’impalcatura di legno ed alcune parti in metallo, che permetteva di scaldare più pentole e calderoni insieme, alla stregua di un moderno fornello a induzione.

La ragazza era sostanzialmente sparita dalla sua cerchia di amicizie, tant’è che una sera, rientrando come al solito molto tardi e trovando Brandr ancora sveglia, lei le aveva detto, con aria sarcastica: «Ora capisco perché Ivar ti chiama “Straniera”.». Hylde si era sentita talmente tanto in colpa da aver ignorato la stanchezza che le gravava addosso per restare alzata fino a notte fonda in compagnia della sorella, per aggiornarsi e raccontarsi gli avvenimenti dei giorni precedenti.

Si sentiva altrettanto in colpa nei confronti di Ivar, al quale non poteva dedicare molto tempo, anche se lui non si era mai permesso di recriminarle nulla, essendo lui stesso impegnato. La situazione ebbe però anche un risvolto positivo, li indusse a godere dei piccoli attimi rubati, come l’incrociarsi in città e scambiarsi un bacio al volo, oppure un sorriso, o stringersi le mani per un secondo, prima di proseguire sulla propria strada, verso i doveri che li attendevano. Non era il massimo sviluppare la loro relazione in quel modo, ma l’attesa del momento in cui sarebbero tornati a viversi sul serio era ciò che li spingeva ad arrivare in fondo a quella settimana infinita.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 13 - Parte 2 ***


--- Note dell'Autrice ---

Buongiorno a tutti!! Come state?

Oggi si parte con una piccola avvertenza: nel capitolo è presente il sacrificio umano che si può vedere nell'episodio di Vikings 4x18. Sia chiaro, non ho descritto la cosa nel dettaglio, non c'è un accanimento verso i dettagli più splatter. Semplicemente, è una scena che ho riportato. Ci tenevo comunque ad avvisarvi, nel caso qualcuno fosse particolarmente sensibile.

Poi vorrei darvi un avviso: farò di tutto per pubblicare anche settimana prossima, ma dato che c'è Pasqua di mezzo non posso prometterlo. Quindi, la data ufficiale del prossimo aggiornamento sarà mercoledì 14/04, tra due settimane, ma non escludo la possibilità di pubblicare anche settimana prossima! Scusate il disagio, ma finalmente potrò passare del tempo in famiglia.

Ora vi lascio alla conclusione del Capitolo 13! Ricordate di lasciare una recensione, se l'aggiornamento vi è piaciuto, o se avete delle critiche costruttive da condividere, apprezzo sempre la vostra opinione!

Grazie davvero di tutto! Un abbraccione!!


 
Capitolo 13 - Parte 2
 
 
Arrivò così presto, così attesa e temuta, la vigilia della partenza.

Hylde, quella sera, si sentiva serena, poiché anche gli ultimi preparativi erano stati ultimati ed ora poteva prendersi il lusso di dedicarsi a se stessa con calma, a cuor leggero.

Rientrò a casa a fine giornata, al tramonto, così attese che tutti i componenti della famiglia fossero pronti ed usciti dall’abitazione per gustarsi in rilassante solitudine e silenzio un bagno caldo, aspettando che scomparisse l’emicrania che l’aveva accompagnata durante tutta quell’ultima settimana, come una fedele compagna. In seguito, indossò un bell’abito color bianco panna, drappeggiato all’altezza della vita grazie ad una cintura, prestatole con piacere da Helga, che in segreto adorava vedere le figlie tutte agghindate, di tanto in tanto. Si lasciò cadere sulle spalle la sua cascata di capelli rossi e si colorò il contorno degli occhi con la tintura nera usata anche da Floki ed Helga. Si sentiva rinvigorita, l’unica cosa di cui doveva occuparsi era il proprio divertimento, lasciarsi andare e gustarsi quell’aria di festa insieme alle persone che amava. Andava tutto bene.

Arrivò a Kattegat quando il sole era già scomparso oltre la linea dell’orizzonte. Era una notte particolarmente luminosa, la luna alta provvedeva ad illuminare il paesaggio, assieme al grande focolare ed alle torce disseminate per la città, che era stata decorata ad arte con fiori freschi e nastri colorati proprio per quell’occasione così speciale. La foresta circondava silenziosa, come sempre, una città in visibilio. Il mare, particolarmente calmo, s’infrangeva con piccole ed innocue onde sulla spiaggia di quella baia racchiusa dai fiordi norvegesi ed alte coste, che davano vita a promontori dalle altezze vertiginose.

Non soffiava un filo di vento, il clima era caldo e rassicurante, cosicché tutti fossero incentivati a festeggiare fino a tardi, che fossero cittadini di Kattegat o no, riuniti insieme per partecipare ad una causa più grande delle loro differenze. Ogni persona presente ballava e si divertiva, scorrevano fiumi di birra distillata da sapienti artigiani, il cibo caldo e gustoso veniva servito in enormi quantità. C’erano musica e danze frenetiche, tutto ciò che serve ad una festa di successo.

Hylde si ritrovò da sola davanti alla longhouse, senza scorgere nessun viso conosciuto, mentre aspettava l’arrivo di Ivar, col quale era arrivata l’ora di spendere del vero tempo di qualità, senza fretta, senza doveri incombenti, dopo quella settimana senza fine. Nell’attesa, si prese un momento per dare un’occhiata attorno a sé. Per lei, osservare ogni singolo elemento naturale che componeva il paesaggio circostante, quella sera, aveva un sapore diverso, le suscitava emozioni profondamente malinconiche. Aveva come la sensazione che non avrebbe rivisto tanto presto quello spettacolo della natura, perciò si sentiva in dovere di imprimerlo in modo permanente nella sua memoria. Non aveva intenzione di scordarsi nulla di quel luogo, non se lo sarebbe mai permesso, né perdonato.

Fu Floki a distoglierla dalle proprie riflessioni, allungandole un boccale ricolmo di birra scura: «Quali pensieri ti turbano, Hylde?». Non le si era avvicinato di soppiatto, non aveva fatto nulla per nascondere la propria presenza, eppure lei non lo aveva sentito arrivare, talmente si era estraniata, trovando rifugio nei propri pensieri.

Entrambi fecero toccare i rispettivi boccali in un tacito brindisi, mentre lei rispondeva con sorriso affabile: «Nulla che dell’ottima birra non possa risolvere.». Bevve un sorso, felicissima di scambiare qualche parola con lui, dato che ultimamente non c’erano state tante occasioni per passare del tempo in famiglia.

Sotto lo sguardo attento di Floki, si spiegò: «Stavo ammirando Kattegat, è bellissima stasera.».

Con fare da vecchio burbero, l’uomo replicò: «In realtà è una città come tutte le altre. Sono i ricordi a renderla speciale, vero?». Quella frase, unita alla sua benevola espressione, fece crollare inevitabilmente la facciata da persona scorbutica ostentata con tutti, che celava i lati migliori del suo animo, capace di una generosità e saggezza fuori dal comune.

Guardandosi di nuovo attorno, Hylde convenne con lui ed aggiunse: «Kattegat mi ha accolta quando più ne avevo bisogno. Mi ha ospitata senza pretendere nulla da me, senza esigere risposte che non ero in grado di dare.». Tornò a guardare Floki con palese nostalgia: «Da allora è la mia casa, e fa male lasciarla.».

Bevve dell’altra birra e l’uomo fece lo stesso, partecipando a quelle emozioni in silenzio, con l’affetto sincero di un padre che l’aveva praticamente adottata, pur senza sapere nulla di lei. Aveva fatto un vero e proprio voto di fiducia nei confronti della ragazza, che avrebbe rinnovato senza remore, se fosse tornato indietro nel tempo. Le baciò lievemente la fronte: «Scoprirai che non serve una città per sentirsi a casa, ti basterà avere al tuo fianco le persone che ami. Sei figlia mia e di Helga, sei sangue del nostro sangue, anche se non ti abbiamo concepita noi. Non resterai mai da sola di nuovo.».

L’immensa commozione di Hylde fu tradita dai suoi occhi chiarissimi, diventati lucidi, e dalla sua incapacità di pronunciare null’altro, per non scoppiare irrimediabilmente a piangere. Lo ringraziò di cuore, per non averla mai fatta sentire fuori posto, per averle donato la sua lealtà fin dal primo istante.

Nei minuti successivi, continuarono a scambiarsi qualche parola, mentre sorseggiavano le loro birre e si facevano il resoconto della settimana, sfidandosi come due sciocchi a chi dei due avesse avuto le giornate peggiori e finendo con uno schiacciante pari merito.

Finalmente, Ivar li raggiunse, strisciando con estrema agilità verso di loro e facendosi largo tra la folla di persone occupate a festeggiare e viversi con leggerezza la serata. Regalò a Hylde un grosso sorriso ed il cuore di lei saltò un battito, erano entrambi sinceramente felici di vedersi. «Ciao, Straniera.», la salutò con la sua voce incredibilmente astuta e la sua bocca s’incurvò in quell’espressione maliziosa che assumeva ogniqualvolta si trovasse di fronte alla ragazza.

Lei lo trovò più attraente che mai, avrebbe voluto buttargli le braccia al collo e non lasciarlo più nemmeno per un secondo, ma si trattenne, poiché Floki era ancora lì con loro, il quale osservava Ivar con un accenno di sorriso e le braccia conserte, volendo interpretare la parte di un padre che giudica in silenzio l’uomo di sua figlia, finendo, tuttavia, per far emergere l’enorme affetto provato per quel ragazzo, che aveva praticamente cresciuto.

«Ciao anche a te, vecchio rattrappito!», gli disse Ivar con il loro tipico approccio da maschi, con un sorrisino al limite della sfacciataggine, che venne subito imitato da Floki, il quale replicò, sovrastando il ragazzo grazie all’ausilio della sua generosa altezza: «Vieni a dirmelo in faccia, se ci riesci!». Subito dopo aver pronunciato quelle parole, l’uomo si abbassò per abbracciarlo forte ed annunciò: «Adesso devo raggiungere Helga. Ti affido Hylde.».

Ivar avrebbe voluto parlare ancora un po’ con lui, con cui non condivideva una bella chiacchierata da qualche tempo, ma capì che fosse soprattutto una scusa per lasciarlo solo con Hylde. Annuì, facendo per congedarlo, ma si trovò a deglutire sonoramente ed a spalancare gli occhi con evidente sorpresa, mentre Floki lo intimidiva: «Vedi di trattarla bene.». Non servirono minacce di ripercussioni fisiche, bastarono quegli occhi scuri e profondi, tremendamente seri, contornati di tintura nera, a lasciare il ragazzo senza parole per rispondere.

Hylde diede una pacca sulla spalla all’uomo, arrossendo con visibile vergogna: «Non c’è bisogno di minacciare nessuno, Floki.». Si portò l’altra mano al viso, nascondendoselo per sopportare l’imbarazzo, pienamente condiviso da Ivar.

Non appena rimasero soli, però, quel piccolo momento di disagio scemò via e poterono così ricongiungersi come avevano bramato fino ad allora. Hylde si accovacciò verso di lui, in modo da poterlo guardare dritto negli occhi in cui era felice di perdersi. Si baciarono con tenero trasporto, dimenticandosi di tutto il mondo attorno a loro, abbracciandosi e ricaricandosi di nuova energia anche solo grazie allo stare vicino l’uno all’altra.

«Mi sei mancato.», confessò Hylde con tono molto dolce, senza riuscire davvero a fargli capire quanto avesse sentito la sua mancanza. In realtà, nessuna parola avrebbe mai potuto spiegarlo con precisione.

Il cuore di Ivar prese a battere più velocemente del normale, mentre replicava: «Anche tu.». Effetto a cui non si era ancora veramente abituato, provocatogli dalla voce della ragazza, nonché dalla vista del suo viso. Reagiva sempre con sincera meraviglia a quella reazione così naturale, eppure a lui così estranea.

All’improvviso, la musica si acquietò ed una grande folla iniziò a radunarsi presso la grande piazza del focolare centrale, dove si teneva la maggior parte delle adunanze e delle più importanti celebrazioni.

«Sta per iniziare.», annunciò Ivar con una punta di frenesia, guidando Hylde tra le persone, che si muovevano tutte insieme per lasciare libero un passaggio sulla strada principale, la quale collegava l’ampia piazza, da una parte, direttamente alle porte della città che davano sulla foresta, vicino alle quali sorgeva il recinto in cui venivano accuditi gli animali destinati ai sacrifici, e, dal lato opposto, al grande molo fortificato.

Proprio quella strada era ora percorsa da una lunga processione, con in testa la regina Lagertha, se possibile ancor più fiera ed impeccabile che mai, seguita dalle numerose offerte tenute legate da delle corde e guidate fino al punto prestabilito da quelli che dovevano essere dei sacerdoti, calvi, dalla faccia completamente dipinta con tinte naturali color nero e rosso.

Il passare dei secondi era scandito dal sordo rimbombare dei tamburi, mentre Lagertha, vestita di bianco ed oro, saliva con rituale lentezza i gradini dello spazioso palco costruito nel centro della piazza, e decorato minuziosamente per l’occasione, per permettere a chiunque di assistere ad ogni passaggio di quella celebrazione con comodità.

Gli animali vennero scortati uno ad uno al centro di quell’impalcatura in legno, presso la regina dallo sguardo serio e concentrato, armata di una daga rituale dal manico d’oro, impreziosito da gemme luccicanti. Li sacrificò tutti, spargendo il loro sangue, che in non troppo tempo iniziò a colare dai bordi del palco, consacrando quella terra così cara agli dei di Asgard. «Con il sangue, chiediamo la protezione degli dei.», furono le parole che accompagnavano ogni sacrificio, pronunciate con chiarezza e rispetto da Lagertha, mentre il vestito da lei indossato si riempiva di macchie color vermiglio.

Hylde, al fianco di Ivar, il quale osservava la scena con aria divertita, fece molta fatica ad assistere a quello spettacolo raccapricciante, eppure così sentito da tutta la popolazione. Come se tutto ciò non bastasse, strabuzzò gli occhi quando capì quale sarebbe stata l’ultima e la più importante vittima sacrificale.

Un giovane principe svedese si avvicinò agli scalini e, senza staccare gli occhi da Lagertha, lì salì lentamente, portando con sé tutta la sacralità del momento. Aveva un viso davvero attraente, pulito ed acuto, era vestito di una semplice tunica bianca di lino, che simboleggiava la purezza e l’umiltà con le quali si presentava di fronte agli dei, sacrificandosi per il bene comune di un popolo intero.

«Sul serio?!», sussurrò sbigottita Hylde ad Ivar, per nulla turbato dalla cosa, infatti la guardò con aria confusa, senza capire quale fosse il problema.

Il principe, visibilmente emozionato, ma anche tanto orgoglioso di essersi offerto per quell’onore davvero significativo, si posizionò al fianco di Lagertha, che era perfettamente a suo agio nel suo ruolo di sacerdotessa. Si voltarono entrambi l’uno verso l’altra e l’aria si appesantì, a Hylde sembrò di guardare quella scena a rallentatore, anche il suono dei tamburi pareva amplificato.

Lagertha appoggiò la punta della lama in mezzo all’addome del giovane, proprio sotto le ultime costole, ed esclamò, con la voce che seguiva un climax crescente: «Con questo sacrificio chiediamo la vostra benevolenza. Odino, padre degli dei, mostraci la via. Thor, guidaci attraverso le battaglie. Freyja, riporta a casa i nostri fratelli.».

Spinse la daga nella pelle del ragazzo, che non emise un gemito, ma tremava visibilmente per l’adrenalina. Il dolore doveva essere tremendo. «Accogliete i caduti che verranno, permettete loro di sedere al vostro fianco, nel Valhalla, beandosi della vostra gloria.», proseguì la regina, prima di staccare una mano dall’elsa, per tenderla al principe.

Egli la guardò con intensità, le afferrò la mano ed attese con pazienza le ultime parole della regina, che vennero urlate da quest’ultima, come se volesse raggiungere gli dei con la sola potenza della sue corde vocali: «Per Asgard! Per gli dei!». E poi il silenzio assoluto.

I tamburi smisero di suonare e Hylde distolse rapidamente lo sguardo, non appena vide la daga affondare. Sentiva la testa pesante ed il cuore batterle forte nel petto, nonostante la folla avesse cominciato a urlare di nuovo, all’unisono: «Per Asgard! Per gli dei!», rendendo la situazione ancor più caotica di prima.

Il verso di un corvo che volava curioso su Kattegat la riportò alla realtà, di fronte ad Ivar, il quale stava cercando di richiamare la sua attenzione. Lei guardò verso il palco, dove c’era Lagertha, col candido vestito sporco di sangue, che faceva spazio ai sacerdoti incaricati di portar via il corpo esanime del principe svedese, steso a terra con intatta dignità nel volto privo di vita. Le girò la testa e fu costretta a sedersi accanto al ragazzo. Non le aveva mai fatto impressione la vista del sangue, ma non poteva immaginare che effetto le avrebbe fatto assistere al sacrificio di un giovane essere umano. Certo, era qualcosa perfettamente in linea con la cultura vichinga, ne era consapevole, però si ritrovò spiazzata ugualmente, perché viverlo in prima persona è diverso dal leggerlo nei libri di storia.

Ivar la riportò al presente, chiamandola più volte e scrollandola con le mani sulle sue spalle per stimolarle una reazione, preoccupato com’era nel vederla così scossa. «Non sapevo fosse il tuo primo sacrificio umano. Mi dispiace, avrei dovuto avvertirti.», si scusò lui con vero dispiacere, abbracciandola.

Hylde, ripresasi un po’, rispose che non era colpa sua, perché non poteva saperlo e lei non poteva sapere che avrebbe avuto quella reazione. Ciò che non le aveva fatto piacere era stato vedere Ivar perfettamente a suo agio con quella pratica, perfino divertito da essa, ma in fondo erano le usanze dell’epoca, non poteva fargliene una colpa. Ognuno la viveva in modo così personale che non le sembrava giusto imporre il proprio punto di vista come il più giusto.

Avendo iniziato la folla a diradarsi, furono intercettati e raggiunti da Brandr, in compagnia di Ubbe, abbracciati e felici coi loro corni traboccanti di birra schiumosa.

Non appena vide il colorito cereo di Hylde, Brandr si preoccupò, come farebbe una sorella maggiore, e le chiese cosa fosse successo, gettando poi il proprio sguardo intimidatorio verso Ivar, che rispose senza però eguagliare il livello di minacciosità della ragazza. Da arrabbiata, Brandr poteva risultare davvero spaventosa, cosa che fece ridacchiare Ubbe, contento di non essere lui, per una volta, il bersaglio della furia della fidanzata.

Assistendo con apprensione a quella conversazione non verbale e non volendo ulteriori drammi attorno a sè, Hylde cercò di riportare un po’ di serenità: «Non preoccuparti, Brandr. Non sono abituata a vedere le persone sacrificate, tutto qua.».

Ubbe, ormai abituato ad ignorare i battibecchi di Brandr ed Ivar, le chiese con sincera curiosità, incrociando le braccia sul petto: «I sacrifici non fanno parte della cultura da cui provieni?».

La ragazza scosse la testa, confermando che dalle sue parti non fosse qualcosa che accadeva tutti i giorni.

Il maggiore tra i figli di Aslaug e Ragnar comprese il suo punto di vista, ma la corresse con una calma così tanto riflessiva, che Hylde si stupì del fatto che lui ed Ivar fossero davvero fratelli: «In realtà, queste sono pratiche che si mettono in atto raramente e solo nelle occasioni più importanti, come prima delle grosse spedizioni.».

«Fosse per me, non accadrebbero mai.», intervenne Brandr, in piedi alle spalle della sorella, avendo finito di minacciare silenziosamente Ivar, che rispose subito a quel commento: «Oh, ti prego! Non ricominciare con questo discorso. Sono le nostre tradizioni, gli dei vengono onorati così da quando esiste il nostro popolo.».

Brandr buttò giù un generoso sorso di birra, replicando con enfasi: «Ciò non significa che le usanze stupide non possano essere cambiate!».

«Avanti, un po’ di rispetto!», l’ammonì Ubbe, che odiava vedere gli animi scaldarsi così per uno scambio di idee tutto sommato legittimo.

«Ubbe, quante volte abbiamo criticato i cristiani per il loro fanatismo verso un dio che li costringe a compiere gesti che non vogliono fare, o per quelle formule ridicole che ripetono in continuazione? Non vedo perché non dovremmo criticare anche le nostre tradizioni.», prese posizione Brandr con profondo spirito critico. Aggiunse anche: «Io amo i nostri dei. Li sento con me in battaglia. Li sento nel vento, nei tuoni delle tempeste più feroci e nel mare anche durante i viaggi più brevi. Non credo che loro abbiano bisogno del nostro sangue per amarci a loro volta.».

Hylde annuì con pieno assenso, comprendendo l’odio della sorella verso il fanatismo di qualunque genere, ma allo stesso tempo si trovò spiazzata di fronte a quel discorso così dannatamente moderno per esser stato concepito in anni appartenenti al Medioevo. Notò lo sguardo di Ubbe, perso nel vuoto mentre rifletteva su quelle parole che trovava ancora troppo estreme, per i suoi gusti.

«Il tuo pensiero è troppo esagerato, Brandr. Floki ci ha istruiti insieme sugli dei e la loro storia, possibile che tu non abbia compreso nulla?», commentò Ivar, per niente persuaso dalle parole della giovane guerriera. Sembrava addirittura infastidito all’idea di mettere in discussione le proprie convinzioni, alle quali era strettamente legato.

Brandr ridacchiò con aggressività passiva verso il giovane: «Non tirare in mezzo mio padre, lui non ha nulla a che fare con quello che penso io.».

Nonostante la discussione stesse assumendo un tono alquanto colorito, Hylde fu felice di potersi godere quella frazione di normalità con i suoi amici, amava scoprire nuovi aspetti del pensiero delle persone che facevano parte della sua vita, sia che fossero opinioni come quelle di Brandr ed Ivar, estreme ed agli antipodi tra di loro, sia quelle più diplomatiche, che si collocavano nel mezzo come Ubbe, considerando valido ogni punto di vista. «Non litighiamo proprio stasera, ragazzi.», intervenne lei, proponendo di spostarsi all’interno della longhouse e vivere con serenità il resto della serata, in compagnia della birra. L’idea venne accolta con sonoro entusiasmo.


La piccola combriccola si recò all’interno del grosso edificio, presa d’assalto da tutti coloro i quali ritenevano la notte ancora troppo giovane per smettere con i festeggiamenti. Il baccano era intenso, amplificato dall’incessante opera dei suonatori di tamburi e dalle persone esaltate dall’alcol, oltre che dall’euforia generale.

Trovarono posto allo stesso tavolo di Hvitserk, già dignitosamente ubriaco ed occupato ad amoreggiare con un’avvenente servitrice dai capelli biondo grano, anch’essa inebriata dalle gioie alcoliche. C’era anche Sigurd, appoggiato al tavolo ancora imbandito, che strimpellava quello strumento a corde che si portava sempre appresso, esercitando un potere ammaliante sulle giovani attorno a lui, rapite da quel suono delicato.

Hylde gli sorrise da lontano, facendo uno sguardo eloquente, che esprimeva in modo molto chiaro: “Wow! Quante ragazze!”. Sigurd se ne accorse e le fece l’occhiolino, confermandole di aver capito, poi tornò a dedicare le proprie attenzioni alle belle vichinghe che lo circondavano.

Lei allora tornò a guardarsi attorno, vide Brandr e Ubbe abbracciarsi con tenerezza e rifornirsi di birra con calma serenità nei loro occhi, ascoltando quella melodia spensierata, gioivano nello stare insieme mentre parlavano sorridendosi a vicenda. Poco distante da loro, scorse Helga e Floki con lo stesso tipo di sorriso stampato sui loro volti, felici come non mai ed affiatati come ragazzini alle prese col primo amore, erano l’emblema del matrimonio, quello che resiste a tutto per davvero e che lei stessa sognava.

Infine, posò gli occhi su Ivar, che sedeva al suo fianco beandosi del clima festoso, la sua faccia perennemente corrucciata era distesa in una nitida espressione di tranquillità, mentre tamburellava le dita sul tavolo seguendo il ritmo della musica. In quel momento non erano ragazzi costretti a crescere troppo in fretta, erano invece investiti da quell’aura di normalità che presto avrebbero rimpianto.

Portando il proprio bicchiere alla bocca, Ivar si accorse dello sguardo di Hylde fisso su di lui e non potè fare a meno di sorriderle, per poi chiederle se stesse bene, se ci fosse qualche problema.

La ragazza arrossì per esser stata scoperta a fissarlo, ma in seguito gli si avvicinò con la sedia e gli confessò, senza filtro alcuno, facendo cenno verso i loro amici: «Sono felice, grazie a tutti loro...». Poi tornò a guardarlo negli occhi e continuò: «...ma soprattutto grazie a te.».

Le iridi di Ivar brillarono nella luce fioca delle torce appese sulla parete alle loro spalle, così le fece spazio. Hylde si mise a sedere sulle sue gambe, abbracciandolo forte, e lui attese pazientemente, ricambiando la tenera attenzione e giocando con una ciocca di quella cascata rossa. Non appena lei si staccò, il ragazzo la baciò con trasporto, senza preoccuparsi della presenza di altre persone attorno a loro.

Lei rispose al bacio, senza dare troppo peso all’iniziale sensazione d’imbarazzo nello scambiarsi effusioni così palesi in pubblico, e tremò quando Ivar le disse: «Ti amo, Straniera.».

Glielo disse con tale naturalezza, con un viso così vulnerabile da render palese quanto fosse sincero, senza indossare alcuna maschera. Gli si poteva leggere in faccia tutta l’emozione provata, dall’euforia per averle finalmente confessato il suo amore, alla paura di un eventuale rifiuto, al senso di leggerezza nel tenere fra le braccia la ragazza amata.

A Hylde non rimase altro da fare che rispondergli, con un sorriso gigantesco e le lacrime agli occhi: «Ti amo anch’io, Boneless.». Gli accarezzò con delicatezza la guancia, imprimendo a fuoco nella sua memoria l’espressione che si disegnò sul viso di Ivar al sentire quella risposta.

Tornarono a baciarsi con ancor più trasporto, stavolta privi di qualsiasi remora, prestando attenzione a nessuno se non a loro stessi. Sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa, la longhouse avrebbe potuto prendere fuoco, dei nemici avrebbero potuto invadere Kattegat e saccheggiarla proprio sotto i loro occhi, ma nulla e nessuno avrebbe potuto staccarli, non ci sarebbe stato alcun modo per poter estinguere quel fuoco che li incendiava da dentro, partendo dalla bocca dello stomaco, fino a divorarli completamente.

Hylde passava le mani tra i capelli d Ivar, accarezzandolo con amore crescente, per poi scendere, vagando sul collo, sul petto e sulle spalle dai muscoli ben torniti che le piacevano tanto e che contribuivano ad accenderla di passione.

Ivar la stringeva con foga a sé, come se volesse sentire il calore della sua pelle bruciante attraverso i vestiti. Desiderava Hylde come gli assetati desiderano l’acqua, come si desidera il caldo nelle fredde notti invernali. Faceva scorrere le mani su tutto il corpo della ragazza, che lui vedeva assolutamente perfetto, dalla nuca alla schiena, fino alle natiche, finendo sulle cosce.

Si ritrovarono nella camera di Ivar più in fretta di quanto avrebbero voluto ammettere e raggiunsero il suo letto ancor più velocemente...

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


--- Note dell'Autrice ---
Ciao a tutti!
Finalmente, sono tornata. E stavolta con un capitolo lunghissimo, denso di fatti che ci accompagnano verso la partenza per l'Inghilterra. Ci ho messo tutta me stessa, soprattutto perché è stato molto difficile scriverlo. Ho come avuto un blocco in queste due settimane, ma per fortuna è tutto passato!

Ora vi lascio alla lettura, dato che ci eravamo lasciati durante un momento topico della vita di Hylde e Ivar. Quindi, buon divertimento!

Ricordate di lasciare un commento, o una recensione. Mi fa sempre piacere ricevere feedback, o critiche costruttive!

Un abbraccio!



Capitolo 14


Hylde aveva imparato a conoscere molto bene quella stanza, illuminata ora dalla fioca luce di una candela consumata e da un leggero spiraglio di luna che filtrava dalla finestra socchiusa, conferendo all’ambiente un’atmosfera intima, con una suggestiva penombra.

L’urgenza irrefrenabile, che li spingeva l’una verso l’altro e che li governava, non permise loro nemmeno di prender coscienza di come quella fosse la prima volta in cui si lasciavano davvero andare, lasciando le emozioni e tutte sensazioni fisiche al comando delle loro azioni. La razionalità non faceva più parte del loro essere.

Si baciarono come se solo quel gesto potesse tenerli in vita, avvinghiati e stretti sul comodo letto, esplorandosi con foga con le mani e la bocca, quasi fosse una lotta all’ultimo sangue.

Le emozioni che Ivar aveva cercato di reprimere fino ad allora si manifestarono tutte in una volta, facendogli spegnere il cervello e dimenticare quanto in realtà fosse agitato, poiché, in fondo, con Hylde non c’era bisogno di esserlo. C’erano solo loro due e sorridevano con sguardi che erano quelli della felicità più pura, con la giusta naturalezza, perché sapevano di essere giusti l’uno per l’altra. Era quella consapevolezza ad averli guidati fino a lì, senza darla vinta agli scettici come Lagertha, o a tutti coloro che si arrogavano il diritto di giudicarli alle loro spalle, animati da pregiudizi che non meritavano neanche un briciolo d’attenzione, da parte dei due.

Ivar si mise a sedere al centro del letto e Hylde lo seguì, adagiandosi piano sulle sue cosce, rimanendo in silenzio. Le parole le morivano in gola talmente erano superflue. I suoi occhi, alla stessa altezza di quelli del ragazzo, brillavano, mentre venivano illuminati dalla flebile fiammella della candela appoggiata sul tavolino vicino alla sponda del letto.

Si fece spogliare con piacere da lui, che le sfilò il vestito facendoglielo passare da sopra la testa, per poi gettarlo da qualche parte, con noncuranza. Il cuore le batteva all’impazzata, ma non provava vergogna. Con Ivar, si dimenticava delle emozioni negative, era il suo porto sicuro. Sentiva soltanto un intenso desiderio ed un’incontenibile gioia, bramava Ivar con tutta se stessa, godendo di ogni carezza.

Hylde avrebbe davvero voluto prendere il controllo, ma decise di aspettare pazientemente i tempi di lui, perché in fondo non lo aveva mai visto abbassare così tanto le proprie difese in un contesto tanto intimo, non si meritava quel tipo di egoismo.

Anche il cuore di Ivar batteva forte, cosa che gli causava il respiro corto, quasi avesse il fiatone. Era agitato, eccome se lo era, ma Hylde, oltre a ispirargli pensieri tutt’altro che casti, soprattutto nel momento in cui prese a privarla di qualsiasi pezzo di stoffa che la copriva, aveva su di lui un effetto calmante. Le aveva donato la sua fiducia ed era sicuro che mai l’avrebbe calpestata.

Prese a baciarle e ad accarezzarle con amore crescente ogni centimetro nudo di pelle, tenendola avvinghiata a sé. Tutti i gemiti ed i sospiri della ragazza non facevano altro che accenderlo sempre di più. Amava vederla tremare dopo ogni bacio stampatole sul collo, mentre lui immergeva le dita nei suoi capelli, all’altezza della nuca, lo faceva sentire potente.

Sfortunatamente, la situazione si complicò quando Hylde, lasciatasi trasportare da quell’atmosfera piccante, commise il fatale errore d’iniziare a spogliare Ivar a sua volta.

Il ragazzo, infatti, s’irrigidì non appena si trovò a torso nudo, ma nel momento in cui lei prese ad armeggiare coi suoi pantaloni, non fu capace di resistere e la spinse via da sopra di sé con un gesto brusco. Si mise poi a sedere sulla sponda del letto che veniva raggiunta di meno dalle esigue fonti di luce, lasciandosi nascondere dalla semioscurità, sotto lo sguardo attonito di Hylde, che non si capacitava di come si fossero evolute le cose.

«Vattene.», le ordinò, lapidario.


Da seduto, Ivar appoggiò i gomiti poco sopra le ginocchia e chinò la testa, assumendo una posa che esprimeva a pieno quanto fosse scoraggiato. Scosse la testa, mentre continuava a pensare: “Ho sbagliato”. Aveva abbassato la guardia, aveva sbagliato a lasciarsi andare. Si sentiva il colpa per aver perso il controllo, correndo il serio rischio che Hylde potesse anche soltanto scorgere quanto fosse ripugnante e quanto fosse incapace di darle piacere: si guardò in mezzo alle gambe, dove niente era accaduto, neanche un minimo segnale di attività. Si sentì morire dentro, non voleva più guardare la sua donna in faccia. E, diamine, i suoi fratelli avrebbero continuato a prendersi gioco di lui, senza considerarlo un vero uomo come loro.

Mentre lui passava silenziosamente in rassegna tutto ciò che gli procurava ansia, dal lato opposto del letto si trovava una Hylde raggelata, incapace di muovere un muscolo per quanto fosse sbigottita. Continuava a chiedersi cosa fosse andato storto, perché c’era sempre un motivo che spingeva Ivar ad agire così d’impulso.

Lo vide scuotere ripetutamente la testa, tormentato dai pensieri più opprimenti. Gli occhi di Hylde ricaddero sulla nuda schiena del ragazzo, già segnata dalla durezza degli addestramenti militari a cui usava sottoporsi, che gli avevano procurato qualche innocua cicatrice e diversi ematomi qua e là. Mentre lo guardava, cercò di distrarsi dal rumore del proprio cuore, che pulsava veloce.

E poi, all’improvviso, si ricordò di come Ivar si fosse comportato la prima volta che lei gli aveva sfiorato le gambe, per mostrargli i vari esercizi da svolgere. Aveva reagito allo stesso modo, con una certa violenza, prendendo le distanze da lei, senza riuscire a sostenere il suo sguardo. Si rese conto che non le aveva mai permesso di vedere le sue gambe nude, nemmeno per aiutarlo ad applicarsi la crema nelle fasi acute dei suoi dolori. Quella non era rabbia, era vergogna.

Lentamente gli si avvicinò, per non farlo allontanare di nuovo, e lo abbracciò con tenerezza da dietro, appoggiando la testa sulla sua spalla e tentando di avvolgerlo completamente. La schiena di Ivar sembrava scottare, contro la pelle della ragazza, la quale iniziava a sentire un po’ di freddo.

Lo sentì irrigidirsi, perché chiaramente non si aspettava che lei rimanesse lì, che gli si avvicinasse ancora, ma non cercò di scostarla, vivendosi l’effetto rassicurante di quell’abbraccio. In cuor suo, Ivar aveva sperato con tutto se stesso che Hylde non se ne andasse ed era felice di sapere che il suo desiderio fosse stato esaudito.

«Parla con me.», gli chiese lei in un flebile sussurro, rincuorata dal fatto che lui non avesse reagito malamente un’altra volta, sentendo il suo respiro tornare regolare. Gli passò una mano tra i capelli e lo strinse contro di sé, mentre lui appoggiava con delicatezza la testa contro quella della ragazza, perdendosi in quel calore umano, così intimo.

Ivar prese un bel respiro, prima di rivelare ad Hylde che quella non fosse la prima volta in cui si ritrovava in una situazione del genere con una ragazza e non ne conservava un buon ricordo. Era stata un’esperienza pessima, poiché quella ragazza, una schiava, non voleva essere lì con lui, aveva paura di lui e mai avrebbe giaciuto in sua compagnia. Ivar, invece, si era sentito forzato dai fratelli, per dimostrare di essere uomo quanto loro, pur non avendo mai sperimentato nulla riguardo ai rapporti fisici, pur con tutta l’ansia che questo comportasse. Senza contare le insicurezze per il proprio fisico.

Avendo notato quello spiraglio di umanità nei comportamenti di Ivar, la schiava aveva iniziato a denigrarlo e prendersi gioco di lui, facendolo sentire ancora più piccolo e meschino di come già si sentisse, innescando in lui una spirale di rabbia, violenza e rancore. Quella ragazza aveva anche raccontato ai fratelli del ragazzo della non funzionalità della sua virilità, rendendo complicata una situazione già di per sé molto difficile, facendo uscire il peggio di Ivar, facendo acuire tutte le sue paure più profonde.

Ivar apprezzò l’attivo silenzio della ragazza, la quale, anche senza dire una parola, dimostrava di esser lì con lui, di ascoltarlo e comprenderlo, senza giudicare le sue paure, o i suoi comportamenti. «Ma nonostante questo, Hylde...», continuò lui con totale sincerità, «...da quando stiamo insieme ho davvero voglia di giacere con te, anche se l’ho evitato fino ad ora.».

Hylde sorrise per la sfumatura di dolcezza contenuta nella voce del giovane, senza avere la minima intenzione d’interrompere quel suo meraviglioso flusso di coscienza, orgogliosa per come stesse provando ad aprirsi. Solo capendo cosa gli passasse per la testa, avrebbe potuto aiutarlo al meglio.

Il ragazzo strinse i pugni con incredibile forza, facendo emergere dalla pelle le nocche bianche, per tenere a bada la rabbia ustionante: «Ma non posso. Non funziono. Non posso essere l’amante che vuoi, non posso darti piacere, o dei figli.». Dalla sua espressione si poteva chiaramente capire quanto gli facesse male ammettere tutto ciò, specie davanti a lei. «Ho sbagliato a portarti qui, ho sbagliato a permettermi di amarti.», concluse, con evidente rassegnazione.

«Basta così.», disse Hylde stringendolo ancora di più, estremamente toccata dalle parole del ragazzo, che aveva dimostrato per l’ennesima occasione di fidarsi di lei più di chiunque altro. Era arrivato il momento di esser forte per entrambi. Con delicatezza, lo fece voltare verso di sé e di nuovo si ritrovarono faccia a faccia, al centro del letto.

Hylde tremò di freddo, era ancora completamente nuda di fronte a lui. Ivar, nonostante fosse affranto, se ne accorse e recuperò la propria maglia di lino, passandola alla ragazza, che ci si infilò dentro. Dopo un sorriso, lo ringraziò ed iniziò a parlare: «Ivar, secondo te le tue gambe sono mai state un problema per noi? Ci hanno impedito d’innamorarci? Ti ho mai fatto sentire inadeguato, o fatto intuire che fossi sbagliato?».

Ivar parve perplesso dalla raffica di domande a cui Hylde l’aveva sottoposto, ma la risposta era ben chiara nella sua mente: «No.». Ed era vero, lei non si era mai lasciata turbare dal fatto che lui non potesse muovere le gambe, lo aveva sempre trattato con rispetto, come faceva con tutti, e anzi, si era offerta di aiutarlo, solo perché sapeva quanto lui desiderasse camminare come tutti gli altri, standogli accanto anche all’apice della sua frustrazione, momento in cui Ivar tirava fuori il peggio della sua personalità.

Lei gli sorrise: «E allora perché mai le tue gambe dovrebbero essere un problema in questo contesto? Non mi interessa come appaiono, perché io amo te, Ivar, non l’involucro che ti contiene.». Per alleggerire un po’ il discorso, fece una faccia maliziosa e gli guardò le solide spalle, puntualizzando: «Certo, è un bell’involucro...». Ad Ivar scappò una risata, dopodiché Hylde continuò: «...ma il mio amore per te è nato per ben altre ragioni.».

Ivar sembrò convinto ed anche commosso, ma fece di tutto per non darlo a vedere. In quell’istante voleva solo abbracciare la sua donna che, col viso più determinato di sempre, si era lasciata andare alla dichiarazione d’amore più vera e sincera che avrebbe mai sentito in tutta la sua vita. La invitò nuovamente a mettersi a cavalcioni sulle sue gambe e lei accettò di buon grado, felice di averlo tranquillizzato. L’abbracciò forte e Hylde gli circondò con le braccia il collo, riempiendogli la faccia con tanti, piccoli baci, alternandoli alla frase: «Ti amo.».

Lui si rilassò, inebriandosi di quelle tenere attenzioni con rinnovata fiducia in se stesso e, da sotto la maglia, le accarezzò la schiena con le mani ruvide, provocandole dei brividi su tutto il corpo. Si baciarono con ritrovata passione, con le loro lingue che s’intrecciavano e i loro corpi a strettissimo contatto.

Hylde gli sussurrò all’orecchio, con voce che tradiva la sua voglia di lui: «E se pensi che ci sia un solo ed unico modo di dar piacere ad una donna, beh, i tuoi fratelli ti hanno insegnato proprio male.».

Ivar rispose col sorriso più sornione che lei gli avesse mai visto fare e la provocò con malizia: «Mi insegnerai tu, allora?». Ammise che gli sarebbe piaciuto vederla prendere il comando, per lui sarebbe stato molto interessante. Nel frattempo continuava a far scorrere le mani sulla pelle bollente della giovane, meditando se spogliarla di nuovo, o aspettare di stuzzicarla ancora un po’.

In tutta risposta, lei tornò a baciarlo, dopo aver replicato il sorriso pieno di eccitante astuzia del ragazzo, confermando che sì, avrebbe potuto insegnargli qualche trucchetto. Non che fosse così esperta, in realtà aveva solo un paio di esperienze alle spalle, ma la sessualità era vissuta in modo drasticamente diverso nel mondo moderno, dove in qualche modo s’impara grazie ad una miriade di strumenti. Nell’antichità non era così scontato tutto ciò che sanno le persone dell’età contemporanea.

Il primo passo che mosse Ivar per dimostrare quanto fosse disposto a mettersi in gioco ed a fidarsi di lei anche in quel contesto pressoché sconosciuto, fu permetterle di spogliarlo, stavolta completamente. Quei primi secondi di estrema intimità furono per il giovane dominati da un’importantissima quantità d’ansia, che non gli rendeva semplice focalizzarsi sulla voce di Hylde. Si sentiva sbagliato sotto ogni punto di vista.

La ragazza sentiva di avere tra le mani una grossa responsabilità e, se si fosse fatta prendere dall’insicurezza, avrebbe sicuramente rovinato tutto, ogni singolo progresso fatto fino a quel momento. Così smise di pensare eccessivamente e si lasciò guidare dal suo istinto.

Osservò le gambe di Ivar, segnate da tanti anni d’inattività, scarne e magre, coi muscoli appena accennati. Lui si reputava ripugnante, ma lei non lo vedeva così. Erano solo una parte del corpo e non gli avrebbe mai fatto portare sulle spalle quel logorante senso d’inadeguatezza. Gli baciò con tenerezza ogni centimetro di quelle gambe parzialmente inerti e il primo pensiero di lui fu di fuggire, di farla allontanare da sé e di fermarla, ma, dal comportamento di Hylde, capì che in quella stanza solo lui provava ribrezzo. Con iniziale fatica, si rilassò, godendosi le labbra della propria donna, che iniziarono a risalire sul suo corpo, accendendogli di nuovo la passione, non appena i baci si soffermarono sul ventre, sul petto, ovunque. Lei si soffermò anche sulle labbra di Ivar e poi gli disse: «Continuerò a baciarti ovunque, ogni giorno, fino a quando non comincerai davvero ad apprezzarti e a non sentirti più in imbarazzo.».

Lui tornò a guardarla, con un viso che lasciava ben poco all’immaginazione, sul quale era visibile quanto la volesse, e rispose, con malizia: «Se questa è la cura, allora spero di non guarire mai.».

Il resto della nottata proseguì senza intoppi, attraverso gli insegnamenti di Hylde, ed Ivar si dimostrò un allievo perfetto, che imparava in fretta, oltre che un amante attento, voglioso di darle sempre più piacere. Lei dovette sforzarsi con tutta la sua volontà per non permettere all’intera città di udire le proprie urla, mentre per il ragazzo, vedere la propria donna crogiolarsi nel desiderio, grazie alle azioni da lui compiute, fu un innesco per la propria autostima, rendendolo decisamente meno spaventato all’idea di fare l’amore con lei. Da quel momento in avanti, l’avrebbe vissuta con più leggerezza e gioia.


Poco prima dell’alba, ebbero il risveglio più traumatico della loro vita. Brandr spalancò la porta della camera senza troppe cerimonie, svegliando Ivar e Hylde di soprassalto, i quali dovettero alzare le coperte fin sopra al mento per coprire le loro nudità, con grosso imbarazzo.

La giovane shieldmaiden, materializzatasi nella stanza coi capelli in disordine e l’aria vagamente assonnata, segno che anche lei si fosse svegliata da poco, sbuffò, ignorando le loro urla, che le intimavano di uscire subito, e disse, senza ammettere repliche: «Smettetela, non c’è tempo.». Poi si rivolse personalmente a Hylde, con tono perentorio: «Dobbiamo tornare a casa prima che spunti il sole, per prepararci al viaggio.». Detto questo, girò i tacchi e uscì, richiudendo la porta alle sue spalle, ma prima che i due ragazzi potessero tirare un sospiro di sollievo, aggiunse un’ultima cosa, urlando dall’altra parte della parete: «Ti aspetto qui, torniamo insieme.».

Era davvero molto presto, non aveva neanche iniziato ad albeggiare e ciò si rifletteva sulle temperature, percepite come gelide, che li facevano stare bene solo se protetti da quel confortante strato di coperte e pellicce sul letto. Si poteva già sentire l’allegro cinguettare degli uccelli selvatici dalla finestra socchiusa, dalla quale filtrava una leggera brezza.

Ancora sbigottiti dal brusco risveglio, Hylde e Ivar si scambiarono uno sguardo stravolto, guardandosi i visi solcati da profonde occhiaie per aver dormito troppo poco, e, memori della notte appena trascorsa insieme, si baciarono, rubando qualche secondo solo per loro. Tutta la camera era testimone di ciò che avevano vissuto poche ore prima, tutto quel disordine provocato dai loro vestiti caduti a terra e dalle coperte scomposte, adagiate sui loro corpi un po’ alla rinfusa. L’essersi svegliati l’uno di fianco all’altra li aveva fatti sentire ancora più amati e desiderati.

La magia del momento venne però distrutta dal continuo bussare di Brandr contro la porta, mentre li incitava a far veloce, e ciò li costrinse a rivestirsi e congedarsi in fretta e furia, ma non prima di ripromettersi che avrebbero viaggiato insieme, sulla stessa nave, come precedentemente accordato.

Le due sorelle si fiondarono all’esterno dell’abitazione, procedendo lungo la strada principale in direzione delle immense porte della città che davano sulla foresta. Molte persone si trovavano già al lavoro, controllando le vele, collaudando e verificando un’ultima volta la tenuta di funi e corde varie, ultimando i carichi di rifornimenti ed armamentari nelle stive, nonostante si fosse palesato solo un minuscolo raggio di sole e la visibilità fosse ancora soggiogata da un’oscurità persistente. I costruttori avevano ripreso i lavori presso le fortificazioni dei punti più sensibili di Kattegat. Gli schiavi ed i servitori correvano repentinamente lungo le strette vie, esaudendo i numerosi compiti assegnati dai loro padroni, mentre le guardie che avevano protetto la città durante la notte cedevano il proprio posto ai compagni più riposati.

Durante il tragitto, pressoché silenzioso, verso casa, Brandr e Hylde si scambiarono uno sguardo complice, facendo intuire l’una all’altra di aver passato davvero una bella serata.

La guerriera delle due si mostrò sorpresa e si espresse con la sorella in una rozza bonarietà, chiedendole: «Allora...». Le fece capire con un gesto abbastanza grottesco e volgare che si stava riferendo alla virilità di Ivar, se avesse funzionato, dato che su di lui giravano voci ben poco lusinghiere, da quel punto di vista.

Hylde trovò la domanda imbarazzante, un po’ fuori luogo, perché per risponderle avrebbe dovuto tradire la fiducia del suo uomo, e, in realtà, non era nemmeno il momento di parlarne, quindi optò per una risposta vaga: «Tutto ciò che accade nella camera di Ivar rimane lì, sorella.».

Brandr le fece l’occhiolino ed uno sguardo sornione: «Però ti si legge in faccia che hai passato delle ore divertenti.».

«Posso dire lo stesso di te!», ridacchiò la giovane dai capelli di fuoco, sviando l’attenzione da se stessa, mentre prendeva fiato durante quella corsa verso casa.

«Oh, puoi giurarci!», replicò Brandr con un certo entusiasmo, unendosi alla risata della sorella.


Nella penombra dell’ambiente circostante, avvistarono la loro abitazione ad una distanza non troppo considerevole, grazie alla luce filtrata attraverso la piccola finestra della stanza principale: il focolare era acceso, segno che Floki ed Helga fossero già svegli ed operativi.

Mentre seguiva la sorella attraverso quel sentiero di foglie, rovi ed erba sempre più brulla, Hylde fu attratta da un rumore alle sue spalle, scorgendo poi, tra gli alberi, una figura a lei nota e che in quei lunghi mesi non le era più capitato di vedere. «Precedimi tu. Dì a Helga e Floki che sto arrivando.», si pronunciò in direzione di Brandr con un tono che non ammetteva repliche.

La giovane donna guerriero sbuffò, perché conscia di non avere tanto tempo da perdere, e odiò l’idea di perder di vista Hylde in quei momenti concitati, specie vedendola dirigersi verso il bosco: «Hylde! Tra non molto il sole sorgerà e noi dovremo imbarcarci!». Urlò, cercando di raggiungere la sorella con la voce.

«Ti ho detto di precedermi. Fidati di me, sarò a casa prima che tu te ne accorga.». Hylde si era già allontanata, senza sentire la risposta di Brandr, probabilmente un’imprecazione o un insulto. Si avventurò nella selva, alla ricerca di quella figura che aveva intravisto quasi di sfuggita.

Eccolo là! Camminava con circospezione in una piccola radura circondata da abeti sempreverdi, dove il tempo sembrava avere una densità tutta sua, incombendo sull’animo delle persone con una forza straordinaria. Era stato difficile individuarlo, per Hylde, a causa della scarsa visibilità, ma ora era esattamente di fronte a lei, distante solo pochi passi, calmo, con l’aria di chi sa sempre qualcosa in più rispetto agli altri e non ha intenzione di rivelare alcunché.

«Salve, giovane figlia di Floki.», la salutò l’anziano veggente, contraendo il viso sfigurato in un sorriso aguzzo, che rivelava i denti malandati, soggetti a grave usura.

Hylde corrucciò lo sguardo ed incrociò le braccia sul petto, mettendosi sulla difensiva. Non si fidava ancora del tutto di lui, poiché le suscitava sempre un moto d’inquietudine difficile da gestire. Con sarcasmo, rispose a quel saluto: «Salve a te, vecchio saggio. Ho avuto l’impressione che stessi cercando me.».

Lui rise, accogliendola col suo solito criptico modo di fare: «Oppure eri tu stessa desiderosa di parlare con me.».

La ragazza scosse la testa con crescente irritazione: «E perché mai dovrei volerlo?». Le dava fastidio perdere ulteriore tempo, dando retta a quell’uomo, che non aveva neanche la minima volontà d’esprimersi con della coerenza.

Il veggente le rise ancora in faccia, prima di tornare serio: «E’ per questo che piaci così tanto agli dei, a Odino in particolare. E’ stato lui a volerti qui.». Quando la vide scuotere di nuovo la testa, commentò con tono quasi irritato, anche se lasciò intravedere un accenno di sorriso: «Sei più ostinata di quanto tu voglia ammettere, mai hai accettato il tuo destino, intersecandolo con quello dei figli di Ragnar. Fuoco e corvo, ricordi? Che tu lo voglia o no.».

Quelle parole la riportarono inevitabilmente al giorno in cui era piombata in quel mondo, rievocando le immagini che aveva visto nella sue mente: il fuoco ed un corvo volteggiavano e danzavano con un’inusuale naturalezza, attorno a lei. Il corvo era un tutt’uno con le fiamme, senza però rimanerne bruciato, per poi finire strozzato senza pietà da un serpente, che si era poi rivolto verso la ragazza, aggredendola con quelle fauci enormi ed i denti aguzzi. Quella visione, se così si poteva definire, l’aveva spaventata a morte, sul momento, ma Hylde, da allora, aveva deciso che non le avrebbe dato troppa importanza.

Come sempre, non sapeva perché quel vecchio indovino fosse a conoscenza di quei dettagli che lei sola poteva sapere. Al suo cospetto, si sentiva esposta, preoccupata e confusa, perché sapeva che da lui non avrebbe mai ottenuto delle vere risposte alle sue domande, le avrebbe sempre fornito delle frasi enigmatiche, le quali non avevano lo scopo di confortarla.

«Non mi è mai piaciuto credere nel Destino.», commentò Hylde, dopo quella piccola pausa riflessiva.

«Non ha importanza ciò che credi, ma solo quello che senti senza nemmeno averne coscienza.», fu la lapidaria risposta del veggente, prima che si girasse, intenzionato a sparire nuovamente nel folto della vegetazione.

«Aspetta!». Le parole le uscirono di bocca senza che lei potesse controllarle. L’anziano si fermò, in attesa che lei completasse la propria richiesta, così Hylde deglutì rumorosamente e gli espose la domanda: «La spedizione sarà favorevole per noi? Per il nostro popolo?».

Fino a qualche mese prima, non avrebbe mai creduto che, un giorno, si sarebbe trovata lì, a far domande sul futuro ad una persona pressoché sconosciuta, come se fosse davvero convinta che potesse delucidarla sul proprio destino. Una parte di lei voleva disperatamente crederci, ed era difficile farla convivere con quella più razionale.

«Lo sarà.», fece lui, voltandosi con estenuante lentezza.

«Ci saranno perdite importanti?», chiese lei, tremando in modo visibile sia per il freddo, sia per la paura di udire una risposta più negativa di quanto si aspettasse.

«Ogni azione militare comporta la sua dose di vittime, giovane Hylde.», rispose il veggente con ovvietà, ma per lei non era abbastanza.

La ragazza scosse la testa e cercò di spiegarsi meglio, di fare la domanda giusta: «Intendo dire, perderò qualcuno che amo?». Si sentiva tremendamente incoerente nel continuare a cercare dei riscontri nelle parole dell’indovino, odiava dare così spazio alle proprie paure.

Ci fu una pausa, come se il vecchio saggio stesse rimuginando su quella domanda troppo diretta. Si oscurò, facendo intuire la sciagura contenuta in quella risposta: «E’ inevitabile, ma è dalle perdite del cuore che dovrai riguardarti maggiormente, e no...», continuò, leggendole quasi nel pensiero, «...non potrai fare nulla per evitarlo, anche se gli dei ti sono favorevoli.».

Quel presagio nefasto provocò un ulteriore brivido nel corpo già tremante di Hylde, che si sentì ancor più turbata di quanto non fosse. Non ebbe neanche il coraggio di chiedere chi le sarebbe stato portato via. Era certa che lui non si sarebbe mai sbilanciato così tanto, e, in fondo, non era così importante avere un responso preciso, perché l’intensa volontà di non perder nessuno la fece reagire con grinta. «Non permetterò che questo avvenga.», replicò, serrando i pugni. La irritava sapere che le parole in apparenza senza senso del veggente l’avrebbero gettata in uno stato di grande agitazione, nonostante tutta la determinazione dimostrata, e che, per quanto volesse evitarlo, avrebbero avuto il potere di tormentarla.

Fece rotta verso casa, accompagnata dalle risate del saggio, molto divertito dal modo in cui la ragazza avesse sfidato le sue previsioni, forse gli dei stessi.


Il sole spuntò limpido e pieno di vita, investendo con spettacolari giochi di luci gli anfratti tra un fiordo e l’altro, illuminando Kattegat in tutto il suo splendore. Le navi erano pronte a salpare ed i numerosi partecipanti alla spedizione iniziarono a salirci sopra, passando attraverso il grande molo, attorno al quale si era radunata una folla popolosissima.

Floki, Helga, Brandr e Hylde trovarono la regina nell’atto di porgere i propri ossequi ai figli di colui che un tempo era stato suo marito, rammaricandosi dell’impossibilità, per lei, di vendicarlo in loro compagnia. «Che gli dei siano con voi.», augurava ai fratelli Lothbrok con pudica fierezza, ergendosi al di sopra della tensione venutasi a creare tra lei e loro, esattamente come quando aveva offerto loro di continuare a vivere serenamente a Kattegat da uomini liberi, pur sapendo che fossero anche figli della sua eterna rivale e pur sapendo che, prima o poi, avrebbero cercato vendetta per la madre. Forse, quel rispetto provato nei loro confronti era un modo per rendere omaggio all’amore ancora bruciante per Ragnar, o forse faceva parte del suo personale percorso di redenzione per aver assassinato Aslaug a sangue freddo.

Invece, ebbe un occhio di riguardo per suo figlio Bjorn e lo abbracciò come una madre preoccupata farebbe, provando a controllare la propria apprensione: «Sii prudente, figlio mio. Che gli dei ti donino protezione e conforto.».

«Vendicherò Ragnar anche per te, madre.», replicò Bjorn con virile sicurezza, accennando un solenne inchino con il capo, prima di voltarsi e salutare la propria famiglia, a partire da sua moglie Torvi, dal viso inquieto, e per finire i suoi bambini, con particolare attenzione per Hali, a cui si rivolse con tono solenne: «In mia assenza, in quanto figlio maggiore, sarai l’uomo di casa. E cosa fanno gli uomini?».

Hali gonfiò il petto con onore e rispose entusiasta al padre: «Combattono e si prendono cura della famiglia!». Si poteva riconoscere molto bene la felicità negli occhi del ragazzino, quando il padre gli accarezzò la testa, scompigliandogli i capelli.

Prima d’imbarcarsi, Floki, accompagnato dalla famiglia, si fermò di fronte a Lagertha, per dirle addio in attesa di far ritorno in città, spinto dall’amicizia che li legava da anni, e la stessa cosa fece Helga.

«Fate buon viaggio, amici miei. Fate attenzione.», si preoccupò di dire loro la regina, chiudendoli in un abbraccio informale, lasciando da parte tutte le convenzioni regali. Helga e Floki, invece, augurarono un’estate ricca e tranquilla sia per lei, sia per Kattegat stessa.

Lagertha riservò quel caloroso trattamento anche per Brandr, congratulandosi con lei per essere una delle più talentuose sheildmaiden della città e augurandole il favore degli dei.

Arrivò il turno di Hylde, che accennò ad un inchino colmo di rispetto, ma Lagertha la fermò, mettendole le mani sulle spalle per farla rialzare. Il suo viso era severo, ma presentava un piccolo sorriso che le incurvava un angolo della bocca, mentre le augurava un buon viaggio e le diceva: «Confido in te, riportali a casa sani e salvi.». Indicò con un cenno in direzione di Helga, Floki e Brandr.

Hylde annuì con serietà, spinta da un profondo senso di rivalsa dopo la discussione avuta con il veggente, soffocando con tutta la sua forza di volontà la profonda paura che lui potesse aver ragione. «Farò tutto il possibile.», promise, prima di percorrere il molo e salire sulla nave, assieme alla sua famiglia ed ai fratelli Lothbrok. Incrociò, per un istante, lo sguardo con quello di Munin, la quale si trovava in piedi, vicino alla base della passerella lignea che portava alle navi. Si strinsero le mani e si sorrisero in un silenzioso addio, privo di parole troppo superflue, così come era sempre stato il loro rapporto.

Un vento moderato le soffiava sul viso e così si strinse nel pesante mantello, che avrebbe fatto del suo meglio per proteggerla dal freddo, dalla pioggia e dall’acqua del mare durante il viaggio. Non riusciva a star ferma a causa dell’adrenalina.

Ivar, seduto al suo fianco, le prese la mano e la strinse tra le sue, donandole un inaspettato conforto, in quella giostra di emozioni che si mescolavano nel suo cuore senza accennare a fermarsi.

I corni risuonarono in tutta la baia quando, una ad una, le navi e i drekar cominciarono ad allontanarsi dal molo, facendo rotta verso il mare aperto, dando il via a quella crociata vendicativa, che avrebbe portato morte e terrore nelle terre di un popolo che, per troppo tempo, aveva giocato con la forza distruttiva dei vichinghi. Molto presto, ne avrebbe dovuto affrontare le tragiche conseguenze.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15


Il raffinato lavoro di Floki nel realizzare quella flotta fu palese fin da subito agli occhi di Hylde: i drekar erano solidi, ottenuti da legno di ottima qualità e così incredibilmente spaziosi, tanto da riuscire a contenere una trentina di guerrieri, senza contare le stive basse, ma capienti. Dagli alti alberi maestri scendevano delle intersecate reti di funi e corde utili per governare le enormi vele che, se utilizzate in presenza del giusto vento, restituivano un po’ di sollievo a coloro che avevano il compito di remare. Le pareti esterne erano adornate da una schiera di rotondi scudi variopinti. Era stupefacente come quei mezzi perfetti riuscissero a stare a galla ed al contempo fendere le onde del mare, scivolandoci sopra come se stessero volando.

L’immensità del mare faceva sembrare quelle enormi navi infinitamente piccole.

Era andato tutto bene nel tragitto attraverso i fiordi. Avevano intravisto interi villaggi, paesaggi meravigliosi fatti di boschi pieni di rigogliosa vegetazione, monti, promontori e coste dalle incalcolabili altezze. Sebbene continuasse a reagire con stupore di fronte a quelle bellezze naturali, Hylde era comunque abituata a tutto ciò. Poi erano sfociati nel mare aperto, la terra era sparita ed una vastissima distesa d’acqua aveva preso a confondersi con il cielo, facendola sentire minuscola.

Questo flusso di coscienza era la prova definitiva di come la sanità mentale della giovane stesse cominciando a vacillare. Viaggiavano ormai da giorni, ma della terraferma ancora nessuna traccia, nonostante i fratelli Lothbrok e Floki continuassero a ribadire di essere sulla rotta giusta.

Certo, l’aver dato di stomaco per la maggior parte dei giorni precedenti non l’aiutava: le navi erano senza dubbio molto solide e di ottima fattura, per quel tempo, ma ovviamente erano soggette alle innumerevoli oscillazioni provocate dalle onde. E, in quel viaggio, non c’era stata la fortuna di aver sempre un mare particolarmente calmo.

Pioveva per molte ore di seguito, il vento soffiava con grande impeto, mettendo alla prova la resistenza di tutti, anche dei guerrieri più resistenti e avvezzi ai lunghi viaggi via nave. Il freddo, molto più pungente nelle giornate ventose, penetrava nei vestiti fino a raggiungere le ossa, provocando brividi violenti a chiunque. La pioggia, insieme all’acqua salmastra, che s’infiltrava nelle imbarcazioni attraverso onde dalle altezze considerevoli, contribuivano ad acuire la sensazione di gelo, impedendo ai vestiti di asciugarsi in tempi brevi. Erano tutti esausti, anche se molti non lo davano a vedere.

Le riflessioni un po’ nevrotiche di Hylde venivano incoraggiate anche dalla noia, dall’impossibilità di tenere la mente occupata con tante attività diverse. L’unica soluzione, per lei, fu quella di distrarsi in ogni modo possibile e cercare il lato positivo di una situazione che dal suo punto di vista era al limite dell’assurdo, ma che in realtà rappresentava solo un viaggio ordinario, in quell’epoca.

La prese come un’occasione per conoscere ancora meglio quel mondo in cui era stata immersa a forza e che apprezzava ogni giorno di più per la resilienza ed intelligenza dimostrate. I vichinghi erano un popolo semplice, sì, a tratti rozzo e privo di compassione, ma dall’ingegno straordinario e dal grande spirito d’avventura. Questo si evinceva soprattutto dagli strumenti alquanto stupefacenti utilizzati per navigare ed orientarsi nella vuota vastità del mare aperto, come le bussole solari, o le pietre del sole, costituite da un minerale chiamato calcite, grazie al quale era possibile individuare la corretta posizione del sole, anche in presenza di un cielo nuvoloso, sfruttando un gioco di doppia rifrazione della luce.

«E’ una cosa spettacolare!», esclamò Hylde con uno stupore molto genuino, non appena ebbe trovato l’accecante riflesso del sole, mentre osservava il cielo attraverso la pietra. Lo individuò facilmente in quella coltre così spessa di nuvole che era il manto celeste, riempiendosi di un puro entusiasmo che fece sogghignare Floki con la sua caratteristica risata acuta.

Si era avvicinato a Hylde, circondata da Ivar e Bjorn, i quali, pur non andando sempre d’accordo, si mantenevano in rapporti cordiali per il bene comune ed una pacifica convivenza, mentre le spiegavano come funzionassero gli strumenti di navigazione.

Si mise a sedere su una botte, accanto a loro, ed iniziò a raccontare: «E’ stato Ragnar a farci usare per primo questi metodi. Prima di allora, si preferiva fare razzie sicure a est, seguendo rotte già percorse tante volte, mai avevamo osato imbarcarci verso ovest, verso l’ignoto.». Floki parlava come se stesse narrando una favola a dei ragazzini riuniti attorno al fuoco, mostrando un entusiasmo quasi infantile, unito ad una gestualità teatrale, per dare colore alla propria storia: «Dovete sapere che il nostro conte non era nemmeno convinto ci fossero delle terre ad ovest, non ci avrebbe mai dato il permesso di partire, o di usare le sue navi per andare dove nessuno si era mai spinto...».

«E allora cosa avete fatto?», chiese Ivar, rapito da quel racconto su suo padre, probabilmente era la prima volta che lo ascoltava da qualcuno che c’era davvero, al fianco di Ragnar.

Bjorn era un po’ meno sorpreso, perché all’epoca era già un ragazzino, aveva assistito a quegli eventi in prima persona, ma Hylde lo intravide mentre sorrideva, forse ripercorrendo con la mente i ricordi della sua infanzia.

«Lo abbiamo sfidato!», rispose Floki spalancando i grandi occhi scuri truccati di nero. «Abbiamo costruito una nave in gran segreto e siamo partiti, insieme a pochi altri compagni, prima che le guardie del conte potessero fermarci!».

Hylde sorrise, lo poteva quasi vedere nitidamente: un Floki giovane, spregiudicato ed incurante delle regole sociali, molto più ribelle e bellicoso di adesso, che si era addolcito con l’età e la paternità.

«Inutile dirvi quanto fossi preoccupata, quando se ne andarono.», si unì Helga, sedendosi accanto al marito ed appoggiando la testa sul suo braccio. Dopo di lei, arrivarono anche Ubbe e Brandr, la quale prese posto di fianco a Hylde, seguiti da Hvitserk e Sigurd, attirati dalla curiosità che veniva inevitabilmente stuzzicata dai racconti così piacevoli del vecchio costruttore di navi.

Floki baciò con amore il capo della moglie, replicando: «Oh, dolce Helga, facevi bene ad esserlo, perché Thor ci mise alla prova, ponendo una violenta tempesta sul nostro cammino.».

«Come quella della scorsa notte?», commentò Hvitserk, dopo essersi avvolto nel suo pesante mantello di pelliccia.

«Mai sentiti tuoni come quelli!», replicò Sigurd di rimando, con un sorriso condiviso da tutto il resto dei presenti.

Floki scosse la testa con enfasi: «No, giovani Lothbrok, nulla a che vedere con il temporale di ieri. Posso giurarvi che ve ne accorgereste, se Thor decidesse di scatenarvi addosso tutta la sua potenza... E quella notte, batteva il proprio martello sull’incudine con una ferocia tale da generare dei tuoni assordanti. Le onde del mare erano alte come i giganti e ci fecero quasi affondare.». Guardò verso l’orizzonte, come immergendosi nei ricordi più belli che avesse, ripercorrendo con la memoria quegli istanti: «Dopo non molto tempo, venimmo ricompensati sbarcando proprio nel regno di Northumbria. Eravamo giovani, pieni di speranza e sempre alla ricerca di nuove avventure. Non avrei mai pensato che, un giorno, avrei ripercorso questa rotta per vendicare la morte del mio migliore amico.».

Con enorme tristezza, l’anziano Floki concluse: «Eravamo convinti che saremmo vissuti in eterno.». Di fronte all’evidente malinconia del marito, Helga non poté fare a meno di accarezzargli la schiena con fare consolatorio.

Anche Hylde si sciolse nel vederlo così sofferente e nostalgico, tanto che fece di tutto per trattenere le lacrime che cercavano di uscirle dagli occhi tremanti. Poteva sentire con tutta se stessa quella tristezza, ma non voleva che tutti la vedessero piangere, sarebbe stato troppo imbarazzante, quindi si morse il labbro inferiore con moderato impeto, nel tentativo di bloccare la propria commozione.

Accanto a lei sedeva Ivar, che ovviamente capì con una sola occhiata quello che lei stesse provando, dimostrando quanto entrambi riuscissero a comprendersi senza l’ausilio delle parole, l’amava così tanto che avrebbe imparato anche a comunicare col pensiero, se fosse stato necessario. Di solito avrebbe fatto una battuta per tirarle su il morale, ma comprese che non era intenzione della ragazza mostrare a tutti i presenti il proprio stato d’animo, quindi mostrò un gran rispetto per i suoi sentimenti e si limitò ad accoglierla silenziosamente tra le sue braccia, baciandola sulla tempia, mentre le passava le mani tra i capelli scompigliati dal vento di salsedine.

«Sono sicura che, adesso, Ragnar sia qui accanto a noi, ripercorrendo in nostra compagnia le vostre gloriose imprese.», fece Brandr, con l’intento di far rasserenare suo padre, il quale, infatti, annuì e sorrise per quanto fosse verosimile quell’ipotesi.

Si unì Bjorn, col cuore alleggerito dal peso di quei ricordi: «Dopo essersi rifocillato nella grande sala del Valhalla ed aver brindato con tutti gli dei.».

Suscitando l’assenso concitato di tutto il gruppo, Hvitserk replicò: «E noi lo vendicheremo, com’è giusto che sia, con la stessa violenza con cui gli inglesi l’hanno ucciso. Pagheranno e soffocheranno nel sangue che loro stessi hanno versato.»


I giorni di quella traversata, percepita come infinita, sembravano trascorrere troppo lentamente e Hylde non poteva sempre godere della presenza di Ivar, il quale divideva il proprio tempo tra lei ed i suoi fratelli, con cui pianificava le mosse da intraprendere una volta sbarcati, ripassando su una rudimentale cartina la geografia dei luoghi e delle città di Northumbria.

Se i momenti passati coi fratelli non facevano altro che innervosirlo, poiché non si sentiva pienamente ascoltato e le sue idee non venivano prese davvero in considerazione, essendo lui il più giovane, quelli trascorsi con Hylde, al contrario, rappresentavano un vero toccasana per il suo spirito così intrepido ed irrequieto.

Amava raccontarle di tutto ciò che aveva visto ed imparato grazie all’incursione nel Wessex in compagnia di suo padre, la prima ed unica affrontata insieme a lui. Era stata la sola occasione per conoscere meglio quel genitore così lontano e distante, ritrovando davvero quell’uomo idolatrato dai poeti di tutto il mondo conosciuto, così abile, così furbo e scaltro nel conoscere le debolezze dei propri nemici, studiandone ogni caratteristica con grande intelligenza. Ed Ivar era sicuro di aver legato con lui, una volta dimostratogli il proprio valore ed intelligenza, che prescindevano il suo non poter usare le gambe, cosa che addirittura aveva spinto Ragnar ad abbandonarlo nei boschi quando era solo un neonato. Avrebbe desiderato più tempo da trascorrere insieme a lui, per recuperare anche solo in parte quello perso durante la sua infanzia, era sicuro che avrebbero potuto fare tante cose insieme, perfino mettere a ferro e fuoco l’intera Inghilterra.

Hylde lo ascoltava con grande piacere, rapita da quei racconti così tanto sentiti, grazie ai quali Ivar si apriva e lasciava libero spazio alle proprie sensazioni senza la paura di esser giudicato. Secondo lei, erano quelli i migliori momenti da passare in coppia, persino meglio di quelli passati a coccolarsi, o baciarsi. Amava sentirsi vicina ad Ivar , soprattutto mentalmente, amava ascoltarlo e discutere con lui, anche di argomenti che non facevano altro che esporre le loro differenti visioni del mondo.

Nei momenti passati senza il suo uomo, Hylde restava in compagnia degli altri fratelli Lothbrok, o della sua famiglia, soprattutto con Helga, la quale l’aiutava ad affrontare il mal di mare senza dare troppo nell’occhio. Non voleva che le altre trenta persone su quella nave venissero disturbate dal suo continuo stare male, anche se non era l’unica ad esser ridotta in quelle condizioni.

Era pallida ed emaciata, perché aveva deciso di nutrirsi solo dello stretto necessario per non svenire, riducendo così i rischi di dare di stomaco. Lasciava pendere testa e braccia dal bordo della nave, sfinita ed immensamente stanca, mentre Helga la rassicurava con tono materno, accarezzandole la testa e, all’occorrenza, tenendole i lunghi capelli dietro le spalle.

«Ieri ho vomitato di fronte ad Ivar. E’ stata la cosa più imbarazzante della mia vita.», si lamentò Hylde sconsolata, con una vena quasi infantile, rimettendosi a sedere e bevendo un po’ d’acqua per recuperare dei liquidi. Aveva la voce, di solito squillante, molto roca e gli occhi lucidi, che risaltavano nel pallore del suo viso.

All’udire quelle parole, Helga scoppiò a ridere e tentò di rassicurare colei che ormai era la sua secondogenita: «A meno che non sia convinto di stare al fianco di una dea, non credo si lamenterà se ti mostri umana, ai suoi occhi.». Quella donna era incredibile, aveva il potere di risolvere ogni dubbio con una sola frase.

La giovane annuì, prendendosi un altro minuscolo sorso d’acqua, odiandosi per esser così fragile: «Come ci si abitua al mare?». Appoggiò la testa pesante contro la parete della nave.

«Col tempo, bambina mia. Solo col tempo.», rispose Helga con serafica tranquillità, dopo aver preso posto accanto a lei. Poi la guardò per qualche secondo, come elaborando una domanda che aveva conservato nella sua mente, senza mai renderla esplicita: «Cosa ti turba davvero?».

Alzando lentamente il viso solcato dalle occhiaie scure, Hylde rispose con serenità, togliendosi un peso che si portava dentro dalla partenza: «Poco prima di salpare, ho avuto modo di parlare con quello che credo essere l’indovino di Kattegat. Le sue parole mi hanno turbata, ci rimugino sopra ogni volta che rimango da sola.».

«Ecco perché vaghi sulla nave alla disperata ricerca di qualcuno con cui dialogare. Una volta hai quasi spaventato Hvitserk, pensava di trovarsi di fronte a un fantasma.». Fu Brandr a parlare, unendosi alla conversazione.

Helga non poté fare a meno di sorridere, e lo stesso fece Hylde, rispondendo con la stessa ironia: «Lo racconta ancora? Spero si ricordi di aggiungere anche la parte in cui ha urlato in modo particolarmente acuto e divertente.». Scosse la testa, mentre continuava a ridere: «La mia faccia deve esser proprio ridotta male.».

Quando tutte e tre ebbero smesso di sogghignare al pensiero di Hvitserk, un ragazzo alto e ben piazzato come i fratelli, che tanto si era fatto valere durante le incursioni nel Mediterraneo, terrorizzato da una Hylde pallida come un cencio, Helga tornò con serietà all’argomento principale: «Cosa ti ha rivelato il veggente? Puoi dircelo?».

Si rabbuiò, la giovane, sotto lo sguardo attento delle silenziose Brandr ed Helga, ripensando a quel presagio così negativo e cercando un modo per riportarlo senza farle preoccupare maggiormente: «Ha detto che la spedizione sarà favorevole per il nostro popolo...». A queste parole, madre e figlia tirarono un sospiro di sollievo, era sempre una bella sensazione ricevere una buona notizia, pur sapendo che a breve sarebbe arrivata la batosta.

Hylde continuò con aria molto seria: «... ma perderemo delle persone. Io in particolare subirò delle “perdite del cuore”, le ha definite in questo modo.».

Brandr non sembrò così sorpresa, avendo una mente alquanto razionale: «Si tratta di un’azione militare, sicuramente sai che questo comporta dei rischi.».

Era ovvio, Hylde aveva già fatto pace con questa consapevolezza, quindi provò a spiegarsi con maggior precisione: «Ciò che mi turba è la sensazione di pura angoscia che si è risvegliata, nel mio spirito. La paura di non poter salvare tutti, di vedervi arrivare su un carro pieno di feriti, o peggio, mi insegue ovunque io vada, come un’ombra. La posso tenere a bada, controllarla, ma è sempre lì, pronta a tendermi un agguato.».

«Capisco cosa vuoi dire, io provo lo stesso. Più si avvicinano i giorni in cui dovremo combattere, più fa male. L’unica cosa che posso fare è imbrigliare quella paura e sperare che non sfugga nei momenti meno opportuni.», replicò la sorella con accortezza, sapendo che lei, invece, avrebbe dovuto affrontare in prima persona il campo di battaglia. Ognuno di loro si scontrava con paure così differenti, ma che in fondo li rendeva tutti uguali.

Strinse Hylde in un abbraccio, prima di raggiungere di nuovamente Ubbe, che l’attendeva nel lato opposto della nave.

«Vorrei esser coraggiosa almeno la metà di lei.», commentò Hylde con viva ammirazione, osservando la sorella farsi spazio con sicurezza tra i guerrieri.

«Lo sei, a modo tuo.», prese la parola Helga. «Stai cercando il tuo posto in un mondo così diverso da ciò a cui sei abituata. Per te è nuovo ciò che per noi è perfettamente normale. Parli come se provenissi da molto lontano, hai dei modi di pensare e agire a volte profondamente diversi dai nostri... e lo so perché le madri conoscono sempre i tormenti dei figli.».

La giovane si commosse nel sentirsi apostrofare da lei come “figlia”, le faceva molto piacere sentirlo dire ad alta voce. Dopodiché, non si scompose esageratamente, Helga era troppo attenta ed intuitiva nei confronti della propria famiglia, per non accorgersi di quanto Hylde fosse estranea agli usi e costumi del popolo vichingo, sebbene non immaginasse la sua vera provenienza.

«Non so più chi sono da un po’, non so neanche se credere davvero alle parole del veggente, ma allo stesso tempo mi chiedo perché non dovrei credere a ciò che ho visto con i miei occhi. Sai, lui ha dimostrato di sapere cose su di me che non dovrebbe essere in grado di conoscere, però la mia testa mi dice che è troppo strano, che forse sono solo coincidenze... Non so più nulla, Helga.». La ragazza parlò con una certa concitazione, che ben faceva trasparire la sua confusione. Il viso era sciupato e gli occhi persi nel vuoto.

«Non importa, stai affrontando un viaggio dentro te stessa, è normale che i dubbi ti accompagnino. Io però sono convinta che gli dei, in cui credo fermamente, ti abbiano condotta qui perché sapevano che ci avresti fatto del bene, andando oltre le nostre differenze.». L’abbracciò forte, esprimendo un amore incondizionato: «Non devi salvarci tutti, basta che tu faccia del tuo meglio, ogni giorno, come fa ogni persona che vedi. E noi saremo al tuo fianco sempre, per farti stare bene a tua volta, perché siamo la tua famiglia. Non ti lasceremo mai da sola ad affrontare tutto questo.».

Con il cuore ricolmo di affetto, Hylde ricambiò quel tenero abbraccio, che le fece ricordare la sensazione di calore provata nello stare tra le braccia di una madre, la propria madre. Helga le ricordava così nitidamente la sua mamma, la quale, ne era sicura, continuava a vegliare su di lei, ovunque essa fosse.

Dopo che si furono ricomposte, a Hylde venne in mente un modo iconico per dimostrare quanto amore provasse per la sua nuova casa, segnando così quel momento, in cui prese una decisione per se stessa: “Faccio parte del popolo vichingo. Mi prometto di afferrare con grinta tutto ciò che c’è di buono.”. Si toccò una ciocca dei rossi capelli disordinati, passandola tra le dita esili e giocandoci un po’, per poi chiedere ad Helga, quasi timidamente: «Potresti insegnarmi ad acconciarli? Non ho idea di come fare.».

Quella richiesta scatenò la gioia della donna. Più volte aveva tentato di convincerla a farsi fare almeno una piccola treccia, così com’era d’abitudine tra tutti coloro che decidevano di portare i capelli lunghi, ma Hylde si era sempre ostinata a farli ricadere sulle spalle, tenendosi aggrappata all’unica caratteristica rimastale della sua vita precedente. Era però giunta l’ora di andare avanti.

Helga le fece qualche treccia ai lati della testa, impedendo così alle ciocche ribelli della ragazza di scenderle davanti agli occhi e lasciandole il viso ben esposto, ma decisero insieme di lasciare sciolto il resto dei capelli, per proteggerle la nuca dal freddo e dal vento. Li avrebbero raccolti una volta sbarcati, per lavorare più comodamente.

Si avvicinò a loro Ivar, che presentava a sua volta una faccia a dir poco provata dal lungo viaggio, e si rallegrò nel vederla così acconciata, col viso sottile ben visibile e non più nascosto dalla voluminosa cascata color rosso fuoco. Curvò un angolo della bocca, da cui emerse un sorriso adorabile, che faceva ben intendere quanto gli piacesse guardare la propria donna. Esclamò, facendola arrossire: «Ora fai davvero parte della famiglia!».


Il carro della dea Nòtt scese su di loro, portando con sé il suo velo di oscurità. La temperatura era talmente bassa che Hylde iniziò ben presto a non sentirsi più né le mani, né il naso, né parecchie altre parti del corpo, così si accucciò di fianco ad Ivar, che l’abbracciò a sua volta per recuperare un po’ di calore e tremare di meno.

Rimasero stretti, rannicchiati in un angolo solitario, ad osservare il manto scuro che era il cielo, impreziosito da pietre lucenti sottoforma di stelle. Erano migliaia e quello spettacolo, nel mondo moderno, lo si poteva gustare solo se si aveva la fortuna di stare in luoghi isolati, non ancora contaminati dal passaggio dell’uomo, lontani dalle luci cittadine, o dall’inquinamento.

«Splendenti con gli occhi di Freyja.», commentò Hylde col viso rivolto verso le stelle, imitando la voce acuta e le movenze teatralmente esagerate di Floki.

Ivar scoppiò in una risata fragorosa. La notte era il momento più difficile da superare, con la sua tremenda escursione termica, perché il freddo mozzava letteralmente il respiro di chiunque. Passarla con Hylde al suo fianco significava vivere quei momenti prima di crollare in un sonno profondo tra le risate e con gioia, col cuore traboccante di un amore mai provato per nessuno. L’ultima sensazione che provava, prima di addormentarsi, era la consapevolezza di quanto la sua vita fosse migliore e di quanto lui stesso fosse migliore, grazie a quella buffa ragazza.

L’alba arrivò, come per tutti i giorni precedenti, troppo presto. Stavolta, però, i due furono oltremodo entusiasti di abbandonare le tenere braccia del sonno, perché furono svegliati da un grido di speranza: «Terra!».

Si alzarono di scatto e guardarono oltre il bordo della lignea nave. Videro la costa, in lontananza, e tirarono un sospiro di sollievo, mentre venivano baciati dai timidi raggi di un sole appena spuntato ad est.

Il viaggio era terminato.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***



Capitolo 16



 
Le navi furono ormeggiate vicino alla costa, nei pressi di un’insenatura naturale scavata nella roccia, così da essere ben riparate e non lasciate alla completa mercé dei nemici, o degli agenti atmosferici.

Grazie al sapiente lavoro delle squadre di esploratori, mandate in avanscoperta subito dopo lo sbarco, ebbero la definitiva conferma di essere approdati nel regno di Northumbria, e poterono quindi procedere per stabilire un accampamento in tutta sicurezza, nei boschi non troppo distanti dalla costa.

Secondo il resoconto degli esploratori, non c’era traccia dell’esercito nemico nei dintorni, per parecchie miglia, di conseguenza c’erano ottime possibilità che avessero qualche giorno di vantaggio. La cosa non doveva andare sprecata, perché il re sassone sarebbe stato avvertito a breve del loro arrivo e, probabilmente, era già pronto ad affrontarli.

Il clima era molto più umido, se messo in comparazione con quello della Scandinavia, soprattutto se ci si avventurava nei fitti boschi di conifere. Era un territorio poco incline a farsi baciare dal sole estivo, preferiva essere avvolto dalla nebbia marina, oppure, in assenza di essa, veniva ricoperto da abbondanti nuvole grigie, che portavano con loro degli scrosci d’acqua dall’intensità variabile, i quali si concretizzavano, il più delle volte, in una pioggia leggera, quasi nebulizzata.

Tutto questo non faceva godere nessuno delle temperature estive, a Hylde non sembrava neanche di esser sbarcata dalla nave, perché quell’umidità era in grado di scavarle fin dentro le viscere. Però non c’era motivo di lamentarsi, erano tutti vivi, presto avrebbero potuto scaldarsi davanti al fuoco e stare all’asciutto, coperti dalle tende dell’accampamento. A dirla tutta, le bastava non avere più lo stomaco sottosopra, aver ripreso colore sul viso smunto e gustarsi la possibilità di sgranchirsi le gambe su un terreno non soggetto alle oscillazioni delle onde del mare. Fu il suo spirito a giovare maggiormente di queste belle sensazioni, si sentiva più attiva e propositiva, avendo recuperato il suo buonumore, pronta ad affrontare il duro lavoro che l’attendeva.

Mentre tutti loro si avventuravano nella selva, con l’intento di raggiungere il luogo designato per la costruzione dell’insediamento, Hylde teneva d’occhio Harald Bellachioma, perennemente accompagnato dal fratello più giovane, chiamato Halfdan. In quei mesi, la ragazza si era sentita fortunata a non averci più avuto a che fare, ma era anche venuta a conoscenza delle mire espansionistiche del re, intenzionato a diventare sovrano di tutti i norreni. Questo la portò a chiedersi se avesse fatto bene, a non dare troppa importanza allo scambio di denaro intercorso tra lui e il conte Egil, durante il Jólablót. Non riusciva a darsi una spiegazione razionale del perché Harald le suscitasse tutta quella diffidenza.

Il re si voltò verso di lei, sentendo gli occhi della ragazza puntati su di sé, e le rivolse un cenno con la testa, ben acconciata con una lunga treccia che raccoglieva tutti i suoi lunghissimi capelli. Hylde rispose a quel sorriso affabile, decidendo di stare al gioco e di non destar sospetti. Dopodiché, si sistemò il carico che stava trasportando sulle proprie spalle e proseguì senza più voltarsi verso l’uomo, attraverso quel sentiero inglese, tra abeti e betulle.

Ivar, che si era sempre mosso accanto alla propria donna, teneva, con grande orgoglio, il passo dell’intero esercito, pur muovendosi col solo ausilio delle braccia, poiché era impossibile, in quel momento, utilizzare la sua biga. Non che fosse un problema, gli sarebbe stata portata più tardi, una volta stabilito l’accampamento.

Ad un certo punto, vide Floki camminare da solo, in silenzio, e decise allora di affiancarlo, per passare un po’ di tempo insieme all’uomo, recuperando quello perso nei mesi precedenti, a causa dei preparativi. L’idea piacque anche a Hylde, che si mantenne qualche passo più indietro, concedendo loro lo spazio di cui necessitassero. Li guardò con un sorriso intenerito, pensando a quanto fossero carini e sereni l’uno di fianco all’altro, la loro amicizia traspariva anche solo dai loro gesti, era palese quanto fossero legati.

Durante il cammino, la ragazza si fermò qualche volta per riprender fiato, su quel sentiero ora in salita. Il suo fisico, ancora provato dalla burrascosa traversata e bisognoso di rimettersi in forze con del cibo, non le concedeva la stessa resistenza degli altri.

Venne affiancata da Sigurd, che le chiese se stesse bene e se avesse bisogno di aiuto, avendola vista così arrancante.

Lei quasi si sentì arrossire per la vergogna di essere risultata estremamente goffa e declinò con gentilezza l’offerta, pur rincuorata da quel gesto d’amicizia: «Ce la faccio, è il mio corpo che mi rema contro, ma sono sicura che una volta mangiato qualcosa sarà tutto più semplice.». Poi sorrise, aggiungendo con tono scherzoso: «Anche se sto molto meglio, già stare sulla terraferma mi ha fatto riprendere un po’ di colore. Hvitserk non dovrà più preoccuparsi dei fantasmi.».

Sigurd rise di gusto, ripensando al clamoroso spavento del fratello ed aiutando la ragazza ad arrampicarsi sulle rocce in pendenza, che era necessario superare, per raggiungere la radura designata per l’accampamento. Le fece un’altra domanda: «E come procede con lui?». Indicò con la mano in direzione di Ivar, che continuava a restare al fianco di Floki.

Hylde pensò attentamente a come rispondere, perché da una parte non voleva ferirlo, gli si leggeva negli occhi che i suoi sentimenti per lei non erano cambiati, ma dall’altra non le piaceva l’idea di mentirgli. Optò quindi per la verità, dimostrandogli quanto lo rispettasse come amico: «Stenterai a crederlo, ma ci comprendiamo davvero bene.». Lo guardò con viso sincero: «Lo amo, con tutta me stessa.».

La consapevolezza di non poterla avere, di vederla così felice con il fratello che stimava di meno, gli fece male, il giovane uomo iniziava a comprendere quanto l’amicizia con Hylde fosse preziosa. Non avrebbe mai rinunciato a quelle chiacchierate con lei. Replicò, riservandole la stessa fiducia: «E’ vero, per come lo conosco io faccio fatica a crederci. Ma ciò che mi interessa è saperti al sicuro, non voglio che tu ti senta minacciata, soprattutto insieme ad Ivar.».

Nella sua vita, Hylde aveva già conosciuto la cocente delusione di un amore non corrisposto, di conseguenza comprese molto bene lo sforzo di Sigurd nel pronunciare quelle parole. Il suo animo si commosse, e lei gli fu grata: «Ti ringrazio, Sigurd, per ciò che hai detto. Puoi stare tranquillo, sono al sicuro con lui.». In tutta risposta, il ragazzo sorrise, rasserenato.

La giovane tentò di alleggerire il discorso, domandandogli, a cuor leggero: «E tu? Con quelle belle donzelle di Kattegat?».

Ridacchiando in ricordo della sua interessante nottata prima della partenza, Sigurd rispose con altrettanta leggerezza: «Nulla che possa essere raccontato ad una signora. Con nessuna è accaduto qualcosa di importante, se è questo che mi stai chiedendo.». Dopodiché ritornò serio, confidandole: «Credo che per essere davvero felice con una donna, io debba essere soddisfatto di me stesso. E non sarò soddisfatto fino a quando non sarò diventato un vero vichingo.».

Stupita, Hylde si complimentò con lui: «Questo è molto saggio da parte tua, Sigurd. Sono davvero orgogliosa di te.».

«Non mi serve a nulla esser saggio, quando non ho ancora dimostrato di valere qualcosa sul campo di battaglia.», replicò il giovane, scuotendo la testa in segno di dissenso e prendendo sulle proprie spalle il carico pieno di medicine e unguenti di Hylde, per darle un po’ di sollievo.

Lei non si trovò d’accordo: «Tutti voi credete che esista un solo ed unico modo di esser vichinghi e vi dimenticate delle vostre peculiarità, senza sfruttarle. In questo, tu ed Ivar vi assomigliate molto.».

«Stento a credere che io e lui possiamo assomigliarci in qualcosa, Hylde. Comunque, non ho tempo di crogiolarmi in questi discorsi.», fu la secca risposta di Sigurd. Lo pensava davvero, credeva che lui e il fratello minore fossero agli antipodi, così distanti nello spirito e nei comportamenti. A dirla tutta, sentiva di disprezzarlo e non avrebbe mai sopportato di essergli simile.

Quasi scavandogli dentro, Hylde lo guardò con quegli occhi color ghiaccio, incrociando le braccia sul petto ed impedendogli di sviare il discorso: «Voi due non capite proprio quanto vi assomigliate e quanto potreste giovare dalla vostra reciproca comprensione, invece che continuare a odiarvi in modo così feroce.». Prima che lui potesse controbattere, lei continuò, dimostrandogli di aver già intuito cosa volesse dirle: «E poi, so per esperienza cosa significhi sentire l’urgenza di farsi valere, soprattutto quando ci si sente messi da parte dalla propria famiglia. Però, se ho capito qualcosa vivendo con Floki, è che qualsiasi opinione esterna mi annienterà se prima non imparo a rimaner fedele a me stessa.». Gli puntò il dito indice all’altezza del cuore, facendolo rimanere immobile, come se fosse ipnotizzato: «La tua stessa voce deve essere quella più degna di ascolto. L’esser soddisfatto di te stesso deve nascere da dentro di te, non da ciò che dimostri agli altri. Tu ed Ivar dovrete capirlo, prima o poi.».

Sigurd rimase senza parole, spiazzato da quel monologo così profondamente sentito, e, dentro di sé, decise che ci avrebbe riflettuto sopra. Ridacchiò con affetto: «Ti piace proprio elargire consigli, non è vero?».

Hylde fece spallucce con indifferenza: «Non mi piace vedere infelicità negli occhi dei miei amici.». Recuperò il suo carico e si allontanò con un sorriso, ringraziandolo per l’aiuto. Era vero, le piaceva davvero tanto.

Raggiunse Ivar nella radura ancora spoglia ed in procinto di ospitare il temporaneo insediamento di quell’immenso esercito, e gli lesse, nel viso espressivo, uno sforzo sovrumano nel controllare la gelosia, scatenata dal vederla al fianco del fratello. Si abbassò e lo baciò sulle labbra, animata da un trasporto che provava solo con lui. Questo lo calmò, ma non lo fermò dal chiedere di cosa stessero parlando lei e Sigurd. Pronunciò il nome del fratello con una punta di disprezzo nella voce.

Dentro di lei, Hylde era parecchio divertita da quell’espressione di gelosia disegnata sulla faccia di Ivar, ma si sforzò di rimanere seria: «Facevo due chiacchiere esistenziali con un amico e gli ho dato qualche consiglio. Potreste andare molto d’accordo, se solo lo voleste.».

Il ragazzo sorrise, amava intravedere il fuoco del suo animo riflettersi nelle sue parole e nei suoi gesti. La trovava adorabile e molto più saggia di quanto lei credesse.


Una volta raggiunta la radura, che si trovava a metà strada tra le due capitali di Northumbria, Bamburgh e York, iniziarono i lavori di costruzione dell’accampamento, il quale doveva esser costruito con una certa rapidità, in modo tale che fosse ben difeso e poi facile da smantellare, nel caso fossero stati costretti ad una fuga rapida. Per questo motivo, furono costruite delle tende private solo per le personalità più importanti, mentre al resto delle truppe furono riservate delle grandi tende comuni, più semplici e quasi del tutto aperte, simili a dei moderni gazebo. Vennero allestiti dei focolari con delle impalcature in legno, adatte ad arrostire la carne della selvaggina catturata. Di legno erano anche le difese poste a delimitare i confini del campo, fatte da tronchi ben appuntiti.

Hylde si coordinò coi fratelli Lothbrok, specie con Bjorn, per prender le decisioni definitive riguardo alla costruzione delle aree di soccorso. Concordarono tutti insieme di allestire quello principale direttamente all’interno dell’accampamento, destinato alla degenza dei feriti, mentre quello secondario sarebbe stato più funzionale nell’insediamento vicino al campo di battaglia, che avrebbe avuto il ruolo di zona di primo soccorso.

Nelle parole e nei gesti della ragazza regnavano una fierezza ed una determinazione che la facevano apparire come un vero capo, si evinceva dalla sicurezza con cui si rivolgeva a Bjorn, permettendosi addirittura di contraddirlo, qualora si fosse trovata in disaccordo con lui. Aveva preso il suo ruolo molto seriamente e non poteva permettere al suo timore reverenziale nei confronti del comandante di prendere il sopravvento, ne valeva della salute delle persone che lui stesso le aveva affidato.

Il comportamento di Hylde la rese ancor più affascinante agli occhi di Ivar, che sembrava rapito dalla caparbietà con cui dirigeva i suoi sottoposti e tutti i lavori a lei correlati. Ne era già profondamente innamorato, ma da quel momento la stimò ancora di più, apprezzando quel carisma che la ragazza trasudava anche solo dal serio tono di voce, o dallo sguardo autorevole. Molto spesso, Ivar si ritrovava ad ammirarla, fiero come non mai della sua crescita personale, senza provare un minimo d’invidia nei suoi confronti, perché erano compagni alla pari, che affrontavano la vita insieme, mano nella mano.

«E’ davvero brava.», Ubbe gli si era avvicinato, avendo notato la luce negli occhi del fratello, intento ad osservare da lontano l’operato della sua amata.

Ivar non osò staccare gli occhi da Hylde, ma annuì con grande consapevolezza, dimostrando a Ubbe di averlo sentito, di essere attento anche a ciò che gli accadeva attorno.

Il fratello maggiore sorrise con fare quasi paterno e gli scompigliò i capelli: «Non ti ho mai visto così perso per qualcuno.».

«Io brucio per lei, fratello.», Ivar si passò le mani sulla testa, sistemandosi i capelli e mostrando la sua aria strafottente. Il solito ghigno che gli incurvava un angolo della bocca era ben stampato sul suo viso, ma dentro di lui continuava ad esser vivo ciò che tutti, incluso lui stesso, pensavano: non se la meritava.

Ubbe si abbassò alla stessa altezza di Ivar e gli intimò: «Cerca di non rovinare tutto. Lei è un dono sia per te, che per noi tutti.».

«Farò del mio meglio, fratello.». Parlò con cinico sarcasmo, levandosi con un gesto di stizza il braccio che Ubbe gli aveva messo attorno alle spalle. Si allontanò, spinto da una rabbia viscerale. Odiava che il fratello avesse evidenziato in modo così esplicito una delle sue paure più grandi.


Hylde coordinava il lavoro dei servitori a sua disposizione con ordini semplici e precisi, cercando di non risultare eccessivamente autoritaria, non sopportava il modo in cui quelle povere persone venissero trattate ogni giorno da uomini e donne appena più in alto di loro nella scala gerarchica di quell’enorme esercito.

Voleva che, almeno quando erano costretti ad eseguire le sue direttive, si ritrovassero a lavorare per qualcuno che li vedesse come esseri umani e si comportasse con loro di conseguenza, senza maltrattarli e senza farli vivere nella paura costante.

La ragazza si rivolse poi all’unico guaritore uomo che fosse partito insieme a lei da Kattegat, chiedendogli di aiutarla ad ergere la grossa tenda destinata alla degenza dei feriti.

Lui si chiamava Einar ed era un uomo sulla cinquantina, ancora nel pieno della sua forma fisica, se non si contava l’accenno di pancia dovuto al suo frequente consumo di birra. Aveva dei capelli chiarissimi, tendenti al platino, mantenuti ad una lunghezza non troppo esagerata e legati in piccole trecce che gli correvano su tutta la testa, mentre gli occhi ricordavano il colore delle nocciole.

Quando erano in città, Hylde aveva avuto solo pochissime occasioni di lavorare in sua compagnia ed ora stava riscoprendo quanto burbero fosse il suo carattere, era una vera testa calda, però era anche una persona che si dava da fare e che non si tirava indietro neppure di fronte ai lavori più duri.

Quel giorno, lo vide particolarmente assorto nei propri pensieri, cosa che non gli permetteva di essere davvero concentrato su ciò che stesse facendo, o sulle parole Hylde gli rivolgeva. Ciò rallentava tutti quanti e la ragazza non poté più permettergli di fare così.

Fu così che la giovane si bloccò ed affrontò l’uomo faccia a faccia, pur essendo lui più imponente di almeno una spanna. «Si può sapere che ti prende?», gli chiese mettendo in pausa il lavoro, con tono che tradiva la sua apprensione e che non la fece sembrare affatto autorevole. Infatti, Einar la ignorò, proseguendo ad innalzare da solo la struttura che avrebbe sostenuto l’intera tenda, fallendo miseramente. Atteggiamento che fece montare la rabbia dentro Hylde, la quale si sforzò di mantenersi calma e razionale.

Si avvicinò all’uomo e gli mise una mano sulla spalla, chiamandolo per attirare la sua attenzione. Lui si bloccò e sbuffò, perché parlare non era il suo forte. Preferiva lavorare standosene in disparte, rimuginando in completa solitudine sui pensieri che lo turbavano.

«Cosa ti prende?», si ripeté lei, mostrandosi più paziente di come un capo sarebbe, soprattutto nel mondo vichingo.

Con riluttanza, Einar si fece guidare dalla ragazza lontano da orecchie indiscrete. Rimase in silenzio, ma il suo viso era una maschera vuota ed i suoi occhi si esprimevano meglio di lui, pieni com’erano di dolore. Hylde aveva imparato a riconoscere i traumi, e lui non si sentiva ancora abbastanza al sicuro con lei da parlargliene, così mollò la presa.

Gli si parò davanti con la giusta serietà e gli parlò, mostrando una voce ferma: «Senti, il tuo talento come guaritore è innegabile. Per questo motivo ho bisogno che tu sia lucido, soprattutto quando saremo al campo di battaglia. Quindi, vai a farti un giro e tranquillizzati. Bevi, bacia tua moglie, fai qualsiasi cosa tu voglia, ma quando deciderai di tornare, voglio che la tua concentrazione sia al massimo.».

Provava fastidio nel dare ragione ad una persona così giovane, che non sapeva nulla né del mondo né di lui. Il viso corrucciato di Einar si fermò su di lei per un momento, era indeciso se usarla come bersaglio della sua frustrazione, o se lasciar correre, ascoltando quel consiglio tutto sommato legittimo.

L’uomo decise per la seconda opzione, facendo prevalere il suo buonsenso, così si rilassò ed accettò la proposta della giovane Hylde: «Va bene, grazie.». Il ringraziamento arrivò con timidezza, quasi con velata vergogna, mentre lui si allontanava con passo sicuro, interrotto ogni tanto dal leggero cedimento del suo ginocchio sinistro, rendendo palese la presenza di una vecchia ferita.

Hylde lo osservò per qualche secondo, prima di tornare al lavoro, per poi scoprire che era stato portato a termine, nel frattempo, dalle altre due guaritrici dell’accampamento. I loro nomi erano Solveig e Thora, donne giovani, nel pieno dei loro anni migliori e con cui Hylde aveva un rapporto più confidenziale, avendo passato diverso tempo con loro, tra i malati di Kattegat. Si fidava di loro.

«Non prendertela troppo, con Einar. Suo figlio è morto anni fa, nell’ultima spedizione di Parigi, a cui hanno partecipato assieme da guerrieri. Lui se l’è cavata con una brutta ferita, ma il figlio è stato brutalmente ucciso in battaglia.». A parlare fu Solveig, la più grande tra le due, avendo già raggiunto da qualche estate la soglia della trentina. Aveva un fisico muscoloso, con delle spalle forgiate da anni di lavori manuali, ed uno spirito battagliero, che ricordava quello di tante shieldmaiden. Il suo carattere era molto diretto ed istintivo, che spesso l’aveva portata allo scontro con Hylde e gli altri guaritori, soprattutto quando era venuto il momento di stilare un piano da seguire dopo l’approdo in Inghilterra. Non amava portar pazienza, pretendeva tutto e subito, ma, nonostante l’assenza di peli sulla lingua, era capace di tanto amore e dedizione, soprattutto verso il suo ruolo di curatrice e verso Siv, la sua amante, nonché guerriera del grande esercito di Kattegat.

Hylde non aveva ancora ben chiaro come fosse percepita l’omosessualità, nella società vichinga, soprattutto se vissuta alla luce del sole, come facevano loro due, anche se il clima che si poteva respirare era di una generale tolleranza. E, in verità, nessuno si sarebbe mai sognato di contraddire Solveig, soprattutto riguardo ad una cosa per lei così importante.

«Non ne avevo idea.», replicò Hylde con grande rammarico, tornando al comportamento di Einar.

Thora si unì al discorso, la sua voce era velata da una certa tristezza: «Ne è rimasto profondamente turbato, e sua moglie non volle più vederlo combattere. Arrivò persino a minacciare di lasciarlo, pur di costringerlo a lasciare le armi. Così lui imparò il mestiere del guaritore, almeno poteva salvare i figli degli altri.». Era una ragazza minuta, dal viso molto dolce, che rispecchiava la sua indole buona, a tratti ingenua. Era sempre rivolta verso il prossimo, ciò la rendeva una perfetta guaritrice e per questo Hylde l’apprezzava così tanto. Aveva gli occhi azzurri ed un viso grazioso, contornato da lunghi capelli castani con diverse sfumature bionde, i quali le ricadevano dietro le spalle e presentavano due piccole trecce che si univano dietro la sua testa, a differenza di Solveig, che teneva la sua folta chioma scura ben legata in un’unica treccia laterale.

Hylde prese atto con profonda commozione della storia traumatica di Einar, ma non poteva permettere che ciò le preoccupasse tanto da rallentare la tabella di marcia, perché, e ne era assolutamente certa, quei momenti pressoché tranquilli erano destinati ad esaurirsi molto presto.

Questo pensiero la turbò, facendo accelerare il battito del suo cuore, perciò si guardò attorno per un secondo. Cercò con gli occhi Ivar, che era in procinto di affrontare la sua prima, vera battaglia.

Lo trovò sulla biga costruitagli da Floki, era imponente tanto quanto i fratelli, mentre affilava la sua spada con una pietra e la lucidava con cura. Sembrava molto più grande della sua età, aveva già l’atteggiamento e lo sguardo di un uomo vissuto, per quanto, certe volte, cedesse agli impulsi e commettesse errori , come il giovane ragazzo che era.

Per un momento, Hylde desiderò con tutta se stessa che lui cambiasse idea, che non partecipasse a quella guerra. Non perché non credesse nella capacità di Ivar, era consapevole di quanto talento avesse come guerriero, ma perché il pensiero di perderlo, che gli accadesse qualcosa, era ciò che non la lasciava dormire di notte e ciò che le toglieva il respiro di giorno.

Ivar si sentì osservato ed intercettò subito lo sguardo della ragazza su di sé. Le sorrise istintivamente, non poté farne a meno e non riusciva mai ad evitarlo, ogniqualvolta posasse gli occhi su di lei. Hylde scoppiò d’amore per lui, ricordandosi con precisa immediatezza cosa, allo stesso tempo, la mantenesse in vita.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 17 ***


--- Note dell'Autrice ---

Buongiorno a tutti! Come state? Spero molto bene!

Eccomi tornata con il Capitolo 17 che, per impegni vari, non sono riuscita a concludere entro mercoledì scorso.

Ed è per questo che vi comunico il nuovo giorno di pubblicazione: la domenica. Questo perché in settimana avrò anche del lavoro da fare, quindi il tempo per la scrittura scrittura si è ridotto di molto.

Farò di tutto per pubblicare sempre una volta alla settimana, ma purtroppo, ci saranno delle volte in cui i tempi di attesa dovranno per forza allungarsi.

Vi lascio al Capitolo! Come sempre, se vi è piaciuto, lasciate una recensione! Mi fa sempre piacere ricevere la vostre opinioni!

Un abbraccione!





 
Capitolo 17

 
Quel primo ed estenuante giorno in Inghilterra volse al termine quando il cielo s'imbrunì, riempiendosi di stelle e di una splendida luna crescente, che veniva talvolta nascosta alla vista dagli imprevedibili movimenti delle nuvole. Il calore dei focolari era un ottimo rimedio contro il calo della temperatura, però, grazie agli dei, non pioveva, elemento molto importante per far sì che tutti potessero godersi un pasto caldo all'aria aperta.

Nell'accampamento regnava una calma serafica, in netto contrasto con la concitazione di sole poche ore prima. Ognuno cercava di non fare troppo rumore, era meglio rimaner vigili, soprattutto di notte, per scongiurare ipotetiche imboscate favorite dall'oscurità del fitto bosco. Quelle erano solo delle precauzioni, in realtà tutti i dintorni erano ben sorvegliati da guardie e guerrieri che si districavano perfettamente nell'oscurità. Dopotutto, era meglio non attirare troppo l'attenzione, poiché si trovavano in territorio nemico.

Hylde partecipò alla cena attorno ad uno dei focolari, prendendo posto accanto al suo compagno Ivar, già in procinto di divorare la sua porzione di carne arrostita, in compagnia dei suoi fratelli e Brandr, che a loro volta sembravano provati da quella giornata così piena e desiderosi solo di un meritato riposo.

Aveva congedato i suoi aiutanti e tutti i servitori al tramonto, fortunatamente la preventiva organizzazione, iniziata già a Kattegat, aveva dato i suoi frutti, permettendo alla maggior parte dell'allestimento dell'area di soccorso di esser già del tutto completata. Ciò la faceva sentire molto tranquilla, meno ansiosa di quanto avesse pronosticato e libera di viversi quei momenti conviviali.

Mentre tutti chiacchieravano e addentavano quella meravigliosa carne di cervo con la stessa voracità degli animali affamati, in un clima talmente disteso che quella non sembrava affatto una delle sere prima di una violenta battaglia, Ivar avvolse il braccio attorno alle spalle della ragazza e la baciò sulle labbra, dopo essersi scambiati uno sguardo complice, in trepidante attesa di poter passare anche del tempo da soli.

Anche il ragazzo sembrava essere di buonumore, felice di partecipare a quelle chiacchiere senza capo né coda. Di solito, se la conversazione non riguardava nulla di particolarmente interessante, preferiva starsene in disparte, a covare quel rancore che, almeno per quella sera, sembrava aver archiviato. Il suo viso ed i suoi occhi spiccavano nei giochi di luce creati dalle fiamme davanti a lui.

Con loro c'era anche Bjorn, che aveva abbandonato la veste di comandante per viversi la cena con la tranquillità di cui avesse bisogno, senza inutili filtri, ma non appena vide Hylde seduta di fronte a lui, non poté fare a meno di chiederle come stesse procedendo il lavoro presso la zona di soccorso.

«Non ti rilassi mai, tu.», commentò una Brandr in procinto di dissetarsi con della birra contenuta in un semplice boccale. Tutti reagirono con delle risatine, proprio per l'atmosfera gioviale in cui erano immersi, anche Bjorn, il quale si giustificò alzando le mani insegno di resa, con la stessa ironia del commento: «E' mio dovere chiedere.».

Cordialmente, Hylde rispose: «Procede tutto secondo i piani. Sarà pronta entro il tramonto di domani, se non ci saranno intoppi, ma la mia squadra è ben organizzata. Sono sicura che non ci sarà alcun problema.». Lesi leggeva in faccia quanto fosse fiera delle persone che lavoravano insieme a lei, esprimeva una tale solarità da riscaldare il cuore di tutti loro, riuniti attorno al fuoco.

Hvitserk partecipò a quello scambio di parole: «A proposito dei tuoi guaritori, pensi che Thora possa essere interessata a me?». Mostrava il classico atteggiamento di un uomo che celava il suo autentico interesse dietro un atteggiamento ironico e spavaldo.

«Non è ad altri che devi chiedere, Hvitserk. Solo Thora può darti la risposta più giusta per lei.», sentenziò Hylde con aria ironica, interpretando il ruolo di una vecchia saggia, per poi aggiungere: «Sappi solo che, se oserai ferirla facendo l'ape che visita tutti gli altri fiori del prato, dovrai vedertela con me.». Si meravigliò di come si fosse talmente ambientata da aver iniziato a parlare per metafore, come erano le usanze antiche, mentre prendeva atto del suo istinto protettivo nei confronti della giovane guaritrice, che le sembrava ancor più ingenua di lei.

Ivar per poco non si soffocò con la birra che aveva cercato di deglutire, di fronte all'espressione di Hvitserk in risposta alle parole della ragazza. Aveva sgranato gli occhi, dopo esser stato colpito dalla pungente impertinenza di Hylde, mentre Bjorn e Sigurd avevano seppellito i loro volti tra le mani, ridendo come non mai.

Brandr si staccò da Ubbe, che aveva già iniziato a sorridere durante il loro bacio appassionato, e si mostrò più stupefatta di quanto si aspettasse. «Beh, questa è una vera sorpresa.», esclamò, trattenendo una sonora risata.

Paonazzo divenne il viso di Hylde, così decise di nascondersi dietro al calice da cui si scolò un bel sorso, mentre manteneva gli occhi fissi davanti a sé e continuava a ripetersi mentalmente: "Non puoi averlo detto davvero.". Tentò di riparare: «Scusa, Hvitserk, è colpa della birra e del fatto che io mi senta fin troppo a mio agio con voi tutti.».

Il ragazzo le riservò uno sguardo un po' stranito e scosse la testa, tranquillizzandola: «Hylde, allora ci assicureremo che tu beva più spesso! Ci diverte molto questo tuo lato.».

Davanti a quel collettivo assenso, Hylde tirò un sospiro di sollievo, lasciandosi alle spalle parte dell'imbarazzo provato, e Brandr affermò, commossa, sollevando il proprio boccale: «La mia sorellina sta diventando grande e sicura di sé!».

Ivar, i cui occhi rendevano palese tutto l'amore provato per Hylde, fece lo stesso e si unì alla frase della shieldmaiden: «Lo è davvero, esta anche diventando brava a combattere...». Dopodiché si girò verso il fratello con la serpe nell'occhio e commentò, concludendola frase: «...sicuramente più brava di Sigurd che si allena da anni.».

Non avrebbe mai perso un'occasione così ghiotta per stuzzicare e prendersi gioco di lui, il quale reagì con uno sguardo gelido, ma, prima che potesse ribattere dandogli dello storpio, gli altri avevano già alzato i loro boccali per il brindisi. «Skal!», risuonò tra di loro, pronunciato con sentito trasporto, evitando l'ennesima diatriba tra i due.


Quando venne il momento di andare a dormire, in cui tutti iniziarono a prender strade diverse, in direzione delle proprie tende, Hylde e Ivar rimasero per ultimi intorno al fuoco, in una calda intimità tutta loro. Le fiamme del focolare danzavano sospinte dal vento leggero, creando dei suggestivi giochi di luce con le scintille createsi dall'ardere della legna.

Il ragazzo si chinò verso Hylde e le sussurrò all'orecchio, in un impercettibile bisbiglio: «Condividiamo la mia tenda.». Non era una domanda, la sua voce era priva di tono interrogativo e i suoi occhi blu chiaro non ammettevano repliche.

Hylde non si sarebbe mai tirata indietro, ma decise di stuzzicarlo, di non dargliela subito vinta: «Altrimenti?». I loro sguardi si equivalevano in malizia, si studiavano per capire l'una le emozioni dell'altro, come un predatore che attende pazientemente l'istante giusto per l'assalto alla sua preda.

«Altrimenti dovrò trovare altri modi per convincerti.». Ivar le passò prima le dita, poi l'intera mano sull'esile mandibola, senza stringere, e spostandole la testa di lato con delicatezza. Cominciò a imprimerle dei baci sul collo, il leggero contatto delle sue labbra sulla pelle di Hylde le provocò dei brividi lungo tutta la schiena, facendola sorridere e chiudere gli occhi, per godersi al meglio quelle attenzioni.

I baci di Ivar salirono verso l'orecchio della ragazza, che amò come lui si fosse sentito abbastanza a suo agio da stuzzicarla in quel modo, così sicuro e privo d'inutile imbarazzo. «Ho già provveduto a far portare lì le mie cose.», fu la definitiva risposta di Hylde, dopo essersi liberata dalla presa di Ivar ed avergli stampato un bacio sulle labbra, lasciandolo senza parole.

Quella tenda privata era di una semplicità molto spoglia, funzionale al suo scopo, ad essere smantellata e costruita velocemente, senza cadere ingrossi ritardi, o difficoltà di qualche tipo.

Un piccolo focolare, non troppo vicino al letto, il quale era stato arrangiato con della paglia e poche coperte, scoppiettava piano, dopo che i suoi bracieri furono mossi e riportati a nuova vita da Ivar. Egli si strofinò le mani fasciate per riscaldarle e generare calore.

Hylde si avvicinò alla bacinella d'acqua pulita, posta accanto alle sacche che contenevano tutti i loro effetti personali, come gli abiti puliti, e si sciacquò il viso procurandosi un po' di sollievo dalla stanchezza del giorno appena trascorso.

Il ragazzo la osservò rapito, mentre lei procedeva, senza alcuna vergogna, a ripulirsi dalla sporcizia accumulatasi sul suo corpo durante i lavori, e seguì con gli occhi il percorso tracciato dalle trasparenti goccioline d'acqua, che s'insinuavano in ogni piega ed anfratto del corpo di Hylde. Anche lui cominciò a lavarsi, ma non prima di aver ringraziato gli dei per quella visione.

Si stesero l'uno di fianco all'altra, con sguardi consumati dal desiderio, ed Ivar non si fece attendere, avendo ormai superato la paura di non essere abbastanza, per Hylde, a letto. Si baciarono con un'intensità tutta loro, facendo aderire i loro corpi alla perfezione, beandosi del loro calore e della sensazione delle loro pelli nude a contatto.

Tenendole le braccia bloccate sopra la testa, per grande gioia della ragazza, Ivar le fece scorrere una mano su tutto il corpo e le dimostrò quanto avesse imparato dalle sue parole così ben esplicitate durante la prima notte trascorsa insieme.

Ricaddero sullo scomodo giaciglio senza avere la forza, né la voglia, di rivestirsi e scelsero di non farlo, riparandosi solo con le coperte in tessuto spesso. Rimasero così, a contemplare il nulla con tacita soddisfazione, senza proferir parola, abbracciati e sorridenti. Ivar aveva rinchiuso Hylde tra le sue braccia, mentre lei rimaneva comodamente appoggiata a lui, usandolo quasi come un cuscino, e ciò non gli dispiaceva affatto.

Le accarezzava la testa con delicatezza estrema, dimenticandosi del guerriero forte e tutto d'un pezzo che era stato per tutto l'arco della giornata, rilassato, felice. Anche Hylde lo coccolava, affettuosa come sempre, riscaldata dal calore del corpo di Ivar.

In quel momento, fu portata quasi dall'istinto ad esprimere al ragazzo i propri dubbi: «Ti fidi di tutti i vostri alleati?».

Era una domanda così semplice, lineare e ad Ivar fece molto piacere saperla così interessata a qualcosa che per lui era pura quotidianità: «Devo. Sono fondamentali per avere anche solo una possibilità contro i Cristiani.». Poi la guardò e la vide un po'spaesata, come se stesse rimuginando su qualche argomento a lui sconosciuto: «Perché me lo chiedi? Hai dei dubbi su qualcuno?».

Hylde ricambiò lo sguardo, decidendo di rispondere in maniera molto diretta: «Re Harald. Non mi è mai piaciuto, fin da quando l'ho conosciuto.».

«E' un buon alleato, la sua fama lo precede.», spiegò Ivar, per nulla turbato dalle parole della giovane, la quale, però, si ritrovò spiazzata dalla semplicità con cui lui avesse ignorato la questione principale.

Infatti, Hylde protestò: «Ma lui vuole diventare re di tutti i Norreni! Come potete fidarvi di lui?».

«Grazie ai suoi uomini, siamo in grado di affrontare la Northumbria e il Wessex, Hylde. In tempo di guerra, siamo costretti a fare alleanze anche con chi potrebbe pugnalarci alle spalle.». Ivar si alzò leggermente e si appoggiò sul proprio gomito, girato di lato per osservare Hylde in modo ancor più diretto: «La politica è così, si pretendono e si restituiscono favori, con la consapevolezza che prima o poi qualcuno tradirà o verrà tradito.». Ivar sorrideva, per lui era pura normalità, anche se per lei fu quasi allarmante conoscere quel lato calcolatore e senza scrupoli, così come lo era tutto quel mondo.

«Ho paura che stia cospirando con Egil. Quest'inverno li ho visti, Harald gli ha consegnato una sacca piena di monete. Non ci ho fatto molto caso all'inizio, ma poi sono venuta a conoscenza delle mire espansionistiche di Bellachioma e del fatto che Egil non sia partito con noi.». Hylde era visibilmente preoccupata, tutto aveva molto più senso, ora che l'aveva detto direttamente.

Ivar si agitò, intimandole di abbassare il tono della voce: «Con chi altro ne hai parlato?». In risposta al "nessuno" di Hylde, lui sembrò sollevato, ma conservò parte della sua preoccupazione verso la sua donna: «Devi stare attenta a fare questo tipo di accusa, non deve sentirti nessuno parlare così del nostro alleato più potente ed influente, soprattutto lui stesso. Non te la farebbe passare liscia, specie se le tue ipotesi si rivelassero esatte.». Inoltre, come se gli fosse sopraggiunta nella mente un'idea geniale, il giovane ridacchiò con soddisfazione: «Se Egil riuscisse ad usurpare per davvero Lagertha, per noi, per me, sarebbe molto più semplice riappropriarmi di Kattegat senza scatenare l'ira di Bjorn.».

La giovane tremò per il disagio di averlo sentito fare quel tipo di discorso, che trovava, personalmente, deprecabile. Ciò la portò molto vicino al perdere le staffe: «Non puoi pensarlo sul serio! E' Lagertha, la madre di tuo fratello!».

Lui rispose a tono, rosso di rabbia, irrigidendosi: «Ha ucciso mia madre!». Tuonò, intimidendo la ragazza, che però non si scostò di un millimetro e continuò a mantenere lo sguardo indignato su quegli occhi blu, così tanto amati, anche quando si trovavano in profondo disaccordo.

Avrebbe tanto voluto discutere con quella stessa brutalità, ma, al contrario, si ritrovò a comprenderlo. Alzò piano una mano e, in un gesto gentile, l'appoggiò sulla guancia di Ivar, il quale tremava ancora dalla collera, dopo aver riportato a galla il ricordo della madre assassinata per mano di Lagertha. Hylde parlò con voce calma e affettuosa, sapendo quanto quei pensieri potessero fargli male: «So cos'ha fatto. Vorrei solo che questa catena di violenza si spezzasse, una volta per tutte.».

Ivar si tranquillizzò e posò la propria mano su quella della ragazza, che lo guardava con occhi dolci, medicina per il suo malumore: «Non si spezzerà mai, amore mio. Non in questo mondo.». Lo disse con una vena malinconica, piena di triste consapevolezza.

Si baciarono, suggellando una tacita tregua, consci del fatto che non avrebbero mai concordato del tutto su quell'argomento, ma non avrebbero mai permesso che che ciò li dividesse. Si abbandonarono al sonno, abbracciati l'uno all'altra e connessi da quell'amore scatenatosi tra di loro come una tempesta per mano di Thor.


Passarono non troppi giorni da quella notte e, sotto il cielo uggioso di una giornata alquanto tranquilla, tornarono all'accampamento gli esploratori incaricati d'intercettare l'esercito nemico. Avevano la stanchezza dipinta sui volti, ma ciò non li fermò dal riferire immediatamente cosa avessero visto: le truppe di re Aelle distavano a poche lune da loro ed erano dirette ad un'immensa radura, designata, con ogni probabilità, come luogo della battaglia.

Nessuno dei fratelli Lothbrok sembrò particolarmente turbato dalla notizia dell'imminente scontro, sapevano che re Aelle non fosse il nemico più pericoloso. La Northumbria non era un paese esteso e non godeva più dell'alleanza col ben più ampio ed organizzato Wessex. Ne erano convinti, la grande armata vichinga avrebbe sbaragliato senza alcun dubbio le milizie sassoni, era solo questione di tempo.

Cominciarono così i preparativi di per un secondo viaggio, stavolta attraverso l'entroterra sassone, per raggiungere il campo di battaglia. Nonostante Hylde non si trovasse a proprio agio, nella frenesia scatenatasi nell'accampamento, non si agitò, poiché lei e gli altri guaritori si erano già preparati ad un'eventuale partenza. I loro materiali erano già stati caricati su carri predisposti proprio per questo scopo. A loro non rimase altro che prepararsi, raccogliere le proprie cose e mettersi in cammino, al fianco dei guerrieri.

Hylde si legò ed acconciò i capelli in modo tale da non essere disturbata da essi durante gli istanti più concitati, le piccole trecce create da Helga sulla nave erano ora molto più numerose e strette, le correvano lungo tutta la testa, incontrandosi poi dietro di essa, in un complicato intreccio che alzava dalle spalle l'intera chioma rossa.

Il cuore pompava il suo sangue a ritmo frenetico, mentre la ragazza procedeva a chiudersi un bustino in pelle rinforzata sopra i comodi vestiti e ad una leggera cotta di maglia, le sarebbe servito come protezione, pur non partecipando direttamente alla battaglia. Mentre faceva passare tra gli appositi spazi i numerosi fili che avevano la funzione di chiudere quel bustino, coprendosi così addome, petto, spalle e parte dei fianchi, non poteva fare a meno di sentirsi estremamente preoccupata, non tanto per se stessa, quanto per Floki, Ivar e Brandr. Erano ottimi guerrieri, lo sapeva, avendoli già visti combattere, ma non poteva fare a meno di sentirsi persa e spaventata.

Seguirono tre lunghi giorni di cammino, che si rivelarono intensi oltre ogni previsione, specie quando venivano accompagnati dalle piogge incessanti. L'esercito si dirigeva verso il campo di battaglia durante le ore di luce, alternando il cammino a piccole pause per dissetarsi, cosa che aiutava a tenere alto il morale delle persone, distraendole dalla fatica.

I momenti più difficili, però, accadevano di notte. Grazie alle pellicce e al fuoco da campo, il freddo era sopportabile, ma a non esserlo era il costante timore di essere attaccati all'improvviso da una rappresaglia non prevista, prima dello scontro vero e proprio, e l'esercito era così immenso che poteva essere intercettato con grande facilità. A Hylde risultava impossibile riuscire a prender sonno facilmente, anche se perennemente tenuta sott'occhio da Ivar, che non l'abbandonava neanche per un secondo, pur di farla sentire al sicuro.


Nonostante tutto, arrivarono nei pressi di un'alta collina e Bjorn ordinò di stabilire l'accampamento nel boschi ai piedi di essa. Evidente era la motivazione di tale scelta, poiché, superata quella collina fatta di terra brulla e cespugli secchi, si accedeva con la vista ad una vastissima radura, proprio quella scelta dai Sassoni per il combattimento. Sforzando gli occhi, si poteva scorgere del fumo innalzarsi verso il cielo, facendo emergere la posizione del nemico, esattamente dalla parte opposta di quello spazio immenso, che sembrava concepito proprio per contenere l'altrettanto considerevole schieramento vichingo.

L'indomani, orde di uomini e donne armati di odio e desiderio di vendetta avrebbero tinto col sangue del nemico quel terreno spoglio e pressoché roccioso, coperto da rari ciuffi d'erba, e avrebbero combattuto nel nome di Asgard, i cui dei li avrebbero accompagnati in battaglia, orgogliosi del loro spirito bellicoso.

Hylde osservò i gesti di coloro che amava, seduti attorno a lei, mancava solo Helga, che era rimasta all'accampamento principale, al sicuro. C'era la concreta possibilità che quella fosse l'ultima volta in cui lei potesse posare gli occhi su coloro che erano diventati la sua nuova famiglia. La sua antica vita le aveva insegnato che il caso era spietato, imprevedibile e non faceva sconti a nessuno, mentre la sua nuova vita le stava dimostrando quanto il volere degli dei avesse quelle identiche caratteristiche e che solo pochi eletti potessero prevedere cosa essi avessero in serbo per tutti loro, quale destino li attendesse.

Bjorn, perfettamente a suo agio nel ruolo di comandante, manteneva un freddo controllo ed una lucidità fuori dal comune, come se il suo essere capo della spedizione avesse messo da parte il suo vero carattere, l'essenza della sua persona. Forse, però, era meglio così, era il suo modo di sopportare il peso dell'autorità.

Hvitserk, fomentato dal ricordo delle scorrerie nel Mediterraneo al fianco del fratello maggiore, non vedeva l'ora di partecipare allo scontro, la sua trepidazione era quasi visibile, attorno a lui, quando prese a far roteare la sua spada, esibendo qualche mossa di combattimento. Sigurd si unì a lui, dimostrando le proprie abilità. Non aveva mai partecipato ad un'azione militare ed ora il suo reale stato d'animo era messo a tacere da una viscerale voglia di rivalsa.

Brandr, affiancata dal fedele Ubbe, viveva con lui quegli istanti senza abbandonarlo neanche per un momento. Entrambi così poco inclini a mostrare in pubblico le loro vere emozioni, traevano la loro forza dallo stare insieme. Hylde allungò una mano verso la sorella, la quale la strinse sotto lo sguardo dolce ed estremamente umano di Ubbe, che, essendo uno dei figli di Ragnar più grandi, portava il peso dell'apprensione nei confronti dei fratelli, mentre cercava di farli andare il più d'accordo possibile e sperava che non perdessero la vita in battaglia, pur essendo quella una morte degna del rispetto di tutta la comunità norrena. Si comportava alla stregua di un genitore e ciò non veniva sempre compreso dai suoi fratelli più giovani.

Floki era ritirato in un silenzio contemplativo, evitava il contatto con chiunque, come se questo potesse in qualche modo distrarlo. Secondo Brandr, era un modo di fare normale, se si parlava di suo padre, perché era solito comunicare con gli dei, prima di combattere, chiedendo loro protezione e sostegno per coloro che amava e per se stesso.

Infine, gli occhi di Hylde ricaddero su Ivar, che sembrava esser nato per partecipare alle battaglie. Il suo sguardo era quello della concentrazione più assoluta, era come se contasse gli istanti che lo separavano dal momento in cui avrebbe potuto sfogare tutta la sua forza bruta, tutto quell'odio che nutriva nei confronti di un popolo che aveva segnato la condanna a morte di suo padre, che pregava un dio da lui non rispettato, che aveva umiliato e tradito la sua gente. Il blu delle sue iridi celava tutto questo, la sua rabbia incessante, che lo scavava da dentro, rendendolo un grande guerriero, e il giorno dopo lo avrebbe dimostrato con i fatti.

Hylde sapeva anche, purtroppo, che questa sua caratterista avrebbe potuto renderlo incosciente, se si fosse lasciato guidare solo da quelle emozioni, dal puro istinto pregno di forza distruttiva. Si avvicinò ad Ivar e gli afferrò con delicatezza il viso, posandovi sopra le mani gentili. «Promettimi che farai attenzione.», quasi lo implorò, cercando in lui uno spiraglio di buonsenso.

Per Ivar, il tenero viso di Hylde era sempre una ventata d'aria fresca, gli dimostrava tutto l'amore che lei provasse nei suoi confronti, continuando a preoccuparsi per lui, guardandolo con quegli occhi dighiaccio, ma capaci di tanto calore.

«Domani tornerò da te. Che gli dei siano i testimoni di questa mia promessa.», giurò lui con tutta la sua anima e, come accadeva sempre, la corazza attorno al suo cuore sembrò demolirsi di un ulteriore pezzo, quando il sollievo fece capolino sul viso di Hylde sotto forma di lacrime trattenute fino a quel momento.

Gli ricordava che avrebbe sempre avuto qualcuno a guardargli le spalle, pronto a sostenerlo e ad amarlo per quello che era, in quella landa desolata che era la sua vita. Quel mondo lo rifiutava costantemente, anche quando Ivar si adoperava in sforzi estenuanti per adattarvisi, ma, per gli dei, avrebbe lottato come mai nessuno si sarebbe sognatodi fare, per continuare a vivere, se questo significava avere più tempo da trascorrere al fianco di Hylde.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***



Capitolo 18



 
Il cielo grigio si era riempito di enormi nuvole, che in lontananza s'incupivano sempre di più, assumendo una sfumatura scura e minacciando, nel migliore dei casi, un potente scroscio di pioggia, nel peggiore, invece, una violenta tempesta. Nessun raggio di sole riusciva a penetrare quello spesso strato di cumulonembi e il vento cambiava continuamente direzione, sferzando con foga sui volti dei guerrieri, animati dall'adrenalina.

Due eserciti schierati faccia a faccia riempivano i lati opposti di quella radura così spoglia. Si osservavano e si studiavano in assoluto silenzio, in attesa di un comando, o un cenno, da parte dei rispettivi comandanti.

I soldati sassoni, perlopiù appartenenti alla fanteria, erano distribuiti in lunghezza con rigido rigore e ben ordinati. I loro corpi, protetti dagli usberghi in anelli di ferro e da elmi conici in metallo, erano quasi tutti cristallizzati nelle medesime posizioni. I più abbienti di loro facevano parte della cavalleria e si ergevano sui meravigliosi destrieri con una certa alterigia, come se si sentissero moralmente superiori non solo ai vichinghi, ma anche ai loro compagni di fanteria.

Re Aelle, circondato dai suoi migliori consiglieri, osservava tutta la scena da un'insenatura della collina, posta ad un'altitudine leggermente più elevata rispetto al resto dell'esercito. Il peso degli anni, che si riversava sul suo volto sotto forma di grosse rughe attorno agli occhi ed alla bocca, era nascosto dalla folta barba e dai numerosi capelli neri tendenti al brizzolato. La pesante corona con pietre preziose incastonate, l'armatura finemente ricamata con fili d'oro ed il grosso mantello purpureo, posizionato con dovizia sulle spalle, uniti allo stallone di ottima qualità che egli cavalcava, agghindato con briglie di tessuto pregiato, rendevano evidente il suo non prender parte direttamente alla battaglia. Avrebbe urlato gli ordini da quella posizione soprelevata, di vantaggio, senza correre rischi, lontano da ogni pericolo.

Dall'altra parte, i fratelli Lothbrok dominavano la prima fila, sullo stesso piano dei loro compagni di battaglia, il loro popolo. Gli sguardi fissi in avanti, verso il loro nemico mortale, quasi senza sbattere le palpebre, i loro visi erano sopraffatti dalla crudeltà con cui avrebbero combattuto e trucidato ogni sassone che avesse avuto il nefasto destino di capitare sul loro cammino. Avevano una sicurezza, una determinazione talmente forte da donar loro un'aura diversa, quasi eterea.

Il loro esercito, distribuito anch'esso in lunghezza, sembrava meno incline a mantenere un assetto ordinato, ogni guerriero, pur rimanendo al proprio posto, si muoveva senza sentirsi limitato da un'inflessibile disciplina. Nessun sassone poteva immaginare, dal loro atteggiamento libero, quanto in realtà i Norreni sapessero ascoltare ed eseguire in maniera celere gli ordini dei loro comandanti, quanto profondamente sentissero propria la causa per cui si ritrovavano a battersi, quel giorno, quanto rispetto provassero verso l'uomo che erano chiamati a vendicare. Ragnar Lothbrok, l'uomo più famoso della Scandinavia, viveva in loro, nei volti di quegli uomini e donne coraggiosi. Alcuni avevano deciso di dipingersi il viso con della tintura naturale, per rendersi più spaventosi agli occhi dei Sassoni, altri ringhiavano e si battevano i pugni sul petto, caricando il proprio stato d'animo, la loro voglia di combattere.

Uno stormo di corvi neri come la pece volteggiava sopra le loro teste, gracchiando a pieni polmoni come se li stessero incitando, a dimostrazione della vicinanza di Odino alla causa, quasi avesse voluto far sapere loro che li guardava e sosteneva con tutto il proprio essere.

Non appena Floki si accorse di quell'eclatante segno di supporto da parte degli dei, emise una risatina acuta, con gli occhi che brillavano di pura felicità. Gli era impossibile rimanere fermo, il suo spirito in rivolta lo portava a camminare avanti e indietro ad ampie falcate, così come gli permettevano le sue lunghe gambe, che gli donavano un'altezza slanciata, mentre, nel frattempo, sfidava i Sassoni con lo sguardo, senza distoglierlo. Si era anche fatto dipingere tutta la parte superiore della faccia e della testa calva da Hylde, cosicché parte dei tatuaggi venissero coperti dalla tintura nera, stesa in modo da far emergere, nelle parti in cui non era stata applicata, una grande runa, chiamata Tyr, la quale aveva una popolare funzione protettiva per i guerrieri in procinto di partecipare ad una battaglia. Era pronto come mai lo era stato, con la mano posata sulla testa della propria ascia, legata alla cintura.

In prima fila, come i suoi fratelli più grandi, si trovava Ivar, seduto sulla postazione della sua potente biga, trainata dal fedele destriero bianco che sembrava sentire lo stato d'animo del padrone, poiché scalpitava con impazienza e sbuffava ripetutamente dalle grosse narici. Passava in rassegna ogni singolo scomparto delle truppe nemiche con attenzione. Il suo sguardo era spietato, assetato di sangue, mentre giocherellava con un piccolo pugnale da lancio ben affilato, trasferendolo spavaldamente da una mano all'altra, e pensava a come avrebbero potuto far soffrire Re Aelle, una volta catturato, facendosi venire in mente delle idee, a suo avviso, molto interessanti.

Prima che il suono dei corni potesse propagarsi in tutta la radura, dando inizio alla battaglia, prima ancora che la fazione di Northumbria potesse tirare un sospiro di sollievo e sorridere per quanto esiguo fosse l'esercito di Kattegat, se comparato al proprio, il resto della Grande Armata Vichinga si mostrò, riempiendo tutto lo spazio disponibile su quella collina, riempiendo la vista di chiunque avesse avuto il coraggio di guardare.

Dalle insenature dell'altura, apparvero gli uomini di tutti i clan scandinavi che avevano preso parte alla battaglia, compresi quelli di Re Harald Bellachioma, il quale stringeva la propria spada con forza, mentre attendeva lo scontro al fianco del leale fratello Halfdan, più giovane di lui di qualche anno, dagli occhi più scuri ed i capelli più chiari e corti. Potevano sembrare così diversi all'apparenza, ma i loro spiriti coraggiosi erano affini, degni del nome della loro antica casata.

Erano migliaia, tanti quanto i fili d'erba di un prato, tanti quanto le onde del mare.

I soldati sassoni tremarono, sudando freddo così come il loro re con i suoi sottufficiali. Molti si prodigarono in un tacito segno della croce, altri balbettarono delle preghiere, invocando l'aiuto di Dio. Fu in quel momento che capirono di non aver fatto abbastanza, di non essersi preoccupati tanto da chiamare più uomini alle armi, anche se era impossibile prevedere che così tanti pagani avrebbero sfidato le intemperie ed i pericoli di un viaggio via mare per vendicare un singolo essere umano.

Prima che potessero anche solo pensare di cadere nel panico, Bjorn alzò una mano, con gli occhi fissi su Aelle, senza perdere neanche un minimo della sua concentrazione, e poi l'abbassò, in un gesto secco ed estremamente rapido. Nessun suono venne emesso dal più anziano dei figli di Ragnar, non ce n'era bisogno, ormai le parole erano superflue, ed infatti il comando arrivò chiaro ai guerrieri. L'intera armata sciamò giù dal fianco della collina come un fiume in piena che rompe i suoi argini, urlando fino a raggiungere il cielo con la propria voce.

La guerra contro l'Inghilterra era ufficialmente iniziata.


Hylde poteva sentire nitidamente il suono della battaglia, che aveva luogo non molto lontano dal bosco che conteneva l'accampamento. Per la prima volta in vita sua era in grado di udire quelle urla disumane, l'acuto stridere delle armi, acciaio contro acciaio, i comandi urlati in antico norreno e anche in una lingua a lei familiare, ma che non afferrava nella sua interezza, probabilmente era inglese antico.

Più passava il tempo, più sentiva la sua preoccupazione crescere ed avvilupparsi attorno al suo cuore come una pianta rampicante che avvolge ogni cosa si trovi sulla sua strada. Ogni suono più acuto degli altri le procurava un sussulto, che tentava di nascondere al meglio delle proprie capacità, mentre dirigeva l'area di soccorso a lei assegnata.

L'aria che respirava era pregna dell'odore della terra umida, la quale andava mossa e scavata per favorire la costruzione di una grossa tenda che avrebbe protetto dalle occasionali piogge tutti i feriti, e dell'odore delle erbe in infusione nell'acqua calda, il cui calore faceva sprigionare le loro essenze profumate. Le sue mani si stavano riempiendo di schegge, per la continua lavorazione del legno.

«Disponete i giacigli là in fondo e in ordine, mi raccomando!».

«Le lettighe vanno portate ai piedi della collina, ne avranno bisogno molto presto.».

«Per favore, assicuratevi che le boccette degli unguenti siano ben chiuse, non voglio un solo granello di terra al loro interno!».

Queste erano le frasi che rivolgeva ai guaritori ed ai servi che collaboravano con lei, cercando di esser ferma e decisa, per ottenere rispetto dai suoi sottoposti, ma rimanendo sempre rispettosa con chiunque, sporcandosi le mani come tutti gli altri ed intervenendo personalmente, qualora ci fossero intoppi da risolvere, o qualcuno da redarguire per un lavoro svolto in modo troppo approssimativo.

Inutile dire che, ovviamente, il suo non era l'unico ospedale da campo, moltissimi altri guaritori erano giunti dalle altre città e regni, portando il loro personale bagaglio d'esperienza, metodologie di cura anche molto diverse da quelle conosciute da Hylde, ma non le spettava il compito di guidare anche loro.

Einar e Solveig, con la loro dimestichezza nei lavori manuali, costruivano sotto richiesta di Hylde dei giacigli rialzati per i guerrieri con le ferite più gravi, che necessitavano di maggior pulizia e quindi di esser sollevati dal suolo. Ricavavano delle perfette assi di legno e studiavano insieme delle soluzioni per assemblarle, anche se talvolta si ritrovavano a discutere animatamente, a causa dei loro caratteri forti ed istintivi.

Nel frattempo, Thora acconsentì di buon grado ad accompagnare Hylde qualche passo fuori dai confini dell'accampamento, alla ricerca di radici e foglie medicinali, dato che non bastavano mai e volevano occupare il tempo in modo utile, mentre si abbassava la temperatura dei vari infusi di cui si stavano occupando.

Una delle guardie che controllavano il piccolo ingresso dell'accampamento, a ridosso della foresta, si parò di fronte alle due giovani, bloccando il loro cammino. «Dove credete di andare?», chiese loro con una voce roca, usuratasi a causa di una vecchia ferita ancora evidente sul suo collo e dall'avanzare dell'età. Il suo viso era severo, solcato da barba e baffi importanti ormai colorati prevalentemente di bianco, la sua espressione lasciava intendere la sua forte volontà di rispettare l'ordine di non lasciare uscire nessuno. Non era molto più alto di Hylde, ma la sua figura era resa minacciosa dalla stazza imponente, dalla fisicità plasmata da una vita di battaglie. Lei non riuscì a capire subito di quale fazione facesse parte, ma, a giudicare dal colore del suo scudo, doveva appartenere all'esercito dei Bellachioma.

«E' necessario raccogliere altre erbe medicinali, quelle che già abbiamo non saranno mai sufficienti, se la battaglia dovesse prolungarsi di molto.», spiegò Hylde con calma, mentre Thora rimase in silenzio, scoraggiata dall'intralcio della guardia.

L'uomo non si mosse di un passo, solo per il piacere d'infastidirla: «E' pericoloso là fuori, dovresti saperlo, compagna dello storpio Lothbrok.». Aveva pronunciato quell'epiteto in tono spregiativo, come se la odiasse per qualche strano pregiudizio. Come se non bastasse, le altre guardie che erano con lui iniziarono a ridacchiare, con l'atteggiamento tipico del branco.

Thora sgranò gli occhi, basita per quell'attacco gratuito.

Solo pensando al bisogno che aveva, in quanto guaritrice, di trovare il necessario per svolgere il proprio lavoro, Hylde riuscì a mantenere una calma invidiabile davanti a quell'atteggiamento, contro cui combatteva spesso. Ingoiò il rospo con una bella dose d'autocontrollo e cercò di essere la parte ragionevole tra loro due: «E tu, in quanto guerriero, dovresti sapere che la prudenza non è mai troppa. Anche nel campo dei curatori. In più, non hai l'autorità per trattenerci.». Lo guardò dritto negli occhi: «Ed ora, con permesso...».

Si portò con forza all'esterno dell'accampamento, prendendo Thora a braccetto senza troppe cerimonie ed esclamando: «Andiamo a fare il nostro lavoro.». Provocò nell'uomo un sibilo irato, come anche negli altri componenti del branco. Internamente, lei ribolliva di rabbia e si sentiva spaventata da possibili ripercussione, ma esternamente era la tranquillità fatta persona, non l'avrebbe mai data vinta a nessuno di loro.

La più giovane tra le due guardò l'altra esterrefatta, mentre procedevano nel bosco, senza allontanarsi troppo dall'accampamento. «Sei stata davvero coraggiosa. Non saremmo mai riuscite a passare, se tu non fossi intervenuta.», si complimentò Thora, in ammirazione.

Hylde si lasciò andare ad un lungo sospiro e scosse la testa: «Non è così. Ho avuto una paura folle e la rabbia mi stava consumando, ma non potevo lasciar loro il potere d'intralciarci.». Sentiva un grosso peso sul petto, ma non gli avrebbe permesso di distrarla, dovevano sbrigarsi, era pericoloso restare lontano dal campo.


Trovarono un terreno ricco di piante e radici utili, così si dettero subito da fare, senza perdere altro tempo, e riuscirono a raccogliere moltissimo materiale, chiacchierando amabilmente, ma lo fecero sottovoce, come misura di sicurezza, restando sempre attente a qualche strano rumore che potesse metterle in allarme.

Fu così che Hylde percepì qualcosa di strano, alle loro spalle. Dei passi quasi impercettibili, tra gli alberi verdi che le circondavano, non li avrebbe mai sentiti se uno di coloro che le osservava da lontano non avesse camminato sopra un ramo secco, spezzandolo. Il suo orecchio, purtroppo, non era così abituato da capire esattamente in quanti fossero, sicuramente più d'uno.

Il suo cuore accelerò, come anche il ritmo del suo respiro, mentre iniziava a provare paura. Guardò Thora, che continuava a raccogliere i piccoli germogli di malva davanti a sé, ignara di tutto, così le si avvicinò e sussurrò: «Thora, ora devi promettermi di rimanere calma e di ascoltarmi attentamente. Non fare movimenti bruschi e fai ciò che ti dico.».

La guaritrice si bloccò, percependo la paura dalle flebili parole di Hylde, dal suo tono di voce e dal fatto che la voce le si spezzasse, pur se tenuta ad un volume davvero basso. La preoccupazione si disegnò sul suo volto, non sapeva cosa aspettarsi, se non un grosso pericolo.

«Qualcuno si sta avvicinando a noi. Non so se siano i Sassoni o le guardie di prima.», l'avvisò senza tanti giri di parole, non era il momento, e prima che Thora potesse mettersi ad urlare, facendo così qualcosa di davvero stupido, la redarguì con un sibilo, guardandola dritta negli occhi: « Non andare nel panico e ascoltami. Adesso ci alzeremo e torneremo verso l'accampamento, appena ci saremo vicino, dovrai correre ad avvisare Einar, lui saprà cosa fare. Per il momento, posso difenderci entrambe.». Spostò leggermente il mantello, per farle vedere l'ascia appesa alla cintura.

Thora si sforzò enormemente per non mettersi a piangere e cominciare a tremare, quando Hylde la prese per mano e la guidò, percorrendo a ritroso il sentiero seguito all'andata. Entrambe fecero molta attenzione a non far percepire il loro timore.

Alle loro spalle, poche e semplici parole, seguite da una risata: «Dove credete di andare?». Di nuovo quella frase, quella voce, quel tono. Inutile fare supposizioni su chi avesse parlato, era palese.

Hylde protesse la sua amica con il suo corpo, spostandola con forza dietro di sé, non appena apparve l'uomo di prima, seguito da un'altra guardia decisamente più giovane, una di quelle che prima si erano godute la scena con delle risatine. Diede una piccola spinta a Thora, che capì subito e corse come una scheggia lungo il sentiero, verso l'accampamento. Sparì rapidamente dal loro campo visivo.

Il vecchio guerriero intimò all'altro, il quale non sembrava godere di un grosso intelletto: «Che stai aspettando? Valla a prendere!».

Lui iniziò a correre, spaventato dalla furia nella voce di quello che sembrava essere dotato di più autorità, ma quando passò accanto a Hylde, le bastò solo allungare un po' la gamba per farlo inciampare ed atterrare di faccia al suo fianco. Urlò di dolore per la brutta caduta.

«Signori, non dovreste scatenare un incidente diplomatico proprio all'inizio della spedizione, solo perché prima vi siete offesi.», furono le parole della ragazza, mentre con la forza della gamba teneva a terra la giovane guardia dolorante, col mento ferito dopo l'impatto col suolo.

Quello più anziano rise: «Oh, non è solo per quello, ma comunque, non farei tanto la spavalda, senza i Lothbrok a guardarmi le spalle.». Estrasse la spada, iniziando a fendere l'aria, risultando più minaccioso di quanto Hylde si aspettasse. Si avvicinò poi a lei, attaccandola direttamente e cercando di afferrarla per un braccio.

Sfortunatamente per i due uomini, la giovane dai capelli di fuoco fu veloce abbastanza da estrarre la sua ascia da combattimento, ben nascosta sotto il suo mantello, e bloccare quel colpo che altrimenti l'avrebbe mutilata. La sorpresa fu ben visibile negli occhi della guardia, che non si aspettava da lei questo genere di reazione.

Hylde smise di pensare e spense il cervello, solo così fu in grado di difendersi molto bene da quegli attacchi poderosi, bloccandoli con una forza sviluppata grazie all'aiuto di Ivar nei mesi precedenti. Il suo intero corpo rispondeva con tempestività, ricreando quei movimenti che fino ad allora non le erano mai serviti, quasi senza esserne davvero cosciente. Forse era questa la sensazione che si provava ingaggiando una battaglia con qualcuno: il nulla, il completo annullamento dei sensi. O forse era il suo modo di sopravvivere a quella situazione, di non sentire visceralmente la paura di morire da un momento all'altro.

Era tremendamente doloroso parare attacchi frontali così potenti, tutta la forza di un uomo dalla stazza imponente concentrata in quel fendente affilato talmente bene da far venire la nausea, ma lei non sentiva nulla, inebriata com'era dall'adrenalina. Anche quando la lama la ferì alla gamba, trapassandole i pantaloni e tagliandole superficialmente la coscia in estrema tensione. Il nulla più assoluto.

Lei di rimando riuscì a ferirlo al braccio e per poco all'addome, che comunque rimaneva protetto dalla cotta di maglia indossata. Non riuscì a provare neanche una vaga soddisfazione nel constatare di essere abbastanza brava da tener testa a un guerriero veterano, perché la guardia più giovane decise di non rimanere a guardare e l'attaccò alle spalle, in un'azione tremendamente infima e codarda, colpendola alla nuca col manico della propria ascia.

"Dovevo stare più attenta", pensò Hylde nella sua stupida testa, prima che la vista le si annebbiasse ed il dolore si palesasse in modo così nitido, cadendo al suolo sulle proprie ginocchia, lottando con tutta se stessa per non svenire seduta stante. Doveva rimanere sveglia, non poteva perder coscienza con loro lì presenti. La testa le ciondolava in avanti e la sua arma era caduta insieme a lei, si sentiva inerme.

Il giovane rise per la sua trovata geniale e le bloccò le braccia dietro la schiena, tenendola ferma di fronte al più anziano, contento di vederla indifesa. «Forse non sei così inutile come credevo, quasi mi dispiace doverti finire. Purtroppo, sono gli ordini.», la canzonò lui, accarezzandole il viso con rude prepotenza ed afferrandole con forza il mento, per costringerla a guardarlo negli occhi. Era come se volesse essere l'ultima cosa su cui Hylde dovesse posare lo sguardo prima di morire, un desiderio meschino.

Quel contatto così indigesto con la mano sporca e rozza dell'uomo le accese quella miccia che la spinse ad agire, per sopravvivere. Compì dei movimenti troppo veloci per i due, che a malapena riuscirono a comprendere cosa accadde esattamente.

La ragazza si piegò leggermente in avanti, caricando un colpo netto con la testa contro la faccia della giovane guardia dietro di lei, che aveva preso ad annusarle i capelli con fare viscido, dopo aver aggiunto: «Già! Sai cose troppo importanti, tu!». Gli spaccò il naso con un impatto talmente tremendo da indurlo a lasciarla andare per portarsi le mani al viso sanguinante, mentre lei ignorò il lancinante dolore alla nuca provocato già solo dal colpo iniziale e recuperò l'arma.

In un attimo il più anziano le fu addosso, ma ogni movimento di lui rimase incompiuto quando Hylde riuscì a puntargli al collo la lama della propria ascia. Si cristallizzarono in quella posizione per un secondo.

Il terrore e la sorpresa avevano preso possesso dell'espressione dell'uomo, rimasto immobile per non convincerla ad affondare l'arma nelle sue carni. La mente della giovane correva alla velocità della luce, per capire il da farsi, che le fu subito chiaro.

Tremava, ma la sua voce era ferma: «Lascia andare la spada.».

Con un attimo di esitazione, l'uomo obbedì all'ordine, sudando copiosamente. Il loro silenzio fece emergere i lamenti del più giovane, che si ostinava a tamponarsi la violenta epistassi.

«Hylde!». Era la voce di Einar, giunto fino a lì più in fretta possibile, nonostante il problema alla gamba, insieme a Solveig, la quale sembrava naturalmente confusa da ciò che stava vedendo.

Hylde tirò un sospiro di sollievo, il suo viso era esausto, ma felice di vedere dei volti amici. «Mi hanno aggredita.», spiegò seccamente, senza dilungarsi in grandi spiegazioni. Era stanca, voleva solo dormire e dimenticare l'ultima ora.

Abbassò l'arma, che ora sembrava pesare una tonnellata, così come tutti i suoi muscoli, e lasciò che Einar prendesse il suo posto, trascinando la guardia dei Bellachioma all'accampamento e tenendogli sempre un'ascia puntata al collo. Solveig si occupò del più giovane, che non la smetteva di frignare per il dolore al naso, e lì seguì.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3956097