Ossessione di EmpressofDisagio (/viewuser.php?uid=1172631)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1963-1968 ***
Capitolo 2: *** 1968-1972 ***
Capitolo 1 *** 1963-1968 ***
Dopo
aver vinto il campionato del Kentucky, i confini scacchistici di Beth
si erano allargati. Aveva scoperto che, sì, lei era
l'incontrastata regina dello stato, ma esisteva una gerarchia dei
campioni, esattamente come nei pezzi. Essere il campione dello stato
era come essere un alfiere: forte,
certo, ma ce ne sono di molto più importanti. Come, ad
esempio,
il campione nazionale, paragonabile a una torre, oppure il campione del
mondo, la potente
regina. E il campione del mondo, da anni, era un russo di nome
Vasily Borgov.
Non appena
aveva compreso questa grande verità aveva deciso di
darsi un traguardo importante, un traguardo che molti non avrebbero
neanche osato formulare: diventare il miglior giocatore del mondo.
D'altronde, perché non puntare in alto? Era giovane e
talentuosa, e gli scacchi le venivano naturali come respirare. Ma era
perfettamente conscia che per raggiungere il suo scopo avrebbe dovuto
per forza battere Vasily Borgov, lui che aveva conquistato quel titolo
e poteva sfoggiarlo con orgoglio. E così Beth aveva iniziato
a
raccogliere qualunque tipo di informazione su di lui che potesse
racimolare: articoli, libri — ma non il suo, no, troppo
terrore
reverenziale solo a guardare la copertina — e fotografie.
Aveva
ricostruito in questa maniera un'idea delle sue origini e di chi fosse:
nato a Leningrado, bambino prodigio come lei, era diventato Gran
Maestro a soli venti anni e da allora era una delle figure di
spicco della scuola sovietica; aveva conquistato il titolo di campione
del mondo dalle mani di Petrosian tre anni prima e, fino a quel
momento,
nessuno era riuscito a strapparglielo. Prediligeva uno stile tecnico,
la teoria sulla creatività. Luchenko lo definiva un
"dio dei finali" poiché era perfetto, implacabile
nell'inseguire
un vantaggio minuscolo e inflessibile nella difesa.
Vasily
Borgov era il suo opposto, il rovescio della sua medaglia, ma
anche il suo simile. Solo a pensarci le veniva la pelle d'oca e le mani
le tremavano.
Aveva
studiato tutte le sue partite su cui era riuscita a mettere le
mani e ogni analisi la lasciava a bocca aperta: un gioco
così
pulito, preciso, era una gioia per i suoi occhi; era ogni
volta rapita dalla magia che riusciva a creare sulla scacchiera,
poiché le sue non erano semplici partite ma opere d'arte. E
lei
non poteva far altro che ammirarle con reverenza, come un fedele che
rimane estasiato davanti a un dipinto religioso, il cuore in gola.
La
decisione di iscriversi a un corso di russo era stata naturale: gli
scacchi erano il gioco dei sovietici da vent'anni. Beth avrebbe
imparato a parlare la stessa lingua del loro re.
Lo aveva
visto di persona la prima volta a Città del Messico, quando
aveva 17 anni.
Era una
mattinata piovosa e sua madre l'aveva convinta a prendere una
boccata d'aria prima del suo primo match. Rilassarsi, secondo lei,
l'avrebbe aiutata a giocare meglio e non lo studio dell'ultimo minuto
per colmare le lacune nella sua preparazione dei finali. Beth voleva
accontentarla, nella speranza che le prestasse le attenzioni che ora
erano rivolte soltanto a Manuel, perciò decise di fare una
passeggiata nel parco Chapultepec: le era stato assicurato che le
sarebbe piaciuto, grande e rigoglioso com'era, ma ciò che
alla
fine aveva veramente apprezzato era il fatto che nessuno le chiedesse
l'età quando ordinava da bere. Non appena l'alcol le era
entrato
in circolo aveva pensato che
sì, forse Alma aveva ragione, si sentiva molto meglio ora
che
non aveva più la mente occupata dal pensiero del suo
avversario
del pomeriggio. Era entrata nel padiglione delle scimmie, incuriosita
da questi animali così simili all'uomo, anche per trovare un
minimo di riparo dalla pioggia che aveva aumentato
d'intensità e
lì, mentre guardava un esemplare in particolare muoversi con
agilità per la teca, i suoi occhi colsero un movimento sulla
sua
destra.
Beth Harmon
vide per la prima volta Vasily Borgov nello zoo di Chapultepec.
Come non
riconoscere l'uomo di cui aveva studiato avidamente ogni
gioco, la cui foto era quasi sempre presente su ogni numero di Chess Review? Era
lì, a malapena cinque metri da lei.
La prima
sensazione fu di delusione, quasi. Era un uomo normale.
Portava i capelli laccati e pettinati di lato come ogni uomo sopra i
trent'anni che consocesse, sembrava alto, sì, ma non aveva
una
fisicità imponente, e indossava un completo scuro
— marrone,
forse? Nero? Aveva la vista un po' annebbiata... — come
chiunque. Con
una famiglia qualunque, una famiglia che si sarebbe aspettata di avere
come vicina di casa a Lexington: una moglie più giovane di
lui,
in un vestito giallo e un cappello coordinato, e un figlioletto al
quale si chinava per dire qualcosa all'orecchio. Spiegazioni sulle
scimmie, chi lo sa, era troppo lontana per capire.
Vasily
Borgov, il re degli scacchi, era un uomo ordinario.
Se n'era
andata — fuggita? — subito dopo questa rivelazione,
senza
voltarsi indietro, avvertendo il suo sguardo su di sé. Tutto
d'un tratto studiare i finali le sembrava un'idea molto più
allettante della birra e, persino, delle pillole.
Aveva
cercato il suo sguardo per tutto l'Invitational di Città del
Messico.
Era l'unica
cosa che non aveva potuto osservare da quel incontro fugace
allo zoo e forse era proprio quello che lo distingueva dai giocatori
comuni, quelli che stava distruggendo nei vari turni. Aveva cercato di
giocare con lo stile più aggressivo che potesse architettare
in
modo da attirare la sua attenzione, così spietato che aveva
portato quasi alle lacrime un giocatore austriaco che aveva osato
opporsi a lei. Ma Borgov aveva continuato a concentrarsi solo sul suo
torneo, senza mai abbassarsi a guardare le scacchiere altrui.
Quando
aveva visto i loro nomi vicini, per la partita dell'ultimo
giorno, aveva avuto le vertigini: avrebbe finalmente giocato contro il
campione del mondo. Borgov avrebbe dovuto per forza guardarla. Al solo
pensiero aveva sentito lo stomaco chiudersi e un nodo formarsi in gola.
Si era
vestita per fare bella figura, con uno dei suoi
completi preferiti: voleva che si ricordasse di Elizabeth Harmon, la
giovane promessa degli Stati Uniti, così come lui occupava
spesso la sua mente. Era persa in questi pensieri leggermente
egocentrici quando vide i russi entrare nell'ascensore, ma non
abbastanza distratta da non sentire come i due uomini che
fiancheggiavano Borgov la stessero denigrando: un'ubriacona, si dice;
si arrabbia quando sbaglia, ma è comprensibile visto che
è una donna... Non si era mai sentita
così umiliata in
vita sua e il nodo alla gola si era sciolto in una fiamma che le
bruciava in petto. Tuttavia, fra tutti, fu proprio Borgov
a interrompere i due, senza sapere che la ragazza di cui aveva preso le
difese era a neanche due metri di distanza; o forse lo sapeva,
poiché non appena finì di parlare
lanciò un'occhiata
dietro di sé, verso di lei. Beth era stata rapida a
distogliere
lo sguardo dai russi e fingere innocenza, ma forse non abbastanza.
Erano usciti velocemente dall'ascensore e lei li aveva seguiti a
debita distanza, senza mai togliere gli occhi dalla schiena di Borgov.
Ora la voglia di guardarlo negli occhi era diventata una vera e propria
necessità: doveva sapere cosa realmente pensava di lei e lo
avrebbe capito così, visto che parlare con lui era fuori
discussione.
Ma Borgov
evitò il suo sguardo per tutta la partita, il viso che
assomigliava a una maschera di ghiaccio. E Beth comprese che nulla al
mondo gli avrebbe mai fatto cambiare espressione, a parte mettere
appositamente in presa la regina o lanciargli in faccia il pezzo, ma
quest'ultima opzione non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua
già pessima reputazione. Se solo avesse avuto
le sue pillole non si sarebbe sentita così irrequieta,
così frustrata dall'impossibilità di suscitare la
benché minima emozione in lui, solo la più
completa
apatia. Questa idea la faceva ribollire e non l'aiutava di certo la
posizione sulla scacchiera - terribile, con tutti i suoi pezzi in un
angolo, raccolti attorno al re nella vana speranza di difenderlo -
né l'espressione sconsolata dei gemelli. Né la
sedia
vuota che avevano riservato per sua madre.
Era sola,
di nuovo. Sola contro il campione del mondo, che più
che un uomo assomigliava a una macchina progettata dai sovietici per il
controllo assoluto del gioco.
Se solo avesse avuto le sue pillole...
Ma era
perfettamente consapevole che neanche loro
l'avrebbero potuta salvare e l'unica cosa giusta da fare era
abbandonare. Era una questione di sportività e rispetto
dell'avversario, la
prima lezione del signor Shaibel.
Borgov non
la guardò neanche quando si rifiutò di
stringergli la mano.
A Parigi
avrebbe pagato qualunque cifra purché la smettesse di
fissarla.
Sapeva di
puzzare, se lo sentiva. Sapeva che l'odore di alcol, sesso e
vomito essiccato non erano andati via magicamente quando si era
spruzzata addosso quanto più profumo potesse mentre cercava
le
scarpe. Sapeva che tutti avevano intuito cosa non andasse in lei,
perché avesse chiesto la terza caraffa d'acqua in un'ora.
Se tutti
sapevano, perché umiliarla ancora di più
fissandola? Borgov era un uomo crudele.
L'unica
volta che si era azzardata a guardarlo, all'inizio del
mediogioco, era quasi caduta dalla sedia per l'intensità che
i
suoi occhi di ghiaccio erano in grado di convergere. Ed erano pieni di
disgusto, per il suo stato e per il suo gioco indecente. Non poteva
neanche fargliene una colpa poiché era vero, era tutto vero,
e
se ne vergognava: come era potuta cadere così in basso dopo
tutti i sacrifici fatti? Aveva deluso Benny, che l'aveva aiutata a
disintossicarsi e a prepararsi per questo torneo, e aveva
deluso se stessa. Apparentemente aveva deluso anche Borgov, che la
guardava alla ricerca del motivo dietro la sua spirale
autodistruttiva. Perché dietro al disgusto — una
reazione fisica
comprensibile — aveva visto anche un'ombra di preoccupazione.
Forse era
ancora troppo ubriaca e si stava solo immaginando le cose.
Ciò
che sicuramente non si stava immaginando erano gli sguardi
di pietà degli spettatori, che la fissavano avidamente,
ansiosi
di vedere il declino di una promessa. Un giorno si sarebbero vantati di
aver assistito al tracollo di Elizabeth Harmon in diretta, di quanto
fosse penosa, aggrappata al bicchiere d'acqua come a un salvagente, e
di quanto talento avesse sprecato in alcolici e tranquillizzanti. Il
destino dei geni, no? Stavano tutti pensando questo, in una misura o in
un'altra, sembravano quasi degli avvoltoi pronti a banchettare sul
cadavere della sua carriera scacchistica. Nessuno, in quella folla, era
lì per appoggiarla: era sola, un'altra volta, dall'altra
parte
del mondo.
Borgov,
invece, aveva qualcuno lì a fare il tifo per lui. Lui
non era solo. Lui aveva una famiglia che era lì per
supportarlo.
Aveva un figlio dagli occhi vispi e una bella moglie che di sicuro non
passava le notti a bere per colmare i suoi vuoti. Una bella moglie che
non si imbottiva di tranquillanti fin dall'infanzia.
Si era
accorta di star piangendo solo quando la lacrima le
arrivò sull'angolo delle labbra. Aveva abbandonato prima che
si
asciugasse.
Beth era
consapevole di avere un'ossessione per Vasily Borgov.
L'aveva
ridimensionata nel corso degli anni, questo sì, ma era
abbastanza autocritica da vedere quanto spazio nei suoi pensieri
occupasse ancora il campione del mondo. Non aveva mai smesso
completamente di cercare informazioni su di lui, convinta che la chiave
per svelare l'arcano della sua mente fosse lì da qualche
parte:
vedeva Borgov come una posizione da analizzare, la più
complessa che avesse mai visto, e Beth non aveva ancora finito di
trovare varianti. Era
semplicemente affascinante, come solo gli scacchi potevano essere.
Erano i
suoi occhi quello che l'avevano colpita di più: blu
ghiaccio e intensi, Beth poteva ancora sentirli su di sé
mesi
dopo Parigi, specialmente quando cercava sollievo con una mano fra le
gambe.
Gli occhi
di Borgov la seguirono per tutto l'internazionale di Mosca.
Questa
volta non lo stava immaginando, il campione del mondo spesso
lanciava occhiate nella sua direzione: che fosse durante l'esibizione
di giovani prodigi musicali o prima di entrare nella sala di gioco,
Beth sentiva il suo sguardo fisso su di sé. Era sicura che
fosse
il suo, solo Borgov la elettrizzava così. Solo lui, nessun
altro.
Quando lo
vide alzarsi — nel mezzo della partita con quel irritabile
giocatore svedese — per controllare la sua posizione sulla
scacchiera,
capì che finalmente era entrata nella sua mente. Vasily
Borgov
la riconosceva come sua rivale, come sua eguale.
L'eccitazione
che aveva provato in quel preciso momento era
impareggiabile, si sentiva invincibile, niente e nessuno poteva
fermarla ora.
Il suo
trionfo fu assoluto quando Borgov le offrì il suo re,
alla fine della loro partita. Beth lo prese, la sua mano
sorprendentemente ferma, alzandosi in piedi. Era quasi disorientata dal
fragore dell'applauso e da ciò che era appena successo sulla
scacchiera, ma
era proprio Borgov a mantenerla coi piedi per terra: le
stava ancora tenendo la mano e la guardava con un sorriso gentile.
Aveva vinto lei, ma lui le sorrideva
come se fosse orgoglioso
di lei.
Poi,
davanti a tutti, Vasily Borgov l'abbracciò e Beth
ricambiò subito, appoggiando la testa sulla sua spalla; in
questa posizione, poteva avvertire il suo cuore battere furiosamente,
esattamente come il proprio.
Quando si
separarono lo poteva intuire dalla linea tremante della sua
bocca e dal mondo in cui si rifiutava di lasciarla andare: lo sentiva
anche lui, quel fuoco che aveva alimentato il suo desiderio di
spingersi oltre i suoi limiti.
Guardandolo
negli occhi, Elizabeth Harmon realizzò che Vasily Borgov, il
campione del mondo, era ossessionato da lei.
Note dell'Autrice:
È interessante
tornare a scrivere dopo tanti anni, ma questa serie tv mi ha travolta
come un treno e quindi eccomi qua.
Se ho
deciso di pubblicare questa storia su EFP è tutto merito di V a l y,
che mi ha convinto a creare un nuovo account su questo sito.
Perciò grazie, come al solito ti devo tantissimo.
Tutto
sommato, devo ammettero, è bello essere tornati~
|
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Capitolo 2 *** 1968-1972 ***
2. 1968-1972
Borgov la
chiamò per la prima volta Liza nella sua
terza lettera.
Era stato lui a
inaugurare questo carteggio, a metà maggio 1968:
l'aveva sfidata a una partita di scacchi per corrispondenza e Beth
aveva accettato con entusiasmo. Non aveva più giocato con
nessuno dopo Mosca — l'euforia di quella vittoria che non
l'aveva
ancora abbandonata del tutto — e chi meglio di lui per
ricominciare?
Beth aveva passato i
mesi precedenti all'arrivo della sua prima lettera
leggendo libri di teoria — i finali erano ancora il suo
tallone
d'Achille, doveva assolutamente migliorare o qualcuno prima o poi ne
avrebbe approfittato — e nascondendosi in casa. Era diventata
una
star nazionale da quando la sua vittoria era diventata di pubblico
dominio: una ragazza del Kentucky aveva battuto i comunisti al loro
stesso gioco, questa era di sicuro la prova inconfutabile della
superiorità morale degli americani.
Volevano che prendesse
posizione e denunciasse il regime sovietico, ma
Beth evitò tutte le domande politiche, concentrandosi solo
su
come aveva giocato nel torneo e su quanto rispettasse i Gran Maestri
russi. I giornalisti, invitati alla Casa Bianca, adorarono il suo senso
dell'umorismo e le sue risposte taglienti mentre il presidente
—
che sapeva a malapena muovere i pezzi e fu sconfitto con
facilità in meno di 15 mosse — non
apprezzò
così tanto. A Beth non importava niente: non era
più un
pedone indifeso.
Odiava questa fama: si
concentravano sulla sua vittoria contro i
sovietici.
Se Borgov fosse stato di qualsiasi altra nazionalità
a nessuno sarebbe importato.
Beth tenne la sua
irritazione fuori dalle sue lettere con Borgov.
Insieme alla sua mossa, gli parlava delle piccole cose che le
capitavano. Gli descriveva la sbocciatura dei fiori del suo giardino, o
quanto le avesse fatto piacere ricevere la visita di un amico. D'altra
parte, invece, Borgov non era così loquace. Rispondeva
sempre
alle sue domande, ma non sprecava pagine su pagine per descriverle la
sua vita quotidiana. Era preciso — esattamente come il suo
stile
di gioco e la sua calligrafia — e diretto. Non aveva bisogno
di
fronzoli per mantenere la sua attenzione.
La loro corrispondenza
era amichevole, poco adatta ai formali "Miss
Harmon" e "Mr Borgov" che avevano usato come apertura fino a quel
momento. Presto passarono al nome proprio, come vecchi amici: Borgov
abbreviò il suo in Liza,
proprio come avevano fatto i moscoviti durante la sua permanenza. Le
piaceva molto il modo in cui tracciava le lettere del suo soprannome,
specialmente la curva della l;
lo trovava adorabile.
Beth conservava tutte
le sue lettere in una scatolina intarsiata,
posizionata accanto ai suoi trofei di scacchi nel salotto. Solo una,
invece, era riposta nel cassetto del suo comodino, in modo da poterla
leggere ogni volta che lo desiderasse, sempre attenta a non piegare la
carta delicata: quella in cui Borgov le spiegava il motivo per cui le
aveva scritto; era andato dritto al sodo, come sempre, e la sua
calligrafia non mostrava segni di esitazione.
Ci si sente soli qui in cima al
mondo, mia cara Liza.
Vasily Borgov era
arrivato al Invitational di Toronto del 1970 con un
altro interprete, un uomo basso con degli occhialetti rotondi che gli
scivolavano spesso sul naso aquilino.
Seduta su un divanetto
di pelle abbastanza scomodo, Beth era nel bel
mezzo di un'intervista con un giornalista canadese quando aveva visto
entrare il duo, seguito subito dopo dai soliti agenti del KGB e dal
resto della delegazione sovietica. Si fermò a
metà della
frase, guardandoli fare il check-in al Grand Hotel. Erano passati due
anni da quando aveva visto di persona l'ultima volta Vasily e adesso
erano di nuovo nella stessa stanza. Era quasi strano, considerato anche
che erano rimasti in contatto per tutto questo tempo: ora
più
che mai, sentiva la sua corrispondenza con lui come una cosa intima e
privata, anche se era
perfettamente consapevole che sia la CIA che il KGB sapevano ogni
minima cosa di cui si parlassero.
Beth concluse
velocemente l'intervista, promettendo di posare per
alcune foto esclusive in modo da addolcire questa interruzione
improvvisa, e marciò nel bar dell'hotel da dove avrebbe
avuto una
vista perfetta sulla hall senza dover girare in maniera innaturale il
collo. Il suo sguardo fu attratto dall'interprete, che stava discutendo
con la
receptionist del posizionamento delle camere dei suoi giocatori,
sorseggiando una Coca Cola.
La moglie di Borgov
era sempre stata l'interprete ufficiale, fin da
quando si erano sposati; non aveva mai mancato un torneo in 15 anni.
Voci
di corridoio avevano parlato di una separazione poco dopo Mosca, ma
Beth non aveva mai dato adito a tali pettegolezzi. Una volta Vasily le
aveva scritto che si sarebbe trasferito nella sua città
natale,
ma era perché voleva prepararsi al meglio per il campionato
nazionale dell'Unione Sovietica e per quello del mondo nel 1969. Forse
c'era anche dell'altro dietro quella
decisione. L'assenza della signora Borgov era molto interessante.
Georgi Girev si
separò dal gruppo per andarla a salutare. Aveva
ora 18 anni ed era molto indietro rispetto alla tabella di marcia che
le aveva elencato a Città del Messico. Rispetto al ragazzino
dai
tratti arrotondati che aveva conosciuto a quell'Invitational, il suo
viso si era affinato e ormai la sovrastava di mezza testa, pur
conservando ancora quella goffaggine tipica dell'adolescenza; aveva i
capelli come i suoi compatioti, pettinati di lato e con così
tanto gel che sembrava fosse appena uscito dalla doccia, ma portava
anche una barbetta chiazzata nella speranza di apparire più
grande dei suoi anni. Le ricordava Benny e la sua faccia da bambino. Il
pensiero la fece sorridere.
Beth voleva parlargli
della partita 14 del suo incontro con Borgov per
il titolo mondiale — dove avrebbe dovuto giocare cavallo e4
invece di spingere il pedone, perdendo così la partita e con
essa l'intero match — ma Georgi sembrava molto più
interessato alle ultime uscite di Hollywood. Era arrossito mentre le
elencava tutti i film che avrebbe voluto vedere durante la sua
permanenza in Canada, arrivando a balbettare quando le chiese quali
fossero i suoi piani per quei pochi momenti in cui non era impegnata
col torneo. Beth non aveva una grande
esperienza in relazioni, nessuno le aveva mai chiesto di uscire in vita
sua, ma poteva intuire quali fossero le sue intenzioni dietro a quelle
domande.
Batté le palpebre, colta di sorpresa, ma non fece in tempo a
rispondere poiché Laev richiamò Georgi,
ordinandogli di
smetterla di flirtare e di andare a prepararsi per la prima partita. Mentre Girev andò
da lui quasi di corsa, borbottando
qualcosa in russo così velocemente che non riuscì
a
coglierne il significato, Beth buttò giù d'un
fiato la
sua Coca e si diresse verso l'ascensore. Si voltò solo
quando
sentì su di sé lo sguardo di Borgov, le mani
nelle tasche
dei suoi eleganti pantaloni; mantenne il contatto visivo fino a quando
le porte si chiusero fra loro.
L'imbarazzo di
quell'incontro si riversò nella loro partita, nel
turno cinque. Georgi guardava qualunque cosa non fosse lei, e il suo
gioco era molto impreciso: alla mossa 19 non vide una semplice
forchetta di
cavallo, perdendo così un'intera torre. Abbandonò
subito,
le punte delle sue orecchie scarlatte, e sembrava talmente miserabile
che Beth gli propose di andare a vedere un film insieme per
rallegrarlo. Georgi accettò con così tanta foga
che
l'arbitro venne a redarguirli per poi accompagnarli fuori dalla sala da
gioco, sotto lo sguardo degli altri giocatori, palesemente disturbati
dal fracasso.
Davvero, questo
Invitational stava diventando il torneo più imbarazzante
della sua vita.
Il film e la compagnia
furono divertenti, ma fu ben presto chiaro a
entrambi che desideravano cose diverse da quest'uscita. Georgi la prese
abbastanza bene
e ritornò alla suite che la delegazione sovietica usava come
sala analisi, mentre Beth decise di andare a controllare gli
accoppiamenti per il sesto turno prima di ordinare una cena leggera e
prepararsi per il prossimo avversario.
La sala da gioco era
completamente vuota eccetto per Borgov, che stava
studiando attentamente il tabellone. Si voltò al suono dei
suoi
tacchi sul pavimento di marmo e sembrò quasi sorpreso dalla
sua
presenza. La luce aranciata del tramonto, che filtrava dalle ampie
finestre, sembrava addolcire i suoi tratti sempre severi.
All'improvviso Beth aveva un nodo alla gola e, non fidandosi di poter
parlare in queste condizioni, si limitò a sorridergli prima
di
ricercare il suo nome fra gli accoppiamenti. Quando lo
trovò, al
primo tavolo accanto a quello di Borgov, il respiro le se
mozzò
in gola.
Vasily la stava ancora
guardando.
Provò a
dire qualcosa, qualunque cosa, ma prima ancora che un
suono riuscisse a uscire dalla sua trachea contratta lui le prese la
mano. La sua pelle era calda e sorprendentemente morbida; non portava
più una fede nuziale. Lentamente, la portò alla
sua
bocca, le sue labbra screpolate che indugiarono sulle sue nocche un po'
più di quanto fosse consono. Non che a Beth importasse, in
quel
preciso momento, e anche Borgov sembrava essere d'accordo. I suoi occhi
brillavano nella luce del crepuscolo come carboni ardenti e lei
avvampò. Il suo corpo continuò a tremare per ore,
dopo
che la lasciò sola nella sala.
Uvidimsya zavtra, Liza,
aveva mormorato, la bocca premuta contro la sua pelle. Ci vediamo domani.
La loro prima volta fu
a Siviglia, a fine ottobre del 1970.
Non avevano avuto
bisogno di preliminari, la loro partita era stata sufficiente:
un estenuante scontro
di cinque
ore dove Beth era stata in vantaggio
per la maggior parte del mediogioco; Borgov, tuttavia,
riuscì a
scambiare tutti i pezzi, portandoli in un finale re e pedoni. Il suo
preferito. Ben presto riuscì a erodere tutto il suo
vantaggio,
con una facilità che la lasciò stupefatta.
Alla fine era una
patta, ma nessuno dei due sembrava soddisfatto del
risultato. Beth necessitava l'intera somma per aiutare Jolene con il
suo ufficio mentre il governo sovietico voleva da Vasily una vittoria
pulita e lo stava mettendo sotto pressione. Poteva vederlo chiaramente
nella tensione dei muscoli della sua mandibola e nell'arco delle sue
sopracciglia quando aveva fatto una mossa che non si aspettava; agli
occhi di chiunque altro sembrava che non ci fosse nulla di diverso dal
normale, ma non per Beth.
Era tornata nella sua
stanza dopo aver ricevuto l'assegno, frustrata
con se stessa. Si sentiva intrappolata nella sua pelle, troppo stretta
per contenere tutta l'energia nervosa che l'era rimasta dalla partita.
Si ritrovò a camminare avanti e indietro nella sua camera,
come
fosse un animale pronto a balzare sulla sua preda, recitando nella sua
testa la partita appena conclusa per trovarne gli errori. Non ce
n'erano di gravi, solo due imprecisioni che Borgov era riuscito a
sfruttare abilmente. Era davvero un dio dei finali.
Il bussare alla sua
porta era inaspettato, così come Vasily
dall'altra parte. Se non fosse che in realtà non lo era:
tutte
le loro interazioni nel corso degli anni li avevano portati qui.
Non ci volle molto
prima che fu dentro di lei, la bocca premuta contro la curva del suo
collo.
Non stavano "facendo
l'amore". Non c'era nulla di romantico nel modo in
cui spingeva, lascivo e disperato, o in come le sue mani esplorassero
il suo corpo, infilandosi sotto l'abito verde chiaro che non si era
degnata di togliere. Dal suo canto, Beth non rimase con le mani in
mano: dopo avergli sfilato la giacca marrone scuro era ora libera di
esplorare il suo torso. Poteva sentire, sotto le proprie dita tremanti,
come i muscoli della sua schiena si muovessero a ogni spinta e solo
quello la fece gemere.
Borgov si
immobilizzò a quel suono, un brivido che gli percorse
la spina dorsale. Fu sul punto di chiedergli se stesse bene —
e
quella sarebbe stata la prima cosa che si sarebbero detti da quando si
era presentato da lei — ma la voce le morì in gola
quando
la sua mano sfiorò il suo clitoride.
Beth poté
solo aggrapparsi alle sue spalle larghe, ansimando
quando le sue spinte si fecero più decise. Il suo nervosismo
si
sciolse in un piacere crescente e il suo corpo le sembrava quasi senza
peso, come se Vasily fosse l'unica cosa a tenerla ancorata al
materasso. Era inebriante, un'euforia che non avrebbe mai potuto
replicare.
Quando fu soddisfatta,
completamente rilassata e docile,
bisbigliò il suo nome e questo fu la goccia che fece
traboccare
il vaso per Borgov. Collassò su di lei e Beth
trovò molto
confortante il suo peso, quasi una prova che non si era immaginata
tutto; accarezzò i suoi capelli in silenzio fino a quando
non si
addormentarono.
La mattina seguente
Beth si svegliò da sola nel suo letto.
Avrebbe potuto catalogare l'intera faccenda come un sogno erotico molto
vivido, ma il fatto che stesse ancora indossando l'abito del giorno
prima — arrotolato fino allo stomaco e tutto stropicciato
—
lo contraddiceva. Aveva scopato con Vasily Borgov.
Aveva scopato con
Vasily Borgov e non si erano baciati neanche una
volta, anche se le aveva lasciato una scia di vistosi succhiotti sul
collo.
Aveva sempre amato i
maglioni a collo alto.
Beth apprezzava
profondamente la bellezza.
Questo la rendeva una
ragazza superficiale o materialista? Per molti
sì, ma non era d'accordo: le piaceva solo circondarsi di
belle
cose.
Amava i vestiti d'alta
moda che complimentavano la sua figura sottile,
e un eyeliner che le accentuasse lo sguardo intenso; tuttavia non era
un'amante dei gioielli, con l'unica eccezione del regalo del diploma di
sua madre, che non aveva mai tolto da allora. La sua casa di Lexington
era stata eletta la più bella del vicinato, in uno di quelle
stupide gare che le casalinghe di mezza età ideavano per via
della noia, ma non nutriva un grande interesse per l'arte in generale:
apprezzava l'intento dietro la scultura, il tentativo dell'artista di
ricreare la bellezza secondo il suo punto di vista, ma non l'allettava
molto.
Beth trovava belle
cose che per molti erano banali.
Amava come il sole
autunnale filtrasse fra le foglie dei suoi alberi,
nel giardino di casa; poteva passare ore e ore ad analizzare le partite
di vecchi Gran Maestri, cercando di trovare le combinazioni
più
interessanti. Pensava che la regina fosse il pezzo più
grazioso
di tutti, ma il re che Vasily le aveva donato a Mosca rimaneva il suo
preferito in assoluto.
Adorava anche il suo
corpo nudo.
Beth poteva vedere nei
suoi occhi, quando si spogliava, che pensava di essere troppo banale,
troppo vecchio,
per lei. Lo zittiva sempre inginocchiandosi davanti a lui e
succhiandolo finché quei pensieri non sparivano. Era il
campione
del mondo, certo, ma a volte era così stupido. Cosa c'era da
non
amare in lui? Le piaceva il suo petto liscio, perfetto per posarvi il
capo, e come le sue braccia muscolose la stringessero; il timbro della
sua voce riusciva sempre a calmare la sua mente irrequieta, e tracciare
con un dito il contorno delle sue labbra era la sua seconda cosa
preferita mentre erano stesi a letto. La sua preferita in assoluto era
baciarlo.
Aveva un certo non so che che lo elevava da tutti gli altri uomini che
aveva baciato in vita sua: forse era come muoveva la bocca sulla sua,
pieno di desiderio, come se stesse cercando di divorarla; fore era come
la stringeva a sé, una mano sulla nuca e l'altra sulla sua
vita
per premerla contro il suo petto. Probabilmente era perché
stava
baciando Vasily Borgov.
Beth sorrise
dolcemente a quella realizzazione. Poteva vedere il sole
sorgere su Roma e anche quella vista era bellissima. La guida
turistica, assegnatale dalla Federazione Scacchistica Italiana, le
aveva mostrato alcuni dei famosi monumenti della Città
Eterna,
le rovine dell'antica civiltà e le fontane barocche, ma
l'aveva
trovata troppo affollata, troppo commerciale.
Preferiva di gran lunga questa vista, dalla suite al sesto piano, dove
poteva ammirare i tetti e le cupole emergere dall'oscurità
della
notte. Anche se neanche questa poteva competere con ciò che
l'aspettava all'interno.
Il corpo di Vasily era
piacevolmente tiepido quando scivolò
sotto le coperte. Istintivamente, le cinse la vita con un braccio,
ancora profondamente addormentato. Avevano ancora un po' di tempo prima
che Beth dovesse tornare nella sua stanza, perciò decise di
farlo riposare un po' di più: d'altronde aveva analizzato la
sua
partita aggiornata fino alle 2 di notte. Lo avrebbe svegliato fra
un'oretta e, dopo avergli fatto prendere il suo tè,
l'avrebbe cavalcato
fino a
quando entrambi non sarebbero più stati fisicamente capaci
di
pensare.
Non c'era bisogno di
parlare durante il sesso: tutto quello che si
dovevano dire lo comunicavano con gli occhi. Beth sapeva già
cosa ogni tanto rischiava di sfuggire a Vasily mentre lo facevano; allo
stesso modo, i suoi occhi azzurro ghiaccio potevano trovare quale fosse
la sua
risposta, solo mantenendo il suo sguardo. Le parole erano semplicemente
superflue.
Non aveva bisogno di
una dichiarazione d'amore eterno, come nei film
che guardava con Jolene dove la bella fanciulla bacia il suo unico
grande amore sotto una pioggia scrosciante. Finché Vasily
l'avrebbe continuata a guardare come aveva sempre fatto, era
più che sufficiente.
La notizia della
defezione in Francia di Vasily Borgov, a inizio 1972, sorprese il mondo
scacchistico.
Beth era a New York,
ad allenarsi con Benny per l'imminente San Diego
Open, quando la notizia divenne di dominio pubblico attraverso una
lunga intervista sul Time.
Dalla sua nuova casa in Meudon, il campione del mondo spiegava
perché avesse abbandonato l'URSS e quali fossero i suoi
piani
per il futuro. Benny le lesse l'articolo, la voce che tradiva la sua
sorpresa, mentre Beth mantenne gli occhi fissi sulla scacchiera, le
mani intrecciate davanti allle labbra per nascondere il piccolo sorriso
che le curvava.
Non era per nulla
sorpresa, la sua fuga era solo questione di tempo.
Invece poteva sentire una gioia egoista nascerle nel petto e
irradiarsi in tutto il suo corpo: seduta precariamente su uno degli
sgabelli, Beth osò immaginare una vita normale con lui, non
solo
momenti fugaci fra partite in una camera d'albergo. Si perse in questo
dolce scenario solo per un secondo,
però, prima di riscuotersi.
Prese la rivista dalle
mani di Benny — sfogliandola in silenzio
mentre il suo amico continuava a dirle che cosa ne pensasse dell'intera
faccenda — ma ignorò del tutto l'intervista,
concentrandosi solo sulle foto. In una, Vasily era seduto in poltrona,
le lunghe gambe incrociate e una scacchiera sul tavolino da
caffè al suo fianco. Sembrava così rilassato e a
suo agio
nel piccolo soggiorno, un sorriso appena accennato sulle labbra, che
appariva molto più giovane dei suoi anni: nel primo piano
della
pagina successiva Beth non riusciva più a intravedere la
ruga
sulla sua fronte causata dallo stress di rispettare le alte aspettative
riposte sulle sue spalle dal governo sovietico. Ricordava chiaramente
di averla provata a
lisciare, ridendo sommessamente mentre giacevano a letto insieme una
mattina, e di quanto fosse bello il sorriso di Vasily prima che la
baciasse, mozzandole il fiato.
Beth rivide quello
stesso sorriso tre mesi dopo, a San Diego, nella
hall affollata dell'hotel dove l'Open si sarebbe svolto. Era da solo
questa volta, nessun interprete né agente del KGB ad
accompagnarlo, e sembrava fuori luogo con il suo completo carbone e una
pacchiana cravatta bordeaux fra i turisti vestiti in modo casual.
Vasily la trovò immediatamente nella folla, come sempre, e
il
mondo di Beth si ridusse ai suoi occhi. Rimasero in silenzio uno di
fronte all'altro per un lungo momento, come se temessero che l'altro
sarebbe scomparso da un secondo all'altro. Fu Beth a rompere l'impasse
prendendo la sua mano fra le sue e facendo scivolare sul suo palmo il
re nero di Mosca.
Lui riconobbe
immediatamente il pezzo, anche senza guardarlo, e,
proprio come allora, l'attirò in un abbraccio. Questa volta,
tuttavia, non si limitò ad abbracciarla nella luce dorata di
quel pomeriggio estivo: Vasily posò la mano libera sulla sua
guancia e premette la bocca sulla sua. Era un bacio lungo e senza
fretta fra due persone che non avevano più bisogno di
nascondersi: avevano tutto il tempo del mondo ora. Beth fu la prima a
staccarsi, le guance appena arrossate e il rossetto cremisi leggermente
sbavato. Un dolce sorriso si allargò sul suo volto mentre la
sua
mano stringeva ancora la usa, il re fra i loro palmi.
"Ciao, Vasya".
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