hide and seek

di moganoix
(/viewuser.php?uid=923996)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Beginning ***
Capitolo 2: *** Prologue ***
Capitolo 3: *** Hide and seek ***
Capitolo 4: *** FIRST - martedì ***
Capitolo 5: *** SECOND - mercoledì ***
Capitolo 6: *** THIRD - giovedì ***
Capitolo 7: *** FOURTH - venerdì (parte 1) ***
Capitolo 8: *** FOURTH - venerdì (parte 2) ***
Capitolo 9: *** FOURTH - venerdì (parte 3) ***
Capitolo 10: *** FIFTH – sabato ***
Capitolo 11: *** SIXTH – Domenica, Lunedì, un anno dopo (parte 1) ***
Capitolo 12: *** SIXTH – Domenica, Lunedì, un anno dopo (parte 2) ***



Capitolo 1
*** Beginning ***


Beginning

 
A Kyungsoo piaceva un mondo nascondere le cose, da piccolo si divertiva sempre a prendere le sudice bambole di sua sorella minore e a celarle in luoghi segreti noti solo a lui, luoghi di cui poi, puntualmente, si dimenticava l’esistenza, e allora, siccome non trovava mai quello che aveva nascosto, gli toccava intrufolarsi in qualche casa della gente benestante per sgraffignare un piccolo peluche o un’altra bambolina che rimpiazzassero il giocattolo smarrito. Poi però sua sorella era stata presa in affidamento da una famiglia di Gangnam quando Kyungsoo aveva dieci anni e lei sei, e nessuno l’aveva più vista. Kyungsoo pensava che fosse carina quando si arrabbiava, con quelle guance vermiglie per il freddo che si gonfiavano a palloncino, i capelli lunghi e pieni di nodi che ricadevano informi sulla fronte aggrottata e le spalle serrate nel giubbottino sgualcito ormai troppo piccolo anche per lei, che era minuta minuta, ma anche che fosse veramente adorabile quando si apriva in uno di quei sorrisoni che lambivano le estremità degli occhi mentre stringeva al petto quei bambolotti rubati che lui stesso le portava. Quando se n’era andata, Kyungsoo aveva sperimentato una sensazione nuova rispetto al disagio della vita da senzatetto, era come svuotato della serenità infantile, quella specie di spensieratezza immatura che, nonostante la depressione della madre e la sua impossibilità di badare ai figli, i due bambini continuavano inconsapevolmente a donarsi a vicenda, Kyungsoo con i peluche per la sorellina e quest’ultima con tutti i sorrisi sinceri che illuminavano le cineree giornate trascorse in discarica a rovistare nei cassonetti o lungo le strade cercando di racimolare qualche spicciolo. A dieci anni quindi, Kyungsoo scoprì che non solo gli oggetti potevano essere nascosti. Imparò allora a dissimulare la sua tristezza così bene che riuscì quasi a riempire quel vuoto che percepiva un po’ più su dello stomaco. Cosa c’era un po’ più su dello stomaco? Probabilmente qualcosa di importante se gli faceva così male. Con rammarico però, dopo poco tempo il ragazzo si rese conto che la sola tristezza non bastava per tappare il buco nero lì al centro del suo petto, dunque decise che fosse necessario nascondere tutte le proprie emozioni lì dentro, senza mai farle uscire allo scoperto, in modo da contenere la fame della fessura. Per un po’ di tempo andò bene, Kyungsoo continuava la sua misera vita di espedienti con la madre e non si lamentava. Come faceva con quelle bambole, dopo pochi anni iniziò a dimenticare il volto della sorella, prima i capelli, poi il corpo magro, infine gli occhi neri. Solo ogni tanto una veloce immagine delle sue sottili labbra incorniciate dalle guance arrossate faceva breccia nei pensieri di un Kyungsoo ormai tredicenne, e lui pensava con una fitta di nostalgia “Dove sei adesso, sorellina?”; poi neanche più quello. A diciotto anni compiuti, la madre in prigione per aver tentato di derubare in strada un riccone con la testa montata e una voragine al posto del cuore, ogni volta che Kyungsoo scorgeva quella tenera immagine infantile nei suoi sogni più intimi non poteva fare altro che chiedersi “Chi sei tu?”, per poi rinunciare e tornare a dormire con il peso del suo malessere che gli gravava addosso ancora più di prima. A vent’anni apprese da alcune voci che giravano in un campo rom che sua madre si era suicidata in carcere. La sua unica reazione fu un cenno d’assenso ed un indolente “Grazie dell’informazione” pronunciato mentre internamente ringraziava per quella nuova pesante malinconia da aggiungere a quella accumulata nel corso degli anni. A ventun anni e mezzo non sognava più nulla, il suo unico scopo era quello di sopravvivere e di colmare la voragine.

A ventitré anni, Do Kyungsoo riempì il baratro, o almeno così credette.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Prologue ***


Prologue
 
Kyungsoo osservava immobile le gocce rovinargli in faccia con schietta inerzia, non curandosi dei suoi vestiti fradici, del freddo, dei malanni, di tutto ciò che poteva scalfirlo. Era incrollabile, indistruttibile. Scrutava oltre la fitta cortina di una pioggia che avrebbe potuto fare concorrenza al diluvio universale, ma neppure lui sapeva bene cosa stesse fissando. Se lo era dimenticato, tutto risucchiato da qualche parte dentro di lui, in fondo. Erano mesi, forse anni, che non cercava speranze, sogni o qualsiasi cosa che non fosse legato, anche indirettamente, alla sfera sentimentale della sua mente. Aveva mai avuto una sfera sentimentale? Non lo sapeva. Forse. In ogni caso non necessitava più di possederne una. No, probabilmente l’unica cosa che stava cercando di distinguere in mezzo alla cupezza della pioggia era la sagoma di qualche passante occasionale che per pietà concedesse alcuni spiccioli a quel povero vagabondo, avvolto in un cappotto fatto di toppe e spazzatura che gli stava doppio, accucciato in un angolino. Ma non c’era nessuno, a Kyungsoo per un attimo dispiacque, quel giorno non aveva neanche racimolato il denaro necessario per una pagnotta, poi si ricordò di essere inscalfibile, e quelle rughe di rammarico che erano comparse sulla sua fronte scomparvero immediatamente, come se una mano invisibile le avesse distese a forza ed avesse ridonato la pace all’equilibrio creato dal serrato raziocinio del ragazzo. Si concesse un solo sospiro, non un’imprecazione, non un insulto, nessuno doveva capire che in quel momento Kyungsoo avrebbe potuto anche piangere, perché quel castello di vetro che era la sua stabile vita da sballato stava crollando, o almeno, lui credeva che stesse crollando. Meno soldi, meno cibo. Kyungsoo non rubava più, si sentiva stanco, terribilmente stanco. Ma tutto ciò non era comprensibile dagli immensi occhi del giovane, sembravano poter contenere il mondo, ed invece sbarravano l’ingresso a chiunque o qualunque cosa volesse chiedere ospitalità all’interno di essi. Poi, in quegli stessi occhi apatici si riflesse la figura longilinea di un altro ragazzo, alto, vestito bene. Sembrava piuttosto arrabbiato, quasi furioso, ululava qualcosa contro il vuoto. Kyungsoo avvertì in lontananza il rombo di un’automobile sgommare via, ma non ci dette peso. Il suo sguardo era incatenato al profilo scuro che si stava avvicinando con passi lenti, quasi insicuri. Strinse a sé la sua tavoletta di legno vuota, poi abbassò lo sguardo, non voleva farsi scoprire a fissare. L’altro gli giunse davanti, ed allora Kyungsoo poté vederlo meglio, gli sembrava di aver già incontrato il suo volto in giro, forse era famoso. Non che la cosa importasse più di tanto, anzi, probabilmente se era veramente un pezzo grosso l’unico motivo per cui lo stava squadrando era trovare il suo punto debole, per poi pestarlo senza motivo. Ovvio, gli era già successo. Ma se proprio ci teneva così tanto a riempirlo di botte, perché non si decideva?
Una voce calda e lievemente insicura sorpassò il fragore della pioggia: “Vuoi vedere il mondo dall’alto?”
Kyungsoo si ritrovò a rispondere: “E tu vuoi vederlo dal basso?”
 
L’esasperazione di Joonmyeon quella sera aveva toccato punti tanto estremi che ora lui stesso stava provando pena per quel piccolo Super Mario che continuava a cadere spudoratamente nelle piscine di lava di uno dei tanti Mondi presenti all’interno dell’omonimo videogioco. L’irritante musichetta di sottofondo proveniente dal malconcio Nintendo DS che da anni accompagnava le avventure del disgraziato idraulico suonava come una tortura alle orecchie del povero autista Kim, impegnato nella difficile guida di una costosa macchina nera vintage nel bel mezzo di quello che pareva il diluvio universale. Semplicemente, era un’ora e mezza che Joonmyeon conduceva il veicolo, tutt’altro che pratico, all’interno di una stupida tempesta d’acqua mentre il suo caro padroncino Kim Jongin, seduto comodamente sui sedili del vano posteriore della vettura, infradiciava di insulti quell’omino vestito di rosso che, poveretto, correva a più non posso, ma non riusciva proprio a sfuggire alla grinfie del magma ribollente. Forse era stupido e voleva farsi un bagno alle terme in un modo un po’ particolare, oppure, opzione completamente errata a detta di Kim Jongin, quello ritardato era proprio lo stesso ventiduenne seduto lì dietro, visto che non era in grado di premere il cosiddetto ‘pulsante A’ per far saltare Mario di piattaforma in piattaforma. Seriamente, dopo un’ora e mezza del genere, Joonmyeon aveva preso in considerazione l’idea di lasciare Jongin sulla vettura e rifugiarsi in qualche bar a prendere una cioccolata calda, senza pioggia, senza Super Mario, senza lava, senza quel noioso del suo padrone. E poi c’era la visuale. Un cieco ci avrebbe visto meglio di lui in quella bruma acquosa. Ma Joonmyeon non era assolutamente il tipo che si lamentava per tutto, assolutamente, solo un tantino… Va bene, sapeva di essere una persona lagnosa almeno quanto lo era Jongin, ma almeno non si metteva ad imprecare contro vari Mario vaganti che facevano bagnetti termali nei vulcani. In fondo tra i due c’era una sorta di rapporto amore-odio, un equilibrio alquanto strambo. Kim Joonmyeon, autista personale di Kim Jongin e in pratica la sua tata a tempo pieno, e Kim Jongin, idol emergente nel mondo dello spettacolo e come attore, piccola stella di una delle più importanti case discografiche di Seoul, eccellente ballerino e, tanto per completare il quadretto perfetto, pure bello abbastanza da far perdere la testa a migliaia di fan che aspettavano solo di potergli saltare addosso. A quel pensiero, l’autista sorrise. Chissà se tutti loro lo avrebbero ancora definito ‘figo’, ‘carino’ od ‘adorabile’ mentre, con le guance rosse, la fronte aggrottata, gli occhi colmi di esasperazione e la lingua che masticava ingiurie a manetta, se la prendeva con il suo DS. Alla fine voleva bene a Jongin come un fratello, aveva un carattere un po’ difficile da sopportare, ma alla fine, se si riusciva a dominare quella faccia ribelle che mostrava sotto il nome d’arte di Kai, si trasformava semplicemente in… in Kim Jongin, lo stesso disagiato che, in quel preciso istante, stava minacciando di dar fuoco alla console. Joonmyeon voleva quasi fargli notare che l’aria era troppo umida per poter far appiccare il fuoco, come se non ne avesse ancora abbastanza del vulcano.
Lasciandosi condurre dal filo dei suoi pensieri, l’autista seguiva con sguardo perso nel grigiore della foschia la strada principale che conduceva alla casa di Jongin. Una settimana di ferie trascorse con la famiglia per il suo giovane padrone, uguale a una settimana vuota di insulti, minacce, Super Mario e DS per lui. Si chiese se non si sarebbe annoiato a morte. Probabilmente sì, ma ci avrebbe pensato più tardi, ora doveva assolutamente far arrivare Jongin a casa prima che i genitori lo dessero per disperso. Mancava poco, doveva solo percorrere ancora una ventina di metri in rettilineo e girare a sinistra dopo l’angolo cieco che il muro portante di uno dei tanti grattacieli della città creava. Fermandosi allo stop prima di svoltare, Joonmyeon diede una rapida occhiata agli specchietti dell’auto e a quelli appesi lungo la strada per cercare di scorgere se qualcuno stesse arrivando dalla altre direzioni. Non pareva esserci anima viva, quando notò un qualcosa muoversi in uno di essi. Un bozzolo nero, troppo piccolo e bitorzoluto per essere un’automobile in lontananza. Allora parlò, rivolgendosi al giovane seduto nel vano posteriore: “Jongin, guarda qui, – ed indicò lo specchietto – secondo te è un animale?”
Jongin distolse finalmente lo sguardo dal DS, sporgendosi in avanti per vedere meglio il punto indicato da Joonmyeon e mugolando qualcosa che assomigliava molto ad un ironico ‘Quante volte ti ho già detto che non ti è permesso chiamarmi per nome, Hyung?’. Aguzzando gli occhi, riuscì ad intravedere la figura scura. Più che un animale sembrava una persona, probabilmente uno dei soliti vagabondi che chiedevano l’elemosina. Poi il giovane guardò fuori dal finestrino, provando a ricostruire la geografia del luogo in cui si trovava. Non doveva mancare molto per arrivare a casa sua. Riconobbe l’angolo cieco ed i due lampioni che gettavano una fiacca luce sui marciapiedi, ed allora si ricordò anche di lui, di quel giovane senzatetto che trascorreva le sue giornate rannicchiato con le ginocchia al petto, una tavoletta di legno a fianco, sulla quale, tra l’altro non era scritto nulla, ed un cappellino rosa da bambina con cui racimolava spiccioli. Non cambiava mai posizione, non si alzava, non si sdraiava, rimaneva immobile mentre trapassava i passanti con quegli occhi giganteschi e dannatamente vacui, spenti di un nero funereo, quasi chiusi alla realtà. O forse al sogno. Fatto sta che, prima ancora del provino che lo aveva portato al successo, a Jongin capitava spesso di passare di lì in bicicletta, o durante una passeggiata, nei bei pomeriggi quando ancora poteva definirsi un normale adolescente, e di vederlo sempre seduto nello stesso punto, munito del medesimo sguardo indagatore, tutti i giorni. Era da un po’ che non tornava più a casa, un anno almeno, anche a causa delle riprese in Giappone, e non aveva più avuto occasione di percorrere quella strada, ma voleva scommettere che quell’involucro scuro era proprio lo stesso ragazzo che osservava nei suoi tranquilli pomeriggi primaverili a tredici-quattordici anni. Non seppe il perché, ma Jongin si ritrovò a sorridere sotto i baffi davanti ad uno stranito Joonmyeon, il quale, non ricevendo alcuna risposta alla domanda espressa precedentemente, si limitava a fissare la gamma di espressioni che il suo caro padroncino aveva sfoderato nei dieci minuti nei quali non aveva staccato gli occhi da quel pallino nero.
“Lo conosci?” la voce di Joonmyeon fece riscuotere Jongin, che negò, forse troppo in fretta, con un cenno del capo.
“Okay, da quanto lo conosci?”
Joonmyeon era così, leggeva nel pensiero, a volte Jongin pensava sul serio che avesse poteri sovrannaturali, o almeno un grande fiuto nel capire ciò che la gente cerca di nascondere.
“Non lo conosco, Hyung. Semplicemente mi sono ricordato che, quando abitavo ancora in questa zona, c’era sempre un barbone che doveva avere circa la mia età seduto in quel punto preciso della strada. Ho semplicemente pensato che potesse essere lui.”
“Deve averti colpito molto…” disse l’autista con un ghignetto trattenuto. Jongin fece finta di non capire, emettendo un ‘Eh?’ stupito come risposta.
“Sì, doveva piacerti veramente tanto, se ti ricordi così bene di lui. Sai anche come si chiama per caso?”
Jongin avvampò, andò in palla, esplose, inveì contro il povero Hyung, si calmò un momento e riprese ad urlare, sovrastando il rumore del motore e lo scroscio di pioggia battente: “No, Hyung, non so come si chiami, e non lo voglio sapere! E poi, no, non mi piaceva!”
Joonmyeon non gli dette ascolto e, con occhi brillanti, continuò: “Che cosa carina, Jonginnie! E dimmi, da quanto ti piace? Pensavi a lui mentre eri via?”
Jongin lo trovò più inquietante di una sasaeng in quel momento, poi se ne uscì, vincendo l’imbarazzo iniziale, con un rocambolesco: “Joonmyeon! È solo uno stupido barbone! Uno che non ha saputo che farsene della sua vita ed ora aspetta che qualcuno continui a mandargliela buona affinché possa continuare a campare! Probabilmente non ha neppure uno straccio di diploma…”
“Okay, okay, ho afferrato il concetto. Sei proprio sicuro che sia lui? Insomma, potrebbe trattarsi di chiunque, non si riesce a scorgere il volto…”
“No, Joonmyeon,” Jongin roteò gli occhi “non so sei sia effettivamente lui! Ma sai che c’è? Sta letteralmente diluviando, io sono appena tornato dal Giappone, Super Mario non è capace a saltare e io vorrei tanto arrivare a casa incolume, quindi” e sottolineò con la voce il ‘quindi’ “perché diamine siamo fermi a questo maledetto incrocio a parlare di un qualche senzatetto che, tra l’altro, nemmeno conosco?”
Jongin manteneva un fittizio tono amichevole, accompagnato da un improvviso e, pensò l’autista, palesemente teatrale tic all’occhio destro. Joonmyeon si rese improvvisamente conto di star andando incontro ad un’atroce morte prematura, ma chiese comunque con espressione più seria: “Jongin, sinceramente, qualcosa doveva pur averti colpito di lui, di solito non ricordi per nulla la faccia di una persona di cui non sai neanche il nome…”
L’autista lasciò la frase in sospeso di proposito, affinché Jongin non potesse rispondere troppo obiettivamente ed omettere ciò che il maggiore voleva sentire.
“Io… forse la sua immobilità. Anni ed anni trascorsi a vederlo sempre nello stesso punto, senza spostarsi, senza lamentarsi, mentre guardava i passanti con quegli occhi scuri e maledettamente vuoti. In tutto quel tempo non l’ho mai visto giocare, mangiare, in effetti non l’ho mai visto in piedi. Non l’ho mai visto sorridere, sbadigliare, dormire, sorridere-”
“Hai detto due volte ‘sorridere’” lo interruppe Joonmyeon con tono quasi paterno e dannatamente dolce “e da quando sai come sono i suoi occhi?”
Jongin arrossì ancora, spalancando gli occhi e rendendosi conto delle parole che erano fuoriuscite dalla sua bocca senza avvisare prima il cervello, e Joonmyeon comprese dal suo colorito molto di più di ciò che avrebbe potuto ricavare da un normale terzo grado. Quest’ultimo stette un attimo in silenzio attendendo una risposta. “Allora, Jongin?” lo spronò, ottenendo una sottospecie di grugnito-mugolio come replica da parte dell’altro. “Che cosa?” disse ridacchiando divertito dall’improvviso imbarazzo dell’idol. Era uno dei vantaggi di conoscere anche Jongin, oltre che Kai. “Da quando mi sono fatto spillare anche io dei soldi” ripeté l’altro a voce tanto bassa da parere quasi un colpo di tosse del motore. Joonmyeon però allargò il sorriso, calmando momentaneamente i suoi istinti da fangirl.
“Ed in quel momento hai visto i suoi occhi…” riassunse quest’ultimo.
“Già…” concordò l’altro. Stettero in silenzio per attimi che parvero eterni, lo sbatacchiare solo delle gocce di piaggia che morivano schiantandosi sulla vettura scandiva un tempo irrisorio eppure quasi… chiarificante, Jongin lo avrebbe definito così.
Fu il maggiore a rompere la pace: “Sai, vero, che i tuoi non sono d’accordo?”
“Come dimenticare la scenata che avevano fatto di fronte a te scoprendo che eri, anzi, sei fidanzato con un altro ragazzo? Ci sono voluti mesi prima che capissero che non avevi una malattia contagiosa o qualsiasi altra cosa che la loro mente era stata capace di partorire…” dalle parole spinose di Jongin traspariva amarezza, ingannevole e dolente veleno che scioglieva nell’acido di un sentimento pericoloso, quello di cui aveva riempito fino all’orlo il rapporto con i genitori, un desiderio represso che spingeva dall’interno delle pareti del suo cuore, lacerandone il morbido tessuto. Un desiderio di libertà, rinchiuso a chiave e gettato in un’identità che piano piano stava scivolando via dalla pelle del ragazzo stesso, mentre Kai prendeva il sopravvento e salutava le folle urlanti, prigione sfrenata e passione sfumata. Jongin aveva trovato se stesso, e poi l’aveva perso, a causa di quelle due figure imponenti che avevano sempre torreggiato su di lui ed l’avevano protetto con la loro ombra, a causa di quei due avvoltoi che non gli avevano mai lasciato spiccare il volo da solo. Jongin era sempre stato loro succube e, anche se voleva loro bene, non voleva più costruirsi un cammino da star, sogno della più tenera età. Ma quando il suo corpo sinuoso da ballerino lo aveva inesorabilmente portato su un sentiero già battuto, la scalinata verso la gloria, i suoi avevano firmato senza esitazione in seguito ad uno stentato “Perché no?” pronunciato distrattamente guardando un film alla tv, a quindici anni. Di chi era la colpa? Non importava più, Jongin era Kai e basta, fine della favola. Il mondo di un idol faceva schifo, ma non poteva biasimare i suoi genitori per aver esaudito il suo desiderio di bambino di sette anni.
Joonmyeon notò quell’improvviso oscuramento negli occhi dell’amico. Voleva consolarlo, ma pensò che ogni parola fosse ormai superflua. Un’idea iniziò a balenargli un mente, e più ci rifletteva su, più pensava che quella fosse la volta buona che Jongin l’avrebbe ammazzato senza riguardi.
“Prendi un ombrello” enunciò l’autista, ricevendo un paio di occhi spalancati come risposta “Fallo.”
Jongin si tirò di nuovo indietro a sedere sui sedili posteriori, e nel tempo in cui cercava l’ombrello, Joonmyeon girò l’auto, facendola sbandare pericolosamente sull’asfalto bagnato, e accostò vicino al senzatetto. Senza esitare aprì la portiera e scese, correndo verso il lato in cui era seduto Jongin. Spalancò di botto lo sportello del veicolo e vi tirò fori Jongin, afferrandolo saldamente un braccio e scaraventandolo sotto la pioggia battente, munito solo di un misero ombrello che minacciava di lasciarsi trascinare via dal vento, librandosi come faceva Mary Poppins (ma senza Mary Poppins) e danzando il tip tap con il fulmini. Lasciò un Jongin strillante a dibattersi come un pulcino bagnato, mentre lui si fiondava di nuovo nel calore dell’automobile, prima che l’altro potesse raggiungerlo e risalire, e ripartì sgommando, ridendo mentre immaginava a tutti gli insulti che l’idol gli avrebbe rivolto una volta tornato indietro a prenderlo.
Jongin dal canto suo era molto più preso dallo sbraitare e dall’inveire per ridere. Si dimenava sotto la pioggia mentre combatteva strenuamente con il fragile ombrello, digrignando i denti a causa della particolare tendenza dell’oggetto a volersi girare a tutti costi al contrario. Vari ‘maledetto!’ fuoriuscivano dalla sua bocca mescolati ad altri insulti più coloriti come una cascata in piena. Si chiese perché mai facesse solo paragoni con qualcosa che avesse a che fare l’acqua, decisamente tutte quelle fastidiose goccioline gli stavano dando alla testa. Senza accorgersene, si avvicinò lentamente, passo dopo passo incespicando nelle pozzanghere, al marciapiede, ritrovandosi proprio di fronte al barbone. Quasi gli venne un colpo vedendoselo spuntare lì dietro, con i soliti occhi giganteschi a scavargli l’anima. Lo guardò insensatamente intensamente, e riconobbe il ciuffo di capelli castani, le labbra piene, quello stesso sguardo vuoto e terribilmente penetrante. Ne rimase scosso, non era per nulla cambiato, il tempo non l’aveva scalfito minimamente. Immobile. Immobile in una dimensione assurda e fuori dagli schemi. Era questo che Jongin pensava, prima di darsi dell’idiota mentalmente. Poi, trascorso il momento di autocommiserazione, qualcosa dentro di lui gli disse di muoversi a dire qualcosa, così pronunciò istintivamente, scandendo bene i suoni: “Vuoi vedere il mondo dall’alto?”
Per un attimo la pioggia tornò a fungere da ticchettante pendolo, poi, come in sogno, una voce bassa ed appena udibile si fece strada tra il battere e ritmare di quel metronomo naturale, rompendo la melodia casuale di esplosioni e schianti sul freddo terreno.
“E tu vuoi vederlo dal basso?”
Basso. Il basso non era esattamente il luogo preferito di Jongin, ma per una volta non si volle fare troppe domande. Riuscendo finalmente a mettere a posto l’ombrello, si sedette, non senza un leggero rimpianto verso i suoi pantaloni di marca, vicino al ragazzo, posizionando il paracqua sopra le loro teste.
Non si guardarono mai, stettero semplicemente seduti vicini, mentre in Kyungsoo qualcosa stava cercando di uscire dalla voragine ed in Jongin nasceva una strana curiosità in petto.
Quando, un’immensità dopo, due luci coraggiose si fecero strada attraverso le lacrime del cielo e Joonmyeon tornò a prendere l’idol, Jongin non avrebbe voluto andarsene. Si lasciò trascinare via a peso morto sul sedile posteriore del veicolo, in preda ad una sensazione particolare che solleticava le sue vene, correndo con il suo sangue ed irradiando tutto il suo corpo. Le sue dita tremolavano fradice, ma Jongin non era sicuro che fosse veramente per il freddo che la pioggia, infiltratasi ormai anche tra le sue ossa, regalava all’atmosfera angosciosa di quella sera o per il gelo che lo stesso ragazzo a cui era seduto vicino fino a prima emanava visibilmente. Joonmyeon notò lo sguardo perso di Jongin, così, in un timido tentativo di rompere il ghiaccio, domandò con voce distante un vago ed impacciato ‘com’è andata?’. Jongin impiegò alcuni secondi per rispondere, tuttavia, quando lo fece, non replicò direttamente alla richiesta, e neanche lo assalì come aveva intenzione di fare precedentemente. Le uniche sillabe che fuoriuscirono, lente, basse e tremolanti, dalla bocca dell’idol furono: “Gli ho lasciato l’ombrello.”
Lo stesso ombrello di cui, in quel momento, Kyungsoo stringeva vigorosamente l’impugnatura, reggendolo sopra la sua testa e rannicchiandocisi sotto.
Ci sarebbe voluto ancora poco, veramente poco, perché il mondo vitreo del ragazzo si sgretolasse. Magari un sorriso, sì un sorriso. Perché Kyungsoo in quell’istante stava per sorridere, poi però le crepe si risaldarono, ed egli venne riabbracciato dai lunghi tentacoli viscidi della sua notte infinita.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Hide and seek ***


Hide and seek
 
Jongin era fermamente convinto che uno dei sette peccati capitali avrebbe dovuto essere l’incongruenza. Come poteva il cielo essere tanto azzurro dopo la tempesta del giorno prima? Era pomeriggio inoltrato, delle piacevoli linee color arancione sfumato ad un dolce rosa pesca infrangevano ogni tanto quella distesa celeste preannunciando l’avvento di un caldo tramonto all’orizzonte, come un oracolo che predice l’arrivo dei nemici in un campo di battaglia. L’idol osservava lo spettacolo dell’asfalto e del cemento di Seoul inondarsi di venature rossicce, rendendo un particolare effetto di inquietudine e rovente solitudine. Aveva la febbre, tutta colpa di Joonmyeon, e ovviamente la sua amorevole madre, premurosa fin oltre i limiti consentiti, si era sentita in obbligo di confinarlo in una sorta di quarantena all’interno della sua vecchia camera da letto da adolescente. Vacanze rovinate, e chissà quando avrebbe potuto ottenerne altre. Queste ultime, però, non erano esattamente il suo pensiero principale. La testa martellante di dolore di Jongin delirava e vagava per conto suo, toccando immagini e ricordi sepolti dagli anni o freschi di giornata. Più di una volta gli capitò di rivolgere indietro lo sguardo alla sua adolescenza, soffermandosi sui poster sgualciti attaccati con vecchio scotch di carta alle pareti della sua cameretta o sulle sue vecchie foto appoggiate alla scrivania ormai troppo bassa per lui, e di riflettere subito dopo su cosa avesse mangiato quella mattina a colazione, per poi riscuotersi e concludere che non aveva toccato cibo dal giorno prima a causa del mal di stomaco. La mente dell’idol era così, confusa e nebulosa, scura e indistinta quasi anche ai suoi stessi occhi. Quasi. In fondo Jongin conosceva se stesso fin troppo bene, era solamente troppo orgoglioso per ammettere di essere un misero fallito. Non era stato capace di imporsi, era stato un debole ai tempi e lo era ancora adesso. Jongin conviveva con questa consapevolezza da anni, inutile dire che ci soffrisse. Tutta l’amarezza che covava nel suo cuore, il ragazzo la sfogava nelle sue coreografie passionali, estasianti. Ogni briciola di angoscia invadeva gli spettatori delle sue performance e li rendeva partecipi, non solo osservatori, li stregava e, il più delle volte, li lasciava così sbalorditi da versare lacrime per lui. Al ragazzo piacevano tutte quelle lacrime, non che fosse un sadico pazzo maniaco, ma le interpretava con una giusta ricompensa per il suo lavoro. I fan ed il loro supporto era veramente l’unica cosa, a parte l’umorismo inglese di Joonmyeon, che tirasse un po’ su il suo morale e lo aiutasse a non lasciar perdere tutto dopo così poco tempo dal debutto. Lo spronavano a dare il suo meglio, anche se Jongin aveva perso la voglia di fare qualsiasi cosa da ormai troppo tempo. Era inutile girarci intorno, la vita da idol non gli piaceva per nulla; gli aveva fatto perdere tutto, i rapporti con la famiglia, con gli amici, il tempo libero da spendere per se stesso, i suoi vecchi sogni, ancora bloccati nel cassetto scassato di quella stessa scrivania appoggiata in un angolo della stanza da adolescente in cui ora si trovava. Guardò i muri tinti ancora di blu cobalto, i poster e le foto. Riconobbe i suoi pupazzetti di peluche, le pile di manga ben ordinati sugli scaffali. Fermò nuovamente lo sguardo sulle sue fotografie, ne prese una in mano, stringendola tra i pollici e gli indici. Non era lui quel ragazzino sorridente dalla scura chioma sbarazzina, non era lui. Apparteneva ad un’altra era, un’epoca lontana ormai superata. Era come se in quel momento Jongin stesse osservando una fotografia dell’ottocento proveniente dall’altra parte del mondo. Posò l’immagine in modo che non mostrasse più ciò che vi era raffigurato, con il vetro in giù, e andò a sedersi sul letto. La testa gli scoppiava ancora, ma gli antidolorifici iniziavano a fare effetto. Inveì ancora contro Joonmyeon e la sua idea di lasciarlo sotto la pioggia con quell’altro ragazzo. A volte l’autista se ne usciva con colpi di testa del genere, e, quando capitava, Jongin non sapeva mai se lanciargli una scarpa in testa o gettarsi ai suoi piedi e ringraziarlo promettendogli di scolpirgli a più presto una statua di marmo che lo raffigurava come Superman. Il motivo della prima opzione erano ovviamente chiari, quella fastidiosa febbre, ma quello della seconda, e neanche questo Jongin voleva ammettere, era che, bene o male, l’autista aveva veramente un istinto materno e, come nessuno se lo era mai spiegato, aveva sempre ragione e dietro ad ogni sua macchinazione vi era sempre una logica indiscutibile che, alla fine dei giochi, risultava più che corretta. L’idol sbuffò. Quale astrusa dialettica poteva legare lui, Kim Jongin, ballerino famoso in tutta la Corea da Sud, ad un misero senzatetto? Nessuna, per qualsiasi persona comune probabilmente, la teoria del ‘filo rosso del destino’, per Kim Joonmyeon, pensò il ragazzo. A quel punto Jongin ripercorse mentalmente, non senza un po’ di fatica, tutto ciò che era successo la sera precedente. Ricordò che, alla fine, era stato proprio Joonmyeon a doverlo tirare via con la forza per farlo tornare a casa. Jongin rimuginò per un po’ su quel lato della storia, lui non voleva andarsene...
Si alzò in piedi e guardò fuori dalla finestra. Vi era ancora la vecchia quercia nel giardino. Era cresciuta, ora i rami arrivavano fino quasi a toccare il muro della casa. L’idol aprì la finestra e sbirciò fuori. Stimò di potercela fare a saltare su uno dei rami più bassi e poi scalare piano verso il basso tutto il tronco per correre via. Ci vedeva leggermente doppio, aveva la testa piena di lava bollente e scoppiettante e non era totalmente sicuro di poter reggere almeno mezz’ora senza vomitare, ma in queste situazioni Jongin non era proprio il tipo che si lamentava. Poteva fare il muso per una tinta di capelli fatta male o un po’ di trucco sbavato, ma era abituato ad esibirsi anche quando non era proprio nel pieno delle forze. Scrollò le spalle e cercò di svuotare il cervello e di focalizzare tutta la concentrazione su salto. Erano solo pochi metri, in fondo, se anche fosse caduto non si sarebbe fatto così male. Si sedette su cornicione e prese un bel respiro, guardò di sotto e mise a fuoco quello che credeva l’appiglio più stabile e sicuro. Un attimo dopo era a terra, in piedi, con le testa che pulsava e cercava di esplodere e tutte le mani scorticate. Scosse ancora le spalle e, con maggior discrezione possibile per non essere notato, scavalcò il cancelletto e corse via rocambolescamente, con la grazia di un elefante in piedi su una fune in un negozio di oggetti di cristallo. Dopo i primi tre minuti aveva già il fiatone ed una voglia assurda di rimettere anche l’anima. Si guardò indietro e constatò di essere troppo lontano da casa sua per essere notato. Si ricordò di non aver chiuso la porta della sua camera a chiave e si diede dell’idiota internamente. Camminò avanti e successivamente svoltò al primo incrocio. Trovò il giovane vagabondo seduto nel medesimo luogo della sera prima. Gli si avvicinò tremando e gli si mise di fronte. Incontrò ancora lo sguardo pungente e vacuo dell’altro, ed improvvisamente si chiese cosa ci facesse lì. Non aveva ragionato quando era stato il momento di saltare dalla finestra, neanche aveva pensato a come rientrare in casa una volta tornato. Si diede ancora dello stupido, e poi si sedette vicino a lui. Un silenzio opprimente li avvolgeva e Jongin se ne sentiva come divorato. Moriva dal desiderio di dire qualcosa, qualunque cosa, anche una sciocchezza, pur di rompere il ghiaccio. Mosse la testa verso l’altro, ma trovò quest’ultimo perfettamente a sua agio in quella folle assenza di suono. Si concesse un minuto per osservare il suo volto. Labbra carnose, occhi giganteschi, capelli lunghi e tagliati male, un accenno di barba; se non fosse stato così dannatamente sudicio, Jongin avrebbe potuto considerarlo carino.
La prima regola è non guardare mai le stelle.
Jongin si riscosse, ci mise un momento per realizzare che chi aveva proferito quelle parole non era la sua immaginazione, ma il ragazzo a cui era seduto a fianco. Poteva scommettere di aver visto le sue labbra piegarsi svogliatamente e mettere in fila quelle poche sillabe. Mugugnò un ‘cosa?’ poco convinto, che però probabilmente l’altro non sentì, o ignorò di proposito.
La seconda regola è non guardare mai il terreno sotto i tuoi piedi.”
Jongin notò che, a parte i fulminei battiti di ciglia e le labbra, il senzatetto non muoveva alcuna parte del suo volto, non variava posizione, sembrava un morto vivente.
“La terza regola è-”
Jongin lo interruppe: “La terza regola è che devi dirmi il tuo nome.”
Venne di nuovo ignorato: “La terza regola è non voltarti mai indietro. La quarta regola-”
“La quarta regola è spiegami chiaro e tondo cosa diamine stai blaterando da cinque minuti.”
La quarta regola è fatti bastare quello che possiedi e reprimi i tuoi desideri. La quinta-”
Jongin si irritò parecchio. Non gli piaceva essere ignorato, non gli andava a genio quando ancora era adolescente, figurarsi ora che era abituato ad essere al centro dell’attenzione. Si alzò in piedi e fece un passo avanti, rizzò la schiena e guardò lo sconosciuto con un misto di irritazione e scherno.
“Me ne vado.” Mugugnò, in un tono appena appena udibile per l’altro, e poi girò i tacchi.
“Se te ne vai non potrai mai vederlo.”
L’abisso che quella voce pareva strascicarsi appresso era così profondo che, per quell’unico secondo in cui si sorprese per aver udito ancora basse sillabe essere proferite dalla bocca dell’altro, Jongin temette di rimanerne risucchiato e di non uscirne mai più. Strinse i pugni ed abbassò lo sguardo a terra. Senza voltarsi, ribatté: “Cosa dovrei vedere?”
“Il mondo dal basso.”
Ancora, seriamente? Jongin poteva lamentarsi quanto voleva della sua vita da idol, ma non si sarebbe mai abbassato a mollare tutto per fare il senzatetto in allegria con quel tipo strambo. Se mai un giorno avesse voluto abbandonare i riflettori, avrebbe di sicuro scelto una bella ragazza con cui sposarsi e mettere su famiglia, in modo da riuscire a condurre una vita tranquilla fino alla fine, lontano dal tappeto rosso, e con la soddisfazione di essersi ritirato senza neanche aver fatto troppo parlare di sé. I matrimoni erano visti bene in generale, i figli ancora di più. Lo scandalo non sarebbe stato pesante da sopportare, e se, successivamente, qualcuno avesse avuto qualcosa da ridire, avrebbe avuto abbastanza denaro per trasferirsi altrove e fare una vita dignitosa anche in quel luogo. Era questo il punto, una vita dignitosa, non una vita lurida. La sera prima Jongin aveva pensato che provarci per una volta andasse bene, in fondo si dice che tutti dovremmo provare tutto in questo mondo, no? E per una volta era stato così, ma la seconda… non che gli piacesse molto l’idea di restare un minuto di più lì con lui. La cosa più probabile, forse, era che, nonostante tutto, Jongin aveva paura dell’altro. Lo inquietava, lo lasciava con un senso di vuoto difficile da colmare, ma che, quando finalmente riusciva a riprendersi, lo tramortiva ancora con una stoccata finale, e lo mandava al tappeto. Era un po’ come quando sognava di cadere. Avvertiva il vuoto richiamarlo nella sua morsa agghiacciante, e, quando era sul punto di svegliarsi, udiva solo il tonfo del suo corpo sfracellarsi sulla terra dura e solida, spaccarsi a metà e morire nel bel mezzo della sua fioritura. Jongin tremava. Il mondo dal basso. Rifletté sulla sua vita e la collegò al suo continuo morire nei suoi sogni ricorrenti. Chi era Kim Jongin? Kai era l’alter ego di Kim Jongin o Kim Jongin era l’alter ego di Kai? Ridacchiò tra sé e sé, e pensò di essere sprofondato veramente in basso se neppure sapeva chi diamine lui fosse. Un’identità, una stupida identità era tutto quello che gli serviva, delle maledette risposte che tardavano un po’ troppo a giungere. Forse aveva cercato quelle risposte nel posto sbagliato, d’altronde, ammesso che lui vivesse internamente nei bassifondi della società, dato che si riteneva un fallito, perché mai avrebbe dovuto correre dietro alle false speranze di trovarle negli alti quartieri delle popstar coreane?
Decisamente, aveva cercato nel posto sbagliato. Si diede dello stupido per averlo compreso solo in quel momento e la testa, ancora pesante e martellante, fece una giravolta.
Si ricordò di quando, a sette anni, giocava a nascondino con i suoi amici e questi ultimi volevano sempre che lui facesse la parte di quello che trova gli altri poiché sapevano perfettamente quanto lui facesse schifo in quel compito, in modo da vincere tutte le volte e lasciargli poi una finta pacca di amicizia su una spalla ed una misera frase di consolazione, solitamente mezzo mischiata con risatine di scherno o prese in giro. Perché, diamine, Jongin non era capace a trovare quello che gli serviva. Cercava sempre nel posto sbagliato.
Però questa volta non c’era molta scelta. Le risposte che bramava o erano in alto, e aveva constatato con delusione che non c’erano, o erano in…
Guardò di nuovo negli occhi il vagabondo, con quanta più determinazione gli era concessa dalle due o tre linee di febbre che aveva. Il mondo dal basso. Non gli andava, non gli andava per nulla, ma almeno poteva provarci. Senza contare quello corrente, gli rimanevano ancora ben cinque giorni a disposizione per imparare. Un passo, e gli fu di fronte. Si inginocchiò proprio davanti a lui, in modo da poterlo guardare negli occhi: “Ho tempo fino alla fine di questa settimana.”
“E allora?”
E allora? Jongin avrebbe voluto prendere a testate il muro per quanto quella cosa fosse insulsa. Avrebbe benissimo potuto rompere il ghiaccio con una frese un po’ più d’effetto, no? Una di quelle in ‘stile Kai’ che piacevano tanto alle ragazzine. Poi si ricordò che la persona con cui stava cercando di interagire non era una ragazza, né tantomeno un suo fan.
“Nulla” rispose Jongin, perdendo un po’ di quella determinazione di cui prima era stato inondato.
L’altro replicò con una semplice scrollata di spalle e lo invitò a sedersi accanto a lui. Jongin non se lo fece ripetere due volte e si mise accanto a lui, iniziando a fissarlo, aspettando un qualsiasi segno. Quando non lo vide arrivare, l’idol chiese: “Allora… Quand’è che andiamo a prendere in cibo nei cassonetti?”
Per tutta risposta il senzatetto gli lanciò una merendina scaduta da qualche giorno in faccia. Jongin la squadrò, storcendo il naso: “Che cosa dovrei farci con questa?”
Il vagabondo alzò di nuovo le spalle: “Secondo te a cosa serve? A essere esposta in un museo per fare bella figura? Devi mangiarla.”
Jongin lo guardò basito, poi si mise le mani sulla bocca per coprire un silenzioso ‘Oh…’ di meraviglia, gli occhi che luccicavano d’entusiasmo ed emozione, ricavando solamente un leggero inarcare delle sopracciglia da parte dell’altro. Jongin batté le mani e si prese la briga di spiegare: “Hai detto più di quindici parole in una sola volta! Sono commosso! Adesso dinne venti!”
“Che problemi hai?”
“No, sei arrivato solo a tre…”
“Quelle di prima erano diciassette, e diciassette più tre fa venti, quindi accontentati.”
Jongin si prese un momento per contare sulle dita: “Solo tredici!”
“Smettila.”
“Una. Impegnati di più.”
“Mi irriti.”
“Due.”
“Continua oppure…”
“Oppure?”
“Oppure ti strangolo.”
Jongin rise. Posò lo sguardo su quelle manine intirizzite dal freddo e pensò che a malapena avrebbero potuto soffocare un passero, figuriamoci un uomo. Decise di prendere ancora la minaccia con fare scherzoso: “Be’, quello sì che sarebbe un modo efficacie per farmi vedere il mondo dal basso. Mi spediresti metri sottoterra!”
No, non faceva per nulla ridere. Quella di Jongin era una battuta buttata lì per estorcere un sorriso, ma appena le sue labbra sputarono fuori quelle sillabe, l’idol si rese conto da solo di quanto il suo umorismo fosse squallido, infantile e mostruosamente patetico. Ridacchiò tra sé e sé per qualche istante, poi anche la sua risata fuggì via in un moto di sconsolata amarezza, tramutandosi in un’espressione di serietà e malinconia. Jongin si chiuse in se stesso. Accostò le ginocchia al petto e le strinse con le braccia a sé, la testa riprese ad urlare e il suo stomaco a attorcigliarsi al suo interno come un contorsionista. Serrò la bocca ed appoggiò la fronte sulle ginocchia, non dicendo più nulla.
A quel punto, l’altro ragazzo, per la prima volta, si prese la briga di voltare il capo e di guardarlo.
 
Kyungsoo squadrò da capo a piedi quell’essere rannicchiato al suo fianco. Scivolò con lo sguardo sulle morbide colline dei capelli tinte di biondo, con appena un lieve accenno di ricrescita, e pensò che voleva vedere ancora il volto di quello sconosciuto, al momento rinserrato tra le braccia ed appoggiato ai ginocchi.
Come guidata dai fili mossi dalle abili mani di un burattinaio, una delle mani di Kyungsoo si appoggiò su quei capelli dorati e scese sulla fronte, per poi tirargli su il viso quasi con dolcezza e gentilezza, seppur il gesto in sé, nel modo in cui Kyungsoo lo fece, fu abbastanza rozzo. Notò immediatamente lo scatto delle palpebre dell’altro aprirsi in modo quasi innaturale e le labbra carnose schiudersi in una palese espressione di stupore. Era chiaro che lo sconosciuto non sapesse come interpretare il suo gesto, d’altronde nemmeno Kyungsoo stesso sapeva come spiegare quel vuoto che sentiva all’altezza della sua voragine, come se quest’ultima si fosse improvvisamente sgombrata e liberata da tutto il male che celava. Non che toccare quei capelli e quella fronte fosse stato granché, si intende. Kyungsoo, tastandoli, trovò entrambi madidi di un sudore febbrile che denunciava le cattive condizioni di salute dell’altro. Appena si accorse che la fronte scottava, tirò subito indietro la mano, come ustionato da un calore, seppur innaturale e malato, con cui non veniva in contatto da tanto tempo. Tornò a chiudersi nel suo gelo, ma non voltò di nuovo il capo in avanti, continuò a fissare quella sorta di cucciolo malato e tremolante al suo fianco. Provò a comprendere attraverso i suoi occhi quali sentimenti agitassero il suo animo, ma, appena cercò di penetrarli con i suoi, una miriade di emozioni gli esplosero davanti, mandando in subbuglio le fondamenta del suo freddo rigor di logica osservatrice. Dopo qualche minuto, Kyungsoo sussurrò: “Kyungsoo…”. L’altro sorrise e scandì con entusiasmo stentato: “Jongin!”
Kyungsoo annuì, e Jongin rimase in silenzio, fino a quando, trovandosi in imbarazzo, non mormorò, quasi timoroso della reazione dell’altro: “Cosa… cosa vuoi fare ora?”
E, a quel punto, un piccolo ghigno intersecò il viso sporco di Kyungsoo: “Giochiamo a nascondino, Jongin.”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** FIRST - martedì ***


FIRST martedì
 
Il secondo giorno da quando era rientrato a Seoul, Jongin litigò quasi con i suoi genitori affinché questi ultimi gli concedessero la libertà di poter uscire da solo. Erano preoccupati per i fan, per i paparazzi, che sapevano non avrebbero mai acconsentito a riconoscere al giovane un solo momento di tranquillità, nemmeno in vacanza. Jongin dovette quasi scappare di nuovo come il giorno prima. Aveva detto loro che quella sera dei vecchi amici di scuola lo avevano invitato ad una cena: “Nulla di pesante, una rimpatriata. Niente di più, niente di meno, mamma.”
“Non bere, mi raccomando.”
“Il posto in cui devo andare non è lontano da qui.”
“Ti accompagna Kim?”
“Joonmyeon-Hyung è in ferie come me, papà. E comunque vado a piedi.”
“A piedi?” Sua madre lo aveva guardato con occhi colmi di inquietudine e nervosismo.
“A piedi.” E con questo, Jongin aveva aperto la porta ed era sgusciato fuori.
Il giorno prima nessuno aveva notato la sua assenza durante l’ora in cui era stato via. Aveva passato poi la sera a riposare e ad imbottirsi di farmaci, e così anche il mattino successivo. Solo verso il primo pomeriggio aveva avvertito un miglioramento. Utilizzando le sue straordinarie capacità di attore era riuscito con sdolcinati sorrisi e parole smielate a convincere i suoi che ormai la febbre era passata, seppur non fosse del tutto vero, e così, eccolo lì a mentire solo per… per chi, poi? Stava andando da Kyungsoo, questo era ovvio, ma per chi lo stava facendo? Per il piccolo vagabondo che, per così dire, abitava a ottocento metri da casa sua o per se stesso? Come al solito, Jongin non poteva stabilirlo con certezza. Il giorno avanti, dopo quel ‘Giochiamo a nascondino, Jongin’, non avevano parlato ancora per molto, un po’ perché, come l’idol aveva in fretta imparato, il senzatetto non amava granché conversare, un po’ perché a Jongin stesso era ritornata in mente l’infanzia ed i deprimenti ricordi che comprendevano quel gioco. Si era chiesto nel lasso di tempo che aveva occupato tutto lo spazio dopo il suo ritorno a casa perché non avesse proposto un altro gioco, magari un qualcosa che non comprendesse nascondere e cercare e in cui fosse almeno un pochino più bravo. E per l’ennesima volta si diede dell’idiota.
Ma poco importava ormai, gliel’avrebbe detto più tardi, quando sarebbe arrivato da lui. Sgusciò in fretta via dall’abbraccio stritolatore di sua madre e ripromise più volte che sarebbe tornato presto. Corse fuori di casa ed inspirò una boccata d’aria. La testa gli doleva ancora e le aspirine intorpidivano i suoi muscoli. Iniziò a correre per cercare di scollarsi di dosso quella fastidiosa sensazione, gli pareva quasi di essere un sonnambulo. Arrivò all’angolino di Kyungsoo praticamente senza fiato, attribuì la sua insolita stanchezza ai postumi della febbre. Sedette a fianco dell’altro meccanicamente, quasi stesse seguendo un copione, e rivolse lo sguardo verso di lui. Sorrise: “Ciao!”
Kyungsoo nemmeno si girò, fece una lievissima smorfia prima di parlare: “Chi sei?”
Jongin perse il sorriso, confuso, sbigottito. Pensò che quello fosse solo una congettura strana e complicata di Kyungsoo per testarlo in qualche modo, quindi risollevò gli occhi su di lui e, con un sorriso, tanto grande e splendente quanto falso, lo assecondò: “Jongin! Quello di ieri, ti ricordi? Abbiamo parlato tanto ieri pomeriggio. Beh, non proprio tanto. Tanto per modo di dire, per i tuoi standard, ecco. Non sei ovviamente il tipo che si perde in chiacchiere, quindi il fatto che tu mi abbia rivolto la parola per almeno dieci minuti è già un buon risult-”
Kyungsoo, irritato, interruppe glacialmente quel torrente di parole che aveva iniziato a sgorgare dalla bocca dell’idol: “Sì, conosco un Jongin. Lo sto aspettando. È in ritardo.”
Jongin allora si fece serio, il martellio alla testa stava lentamente riprendendo: “Mi prendi in giro?”
Kyungsoo allora si voltò verso di lui, ignorando completamente le sue lamentele: “Ah, sei qui. La prossima volta cerca di arrivare in orario e di non far spacciare il tuo alter ego sorridente e fastidioso per te.”
Jongin lo scrutò con un’espressione che doveva essere parecchio scombussolata, o forse attonita, il genere di ghigno che si fa con il viso di fronte alla lavagna quando la professoressa di matematica vi chiede di risolvere un problema di cui avete capito a stento il cinque percento del testo, fatto sta che Kyungsoo, appena si voltò a guardarlo, gli chiese con non nonchalance: “Devi vomitare?”
Jongin, preso in contropiede, sputò fuori le prime parole che gli passarono per la testa, allegandoci anche un riso sghembo e stentato: “Di solito il mio sorriso piace alle ragazze.”
Kyungsoo storse il naso, denunciando la sua stizza: “Mi hai scambiato per una ragazza?”
L’idol sfoderò uno di quei suoi seducenti sorrisi che facevano letteralmente impazzire le fan: “Devo ammettere che in effetti sei bello quanto una ragazza. Se non di più. Le tue labbra sono proprio niente male, sì sì, proprio così.”
Kyungsoo dal canto suo, innervosito, estrasse con uno svelto movimento del polso un coltellino svizzero e ne mostrò la lama all’idol, mettendoglielo proprio di fronte agli occhi: “Dove preferisci che te lo pianti? In una narice? In bocca? Giuro che se non stai zitto ti acceco e poi te lo faccio ingoiare a forza.”
Jongin deglutì rumorosamente e allontanò il coltellino dal suo viso, ridacchiando concitatamente con fare accondiscendente: “Okay, calma, Pingu, risolviamo le cose parlando diplomaticamente come due persone perbene.”
Kyungsoo avrebbe voluto esplodere: “Pingu? Che cos’è un Pingu?”
Jongin rise: “Pingu!”
L’altro divenne rosso in viso: “Che cos’è?”
E l’idol rise ancora. “Pinguino!” disse, prolungando con puerile solennità la ‘o’ finale.
Kyungsoo fece per avvicinare ancora il coltellino al viso di Jongin, ma quest’ultimo si fece serio per la seconda volta, pur trattenendo un’aura ilare attorno a sé: “Va bene, hai vinto. Adesso posa questo coso – prese la sua mano e la portò in basso – e dimmi cosa vuoi che io faccia. Sinceramente, non mi piace giocare a nascondino. Andare in giro per il quartiere a cercare te e a nascondermi in qualche buco di notte non mi pare il massimo.”
Il vagabondo allora si degnò di squadrarlo da capo a piedi: “Scusa?”
“Eh, sì, nascondino. Tutti si nascondono, meno uno che deve cercare gli altri.” Spiegò Jongin, alzando un sopracciglio.
Kyungsoo aggrottò la fronte in segno di disappunto: “Non era questo che intendevo con nascondino.”
Per un attimo Jongin si sentì sollevato, poi però gli sembrò di ricadere ancora più in basso quando sentì l’altro continuare: “L’essenziale per stare in piedi è distinguere le menzogne dalla verità. La gente è subdola, doppiogiochista. Farsi base della ricchezza di altri senza desiderare qualcosa in guadagno è fuori moda. Ciò che devi capire è solamente la parte di verità e falsità che contengono le parole che chi ti trovi di fronte ti rivolge. Nascondino è questo, trovare il falso in ciò che dico, scovare il vero nel falso, o il falso nel vero.”
Jongin non era sicuro di aver capito bene cosa, in sostanza, lui dovesse fare. Era perfettamente consapevole del fatto che, per anni e anni, da quando aveva cominciato il periodo di training all’agenzia, aveva continuato a mentire a se stesso con dolci frasi su quanto fosse fortunato o quanto fantastica fosse la sua vita, ma non era certo che Kyungsoo intendesse quello.
“Non hai afferrato, vero?”
La domanda del senzatetto lasciò leggermente spiazzato Jongin, ancora immerso nei suoi ragionamenti.
“Fa nulla,” proseguì Kyungsoo “capirai.”
Calò un silenzio imbarazzante, o, almeno, per Jongin fu imbarazzante, per Kyungsoo fu semplicemente uno dei tanti silenzi che accompagnavano la sua vita. Nonostante tutto, il primo a rompere quella pace forzata e viscosa fu proprio il secondo dai due: “Sei un bambino.”
Jongin non poté fare a meno di voltarsi di scatto verso di lui, rosso in viso, con le guance gonfie e le sopracciglia infantilmente aggrottate, e sbuffò, incrociando le braccia al petto, quasi per fare i capricci: “Non è vero!”
Kyungsoo lo fissò con uno sguardo indecifrabile, quasi – e Jongin poteva giurare di aver scorto per un secondo nei suoi occhi una scintilla di soddisfazione – compiaciuto: “Ah no?”
Jongin allora si prese un momento per rendersi conto della situazione. Realizzò di essersi appena comportato come un ragazzino di sette anni che fa i capricci perché la mamma non vuole comprargli il gelato e se ne vergognò parecchio. Abbassò il capo e si morse un labbro come per sfogare su di esso tutto il suo disagio. Si mise a riflettere su ciò che Kyungsoo gli aveva riferito prima, ed un flash gli attraversò la mente. Forse aveva afferrato ciò che Kyungsoo intendeva con ‘vero’ e ‘falso’.
“Leggere la realtà?” domandò timidamente.
Kyungsoo annuì semplicemente, così l’idol si sentì autorizzato a andare avanti e a chiedere con maggiore audacia: “E mi insegnerai a farlo iniziando a prendermi in giro?”
Kyungsoo scrollò le spalle: “Perché no?”
Jongin stette zitto per qualche istante, poi ghignò: “Ho un’idea migliore.”
 
Kyungsoo non poté negare di provare una sorta di attrazione morbosa verso quello che l’altro stava per dirgli, una sorta di sentimento curioso che lo spingeva a voler sapere assolutamente quale fosse l’idea di Jongin. Storse il naso per scacciare tutto quell’interesse e gli rivolse il ‘Mh…’ più distaccato di tutto il suo repertorio, come a riferirgli di parlare comunque anche se a lui – e qui veniva la bugia – non interessava ascoltarlo. Tuttavia l’altro non colse probabilmente la sfumatura che voleva conferire a quel suono, o semplicemente lo ignorò, fatto sta che gli sorrise – Kyungsoo si chiese come facesse ad avere un sorriso così largo – e poi asserì: “Ieri mi hai parlato di alcune tue regole. Io posso garantire che quelle regole sono false--”
Il vagabondo fece per protestare, ma Jongin riprese: “Falsissime! False false false! E adesso te lo dimostro.”
Kyungsoo corrugò la fronte, ma non fece in tempo a lamentarsi ancora che Jongin prese saldamente il suo polso, si alzò in piedi e fece per tirarlo via con sé, diretto in solo Dio sapeva dove. Kyungsoo provò a fare resistenza e a ribellarsi, ma il corpo di Jongin, nonostante il malessere dovuto alla lieve influenza, era in confronto al suo potente, emanava dominio, mentre il suo… il suo era solamente un ammasso di ossa e pelle. Kyungsoo non credeva di aver mai visto un solo muscolo degno di quel nome spuntare sulle sue braccia, o sul petto, o sull’addome. Era debole fuori, era una roccaforte dentro; e per quanto aveva intuito, Jongin era una roccaforte fuori e debole dentro. Storse il naso e non si fece scappare nessun gemito di amarezza quando gli cedettero le gambe e ruzzolò a terra, inerme, in preda ad un fastidioso, e a tratti doloroso, formicolio agli arti inferiori. Erano giorni che non camminava, gli piaceva la sua immobilità, la considerava come un’ulteriore prova di forza per temprare il suo animo. Però il fisico ne risentiva, troppo. Le gambe dolevano, sembrava che gliele stesserlo tagliuzzando piano piano con fili d’acciaio. Testa a terra, Kyungsoo avvertì due braccia vigorose tirarlo su e rimetterlo seduto. Prese un respiro profondo ed iniziò a massaggiarsi le gambe ed i piedi. Jongin lo guardava torreggiando su di lui, in ginocchio, guardandolo dall’alto come a voler domandare ‘Tutto bene?’, anche se probabilmente era troppo timido per farlo. Kyungsoo mugugnò e gli rivolse un’occhiataccia, il quale significato oscillava tra un “è tutta colpa tua!” e “vai a quel paese!”, ma, docile come un agnellino, si lasciò rimettere pazientemente in piedi da Jongin, il quale, non senza una punta di timore reverenziale, domandò con voce flebile: “Possiamo proseguire?”
Kyungsoo abbassò lo sguardo e scosse il capo, ma riuscì comunque a scorgere una certa espressione triste che andava dipingendosi sul volto dell’altro. Sospirò e chiuse gli occhi per un secondo, dicendosi di non lasciarsi attrarre da quei grandi occhi dispiaciuti che predominavano sul morbido scuro manto del viso del più giovane, poi si voltò e, senza dire nulla, fece per tornare indietro. Jongin però fu più veloce e, catturatolo per un polso, lo fermò e se lo prese delicatamente in braccio, nonostante le sue forze fossero già quasi esaurite. Inutile dire che, a questo punto, le imprecazioni di Kyungsoo si fecero sentire eccome, una per ogni dinoccolato passo che Jongin infilava sul marciapiede, senza fermarsi:
“Mettimi giù!”
“Idiota, ti ho detto di mettermi giù!”
“Ascoltami, stupido, guarda che posso camminare benissimo da solo!”
“Cretino, lasciami andare!”
“Guarda che è imbarazzante!”
“Brutto troglodita, guarda che se non mi metti a terra adesso ti infilzo!”
E nel mentre faceva roteare il suo coltellino arrugginito pericolosamente vicino a luoghi che, a vederli sfigurati, il manager dell’idol avrebbe solo potuto, come minimo, licenziarsi. Eppure la giovane celebrità rideva per la stranezza della situazione. Stava portando in braccio un vagabondo burbero e apatico dall’insulto facile che non riusciva a camminare mentre quest’ultimo pregava il diavolo affinché gli desse fuoco e lo trascinasse con sé all’inferno. In qualunque caso, all’inferno ci sarebbe andato comunque, prima o poi, dunque, Kyungsoo in braccio o no, a lui non faceva molta differenza. Ignorando le invocazioni degne di una setta satanica che continuavano a strabordare dalle labbra carnose del vagabondo, Jongin camminò fino a quando non arrivò a quello che considerava il posto più bello di tutta Seoul. Vi era infatti un campetto, accanto ad una vecchia discarica, nel quale lui andava spesso per fuggire alle prove e agli allenamenti. Quel piccolo spazio verde era divenuto in breve il suo migliore amico. Poteva sembrare da pazzi, ma in certe sere più nostalgiche di altre, il giovane idol, non ancora sedicenne, si ritrovava a cercare di mettere in ordine i suoi pensieri proprio in quel campetto nascosto, sdraiato per terra, mentre migliaia di fili d’erba accarezzavano il suo corpo e parevano consolarlo con la melodia dolce dei fruscii, la quale s’intonava alla perfezione con il frinire costante dei grilli ed il tenero suono dei sogni degli insetti. Per Jongin quel luogo aveva qualcosa di magico, e vedendolo di nuovo dopo tanti, troppi, anni pensò che fosse rimasto lo stesso di un tempo, immobile ed identico, più forte del tempo. Eterno e magico, come Kyungsoo. Si fece avanti velocemente con quest’ultimo in braccio e lo portò a sedersi in un punto abbastanza distante dalla strada, in modo da udire il meno possibile i fastidiosi rumori della città. Si sedette poi accanto a lui e gli sorrise dolcemente, stremato per la fatica procurata dalla febbre, che sentiva starsi di nuovo gradualmente alzandosi.
“Potresti aspettare un secondo qui?” chiese al maggiore, che non si fece scrupoli a lasciarlo andare, liquidandolo con un’alzata di spalle ed un vago cenno di una mano. Jongin schizzò via ad una velocità tale che Kyungsoo pensò immediatamente che l’idol volesse lasciarlo lì da solo, iniziando già ad arrabbiarsi. Dal canto suo, Jongin attraversò furtivamente il muretto che portava alla discarica e salò all’interno di quest’ultima, iniziando immediatamente a guardarsi intorno alla ricerca di un qualsiasi cosa a cui potesse essere attribuita una funzione pressoché riflettente. Quasi per caso si imbatté in un coccio affilato delle dimensioni di un fondo di bottiglia. Se lo rigirò tra e mani per un po’ e poi sorrise tra sé e sé. Corse indietro dal maggiore incespicando e si lasciò cadere accanto a lui, mentre nascondeva rapidamente il coccio in tasca. Rivolse un sorriso a Kyungsoo, aspettando che fosse lui a rompere il ghiaccio. L’altro lo squadrò per bene, per poi commentare lapidario: “Certo che sei strano”. Jongin rise cristallino, sebbene un colpo di tosse intervenne a spezzare quel momento di leggera ilarità. Dopo che si fu ripreso, tornò a guardare il suo hyung negli occhi: “Allora… Prima regola!”
Kyungsoo aggrottò le sopracciglia con fare interrogativo: “Prima regola?”
Il minore annuì: “Ripetimi la prima delle tue cinque regole e dimmi perché esiste.”
L’interpellato scrollò le spalle: “Non guardare mai le stelle. Nessun vagabondo può permettersi di sognare.”
“Ah-ah!” sbottò il più piccolo, sorridendo ancora di più “Trovato! Tana per Kyungsoo!”
Il senzatetto iniziò ad irritarsi visibilmente e fece scrocchiare le nocche appuntite delle sue mani nodose: “Tu stai cercando di farmi perdere tempo”
A quell’asserzione l’idol si mostrò offeso: “Tu mi hai chiesto giocare a nascondino con le tue regole strane! Sto solo facendo quello che mi hai detto di fare tu!”
L’altro roteò gli occhi, già esasperato: “Datti una mossa”
Jongin sbuffò sonoramente: “Ma se sei tu quello che mi interrompe sempre… comunque, stavo dicendo, tana per Kyungsoo! Ho già trovato quello che c’è di sbagliato nella tua regola, sono bravo, vero?”
L’altro replicò sarcasticamente con l’entusiasmo di un tacchino il giorno di Natale: “Wow, bravissimo, non mi sarei mai aspettato che facessi così in fretta…”
“Antipatico…” brontolò Jongin “Sei proprio antipatico…”
“Lo so.”
E Jongin si mise a fargli il verso, assumendo una buffa espressione in viso (che sarebbe dovuta assomigliare alla faccia inasprita di Kyungsoo) e muovendo una mano come se fosse una bocca: “Lo so, sono antipatico, gne gne gne…”
Kyungsoo a quel punto gli diede un pugno, o, almeno, quello che sarebbe dovuto essere un pugno, ma se a contatto con i muscoli tonici e possenti di Jongin si tramutava nella più insolita e tenera delle carezze. Quest’ultimo lo guardò e poi rise, recuperando la sua aria scherzosa ed affabile un po’ da bambino.
“Okay… Cominciamo” esordì “Secondo la mia tesi, non sono tutti i vagabondi come te a non voler sognare, bensì solo tu, visto che sei convinto di non aver bisogno di cose così futili come i sogni…”
“Non mi serviva un dannato psicologo!”
“Zitto, lasciami finire! Dicevo, tu non vuoi sognare perché hai paura di poter sognare qualcosa che potrebbe rendere la tua vita ancora più spiacevole, no? Oppure semplicemente non vuoi farlo perché non ti vuoi illudere – e qui Kyungsoo fu di nuovo sul punto di interromperlo, ma Jongin lo fermò prima che potesse dire qualunque cosa – Secondo me il primo passo verso la felicità è essere consapevoli di ciò che ci può portare verso di essa, e l’unico modo per scoprirlo è sognare, ad occhi aperti o chiusi non importa, basta che si riesca ad aprire la mente abbastanza per arrivare a comprendere ciò che si ama e ciò che si odia. Tu non vuoi provare felicità, dunque, già in partenza, non vuoi sognare.”
Kyungsoo impiegò qualche secondo per elaborare il semplice ragionamento di Jongin, e, con grande stupore, dovette ammettere, totalmente spiazzato, che il giovane non aveva del tutto torto. In effetti lui non voleva essere felice, voleva solo eliminare tutte le emozioni in modo da non soffrire. Credeva fermamente che non potesse esistere la tristezza senza la gioia, e che, se ve n’era una, doveva per forza esservi anche l’altra, dunque, per eliminare del tutto la tristezza, avrebbe dovuto rinunciare anche alla felicità. Ciò che voleva di più al mondo era non soffrire più, ma per non soffrire doveva sacrificare anche la serenità e la tenerezza del suo animo. Eppure l’aveva fatto volentieri, rinchiudendosi dell’apatia e chiudendo la sua mente ai sogni e alle possibilità di rendersi felice. Morire nell’immobilità, ecco ciò a cui aspirava il vagabondo maggiormente, e gli era sembrata una cosa così giusta quando, ancora in tenera età, l’aveva deciso, eppure in quel momento quelle stesse parole stampate sulla bocca di Jongin parevano tanto sbagliate. Notò solo allora che Jongin si era fermato e lo stava osservando con gli occhi dolci e vispi di un bimbo, mentre sulle sue labbra si formavano altre malinconiche e dannatamente tenere sillabe: “Kyungsoo, guardiamo insieme le stelle?”
Il senzatetto strinse i pungi e scandì flebilmente un “no”, mentre avvertiva ancora una volta nuove crepe formarsi all’interno di quella voragine che gli stava risucchiando il petto, giorno dopo giorno: “Non voglio guardare in alto.”
E a quel punto sentì Jongin ridacchiare e sussurrare (e solo per quel sussurro, a Kyungsoo sembrò che tutto diventasse improvvisamente più intimo): “Non c’è bisogno che guardi in alto per vedere le stelle e sognare.”
Detto ciò, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il coccio riflettente che aveva trovato poco prima nella discarica e glielo mise di fronte agli occhi in modo che Kyungsoo potesse vedere un parte del cielo riflessa in esso. Quest’ultimo, come di riflesso, distolse lo sguardo e si coprì il volto con le mani, che inspiegabilmente avevano iniziato a tremargli come non mai. Non aveva il coraggio di mollare tutto in quel momento, di lasciar crollare tutto quello che aveva costruito con tanta fatica e sacrifici. Non poteva assolutamente lasciare che i capricci di una celebrità come tante intaccassero il trofeo che aveva vinto sconfiggendo le sue emozioni. Deglutì, pensò di potersene semplicemente andare. Doveva solamente alzarsi in piedi e correre via, anche se sapeva che Jongin, probabilmente, lo avrebbe raggiunto in poco tempo. Gli sarebbe bastato, in quel caso, usare l’effetto sorpresa, scappare e nascondersi in un luogo tanto remoto da cui neanche lui sarebbe più riuscito ad uscire. Però tremolava, Kyungsoo, tremolava come non mai, e non sapeva perché. La voragine sembrava come impazzita, nel suo petto vi era un tumulto, nelle sue orecchie una roboante ribellione di suoni tanto dolci da portarlo alla pazzia. Solo quando avvertì una stretta calda avvolgere completamente le sue spalle e stringere una delle sue mani, il ragazzo riuscì a tornare alla realtà. Realizzò dopo poco che quel braccio era di Jongin, e fece per insultarlo di nuovo, ma una stretta più possente del braccio di Jongin, il quale aveva fatto in modo che Kyungsoo si appoggiasse del tutto al suo petto, lo zittì, dando modo al più giovane di prendere ancora una volta la parola.
“Questo è il tuo quarto di cielo personale, Kyungsoo…” e qui vi fu un altro un altro sorriso mellifluo da parte dell’idol “Devi prendertene cura, adesso che l’hai trovato, non credi?”
Jongin alzò il mento di Kyungsoo e gli fece puntare i giganteschi occhi da gufo nel vetro rotto: “Che cosa ci vedi dentro di esso?”
Kyungsoo non rispose, ancora troppo scosso e decisamente troppo incantato da quei puntini luminosi che intersecavano l’arcata del cielo. Allungò una mano indecisa e timorosa verso il frammento e ne sfiorò la superficie liscia, percorrendo silenziosamente qualunque tragitto immaginasse tra quelle stelle, collegandole una ad una, formando disegni o semplicemente premendole, come se volesse farle scoppiare, quasi fossero palloncini pieni d’elio incastrati nella volta celeste. E a Jongin parve solo dannatamente tenero. Prese una delle sue mani piccole ed ossute e poggiò delicatamente sopra di essa il coccio, poi si sistemò bene accanto a Kyungsoo e lo strinse con entrambe le braccia, da dietro, appoggiando il mento su una sua spalla. Chiuse gli occhi: “Ti ho trovato…”
Kyungsoo accarezzò una volta il vetro.
“Ho trovato la parte di te che racchiude i tuoi sogni e la tua gioia... Ti prego, non nasconderla più…”
Lo strinse di più a sé e smise di parlare, godendosi semplicemente la visione di quel cielo colmo di stelle, colmo di sogni, colmo di aspettative. Kyungsoo avrebbe davvero voluto rispondergli, ma tutto ciò lo coglieva impreparato, e lo sbalordiva come non mai. Strinse a sé il pezzo di vetro e si ripromise di tenerlo sempre con sé.
D’altra parte, ormai quello era il suo quarto di cielo. Nessuno avrebbe mai potuto prendersi cura di esso come lui sapeva di poter fare. Diede un’ultima occhiata, ed in quelle stelle vide brillare due paia di occhi. Li conosceva, quegli occhi, eccome se li conosceva. Erano gli unici in cui aveva visto brillare un barlume di felicità.
Per la prima volta, dopo anni e anni, si ritrovò a pensare a sua sorella.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** SECOND - mercoledì ***


SECOND mercoledì
 
Kyungsoo non capiva molto bene perché fosse finito a cercare di pestare i piedi veloci e sfuggenti Jongin. Quest’ultimo gli aveva ripetutamente spiegato come, anni e anni prima, quando ancora era alto “così” (e qui, Jongin aveva mimato una misura, alla quale, ovviamente, Kyungsoo non aveva prestato la benché minima attenzione), il suo insegnante di danza gli avesse proposto un esercizio del genere per diventare un ballerino più agile, ma il senzatetto proprio non riusciva a capacitarsi di come una cosa tanto stupida potesse aiutare Jongin nel suo scopo. Come la sera precedente, appena arrivato, si era seduto silenziosamente accanto a lui, e dopo una breve chiacchierata (o, piuttosto, monologo, dato che Jongin parlava a macchinetta e Kyungsoo di degnava appena di ascoltarlo), l’idol aveva pretenziosamente stabilito di poter perfettamente dimostrare come anche la seconda delle regole che lui aveva posto fosse sbagliata. Precisamente, aveva baldanzosamente recitato: “Non guardare in basso? Scherziamo? In basso ci sono tutte le speranze. La speranza è il fondamento di un individuo, se un individuo non è capace di sperare, allora tutti suoi sogni si vanificano e non si realizzeranno mai.” E qui aveva ridacchiato a bassa voce “Bisogna imparare a credere nelle proprie speranze, non per niente si dice ‘la speranza è l’ultima a morire’, no? È una questione di principio, se l’interiorità di una persona è un albero, allora le sue speranze sono le sue radici, mi capisci?”
E Kyungsoo no che non lo capiva. Per quanto si sforzasse di stargli dietro, non comprendeva tutte quelle, a suo dir, scemenze da filosofo in erba con cui la celebrità giocava a confonderlo. E dopo un po’ aveva smesso anche di stare ad ascoltarlo, mentre la domanda “Ma se io sono un albero, allora il mio pancreas è fatto di legno?” gli ronzava in testa persistentemente. Era tentato di interrompere Jongin nella sua noiosa spiegazione, ma pensò che, anche con una battutaccia del genere, l’atmosfera non si sarebbe fatta di certo più interessante. Più che altro, era certo che Jongin sarebbe scoppiato a ridere, oppure avrebbe cominciato a fissalo con una stupida faccia da pesce lesso. Solo dopo qualche minuto la voce dell’altro lo aveva fatto riscuotere: “Kyungsoo? Kyuuuuungsoooooo?”
Kyungsoo gli aveva rivolto un’occhiataccia: “Mh?”
Jongin gli stava parlando come in adorazione, con un sorriso enorme: “Allora, hai capito?”
La risposta dell’altro fu, poco sorprendentemente, lapidaria: “No.”
L’idol mise su un broncio che, se lo avessero visto, avrebbe di certo steso le fan: “Non mi hai ascoltato allora!”
“No,” sospirò Kyungsoo “sei noioso.”
L’idol lo guardò male per un secondo, accentuando il broncio: “Guarda, adesso parlo con le mie speranze!”
Detto ciò, si mise a fissare intensamente i propri piedi, destando finalmente la curiosità del vagabondo, poi, dopo circa trenta secondi di silenzio, aveva esordito: “Ehi, ciao, sono Jongin. Voi siete le mie speranze, no? Ci siete tutte? Vediamo un po’, numero uno! Non essere più un idol, ci sei. Due, diventare una persona per bene, ci sei. Tre, andare a vivere lontano dai miei genitori. Quattro…”
Mano a mano che Jongin elencava, Kyungsoo si era reso conto che il suo viso si faceva più cupo, le sue spalle si incurvavano e la sua voce si incrinava ed affievoliva. Kyungsoo vide di nuovo il Jongin che aveva conosciuto tre giorni prima sotto la pioggia, quello che gli aveva lasciato l’ombrello e si era preso la febbre per colpa sua il giorno dopo. Vide, per una volta, un essere simile a lui, qualcuno che aveva fissato delle mete ancora prima di sapere se aveva i mezzi per raggiungerle, e a cui, ovviamente, il destino aveva giocato brutti scherzi. Lo aveva trovato fragile, ma non debole come pensava prima, e per un attimo aveva pensato alla voragine di cristallo che viveva nel suo petto. Si era chiesto se anche Jongin ne avesse una simile, ma poi aveva semplicemente scosso la tasta e archiviato quel pensiero. Non poteva però negare di provare interesse per quell’essere che pareva tanto ingenuo che stava allegramente – più o meno – discorrendo con i suoi piedi. Lo aveva osservato a lungo, anche dopo che Jongin, racchiuso in posizione fetale con la testa raggomitolata tra le ginocchia, aveva preso a piangere silenziosamente, singhiozzando a scatti, e aveva avvertito qualcosa smuoversi dentro di lui, scivolare lentamente e subdolamente fuori dalla sua voragine. Era la curiosità sincera ed innocente dei bambini, quella che spinge questi ultimi a ricercare ogni singolo perché di ciò che li circonda. Kyungsoo si era ritrovato a chiedersi il perché di Jongin, il perché delle sue lacrime, il perché della sua presenza lì accanto a lui, ed incredibilmente si era sorpreso a volerlo tirare su di morale. Aveva allungato le gambe di fronte a sé e poi aveva iniziato a guardarsi i piedi come aveva fatto poco prima Jongin. Si chiese se davvero funzionasse solamente parlando ad alta voce. Era bravissimo a fare lunghi ed elaborati sermoni tra sé e sé, tanto per trascorrere il tempo, ma non poteva dire di possedere la stessa loquacità quando l’interlocutore in questione era qualcuno – o, in questo caso, qualcosa – di diverso da lui stesso. Se ne stette a lungo in silenzio ascoltando i debolissimi singulti di Jongin e si domandò se non fosse il caso di mandare tutto a quel paese e spedire l’idol di nuovo a casa. Avvertiva un profondo senso di fastidio, forse era gelosia o invidia, e sapeva perfettamente che la sorgente di quello strano senso di irritazione che gli faceva tendere i nervi era proprio il ragazzo piangente accucciato accanto a lui. Odiava quel suo modo di esternare i sentimenti, ma allo stesso tempo invidiava la sua semplicità d’animo, il non ritenersi responsabile se gli altri dovevano subire i suoi sfoghi di pianto, ira o quant’altro. Per quella serata però Jongin gli aveva dato la possibilità di tirare fuori qualcosa da sé, qualcosa di estremante pesante che faticava sempre di più a trascinarsi dietro e che, molto spesso, aveva tentato quindi di abbandonare per strada.
Da parte sua, Jongin era abituato ormai a quei lunghi momenti di vuoto, tuttavia, dopo diversi minuti di pianto, aveva mormorato con voce rotta un flebile: “… Quindi?”
Kyungsoo scosse semplicemente i capo in risposta e scrollò le spalle. Dopo qualche secondo, come se dovesse pensare ad un modo efficace per esprimersi, aggiunse: “Non ho speranze?”
Il breve dialogo che seguì letteralmente tramortì Kyungsoo, che si ritrovò, con voce parecchio saccente, a replicare un duro: “E quindi che cosa si fa?!” alla debole obiezione dell’altro.
No, sei tu che non tieni alle tue speranze
Il vagabondo scrutò con occhi gelidi l’idol affinché lo degnasse di una risposta rapida e concisa, e quest’ultimo, con un traballante sorriso, lo accontentò: “Tu hai speranze che non conosci, ti aiuterò a riscoprirle”.
Fu così che Jongin prese ad illustrare uno dei suoi esercizi di danza preferiti: “Ecco, ti metti in coppia con qualcuno e, danzando a ritmo di musica, si deve cercare di pestare i piedi al proprio compagno. Vince ovviamente chi riesce a non farseli pestare.” qui aveva alzato le spalle, per poi riprendere “Serve a migliorare l’agilità dei ballerini e a prepararli a reagire a eventuali cadute sul palco”.
Kyungsoo l’aveva squadrato con uno dei suoi migliori cipigli, Jongin, ripresosi, aveva riso leggermente e aveva suggerito con fare timido: “Vuoi provare?”
Come al solito l’unico responso che ricevette fu un breve cenno di assenso accompagnato da una scrollata di spalle e da un mezzo sputato: “Tanto non ho nulla da fare.”, mentre il vagabondo rifletteva svogliatamente: “Quanto mai potrà essere difficile?”
Ovviamente si sbagliava, l’agilità delle gambe toniche da ballerino di Jongin l’aveva sorpreso e, di certo, in quel gioco era molto più bravo l’idol di lui, piccolo e fragile senzatetto che se ne stava puntualmente sempre rintanato nel suo angolino scuro con le gambe strette al petto. Se di costituzione era fiacco, di certo però il carattere era di tutt’altra tempra. Assodato che Jongin aveva dalla sua parte agilità e rapidità, Kyungsoo, dopo qualche caduta a terra e diverse botte sui piedi ricevute dall’altro, elaborò che l’unico elemento a suo vantaggio poteva essere l’imprevedibilità. Acuì la vista e, se prima puntava a colpire il piede che appariva meno forte, ora puntava a centrare espressamente e dignitosamente a casaccio. Cercava insomma di depistare Jongin, preso dalla furia che l’altro fosse più bravo di lui e continuasse a vincere ogni volta, mettendolo sempre spalle al muro. Si era in breve tempo evoluta in una sorta di stupida questione d’onore per Kyungsoo – non che Jongin non l’avesse previsto, ma non era quello il suo scopo – e adesso lo si vedeva correre alla carica sempre più spesso, nonostante le gambe traballanti e l’equilibrio infermo. Da parte sua, Jongin era fin troppo tranquillo. Capiva perfettamente la tattica dell’avversario e sorrise quando si accorse che aveva già compreso il miglior modo di affrontare la sfida. Certo, il vagabondo non era il miglior contendente del mondo, anzi, se avesse voluto, data la sua scasa agilità, avrebbe potuto sbatterlo a terra ancora diverse volte. Notava però in quegli occhi ricolmi di rabbia finalmente l’ombra di un sentimento, reale, puro, pulito, che fino a quel momento non aveva mai potuto scorgere dipinto sul viso dell’altro. Temporeggiava e, sorridendo soddisfatto, pensava: “Se ieri ho liberato la sua tenerezza, oggi gli farò riscoprire il dolore.”
Senza rifletterci troppo su lo fece indietreggiare per l’ennesima volta e lo spinse contro il muro. Stava per schiacciare di nuovo uno dei suoi piedi, quando sentì la voce di Kyungsoo librarsi in aria in un perentorio: “Fermo!”. Lo guardò per un momento negli occhi senza capire, per poi restare piacevolmente stordito quando avvertì qualcosa premere contro il proprio piede sinistro. Sentì Kyungsoo ridere, anche lui rise e, per un momento, non pensò più al loro gioco. Sentì una certa tensione sciogliersi, un velo di deferenza che neanche la sera prima era riuscito del tutto a squarciare. Guardò per un momento Kyungsoo negli occhi, poi, con un cenno d’assenso di quello, ricominciò a saltare indietro, con l’altro che lo inseguiva.
Speranze? A Kyungsoo non importava di averne oppure no, per il momento gli bastava solamente… quello. Jongin correva, rideva, e Kyungsoo non capiva che cosa esattamente gli passasse per la testa. Avevano due mentalità completamente opposte, due modi differenti di approcciarsi alla vita e al mondo esterno, ma Kyungsoo non si scaldò quando, per scherzo, Jongin, sfrecciandogli di fronte, lasciò una carezza sul suo viso pallido, appena prima di pestargli di nuovo uno dei suoi piedi. Aggrottò le sopracciglia e, con un tono di voce più alto del normale, sibilò: “Traditore!”, per poi ricominciare ad inseguirlo.
Ad un certo punto a Jongin venne anche in mente di mettere la musica. Continuarono per ancora qualche decina di minuti il loro gioco, poi finirono semplicemente a ballare. O meglio, Jongin ballava davanti agli sguardi mezzo assonnati di Kyungsoo, che ancora brontolava perché l’altro aveva stravinto la loro sfida. Dopo qualche canzone, anche l’idol si mise seduto accanto a lui e, con assoluta nonchalance, avvolse le sue spalle con un braccio.
“Che cos’hai da borbottare quindi?”
Kyungsoo pensò di ribellarsi alla stretta dell’altro, ma vi rinunciò appena avvertì il tepore di Jongin e ritenne doveroso sfruttarlo come stufetta portatile.
“Non stavo borbottando.”
“Stavi borbottando.” Jongin annuì tra sé e sé.
“No.”
Jongin ridacchiò piano, forse per non rovinare l’atmosfera che si era creata, e rispose prontamente: “Mi è piaciuto vederti tutto infuriato prima.”
“Oh, quindi sei quel genere di pervertito” sbuffò l’altro, sistemandosi meglio contro il busto tonico del minore.
Il primo rise di nuovo: “Intendevo dire che finalmente sei riuscito a tirare fuori qualche cosa da qui dentro.”
Gli premette il petto con un dito, poi continuò: “Eri arrabbiato perché non riuscivi a prendermi, no? Eri infastidito dal fatto che continuassi a pestarti i piedi… Cioè, le speranze, intendo. Quindi ne hai…”
Kyungsoo prese la mano che era appoggiata sul suo petto e la scostò svogliatamente, in modo per nulla gentile, e strinse le proprie ginocchia ad esso, come se volesse proteggersi. Non disse nulla in risposta, lasciò che Jongin traesse da solo le sue conclusioni.
Quest’ultimo accennò ancora un sorriso, questa volta molto più delicato: “È il dolore, no? La malinconia di non vederle ancora realizzate dopo tanto tempo, la consapevolezza che potrebbero non avverarsi mai.”
Si sedette di nuovo composto accanto a Kyungsoo, lasciando andare le sue spalle: “Mi sono divertito con te questa sera, era tanto che non facevo cose del genere.”
Si voltò adagio verso di lui, mentre già si stropicciava un occhio con il dorso di una mano per il sonno: “Era da tanto che volevo farlo, ci speravo. Quindi ti ringrazio, Kyungsoo, hai fatto sì che una delle mie speranze si avverasse.”
Anche in questo caso non ricevette alcuna replica, solamente scorse un fioco baluginio negli occhi dell’altro, e questo gli bastò. Si alzò in piedi e, prima di tornare a casa, scompigliò i capelli al vagabondo che, silenziosamente, aveva iniziato a piangere.









Heloooooo
Questo è l'ultimo dei capitoli che avevo scritto nel 2016, dal prossimo in poi può darsi che lo stile di scrittura cambi leggermente dato che ho finito di scrivere questa ff nel maggio/giugno di quest'anno :D
Detto ciò, spero che fino ad adesso la storia vi sia piaciuta, se ne avete voglia ditemi che ne pensate ^^

- moganoix

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** THIRD - giovedì ***


THIRD giovedì
 
Il mattino seguente Jongin ricevette la visita di Joonmyeon. Capelli arruffati, fauci divaricate in un sonoro sbadiglio e un pigiama di pile smesso che sapeva di ospedale, l’idol insistette comunque con i suoi apprensivi genitori per essere lui ad andare ad accogliere l’amico alla porta con le sue pantofole sgualcite su cui era stampata la faccia di un (fin troppo) sorridente SpongeBob ed un bicchiere in cui era sciolta l’ennesima pastiglia di paracetamolo della settimana. Ovviamente aveva di nuovo la febbre, come avrebbe potuto immaginare anche la sera prima quando, dopo aver ballato con Kyungsoo, per qualche strana forma di sciocco ardore ed orgoglio virile, aveva rifiutato di rimettersi la giacca. La testa, comunque, gli stava letteralmente scoppiando, e tra un capogiro e l’altro aveva riflettuto su qualche bella giustificazione per tentare di mettere un cerotto sulla sconsiderazione che era riuscito a tirare fuori la notte appena trascorsa; la sua preferita era senza dubbio: “Non è vero che sono stato un cretino, Kyungsoo non ha una giacca pesante ed è troppo orgoglioso per prendere la mia, quindi semplicemente – e metteva davvero tanta enfasi su quel ‘semplicemente’ nei suoi vaneggiamenti – non volevo che lui stesse peggio di me”. Tutte stupidaggini, voleva mettersi in mostra con l’altro e basta. In fondo – e qui forse si chiese anche, in un angolo remoto del suo cervello, se non stesse delirando – Kyungsoo gli piaceva, o, comunque, gli piaceva trascorrere quelle nottate con lui.
Salutò Joonmyeon con un breve, stanco, sorriso, invitandolo poi ad entrare. Il maggiore scosse il capo e ricambiò immediatamente il sorriso, chiedendogli poi come stesse, più per gentilezza che per fare davvero conversazione, per aggiungere subito dopo: “A dire il vero sono con Yixing, andiamo a fare un giro fuori Seoul oggi” l’autista, a questo punto, fece l’occhiolino a Jongin “e visto che io sono in vacanza ha insistito per guidare lui.”
L’idol ridacchiò a quell’affermazione, sapendo quanto in realtà Joonmyeon tenesse alla sua auto e, di conseguenza, quanto fosse difficile anche per il suo stesso fidanzato mettersi alla guida di essa senza prima sentirsi ripetere almeno due o tre volte “Le Sacre Regole Di Sir Kim Joonmyeon Per Quando Si Vuole Usufruire Di Molly” (Molly era il nome che Joonmyeon aveva affibbiato alla vettura prima di sposarla ufficiosamente nelle sue fantasie più recondite).
“Comunque,” continuò poi con il suo sorriso smagliante il maggiore “a parte per vedere come stavi sono passato per riportarti questo” disse porgendogli il suo vecchio DS. All’espressione confusa di Jongin, che probabilmente si stava chiedendo che cosa ci facesse l’amico con la sua console, Joonmyeon rispose: “Te lo sei dimenticato in macchina l’altra sera, quando ti ho portato a casa.”
Jongin annuì debolmente, per poi scuotere il capo (segno del gran senso di confusione che la febbre gli stava provocando): “Ya, scusami… Non ci avevo nemmeno fatto caso, sai?”
“Oh, ci credo!” lo rimbeccò subito l’altro “Ancora sconvolto dall’immane bellezza del tuo piccolo ometto in strada, eh?”
Joonmyeon sporse il naso dentro casa in modo teatrale, affacciandosi sul salottino dell’amico: “L’hai già portato a casa tua, vero?”
Jongin avrebbe voluto mandarlo a quel paese, ma la febbre lo atterriva a tal punto da permettergli solamente di alzare gli occhi al cielo sbuffando, e Joonmyeon seppe che non era per nulla in vena di parlarne. Appoggiò la console con la custodia ed i giochi al suo interno su un mobile lì vicino e, prima di andarsene, aggiunse a mezza voce, come se avesse commesso un grave crimine e dovesse sfogarsi con qualcuno: “Beh… Yixing comunque ieri ha visto che avevi Mario Bros e ci ha messo le mani sopra…”
L’idol sgranò gli occhi, così come Joonmyeon considerava la sua automobile un oggetto sacro, Jongin venerava il suo prezioso Nintendo DS classe 2008. Non gli piaceva che altri ci giocassero, in particolar modo Yixing, che essendo veramente negato con i videogiochi finiva sempre per annullare ogni suo progresso, cosa alquanto insolita visto che lavorava nel campo del 3D e non era raro che gli fosse richiesto di sviluppare grafiche per nuovi games in uscita. Joonmyeon rise e scosse il capo vedendo l’espressione contrita formatasi sul volto dell’altro: “Non ti preoccupare, non ha cancellato nessun salvataggio importante stavolta. Ha semplicemente provato a finire il livello su cui eri bloccato e… sai cosa? Pasticciandoci un po’ alla fine ha notato che il tuo gioco ha davvero un bug in quel punto, per quello non riuscivi a far saltare Mario oltre il lago di lava.”
Detto ciò scollò le spalle e, dopo aver salutato Jongin che, ancora sconvolto, continuava a domandargli come potesse andare quindi avanti nel gioco, se ne andò, correndo dal fidanzato che lo aspettava in macchina.
Jongin si sporse dalla finestra e li guardò partire sospirando, per poi tornare a spiaggiarsi pesantemente sul proprio letto mentre tra i suoi annebbiati pensieri, oltre alla domanda: “E adesso come faccio a finire il Mondo che mi manca?” si insinuava la preoccupazione di non riuscire a sgattaiolare via, quella sera, per vedere Kyungsoo. Solo a rimanere in piedi quei cinque minuti per vedere Joonmyeon gli era costato parecchia fatica. La terza regola era “non voltarti mai indietro”, non poteva permettersi di mancare all’appuntamento.
 
-
 
Si imbottì di farmaci, restò a letto al caldo sotto almeno una decina di coperte, mangiò tutto ciò che l’amorevole madre gli aveva preparato anche se il suo stomaco continuava a protestare a suo di nausea di rigurgiti acidi, ma di certo quella sera meglio non stava. Anzi, tutte le medicine che aveva assunto gli avevano letteralmente mandato in pappa il cervello. Nonostante ciò, con tutta la forza che gli rimaneva, si rivestì per bene, jeans spessi, maglioncino di lana, cappotto, cappello e ben due sciarpe, disse ai genitori con il miglior sorriso che i medicinali gli permettevano di sfoggiare che sarebbe di nuovo uscito con gli amici e, riuscendo anche a non barcollare troppo, scappò letteralmente fuori di casa.
Ci mise il doppio del tempo ad arrivare da Kyungsoo quella sera, i piedi che tremolavano e la vista annebbiata di certo non lo aiutavano a ritrovare il vicolo giusto tra i tanti, tutti uguali, che figuravano, bui, stretti, sporchi, nascosti all’interno della Seoul borghese. Quando finalmente raggiunse l’amico (poteva definirlo “amico” ormai, no?) non poté fare altro che gettarsi a terra, sedendosi pesantemente accanto a lui mentre tossiva, già esausto, dentro la mascherina, il viso quasi completamente sommerso tra le due sciarpe che stava indossando.
Kyungsoo, da parte sua, si tirò immediatamente indietro: “Vade retro, tu ed i tuoi germi malefici. Non ho di certo bisogno che provi ad ammazzarmi con i tuoi scatarri da malato terminale.”
Jongin non rispose, troppo occupato a riprendere fiato anche solo per ridere a quella che, in fondo, sapeva essere solo una battuta. L’idol si passò una mano sul viso e tirò giù la sciarpa in cui era accoccolato, beccandosi una sferzata di aria fredda direttamente in pieno volto. Appena il respiro tornò normale si strinse timidamente nelle spalle, come se l’unico modo rimastogli per giustificarsi fosse sembrare piccolo ed indifeso e suscitare in lui un sentimento di pietà. Kyungsoo, da parte sua, distaccato come al solito, rispose con una semplice scrollata di spalle. Non poteva interessargli di meno della salute di Jongin, e poi era ancora sconvolto ed arrabbiato per ciò che era successo la sera prima. Speranze? Timore? Non era di certo per quello se anche lui, quel giorno, non poteva dire di essere completamente in forma. Era rimasto di sasso quando il minore gli aveva gentilmente domandato di parlare ai suoi piedi, forse gli era anche piaciuta la maniera che aveva avuto di argomentare, con tanto garbato e timido fervore, la sua posizione. Per un momento aveva creduto di esserne affascinato, di pendere dalle sue labbra, e tutto ciò che aveva potuto fare, che si era sentito di fare, era stato lasciare libere lacrime amare. Il dolore, quello sì che era stato reale. Pensò, in quel momento, di essere stato forse il primo ad aver ascoltato il più piccolo parlare del suo dolore, ed in qualche modo quella stessa pena li aveva avvicinati per una sera. Non avrebbe voluto ammetterlo nemmeno a se stesso, ma quando la notte prima Jongin se n’era andato lasciandolo di nuovo da solo, in lacrime, aveva provato dolore.
Kyungsoo prese un respiro profondo e, non volendo comunque dimostrarsi troppo a terra, borbottò: “Dunque sei qui per fare il gioco del silenzio. Mi piace questa prospettiva, sai?”
Solo a questo punto Jongin riuscì ad aprirsi in un piccolo sorriso, che comunque, per via della mascherina e delle sciarpe, Kyungsoo poté solo immaginare seppellito sotto i vari strati di tessuto: “Devo solo riposarmi un secondo… Sono…” e qui il cantante fece un’altra pausa, ridacchiando a bassa voce “Sono a tanto così” e a questo punto mostrò ‘così’ con indice e pollice della mano destra “dall’iniziare a delirare.”
Il maggiore pensò che una battutina sul fatto che a lui sembrava che l’altro delirasse di continuo, febbre o non febbre, avrebbe anche potuto starci, ma Jongin sembrava stare veramente male, così si cucì la bocca e replicò, di nuovo, con una svogliata alzata di spalle. Non ci volle molto, però, prima che Jongin riprese a parlare con tono stanco e strascicato: “Mi dispiace… Io… Chissà che cosa ti aspettavi oggi, e invece io sono ridotto così…”
Kyungsoo si accigliò. Voltò il capo verso il viso dell’idol e, con una certa meccanicità, lo inclinò da una lato, come a domandargli implicitamente se fosse scemo o cosa: “L’unica che ormai mi aspetto da queste tue visite è che un giorno o l’altro ti vedrò stramazzato al suolo, magari morto, mentre un avvoltoio che ti becca gli occhi per mangiarli continua a gracchiare ‘Te l’avevo detto! Te l’avevo detto!’”
Fece una piccola pausa e poi continuò: “In un universo metaforico al di là della tua relativamente ristretta capacità di comprensione, quell’avvoltoio credo che potrei essere io.”
Jongin scosse il capo, sorridendo un po’ di più. Con mani tremanti rovistò sotto il tessuto morbido della propria sciarpa e tolse la mascherina, così che anche Kyungsoo potesse vedere che era divertito dalla sua battuta: “Sei in vena di essere simpatico oggi, eh?”
Fece una breve pausa, poi, voltato verso di lui, con espressione ancora più dolcemente melodrammatica, riprese: “Comunque un’idea per oggi ce l’ho”
“Speravo davvero che facessimo il gioco del silenzio…” lamentò l’altro, con espressione falsamente indispettita. Lo faceva apposta ormai a parlargli con quel tono indisponente, un po’ lo divertiva veder scemare l’entusiasmo dagli occhi di eterno bambino di Jongin, ma sapeva che per quella sera sarebbe stata l’ultima battutina sciocca che gli era concessa “Non giocheremo di nuovo a programmare la distruzione atomica dei miei poveri piedi, vero?”
Jongin scosse il capo e, cogliendo l’occasione per stiracchiarsi un po’, si tolse una delle sciarpe per metterla con dita tremanti al collo di Kyungsoo: “Mi sarebbe piaciuto portarti a fare un giro in centro, sai? Ieri alcuni amici mi avevano invitato fuori, ma io ho detto che stavo male, così potevo tornare a trovarti.”
“Avresti potuto andare con loro visto che hai passato la serata a massacrarmi i piedi” puntualizzò ancora il vagabondo, storcendo il naso per il gesto cordiale del ballerino, ma non rifiutando, di fatto, la sua sciarpa, ricevendo in risposta solo un’alzata di sguardo da parte di Jongin.
“Preferivo restare qui con te”.
L’idol parlò con voce appena più spessa, più sicura e ferma, sebbene pur sempre velata da una vena di delicata timidezza, ma non proseguì con le ragioni di quella breve, incisiva, constatazione (che, per la cronaca, a Kyungsoo sarebbero veramente interessate).
“Comunque, dicevo, credo di essere davvero troppo malconcio per andare a girare in centro. È solo mercoledì, ma scommetto che sarà comunque pieno di gente--”
“-- che ti chiederà gli autografi?” lo rimbeccò l’altro “Magari se ti metti vicino a me mentre chiedo l’elemosina divento ricco.”
Detto fatto, una battuta di troppo e l’espressione di Jongin si stava già incrinando. In fondo non poteva biasimarlo, Kyungsoo capiva, al terzo giorno di fila in cui l’idol si ostinava a passare le sue serate con lui nonostante la febbre altissima, il vomito e i capogiri, che, in qualche assurdo modo, il minore teneva a lui. Non ne comprendeva i perché, e forse, soprattutto dopo il giorno precedente, aveva un certo bisogno di scoprirne i motivi, ma almeno poteva fare sì che quelle serate non fossero una vera e propria tortura per entrambi
“Vuoi davvero fare solo una passeggiata?” si fece quindi avanti il maggiore. Una parte di lui continuava a ribellarsi all’impellente sensazione di fidarsi di Jongin e ad urlare in un angolo della sua mente qualcosa come ‘Deficiente, non assecondarlo!’, ma d’altro canto la celebrità gli faceva veramente pena in quello stato pietoso. Sapeva che quella loro speciale routine sarebbe durata non più di altri due o tre giorni al massimo, e che poi prima di poter rivedere Jongin sarebbero probabilmente passati anni se qualche infezione non lo avesse ucciso prima. Si chiese se farlo contento non fosse l’unico modo per effettivamente toglierselo di torno, e subito dopo si maledisse per la propria cattiveria. Il breve “Sì” di Jongin lo distolse dai suoi pensieri: “Allora, se vuoi davvero solo fare una passeggiata, potremmo andare lungo il fiume. Lì è più tranquillo, e poi la riva non è troppo lontana da qui.”
Jongin si aprì in un nuovo sorriso e, prima di scattare in piedi, recuperato tutto il suo entusiasmo, gli scompigliò i capelli esattamente come aveva fatto la sera prima, mossa che si valse un roco borbottio da parte del maggiore: “Una volta sola basta e avanza…”
Avrebbe dovuto rimanere lì con lui la sera prima.
 
-
 
Camminarono per circa un quarto d’ora prima di arrivare alla sponda del fiume Han, fermandosi un paio di volte in modo che Jongin potesse sedersi sul marciapiede a riprendere fiato.
“Sei davvero sicuro di voler continuare a camminare? Guarda che la forza di riportarti a casa in braccio non ce l’ho. Non che comunque abbia intenzione di farlo a prescindere”
Jongin sorrise ancora: “Sarebbe carino se mi prendessi in braccio invece, mi andrebbe bene anche tipo sacco di patate!”
Kyungsoo roteò gli occhi e liquidò così l’argomento, mettendo le mani in tasca: “Da che parte andiamo?”
“Questo devi deciderlo tu” Jongin lo guardava ormai con il suo solito, un po’ infantile, entusiasmo, segno che molto probabilmente aveva qualcosa in serbo per lui oltre alla passeggiata che gli aveva promesso. In pochi secondi infatti se lo trovò di fronte e si sentì intimare: “Chiudi gli occhi”
Il vagabondo assottigliò lo sguardo e squadrò Jongin con fare perplesso e, allo stesso tempo, intimidatorio, mettendosi sulla difensiva: “Vuoi annegarmi.”
Non era una domanda, era una feroce constatazione alla quale, però, Jongin rispose inaspettatamente con una breve battuta di spirito: “Oggi ti senti decisamente simpatico.”
Sospirando, il minore prese la sciarpa che aveva allacciato attorno al collo dell’altro.
“Ho capito, vuoi impiccarmi…”
“Zitto, Pingu, adesso ti spiego.”
Jongin distese la sciarpa, per poi farle fare due giri attorno agli occhi del maggiore e legarla stretta dietro la sua nuca, come una specie di benda.
“Non vedi nulla, vero?” incominciò quindi Jongin “Questo è come probabilmente come vorresti essere, nessuna speranza, nessun dolore, nessuna emozione… nessun ricordo.”
Kyungsoo si sentiva particolarmente teso all’idea di non vedere nulla, semplicemente non poteva permettersi di fidarsi, e di affidarsi, a Jongin davvero così tanto. Sussultò sentendo l’altro proseguire: “Potrà essere banale, ma indietro ci sono i ricordi, c’è tutto ciò che ti rende la persona che sei. Se vuoi cancellarli forse è perché non ti piace ciò che sei, no? In quel caso però non significherebbe perdere del tutto se stessi?”
Jongin avrebbe davvero voluto potersi esprimere in modo più completo, con più metafore, più esempi, come se stesse raccontando una storia. Non era sicuro che Kyungsoo comprendesse tutti i suoi ragionamenti se la sua voce non accennava a smettere di tremolare, incespicare, raschiare e, ogni tanto, affondare, perduta, all’interno della sua gola che reclamava prepotente pietà. Si fece scappare un paio di lacrime per il dolore e fu grato che Kyungsoo non potesse vederlo in quello stato. Incapace di continuare, non poté fare altro che prendere una delle sue mani e stringerla con delicatezza, aspettando che il suo respiro si decidesse a ritornare normale. Avvertì ogni singolo muscolo del maggiore tendersi, ma si rifiutò di lasciarlo andare e, dopo alcuni, interminabili, secondi, iniziò a camminare.
“Vedi, Kyungsoo, questo è il modo in cui credo che ogni persona guardi di fronte a sé senza avere ricordi. È tutto buio perché senza ricordi è impossibile riconoscere tutta la marea di informazioni che il mondo ti manda. Una persona sventola in aria la sua mano mentre ti guarda e tu non puoi fare a meno di cominciare a fissarlo con occhi da pesce lesso perché non sai nemmeno come si saluta!”
Jongin rise per la sua stessa battuta, cosa che, inaspettatamente, contribuì a calmare Kyungsoo, che camminava al suo fianco senza vedere nulla, affidandosi solamente alla fragile solidità della mano del minore.
“Immagina di dimenticare davvero come si saluta, ogni persona che proverebbe a salutarti poi penserebbe che tu sia solo un maleducato, no? E la tua vita, allora, sarebbe tanto migliore se tutti iniziassero a pensare questo di te?”
Era una logica davvero difficile per uno come Kyungsoo, ma, stranamente, lo seguiva. Lo seguiva perché, bendato, mentre camminava con passo traballante aggrappato alla mano di Jongin, non poteva fare a meno che fidarsi davvero di lui, ascoltarlo e fissarsi per bene le sue parole in testa, come se in esse fosse racchiusa la maniera che gli avrebbe permesso di sfilarsi la sciarpa dal viso per rimetterla sul collo scoperto.
“Guardi avanti, ma non sai dove stai andando perché non ti lasci nulla dietro e perdi le tue stesse tracce. Vedi le impronte di qualcuno dietro di te, ma sai già che non sono le tue, né quelle della tua ombra. Qualcuno ti è passato vicino, magari ti rincorreva, ma poi ti ha superato e nemmeno te ne sei accorto.”
Kyungsoo non era così sicuro che stavolta Jongin parlasse solo di se stesso, sentiva quel discorso terribilmente vicino, tremendamente giusto, e tutto ciò gli dava particolarmente fastidio. Avvertì la mano di Jongin stringere di più la propria e, obbedendo al suo implicito comando, si fermò sul posto, in preda ad una strana adrenalina, come se fosse pronto a prenderlo a pugni ed il suo stesso corpo glielo impedisse.
Jongin, serio forse come mai lo era stato prima con lui, gli scivolò di fronte e slegò la sciarpa, per poi risistemarla attorno al suo collo, mormorando infine con fiato sospeso: “Dovrai fidarti di me ancora per un po’…”
Kyungsoo si chiese che cosa Jongin avesse ancora intenzione di obbligarlo a fare, sorprendendosi davvero quando l’altro, invece, raccogliendo nuovamente la sua mano, fredda, con la propria, gelida, constatò che toccava a lui adesso. Guardò con un certo senso di straniamento quel Jongin tremante che, ciondolando, ruotò su se steso a centottanta gradi e gli diede, spalle ritte (almeno per i primi venti secondi), la schiena intimandogli: “Continuiamo la passeggiata adesso! Portami in giro tu, io mi fido di te”
Non si capacitava di come Jongin davvero potesse fidarsi così facilmente di lui, probabilmente perché non era in grado di intendere nemmeno come mai per lui fosse di fatto lo stesso nei suoi confronti. Senza nemmeno replicare, Kyungsoo iniziò a passeggiare, trascinando un lento Jongin che camminava con andatura dinoccolata all’indietro.
“Vedi, questo è il modo in cui invece vedo io.”
Jongin non sprecò altre parole, sapeva che Kyungsoo aveva già capito dove voleva arrivare. Il vagabondo osservava pigramente le poche stelle che riuscivano a squarciare le luci della città e si riflettevano sulla superficie liscia del placido fiume, stringeva la fragile mano del minore e, davvero, infine, capì che quest’ultimo non poteva che vivere di rimpianti. Guardava al passato in modo morboso, quasi come se potesse scovare in esso le colpe ed i rimedi di ciò che era diventato. Tentava rocambolescamente di tornare indietro nel tempo con la forza di una costante, eterea, traslucida preghiera al mondo, troppo sottile, troppo timida, troppo poco perentoria per essere udita. Ancora una volta si chiese se lo scopo di Jongin fosse mostrargli il suo dolore, ma poi pensò immediatamente che proporgli due volte lo stesso argomento di discussione per lui sarebbe stato troppo noioso e scontato. Eppure non aveva più proferito parola dopo quel tragico “Questo è il modo in cui vedo io”, sapeva Jongin che lui aveva capito? Forse sì, forse no, però di certo confidava nel fatto che l’altro lo comprendesse a prescindere, e questo Kyungsoo lo aveva immaginato fin dall’inizio. Fede, quella la parola magica, ciò che il vagabondo aveva imparato semplicemente da una stretta di mano e qualche frasetta da romanzo rosa declamata tossicchiando. Rimuginò anche sul fatto che stesse forse imparando troppo in fretta, ma si chiese che cosa gli importava, se Jongin, nella misera maestosità della sua figura, era lì accanto a lui mentre gli mostrava esplicitamente di non essere di certo da meno in merito a cose da imparare. Lui gli aveva mostrato come gettarsi nel futuro, Jongin gli stava insegnando come non avere paura di immergersi nel passato.
Guardare avanti senza vedere, guardare indietro senza sapersi voltare, Kyungsoo aveva davvero capito che la verità stava nel mezzo, che doveva saper salutare le persone per essere giudicato un bravo individuo. I ricordi andavano analizzati, affrontati, superati, portati infine con la gloria di una lucente catarsi splendidamente riuscita.
Inutile raccontare come i volti della madre e della sorella ricominciarono ad affacciarsi insistentemente all’ermetica finestra della sua mente, e per la prima volta aprì davvero i battenti ad entrambe, lasciando che tutto il dolore accumulato fluisse dal suo capo fino agli occhi, poi alle gote, alle labbra, alla gola che, per un momento, fu stretta in un penoso nodo, per poi lasciarlo scorrere sulle curve sonnolente della sua clavicola fino alla spalla, al braccio, alla mano, dove incontrò quello di Jongin, si fuse con esso e divenne più forte. A Kyungsoo, comunque, non interessava; sapeva di non essere da solo ad affrontarlo.
Per quel motivo, quando Jongin, letteralmente stremato, inciampò e ruzzolò malamente a terra, sull’erba soffice e umida, si preoccupò di aiutarlo a rimettersi in piedi e gli intimò con occhi fiammeggianti di tornare indietro. Jongin accettò, suo malgrado, l’offerta, e prima di rimettersi in marcia gli domandò sommessamente se volesse cimentarsi anche lui nel camminare all’indietro. Kyungsoo inclinò il capo di lato, lo guardò con occhioni da gufo, poi si mise di schiena e prese la sua mano senza replicare alcunché. Non avevano fatto molta strada, ma senza gli sproloqui di Jongin il tragitto sembrò molto più lungo. L’erba solleticava le suole delle malconce scarpe di Kyungsoo, un venticello gelido giocherellava con le ciocche di capelli che sbucavano dal cappello di Jongin, entrambi i ragazzi credevano di aver visto le loro mani riflesse increspare la superficie dell’acqua e nessuno dei due ebbe il coraggio di farlo notare all’altro.
Dopo diversi minuti, però, Jongin si separò dalla mano di Kyungsoo e si mise dietro di lui, in modo che il maggiore non potesse vederlo: “Vieni sempre indietro, Kyungsoo, continua a venire indietro come hai fatto fino ad adesso…”
Kyungsoo si fidava, ritenne giusto fare come diceva Jongin e lo seguì nella sua idea. Continuò cautamente ad infilare un passetto dopo l’altro, ma sobbalzò quando si ritrovò a sbattere con la schiena contro il petto del minore che lo attendeva a braccia aperte. Jongin lo strinse semplicemente a sé e prese a cullarlo allo stesso ritmo dello scorrere del fiume, domandandogli scuse che Kyungsoo mise immediatamente a tacere. Borbottò qualcosa a proposito di affogarlo se avesse continuato a chiedergli scusa per quel lungo abbraccio, per poi mordersi le labbra ritenendo di aver inevitabilmente frantumato la vibrante atmosfera che li avvolgeva. Un tuffo al cuore, invece, quando sentì il minore aprirsi in una luminosa risata.
 
“Sai, mi è venuto in mente che, se cadiamo adesso, cadiamo insieme.”
 
Si sdraiarono entrambi sull’erba, uno accanto all’altro, Jongin con gli occhi chiusi, esausto, Kyungsoo con lo sguardo rivolto verso di lui. Non ci volle molto prima che uno dei due facesse avvicinare i loro visi. Fecero sfregare i loro nasi tirando lunghi sospiri di sollievo, baciarono l’uno le labbra dell’altro come se non avessero desiderato altro dall’inizio di quella lunga ed estenuante serata, poi si ringraziarono a vicenda con un altro tenero abbraccio. “Io sono qui” significava, niente di più, niente di meno.
 
Più tardi, quando la luna era già alta nel cielo e troneggiava nel bel mezzo di quella serena notte invernale, Kyungsoo era ancora seduto sulla riva del fiume e guardava le stelle nel riflesso dell’acqua, come Jongin gli aveva insegnato.
“Stavi controllando il tuo angolo di cielo?” sussurrò una voce dietro di lui.
Jongin si sedette accanto a lui ed appoggiò il capo su una delle spalle del maggiore, che rispose bisbigliando allo stesso modo: “Beh sì, ma adesso ti ci sei messo tu davanti e nel riflesso vedo solo te…”
Kyungsoo voltò allora il capo verso quello del minore e lo adagiò a sua volta, con delicatezza, sul suo: “… Non che comunque mi dispiaccia.”








Heloooooooo
Niente, volevo solo dirvi che è il mio capitolo preferito *^*
Quick question: il prossimo capitolo è tipo lungo 12 pagine di Word (carattere 12 eheh aiuto regalatemi della sintesi a Natale plis), preferite che lo tagli in tre parti o lo lascio intero?

 
- moganoix

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** FOURTH - venerdì (parte 1) ***


FOURTH - venerdì
parte 1

 
La sera del giovedì Jongin non avrebbe mai pensato che la mattina seguente sarebbe stato letteralmente, orribilmente, spaventosamente disperato, talmente disperato che, in preda al panico più totale post ‘io-e-Kyungsoo-ieri-ci-siamo-baciati’, avrebbe iniziato a contare il numero di mal di testa che, come operai in una fabbrica che in fila alle otto del mattino aspettano di obliterare il loro badge personale, giocavano a prendere a calci, uno dopo l’altro, il suo povero piccolo ingenuo cervello. Durante l’ultima ora, da quando aveva iniziato a contare, ne sentì passare almeno otto. Alcuni, più cordiali e deferenti, si limitavano saggiare come sommelier la consistenza delle sue meningi, altri, più premurosi ed espansivi, si preoccupavano di avvolgere tutta la sua testa in una morsa piena di affetto, altri ancora si divertivano invece a giocare direttamente a ping-pong con tutta la sua scatola cranica. Il mal di testa che aveva classificato come ‘Amica febbre’ apparteneva, in fondo, a quelli del primo tipo, così come ‘Mamma’, ‘Papà’ e ‘Brodino avanzato sul comodino’. Ansioso per natura, non poteva che classificare invece ‘Idol fallito’, ‘Voglia di andare in letargo’ e ‘Come finirò quel maledettissimo livello di Super Mario?’ tra i secondi. ‘Kyungsoo’, ovviamente, occupava l’unica poltrona d’onore nella categoria peggiore, e, sempre ovviamente, ‘Amica febbre’ non gli permetteva di ragionare in modo lucido sulla questione del bacio che si erano scambiati la sera prima.
In primo luogo, chi aveva baciato chi?
Gli era piaciuto?
Kyungsoo aveva sentito che la bocca gli puzzava di aspirina?
Ma soprattutto, quel bacio aveva significato per il maggiore la stessa cosa che aveva significato per lui?
Probabilmente quella sera avrebbero dovuto discuterne insieme, ma l’idol non era poi così certo che a Kyungsoo andasse a genio parlottare di sentimenti in un vicoletto buio come le ragazzine ed il loro rispettivo bad boy nelle fanfiction che ogni tanto andava a spulciare (quelle nelle quali, in particolare, i protagonisti erano lui stesso e ‘[y/n]’). Iniziò quindi istintivamente a valutare seriamente il comportamento del senzatetto, ripescò nella sua memoria tutte le informazioni a proposito dell’amico – per il momento aveva deciso di chiamarlo ‘amico’ per non essere troppo in imbarazzo nel pensare a lui – e si chiese, alla fine, se lo conoscesse davvero. Si ripose di no, e la consapevolezza lo fece sprofondare.
Kyungsoo non gli aveva mai parlato della sua famiglia, del suo passato, di ciò che lo aveva portato a vivere in strada, non aveva mai fatto nessun tipo di accenno a qualsiasi casuale episodio accaduto nella sua vita. Jongin si chiese se tenesse delle passioni, se avesse imparato a suonare qualche strumento musicale dal barbone che abitava due vicoli più avanti a lui, a quali giochi giocasse da piccolo e con chi. Il suo colore preferito? Vuoto totale, eppure era una cosa così banale, esattamente come la sua data di nascita ed il suo cognome.
Kyungsoo… Kyungsoo Kim, forse? Kyungsoo Park?
Kyungsoo in fondo era Kyungsoo e basta. Lo conosceva ufficialmente da cinque giorni e pensava che un cognome stonasse dietro di esso. Kyungsoo forse era semplicemente il modo che aveva trovato per autocommiserarsi senza sentirsi in colpa, e a questo punto gli dispiacque allora di averlo baciato la sera prima. Non aveva dubbi sul fatto che fosse piaciuto ad entrambi, ma temeva ormai che fosse stato un bacio scambiato solo per sfogare un attimo di riprovevole debolezza. Se era così, probabilmente Kyungsoo, decisamente più intelligente di lui e, soprattutto, senza otto mal di testa a perseguitarlo, se ne era già accorto da un pezzo. Si domandò di che cosa avesse allora da preoccuparsi tanto, quella sera sarebbe bastato comportarsi come al solito.
Giorni prima, Kyungsoo gli aveva chiesto di cercarlo, e, come sempre, Jongin era veramente pessimo nel trovare ciò che gli serviva.
 
-
 
Kyungsoo trascorse semplicemente la giornata più strana e, incredibilmente, serena da almeno dieci anni a quella parte. Non che volesse ammettere tanto facilmente a se stesso che stesse insistentemente pensando a Jongin e che a causa di ciò si era quasi lasciato sgraffignare da un altro ragazzo il mezzo panino che avrebbe dovuto costituire la sua colazione ed il suo pranzo, però era esattamente ciò che stava facendo. Non che ricordasse davvero chissà quali inimmaginabili sensazioni se rifletteva sulla serata appena trascorsa, non era decisamente il tipo di ragazzo che stava a rimuginare sui propri sentimenti. La scaletta era incredibilmente lineare e sarebbe stato da perfetti idioti rinnegare che cosa era successo. Erano vicini e l’istinto gli aveva detto di baciarlo, e gli era inverosimilmente ed assurdamente piaciuto. Non aveva sentito angioletti scagliare frecce attorno a loro, né farfalline, coccinelle o pterodattili ronzare e svolazzare sopra le loro teste o fare le capriole all’interno della sua pancia, né melodiche e solenni trombe di putti squillare gioiose per loro. L’atmosfera non si era scaldata, anzi aveva continuato a tremare di freddo per tutto il tempo, e la bocca di Jongin, comunque, sapeva di aspirina. Non gli era piaciuto perché aveva ricevuto un bacio da sogno, sognava quel contatto ad occhi aperti, cercava di scorgere l’idol in ogni frettoloso passante, perché aveva stretto il corpo di Jongin con le proprie mani e sotto lo spesso tessuto del cappotto lo aveva sentito spaventosamente vivo.
L’unica cosa che, in fondo, tormentò Kyungsoo per tutto il giorno fu il modo più giusto per porre al ballerino questa semplice domanda: “Anche io ti sono sembrato vivo?”
 
-
 
Quella sera Jongin uscì di casa relativamente presto. Se il mal di testa almeno gli aveva dato tregua, così non era stato per lo spiacevole senso di nausea che teneva ormai da giorni in ostaggio le sue viscere. Non aveva cenato, ci aveva già pensato tutta l’agitazione di incontrare di nuovo Kyungsoo a riempirgli lo stomaco di acido greve. Uscito di casa dopo una breve litigata con i genitori, i quali giustamente ritenevano che, almeno per una sera, avrebbe dovuto rimanere a casa per riprendersi del tutto, l’idol camminava a passo spedito. Sapeva che Kyungsoo ovviamente era a conoscenza del suo stato di salute, non sarebbe stato difficile mentirgli e raccontargli, ad esempio, che quel giorno si sentiva così male da non riuscire nemmeno ad alzarsi in piedi, ma l’idea di perdersi una di quelle loro serate, nonostante l’influenza, la febbre e l’ansia, non l’aveva nemmeno sfiorato, soprattutto sapendo che mancava davvero poco alla fine della sua settimana di vacanza. Ancora un paio di giorni e sarebbe dovuto tornare a lavorare a tempo pieno alle nuove coreografie per l’album che avrebbe rilasciato il mese successivo, non vedeva l’ora di riprendere a seppellire i problemi e la nostalgia nella sua amata danza. Non era sicuro del fatto che quella che stava vivendo, fino a quel momento, non fosse stata una delle settimane più stressanti della sua vita.
Quando giunse, con la rocambolesca pacatezza di chi ha il caos che brucia dentro di sé, al vicolo in cui stava Kyungsoo, fece quasi fatica a lasciarsi andare e a sedersi lì accanto a lui sopra un sudicio brandello di cartone marcio. Lo salutò con un’allegria che parve falsa alle sue stesse orecchie, si stiracchiò leggermente, con una certa deferenza, e attese, come al solito, che Kyungsoo rompesse il ghiaccio con una delle sue solite sarcastiche battute di spirito. Contò ogni singolo scomodo secondo che intercorse tra l’inizio di quell’imbarazzante silenzio e il momento in cui gli venne la malsana idea di voltare il viso verso quello del senzatetto per tentare di sbloccare la situazione con uno dei meravigliosi sorrisi di convenienza che il suo manager gli faceva provare davanti allo specchio prima di ogni fansign. Quel sorriso, ovviamente, gli morì in gola, non riuscendo nemmeno a far increspare appena uno solo degli angoli delle sue labbra. Giganteschi occhioni da gufo lo stavano fissando perentoriamente dritti negli occhi, laser atomici che analizzavano cellula dopo cellula con assurda meticolosità per ponderare l’irreversibile decisione di trivellarlo da parte a parte. Jongin trattenne il respiro, dall’espressione che fece sembrò quasi che si aspettasse un rimprovero da parte di sua madre. Gli venne quasi in mente di domandargli, con tanto di onorifico e linguaggio aulico-formale, se si aspettasse un altro bacio.
Kyungsoo ovviamente non si aspettava nessun secondo bacio, ma dopo la giornata trascorsa a riflettere sul suo rapporto con Jongin e ad immaginare ipotetiche conversazioni con lui quella sera non poteva che dirsi deluso dal modo in cui il minore si era presentato, effettivamente più da ‘Kai’ che da ‘Jongin’. Non che ne fosse sicuro, non che ci stesse davvero, fisicamente, male, ma il giorno prima avrebbe potuto giurare a se stesso di aver scorto una sorta di via di fuga nel loro rapporto, un mondo in cui avrebbero potuto fidarsi l’uno dell’altro per molto di più di una semplice, misera, infima serata. Si chiese se fosse quello il modo in cui Kai o Jongin interagivano con le persone che finivano per baciare lungo la riva del fiume Han e storse il naso in un moto di disgusto, ma non abbassò lo sguardo, sperando quantomeno di farlo sentire in colpa. Con un sospirò si occupò poi di levare entrambi d’impiccio e, facendo scivolare lo sguardo verso un astuccio imbottito ricoperto di spessa stoffa di un colore che forse ai suoi tempi d’oro poteva essere classificato come ‘blu’ che il ballerino teneva in mano, domandò in un breve sospiro intersecato da una sottile vena di irritazione di cui, in tutta onestà, sperava che Jongin si accorgesse: “Che cos’è?”
Nessuna battuta, solo gelide parole destinate a trafiggere il loro destinatario. Kyungsoo iniziò a pensare di voler concludere quella serata il prima possibile, non voleva avere a che fare con ‘Kai’ e non sopportava che Jongin avesse scelto il suo alter ego famoso per passare la notte con lui.
“Il DS;” Jongin fece un breve pausa per sfilare la console dalla custodia “voglio dire, è il mio Nintendo.”
Kyungsoo aggrottò le sopracciglia e si chiese che cosa fosse esattamente quel piccolo oggetto a forma di computer in miniatura che Jongin stringeva tra le mani e a che cosa servisse. Si era imbattuto alcune volte in cartelloni pubblicitari che lo promuovevano, ma non ricordava di essersi davvero mai preoccupato di scoprire quale fosse la sua funzione.
“Ci puoi giocare” asserì l’altro con un po’ più di determinazione nella voce. Lo sguardo che il vagabondo gli aveva rivolto all’inizio lo aveva spaventato a morte, facendogli capire che molto probabilmente aveva sbagliato completamente approccio quel giorno e, soprattutto, che era letteralmente una frana nel farsi degli amici, o qualsiasi cosa potesse essere Kyungsoo per lui in quel momento. Si pentì un po’ di non aver rimuginato di più sulla questione ‘bacio’ quel pomeriggio: “Intendo… Ci metti le schedine dei videogiochi dentro e, beh… inizi l’avventura, ecco.”
Jongin aveva il terrore di fare un altro passo falso, parlava con un tentennante timore che nemmeno la prima volta che era sgattaiolato di casa per andare a trovare Kyungsoo aveva provato. Effettivamente, adesso che lo notava, dopo la prima delle loro serate aveva iniziato ad avvertire un forte senso di attaccamento al senzatetto, e con esso anche a temere di perderlo a causa della fine della ‘vacanza’. Si sentiva legato a Kyungsoo perché era l’unico che sembrava, se non comprenderlo, almeno finire sempre per ascoltarlo. Con Joonmyeon, l’unico suo altro vero amico, era diverso. Stabile roccaforte che dispensava ottimismo, non ci metteva molto a dargli una breve pacca su una spalla dopo aver sentito nemmeno la metà di ogni suo problema. Certo, non ne aveva bisogno, Jongin sapeva di mirare in ogni situazione sempre alla stessa conclusione, e forse per questo si meritava anche la conseguente classica risposta dell’autista, un naturale “Smettila di fare quello che non ti piace fare” detto con una nonchalance tale da irritarlo a morte. Joonmyeon era a conoscenza anche di questo, probabilmente ci giocava su sperando che a forza di sentire sempre le medesime repliche il cantante sarebbe esaurito tanto da arrendersi davvero e seguire a testa bassa, con il solo orgoglio di aver ammesso anche davanti agli altri di aver sbagliato, il suo consiglio. Jongin tendeva a farsi mettere facilmente i piedi in testa, se si presentava agli altri con un certo frizzante e brioso entusiasmo, non ci voleva molto perché si mostrasse per il grumo di roboante malinconia che invece era, e così tutti ritenevano che fosse semplicemente molto meglio dargli ordini piuttosto che utilizzare qualche minuto per stare ad ascoltarlo. Kyungsoo gli aveva concesso molto più di un paio di minuti e quella sera aveva forse deluso più lui in cinque minuti che tutti gli altri in tutta la sua breve e monotona vita, aveva scorto quella denuncia direttamente nel profondo sguardo con cui l’altro lo aveva trapassato. Prese quindi un respiro profondo prima di ricominciare a sussurrare con tono già più disteso: “Ho pensato al fatto che in fondo io non so niente di te, e anche che tu non sai niente di me. So che non ti piace parlare del tuo passato, quindi inizierò io.”
Jongin sollevò con delicatezza lo schermo superiore della console che teneva stretta in mano e la accese facendo scattare il piccolo bottone posizionato sul lato destro, sorridendo quasi con dolcezza quando scorse il viso di Kyungsoo illuminarsi completamente disorientato e fare un piccolo balzo a causa del chime di default nella schermata iniziale sparato a tutto volume dalle malconce e stonate casse del DS.
“Scusami,” ridacchiò Jongin portando il volume al minimo “è un mio vizio, tengo sempre il volume al massimo.”
In risposta Kyungsoo scrollò pigramente le spalle, continuando a fissare, con più interesse di quanto effettivamente avrebbe voluto mostrare, i due piccoli schermi del Nintendo. Nella sua testa la questione ‘Jongin’ era stata rimpiazzata da un moto di vorace curiosità che era letteralmente esplosa nel momento in cui l’idol, come per magia, aveva sfilato il pennino da uno scompartimento di cui di primo acchito non si era accorto. L’ultima volta che era stato così vicino a qualcosa di tecnologico era quando la madre, anni prima, aveva rubato ad una passante un vecchio cellulare per poterlo scambiare con del pane bruciacchiato e, probabilmente, anche un po’ di droga da tenere per sé. Il vagabondo ricordava che quella volta aveva trascorso tutto il giorno a smanettare con un piccolo gioco in cui il protagonista era un serpente dalle strambe forme quadrangolari che, prima o poi, tentando di assumere il quantitativo di cibo di almeno un decennio, finiva per collassare contro la sua stessa spropositata coda. Di certo l’aveva ritenuta un’esperienza interessante ed arricchente, poi l’aveva archiviata, insieme ad una nascente attrazione nei confronti del mondo della tecnica, all’interno della sua voragine. Cominciarono a brillargli gli occhi appena vide comparire il simpatico logo ‘Super Mario Bros’ su entrambi i display.
“Vedi, questa console è tipo la cosa più importante che possiedo. Non mi sembrava che ci fosse modo migliore per parlarti un po’ di me.”
Senza alcun preavviso Kyungsoo sentì la mano di Jongin avvolgere una delle proprie per porgergli il DS, che immediatamente strinse con forza quasi esagerata dato il valore che il minore, a quanto pare, vi attribuiva. Deglutì piano, non sapendo ancora che era veramente raro che il ballerino acconsentisse a far giocare qualcuno con i suoi amatissimi videogiochi, in particolar modo proprio a quella stessa cassetta che invece aveva deciso di fargli provare in via eccezionale.
“Ti insegno ad usarlo appena il gioco si carica.”
Kyungsoo pensò bene di puntualizzare che in fatto di videogame non era proprio uno sprovveduto: “So giocare bene a quello del serpente, non c’è il caso che mi spieghi come si faccia.”
E fu così che, dopo un’occhiata vagamente allibita da parte di Jongin, Kyungsoo scelse un profilo casuale tra i tre proposti dalla cassetta e si avventurò nei meandri dei soffici e rigogliosi campi del Mondo 1.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** FOURTH - venerdì (parte 2) ***


FOURTH - venerdì
parte 2

I primi passi che Kyungsoo fece compiere al suo piccolo e tarchiato Mario in 2D lo condussero velocemente alla morte, tra le risate a stento trattenute di Jongin che, come espressamente richiesto dal maggiore appena pochi minuti prima quando aveva ostentato le sue immani capacità di videogamer, non doveva interferire con il suo apprendimento delle modalità di gioco. Al senzatetto venne spontaneo storcere il viso in un’espressione vagamente contrita e fargli il verso per zittirlo: “Taci, non mi fai concentrare”
“Non so quanto tu abbia da concentrarti visto che ti fai sempre ammazzare dal primo Goomba che passa” lo rimbeccò prontamente Jongin con tono ironicamente irriverente.
Kyungsoo si sentì preso in giro: “Goo-cosa?!”
Si voltò verso il minore mentre veniva atterrato per la decima volta in uno di quei brutti esserini che poco ci azzeccavano con la ridente falsità dell’ambiente circostante, per sentirsi poi rispondere con lo stesso tono saccente ed una svogliata alzata di spalle: “Non volevi che ti insegnassi? E allora non ti dirò nulla.”
Era ciò che di più infantile forse Kyungsoo avesse mai sentito nella sua vita e, senza rendersene conto, gli rivolse per ripicca lo stesso trattamento. Assunse quello che pareva essere un piccolo broncio e ricominciò ad accanirsi sull’innocua console, scatenando lo spirito di puntiglioso antiquario di Jongin che continuava a ripetergli di fare piano e avere pietà per il suo unico piccolo adorato cimelio. Alla fine il ballerino si arrese e, indicando il pulsante A sul lato destro del DS, ammise: “Puoi saltare con quello…”
Kyungsoo aveva intuito quasi immediatamente che il pulsante a forma di croce presente alla sinistra del Nintendo servisse per indicare le direzioni in cui poteva muoversi, ma non riusciva a comprendere, nel poco tempo che aveva prima di venire steso da uno di quei ‘Goomba’, come l’altro aveva chiamato quegli orrendi funghi di color marroncino Nutella, se effettivamente il suo personaggio fosse in grado di fare altro. Per i primi, e unici, dieci secondi di gioco, non faceva altro che premere pulsanti bellamente a casaccio finché non finiva ucciso o suicidato. Una volta spense anche la console senza volere.
Quando però Jongin gli disse come fare a saltare fu come se avesse visto aprirsi un mondo di fronte a sé.
“Devi attaccare i nemici saltando sopra di loro,” aggiunse poi Jongin con calma “però devi fare attenzione a quelle specie di tartarughe verdi e gialle… Si chiamano Koopa. Se ci salti sopra non muoiono, si rintanano solo nel loro guscio.”
Non fece in tempo a parlare che, due o tre partite ancora al massimo per imparare come coordinare i movimenti delle mani, Kyungsoo stava già facendo strage di tutti i mostriciattoli che tentavano, illusi, di frenare la sua imperiale e gloriosa avanzata. Jongin si meravigliò della coordinazione occhio-mano dell’altro, gli fece anche i complimenti, non senza un po’ di invidia. Era solo il primo livello del primo mondo, ma lui aveva impiegato mesi prima di giungere alla prontezza di riflessi che l’altro, invece, era stato capace di sfoggiare fin da subito. Gli si mise più vicino, trascinando i pantaloni griffati sul il terreno umido e livido di sporcizia, e, deciso comunque a dimostrargli quanta esperienza avesse accumulato, ricominciò a dargli suggerimenti con voce prima calma, poi sempre più entusiasta e concitata, su come sfruttare al meglio ogni movimento che il piccolo Mario poteva compiere o a proposito delle funzioni ogni singolo oggetto speciale. Kyungsoo non staccava gli occhi dalla console, ma avvertiva pesante lo sguardo bambinesco del minore su di sé, e ne fu incredibilmente sollevato. Era la prima volta che lo vedeva davvero tanto spensierato, un po’ se ne compiacque riflettendo sul fatto che, probabilmente, era anche merito suo. Avevano di comune accordo deciso di tagliare via la parte del loro incontro in cui Kai aveva osato farsi vivo e il senzatetto non poteva che essere più felice di aver recuperato il suo Jongin, forse anche con qualche bonus inaspettato. Era abituato alla malinconia di cui la sua longilinea silhouette era pregna, ai lagnosi discorsi di carattere prettamente nostalgico, alle lettere implicite firmate con la frasetta tumblr che di tanto in tanto leggeva sui muri imbrattati di qualche via secondaria nel quartiere universitario: “Fermate il mondo, voglio scendere”. Però vederlo, anzi, percepirlo ridere lì accanto a sé per un gioco che tutto sommato reputava anche noioso (era solo al Mondo 1 in fondo) lo spronava ad andare avanti perché sentiva che più avrebbe progredito nel videogame e più l’idol sarebbe stato felice. Immaginò per un momento Jongin con la fronte corrucciata, tutto chino sulla console a gingillarsi facendo saltare quel povero idraulico alla ricerca di stelline gialle e concordò con se stesso che fosse molto meglio come erano adesso, lui a giocare tranquillo conquistando le vette dei miti prati erbosi del Mondo 1 e Jongin a ridere entusiasta accanto a lui. Era davvero tantissimo tempo che non sentiva qualcuno ridere, nemmeno se stesso. Si chiese se in quegli anni la sua risata si fosse fatta bassa e scura come le voci inquinate dalle sigarette che consumavano per noia degli altri vagabondi che ogni tanto incrociava in strada; se anche fosse stato così non gli sarebbe importato. Aveva bisogno di sentire Jongin ridere, non se stesso.
Batté il primo boss senza quasi nemmeno accorgersene, spostando la levetta del volume sul valore minimo per fare sì che l’unica colonna sonora fosse quella del riso di Jongin, che ormai estasiato, continuava ad incitarlo ad andare avanti anche alla conquista del Mondo 2. Kyungsoo fece un po’ il difficile per prenderlo in giro, borbottò qualcosa di veramente stupido a proposito di essere un po’ stanco, di non essere nemmeno davvero troppo bravo, ma quando Jongin annunciò che allora avrebbe giocato un po’ lui al suo posto il senzatetto si rifiutò categoricamente di cedergli il DS.
“Le infide sabbie del secondo livello non mi intimoriscono, posso continuare ancora per un bel po’.” Lo liquidò con questa frase e riprese a trafficare, ormai esperto, con ogni singolo pulsante della console sotto lo sguardo attento ed ammirato di Jongin. Era ciò che di più simile ad una tranquilla serata fra amici Kyungsoo avesse mai potuto sperimentare, ed in fondo anche Jongin. Quest’ultimo si era sempre ritrovato nei giri sbagliati, con quel genere di amici che ‘ti portano sulla cattiva strada’. Non era mai davvero arrivato al punto di mettersi nei guai, aveva iniziato il suo periodo da trainee troppo presto per farlo, ma non era stato comunque troppo presto per permettersi di assistere o, un paio di volte, partecipare a qualche casuale atto di vandalismo notturno o di bullismo nei cortili della scuola. Mai niente di serio, ma ancora a ventidue anni compiuti si sentiva in colpa per quegli anni trascorsi a fingersi una persona che non era, ad uscire con amici che non sopportava e a trascorrere serate chiacchierando sempre degli stessi due argomenti da ‘veri uomini virili’: ragazze e sport. Continuava a pentirsene perché in fondo non aveva mai smesso, aveva semplicemente preso a farsi chiamare Kai in quei momenti di debolezza. Cambiare faccia era sempre stato più facile, se la sua coscienza decideva di incolparlo per il suo comportamento ignobile poteva semplicemente scaricare il fardello sul suo aitante alter ego ricco e famoso. In quel frangente invece, con Kyungsoo accanto che se la cavava anche molto meglio di lui a pilotare il vecchio Mario, si sentiva leggero, come se il terrore e l’orrore che provava nei confronti di Kai fosse scomparsi e lui potesse finalmente essere davvero se stesso con qualcuno. Finì per appoggiarsi con il capo ad una delle spalle di Kyungsoo e lo sentì sussultare leggermente per poi mugugnare qualcosa a proposito di un salto mancato, a cui rispose con un pigro e semi-ironico: “Capita anche ai migliori…”
Il ballerino, comunque, non avrebbe mai pensato che Kyungsoo si appassionasse così tanto al videogame e non immaginava che, siccome l’unico gioco elettronico che avesse mai provato era quello ormai denominato ‘del serpente’, potesse essere da subito tanto portato. Ancora una volta si chiese chi fosse davvero Kyungsoo, non il semplice vagabondo di cui conosceva a malapena il nome, ma un ragazzo appena più grande di lui a cui la vita non aveva riservato altro che brutte sorprese. Davvero Kyungsoo aveva dei talenti, dei pregi nascosti di cui nemmeno lui era forse a conoscenza. Nell’esatto momento in cui Jongin si promise di aiutare Kyungsoo a trovare se stesso si sentì legato a lui come a nessun altro. Non lo volle nemmeno interrompere quando, distrutto anche il dispotico sovrano del secondo castello e terminato il Mondo 2 volle iniziare anche il terzo, e dopo il terzo il quarto e così via, senza stancarsi. Nessuno dei due si rendeva più conto del tempo che scivolava via inesorabile fin quando il cellulare di Jongin, ancora mollemente appoggiato su una delle spalle dell’altro con il capo, squillò per un messaggio che l’idol puntualmente ignorò con un placido e sonnolento: “Mia madre… Dopo le rispondo…”
Era quasi l’una di notte, ma non trovò necessario specificarlo a Kyungsoo, che nel frattempo aveva varcato la soglia dell’ultimo grande livello, l’ottavo mondo, l’inospitale dimora del perfido Bowser. Jongin era bloccato da anni sul primo step di quel capitolo della storia e solo il giorno prima aveva scoperto da Joonmyeon che in verità la cassetta era malfunzionante, probabilmente a causa di tutte le maledizioni che le aveva inviato negli ultimi mesi. Non accennò nulla al maggiore nemmeno di questo particolare. Voleva vedere se, non sapendo dell’intoppo, l’altro ce l’avrebbe fatta oppure no, come in quella celebre citazione sull’uomo che non sa che fare una determinata cosa è impossibile secondo tutti gli altri e allora finisce per farla davvero. Lo osservava con fiato sospeso ed i nervi tesi, i pugni chiusi su se stessi per il freddo ed una strana agitazione che aveva iniziato lentamente a fargli vibrare le ossa.
Nel mentre Kyungsoo si disperava perché nemmeno lui, ormai autoproclamatosi campione indiscusso a vita di Super Mario Bros, riusciva a sorpassare il lago di lava che lo divideva dalla vittoria. Sembrava un normalissimo lago, aveva scavalcato muretti, pendii, abissi, piante carnivore sputafuoco (dopo aver visto la prima aveva chiesto a Jongin di comprargliene un paio da tenere come animaletti da compagnia) e tartarughe antropomorfe, non era possibile che Mario improvvisamente decidesse di mancare il salto e lo abbandonasse così. Ritentò almeno tre volte e, solo all’inizio della quarta Jongin si decise ad ammettere con un sorriso che gli parve parecchio dispiaciuto: “È un bug. Sono anni che provo a saltare oltre quella piscina di lava.”
Il minore scrollò le spalle ed aggiunse qualche secondo dopo: “Pensavo che forse tu ce l’avresti fatta a salvare Peach… In fondo è una principessa, scommetto che gradirebbe molto di più essere salvata da un cavaliere forte come te che da un misero scudiero come me.”
Kyungsoo aggrottò le sopracciglia e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Mise la partita in pausa e ripiegò il display superiore su quello inferiore, per poi riporre la console nella custodia. Ne approfittò anche per stiracchiarsi un po’ ed alzarsi in piedi per sgranchirsi silenziosamente le gambe. Non commentò la frase del minore, ma non poté non esserne leggermente turbato. Se Jongin lo considerava forte e, invece, pensava a se stesso come ad un semplice scudiero significava che ciò che di più gli invidiava era davvero il suo vigore. Come avrebbe potuto confessargli, in modo altrettanto delicato, che lui invece ammirava la sua sensibilità?
Kyungsoo tornò a sedersi accanto al minore e, in modo quasi timido, ammise: “Speravo davvero di arrivarci alla fine del gioco”
“Beh, l’ho sperato anche io, molto più di quanto lo sperassi tutte le volte che ci giocavo da solo…” dichiarò Jongin, per poi proseguire “Chissà perché quando vuoi qualcosa a tutti i costi ci sono decine e decine di ostacoli che te lo impediscono.”
“Ordunque è finalmente giunto l’attesissimo momento quotidiano di riflessione collettiva?” ironizzò Kyungsoo, per poi scuotere il capo e rivolgere al minore un’alzata di spalle “Non è che gli ostacoli non ci siano quando devi fare una cosa a cui non tieni particolarmente, semplicemente ci passi su con più calma e li affronti meglio perché non hai smania di finire.”
L’idol sembrò ponderare a lungo le sue parole, fissando con espressione indecisa e mezzo contratta il muro spoglio di fronte a sé. Annuì per dargli ragione, ma appena Kyungsoo iniziò a cantare vittoria nella sua testa per essere finalmente riuscito a zittirlo durante uno dei suoi vaneggiamenti etico-filosofici Jongin ricominciò a farsi avanti imperterrito, scrutando sempre il muro di fronte a sé come se dovesse leggervi la risposta sotto l’intonaco mangiucchiato dagli anni: “Se riesci a fare qualcosa nonostante un grosso impedimento poi diventa una conquista, no? Io potrei dire di aver conquistato la mano della principessa Peach battendo un gigantesco bug di gioco se sapessi come aggirarlo.”
Restò in silenzio per qualche momento, ripetendosi in testa come un mantra quelle ultime parole appena pronunciate con tono tanto titubante: “Se solo sapessi come aggirarlo… Se solo sapessi come aggirarlo…
Kyungsoo poté giurare di vedere due piccole lampadine accendersi negli occhi del più piccolo, il quale riprese a confabulare con voce meno dubbiosa ed esitante: “Ogni tanto penso che avere la risposta pronta a tutti i miei problemi, o anche la soluzione a tutti i casini che combino, sarebbe davvero più facile. Ogni tanto mi immagino scienziato pazzo e mi chiedo perché mai nella mia vita non abbia mai avuto voglia di costruire una macchina del tempo per rimediare ai pasticci in cui finisco sempre.”
Prima di proseguire il ballerino si concesse una piccola risata e mimò con le mani le lancette di un orologio immaginario che giravano al contrario: “Però non sarebbe come accontentarmi di una vita a metà? Avere quello che mi serve sempre a portata di mano equivarrebbe a non poter essere più orgoglioso di nulla, sarebbe come se Bowser rapisse Peach e Mario riuscisse a riaverla indietro chiedendoglielo con gentilezza e, magari, offrendogli the e biscottini in fragili tazzine di ceramica.”
Kyungsoo inclinò il capo di lato e borbottò un poco convinto: “Dov’è che vuoi arrivare?”
“Voglio dire,” incalzò allora Jongin “sarebbe noiosa una vita passata a conoscere già dove si deve arrivare, con quali persone avere a che fare o con che tipo di gente uscire, quale stile fa per te, quale cibo è meglio mangiare, quale bevanda è più consona bere, quale vestito indossare per piacere agli altri…”
Jongin si voltò vero Kyungsoo ed iniziò ad osservare seriamente per una volta il suo aspetto fisico tanto trasandato. Era magro, era ovvio che mangiasse male, a differenza sua che poteva vantare una corporatura invidiabile, tonica e flessuosa tipicamente da ballerino di successo, ed una dieta, sebbene scarsa, comunque abbastanza varia. I vestiti gli stavano doppi, il cappotto smesso quasi triplo, e lo fecero vergognare di non averlo mai davvero aiutato in quel senso. L’idol collezionava abiti, scarpe e accessori griffati, un po’ per piacere personale e un po’ perché le varie case di moda in genere gli spedivano campioni gratuiti di nuovi capi per ricevere in cambio un po’ di sana pubblicità. Il cantante si morse un labbro ed abbassò lentamente lo sguardo, e Kyungsoo dovette comprendere per quale ragione l’altro si fosse improvvisamente intristito.
“Jongin, io sono contento che tu mi abbia trattato come un amico fin da subito invece che come un barbone.”
Jongin raccolse le ginocchia al petto e si mise a fissarlo con sguardo traballante.
“Non c’era il caso che tu mi facessi tutto questo discorso, l’ho capito da un pezzo che tutto… tutto questo…” il senzatetto si guardò un po’ intorno, ma era ovvio che alludesse a loro due “… è merito tuo. Con me non ti sei fermato alle apparenze, nonostante all’inizio sia stato scortese con te. A differenza tua non volevo capire che sotto questa tua pellaccia da finto abbronzato poteva esserci una persona che avrebbe finito per piacermi.”
Jongin lo scrutava interrogativo, bramando con gli occhi un certo implicito segnale. Avrebbe dovuto avvicinarsi a lui, prendergli una mano tentando di scaldarla e scoprire così che le proprie erano ancora più fredde delle sue, avvolgerlo allora al caldo sotto il proprio cappotto ed accogliere il suo minuscolo corpicino contro il proprio petto, invece mormorò tremolando, con il fiato sospeso ed il cuore in gola: “La tua quarta regola…--”
“-- era una stupidaggine, Jongin,” lo rimbeccò Kyungsoo, trattenendo il respiro quando notò il minore fremere dopo che aveva pronunciato il suo nome “ieri mi hai fatto ricordare che ho delle passioni e, anche se non so come farò, proverò a seguirle, anche a costo di capire che in verità odio quello che faccio come è successo a te.”
Il maggiore spalancò i maestosi occhi da gufo sull’idol: “Ho trascorso tutti questi anni immobile, seduto davanti all’ostacolo più grande del mondo, perché pensavo che passare il mio tempo a studiare una buona traiettoria per aggirarlo velocemente sarebbe stato più utile che imparare fin da subito ad arrampicarmi su di esso.”
A Kyungsoo scappò un breve, malinconico, sorriso di autocommiserazione. Jongin si chiese se mai il maggiore si fosse fatto vedere tanto fragile, poi stampò nella memoria il ricordo di quel sorriso e, a sua volta, arricciò un angolo delle labbra: “Voglio essere forte come te.”
Rimasero in silenzio a lungo, uno vicino all’altro, allungando semplicemente le loro mani in modo da farle incontrare quasi casualmente per intrecciare i loro indici. Sembravano aver esaurito l’argomento, quando uno dei due si fece avanti e sussurrò con il cuore in gola ed un nodo al petto: “Forse così possiamo uscirne. Insieme intendo.”
“Vuoi essere il mio ostacolo o la mia conquista?” propose l’altro allora.
La risposta, occhi negli occhi, sfolgorante verità nella pura sincerità, non si fece attendere.
“Entrambi.”

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** FOURTH - venerdì (parte 3) ***


FOURTH - venerdì
parte 3

“Sei proprio un persona romantica, eh Jongin?”
Jongin, recuperato il suo spirito entusiasta (o, almeno, tutto ciò che ne rimaneva dopo essere stato pestato a sangue da ‘Amica Febbre’), aveva giustamente dedotto che continuare la serata a tremare di freddo non era proprio il modo più adatto per festeggiare la loro reciproca investitura a ‘migliori amici’, quindi aveva proposto di finire in bellezza quella nottata al caldo, magari in una stanza accogliente di qualche motel a basso costo (si era dimenticato di ricaricare la carta prepagata) a guardare cartoni animati di dubbio gusto in televisione. Kyungsoo aveva accettato di buon grado, per poi ricredersi ed inorridire di fronte all’ambigua insegna in cui il minore, probabilmente troppo rimbambito a causa dell’influenza, voleva portarlo. Jongin si limitò a scrollare le spalle innocentemente al sarcasmo dell’altro: “Era il motel più vicino, e poi solo perché sulla porta c’è scritto ‘love’ prima di ‘motel’ non significa che io e te dovremmo…”
Kyungsoo poté letteralmente percepire le guance del ballerino arrossarsi cercando di trovare una metafora adatta a riempire il vuoto che aveva lasciato dopo quel ‘dovremmo’, e gli toccò allora toglierlo lui d’impiccio, alzando gli occhi al cielo: “Forza, entra lì dentro, chiedi una camera e via. E comunque si dice ‘andare a letto insieme’ se cerchi un modo carino per affrontare l’argomento.”
Detto ciò il senzatetto si fece strada nella piccola hall del motel e, seguito da un imbarazzato Jongin, finì per chiedere lui una camera, lasciando all’altro solo l’arduo compito di sfilare la carta dal portafoglio e pagare. Prese la chiave e quasi corse fino alle scale per arrivare al terzo piano, scordandosi che Jongin aveva ancora la febbre e non riusciva a seguire il suo passo, obbligandolo a tornare indietro per aspettarlo. Da parte sua, l’idol ci stava davvero mettendo davvero molto impegno per assecondare l’impellente desiderio del maggiore di vedere la stanza in cui avrebbero alloggiato, immaginava che Kyungsoo non entrasse in una vera e propria camera da letto da troppi anni. Una volta giunti di fronte alla porta fece per domandare la chiave a Kyungsoo, ma l’altro stava già smanettando alla velocità della luce con la serratura e, dopo un paio di giri completi, si ritrovarono catapultati nella calorosa atmosfera della piccola camera. Jongin, abituato ad hotel di alta classe, lo trovò leggermente pacchiano nell’arredamento, eppure mostrò al maggiore il migliore de suoi sorrisi quando questi gli chiese, con le labbra a formare una piccola ‘O’ e gli occhi sgranati che scivolavano come biglie di un flipper da un mobile all’altro, se gli piacesse. Chiuse la porta a chiave dietro di sé e si sedette sul letto, preferendo osservare come Kyungsoo dava sfogo a tutta la sua curiosità, ficcanasando in ogni cassetto o antina che riuscisse ad aprire. In uno di questi trovò anche un vecchio pacchetto di caramelle aperto che, nonostante le proteste di Jongin, Kyungsoo decise comunque di prendere con sé.
Una volta terminata l’entusiastica ispezione, finita in bellezza con la commuovente visione del piccolo bagno annesso, Kyungsoo stabilì di voler fare una doccia. Il minore lo vide chiudersi in bagno alla velocità della luce e considerò l’idea di farne una anche lui dato che puzzava di brodo di pollo e farmacia. Si sdraiò sul letto ed accese la tv, saltando da un canale all’altro alla ricerca di qualcosa di interessante da lasciare in sottofondo mentre rispondeva, con un’ora di ritardo, al messaggio della madre, avvertendola che non sarebbe tornato a casa quella notte, e scorreva annoiato la home dei vari social ai quali era iscritto. Non passarono più di dieci minuti, però, prima che un urlo indemoniato lo facesse scuotere dal sonno che aveva iniziato a adagiarsi come fine sabbiolina sulle sue palpebre. Coloriti insulti continuavano a perforare la porta del bagno e si infrangevano, inquietantemente acuti, nelle stanche orecchie del povero idol che, con un certo reverenziale timore, si obbligò a scendere dal letto e a bussare con quanta più gentilezza possibile alla porta del piccolo stanzino in cui Kyungsoo si era chiuso: “Tutto… Tutto bene?”
In risposta ricevette solo un grugnito infastidito ed uno scatto repentino della serratura, accompagnato dalla strana visione di un inferocito Kyungsoo in accappatoio che, prima che potesse rendersene conto, finì per prenderlo malamente per il polso e trascinarlo in bagno con sé.
“Non riesco a regolare la temperatura!” intimò il maggiore con stizza, afferrando di scatto la doccetta da cui continuava ad uscire acqua bollente e rivolgendola verso il minore con un acuminato “Guarda!”, infradiciandolo da capo a piedi. Jongin si ritrovò con la metà superiore del corpo inzuppata di acqua rovente, i capelli ben acconciati nonostante l’influenza incollati malamente al suo viso, increspato a sua volta da un’espressione di infantile disappunto. Rimuginò dispiaciuto sul maglioncino firmato di lana certificata, per poi borbottare lottando contro il forte desiderio di mettere su un broncio di dimensioni cosmiche: “Non vedevi l’ora di farlo, vero?”
Kyungsoo scrollò le spalle: “Ti sembro così scemo da non sapere nemmeno come si regola la temperatura dell’acqua in una doccia?”
Detto ciò, tornò sfacciatamente a spruzzarlo con l’acqua della doccia: “Stavi diventando noioso dopo il tuo discorsone da filosofetto in erba, non è che ti si è alzata la febbre? Comunque c’è un altro accappatoio in quell’armadietto se vuoi”
“Anche se mi mettessi l’accappatoio non ci vorrebbe molto prima che ricominci a sparami acqua bollente addosso.”
“Beep, corretto” ammise Kyungsoo, provvedendo ad annaffiarlo ancora una volta “Avanti, Jongin, è la penultima sera insieme, forse l’ultima se la febbre riesce ad ucciderti prima, reagisci un po’.”
“Ah dopo il bacio di ieri ti sentivi trascurato, eh?”
Ecco, Jongin poteva già sentire in lontananza le campane del suo funerale rombare lugubri e cupe nel grigio cielo di Seoul e le spalle dolergli per quanto profonda si era scavato la fossa. Non l’avrebbe ucciso la febbre, Kyungsoo ci avrebbe pensato prima e in modo decisamente più doloroso. Vide il maggiore rimettere a posto la doccetta con una certa fretta, per poi mormorare di certo indispettito, lo sguardo basso e l’espressione furbesca contratta in una smorfia quasi vergognata: “Avresti anche potuto intavolare meglio in discorso.”
Jongin abbassò a sua volta lo sguardo quando notò il maggiore chiudere meglio il suo piccolo corpo nell’accappatoio, stringendo meglio il nodo alla vita: “Ti lascio fare la doccia in pace…”
Sgusciò via dal bagno velocemente, chiudendosi la porta alle spalle con una fretta che gli bruciava le ossa. Prese un respiro profondo, tentò di asciugarsi il viso con le lenzuola, e solo a quel punto si rese conto di non avergli nemmeno chiesto scusa per essere stato tanto indelicato. Massaggiò per un momento la fronte che aveva di nuovo iniziato a pulsargli, poi, con una lentezza che Kyungsoo gli avrebbe di certo rimproverato, tornò a bussare alla porta del bagno.
“Kyungsoo…?”
Si aspettava, in fondo, che l’altro non rispondesse, così, dopo qualche secondo di attesa, proseguì comunque: “Kyungsoo, io volevo solo scusarmi… Forse nemmeno avrei dovuto parlarne.”
Di nuovo, nessuna risposta. Jongin dubitò anche che, con lo scroscio della doccia aperta, Kyungsoo avesse davvero sentito le sue parole, finché non udì il nervoso ticchettio delle gocce d’acqua che si infrangevano sul piatto della doccia arrestarsi di colpo e la serratura scattare. Kyungsoo aprì la porta e, guardandolo con occhi di fuoco, prese il viso di Jongin tra le mani. Scattò in avanti, si sollevò sulle punte e, chiudendo gli occhi solo un attimo prima, baciò il minore quasi con rabbia.
“Per te è forse un problema che mi sentissi trascurato?”
Jongin non riuscì a non rivolgergli uno sguardo tra lo sconvolto e lo spaventato. Non si era nemmeno reso conto di che cosa fosse seriamente successo appena un attimo prima che Kyungsoo era di nuovo sulle sue labbra. Si lasciò trasportare dal bacio feroce dell’altro, seguendolo con la testa completamente in tilt, come un bambino che segue la madre che lo tiene stretto per mano. Era come se ci fosse qualcosa di non risolto ancora tra di loro, quel rancore che Kyungsoo stava sfogando su di lui non gli piaceva e, una volta recuperato il controllo del proprio corpo, appoggiò le proprie mani sulle spalle del maggiore e troncò il loro contatto. Si prese un solo secondo per recuperare fiato, poi, scuotendo il capo, esordì: “Kyungsoo…--”
Non ci mise molto il senzatetto a rimbeccarlo, cercando di riprendere il bacio: “Piantala di parlare, non ho bisogno di ascoltare un altro dei tuoi ragionamenti contorti per baciarti.”
Jongin deglutì a secco, ma non si fece intimorire quella volta. Gonfiò il petto e rizzò fiero le spalle, guardandolo con sereno orgoglio. Scosse il capo e sorrise piano, in maniera leggermente storta, facendo poi scivolare le mani dalle spalle del più basso fino ai suoi fianchi. Si perse a fissare i suoi capelli scarmigliati, sporchi, che gli ricadevano indemoniati sul viso pallido, stanco, eppure carico di vanto e dignità che non mancava mai di ostentare. C’era della bellezza in tutto quel disordine, e ciò che più lo stupiva era il fatto che fosse merito suo. Tutti i ricordi che aveva del senzatetto fin dai tempi delle medie raffiguravano Kyungsoo come una meraviglia statuaria, affascinante nella sua rigida e solida immobilità, ora invece davanti a sé poteva ammirare un informe vortice di emozioni. Aveva liberato il caos dentro di lui e non se ne pentiva perché, finalmente, Kyungsoo era vivo. Non glielo disse, non sapeva quanto l’altro in verità ne sarebbe stato felice, semplicemente si chinò su di lui e fece sfregare le punte dei loro nasi.
“Volevo solo dire che abbiamo tutta la notte… Possiamo fare con calma…”
Fu lui a sporgersi verso il maggiore per baciarlo questa volta, prima con una certa delicatezza per saggiare le labbra di quest’ultimo, poi con enfasi sempre crescente. Si sentì completo quando percepì Kyungsoo lasciarsi andare e rilassare tutti i muscoli, poté stringerlo di più a sé e l’altro, a sua volta, avvolse il suo collo con le proprie braccia allacciandole dietro la sua nuca.
Stettero poi abbracciati l’uno all’altro, il capo del vagabondo infilato nell’incavo del collo dell’idol e le braccia di questi a cullarlo con una dolcezza di cui nemmeno sapeva di essere capace, fino a quando Kyungsoo non propose a mezza voce, con tono diretto benché vagamente, teneramente, imbarazzato: “Fai il bagno con me, sai di ospedale”. Jongin rise a bassa voce, come se non volesse spezzare una certa atmosfera che si era creata tra di loro, e Kyungsoo, inaspettatamente, rise con lui per la prima volta. Il minore attese paziente che la sua risata scemasse, riempiendosene l’anima, mentre si spogliava degli abiti fradici. Entrò infine nella doccia subito dopo Kyungsoo e lavò via la sporcizia che incrostava lo spirito di entrambi.
 
-
 
Poco più di un’ora dopo, Kyungsoo era accoccolato al petto di Jongin, sdraiati comodi ancora nudi tra le coperte del matrimoniale che campeggiava al centro della camera che avevano affittato per la notte.
“Avevi detto che non volevi portarmi qui per venire a letto con me comunque.”
“Non mi pare che tu non fossi d’accordo quando mi sono smentito, comunque” Jongin modulò la voce e pronunciò quell’ultimo ‘comunque’ con la stessa intonazione di Kyungsoo per prenderlo in giro, poi allungò una mano per fargli il solletico sotto il collo, guadagnandosi un lieve soffio falsamente infastidito in risposta.
“Senti, posso giocare ancora un po’ a Mario?” domandò allora Kyungsoo mentre allungava già una mano verso il comodino per agguantare la console. Jongin alzò le spalle, come a dire che tanto sapeva che non avrebbe accettato un no in risposta.
“Voglio provare a vedere se trovo il modo di aggirare il bug” aggiunse il più grande mentre faceva caricare il livello incriminato.
Jongin, provato e parecchio assonnato, strinse meglio a sé il maggiore e mugugnò con voce impastata: “Ti dispiace se dormo un pochino nel mentre?”
Kyungsoo sorrise piano, ammettendo di sentirsi vagamente toccato nel vederlo così. Voltò il capo verso di lui e, lasciando per un momento correre Mario verso la sua terribile sorte, si sporse a baciarlo prima sulle labbra e poi sulla fronte: “Sognami.”
“Nah, saresti inquietante.”
Kyungsoo gli tirò una cuscinata in faccia, per poi aprirsi in una piccola risata e riprendere in mano la console abbandonata accanto a lui, ma non ci volle molto prima che Jongin rispondesse alla sua provocazione e gli tirasse in testa il proprio cuscino, dando così il via ad una disperata guerra che li avrebbe condotti a dover ripagare entrambi i guanciali al motel se fossero andati avanti ancora per molto. Jongin, che nonostante l’influenza stava avendo la meglio, si fermò solamente quando Kyungsoo, bloccato contro la testiera del letto, di colpo si mise ad urlare: “Aspetta! Jongin, aspetta, mi sono seduto sul Nintendo!”
Appena il minore gli lasciò lo spazio per spostarsi, Kyungsoo prese in mano il DS e controllò di non averlo rotto, ma quando vide ciò che c’era sullo schermo non poté fare a meno di spalancare gli occhi e tornare a gridare con voce che al più piccolo pareva ancora più allarmata: “Guarda, Mario ha superato il lago che non si riusciva a scavalcare!”
Jongin spalancò la bocca e gli prese di mano il videogame, continuando nel mentre a far miracolosamente proseguire Mario nella sua trionfale conquista dell’ottavo Mondo: “Come hai fatto ad superare il bug, Kyungsoo?!”
Kyungsoo lo guardò altrettanto eccitato e, soprattutto, stranito: “Che ne so, mi ci sono seduto sopra!”
Jongin scosse il capo e fece un rapido vago gesto con una mano, come a liquidarlo con un “Dopo ci riproviamo”. Kyungsoo annuì comprensivo e, abbracciandolo da dietro, fece adagiare il proprio mento su una delle spalle di Jongin per osservarlo giocare. Fissava con ansia la spia rossa che indicava la fine della batteria, ma non se ne preoccupò finché, appena prima che Jongin riuscisse a far raggiungere al piccolo idraulico la bandiera che segnava la fine del livello, la console non si spense di colpo. Restarono zitti per un momento, Kyungsoo inclinò il capo di lato e si fece avanti per primo, sapendo che in fondo Jongin non avrebbe mai davvero accettato la realtà dei fatti se non gliel’avesse spiegata con calma il prima possibile.
“Jongin? Mi sa che abbiamo perso il salvataggio.”

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** FIFTH – sabato ***


FIFTH - sabato
 
Nonostante le rosee aspettative di Kyungsoo, il risveglio quella mattina non fu dei migliori. Quella notte si erano addormentati verso le quattro, preoccupandosi di settare la sveglia per le dieci, l’ora del check out, ma appena dopo le sette Jongin si era precipitato in bagno di corsa, ridestandolo all’improvviso, per vomitare. Kyungsoo, ancora parecchio stordito a causa delle poche ore di sonno, non aveva realizzato subito che l’altro stesse male. Era sceso con calma dal letto e, stropicciandosi un occhio con il dorso di una mano, lo aveva seguito in bagno a brevi, incerti passi, per poi chinarsi subito accanto a lui quando lo aveva visto, madido di sudore, piegato sulla tazza del water a rimettere acido e bile. Attese che avesse finito, sollevò i capelli sconquassati dalla fatica e li pettinò indietro con le dita per non farglieli cadere negli occhi mentre lo metteva seduto per un momento sul pavimento. Gli porse da bere qualche centimetro d’acqua in un bicchiere di plastica in modo da permettergli di risciacquarsi la bocca e Jongin sembrò riprendersi almeno un po’. Il maggiore lo guardò sollevato e, pensando che potesse prendere freddo, gli fece indossare di nuovo i vestiti che la sera prima aveva messo ad asciugare sopra i termosifoni.
“Va un po’ meglio?”
Jongin scosse il capo con movimenti lenti e cadenzati, come se anche muovere semplicemente il capo a destra e a sinistra gli costasse un abnorme dispendio di energie. Deglutì a vuoto l’arido della sua lingua che ancora sapeva di aspro e biascicò: “Ti ho passato la febbre…”
“Non mi ammalo per così poco, sarei già morto a quest’ora con tutte le infezioni che si possono recuperare in strada.”
Kyungsoo posò una mano sul suo capo ed imprecò per quanto scottasse, affermando con tono autoritario: “Usciamo di qui e ti porto dritto a casa.”
Jongin ci arrivò solo la sera del giorno seguente a casa. Non appena Kyungsoo provò a farlo mettere in piedi, l’altro, incapace di tenersi in piedi e con la testa in partenza per una vacanza ai tropici, ruzzolò giù svenuto.
Assicurandosi per prima cosa che non fosse morto, tutto ciò a cui il senzatetto, occhi spalancati, fuori di sé mentre stava per avere un attacco di panico, fu: “Meno male che l’ho fatto vestire prima.”
 
-
 
Mezz’ora dopo Kyungsoo tremava terrorizzato nell’anonima saletta del pronto soccorso di uno degli ospedali di Seoul con una cioccolata calda in una mano, gentilmente offerta dall’infermiera che lo aveva accolto, ed il cellulare di Jongin nell’altra mentre cercava nella rubrica il numero di un amico o di un parente da avvertire delle condizioni dell’idol. Se l’istinto l’aveva portato a cercare il recapito dei genitori inizialmente, la ragione gli suggeriva invece di contattare prima qualcun altro. Jongin non amava parlargli dei suoi genitori, da quello che aveva potuto capire erano persone iperprotettive che si preoccupavano anche per futili inezie. Se avesse, per esempio, chiamato la madre, come avrebbe potuto presentarsi? Un ‘Salve signora, sono il ragazzo che ieri notte è andato a letto con quel figo di suo figlio’ si sarebbe sposato con un conseguente ‘In questo momento Jongin è ricoverato al pronto soccorso’? Finì velocemente la cioccolata calda e buttò il bicchiere di carta nel cestino dei rifiuti, poi tornò a scorrere la rubrica e la cronologia dei messaggi finché non decise di telefonare al contatto salvato come ‘Joonmyeon Hyung’, l’unico con cui Jongin parlasse quasi quotidianamente e che, soprattutto, controllando la foto del suo profilo, sembrasse avere circa la loro età. Rimuginò a lungo sulla schermata, poi, prendendo un respiro profondo, sperando di non dover subire un vero e proprio terzo grado telefonico da parte di un qualche tipo di mezza celebrità isterica, fece partire la telefonata. Appena Joonmyeon rispose, invece, Kyungsoo si sentì immediatamente sollevato nel sentirgli commentare un veloce e comprensivo ‘Arriviamo’. Non aveva accennato a chi avrebbe portato con sé, forse i genitori, forse un altro amico stretto, non gli importava, voleva solo che arrivasse il prima possibile, lo aiutasse a calmarsi e, possibilmente, gli comprasse un altro paio di cioccolate.
Un quarto d’ora dopo Joonmyeon e Yixing si presentarono all’entrata del pronto soccorso, il primo con un’evidente ansia addosso, il secondo con le spalle incurvate per la preoccupazione ed un’espressione dolce in viso mentre cercava di rassicurare il fidanzato. Né uno né l’altro erano a conoscenza di chi fosse Kyungsoo (si era presentato semplicemente come ‘Kyungsoo’ al telefono), benché Joonmyeon ne avesse il largo sospetto ed avesse provveduto a spiegare i suoi dubbi all’altro ragazzo mentre erano in macchina. Come aveva immaginato, una volta giunti all’ospedale non ci volle molto al primo per individuare il senzatetto, complici anche i vestiti sgualciti e maleodoranti che portava addosso. Senza esitare gli si avvicinò trascinandosi dietro Yixing e fece un breve inchino di fronte a lui: “Sono Joonmyeon, lui è Yixing, il mio fidanzato. Tu sei Kyungsoo?”
Kyungsoo si domandò come mai l’altro paresse essere tanto sicuro averlo trovato e si chiese se Jongin gli avesse mai parlato di lui, ma non aveva la forza di fare il pignolo quella mattina, quindi si limitò ad inchinarsi a sua volta e ad annuire in risposta, cominciando poi a recitare il poemetto che aveva scritto e studiato in quel quarto d’ora per evitare di farli preoccupare: “Jongin è svenuto mentre era con me, ma è solo a causa della febbre alta. Adesso gli stanno facendo dei controlli per sicurezza, ma in ambulanza escludevano che fosse qualche tipo di malattia strana o infezione. Si è semplicemente stancato troppo.”
Detto ciò, prese finalmente fiato e, senza troppi complimenti, si sedette di nuovo su una delle seggiole di plastica usurata della sala d’aspetto.
Joonmyeon e Yixing si scambiarono uno sguardo incerto, poi il primo, stampandosi un lieve sorriso in faccia, si sedette accanto a lui e propose ciò che Kyungsoo in quel momento sperava di più al mondo: “Ti va se andiamo a fare colazione insieme? Offro io. Yixing può rimanere qui. Nel caso i medici dicessero qualcosa mi avvertirà per telefono.”
Kyungsoo odiava i sorrisi di circostanza, ed in particolar modo li odiava quando ad indossarli erano quelli che volevano fargli la carità, ma quella volta, al contrario, si sentì quasi rassicurato dal dolce incurvarsi delle labbra di Joonmyeon, probabilmente perché sapeva di potersi fidare di lui in quanto amici di Jongin. Lo seguì fino all’angolo in cui avevano sistemato un paio di macchinette, una per le bevande calde ed un’altra per le bottigliette d’acqua e gli snack da mangiare. Prima che Joonmyeon gli proponesse di comprargli un amaro ed inutile caffè si fece avanti senza vergogna: “Potrei prendere una cioccolata calda?”
Fece una scommessa con se stesso e si propose di scroccare una cioccolata anche a Yixing più tardi. Joonmyeon non fece domande e, dopo aver comprato la cioccolata per il senzatetto, ne prese una anche per sé: “Ti vanno anche dei cracker?”
La domanda colse Kyungsoo alla sprovvista. Non aveva soldi con sé e la fame lo tormentava nonostante la preoccupazione per il ballerino gli attorcigliasse lo stomaco, ma non voleva approfittare della gentilezza di Joonmyeon. Prima che potesse dirgli di no, l’altro aveva però già fatto scorta non solo di cracker, ma anche di merendine dolci e barrette di cioccolato.
“Forse resteremo qui per un po’, dobbiamo tenerci tutti in forze! E ovviamente alcune di queste sono anche per Yixing.” ridacchiò Joonmyeon bevendo un sorso di cioccolata.
Kyungsoo soffiò sulla superficie della propria e si scaldò le mani con essa, per poi buttarne giù circa metà. Si lasciò ristorare dal gusto squisito del cioccolato, poi, riuscendo a sciogliersi leggermente, mormorò un tiepido “Grazie” accompagnato uno sguardo stralunato che denunciava il pesante effetto della notte insonne su di lui. Joonmyeon non ci mise molto ad intuire quanto dovesse essere stanco e si aprì in un sorriso che l’altro non riuscì a fare a meno di definire ‘complice’.
“Sei davvero solo un sacco preoccupato per quel cretino di Jongin o avete fatto notte in bianco?”
Kyungsoo si chiese quanto effettivamente potesse raccontare a Joonmyeon di ciò che avevano finito per fare. In fondo Jongin era un personaggio pubblico, spifferare tutto a persone di cui non conosceva di per certo il legame che possedevano con l’idol, oltre che essere un qualcosa di moralmente sbagliato nei confronti di quest’ultimo, avrebbe potuto ritorcersi anche contro di lui. Se tendeva l’orecchio poteva già sentire il clamore dell’insopportabile eco delle testate dei giornaletti scandalistici che lo chiamavano irragionevolmente ‘puttana’. Istintivamente scosse le spalle e si chiese se Joonmyeon avesse compreso anche in quel momento ciò che gli passava per la testa, sgranando gli occhi quando l’altro effettivamente gli diede prova di averlo fatto.
“Ya, non ti devi preoccupare!” asserì con tono garbato l’altro “Sono il suo autista ed il suo mezzo migliore amico, a meno che in questa settimana tu non sia riuscito a soffiarmi il posto. Jongin mi aveva accennato qualcosa sul tuo conto domenica scorsa, sai? L’ho scaricato io con la macchina davanti a te; trovata assolutamente, magistralmente geniale, parlando con tutta modestia!”
Kyungsoo rimase del tutto allibito dall’allegra confessione di Joonmyeon ed inconsciamente spalancò ancora di più i giganteschi occhi da gufo: “Ah, quindi sei tu che gli hai fatto prendere la febbre.”
“Piccolo prezzo da pagare per farvi incontrare” replicò Joonmyeon schioccando le dita.
Kyungsoo rimase in silenziò per qualche secondo a fissare l’altro, poi si sentì in dovere di puntualizzare: “È finito in ospedale.”
“Beh, tu hai detto che sta bene tanto, no?” Joonmyeon liquidò il discorso con una scrollata di spalle “Svenuto per la stanchezza, controlli di routine eccetera. A proposito, dobbiamo avvisare i suoi.”
Kyungsoo lo vide alzare gli occhi al cielo con un certo piglio sarcastico che non poté fare a meno di apprezzare: “Sono tanto male?”
“Quando la smettono di pensare che tu ed il tuo fidanzato” e qui Joonmyeon appose una certa enfasi sull’ultimo termine “siate affetti da una malattia contagiosa restano solo dei simpatici sociopatici. Reggerai meravigliosamente il confronto, non preoccuparti.”
Il senzatetto sollevò un sopracciglio, ma si preoccupò di finire la propria cioccolata calda prima di borbottare: “Credi di conoscermi davvero così bene?”
“Sai cosa?” Joonmyeon gli sorrise ancora e lo guardò direttamente negli occhi, duro e fiero, ma delicato e comprensivo allo stesso tempo, lo sguardo, forse, di un padre “Ho imparato velocemente a leggere le persone, non mi serve conoscerti per capire che sei molto più preoccupato per Jongin di quello che vorresti mostrarmi.”
Prima di proseguire, l’autista allungò un pacchetto di cracker all’altro: “Mio padre fa il tassista. Ho iniziato a lavorare nella sua stessa compagnia, adesso guido limousine e macchine sportive per le celebrità di Seoul. Non vedevo l’ora di staccarmi dai taxi, una volta un tipo ha sparato a mio padre ad una spalla per non pagarlo.”
Joonmyeon scosse il capo, facendo una piccola pausa: “Quello che voglio dire è che quando lavori in un ambiente del genere devi imparare a capire chi ti carichi in auto, sapere come parlargli e come comportarti, e devi farlo guardandoli dallo specchietto retrovisore mentre sei bloccato nel solito traffico della città e l’atmosfera si fa sempre più imbarazzante. Non sai quante cose le persone dicono di sé solo con un semplice gesto.”
Kyungsoo lo ascoltava con un certo interesse. Aveva un modo di parlare completamente diverso da quello di Jongin, se quest’ultimo finiva per trascendere nella sua stramba e curiosa mistica filosofia, Joonmyeon riusciva invece ad essere onesto, chiaro, puntuale, spaventosamente trasparente. Iniziò a pensare che quel ragazzo fosse decisamente simile a lui e si chiese se anche con lui l’idol tirasse fuori la sua oscura essenza di poeta-filosofo maledetto.
“Però… effettivamente non è solo perché penso di aver sviluppato un certo intuito con le persone che credo di conoscerti, Kyungsoo”
Joonmyeon ridacchiò di nuovo, come riscuotendosi da una sorta di trance, e cambiò improvvisamente discorso: “Kyungsoo… Kyungsoo che cosa tra l’altro? Che cognome hai? E, più che altro, di che anno sei?”
Kyungsoo mordicchiò nervosamente il proprio labbro inferiore prima di rispondere. Aveva mantenuto il cognome della madre e pronunciarlo lo metteva sempre stranamente a disagio: “Do Kyungsoo. Sono del ’93.”
“Allora sono più grande,” gongolò Joonmyeon buttando giù il resto della propria cioccolata “io sono Kim Joonmyeon, il mio fidanzato invece Zhang Yixing. È cinese, ma abita in Corea da un sacco di anni!”
Il maggiore fece un vago gesto con una mano e tornò all’argomento precedente, rubando anche un cracker a Kyungsoo: “Dicevo comunque, Jongin quella sera che l’ho lasciato nel tuo vicolo mi aveva parlato di te. Mi aveva detto di ricordarsi di te e, beh, con la memoria da pesciolino rosso di Jongin sappi solo che non succede spesso. Credo lo interessassi, forse un po’, in qualche modo, gli piacevi anche.”
Joonmyeon era decisamente franco nel parlare, ma se il suo tono lo sorprendeva quella rivelazione lo scosse completamente. Non rispose a Joonmyeon, continuò a restarsene in silenzio a sgranocchiare cracker siccome aveva già intuito che il maggiore non aveva voluto pronunciare quelle ultime parole completamente a caso. Solo in seguito a qualche minuto occupato dal semplice crocchio della plastica del pacchetto dei cracker che si svuotava velocemente il minore allora si arrese e, sospirando, stingendosi a riccio su se stesso, ammise in un tiepido ed imbarazzato soffio: “Ci siamo visti tutti i giorni questa settimana. Mi ha trattato bene.”
Joonmyeon parve aprirsi in un sorriso gigantesco mentre i suoi occhi urlavano a gran voce ‘Io sapevo di saperlo e Jongin non voleva darmi ragione!’, ma subito dopo gli angoli delle sue labbra si arricciarono improvvisamente e, con un ghigno inquietantemente elegante, mormorò complice con un’amorevole ironia mozza fiato: “Oh, i suoi genitori ti ameranno così tanto…”
 
-
 
Il resto della mattinata Kyungsoo lo trascorse invece con Yixing in sala d’attesa mentre Joonmyeon sbrigava l’arduo compito di cercare di far calmare quei due grumi di ansia galoppante che erano i genitori di Jongin. Kyungsoo li odiò dall’istante in cui la colonia dolcemente scadente da borghesina snob della madre venne poco cortesemente a bussare alle sue narici. Inventò, sotto consiglio di Joonmyeon, di essere un vecchio amico dell’idol e di provenire da fuori città, spiegò con tono telegrafico (e lessico della giusta brutalità per essere apprezzato dal maggiore) che cosa fosse successo e poi andò a piantarsi accanto al giovane cinese a braccia incrociate, sgranocchiando tranquillamente alcune patatine mentre si godeva lo spettacolo delle due povere anime in pena che vagavano per la sala d’aspetto a chiedere del loro povero figlio moribondo (e puntualmente venivano ignorati dagli infermieri). A differenza del fidanzato, Yixing era di natura placida, contemplativa, spirituale, uno che preferiva ascoltare e comprendere piuttosto che intuire, precedere ed attaccare, ma non per questo Kyungsoo lo trovò meno interessante. Yixing era tutto quello che, nei suoi sogni più utopicamente fantasiosi, avrebbe voluto essere. Era uno che in fondo viveva la sua vita con leggerezza, senza alcun peso sul cuore a trascinarlo verso il baratro. Kyungsoo si meravigliò di come non si vergognasse affatto a ridere dei genitori di Jongin anche in loro presenza, forse, pensò, in verità dentro era ancora più amabilmente bastardo di Joonmyeon. Per Kyungsoo fu impossibile non andarci d’accordo dopo la prima ora e mezza dato che gli offrì volontariamente un’altra cioccolata calda.
 
-
 
Solo nel primo pomeriggio diedero loro notizie di Jongin. Come previsto dalle varie analisi non era risultato nulla se non affaticamento e leggera denutrizione (il magico brodino della madre di Jongin non piaceva a nessuno e l’idol ad un certo punto aveva preferito donarlo generosamente alle piante che alloggiavano sotto la finestra di camera sua piuttosto che tenerselo tutto per sé). I medici avevano comunque espresso la volontà di tenerlo un paio di giorni sotto osservazione, preoccupati dalle esagerazioni che i genitori del ragazzo continuavano a piazzare una dopo l’altra. A Kyungsoo venne il voltastomaco, probabilmente l’unica cosa che Jongin avrebbe voluto sarebbe stata tornare a casa, invece per colpa delle pressioni dei suoi lo avrebbero ricoverato.
I medici comunque permisero a tutti loro di vederlo, prima i genitori sotto camomilla, poi Joonmyeon e Yixing e infine Kyungsoo. I primi si presero diverso tempo per coccolare un Jongin ancora del tutto spaesato ed intorpidito. La febbre stava lentamente calando grazie ai farmaci iniettatigli dai vari infermieri, sebbene questi contribuissero anche a renderlo parecchio assonnato e confuso, e le preoccupazioni inutili dei genitori non aiutavano a farlo stare meglio. Quando Jongin, stanco di sentirli blaterare dell’ennesima idiozia, per quanto la gola secca e rovente gli permettesse, alzò la voce per domandare di Kyungsoo, i genitori si resero conto di non aver nemmeno fatto caso a chi fosse quel piccoletto vestito male che li aveva accolti insieme a Joonmyeon e Yixing. Quando uscirono Kyungsoo vibrava di rabbia, temeva che, a causa loro e della loro apprensione, gli avrebbero impedito di restare un po’ con Jongin. Permise comunque a Joonmyeon e a Yixing di entrare prima di lui, il primo aveva chiamato il manager dell’idol e, dopo avergli parlato con tono melenso delle sue condizioni di salute ed essersi beccato un’occhiataccia dal fidanzato, era riuscito a strappargli un paio di giorni di vacanza in più. Doveva riferire tutti cambi di programma a Jongin, e Yixing in più voleva salutarlo di persona dato che non si vedevano da diverso tempo. Il senzatetto apprezzò comunque il fatto che, nonostante lo stretto legame che entrambi condividevano con il minore, fecero abbastanza in fretta. Appena li vide uscire si catapultò all’interno della camera e trovò ad attenderlo un macilento Jongin che lo guardava sorridendo faticosamente.
“Ecco la visita di oggi che aspettavo di più…”
“Deficiente, non vedi Joonmyeon da una settimana quindi non penso proprio di essere stato io quello a mancarti di più.”
Kyungsoo si sedette su una sedia lì accanto al letto e mormorò ancora: “Come stai quindi?”
Jongin sbuffò e cercò, invano, di mostrarsi più in forma di quanto in realtà fosse: “Sto a meraviglia, dopo ieri notte potevi scommetterci.”
“Siamo già davvero al punto in cui tu trascorrerai il tuo tempo a deliziarmi con battutine di dubbio gusto sulla mia scarsa esperienza ed abilità sessuale?”
“Oh, davvero ci siamo?” esplose Jongin con una tale gioia che gli costò una generosa serie di colpi di tosse “Io nemmeno pensavo che già ci fossero dei punti tra di noi!”
Kyungsoo alzò gli occhi al cielo, ma si fece comunque sfuggire un mezzo sorriso che Jongin non mancò di registrare in memoria.
“Senti, Kyungsoo… Mi dispiace comunque per stamattina, ti avevo promesso un risveglio leggermente migliore.”
Il maggiore scosse la testa: “Joonmyeon ha detto che abbiamo ancora un paio di giorni, quel risveglio potrò riscattarlo comunque. E per lo spavento ti chiederò gli interessi.”
Il minore sembrò davvero su di giri all’idea, cosa che rincuorò Kyungsoo dato che aveva pronunciato quelle parole non senza una punta di adolescenziale imbarazzo.
“Comunque,” proseguì imperterrito il ballerino “sai cosa?”
“Cosa?” Kyungsoo aggrottò le sopracciglia
“Cosa cosa!” rise divertito Jongin, meritandosi un leggero spintone da parte dell’altro “Ya, quanto sei permaloso! Dicevo… sai che cosa si fa di solito quando passa lo spavento?”
Kyungsoo si permise di rivolgergli una delle sue famose occhiate inquisitrici: “Ti prego, non fare discorsi troppo lunghi, non mi va di vederti soffocare per la to--”
“Si ride” lo interruppe Jongin, tutto fiero dell’espressione che era andata dipingendosi sul volto del maggiore “Ridi, Kyungsoo… Puoi ridere adesso.”
Kyungsoo era come di sasso. Si aspettava che Jongin gli avrebbe impartito quell’ultima lezione di vita seguendo il modello delle volte precedenti, giochi assurdi, qualche lacrima al punto giusto, lunghe chiacchierate accompagnate da occhiate fin troppo eloquenti se ci ripensava con la consapevolezza di fin dove si erano spinti la notte precedente. Joonmyeon gli aveva detto che lui piaceva già a Jongin, che lo incuriosiva da molto più di quanto lui potesse ricordare. Dopo tutto quel tempo sapeva che Jongin poteva anche aspettarsi che lui comprendesse al volo ciò che intendeva. Lo spavento era passato, poteva ridere, il terrore che aveva tenuto in ostaggio il suo cuore tanto a lungo era svanito ed era grazie a lui, allora lo ascoltò e rise di gusto, in modo vero, consapevole, innocente.
Solo più tardi, quella sera, Kyungsoo scoprì che Jongin aveva chiesto a Joonmyeon e Yixing di ospitarlo per un po’ a casa loro. Quando Joonmyeon glielo comunicò gli spiegò anche che, lavorando come autista dell’idol, era spesso per lunghi periodi fuori casa per lavoro, e a Yixing non piaceva l’idea di restare solo troppo a lungo, quindi gli sarebbe piaciuto averlo come coinquilino. Il maggiore aggiunse che il fidanzato lo avrebbe aiutato volentieri a cercarsi un lavoro e, volendo, anche a ricominciare gli studi per prendere il diploma. Usò un tono talmente entusiasta da fare sì che il vagabondo non potesse più replicare. A Kyungsoo parve di approfittarsene, ma non ci mise molto a farsi convincere dal maggiore, a sentirlo parlare sembrava davvero che sarebbe andato tutto bene.
Trascorsero diversi minuti prima che Kyungsoo decidesse di uscire e di lasciar riposare Jongin in pace, nonostante le proteste del secondo e, soprattutto, i suoi falsi “Ma guarda che i miei non mi hanno stressato poi così tanto, puoi rimanere ancora un po’!”. Aveva provato a convincerlo a restare in diversi modi, gli aveva anche proposto di raccontargli qualcosa del suo passato. Aveva fermamente esposto la volontà di conoscerlo per bene quella volta, quindi, dopo alcune domande di rito come il suo colore ed il suo ipotetico gusto di gelato preferito, gli aveva domandato con sicurezza che cosa fosse successo per farlo finire in strada. Kyungsoo aveva sorriso, ma poi aveva scosso la testa e, incrociando le braccia al petto, aveva replicato con la solita ironia: “Questa storia non è per i deboli di cuore, te la racconterò quando non ti vedrò steso su un letto di ospedale.”
Non c’era stato verso per Jongin di insistere, il vagabondo non aveva nemmeno spillato informazioni riguardo alla più banale, almeno per lui, delle domande: “Hai fratelli o sorelle?”
Alla fine Jongin si arrese e Kyungsoo pensò che fosse meglio andare. Si alzò in piedi e rivolse all’altro un breve cenno di saluto, ma appena prima che raggiungesse la porta il cantante si sporse leggermente verso di lui e, sottovoce, domandò: “Ci vedono?”
Kyungsoo tornò accanto a lui, chiedendosi che cosa ancora desiderasse: “No, c’è ancora la porta chiusa. Che c’è?”
Jongin sporse una mano verso di lui e raccolse il suo viso con una certa tenerezza che al maggiore non sfuggì, per poi stampare velocemente un leggero bacio sulle sue labbra: “È incredibile che non abbia fatto ammalare anche te.”
Kyungsoo sorrise piano sulle sue labbra: “Comunque sai di nuovo di ospedale.”

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** SIXTH – Domenica, Lunedì, un anno dopo (parte 1) ***


SIXTH – domenica, lunedì, un anno dopo

parte 1 

 
“Cretino!”
Kyungsoo riuscì ad insultare Jongin solo in quel modo, il giorno seguente, quando tornò a trovarlo e si sentì in obbligo di ringraziarlo per aver chiesto a Joonmyeon e Yixing di ospitarlo. Già la sera prima, quando il personale dell’ospedale aveva chiesto a tutti loro, compresi i genitori dell’idol, di lasciare la struttura, i due fidanzati avevano insistito per portarlo a casa loro ed offrirgli una cena degna di quel nome. Joonmyeon era letteralmente inorridito quando il vagabondo si era lasciato sfuggire che Jongin non lo aveva mai portato a mangiare fuori e Kyungsoo, improvvisamente sull’attenti per difendere il ballerino, aveva ammesso che avrebbe preferito sotterrarsi piuttosto che finire tutto tirato a lucido in uno dei costosi ristoranti che Jongin frequentava. Joonmyeon, che in genere non si aspettava di ricevere risposte a tono, aveva soffocato un piccolo broncio di disappunto sotto la grassa risata in cui Yixing era esploso: “Hai trovato qualcuno che ti tenga testa, eh Myeon?”
Quella domenica, comunque, Jongin era troppo di buon umore anche solo per fare finta di mettere su un broncio ben costruito, e di certo la mano di Kyungsoo che correva su e giù sui suoi capelli non contribuiva a farlo sentire autorizzato ad offendersi. I medici, dopo un solo giorno di riposo completo, erano riusciti a fargli velocemente calare la febbre. Non era ancora totalmente guarito, ci avrebbe impiegato ancora qualche giorno a farsi passare la tosse ed il raffreddore che gli aveva causato l’influenza, ma contavano di dimetterlo quel pomeriggio stesso, un paio di ore prima di cena, notizia alla quale Joonmyeon fu particolarmente contento dato che così avrebbe avuto una scusa per invitare di nuovo Kyungsoo a mangiare a casa sua, insieme, ovviamente, al ballerino ancora malaticcio al quale promise un delizioso (quanto triste) bollito di carne e verdure.
Kyungsoo aiutò Jongin a trascorrere le ultime noiose ore in ospedale. Avrebbe anche contribuito a rivestirlo dei suoi abiti civili, ma la madre ritenne che fosse sconveniente che lui vedesse suo figlio in mutande in quello stato. Gli venne da ridere pensando che solo la mattina precedente, in fondo, aveva assistito l’amico vomitare nudo nel bagno di una camera di un love motel.
La cena, comunque, andò parecchio bene. L’euforica presenza di Jongin riempiva la stanza e permise a Kyungsoo di rilassarsi, il quale si distese talmente grazie all’accogliete atmosfera creatasi nella cucina dei due fidanzati, che finì davvero per sentirsi almeno un po’ a casa. Benché in modo parecchio rigido e farraginoso, il vagabondo iniziò ad imitare la maniera in cui gli altri tre chiacchieravano tra di loro, inserendosi nelle conversazioni con un piccolo stentato sorriso mentre si stringeva nei vestiti che Joonmyeon gli aveva gentilmente prestato. Jongin rimase felicemente stupito nel vederlo tanto intraprendente, ma prima di tornarsene a casa, a fine serata, si preoccupò di prendere Kyungsoo da parte per domandargli scherzosamente, mentre cercava di solleticargli il ventre con la punta della dita, per chi fossero tutti quei sorrisini che aveva avuto l’ardore di sfoggiare a cena. Kyungsoo, da parte sua, alzò gli occhi al cielo, gli avvicinò – e qui Jongin aveva creduto che volesse sollevarsi sulle punte dei piedi per baciarlo – e gli mollò uno schiaffo in testa, per poi salutarlo con il più largo, ed inquietante, sorriso del suo repertorio.
 
-
 
Il giorno seguente Jongin uscì di nuovo di casa per aiutare il vagabondo nel suo breve trasloco. Meno di uno scatolone pieno a tre quarti, ecco tutto ciò che Kyungsoo possedeva; qualche vestito di ricambio, piccole scorte di cibo in scatola e acqua, una biro con la punta scheggiata, il suo coltellino svizzero, una fine coperta succube ormai da tempo dei danni dell’usura e, infine, una piccola tavoletta di legno vuota. Il ballerino ricordava di averla vista stretta al petto di Kyungsoo più volte, oppure esposta accanto a lui come uno di quei cartelli con cui i senzatetto chiedono l’elemosina, ma non comprendeva la scelta dell’amico nel tenerla immacolata, senza alcun segno o scritta che facesse leva sui sensi di colpa dei passanti che tutti i giorni incrociavano il suo sguardo.
“Hai scheggiato la penna cercando di scriverci sopra? È per questo che è ancora vuota?”
“No, la penna si è scheggiata perché mi è caduta di punta una volta. La tavoletta è vuota perché non avevo niente di importante da scriverci sopra. Se proprio avessi voluto avrei potuto intagliarci qualcosa con il coltellino, comunque.”
Jongin aggrottò le sopracciglia ed inclinò il capo lateralmente, evidentemente confuso: “Ma se una non funziona e l’altra non ti serve perché hai tenuto entrambe?”
Kyungsoo sembrò allora incupirsi leggermente, rivolgendogli uno sguardo leggermente più affilato del solito: “Vuoi privarmi anche di quelle poche cose che possiedo davvero?”
Jongin era immediatamente scattato sull’attenti ed aveva prontamente scosso il capo al tono insinuante di quella domanda, per poi raccogliere in fretta lo scatolone e procedere a passo di marcia verso l’auto di Joonmyeon, il quale li aspettava seduto comodamente sul sedile del guidatore, entusiasta di poter ufficialmente ospitare Kyungsoo a casa propria. Già le due sere precedenti aveva insistito affinché il vagabondo dormisse con loro, ma non aveva potuto offrirgli altro che il divano. Negli ultimi due giorni si era dato da fare per allestire la camera degli ospiti apposta per Kyungsoo e non vedeva l’ora di mostrargliela. Il vagabondo, molto più tardi, quella sera stessa, sdraiato in quello che poteva definire davvero, per la prima volta dopo quelli che gli parevano secoli, il suo letto insieme a Jongin (il ballerino aveva insistito parecchio affinché l’altro gli concedesse di dormire abbracciati) confidò a quest’ultimo che entrando in quella camera per la prima volta, appena qualche ora prima, gli era inspiegabilmente venuto l’istinto di scoppiare in lacrime. Jongin, come promesso, lo aveva abbracciato stretto, facendo coincidere il proprio busto con la schiena del maggiore, ed entrambi si addormentarono, inconsapevoli della presenza di un fiero Joonmyeon che li osservava con sguardo dolcemente commosso sbirciando dalla porta appena socchiusa.
“Myeon, piantala di spiarli” lamentò Yixing, in piedi accanto a lui, ridacchiando.
“Zitto, tu non sei mai stato così dolce con me.”
 
-
 
I primi mesi di convivenza non andarono malaccio, Kyungsoo dovette fare i conti con i tartassanti ritmi di Joonmyeon, che anche in vacanza si preoccupava di seguire una rigida schedule giornaliera: sveglia alle sette, ginnastica mattutina, colazione salutare e via di conseguenza. Yixing era ben contento di avere finalmente qualcuno in casa che lo aiutasse a nascondere i barattoli di Nutella che comprava di nascosto dal suo fidanzato salutista. Kyungsoo lo aveva colto sul fatto già la prima settimana, per curiosità aveva aperto la trousse che avrebbe dovuto contenere i trattamenti per la skincare quotidiana del cinese, aveva aperto alcuni barattolini di pomata idratante e vi aveva trovato deliziosa crema alle nocciole nella quale non aveva potuto fare a meno di intingere un indice, e poi un altro, ed un altro ancora. Yixing lo aveva trovato così, il viso ricoperto di crema al cioccolato e gli occhi ricolmi di vili sensi di colpa, e allora lo aveva fatto entrare nel club Nutella sotto solenne giuramento: “Io, Do Kyungsoo, giuro di ingozzarmi senza ritegno con le schifezze che il mio buon sensei Zhang Yixing provvederà a spacciare e di negare l’esistenza del Club Nutella di fronte a qualsiasi intimidazione o tortura eventualmente ed illegalmente propugnatami dal Gran Nemico Kim Joonmyeon.”
Inaspettatamente, fu proprio Yixing quello che provvide meglio a farlo sentire ‘a casa’. Concesse al vagabondo un paio di giorni per abituarsi (e per godersi Jongin prima che dovesse tornare a lavorare) e subito dopo, con grande approvazione di Kyungsoo stesso, iniziò a compilare il suo curriculum, sebbene scarso, alla ricerca di un qualche facile lavoro manuale e a vagliare scuole serali in modo che potesse prendere, se non la laurea, almeno un diploma. Si impegnò per non fargli mancare nulla e, nei momenti liberi, condivideva con il minore la passione per la cucina. Kyungsoo scoprì proprio con il cinese la sua inestimabile dote nascosta per i fornelli, talento per il cui Jongin impazziva quelle poche volte che a settimana che riusciva a sgattaiolare via dal suo manager per ritagliare un momento di fugace intimità con il maggiore. Kyungsoo non poteva negare alla scalciante fetta romantica della propria personalità che trascorrere le serate con Jongin gli mancasse, ma tutte le volte che iniziava a sentirsi solo Yixing riusciva magicamente, con la sua incredibile energia, a sciacquare via ogni residuo di nostalgia incastonato tra le pareti delle sue vene.
“Già, le prime volte che Joonmyeon stava così tanto fuori casa anche a me capitava di sentirmi un po’ malinconico, sai? Però poi ho capito che non potevo stare male ogni volta che lui partiva” e a questo punto, ogni volta che Yixing ripeteva quella perla di saggezza di cui andava tanto fiero, faceva una breve pausa ad effetto “L’unico modo per sconfiggere la nostalgia è tenersi occupati! Per me era difficile trovare qualche amico disposto ad uscire che sopportasse le mie lagne amorose, ma tu sei fortunato visto che ci sono io qui con te!”
Ogni sera Yixing provvedeva, dopo il lavoro, ad insegnare a Kyungsoo qualche nuovo gioco, a proporgli una nuova sfida o, semplicemente, ad aiutarlo nello studio, e non si preoccupava di fare nottata con lui anche se il mattino seguente doveva catapultarsi in ufficio per le otto. Kyungsoo gli invidiava davvero molto quell’energia che nascondeva sotto il suo sorriso pacato, un giorno gli chiese come facesse ad essere sempre tanto entusiasta anche delle più piccole cose e si sentì rispondere così, con una naturalezza tale che lo spiazzò: “Le vedi queste?” e qui Yixing si era toccato le prorompenti, tenere, fossette “Sono piccole, ma mi rendono diverso da tutti gli altri. Tutto il mio entusiasmo lo tengo qui.”
Il giorno seguente il vagabondo stette per un paio d’ore fermo con l’indice della mano sinistra piantato in una guancia cercando di farsi crescere almeno una fossetta, quando Yixing gli rivelò che non era, ovviamente, possibile gli regalò uno dei suoi barattolini di Nutella per consolarlo.
Fu così che l’amicizia tra i due crebbe davvero, in un modo che nessuno di loro si sarebbe aspettato. Se con Jongin condivideva le paure ed i dolori e con Joonmyeon il temperamento talvolta irruente, con Yixing poteva discorrere per ore intere di ciò che, piano piano, scopriva che gli piaceva fare: la cucina, i videogiochi, l’interesse per la tecnologia e molto altro. Yixing, con un’umiltà che Kyungsoo non riusciva a perdonargli, stava facendo per lui tutto ciò a cui Jongin, con un paio di visite la settimana al massimo (nelle settimane fortunate), non aveva più il tempo di badare, e al vagabondo dispiaceva immensamente. Sapeva che il lavoro di Jongin non perdonava sgarri, che era difficile uscire insieme per via di eventuali scandali e non ce l’aveva con lui per tutto ciò che il manager stava facendo passare all’idol quando quest’ultimo, alcune settimane dopo aver conosciuto Kyungsoo, gli aveva comunicato di voler terminare il contratto il prima possibile per continuare solo come ballerino, nonostante tutta la fama che seguitava ad accumulare. Gli voleva davvero bene, ma più pensava a lui e più, immancabilmente, non riusciva a togliersi dalla testa un certo orribile pensiero che da giorni tormentava i suoi incubi.
 
-
 
Kyungsoo andò totalmente in crisi quando, durante una delle tante serate passate con la sola compagnia di Yixing, quest’ultimo gli domandò con un certo imbarazzo: “Ma quindi, che cosa siete tu e Jongin?”
Era già trascorso un anno da quando il vagabondo si era trasferito a casa di Yixing e Joonmyeon, con diversa fatica aveva iniziato a lavorare in un piccolo bar come cameriere e con il piccolo stipendio che percepiva riusciva a pagare le lezioni serali che frequentava e ad aiutare Yixing con le spese del loro appartamento. Passava le giornate diviso tra lavoro e studio e riusciva comunque a trovare sempre del tempo per Yixing, così come l’amico faceva per lui. Sempre più spesso, mano a mano che la loro amicizia si consolidava, divenne normale smettere tutto d’un tratto di guardare un film o di giocare a qualche stupido quanto divertente gioco da tavolo per cominciare ad aprirsi l’uno con l’altro. A volte le loro conversazioni iniziavano semplicemente con un “Me lo ricordo questo film, Jongin voleva portarmi a vederlo al cinema con lui”, altre volte (ed erano quelle che Kyungsoo temeva di più) con un tremendamente diretto “Mi piacerebbe che Joonmyeon fosse qui con noi a giocare a carte, ci straccerebbe entrambi in un batter d’occhio”. A Kyungsoo continuavano a non piacere i discorsi ricchi di pretenziosi e pacchiani sentimentalismi, ma piano piano stava scoprendo un lato delicatamente romantico di cui si vergognava angosciosamente e con cui riusciva a fare pace solo in quegli attimi di verità che condivideva con il cinese. Era preoccupato per Jongin, per i casini in cui la sua casa discografica lo stava mettendo dopo avergli chiaramente spiegato che non avevano intenzione di assecondare il suo capriccio di terminare il contratto ed intraprendere inutili battaglie legali dalle quali, comunque, l’idol sarebbe uscito di certo non vincitore, per le pesanti schedule inflitte per vendetta alle quali il minore sopravviveva a malapena, completamente tramortito dal lavoro, dalle interviste, dai concerti, dai fanmeeting. Fu durante uno di questi flussi di coscienza che Yixing riuscì a chiedere a Kyungsoo se Jongin gli piacesse davvero, e il vagabondo aveva risposto di sì senza esitare affatto.
Quando però, un’uggiosa nottata di dicembre, l’amico domandò al minore che cosa fossero lui e Jongin non seppe fare altrettanto. Kyungsoo era stretto in una spessa coperta di lana, le ginocchia raccolte con le braccia al petto che rantolava aria che all’improvviso gli parve gelida, tremolando. Se c’era una cosa che il vagabondo aveva imparato di Yixing era che non poneva mai domande completamente a caso, non, almeno, quando si trattava di Jongin e di Joonmyeon, e quella volta sapeva perfettamente che la questione non si sarebbe risolta con un semplice “Siamo fidanzati, no?”
Effettivamente, Kyungsoo e Jongin non erano fidanzati, non ufficialmente almeno dato che né uno né l’altro si era fatto avanti con una proposta vera e propria. Si vedevano, si baciavano, andavano a letto insieme e si ricordavano a vicenda quanto davvero si volessero bene. Erano cose che si facevano tra fidanzati, ma non erano fidanzati. Joonmyeon e Yixing erano fidanzati, e non solo per la dichiarazione d’amore che il secondo aveva regalato al primo. Kyungsoo non riusciva a capacitarsi di quale fosse il discriminante tra loro e l’altra coppia. Nonostante la distanza forzata, ogni volta che riuscivano a trovare qualche ora per loro sembravano andare l’accordo come la prima volta, nessun silenzio imbarazzante, nessun discorso fuori luogo mentre l’interesse reciproco l’uno per l’altro esplodeva. Jongin non si stancava mai di ascoltare Kyungsoo ripetergli tutto ciò che studiava alla scuola alla quale era iscritto, entrambi notavano gli occhi dell’altro rilucere, se ne commuovevano e se ne compiacevano. Avere a che fare con la distanza a lungo andare era diventato di routine, sia il maggiore che il minore non ci facevano più caso e, tolto un lieve senso di nostalgia, ai rispettivi “Tutto bene?” di Joonmyeon e Yixing rispondevano con un sorrisetto ricolmo di dolci aspettative.
Yixing, comunque, non pretese subito quella risposta. Solo alcuni giorni più tardi, nel bel mezzo di una delle tante maratone di serie fantasy che il cinese gli propinava, il vagabondo, senza nemmeno esitare tanto a lungo, esalò: “Voglio andarmene.”

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** SIXTH – Domenica, Lunedì, un anno dopo (parte 2) ***


SIXTH – domenica, lunedìun anno dopo

parte 2

"Voglio andarmene."

-

Quella che seguì alla confessione di Kyungsoo fu la più lunga ed estenuante discussione a cui quest’ultimo avesse mai preso parte. Questa volta era stato lui a mandare Yixing in crisi, si ripromise di non farlo mai più. Occhi strabuzzati, letteralmente fuori dalle orbite, bocca semichiusa, labbra tremolanti, pelle livida, fossette spaventosamente assenti, Yixing sembrava aver visto un orribile spettro. Senza che nemmeno avesse bisogno di farselo domandare, Kyungsoo iniziò allora a narrare, la voce impastata di timido e tremulo turbamento, la propria storia all’amico ancora pietrificato sul posto dallo sgomento.
“Non ho sempre vissuto in strada” Kyungsoo aveva pronunciato questa frase con un tremolio tale nella voce da renderla incomprensibile. Yixing si fece avanti e lo avvolse nella propria coperta, pensando che sentirlo più vicino, forse, lo avrebbe aiutato ad aprirsi. Con Jongin non ce l’aveva ancora fatta, il ballerino ignorava i segreti del passato di Kyungsoo, e il cinese non era sicuro che soffiargli l’occasione di essere il primo ad apprendere quella storia fosse giusto.
“Non ho sempre vissuto in strada, dicevo… Fino a quando avevo cinque anni, a quanto mi raccontava mia madre, avevamo in affitto un qualsiasi appartamento nella bassa Seoul, nulla di strabiliante, ma a noi bastava eccome. Ho pochissimi ricordi di quel periodo, qualche particolare della camera da letto, la disposizione dei pochi mobili della cucina, nulla di più” il vagabondo aveva preso a gesticolare animatamente, come se far roteare in aria le proprie mani potesse aiutarlo a spiegarsi meglio o, soprattutto, a sfogare con più calma tutto ciò che aveva bisogno di lavare via dalla nera anima cresciuta dentro di lui “Eravamo io, mia madre e mio padre, poi un giorno arrivò anche mia sorella.”
Kyungsoo parve allora spegnersi nel nominare la sorella. La ricordava ancora piccola, minuta, le braccia magre che si intonavano con orribile gusto alle caviglie sottili, agli zigomi sporgenti e ai giganteschi occhi color cioccolato che condivideva con il fratello maggiore.
“Non… Non è davvero mia sorella. O, almeno, è mia sorella solo da parte materna. Quando mio padre ha scoperto che mia madre era andata con un altro uomo l’ha cacciata di casa subito dopo aver partorito, e con lei me e mia sorella appena nata. Nessun divorzio, nessuna carta ufficiale. Per diversi anni per lo Stato abbiamo continuato ad abitare tutti e tre con lui, ed in fondo a mamma andava bene così. Faceva la casalinga, non riuscì a trovare lavoro in tempo e in niente ci siamo ritrovati in strada. Per un po’ ha continuato a tentare di farsi assumere da qualche bar o ristorante come cameriera, ma da dopo la gravidanza la depressione l’aveva assalita. Aveva un rapporto strano con mia sorella, la riconosceva come figlia, le voleva bene, ma la considerava anche il motivo della sua rovina. Nonostante ciò, comunque, fece sempre tutto ciò che era in suo potere per non farci portare via da lei. Cambiavamo spesso zona, sgattaiolavamo nei vicoli, ci perdevamo nei parcheggi pieni di auto parcheggiate, erano tutti dei giochi per noi, eravamo ancora bambini piccoli e non ci rendevamo nemmeno conto di quanto fosse orribile non avere una casa. Quanto a me, l’ho scoperto poco più tardi, comunque. I servizi sociali sono riusciti a prendere mia sorella e l’hanno probabilmente assegnata a qualche coppia quando avevo poco più di dieci anni, è stato a questo punto che ho visto mia madre iniziare a collassare inesorabilmente. Fumava, ogni tanto beveva già qualche bicchiere di troppo, ma cercava, per quanto possibile, di curarsi comunque un minimo nell’aspetto. Dopo che mia sorella le fu strappata via invecchiò di quindici anni in un colpo ed io non sono stato capace di fare nulla per lei. Mi sono allontanato da lei che non ero nemmeno maggiorenne e ho scoperto solo anni dopo che si è suicidata in carcere.”
Yixing osservava Kyungsoo con un’ombra in viso, tentando di nascondere a tutti i costi la pena che provava per lui ed il grossolano dispiacere che, lo sapeva, il vagabondo avrebbe solamente trovato fastidiosamente volgare. A Kyungsoo non interessava ricevere una qualche forma di pietà, nonostante fosse consapevole che i sentimenti che il cinese provava in quel momento nei suoi confronti non fossero semplici, volute, reazioni di convenienza. Yixing era un empatico nato, ma in quel momento il minore avrebbe dato qualsiasi cosa per ricevere in risposta da lui una brutale, limpida, trasparente quanto ineguagliabilmente misteriosa, poker face. Provò a chiedere a Yixing di smettere di guardarlo in modo tanto deprimente, in tutta risposta il maggiore aggrottò le sopracciglia e scagliò un irriverente: “Non ci penso nemmeno”, invitandolo poi a continuare il suo racconto. Il vagabondo proseguì allora narrandogli tutti i suoi disperati tentativi di chiudere le proprie emozioni in un barattolo per riuscire a sopravvivere il più a lungo possibile con il minimo sforzo, e di come questi si fossero rivelati, uno dopo l’altro, fallimentari in seguito all’arrivo, un anno prima, di Jongin.
“Avevo cinque regole, sai Yixing?”
Kyungsoo elencò le prime quattro e con euforia tangibile spiegò come Jongin fosse riuscito in una sola settimana a dimostrare la loro fatale erroneità. Anche in quel caso era iniziato tutto quasi per gioco, ma alla fine Jongin aveva davvero vinto, riuscendo a fargli finalmente ritrovare se stesso. Il minore rise con una certa dolcezza quando rivelò all’amico il significato del loro ‘nascondino’, ma si interruppe immediatamente quando lo hyung, perplesso e disorientato, gli fece notare che mancava l’ultima delle cinque regole.
Il vagabondo deglutì, perse dunque il sorriso ed iniziò a sudare fretto per inventare su due piedi una scusa credibile: “Non è mai stato necessario farla conoscere a Jongin, dopo la quarta regola avevo già capito che--”
“--Qual è?” lo interruppe Yixing, terrorizzato e, al contempo, incredibilmente determinato “Qual è la quinta regola, Kyungsoo?”
Kyungsoo tremolò come una foglia accartocciata obbligata a subire le angherie delle fredde brezze autunnali, implorò Yixing con gli occhi di ritirare la domanda, scosse il capo e tentò di fargli capire che non poteva avere la forza di rispondere anche a quella domanda dopo aver spillato fuori tutta la storia della sua vita. Yixing fu irremovibile, Kyungsoo fece per insultarlo, ma tutto ciò che fuoriuscì dalle sue labbra spente fu un mesto: “L’ho sempre infranta… Quella regola, non l’ho mai rispettata.”
“Che cosa diceva?” in quelle situazioni Yixing faceva davvero molta più paura di Joonmyeon. Kyungsoo realizzò solo in quel momento che le sue fossette potevano contenere, oltre che alla gioia e all’energia, anche rabbia, delusione, rammarico e pena. Se nel primo caso sollevavano gli angoli delle sue labbra in un etereo sorriso, nel secondo pesavano quanto macigni e facevano capitombolare ognuna delle piccole, delicate, rughe che comparivano sul suo viso. Ci mise un po’ prima di rispondere a quella domanda. Colto da un primordiale imbarazzo, si alzò di scatto in piedi, chiese all’amico se volesse qualcosa di caldo da bere e corse, prima di sentire qualsiasi replica, in cucina a preparare della cioccolata calda. Accese poco il gas, tenne il fuoco estremamente basso in modo da ritardare il più possibile il momento della verità e versò la propria tazza quando arrivò l’ora di tornare in salotto. Porse comunque la tazza restante a Yixing, che, stufo delle reticenze del minore, lo obbligo però a restare lì con lui nonostante Kyungsoo desiderasse solamente volare verso lo sgabuzzino e scegliere un panno per pulire i resti del liquido che campeggiava sul pavimento di mattonelle lattee al centro del salotto.
“Che cosa diceva, quindi?”
Non fermarti, non attaccarti. L’ho sempre infranta.”
Fino a quel momento Yixing aveva pensato di poter convincere Kyungsoo dell’errore che aveva tutta l’intenzione di compiere. Considerava il minore una persona forte, reattiva, indipendente, ma, anche dopo un anno, non aveva idea di come si facesse ad avere a che fare davvero con una di esse. Aveva lasciato a Kyungsoo tutte le sue libertà, forte del fatto che il vagabondo non gli avrebbe mai remato contro continuando a vivere in casa sua, di certo non si sarebbe aspettato come ringraziamento un improvviso ed insensato ‘Voglio andarmene’. Non era pronto ad essere di nuovo da solo, la verità era che tutto l’entusiasmo che aveva mostrato a Kyungsoo era solo un contentino in più per invogliarlo a rimanere il più possibile. Yixing celava dentro di sé un infuriato spirito malinconico, tendente alla noia ed all’inquietudine, faceva fatica a fare amicizia, ma quando gli capitava di trovare un vero amico soffriva per settimane la sua mancanza. Così gli era capitato con Jongin e, soprattutto, a maggior ragione, con Joonmyeon. Si chiese se fargli presente il proprio stato d’animo avrebbe distolto Kyungsoo dall’idea di partire, ma non lo fece mai. Ciò per cui si odiava di più, in fondo, era il fatto di non riuscire davvero a biasimarlo per quella decisione. Le prime quattro regole erano una semplice difesa, scudi di vetro e carta di cui probabilmente il minore non vedeva l’ora di disfarsi, ma la quinta aveva senso, era una proiezione dell’unico desiderio che Kyungsoo, inconsciamente, aveva continuato a custodire da quando aveva dieci anni: ritrovare la sorella. Poteva illuderlo del fatto che lui, Joonmyeon e Jongin fossero ormai la sua vera famiglia, il vagabondo avrebbe asserito con gioia, forse sarebbe stata una di quelle rarissime volte in cui si sarebbe lasciato abbracciare da tutti loro, ma non avrebbe mai smesso di rincorrere il sogno di rincontrare quella persona che a lui era tanto cara.
Subito dopo Kyungsoo aveva infatti scandito con tono traballante: “Voglio andare a cercare mia sorella.”
Sapeva anche lui che il rischio che lei non lo riconoscesse o si fosse dimenticata di lui era alto, ma non gli importava, e Yixing sapeva che era compito suo lasciarlo andare. Gli chiese se sarebbe tornato, Kyungsoo gli aveva risposto che voleva bene a tutti loro ma non aveva pronunciato alcun ‘Sì’ o alcun ‘No’.
“Devi dirlo a Jongin, Kyungsoo.”
“Non mi lascerebbe andare. E comunque non ho intenzione di partire immediatamente, prima voglio fare delle ricerche.”
Quelle ricerche le aveva già fatte, ovviamente non ne fece parola con l’amico, e aveva scoperto che la sorella abitava in una cittadina molto a sud nella penisola coreana, distante chilometri e chilometri da Seoul. Aveva intenzione di trasferirsi lì, trovarla e recuperare il tempo che avevano perduto, ed era consapevole che ci sarebbero voluti mesi, forse anni, prima di poter ritornare alla capitale e potersi ricongiungere con i suoi amici.
“Kyungsoo…” aveva allora sospirato il cinese, infossandosi nei cuscini morbidi del divano, come se potessero proteggerlo da qualsiasi sarebbe stata la reazione dell’altro dopo la sua domanda “… Ma quindi, che cosa siete tu e Jongin?”
Il vagabondo si era morso il labbro inferiore e, ormai senza paura, pensando che non aveva, in fondo, nient’altro da perdere, mormorò: “Nulla”
Il silenzio che ne seguì atterrì non solo Kyungsoo, ma anche Yixing. Era amico di Kyungsoo, ma prima ancora era amico di Jongin, e sapeva quanto quest’ultimo avesse cercato in quegli ultimi anni una persona come lui a cui dare tutto se stesso. Quella volta il vagabondo si affrettò però a dare spiegazioni, Yixing gli fu grato per non aver lasciato che la spessa tensione che si respirava nell’atmosfera avesse la meglio su di loro.
“Hai presente quando vai dallo psicanalista e finisci per aprirti talmente tanto con lui da pensare di essertene innamorato?”
Kyungsoo aveva un buon professore, spesso e volentieri, cosciente delle reali capacità dei suoi alunni, finiva per esulare dalla Letteratura, sua materia competente, e sfociare nella filosofia, in particolar modo amava quella occidentale.
Yixing, comunque, quella volta dovette rispondere di no. Non avrebbe mai compreso, o meglio, non avrebbe mai accettato che il vagabondo potesse tradire la fiducia di Jongin in quel modo. Pensò di ricominciare a fargli la predica, di urlargli contro fino a perdere la voce e anche di dargli una botta in testa e di chiuderlo in un armadio fino al ritorno dell’amico in Corea. Odiava ammetterlo, ma se c’era qualcuno in grado di far rimanere Kyungsoo quello era solo Kim Jongin, l’idol che in quel momento stava attraversando l’Europa insieme a Joonmyeon per uno dei tanti tour che aveva in programma per quell’anno. Si alzò dal divano offeso, con sguardo truce lapidò il minore, andandosene in camera sibilando parole di cui si sarebbe pentito per tutta la vita: “Tu e Jongin dovete smetterla di parlare per metafore.”
Yixing non avvertì nemmeno la flebile, lacrimosa, risposta di Kyungsoo: “Non posso rimanere qui mentre lui gira il mondo. Sono rimasto immobile per troppo tempo, adesso ho bisogno di muovermi.”
 
-
 
Quando Jongin, poco meno di un mese dopo, tornò dal suo tour europeo, quasi non subì un vero e proprio tracollo emotivo apprendendo la notizia della partenza di Kyungsoo. Yixing finse di non sapergli dare spiegazioni, ne aveva parlato con Joonmyeon al telefono ed aveva concordato con lui di non dire nulla all’idol fino al suo ritorno a Seoul in modo da non compromettere la buona riuscita dei concerti e degli spettacoli. Yixing ammise solamente di essersi svegliato una mattina e di aver trovato il letto del vagabondo rifatto alla perfezione e il suo armadio completamente vuoto, mentre sul comodino era stata lasciata solamente la scheda sim del cellulare che Kyungsoo era riuscito ad acquistare con i suoi risparmi appena un paio di mesi prima.
Il primo giorno Jongin, ancora totalmente distrutto dalle ore di volo e dal ritmo tartassante del tour, non diede cenni di vita. Si chiuse a casa dei propri genitori e non ne uscì fino al giorno seguente, quando Joonmyeon e Yixing andarono a trovarlo e in tutta risposta il minore fece una cosa che mai aveva fatto in tutta la sua vita, urlò. Nello specifico, li implorò con una certa rudezza di tono e di linguaggio di alzare i tacchi e tornarsene a casa, per poi uscire anche lui subito dopo e prendere l’autobus che fermava davanti alla propria agenzia. Il manager si disse stupito di vederlo lì per gli allenamenti quotidiani (aveva diritto ad un po’ di riposo dopo il viaggio nel vicino continente), Jongin lo ignorò e si chiuse in sala da ballo, accese la musica a tutto volume e stette lì a riflettere per l’intera mattinata, guadagnandosi anche un severo ammonimento da parte del CEO dell’agenzia. Ci volle una settimana prima che Jongin riuscisse a convogliare tutta la rabbia che provava in un discorso di senso (circa, quasi) compiuto, e ovviamente i due spettatori prescelti furono i suoi fedeli hyung. Joonmyeon, in un azzardatissimo moto di spirito, preparò anche i popcorn, a cui Jongin comunque non fece nemmeno caso. Si catapultò semplicemente con la grazia di un elefante nel loro appartamento sbraitando, non faceva altro da una settimana, Joonmyeon gli tirò un paio popcorn in testa e gli intimò di calmarsi o gli avrebbe iniettato un sedativo con la gigantesca siringa per dolci di Yixing. Fece sedere Jongin in salotto, gli sarebbe davvero bastato tanto così per mettergli una camicia di forza, e lo lasciò sfogare in pace. Più lo ascoltava e più lo compativa. Tutto ciò che rimaneva a Jongin dopo i turni massacranti previsti dal suo lavoro erano quei pochi minuti appena prima di cena che Jongin rubava a Kyungsoo prima che prendesse l’autobus per raggiungere la scuola serale; non aspettava altro che tornare dal tour per poter dedicare totalmente a lui il breve periodo di vacanza che gli era stato concesso. Joonmyeon rabbrividiva ogni volta che Jongin gli nominava Kyungsoo e gli raccontava tutti i programmi che aveva in serbo per loro in quei giorni. Era chiaro che il ballerino fosse ancora nella fase ‘Kyungsoo è perfetto’, nonostante si frequentassero da un anno, apprendere della sua fuga lo aveva portato ad odiare se stesso ed il proprio lavoro che aveva sempre impedito loro di vedersi con regolarità e fondare la loro relazione sui solidi capisaldi di cui avrebbero avuto bisogno. Yixing soprattutto soffriva nel sentire quell’ammissione di colpa da parte del minore, che invece sapeva perfettamente essere l’unico innocente tra di loro. La colpa era tutta della codardia di Kyungsoo, ma tutto ciò che fu in grado di dirgli fu un ermetico: “Avrebbe dovuto lasciarti qualcosa di scritto.”
Jongin scoppiò in lacrime, si lasciò consolare, si scusò per essere stato tanto pensante e scontroso nonostante loro non c’entrassero nulla. Senza che il minore li sentisse, quella sera Joonmyeon impose al fidanzato di rivelare al ballerino il motivo della scomparsa di Kyungsoo. Yixing esitò appena, per poi mormorare con tale astio da spaventare Joonmyeon: “Tanto non tornerà qui, se gli rivelassi che se n’è andato per la sorella Jongin si ficcherebbe in testa di volerlo cercare, e Kyungsoo non se lo merita. Non si è fidato di lui, Jongin invece ha sempre fatto di tutto per cercare di dargli il meglio.”
Yixing non sapeva però che il gioco che Kyungsoo e Jongin avevano iniziato più di un anno prima non era ancora finito, l’idol non smise affatto di pensare al vagabondo. Jongin, nonostante quella sera avesse la febbre alta e tremasse di freddo, ricordava perfettamente quando aveva promesso a Kyungsoo di continuare a cercarlo. Così come gli accadeva spesso e volentieri da piccolo, eccolo giunto al triste momento degli sbeffeggiamenti; aprite il sipario, Kim Jongin è di nuovo riuscito a farsi fregare a nascondino, avrebbero detto i suoi vecchi compagni di scuola, avanti, un bell’inchino di fronte al re degli scemi. Trascorse settimane infernali ad arrovellarsi sul proprio atteggiamento nei confronti di quello che lui considerava a tutti gli effetti un fidanzato, domandandosi fino allo sfinimento che cosa avrebbe potuto fare per migliorare la loro relazione. Iniziò a sognarlo, a sognare le loro notti insieme, i sorrisi che il vagabondo gli donava trasformarsi in dolorosi scenari di amore deluso. Chiedeva sempre a Joonmyeon di ascoltarli, Yixing diceva di non farcela. Jongin pensava che ce l’avesse con lui per via della sua rapida scomparsa, la verità era che Yixing odiava il vagabondo per averlo reso partecipe e sporco complice della sua partenza. Solo dopo alcuni giorni si era reso conto che Kyungsoo gli aveva chiesto di scegliere tra lui e Jongin, e lui, con la decisione di non rivelargli nulla, aveva parteggiato per il primo senza pensare alle conseguenze.
Solo uno di quei sogni Jongin non ebbe mai il coraggio di raccontare al maggiore.
Erano trascorsi pochi giorni dal suo ritorno in Corea dopo il tour e, per un motivo che non riusciva a ricordare, camminava a passo spedito verso il vicolo in cui l’anno precedente lui e Kyungsoo avevano l’abitudine di incontrarsi. La scena era distorta, a tratti pioveva, a tratti nevicava, a tratti il sole gli cuoceva la pelle e scioglieva i suoi occhi. Vagava alla cieca, fumante di rabbia, gli abiti stropicciati, smessi, il cappotto chiuso solo a metà che ancora doveva portare in lavanderia da quando, dopo un concerto a Parigi, un membro dello staff vi aveva versato sopra per sbaglio un cocktail che gli stava portando per festeggiare. Per non parlare dei capelli, nuvole di cioccolato che denunciavano catastrofi atomiche. Nel sogno, comunque, non gli importava del suo aspetto. Consumava le scarpe ad ogni passo, infuocava il marciapiede ad ogni metro che lasciava dietro di sé. Prese a correre, sempre più veloce, era diventato più grande, più imponente, credeva di trovare davvero Kyungsoo ancora gracile come l’anno prima e di poterlo abbattere con una palla infuocata. Stringeva i pugni, creava attrito ed ecco che nelle sue mani ribolliva lava scrosciante. Saltò in aria, lanciò un grido, scagliò la sua rabbia contro un muro fetido e vide la sua mano contorcersi, snodarsi, cadere tutta accartocciata a terra mentre sprizzava sangue. D’un tratto non era più sicuro di essere ancora in un sogno, si chiedeva se non fosse una visione, una premonizione… forse un semplice, scandaloso, ricordo. D’un tratto il vicolo compariva di fronte a lui, Kyungsoo ovviamente non c’era. Al suo posto, invece, un messaggio.
 
“Non smettere mai di cercarmi.”
 
Era la tavoletta di Kyungsoo, l’aveva incisa con il suo coltellino e l’aveva lasciata nel vicolo nella speranza che l’amico la trovasse prima che andasse distrutta.
Jongin si sedette a terra, nel medesimo punto in cui ricordava trovasse Kyungsoo seduto ogni volta, strinse a sé la tavoletta e la lesse almeno un altro centinaio di volte. Accanto al messaggio Kyungsoo aveva abbozzato i disegni del viso di Mario e Peach, Jongin sorrise amaramente e scoppiò in lacrime. Impedimento e conquista, erano entrambi l’uno per l’altro, ma in questo caso era venuta prima la conquista dell’impedimento, e Jongin non avrebbe mai potuto perdonarselo.
Un’altra cosa, però, non riusciva a perdonarsi. Il vagabondo gli aveva chiesto di cercarlo, ma Jongin sapeva di essere davvero una frana nel cercare ciò che aveva perso, mentre Kyungsoo, invece, era così bravo a nascondersi.
 
Chiuse gli occhi, si abbandonò al pianto e si rannicchiò su di sé in posizione fetale, le ginocchia strette al petto, il viso rosso di vergogna schiacciato contro di esse. Tutti i passanti che lo videro, così raggomitolato, lo scambiavano per il solito giovane barbone che viveva un anno prima in quel vicolo. Ora stava vedendo il mondo dal basso.








 
Heloooooooo
Niente, volevo solo dirvi che la storia è finita, spero che vi sia piaciuta ^^

Credo sia un finale parecchio discutibile, ma la relazione tra i due protagonisti per me era già fin troppo tossica per lasciare pure l'happy ending D:
 
- moganoix

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3939846