Ossessione

di EmpressofDisagio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1963-1968 ***
Capitolo 2: *** 1968-1972 ***



Capitolo 1
*** 1963-1968 ***


Dopo aver vinto il campionato del Kentucky, i confini scacchistici di Beth si erano allargati. Aveva scoperto che, sì, lei era l'incontrastata regina dello stato, ma esisteva una gerarchia dei campioni, esattamente come nei pezzi. Essere il campione dello stato era come essere un alfiere: forte, certo, ma ce ne sono di molto più importanti. Come, ad esempio, il campione nazionale, paragonabile a una torre, oppure il campione del mondo, la potente regina. E il campione del mondo, da anni, era un russo di nome Vasily Borgov.
Non appena aveva compreso questa grande verità aveva deciso di darsi un traguardo importante, un traguardo che molti non avrebbero neanche osato formulare: diventare il miglior giocatore del mondo. D'altronde, perché non puntare in alto? Era giovane e talentuosa, e gli scacchi le venivano naturali come respirare. Ma era perfettamente conscia che per raggiungere il suo scopo avrebbe dovuto per forza battere Vasily Borgov, lui che aveva conquistato quel titolo e poteva sfoggiarlo con orgoglio. E così Beth aveva iniziato a raccogliere qualunque tipo di informazione su di lui che potesse racimolare: articoli, libri — ma non il suo, no, troppo terrore reverenziale solo a guardare la copertina — e fotografie. Aveva ricostruito in questa maniera un'idea delle sue origini e di chi fosse: nato a Leningrado, bambino prodigio come lei, era diventato Gran Maestro a soli venti anni e da allora era una delle figure di spicco della scuola sovietica; aveva conquistato il titolo di campione del mondo dalle mani di Petrosian tre anni prima e, fino a quel momento, nessuno era riuscito a strapparglielo. Prediligeva uno stile tecnico, la teoria sulla creatività. Luchenko lo definiva un "dio dei finali" poiché era perfetto, implacabile nell'inseguire un vantaggio minuscolo e inflessibile nella difesa.
Vasily Borgov era il suo opposto, il rovescio della sua medaglia, ma anche il suo simile. Solo a pensarci le veniva la pelle d'oca e le mani le tremavano.
Aveva studiato tutte le sue partite su cui era riuscita a mettere le mani e ogni analisi la lasciava a bocca aperta: un gioco così pulito, preciso, era una gioia per i suoi occhi; era ogni volta rapita dalla magia che riusciva a creare sulla scacchiera, poiché le sue non erano semplici partite ma opere d'arte. E lei non poteva far altro che ammirarle con reverenza, come un fedele che rimane estasiato davanti a un dipinto religioso, il cuore in gola.
La decisione di iscriversi a un corso di russo era stata naturale: gli scacchi erano il gioco dei sovietici da vent'anni. Beth avrebbe imparato a parlare la stessa lingua del loro re.

Lo aveva visto di persona la prima volta a Città del Messico, quando aveva 17 anni.
Era una mattinata piovosa e sua madre l'aveva convinta a prendere una boccata d'aria prima del suo primo match. Rilassarsi, secondo lei, l'avrebbe aiutata a giocare meglio e non lo studio dell'ultimo minuto per colmare le lacune nella sua preparazione dei finali. Beth voleva accontentarla, nella speranza che le prestasse le attenzioni che ora erano rivolte soltanto a Manuel, perciò decise di fare una passeggiata nel parco Chapultepec: le era stato assicurato che le sarebbe piaciuto, grande e rigoglioso com'era, ma ciò che alla fine aveva veramente apprezzato era il fatto che nessuno le chiedesse l'età quando ordinava da bere. Non appena l'alcol le era entrato in circolo aveva pensato che sì, forse Alma aveva ragione, si sentiva molto meglio ora che non aveva più la mente occupata dal pensiero del suo avversario del pomeriggio. Era entrata nel padiglione delle scimmie, incuriosita da questi animali così simili all'uomo, anche per trovare un minimo di riparo dalla pioggia che aveva aumentato d'intensità e lì, mentre guardava un esemplare in particolare muoversi con agilità per la teca, i suoi occhi colsero un movimento sulla sua destra.
Beth Harmon vide per la prima volta Vasily Borgov nello zoo di Chapultepec.
Come non riconoscere l'uomo di cui aveva studiato avidamente ogni gioco, la cui foto era quasi sempre presente su ogni numero di Chess Review? Era lì, a malapena cinque metri da lei.
La prima sensazione fu di delusione, quasi. Era un uomo normale. Portava i capelli laccati e pettinati di lato come ogni uomo sopra i trent'anni che consocesse, sembrava alto, sì, ma non aveva una fisicità imponente, e indossava un completo scuro — marrone, forse? Nero? Aveva la vista un po' annebbiata... — come chiunque. Con una famiglia qualunque, una famiglia che si sarebbe aspettata di avere come vicina di casa a Lexington: una moglie più giovane di lui, in un vestito giallo e un cappello coordinato, e un figlioletto al quale si chinava per dire qualcosa all'orecchio. Spiegazioni sulle scimmie, chi lo sa, era troppo lontana per capire.
Vasily Borgov, il re degli scacchi, era un uomo ordinario.
Se n'era andata — fuggita? — subito dopo questa rivelazione, senza voltarsi indietro, avvertendo il suo sguardo su di sé. Tutto d'un tratto studiare i finali le sembrava un'idea molto più allettante della birra e, persino, delle pillole.

Aveva cercato il suo sguardo per tutto l'Invitational di Città del Messico.
Era l'unica cosa che non aveva potuto osservare da quel incontro fugace allo zoo e forse era proprio quello che lo distingueva dai giocatori comuni, quelli che stava distruggendo nei vari turni. Aveva cercato di giocare con lo stile più aggressivo che potesse architettare in modo da attirare la sua attenzione, così spietato che aveva portato quasi alle lacrime un giocatore austriaco che aveva osato opporsi a lei. Ma Borgov aveva continuato a concentrarsi solo sul suo torneo, senza mai abbassarsi a guardare le scacchiere altrui.
Quando aveva visto i loro nomi vicini, per la partita dell'ultimo giorno, aveva avuto le vertigini: avrebbe finalmente giocato contro il campione del mondo. Borgov avrebbe dovuto per forza guardarla. Al solo pensiero aveva sentito lo stomaco chiudersi e un nodo formarsi in gola.
Si era vestita per fare bella figura, con uno dei suoi completi preferiti: voleva che si ricordasse di Elizabeth Harmon, la giovane promessa degli Stati Uniti, così come lui occupava spesso la sua mente. Era persa in questi pensieri leggermente egocentrici quando vide i russi entrare nell'ascensore, ma non abbastanza distratta da non sentire come i due uomini che fiancheggiavano Borgov la stessero denigrando: un'ubriacona, si dice; si arrabbia quando sbaglia, ma è comprensibile visto che è una donna... Non si era mai sentita così umiliata in vita sua e il nodo alla gola si era sciolto in una fiamma che le bruciava in petto. Tuttavia, fra tutti, fu proprio Borgov a interrompere i due, senza sapere che la ragazza di cui aveva preso le difese era a neanche due metri di distanza; o forse lo sapeva, poiché non appena finì di parlare lanciò un'occhiata dietro di sé, verso di lei. Beth era stata rapida a distogliere lo sguardo dai russi e fingere innocenza, ma forse non abbastanza. Erano usciti velocemente dall'ascensore e lei li aveva seguiti a debita distanza, senza mai togliere gli occhi dalla schiena di Borgov. Ora la voglia di guardarlo negli occhi era diventata una vera e propria necessità: doveva sapere cosa realmente pensava di lei e lo avrebbe capito così, visto che parlare con lui era fuori discussione.
Ma Borgov evitò il suo sguardo per tutta la partita, il viso che assomigliava a una maschera di ghiaccio. E Beth comprese che nulla al mondo gli avrebbe mai fatto cambiare espressione, a parte mettere appositamente in presa la regina o lanciargli in faccia il pezzo, ma quest'ultima opzione non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua già pessima reputazione. Se solo avesse avuto le sue pillole non si sarebbe sentita così irrequieta, così frustrata dall'impossibilità di suscitare la benché minima emozione in lui, solo la più completa apatia. Questa idea la faceva ribollire e non l'aiutava di certo la posizione sulla scacchiera - terribile, con tutti i suoi pezzi in un angolo, raccolti attorno al re nella vana speranza di difenderlo - né l'espressione sconsolata dei gemelli. Né la sedia vuota che avevano riservato per sua madre.
Era sola, di nuovo. Sola contro il campione del mondo, che più che un uomo assomigliava a una macchina progettata dai sovietici per il controllo assoluto del gioco.
Se solo avesse avuto le sue pillole...
Ma era perfettamente consapevole che neanche loro l'avrebbero potuta salvare e l'unica cosa giusta da fare era abbandonare. Era una questione di sportività e rispetto dell'avversario, la prima lezione del signor Shaibel.
Borgov non la guardò neanche quando si rifiutò di stringergli la mano.

A Parigi avrebbe pagato qualunque cifra purché la smettesse di fissarla.
Sapeva di puzzare, se lo sentiva. Sapeva che l'odore di alcol, sesso e vomito essiccato non erano andati via magicamente quando si era spruzzata addosso quanto più profumo potesse mentre cercava le scarpe. Sapeva che tutti avevano intuito cosa non andasse in lei, perché avesse chiesto la terza caraffa d'acqua in un'ora.
Se tutti sapevano, perché umiliarla ancora di più fissandola? Borgov era un uomo crudele.
L'unica volta che si era azzardata a guardarlo, all'inizio del mediogioco, era quasi caduta dalla sedia per l'intensità che i suoi occhi di ghiaccio erano in grado di convergere. Ed erano pieni di disgusto, per il suo stato e per il suo gioco indecente. Non poteva neanche fargliene una colpa poiché era vero, era tutto vero, e se ne vergognava: come era potuta cadere così in basso dopo tutti i sacrifici fatti? Aveva deluso Benny, che l'aveva aiutata a disintossicarsi e a prepararsi per questo torneo, e aveva deluso se stessa. Apparentemente aveva deluso anche Borgov, che la guardava alla ricerca del motivo dietro la sua spirale autodistruttiva. Perché dietro al disgusto — una reazione fisica comprensibile — aveva visto anche un'ombra di preoccupazione.
Forse era ancora troppo ubriaca e si stava solo immaginando le cose.
Ciò che sicuramente non si stava immaginando erano gli sguardi di pietà degli spettatori, che la fissavano avidamente, ansiosi di vedere il declino di una promessa. Un giorno si sarebbero vantati di aver assistito al tracollo di Elizabeth Harmon in diretta, di quanto fosse penosa, aggrappata al bicchiere d'acqua come a un salvagente, e di quanto talento avesse sprecato in alcolici e tranquillizzanti. Il destino dei geni, no? Stavano tutti pensando questo, in una misura o in un'altra, sembravano quasi degli avvoltoi pronti a banchettare sul cadavere della sua carriera scacchistica. Nessuno, in quella folla, era lì per appoggiarla: era sola, un'altra volta, dall'altra parte del mondo.
Borgov, invece, aveva qualcuno lì a fare il tifo per lui. Lui non era solo. Lui aveva una famiglia che era lì per supportarlo. Aveva un figlio dagli occhi vispi e una bella moglie che di sicuro non passava le notti a bere per colmare i suoi vuoti. Una bella moglie che non si imbottiva di tranquillanti fin dall'infanzia.
Si era accorta di star piangendo solo quando la lacrima le arrivò sull'angolo delle labbra. Aveva abbandonato prima che si asciugasse.

Beth era consapevole di avere un'ossessione per Vasily Borgov.
L'aveva ridimensionata nel corso degli anni, questo sì, ma era abbastanza autocritica da vedere quanto spazio nei suoi pensieri occupasse ancora il campione del mondo. Non aveva mai smesso completamente di cercare informazioni su di lui, convinta che la chiave per svelare l'arcano della sua mente fosse lì da qualche parte: vedeva Borgov come una posizione da analizzare, la più complessa che avesse mai visto, e Beth non aveva ancora finito di trovare varianti. Era semplicemente affascinante, come solo gli scacchi potevano essere.
Erano i suoi occhi quello che l'avevano colpita di più: blu ghiaccio e intensi, Beth poteva ancora sentirli su di sé mesi dopo Parigi, specialmente quando cercava sollievo con una mano fra le gambe.
Gli occhi di Borgov la seguirono per tutto l'internazionale di Mosca.
Questa volta non lo stava immaginando, il campione del mondo spesso lanciava occhiate nella sua direzione: che fosse durante l'esibizione di giovani prodigi musicali o prima di entrare nella sala di gioco, Beth sentiva il suo sguardo fisso su di sé. Era sicura che fosse il suo, solo Borgov la elettrizzava così. Solo lui, nessun altro.
Quando lo vide alzarsi — nel mezzo della partita con quel irritabile giocatore svedese — per controllare la sua posizione sulla scacchiera, capì che finalmente era entrata nella sua mente. Vasily Borgov la riconosceva come sua rivale, come sua eguale.
L'eccitazione che aveva provato in quel preciso momento era impareggiabile, si sentiva invincibile, niente e nessuno poteva fermarla ora.
Il suo trionfo fu assoluto quando Borgov le offrì il suo re, alla fine della loro partita. Beth lo prese, la sua mano sorprendentemente ferma, alzandosi in piedi. Era quasi disorientata dal fragore dell'applauso e da ciò che era appena successo sulla scacchiera, ma era proprio Borgov a mantenerla coi piedi per terra: le stava ancora tenendo la mano e la guardava con un sorriso gentile. Aveva vinto lei, ma lui le sorrideva come se fosse orgoglioso di lei.
Poi, davanti a tutti, Vasily Borgov l'abbracciò e Beth ricambiò subito, appoggiando la testa sulla sua spalla; in questa posizione, poteva avvertire il suo cuore battere furiosamente, esattamente come il proprio.
Quando si separarono lo poteva intuire dalla linea tremante della sua bocca e dal mondo in cui si rifiutava di lasciarla andare: lo sentiva anche lui, quel fuoco che aveva alimentato il suo desiderio di spingersi oltre i suoi limiti.
Guardandolo negli occhi, Elizabeth Harmon realizzò che Vasily Borgov, il campione del mondo, era ossessionato da lei.



Note dell'Autrice:
È interessante tornare a scrivere dopo tanti anni, ma questa serie tv mi ha travolta come un treno e quindi eccomi qua.
Se ho deciso di pubblicare questa storia su EFP è tutto merito di V a l y, che mi ha convinto a creare un nuovo account su questo sito. Perciò grazie, come al solito ti devo tantissimo.
Tutto sommato, devo ammettero, è bello essere tornati~

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Capitolo 2
*** 1968-1972 ***


2. 1968-1972
Borgov la chiamò per la prima volta Liza nella sua terza lettera.
Era stato lui a inaugurare questo carteggio, a metà maggio 1968: l'aveva sfidata a una partita di scacchi per corrispondenza e Beth aveva accettato con entusiasmo. Non aveva più giocato con nessuno dopo Mosca — l'euforia di quella vittoria che non l'aveva ancora abbandonata del tutto — e chi meglio di lui per ricominciare?
Beth aveva passato i mesi precedenti all'arrivo della sua prima lettera leggendo libri di teoria — i finali erano ancora il suo tallone d'Achille, doveva assolutamente migliorare o qualcuno prima o poi ne avrebbe approfittato — e nascondendosi in casa. Era diventata una star nazionale da quando la sua vittoria era diventata di pubblico dominio: una ragazza del Kentucky aveva battuto i comunisti al loro stesso gioco, questa era di sicuro la prova inconfutabile della superiorità morale degli americani.
Volevano che prendesse posizione e denunciasse il regime sovietico, ma Beth evitò tutte le domande politiche, concentrandosi solo su come aveva giocato nel torneo e su quanto rispettasse i Gran Maestri russi. I giornalisti, invitati alla Casa Bianca, adorarono il suo senso dell'umorismo e le sue risposte taglienti mentre il presidente — che sapeva a malapena muovere i pezzi e fu sconfitto con facilità in meno di 15 mosse — non apprezzò così tanto. A Beth non importava niente: non era più un pedone indifeso.
Odiava questa fama: si concentravano sulla sua vittoria contro i sovietici. Se Borgov fosse stato di qualsiasi altra nazionalità a nessuno sarebbe importato.
Beth tenne la sua irritazione fuori dalle sue lettere con Borgov. Insieme alla sua mossa, gli parlava delle piccole cose che le capitavano. Gli descriveva la sbocciatura dei fiori del suo giardino, o quanto le avesse fatto piacere ricevere la visita di un amico. D'altra parte, invece, Borgov non era così loquace. Rispondeva sempre alle sue domande, ma non sprecava pagine su pagine per descriverle la sua vita quotidiana. Era preciso — esattamente come il suo stile di gioco e la sua calligrafia — e diretto. Non aveva bisogno di fronzoli per mantenere la sua attenzione.
La loro corrispondenza era amichevole, poco adatta ai formali "Miss Harmon" e "Mr Borgov" che avevano usato come apertura fino a quel momento. Presto passarono al nome proprio, come vecchi amici: Borgov abbreviò il suo in Liza, proprio come avevano fatto i moscoviti durante la sua permanenza. Le piaceva molto il modo in cui tracciava le lettere del suo soprannome, specialmente la curva della l; lo trovava adorabile.
Beth conservava tutte le sue lettere in una scatolina intarsiata, posizionata accanto ai suoi trofei di scacchi nel salotto. Solo una, invece, era riposta nel cassetto del suo comodino, in modo da poterla leggere ogni volta che lo desiderasse, sempre attenta a non piegare la carta delicata: quella in cui Borgov le spiegava il motivo per cui le aveva scritto; era andato dritto al sodo, come sempre, e la sua calligrafia non mostrava segni di esitazione.
Ci si sente soli qui in cima al mondo, mia cara Liza.

Vasily Borgov era arrivato al Invitational di Toronto del 1970 con un altro interprete, un uomo basso con degli occhialetti rotondi che gli scivolavano spesso sul naso aquilino.
Seduta su un divanetto di pelle abbastanza scomodo, Beth era nel bel mezzo di un'intervista con un giornalista canadese quando aveva visto entrare il duo, seguito subito dopo dai soliti agenti del KGB e dal resto della delegazione sovietica. Si fermò a metà della frase, guardandoli fare il check-in al Grand Hotel. Erano passati due anni da quando aveva visto di persona l'ultima volta Vasily e adesso erano di nuovo nella stessa stanza. Era quasi strano, considerato anche che erano rimasti in contatto per tutto questo tempo: ora più che mai, sentiva la sua corrispondenza con lui come una cosa intima e privata, anche se era perfettamente consapevole che sia la CIA che il KGB sapevano ogni minima cosa di cui si parlassero.
Beth concluse velocemente l'intervista, promettendo di posare per alcune foto esclusive in modo da addolcire questa interruzione improvvisa, e marciò nel bar dell'hotel da dove avrebbe avuto una vista perfetta sulla hall senza dover girare in maniera innaturale il collo. Il suo sguardo fu attratto dall'interprete, che stava discutendo con la receptionist del posizionamento delle camere dei suoi giocatori, sorseggiando una Coca Cola.
La moglie di Borgov era sempre stata l'interprete ufficiale, fin da quando si erano sposati; non aveva mai mancato un torneo in 15 anni. Voci di corridoio avevano parlato di una separazione poco dopo Mosca, ma Beth non aveva mai dato adito a tali pettegolezzi. Una volta Vasily le aveva scritto che si sarebbe trasferito nella sua città natale, ma era perché voleva prepararsi al meglio per il campionato nazionale dell'Unione Sovietica e per quello del mondo nel 1969. Forse c'era anche dell'altro dietro quella decisione. L'assenza della signora Borgov era molto interessante.
Georgi Girev si separò dal gruppo per andarla a salutare. Aveva ora 18 anni ed era molto indietro rispetto alla tabella di marcia che le aveva elencato a Città del Messico. Rispetto al ragazzino dai tratti arrotondati che aveva conosciuto a quell'Invitational, il suo viso si era affinato e ormai la sovrastava di mezza testa, pur conservando ancora quella goffaggine tipica dell'adolescenza; aveva i capelli come i suoi compatioti, pettinati di lato e con così tanto gel che sembrava fosse appena uscito dalla doccia, ma portava anche una barbetta chiazzata nella speranza di apparire più grande dei suoi anni. Le ricordava Benny e la sua faccia da bambino. Il pensiero la fece sorridere.
Beth voleva parlargli della partita 14 del suo incontro con Borgov per il titolo mondiale — dove avrebbe dovuto giocare cavallo e4 invece di spingere il pedone, perdendo così la partita e con essa l'intero match — ma Georgi sembrava molto più interessato alle ultime uscite di Hollywood. Era arrossito mentre le elencava tutti i film che avrebbe voluto vedere durante la sua permanenza in Canada, arrivando a balbettare quando le chiese quali fossero i suoi piani per quei pochi momenti in cui non era impegnata col torneo. Beth non aveva una grande esperienza in relazioni, nessuno le aveva mai chiesto di uscire in vita sua, ma poteva intuire quali fossero le sue intenzioni dietro a quelle domande. Batté le palpebre, colta di sorpresa, ma non fece in tempo a rispondere poiché Laev richiamò Georgi, ordinandogli di smetterla di flirtare e di andare a prepararsi per la prima partita. Mentre Girev andò da lui quasi di corsa, borbottando qualcosa in russo così velocemente che non riuscì a coglierne il significato, Beth buttò giù d'un fiato la sua Coca e si diresse verso l'ascensore. Si voltò solo quando sentì su di sé lo sguardo di Borgov, le mani nelle tasche dei suoi eleganti pantaloni; mantenne il contatto visivo fino a quando le porte si chiusero fra loro.
L'imbarazzo di quell'incontro si riversò nella loro partita, nel turno cinque. Georgi guardava qualunque cosa non fosse lei, e il suo gioco era molto impreciso: alla mossa 19 non vide una semplice forchetta di cavallo, perdendo così un'intera torre. Abbandonò subito, le punte delle sue orecchie scarlatte, e sembrava talmente miserabile che Beth gli propose di andare a vedere un film insieme per rallegrarlo. Georgi accettò con così tanta foga che l'arbitro venne a redarguirli per poi accompagnarli fuori dalla sala da gioco, sotto lo sguardo degli altri giocatori, palesemente disturbati dal fracasso.
Davvero, questo Invitational stava diventando il torneo più imbarazzante della sua vita.
Il film e la compagnia furono divertenti, ma fu ben presto chiaro a entrambi che desideravano cose diverse da quest'uscita. Georgi la prese abbastanza bene e ritornò alla suite che la delegazione sovietica usava come sala analisi, mentre Beth decise di andare a controllare gli accoppiamenti per il sesto turno prima di ordinare una cena leggera e prepararsi per il prossimo avversario.
La sala da gioco era completamente vuota eccetto per Borgov, che stava studiando attentamente il tabellone. Si voltò al suono dei suoi tacchi sul pavimento di marmo e sembrò quasi sorpreso dalla sua presenza. La luce aranciata del tramonto, che filtrava dalle ampie finestre, sembrava addolcire i suoi tratti sempre severi. All'improvviso Beth aveva un nodo alla gola e, non fidandosi di poter parlare in queste condizioni, si limitò a sorridergli prima di ricercare il suo nome fra gli accoppiamenti. Quando lo trovò, al primo tavolo accanto a quello di Borgov, il respiro le se mozzò in gola.
Vasily la stava ancora guardando.
Provò a dire qualcosa, qualunque cosa, ma prima ancora che un suono riuscisse a uscire dalla sua trachea contratta lui le prese la mano. La sua pelle era calda e sorprendentemente morbida; non portava più una fede nuziale. Lentamente, la portò alla sua bocca, le sue labbra screpolate che indugiarono sulle sue nocche un po' più di quanto fosse consono. Non che a Beth importasse, in quel preciso momento, e anche Borgov sembrava essere d'accordo. I suoi occhi brillavano nella luce del crepuscolo come carboni ardenti e lei avvampò. Il suo corpo continuò a tremare per ore, dopo che la lasciò sola nella sala.
Uvidimsya zavtra, Liza, aveva mormorato, la bocca premuta contro la sua pelle. Ci vediamo domani.

La loro prima volta fu a Siviglia, a fine ottobre del 1970.
Non avevano avuto bisogno di preliminari, la loro partita era stata sufficiente: un estenuante scontro di cinque ore dove Beth era stata in vantaggio per la maggior parte del mediogioco; Borgov, tuttavia, riuscì a scambiare tutti i pezzi, portandoli in un finale re e pedoni. Il suo preferito. Ben presto riuscì a erodere tutto il suo vantaggio, con una facilità che la lasciò stupefatta.
Alla fine era una patta, ma nessuno dei due sembrava soddisfatto del risultato. Beth necessitava l'intera somma per aiutare Jolene con il suo ufficio mentre il governo sovietico voleva da Vasily una vittoria pulita e lo stava mettendo sotto pressione. Poteva vederlo chiaramente nella tensione dei muscoli della sua mandibola e nell'arco delle sue sopracciglia quando aveva fatto una mossa che non si aspettava; agli occhi di chiunque altro sembrava che non ci fosse nulla di diverso dal normale, ma non per Beth.
Era tornata nella sua stanza dopo aver ricevuto l'assegno, frustrata con se stessa. Si sentiva intrappolata nella sua pelle, troppo stretta per contenere tutta l'energia nervosa che l'era rimasta dalla partita. Si ritrovò a camminare avanti e indietro nella sua camera, come fosse un animale pronto a balzare sulla sua preda, recitando nella sua testa la partita appena conclusa per trovarne gli errori. Non ce n'erano di gravi, solo due imprecisioni che Borgov era riuscito a sfruttare abilmente. Era davvero un dio dei finali.
Il bussare alla sua porta era inaspettato, così come Vasily dall'altra parte. Se non fosse che in realtà non lo era: tutte le loro interazioni nel corso degli anni li avevano portati qui.
Non ci volle molto prima che fu dentro di lei, la bocca premuta contro la curva del suo collo.
Non stavano "facendo l'amore". Non c'era nulla di romantico nel modo in cui spingeva, lascivo e disperato, o in come le sue mani esplorassero il suo corpo, infilandosi sotto l'abito verde chiaro che non si era degnata di togliere. Dal suo canto, Beth non rimase con le mani in mano: dopo avergli sfilato la giacca marrone scuro era ora libera di esplorare il suo torso. Poteva sentire, sotto le proprie dita tremanti, come i muscoli della sua schiena si muovessero a ogni spinta e solo quello la fece gemere.
Borgov si immobilizzò a quel suono, un brivido che gli percorse la spina dorsale. Fu sul punto di chiedergli se stesse bene — e quella sarebbe stata la prima cosa che si sarebbero detti da quando si era presentato da lei — ma la voce le morì in gola quando la sua mano sfiorò il suo clitoride.
Beth poté solo aggrapparsi alle sue spalle larghe, ansimando quando le sue spinte si fecero più decise. Il suo nervosismo si sciolse in un piacere crescente e il suo corpo le sembrava quasi senza peso, come se Vasily fosse l'unica cosa a tenerla ancorata al materasso. Era inebriante, un'euforia che non avrebbe mai potuto replicare.
Quando fu soddisfatta, completamente rilassata e docile, bisbigliò il suo nome e questo fu la goccia che fece traboccare il vaso per Borgov. Collassò su di lei e Beth trovò molto confortante il suo peso, quasi una prova che non si era immaginata tutto; accarezzò i suoi capelli in silenzio fino a quando non si addormentarono.
La mattina seguente Beth si svegliò da sola nel suo letto. Avrebbe potuto catalogare l'intera faccenda come un sogno erotico molto vivido, ma il fatto che stesse ancora indossando l'abito del giorno prima — arrotolato fino allo stomaco e tutto stropicciato — lo contraddiceva. Aveva scopato con Vasily Borgov.
Aveva scopato con Vasily Borgov e non si erano baciati neanche una volta, anche se le aveva lasciato una scia di vistosi succhiotti sul collo.
Aveva sempre amato i maglioni a collo alto.

Beth apprezzava profondamente la bellezza.
Questo la rendeva una ragazza superficiale o materialista? Per molti sì, ma non era d'accordo: le piaceva solo circondarsi di belle cose.
Amava i vestiti d'alta moda che complimentavano la sua figura sottile, e un eyeliner che le accentuasse lo sguardo intenso; tuttavia non era un'amante dei gioielli, con l'unica eccezione del regalo del diploma di sua madre, che non aveva mai tolto da allora. La sua casa di Lexington era stata eletta la più bella del vicinato, in uno di quelle stupide gare che le casalinghe di mezza età ideavano per via della noia, ma non nutriva un grande interesse per l'arte in generale: apprezzava l'intento dietro la scultura, il tentativo dell'artista di ricreare la bellezza secondo il suo punto di vista, ma non l'allettava molto.
Beth trovava belle cose che per molti erano banali.
Amava come il sole autunnale filtrasse fra le foglie dei suoi alberi, nel giardino di casa; poteva passare ore e ore ad analizzare le partite di vecchi Gran Maestri, cercando di trovare le combinazioni più interessanti. Pensava che la regina fosse il pezzo più grazioso di tutti, ma il re che Vasily le aveva donato a Mosca rimaneva il suo preferito in assoluto.
Adorava anche il suo corpo nudo.
Beth poteva vedere nei suoi occhi, quando si spogliava, che pensava di essere troppo banale, troppo vecchio, per lei. Lo zittiva sempre inginocchiandosi davanti a lui e succhiandolo finché quei pensieri non sparivano. Era il campione del mondo, certo, ma a volte era così stupido. Cosa c'era da non amare in lui? Le piaceva il suo petto liscio, perfetto per posarvi il capo, e come le sue braccia muscolose la stringessero; il timbro della sua voce riusciva sempre a calmare la sua mente irrequieta, e tracciare con un dito il contorno delle sue labbra era la sua seconda cosa preferita mentre erano stesi a letto. La sua preferita in assoluto era baciarlo. Aveva un certo non so che che lo elevava da tutti gli altri uomini che aveva baciato in vita sua: forse era come muoveva la bocca sulla sua, pieno di desiderio, come se stesse cercando di divorarla; fore era come la stringeva a sé, una mano sulla nuca e l'altra sulla sua vita per premerla contro il suo petto. Probabilmente era perché stava baciando Vasily Borgov.
Beth sorrise dolcemente a quella realizzazione. Poteva vedere il sole sorgere su Roma e anche quella vista era bellissima. La guida turistica, assegnatale dalla Federazione Scacchistica Italiana, le aveva mostrato alcuni dei famosi monumenti della Città Eterna, le rovine dell'antica civiltà e le fontane barocche, ma l'aveva trovata troppo affollata, troppo commerciale. Preferiva di gran lunga questa vista, dalla suite al sesto piano, dove poteva ammirare i tetti e le cupole emergere dall'oscurità della notte. Anche se neanche questa poteva competere con ciò che l'aspettava all'interno.
Il corpo di Vasily era piacevolmente tiepido quando scivolò sotto le coperte. Istintivamente, le cinse la vita con un braccio, ancora profondamente addormentato. Avevano ancora un po' di tempo prima che Beth dovesse tornare nella sua stanza, perciò decise di farlo riposare un po' di più: d'altronde aveva analizzato la sua partita aggiornata fino alle 2 di notte. Lo avrebbe svegliato fra un'oretta e, dopo avergli fatto prendere il suo tè, l'avrebbe cavalcato fino a quando entrambi non sarebbero più stati fisicamente capaci di pensare.
Non c'era bisogno di parlare durante il sesso: tutto quello che si dovevano dire lo comunicavano con gli occhi. Beth sapeva già cosa ogni tanto rischiava di sfuggire a Vasily mentre lo facevano; allo stesso modo, i suoi occhi azzurro ghiaccio potevano trovare quale fosse la sua risposta, solo mantenendo il suo sguardo. Le parole erano semplicemente superflue.
Non aveva bisogno di una dichiarazione d'amore eterno, come nei film che guardava con Jolene dove la bella fanciulla bacia il suo unico grande amore sotto una pioggia scrosciante. Finché Vasily l'avrebbe continuata a guardare come aveva sempre fatto, era più che sufficiente.

La notizia della defezione in Francia di Vasily Borgov, a inizio 1972, sorprese il mondo scacchistico.
Beth era a New York, ad allenarsi con Benny per l'imminente San Diego Open, quando la notizia divenne di dominio pubblico attraverso una lunga intervista sul Time. Dalla sua nuova casa in Meudon, il campione del mondo spiegava perché avesse abbandonato l'URSS e quali fossero i suoi piani per il futuro. Benny le lesse l'articolo, la voce che tradiva la sua sorpresa, mentre Beth mantenne gli occhi fissi sulla scacchiera, le mani intrecciate davanti allle labbra per nascondere il piccolo sorriso che le curvava.
Non era per nulla sorpresa, la sua fuga era solo questione di tempo. Invece poteva sentire una gioia egoista nascerle nel petto e irradiarsi in tutto il suo corpo: seduta precariamente su uno degli sgabelli, Beth osò immaginare una vita normale con lui, non solo momenti fugaci fra partite in una camera d'albergo. Si perse in questo dolce scenario solo per un secondo, però, prima di riscuotersi.
Prese la rivista dalle mani di Benny — sfogliandola in silenzio mentre il suo amico continuava a dirle che cosa ne pensasse dell'intera faccenda — ma ignorò del tutto l'intervista, concentrandosi solo sulle foto. In una, Vasily era seduto in poltrona, le lunghe gambe incrociate e una scacchiera sul tavolino da caffè al suo fianco. Sembrava così rilassato e a suo agio nel piccolo soggiorno, un sorriso appena accennato sulle labbra, che appariva molto più giovane dei suoi anni: nel primo piano della pagina successiva Beth non riusciva più a intravedere la ruga sulla sua fronte causata dallo stress di rispettare le alte aspettative riposte sulle sue spalle dal governo sovietico. Ricordava chiaramente di averla provata a lisciare, ridendo sommessamente mentre giacevano a letto insieme una mattina, e di quanto fosse bello il sorriso di Vasily prima che la baciasse, mozzandole il fiato.
Beth rivide quello stesso sorriso tre mesi dopo, a San Diego, nella hall affollata dell'hotel dove l'Open si sarebbe svolto. Era da solo questa volta, nessun interprete né agente del KGB ad accompagnarlo, e sembrava fuori luogo con il suo completo carbone e una pacchiana cravatta bordeaux fra i turisti vestiti in modo casual. Vasily la trovò immediatamente nella folla, come sempre, e il mondo di Beth si ridusse ai suoi occhi. Rimasero in silenzio uno di fronte all'altro per un lungo momento, come se temessero che l'altro sarebbe scomparso da un secondo all'altro. Fu Beth a rompere l'impasse prendendo la sua mano fra le sue e facendo scivolare sul suo palmo il re nero di Mosca.
Lui riconobbe immediatamente il pezzo, anche senza guardarlo, e, proprio come allora, l'attirò in un abbraccio. Questa volta, tuttavia, non si limitò ad abbracciarla nella luce dorata di quel pomeriggio estivo: Vasily posò la mano libera sulla sua guancia e premette la bocca sulla sua. Era un bacio lungo e senza fretta fra due persone che non avevano più bisogno di nascondersi: avevano tutto il tempo del mondo ora. Beth fu la prima a staccarsi, le guance appena arrossate e il rossetto cremisi leggermente sbavato. Un dolce sorriso si allargò sul suo volto mentre la sua mano stringeva ancora la usa, il re fra i loro palmi.
"Ciao, Vasya".

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