Clementina

di Shaara_2
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Presentazione

 

Ciao a tutti, non so perché ma ho avuto il desiderio di scrivere questa storia ispirata liberamente a “Evelina” di Fanny Burney.

Ogni persona o fatto raccontato è frutto della mia fantasia e non è ispirato a niente di reale.

Non so se questa storia possa valere qualcosa, però, se vi va, fatemi sapere che cosa ne pensate...

Grazie a chiunque leggerà questa storia.


Shaara 


 

Capitolo 1

 

 

 

Tutto iniziò, quando zio Antonio ricevette quella telefonata.

“Greta? Come stai? Come mai hai chiamato quest’ora?”

In effetti era inusuale perché la signora Greta, una cara amica di Antonio, non chiamava mai dopo le 22:00. Quel giorno doveva essere successo qualcosa, così mi avvicinai per sentire.

“Oh, no! Mi dispiace tanto, Greta. Mi avevi detto della malattia di Ugo, ma mai avrei creduto che sarebbe stato così presto.”

Quando arrivai accanto a zio mi posò una mano sulla spalla.

“È Greta, te la ricordi?”

“La tua amica d’infanzia? Quella signora grassa che porta sempre un cappello in testa?”

Zio fece un gesto con le dita, poi coprì la cornetta con la mano libera.

“È morto il marito, tieni il telefono e dille qualcosa”

Quando presi il telefono mi sentivo come stordita. Non conoscevo bene il marito della signora Greta, sapevo che era un uomo molto vecchio, molto ricco, che aveva fatto la guerra e viveva fuori Roma con sua moglie. Quando ero piccola Antonio mi aveva portato a trovarli in continente. Avevano una bellissima villa che affacciava sul lago di Bracciano. Era grandissima, con una torretta merlata al centro della casa, un parco enorme e un giardino pieni di fiori. Mi ricordo che una volta incontrai sua nipote, Alina, una ragazzina che aveva più o meno la mia età, capelli scuri, l’apparecchio ai denti e una timidezza che la rendeva seria. Eravamo subito diventate amiche. Lei diceva che ero buffa e la facevo ridere, ma non ho mai capito se dicesse sul serio. Poi, eravamo tornati in Sardegna. Per un po’ c’eravamo sentite, ma con il tempo l’amicizia si era allentata e adesso, dopo quindici anni, eravamo quasi estranee, forse non l’avrei neanche riconosciuta.

“Forza Clem, dì qualcosa a Greta”

“Mi dispiace tanto signora Ruda. Ma adesso che cosa farà? Resterà in quella grande casa tutta sola?”

“Clementina, che domande...” disse zio, riprendendo il telefono. Sentii la sua voce piegarsi per la commozione.

“Comunque Clem ha ragione, non vorrai mica restare in quella grande villa? Perché non torni a Muravera per qualche tempo? È quasi primavera e potresti stare da noi. La mia bambina ha finito gli studi.”

Sollevai un sopracciglio, immaginando quando poco potesse importare alla signora Ruda.

“Sì, sì, ha fatto il liceo G. Bruno. Scienze applicate. Lo scientifico, esattamente”

“Zio…” sussurrai “ho finito l’università non il liceo” ma lui mi fece uno dei suoi proverbiali segni con le dita per farmi capire di non parlare a voce alta.

“Sì, certo che sta cercando un lavoro, adesso è ingegnere.”

“Facoltà di ingegneria Elettrica, elettronica e Informatica” sussurrai a bassa voce.

“Sì, è proprio un genio come sua madre… se solo non fosse stato per quel tipaccio…”

Quel tipaccio di cui parlava zio era mio padre, si chiamava Mauro Sanjust, un tipo cinico e spietato che dopo aver sedotto mia madre l’aveva lasciata incinta e disperata a soli diciannove anni. Zio Antonio diceva che mia madre non era una ragazza fragile e aveva dato la colpa dei suoi disturbi alla giovane età e al precoce abbandono da parte della madre, mia nonna, la mia unica parente ancora in vita. Era anche l’unica che non conoscevo, dato che zio si era sempre rifiutato di incontrarla dopo che era tornata in continente. E questo era strano per uno come Antonio. Lui era un uomo buono e sempre pronto a dare una mano a tutti. In verità non era veramente mio zio. Lui era il patrigno di mio nonno che visse con lui fino a che non fu maggiorenne e si sposò con Dolores Fumagalli, mia nonna, un’attrice milanese un po’ troppo ricca di spirito, per dirla con le parole di zio. Pare che mia nonna, quando era giovane, fosse molto bella. Purtroppo, però, era tanto bella quanto superficiale e dopo neanche due anni di matrimonio, lasciò il mio giovanissimo nonno con mia mamma di pochi mesi, per seguire un giovane pittore francese. Mio nonno non superò mai quell’abbandono e dopo due anni morì. Fu zio Antonio, a quel punto, a crescere mia madre, ma quando lei compì diciotto anni mia nonna tornò a reclamarla. Contro la volontà di Antonio, la portò via da Muravera, dove era cresciuta, trascinandola a Milano dove venne persuasa a sposare un lontano cugino del pittore. Lo chiamavano don Sanjust perché era di origine nobile, ma zio diceva che era per schernirlo poiché, l’unica volta che l’aveva visto, gli era sembrato un uomo altezzoso e pieno di sé. Così pieno di sé da lasciare mia madre incinta e senza neanche un soldo per mantenersi. Pare che allora, mia nonna, anziché sostenerla, l’abbia accusata di non riuscire a tenersi un uomo e sia ripartita per Parigi. Zio Antonio, disperato, pregò mia madre di tornare a Muravera, le pagò il viaggio e si prese cura di lei per tutta la gravidanza, ma con il passare dei mesi cadde in depressione. Fino a quando, qualche giorno dopo la mia nascita, senza una ragione precisa, si addormentò per non svegliarsi mai più. Qualche anno dopo morì anche Maria, la sorella di Antonio.

Da allora zio è stato tutta la mia famiglia. Si è preso cura di me e, pur essendo un agricoltore, mi ha cresciuta senza farmi mancare nulla, assecondando in ogni mio talento. Pochi a dire il vero, per questo ho dovuto impegnarmi tanto per meritarmi la sua stima e adesso, a ventidue anni, sono riuscita a laurearmi e, finalmente, potrò essere autonoma senza più essere un peso e dargli più preoccupazione.

“Ma certo che cercherà un lavoro” disse Antonio ridestandomi con la sua voce. “Lo sta cercando qui vicino, ma a Muravera non cercano molti ingegneri femmine… comunque, non c’è fretta può restare qui con me fino a che non si sistema...”

Alzai gli occhi al cielo, odiavo quando zio cominciava a parlare del mio futuro. Mi aveva fatto studiare con grandi sacrifici, ma sapevo bene che il suo sogno era che mi sposassi e restassi a Muravera insieme a lui. Però, dopo aver passato tutta la vita a studiare, se non avessi neanche cercato un lavoro, probabilmente non avrei mai incontrato qualcuno con cui mettere su famiglia e zio Antonio aveva ormai ottantacinque anni e non sarebbe vissuto per sempre.

“Cosa? Venire da te? Non so cosa dirti, Greta… è una buona idea, nel senso che non resteresti sola, però io non credo che Clem possa allontanarsi tutto questo tempo da Muravera…”

Antonio cominciò a guardarmi con aria tesa.

“Che succede?” gli dissi, avvicinando l'orecchio alla cornetta.

Antonio mise di nuovo una mano sulla mia spalla.

“Greta vorrebbe che andassi a stare un po’ da lei per farle compagnia.”

“Sul lago di Bracciano?”

“Sì, ma tu vorresti andare? Tutta sola, in quella grande casa…”

“Certo! Potrei esserle d’aiuto.”

Antonio tolse le dita dalla mia spalla, curvando la testa da un lato e abbassando la voce.

“Senti, Greta, ci dobbiamo pensare…”

“Come?” sorrisi a denti stretti “Avevo detto che...” Ma Antonio chiuse il telefono, prendendo un fazzoletto dalla tasca per asciugarsi occhi e sudore.

“Non sei pronta, bambina mia. Non sei ancora pronta per lasciare questa casa.”

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

 

Passarono mesi da quella telefonata. Per un po’ di tempo sperai che zio Antonio cambiasse idea, ma quando arrivò l’estate capii che sarei rimasta a Muravera, circondata dalla noia e un caldo infernale. Ad ogni modo, nessuno aveva notato i miei annunci e le aziende dovevano aver fatto carta straccia del mio curriculum. Le uniche offerte di lavoro che ricevevo erano quelle che Antonio trovava attraverso la parrocchia e devo ammettere che non fossero proprio le offerte che speravo. La signora Luisa che cercava una domestica, il signor Mansueto che chiedeva una segretaria per l'azienda avicola a Villaputzu e infine Stella, una lontana parente di Antonio, sempre in cerca di una badante per sua cognata. Forse avrei dovuto dare retta al mio istinto e mandare il curriculum in continente, ma Antonio era diffidente. Diceva che dopo aver perso mio nonno e mia madre, in quel modo orribile, avrei dovuto fare attenzione a quello che facevo e soprattutto all’altro sesso così, terrorizzata fin da piccola da quella che lui chiamava la “nostra maledizione”, avevo evitato ogni possibile contatto. In pratica, nonostante fossi laureata e conoscessi fino al più piccolo meccanismo che regolava l’universo, l’altro sesso era per me un grande mistero. Non che non avessi mai avuto una cotta o non avessi mai dato un bacio a nessuno, ma non ero mai arrivata a concludere niente, sempre sorvegliata da Antonio e stretta tra le mie paure.

Comunque, tra un ripensamento e l’altro, nonostante fosse Giugno e Muravera fosse diventato una desolata terra di conquista di sterminati eserciti di zanzare, non avendo niente da fare e non volendo gettarmi nelle fauci dei grandi alberghi sempre in cerca di personale per intrattenere i turisti, decisi di lavorare per Stella e fare da badante a sua cognata.

 

Donna Elita Osorio, cognata di Stella, era una signora anziana di nobile origine. La sua stirpe discendeva da un ramo cadetto della famiglia Carroz, un’antica casata valenciana che aveva dominato il giudicato di Cagliari in un’epoca dimenticata o meglio dimenticata da tutti tranne da lei che, con un garbo aristocratico, continuava a guardare ogni essere vivente con grande disprezzo. E probabilmente era per quella sua incontenibile superbia che aveva fatto scappare milioni di badanti di ogni età ed etnia, nonostante il notevole salario. Io, però, le piacqui subito e dopo un solo colloquio mi ritrovai a lavorare per lei in quella sua incredibile villa di montagna. Beh,  insomma, non proprio di montagna… La vedova, infatti, in estate si trasferiva in una fantastica abitazione di lusso che dal promontorio più alto del golfo affacciava sulla bellissima spiaggia di Costa Rey. Un paesaggio mozzafiato, sul mare cristallino della costa sudorientale della Sardegna. I monti dei Sette Fratelli degradavano quasi fino al mare ricolmi di vegetazione, profumi mediterranei e frutti selvatici. E stavo lì, a bocca aperta, circondata da ulivi, alberi di corbezzoli, mirto e ginepri millenari. Assorta nel frusciare delle foglie e il cinguettio di piccole rondini. In lontananza la lunghissima spiaggia splendeva di bagliori dorati e il mare, azzurro e trasparente, con una brezza leggera, portava il profumo del sale e i primi richiami dell’estate. Ero quasi in estasi nel guardare quel panorama. Ricordo che rimasi per ore a fissarlo senza parlare, fino a che, verso l’ora di pranzo, fu la stessa Elita a venirmi a cercare.

“Signorina, non la pago per stare ferma sul terrazzo!”

La guardai come se fosse la prima volta che la vedevo. Donna Elita era di bassa statura, magra, con i capelli grigi raccolti in una crocchia bassa e profondi segni del tempo sul viso. La sua salute era precaria quanto le sue fragili gambe che sporgevano dalle gonne nere merlate di un finissimo pizzo sangallo. La dama, con il suo volto austero e una voce distante, si avvicinò a me mentre ancora fissavo il mare.

“Mi perdoni, Donna Elita” dissi in un soffio. “Sono rimasta incantata e poi questo profumo…”

Lei tolse gli occhiali, lasciandoli cadere nella cordicella dorata appesa al collo.

“È l’odore della Sardegna, mia cara. È sempre stato intorno a te, ma qui, nella solitudine di questa vetta, immersi in questa grande meraviglia, sembra sempre di sentirlo per la prima volta.” Donna Elita aggrottò le rughe che aveva sulla fronte. “Dimmi, bambina, hai più avuto notizie di tuo padre?”

Sussultai, come se qualcuno mi avesse scosso. 

“Mio-mio padre?”

“Sei la figlia di Don Mauro, non è vero?”

Arrossii, sentendomi mancare le parole.

Donna Elita si accigliò, battendo due volte il bastone per terra. 

“Tuo zio ritiene che tuo padre e tua madre fossero sposati al momento del suo abbandono e questo fa di te una giovane nobile, Clementina, non lo dimenticare.”

“Io, io” balbettai con timidezza. “Mio padre non mi ha riconosciuta…” Le mie mani cominciarono a tremare.

“Ah!” disse Elita, muovendo nervosamente le dita sul pomo levigato del bastone. “Tuo zio non è uno stupido e adesso ci sono dei nuovi mezzi per dimostrare la paternità dei figli. Io credo che Antonio si sia già mosso in questa direzione. Forse, non te lo vuole far sapere…”

Spalancai gli occhi, ripensando alle parole che avevo captato dalle conversazioni tra zio e la signora Greta. “Quell’uomo, dovrà pagare il suo debito… Se pensa di scampare così alle sue responsabilità…” Il cuore cominciò a battermi veloce. Possibile che fossi così ingenua? Zio non aveva mai smesso di cercare di farmi riconoscere da mio padre. 

“Lei dice che…”

“Dico che tuo zio ha ragione e penso che prima o poi lo si dovrà obbligare a riconoscerti, bambina. Del resto, se vuoi fare delle nozze degne del tuo nome, si dovrà pure far presto… Quanti anni hai ragazza? Direi diciotto a vederti...”

“Ventidue, Donna Elita, ma io…  nozze?” Lì mi venne da ridere. Trattenendomi a stento, guardai la dama, valutando tutti gli anni che l’anziana signora poteva avere sul groppone. Supergiù doveva avere l’età di zio Antonio e, probabilmente, ragionava come lui. Solo che zio mi voleva per sempre pura e illibata, chiusa dentro una casa, mentre Elita mi immaginava sposata con un damerino di qualche illustre famiglia. Strinsi le labbra, fingendomi seria.

“Perché ridi, bambina? Non vuoi sposarti? Vuoi restare come quelle donne moderne che si spacciano per femministe? Vedi, con il passare del tempo le cose cambiano nome e vestito. Le donne che si sposano con il lavoro e odiano gli uomini sono sempre esistite, solo che prima si chiamavano zitelle… adesso hanno un nome diverso, ma la sostanza è sempre la stessa e tu non vorrai restare una vergine inacidita fino alla fine dei tuoi giorni, dico bene?”

“Mio dio, signora!” Arrossii violentemente “Come fate a sapere… voglio dire… possibile che zio…”.

Donna Elita guardò lontano, sollevando la bocca da un lato in un ghigno enigmatico.

“Bene, Clementina, vedo che siamo della stessa opinione... Vedrò cosa potrò fare... Adesso vieni dentro che faccio portare il pranzo.”

 

Rimasi con Donna Elita fino alla fine di agosto. La signora non aveva realmente bisogno di una badante, essendo sempre circondata da personale specializzato per ogni cosa, ma aveva bisogno di compagnia e non voleva passare il suo tempo con persone che non riteneva alla sua altezza. Il fatto che mio padre, anche se scomparso e indifferente alla mia sorte, fosse un nobile mi rendeva degna del suo tempo e si comportò con me come una sorta di madrina. I giorni in sua compagnia passarono in fretta. Nonostante fosse anziana aveva sempre un sacco di richieste che mi tenevano impegnata. La mattina voleva andare in spiaggia, il pomeriggio le piaceva giocare a carte e la sera voleva sempre che leggessi un buon libro a voce alta. A fine agosto, però, decise che avevo perso troppo tempo e - mi disse - era ora di fare qualcosa.

“Vedi, mia cara, hai già ventidue anni e per quanto, dopo questi mesi, tu mi sia già così cara è proprio necessario che ci si dia da fare.”

“Donna Elita, mi sta mandando via? Come le ho detto, anche io sogno di trovare un lavoro adatto alla mia specializzazione, però, non è facile trovarlo e restare vicino ad Antonio. Se lei mi volesse potrei ancora farle compagnia...”

“Clementina, Antonio è anziano e ha goduto della tua compagnia per troppo tempo.”

“Ma, Donna Elita, e la maledizione? Le ho detto tutto sulla storia di mio nonno e mia madre… zio Antonio pensa che…”

“Basta! Ho già parlato con un mio lontano cugino: Alfonso Amat.”

Quando sentii quel cognome subito strizzai gli occhi. Non ricordavo benissimo dove l’avessi sentito. Era il nome di una strada? Un palazzo vicino al castello di Cagliari? Però rammentavo che era un’antichissima famiglia nobile della Sardegna. Ma cosa potesse fare quest’amico di Donna Elita per me era un mistero.

“Clementina!” Disse Elita in tono imperioso. “Perché fai quella faccia? Ebbene, Amat ha da poco acquisito un’interessante quota di azioni di una grossa azienda di telecomunicazioni. Ad ogni modo l’ho già sentito e ti aspettano per un colloquio.”

“Cosa?” Scossi la testa un po’ confusa. “Mi aspettano? Quanti sono questi Amat?” Ero decisamente confusa.

“Che sciocchezza. Ti aspettano in azienda per un colloquio. Gli porterai il tuo curriculum di persona e questa lettera.”

Donna Elita piegò un foglio scritto a mano davanti ai miei occhi. Poi, lo mise in una busta che girò, scrivendoci sopra una dedica.

“All’attenzione dell’Onorevole. Alfonso Amat, Marchese di San Filippo, marchese di San Maurizio, ecc.”

“Tieni, mia cara, ti aspettano tra tre giorni. Ho già avvisato Antonio.”

“Tre giorni? Ma-ma, devo preparare la valigia e zio Antonio è d’accordo?”

“Ovviamente non era d’accordo. Ha accettato solo quando gli ho detto che avresti alloggiato a casa della cara Greta.”

“La signora Ruda? Ma-ma, vive a Bracciano? Il lavoro sarà a Bracciano?”

“Ma no, bambina, il lavoro è a Roma! E non alloggerai nella sua villa di Bracciano, ma a casa della figlia: la signora Mancini. Lei dovrebbe avere una figlia della tua età. Magari ti accompagnerà con la ragazza al colloquio.”

“Ma-ma…”

“Coraggio, bambina, è arrivato il momento che il pulcino spieghi le sue ali e… Mi raccomando, sebbene io non creda alla storia della maledizione… cerca di stare attenta… nella vita non si può mai sapere…”

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 Capitolo 3

 

 

“Zio, sono arrivata! Sì, certo, il volo è andato bene. No, non ho sofferto durante il viaggio. Come? Chi c’era seduto accanto a me in aereo?” Vidi due donne un po’ baffute fissarmi in modo truce e abbassai la voce. 

“Tutto a posto, zio, erano due signore di Orgosolo che andavano a trovare i parenti. Ora, però, sono arrivata all’uscita e ho visto il taxi. Ti faccio sapere come finisco il colloquio, ok?”

Quando presi quel taxi mi sentii un po’ come Colombo nel momento in cui toccò terra dopo anni di navigazione. E quell’euforia non era dovuta solo al viaggio o alla considerazione che per la prima volta fossi sbarcata in continente, ma soprattutto al fatto che sarei stata indipendente, senza più persone addosso per controllarmi o proteggermi. 

“Mi scusi, l’aereo ha fatto un po’ di ritardo.”

“Nun c'è problema!”

Gli sorrisi, non curandomi del sudore che gli scendeva sul viso. Era una giornata caldissima e io mi sentivo così carica di energia che, se avessi potuto, mi sarei messa ad urlare dal finestrino. 

“Dove la porto, signorì?”

“Roma centro, per favore, via di Corso Italia.”

Probabilmente anche il tassista percepiva il mio entusiasmo perché continuava a fissarmi dallo specchietto retrovisore.

“Da dove viene, signorì?” Mi disse con un simpatico accento romano. E se non fosse che quel taxi avesse un certo odore di formaggio e vino andato a male, forse, sarei stata più cortese.

Ma lui non si curò della mia indifferenza e, sempre guardandomi dallo specchietto, continuò a parlare.

“Ha 'n bellissimo accento inglese. Viene da Londra? C'ho portato tantissime modelle inglesi in 'sta machena!”

“Londra? Vengo da Muravera, la conosce?”

“Muravera? Mai sentita. Dove sta, in scozia?”

“Scozia? Risi sotto i baffi, quest’uomo sembrava più ignorante di Gavino, il garzone di zio Antonio, che a malapena sapeva contare le galline.  “Muravera sta in Sardegna, è un paese non troppo lontano da Costa Rey. Conosce Costa Rey?”

“Gajarde le vacanze in Sardegna, signorì? Ma, adesso, scommetto che è qui pe' 'na sfilata… 'na fregna come lei…”

Dopo tutte le cose assurde che mi aveva detto Antonio, iniziavo a guardare tutti gli uomini con un certo sospetto. E il modo di fare di quel tassista, mi sembrava decisamente sospetto. Di colpo mi tornarono in mente tutti gli avvisi che zio mi aveva propinato in quei tre giorni prima di partire. Oh! Era stato veramente esagerato. Aveva parlato senza sosta per ore e ore. Mi aveva talmente angosciato che in quel momento mi sembrò di sentirlo sussurrare: “Non stare mai sola con uno sconosciuto, non fidarti di nessuno e, soprattutto, diffida di chi fa il gentile, vuole offrirti da bere, mangiare, fumare e mai, mai odorare polveri bianche.” Come se Roma potesse essere piena di uomini pronti ad offrire droghe e bevande pericolose alle passanti. Ridendo mi immaginai quella scena: “Ehi, tu, femmina senza protezione, vuoi sniffare la mia polvere?” 

Ridacchiando ripresi a fissare la strada, ma quando passammo vicino alla Bocca della Verità saltai sul sedile cominciando ad agitarmi nel riconoscere monumenti ed edifici che, fino a quel momento, avevo visto solo in televisione.

“Nun è mai stata a Roma, signorì? Daje. Guardi che sole! A Roma è così tutto l’anno. E poi, nun je l’avete mica er Colosseo a Londra...”

“Le ho detto che sono Sarda...”

“Veramente, signorì? Er suo accento sembra più inglese de quello de ‘a regina Elisabetta” 

“Mio Dio, il Colosseo!”

Il tassista si girò ad osservarmi con un ghigno divertito. “Gajardo, e? Qui dietro c’è ‘a Fontana de Trevi, signorì, ‘a vuole vedè?”

“Vedere? La voglio proprio toccare con mano. Tanto, ho tempo.”

“Se 'o dice lei, signorì...”

Mi dimenticai immediatamente di tutte le raccomandazioni di Antonio e feci correre il taxi fino alla Fontana di Trevi dove lui, gentilmente, mi aspettò parcheggiato dietro ad un palazzo. 

Risalita in macchina, dopo aver lanciato una monetina, il tassista mi sorrise. 

“Ha visto che fontana, signorì? Nun c’avete fontane così a Londra...”

“Oh! È tutto così magnifico!” Ormai non badavo più al fatto che il tassista avesse scambiato il mio accento per quello di un’inglese.

Ero talmente entusiasta da quello che vedevo che lui subito mi propose di vedere altri monumenti.

“Qua c’è Piazza Navona, signorì. Che faccio, me fermo e fa 'na foto co' er cellulare?”

“Sì, sì!” Ero talmente felice da sentirmi confusa. “Certo!”

Così, mi portò in giro per la città per circa due ore e solo quando arrivammo in prossimità del palazzo dove avrei dovuto fare il colloquio di lavoro capii quanto fossi stata ingenua e quanto, invece, Antonio avesse ragione riguardo alla razza maschile…

“Sono 250 euri, signorì”

“Cosa?” Sbiancai, perdendo la voce. “Ma-ma, come è possibile?”

“Signorì, da voi in Inghilterra nun 'o guardate er tassametro? 'Sto mica s'è fermato quanno ha chiesto de vedè er Pantheon o Villa Borghese”

“Lei è un truffatore! Riuscii a dire, mentre avvampavo per la rabbia!”

Uscii dal taxi senza curarmi del via vai di macchine e persone che andavano e venivano in quella strada tanto larga quanto affollata. In poco tempo intorno a noi di formò un capannello di gente incuriosita dalle mie urla.

“Ma quale truffatore, signorì, ha chiesto lei de vedé tutti quei monumenti, tanto nun c’era fretta…”

Il tassista si grattò l’addome prominente e prese una bottiglia di vino rosso dal cruscotto.

Ecco da dove veniva quel fetore, pensai. Poi, furiosa, tolsi i soldi dal borsellino per pagarlo, solo che mentre lo aprivo mi cadde l’ombrello e quando mi chinai per raccoglierlo non mi accorsi di averlo preso a mezzo manico, come se volessi usarlo per dare legnate al tassista.

“Signorì, che sta a fa’?”

“Ora chiamo la polizia, brutto ladro che non è altro.” 

La folla intorno a noi aumentò, ma il tassista, non curante della confusione, mi strappò il cellulare dalle mani.

“Chi ti curra sa cugurra! (1) Sussurrai a denti stretti. Chissà perché quando uno perde la pazienza la prima cosa gli viene in mente è sempre un’imprecazione nel proprio dialetto.

Una risata si sollevò nel silenzio sceso intorno a noi.

E proprio mentre stavo per avventarmi su di lui, la folla si aprì e un uomo in abito scuro mi sorpassò, mettendosi tra me e quel brigante.

“Che cosa sta succedendo?” Chiese il nuovo arrivato.

“Questo signore sta tentando di fregarmi!” Farfugliai, agitando le mani.

“A signorì, ha chiesto lei de fa’ quer giretto.”

Quando la folla divenne enorme, Una vigilessa si avvicinò, guardando di traverso il tassista sudato.

“Chi ha fregato oggi Er Cicorietta?” Dopo quell’affermazione si girò verso di me, guardandomi come se fossi colpevole.

“L’hai già pagato?” 

“No, non ancora.” Quasi balbettai e l’uomo con l’abito scuro, dopo avermi squadrata da capo a piedi, si avvicinò al tassista con aria minacciosa.

“Ci divertiamo a raggirare le bambine, non si vergogna?”

Per qualche ragione imprecisa notai due iniziali nel taschino dell’abito scuro del mio salvatore: “D.A.”

L’uomo segui il mio sguardo fino alle mie mani tremanti mentre, ancora terrorizzata e nervosa, cercavo di chiudere il borsellino. Ma tremavo troppo per riuscirci.

“Quanto le deve la ragazza?”

“Lasci stare…” disse la vigilessa al galantuomo incravattato. “Questo omuncolo è noto per truffare le ragazzine straniere. Non è così Er Cicorietta?”

La vigilessa fece una smorfia verso il tassista, il quale sputò per terra con aria contrariata.

“Allora, come la mettiamo?” Aggiunse la donna, facendomi l’occhiolino.

“Ho capito!” disse il tassista, sbuffando e imprecando in romanesco. “Damme 50 euri e semo apposto.”

“Bene. Ora, ragazzina, cerca di stare più attenta perché Roma non è Londra, ci siamo capite?”

“Londra? Io-io, non so come ringraziarla, signora vigilessa!”

Mi girai per cercare l’uomo con l’abito scuro che per primo mi aveva difeso, ma sembrava scomparso e anche la folla, ormai, si diradava. Restavo solo io, la vigilessa e il tassista che puzzava di vino.

Ringraziai per l’ultima volta la donna che mi aveva aiutata senza riuscire a distogliere i pensieri dal mio ignoto salvatore. Forse gli uomini non erano tutti come diceva zio Antonio. Poi, un po’ turbata ed esitante, andai verso la sede dove avrei fatto mio colloquio di lavoro. La mia disavventura era alle spalle e ora mi sentivo pronta per conquistare il mondo. Chiusi gli occhi, ascoltando i battiti del mio cuore. Ero viva, ero sola ed ero sempre io. Non c’era il vento della Sardegna a riportarmi i suoni e i profumi della mia terra. Ma la mia vita era giunta ad una svolta. Me lo sentivo!

 


Note:

 (1) Chi ti curra sa cugurra! - È un detto in sardo quasi intraducibile. Le cugurre sono insetti conosciuti come forbicine. In genere si trovano nei vecchi libri. In Sardegna si dice che portino sfortuna. La frase si potrebbe tradurre come: “che ti rincorrano gli insetti che portano sfortuna…”



Angolo dell'autrice:

Grazie a tutti coloro che stanno leggendo, commentando o solo osservando questa storia. È la prima volta che provo a scrivere una storia originale e ancora non so se sarò all'altezza. Non ho ancora chiesto al mio carissimo Beta un supporto per riverdere questa storia visto che, come detto sopra, ancora non ho capito se sarò in grado di scriverla degnamente. Un commento aiuterebbe la sottoscritta a capire se è il caso di continuare...
Grazie a tutti coloro che leggeranno questa storia.
Vi sono riconoscente.
Un abbraccio virtuale a tutti.

 Shaara 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4
 

Il palazzo dove avrei fatto il colloquio di lavoro era quantomeno curioso. Sembrava un prefabbricato degli anni ottanta, immerso nel traffico cittadino tra le mura Aureliane e un bellissimo quartiere dai grandi palazzi stuccati. L’ingresso era modesto. Da un lato c’era una portineria con dei tornelli che impedivano l’accesso diretto agli uffici. I toni del blu e del rosso davano un tocco di colore agli arredi e ai poster appesi alle pareti. Una musica allegra faceva da sottofondo al chiacchiericcio di numerosi gruppi di persone che sostavano nello spiazzo esterno o nell’androne prima dei tornelli. Un via vai di profumi e persone entravano e uscivano dalle porte scorrevoli e io, un po’ spaesata, rimasi per un attimo a guardare accanto all’ingresso. Una hostess mi venne incontro. 

“Posso aiutarla?”

“Sono qui per un colloquio di lavoro”

“Bene, è nel posto giusto! Mi segua, la accompagno al piano delle Risorse Umane.”

Prima di salire in ascensore, la donna fece un cenno e un gruppetto di ragazzi si avvicinò per ascoltare le sue istruzioni. 

Per la prima volta avrei fatto un colloquio attinente ai miei studi. Ero veramente carica! Non potevo assolutamente perdere quell’occasione se non volevo finire a fare la perpetua(2) a zio Antonio o, peggio ancora, la badante a tutte le vecchiette del mio paesino di campagna. No, sarei stata assunta e chissà se avrei sentito la nostalgia del profumo degli agrumi in primavera o se avrei rimpianto il periodo della vendemmia, i piedi sporchi e l’odore del mosto. Ma non avevo studiato ingegneria per fare la contadina. No, avevo dei sogni e se fossi stata attenta, grazie al mio impegno, avrei trovato un lavoro dignitoso. Quello era il mio unico scopo o almeno era quello che mi dicevo.

“Nervosa?”

L’hostess sorrise e un riga di sudore mi scivolò lungo la schiena.

“Oh, sì, parecchio!”

Quando l’ascensore si aprì ci trovammo davanti ad una grande sala con delle sedie di legno, le pareti di vetro e numerose luci artificiali nascoste tra i pannelli del soffitto. Quella stanza era tutto ciò che mi separava dal mio destino. Peccato per l’attesa che sembrava prospettarsi.

“Ci sarà da attendere un po’...” mi disse l’hostess, abbozzando sorriso.

“Aspetterò...”  

Poi, notai una sedia vuota e con un salto mi lanciai per afferrarla. Un brusio non troppo contenuto e un denso odore umano si sollevò tutto intorno. Gli ascensori salivano e scendevano. Profumi e parole si accalcavano, occupando ogni spazio. Un po’ annoiata adocchiai una macchinetta di vivande, pensando di prendere da bere.

“Mi terresti la sedia?” domandai al ragazzo seduto accanto e lui, sventolandosi con un foglio, mi rispose:

“Per li pescetti, se te la tengo!”

Dopo due ore avevo individuato la stanza dove avvenivano i colloqui e la donna, che di tanto in tanto si affacciava per chiamare le persone, non mi sembrò poi così cattiva come inizialmente avevano detto i primi intervistati. Aveva i ricci scuri, il naso aquilino, un tailleur beige e delle bellissime decoltè tacco dodici. E la voce non era così stridula come diceva il ragazzo di colore che continuava a sudare nella sedia accanto.

Un’altra mezza minerale e, dopo tre ore, l’odore e la calca superavano la mia sopportazione.

“Tu in che cosa sei laureata?” Mi chiese il ragazzo di colore, asciugandosi la fronte.

“Ingegneria, e tu?”

“Sei fortunata, perché stanno cercando dei tecnici.”

Sollevai un sopracciglio, ingoiai un altro sorso d’acqua, e gli sorrisi.

“Per li pescetti!” biascicò “Scusami, è che sono un po’ sofferente… il caldo è insopportabile e, con tutta questa gente, l’aria condizionata è come se non ci fosse!”

“Già...” risposi, senza fargli notare che lo stavo studiando. Sembrava un tipo affabile, di pelle scura, grassoccio, vestito con una camicia bianca e un pantalone di lino blu che sembrava scoppiargli addosso.

“Per li pescetti, vedi? Sono nervoso.” Si asciugò la fronte con un fazzoletto e mi porse una mano. “Piacere, mi chiamo Girolamo, ma gli amici mi chiamano Ciccio.”

“Piacere, mi chiamo Clementina” allungai una mano felice di parlare con qualcuno.

“Per li pescetti! Scusa la distrazione, sono laureato in lettere. Sembro rintronato, non è vero? È che tra caldo ed emozione non riesco più a contenermi!”

Sorrisi, cercando di sembrargli comprensiva. “In lettere?”

“Sì, e speriamo che abbiano bisogno di scrittori perché è l’unica cosa che so fare… se dovessero farmi anche solo una domanda di matematica...”

“Non sapevo che alla Com cercassero scrittori…”

“Infatti, non li stanno cercando… però io cercherò di commuoverli… So fare anche le facce buffe, sai? Per li pescetti, se so fare le facce buffe!”

Lo guardai divertita e lui fece una faccia così comica che mi strappò una risata. Vidi le persone che affollavano la stanza girarsi nella nostra direzione e sollevai le spalle.

Dopo quattro ore d’attesa la camicia bianca di Ciccio era appiccicata al suo busto, mettendo in evidenza i chili di troppo, mentre io avevo bevuto così tanto che cominciavo ad avere esigenze diverse dell'ammazzare il tempo.

“Senti” dissi sottovoce. “Sai dov’è il bagno?”

Ciccio mi indicò un corridoio dietro al vetro trasparente.

“Lì, mi pare. Ma, fai attenzione, questo posto sembra un labirinto.”

“Tienimi il posto, sto tornando. E chiamami se senti il cognome Loi, va bene?”

“Per li pescetti se lo farò! Mi sentiranno urlare per tutto il palazzo”

Risi, prendendo le bottiglie che avevo scolato, e mi avviai per il corridoio. Ormai avevo la vescica satura e quando vidi il bagno, capii che avevo già aspettato troppo per alzarmi.

“Mi sto pisciando…”

Purtroppo, quando aprii la porta del bagno, la donna delle pulizie, con una smorfia, mi fece capire che non era il caso di restare e mi avviai più avanti.

Con le gambe traballanti fermai una signora molto elegante che camminava a passo svelto in direzione opposta.

“Scusi, saprebbe dirmi dov’è il bagno?”

“Là!” disse la donna, indicando un angolo in fondo al corridoio. Comunque, se è proprio urgente, dopo la curva ci sono le scale e anche al piano di sopra ci sono altri bagni. Però, attenzione, oggi c’è il Consiglio d’Amministrazione e ci sarà un po’ di movimento, meglio stare alla larga dalla sala riunioni.

“Oh, perfetto, grazie delle spiegazioni!” 

La ringraziai, accelerando il passo, potevo resistere ancora per poco. 

“Mi seu piscendi...”

A gambe strette mi avviai per un corridoio tutto uguale, bianco, spoglio, con delle porte rosse. Unico dettaglio un cartoncino appeso ad un lato di ogni porta, con i nomi dei dipendenti incorniciati. Pensai che se mi fossi persa non avrei mai ritrovato la strada in un ambiente così impersonale e, per non sbagliarmi, contai le porte che mi separavano dal primo bagno.

“Mi seu piscendi!” (3)

Arrivai dietro l’angolo stringendo i denti. Superai una fotocopiatrice e mi gettai verso la scritta “Donne” ma, quando aprii l’antibagno, trovai un cartello davanti ad ogni porta: “Guasto - guasto - guasto”

“Non è possibile! Mi seu piscendi!” (3) esclamai stremata e, come una pazza, mi gettai per le scale. Camminare era diventato impossibile e, solo facendo training autogeno, arrivai all’ultimo gradino. 

“Mi seu piscendi, mi seu piscendi...” (3) 

In quel momento si aprirono tutti gli ascensori e un gruppo di camerieri invase l’androne con vivande e carrelli. L’odore di sugo e crostata di mele mi arrivò sotto il naso. 

“Qualcuno sta per mangiare” pensai e incuriosita e rimasi immobile ad osservare i numerosi vassoio passarmi davanti.

Un certo languore mi ricordò che non mangiavo dalle sei del mattino e con l'acquolina alla gola seguii con lo sguardo i camerieri muoversi in fila indiana verso un corridoio stretto. 

“Mi sto pisciando…”

Solo quando si allontanarono mi venne in mente che se mi avessero preceduto avrei dovuto aspettare che passasse tutta quella processione prima arrivare alla toilette. A quell’idea mi misi a correre e, con uno slalom degno di un corridore professionista, zigzagai tra i carrelli lanciandomi verso l’angolo opposto. Ero talmente allo stremo delle mie possibilità che, senza volerlo, andai addosso ad una signora con un tailleur beige e dei bellissimi tacchi dodici che, nell’impatto, fecero un balzo fino ai tramezzini al prosciutto. Lei però non cadde subito ma, dopo tre giri su se stessa, mi scivolò addosso. 

“Mi seu piscendi” sussurrai a denti stretti.

Sbattemmo così forte che ruzzolai per terra mentre lei si sfracellò contro i carrelli, facendo piovere una minestra rossa e densa contro le pareti, sui suoi ricci neri, sui camerieri, e sull’abito chiaro che si chiazzò diventando più simile al mantello di un giaguaro.

La donna cominciò ad urlare inferocita e quando con un fazzoletto si tolse il sugo dalla faccia riconobbi il naso aquilino e la donna dell’ufficio assunzioni. 

“Porca paletta!” gridai e, nel tentare di darmela a gambe, girai l’angolo del corridoio a tutta velocità. 

“Toilette Donne” la scritta mi apparve come un miraggio, così mi affrettai a raggiungere il bagno prima di farmela sotto ma, proprio in quel momento, si aprì una porta e un centinaio di persone in abito blu si riversarono nel corridoio, parlando animatamente in numerose lingue straniere e costringendomi a retrocedere verso la donna che ancora gridava come una pazza!

“Se ti prendo di scotenno! Tu, qui, hai chiuso! C-h-i-u-s-o! Capito?”

Quella voce stridula mi terrorizzò fino alle ossa o forse era la voglia di andare al bagno, ma di certo fu la disperazione a costringermi a prendere a colpi di tacchi i passanti in modo da riuscire ad arrivare alla meta. Gli eleganti signori si spostavano gemendo e sollevando i piedi, la donna urlava, i camerieri cercavano di pulire e io, ormai a carponi, cercavo ancora di raggiungere la toilette. Sgattaiolai piano piano da sotto un carrello ma, prima di riuscire ad aprire la porta che bramavo, la collana che portavo al collo si incastrò sul bottone di una giacca da uomo, facendomi fermare.

Un giovane mi afferrò per un braccio.

“Che diavolo stai combinando?”

Aveva i capelli scuri, uno sguardo maligno e il sorriso di un uomo che non si era mai divertito tanto in vita sua.

“La ragazza del taxi!” disse sottovoce e io sbiancai nel riconoscere il giovane che mi aveva aiutato poche ore prima.

 

Note:

(2) La perpetua è una donna, nubile, che serve il sacerdote, in genere come domestica. Questo nome venne esteso alle donne di servizio che restavano presso le famiglie per cui lavarovano per tutta la vita. Oggi questa denominazione è in disuso, ma resta nota la sua figura.

(3) “Mi seu piscendi!”: “Mi seu” in dialetto campidanese si può tradurre come: “mi sto”, piscendi non merita traduzione :-)


Angolo dell'autrice:

Grazie infinite a chi sta leggendo questa storia a chi l'ha aggiunta tra le preferite o seguite e anche a chi è capitato qui per sbaglio. Non so ancora se vale veramente la pena di scriverla o se è talmente banale da meritare l'autocombustione... Io ci provo... per ora senza revisione...
Se vi capita di passare di qua, e vi sembra il momento giusto, fatemi sapere che cosa ne pensate ;-)
Baci galattici e un po' sardi per tutti!
Shaara

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5


“Che cosa ci fai qui?” mi disse tra i denti. “Non dirmi che ti sei cacciata in un altro guaio?”

Solo in quel momento mi accorsi di quanto l’uomo in abito scuro fosse alto, giovane e attraente. Sarà stato circa un metro e ottanta, un’età che poteva andare dai venticinque ai trent’anni, i capelli scuri, gli occhi verdi, la figura magra e slanciata e un sorriso talmente maligno da farmi impallidire con uno solo sguardo.

“Io-io... stavo cercando un bagno”

“Sei qui per andare in bagno?”

“No” scossi la testa. “Sono qui per un colloquio”

Delle urla si elevarono sul fitto chiacchiericcio dei presenti. 

“Dov’è quella scelerata che ha combinato questo scempio?”

La donna con la quale mi ero scontrata urlava a più non posso, cercandomi come un’indemoniata in mezzo a quel via vai di persone. Il rumore di stoviglie si fece più forte e una folla di eleganti uomini d’affari si avviò verso al rinfresco che era stato allestito accanto alla sala riunioni, nonostante il mio disastroso intervento. Una ventata di profumi e voci virili mi circondarono in un istante.

“Dove ti nascondi?” Urlò ancora la donna, ripulendo il tailleur con un fazzoletto sporco e facendosi strada tra ridolini e smorfie di disapprovazione dei presenti. Non potevo fare altro che nascondermi sperando di non essere notata. Per sfuggire alla sua vista mi abbassai, cominciando a tremare come una foglia. Ero talmente sconvolta che per poco non svenni dal terrore.

“Che cosa stai facendo?” disse il giovane in abito scuro mentre mi chinavo per passare in mezzo alle sue gambe o meglio quella era la mia intenzione, ma chissà lui che cosa pensò…  visto il sorriso malizioso che aveva sul volto.

“Allora?” mi disse, ridacchiando e tirandomi su per un braccio.  E sarà stato per la confusione o forse perché non sapevo più che cosa fare che presi la lettera dalla borsa e la misi in faccia al mio giovane inquisitore.

“Vede? Ho una lettera da presentare per il colloquio!”

La prese dalle mie mani, restando attonito per qualche secondo. Poi, dopo avermi guardata più volte, si mise a leggere l’intestazione:

“All’attenzione dell’Onorevole Alfonso Amat, Marchese di San Filippo, Marchese di San Maurizio, ecc.”

Aprì la busta e cominciò a fissare il foglio con occhi sgranati. Per un istante alzò lo sguardo, scuotendo la testa come se fosse incredulo, incurvò le sopracciglia, poi girò la busta, riprendendo a leggere a voce alta:

“Mittente: Donna Elita Carmen Josefa Osorio, Marchesa di Quirra, Baronessa di Uras ecc.

Sospirò, cercando di mantenere un certo controllo, e riprese a studiarmi con attenzione.

“Sei sua parente? La marchesa non farebbe mai niente per una persona per così dire…”

“Per così dire?” Provai un certo moto di rabbia nel percepire la sua allusione al mio status non proprio di alto livello.

“Normale” aggiunse lui, corrucciando la bocca in una smorfia di cinismo “È cosa nota a tutti che Donna Elita non degni della sua considerazione nessuno a meno che non sia un suo parente o di nobile origine. Quindi tu...”

“Io?” Portai le mani avanti “Io, no, non sono niente. Solo un’orfana… Però, ho lavorato per lei questa estate.”

Mi sentii a disagio nel dover esporre delle parti così private della mia vita, tantopiù che il giovane in abito scuro non aveva smesso di tenermi per un braccio e, se quello non fosse bastato a farmi agitare, continuava a fissarmi come se gli fosse venuto in mente qualcosa di urgente che lo portò a stringermi ancora più forte e trascinarmi dentro all’ascensore.

“Mi scusi, si è accorto di aver aperto la mia lettera? Come farò a mostrarla già aperta?” Provai a replicare, sentendomi smarrita ma lui, ignorando totalmente le mie lamentele, cliccò il tasto per chiudere le porte.

A mia discolpa posso dire che era vero che ero stordita, che me la stavo facendo sotto e non avevo ancora raggiunto un bagno, che avevo combinato un casino al piano di sopra, che avevo raccontato parte della mia vita ad uno sconosciuto, ed era vero anche che, come diceva zio Antonio, ero una facile preda per iene affamate e uomini senza scrupoli, ma farmi rubare la lettera di raccomandazione per il mio primo colloquio di lavoro, mi sembrò davvero troppo. Persino per una ragazza ingenua e stupida come me. Mai come allora mi sentii così fragile. Come avevo potuto lasciarmi raggirare in quel modo? Fidarmi di estraneo, poi... Come avevo fatto a non infuriarmi e a reagire, mentre lui la leggeva? Ero proprio un’idiota! Forse aveva ragione zio Antonio nel vedere un diavolo in ogni essere vivente di sesso maschile e io ero solo una bambina che si buttava addosso al primo mascalzone che cercava di fregarla. Ma non gliel’avrei fatta passare liscia a quel tizio. Forse ero veramente una piccola provinciale che non aveva mai lasciato la campagna, ma quanto a lingua e battibecchi non mi avrebbe battuto nessuno. Mi alzai sulle punte dei piedi per cercare di raggiungere i suoi occhi e fargli sentire la mie ragioni con uno sguardo infuriato.

“Ora, lei mi rende la mia lettera!” 

Alzai le mani per prendere la busta, ma lui, con fare goliardico, la sollevò oltre alla mia portata. Avrei voluto strozzarlo...

“Taci e fai fare a me…”

Fissai le sue labbra incurvate in un ghigno divertito, lui se ne accorse e allargò il sorriso. Una strana sensazione mi percorse nel sentirmi non del tutto indifferente al suo fascino e un'insolita paura attanagliò i miei pensieri.

“Devi fidarti” sussurrò, posando le labbra dietro al mio orecchio. Ebbi un sussulto a quello strano contatto e lo guardai di traverso. Forse non ero solo ingenua come cappuccetto rosso nella foresta, peggio, in qualche modo, mi ero affidata al lupo. Dovevo reagire immediatamente.

“Lei non farà un bel niente! E si sposti! Non mi tocchi, ha capito? E mi renda la lettera! Perché...  perché ride?”

“Da quando si va ad un colloquio di lavoro vestita per un funerale?”

Notai che gli brillavano gli occhi e che si tratteneva a stento dal lasciarsi andare ad una fragorosa risata. Questo mi fece imbufalire fuori misura, anche se, a dire la verità, avevo solo dato retta ad Antonio nel scegliere l'abbigliamento per l’occasione. 

“Mi raccomando: accollata e pudica” erano state la sue parole e io gli avevo dato retta. Sentendomi ridicola agli occhi di quello sconosciuto mi guardai nello specchio, ma il mio tailleur classico, a gonna lunga, nero, abbinato con la maglietta color fumo, non mi stava tanto male. Se, poi, fossi stata ad un funerale sarebbe stato perfetto, ma forse lì...

Quando l’ascensore si aprì mi ritrovai nel piano dove si tenevano i colloqui, notai subito i colori accesi dei presenti. Era estate e faceva caldo e nessuno sembrava vestito di nero, oltre a me, ovviamente. Chissà perché non l’avevo notato prima… Poi, con stupore, mi accorsi degli sguardi increduli che ci stavano scrutando e, cercando di mostrare indifferenza, levai le mani che tenevo strette sul collo del giovane per cercare di riprendere la lettera (o forse volevo strozzarlo) e lui, sempre ridendo, si ricompose.

“Non è come sembra…” provai a balbettare, ma il mio viso prese fuoco per la vergogna.

Un silenzio glaciale interruppe il brusio di fondo e, facendo finta di sistemare la gonna, uscii a testa alta dall’ascensore.

Ingoiai la saliva e strinsi le gambe, cercando di non pensare alle pulsazioni che la mia vescica faceva arrivare fino alla gola. Forse stavo per esplodere. Forse l’avrei fatta lì o peggio - mentre facevo il colloquio. Di fatto, un brivido freddo si aggiunse alla mia schiena sudata, alle gambe strette e i muscoli tesi per l’urgenza. 

Come se nulla fosse, il giovane dall’abito scuro mi trascinò fuori dall’ascensore, fendendo l’odore umano e il caldo infernale. Delle urla rimbombavano da un corridoio lontano. 

“Loi, dove sei? Loooooooi, ti hanno chiamata!”

Ciccio apparve più accaldato di quando l’avevo lasciato e la sua bocca era pallida e spalancata nel gridare il mio nome.

“Loiiiiii! Dove diavolo sei andata a fare pipì, in Tanzania?”

Con il viso paonazzo mi preparai per correre verso di lui, ma la stretta del mio tenace accompagnatore mi impedì di raggiungerlo.

“Lascia perdere e vieni con me.”

Chissà perché è impossibile accorgersi di avere davanti qualcuno di importante quando, proprio quel qualcuno, decide di darti attenzione. Forse perchè uno pensa che le persone importanti non ti degnino mai di uno sguardo. Però un dubbio mi sfiorò la mente quando vidi i numerosi aspiranti al colloquio farsi da parte. Cosa pensai, esattamente, non saprei dirlo. Osservavo tutto come al rallentatore: la gente che si faceva da parte per farci passare. I sorrisi maliziosi. Qualche occhiata di invidia. E un insopportabile brusio di sottofondo:

“Hai visto chi è?”

“Lo facevo più basso dalle foto sul giornale”

“E quella?”

“Non sarà mica la sua ragazza?”

Poi, ogni voce cominciò a vorticare nei miei pensieri come un’eco lontana. Come se ogni immagine non fosse altro che un frammento di una scena già vissuta: il giovane dall’abito scuro che apriva la porta dell’ufficio assunzioni. I dipendenti inebetiti davanti al suo ingresso. Le presentazioni ossequiose. Le strette di mano. Lui che andava via raccomandandomi ai presenti e, infine, le domande del colloquio… fu come un vortice di emozioni e sorrisi. Non pensavo che, anche stordita in quel modo, gli argomenti del mio corso di studi potessero fluire come un fiume in piena dalle mia labbra. Parlai ininterrottamente e senza confondermi nonostante l’ansia che provavo. Tutto accade come nei miei sogni più belli:

La commissione che discuteva estasiata:

“Quindi ti vedresti bene in un reparto di Engineering?”

“Perché non Innovation?”

“Ma che cosa state dicendo? Non avete sentito che competenze all’avanguardia? Non possiamo fare a meno di lei nel reparto di Automation!” 

Mi sembrò di vivere dentro una favola. Bellissimo! Fino a che non apparve lei: la donna bruna delle risorse umane. Con il tailleur macchiato di sugo, i capelli elettrici parzialmente incollati alla fronte, un tacco dodici spezzato e l’aria di chi sta per compiere una strage. La sua faccia trasfigurata mi squadrò incredula nel riconoscermi. Sembrava un drago pronto a sbranarmi. Ero finita!

“Tu!” 

Neanche in un film dell’orrore avevo sentito una voce tanto terrificante. E, se non fosse stata raggiunta da un collega che le disse qualcosa sottovoce, lasciandola pietrificata, sono certa che mi sarebbe saltata al collo. Lei, però, assunse un’espressione inquietante e preferii tacere.

“Tu!” ripeté la donna, sempre più livida dal furore.

“Dimmi: ti piace interloquire con le persone?”

“Interloquire?”

Quello fu tutto quello che mi ricordai mentre raccontavo gli avvenimenti della giornata alla Signora Greta che era venuta a prendermi con sua figlia.

“Mi sembra che il colloquio sia andato bene, non ti sembra?”

Mi disse con dolcezza, sporgendosi dal sedile passeggero della mini minor gialla di sua figlia.

“Non saprei, è il mio primo colloquio! Ma gli ingegneri della Com sembravano stupiti della mia tesi e anche molto interessati ad ascoltarmi.”

“Tuo zio ha sempre detto che sei una ragazza in gamba” aggiunse la signora Mancini.

La signora Mancini era una donna di mezza età, figlia della signora Ruda e madre della famosa Alina. Manuela Mancini era una donna magra, dall’aspetto materno e il sorriso sulle labbra. Non giovanissima, aveva sposato un capitano della Marina che stava spesso in missione all'estero. Un tipo molto vivace, a detta di zio Antonio, mentre lei, di carattere molto mite e gioviale, aveva preso casa a Roma, dove adesso viveva con la figlia nei mesi invernali, preferendo spostarsi in Sardegna o nella villa sul lago di Bracciano solo in estate quando il caldo rendeva la città un luogo insopportabile.

La donna, sentendo il mio silenzio, si girò per sorridermi e subito mi affrettai a risponderle.

“Una ragazza in gamba? Zio è sempre troppo buono.”

In quel momento passammo accanto ad un anfiteatro romano e con estrema meraviglia attacchi il viso sul vetro per non perdere neanche uno scorcio. La signora Ruda mi vide dallo specchietto retrovisore e aggiunse:

“Quello che Antonio non ci aveva detto è quanto tu fossi deliziosa e bella.”

“Bella? Io?”

Guardai il mio abito da lutto, domandandomi se mi stessero prendendo in giro.

“Sei veramente una splendida ragazza, mia cara” aggiunse la signora Mancini. “Inoltre, ti trovo incredibilmente somigliante a tua madre! Gli stessi capelli rossi, gli occhi azzurri.”

“Mia madre?”

“Oh! Sì, e se ti dovesse vedere adesso quel brutto ceffo del Sanjust penso che gli verrebbe un infarto!”

“Hai ragione! E se lo meriterebbe quel tipaccio!”

“Parlate di mio padre?” Mi aggrappai al sedile, cercando di mostrare un certo distacco. “Pazienza, per quell’uomo… io non ci penso più.”

“Puoi non pensarci, mia cara, ma resta tuo padre...” la signora Ruda mi fissò con aria seria. “Tu sei la sua unica figlia e, oltre ai suoi beni, un giorno, potresti ereditare anche il titolo nobiliare. Non credi che ti spetti di diritto?”

A quel punto scoppiai a ridere.

“Un titolo? Ma la nobiltà italiana non è stata dichiarata decaduta con la Repubblica?”

“La nobiltà Italiana, mia cara, ma molti titoli appartenenti alle grandi casate della Sardegna sono stati emanati dai regnanti spagnoli durante il loro dominio… e confermati nell'Elenco de Grandezas y Titulos Nobiliarios Espanoles fino ai giorni nostri…”

“Quindi, mio padre, sarebbe veramente un barone? Anche se non ho ben capito di quale nazione...”

La signora Ruda annuì con la testa.

“Signora, io non so cosa dire… ma, poi, in fondo, a che cosa può servire un titolo ai giorni nostri? Io non sono che una provinciale…”

“Non sottovalutare un titolo, anche se ti sembra obsoleto, ti darà accesso ad una discreta ricchezza e connessioni…”

Disse la signora Mancini.

“E le connessioni sono tutto ai giorni nostri, mia cara. Inoltre, non sottovalutare il fatto che apparterresti ad una delle famiglie che hanno fatto lo storia.” Prosegui la signora Ruda, fermandosi per un momento a pensare. “La famiglia Sanjust può vantare la sua ascendenza persino da Carlomagno! E devi considerare che una sola vita, mia cara, non è che un cerino che si spegne con la sua stessa fiamma. Ma appartenere ad una casata è qualcosa che trascende il tempo.”

Sua figlia si voltò a sorridermi, vedendomi assorta nei miei pensieri. 

“La bellezza che tu possiedi non è altro che il mezzo più usato per arrivare ad una di quelle famiglie, a quella ricchezza e connessioni… Ma tu immagina, bambina mia, di poter avere ogni cosa.”

Mi sorrise ancora una volta.

“È per tua madre, capisci?”

Disse ancora la signora Ruda.

La guardai attonita, non sapendo cosa rispondere. Antonio mi aveva abituato a pensare a me in modo umile e le mie uniche ambizioni erano quelle di poter vivere senza dover dipendere dalla benevolenza di altre persone. Sapevo della triste storia di mia madre, Antonio me ne aveva parlato. Mi aveva anche accennato delle ricchezze della mia famiglia paterna ma, poiché riteneva quell’uomo più pericoloso che utile, mi aveva pregato di dimenticarlo. Non avrei mai immaginato che in gran segreto, con il supporto delle sue vecchie amicizie, non avesse mai smesso di sperare in un mio riconoscimento legale. Ad ogni modo, non era un problema che mi opprimeva come quel certo bruciore che mi attanagliava da troppo tempo. Sentendo di nuovo le pulsazioni che dalla vescica mi stringevano la gola mi resi conto di non essere ancora riuscita ad andare in bagno. La mia ansia aumentò, trasformandosi in irrequietezza quando entrammo in galleria, al punto che la signora Ruda, fissandomi con aria allarmata, mi disse:

“Mia cara, ti vedo turbata, non volevamo farti agitare in questo modo…”

“Dimmi, tesoro” sussurrò con dolcezza la signora Mancini, accostando la macchina contro un marciapiede e girandosi a guardarmi con aria preoccupata. “Che cosa possiamo fare per farti di nuovo sorridere?”

Io fissai entrambe le donne e, arrossendo, mi aggrappai al sedile.

“Ecco… sapreste indicarmi un bagno? È urgente…”
 

 

Angolo dell'autrice:

Grazie infinite a chi sta leggendo questa storia e a chi è capitato qui per sbaglio. 
Se per caso vi avanza tempo, aggiungete questa storia tra quelle seguite, preferite o ricordate. Vi basterà cliccare sulle icone in alto a destra e il gioco è fatto. Per voi è solo un click, per me sarà un dono prezioso.
Un abbraccio a tutti <3
Shaara

Ps1: 
ho visto che riesco a scrivere uno o due capitoli a settimana, quindi, forse è più facile se ci diamo appuntamento. Ci vediamo tutti i mercoledì e la domenica dopo le 18. Se sarò troppo impegnata con il lavoro pubblicherò solo la domenica. Un'abbraccio e ci vediamo prestissimo!

Ps2: Carissimi lettori scusate se sto tardando a rispondere alle recensioni. Sto dando la priorità alle letture arretrate, ma presto sarò da voi.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6


La casa romana della signora Mancini era una villetta singola, situata tra eleganti palazzine basse degli anni ‘70. Era bianca con le pietre a vista sopra gli archi delle finestre e uno scudo di legno sopra la porta. Tutt’intorno alla casa si trovava un grande giardino con delle siepi, alberi da frutta e graziosi vasi di fiori. Di fronte al patio, immerso in un prato verde, si trovava un gazebo con un salottino in vimini bianco e, poco oltre, una piscina rettangolare con delle sdraio intorno. Una stradina di ciottoli bianchi accompagnava verso la cancellata in ferro battuto che separava il terreno dalla via principale.

Davanti alla porta, una coppia di filippini aspettava il nostro arrivo. Entrati in casa, dopo un piccolo ingresso, si accedeva ad un grande salone arredato a metà tra lo stile antico e l'etnico. I muri erano ricoperti di quadri alternati da nicchie in cartongesso nelle quali si trovavano delle statue di marmo. In fondo al salone si vedeva una porta a vetri colorati che probabilmente portava alle altre stanze e alla cucina. Fu proprio da quella porta che uscì una ragazza mora dall’aria allegra e gioviale.

“Bentornate!” 

“Tesoro, guarda chi è arrivata?”

La ragazza ci venne incontro saltellando. Diede un bacio alla signora Mancini e uno alla signora Ruda, poi si girò verso di me allungando una mano.

“Ciao, Clem, ti ricordi di me? Sono Alina. Ci siamo viste a Muravera, a casa di Antonio.”

Alina era di media statura, magra, con i capelli neri a caschetto e un jeans talmente stretto che se fosse andata dal ginecologo non avrebbe dovuto toglierlo per fare la visita. A parte i gusti discutibili sui jeans, sembrava una ragazza spontanea e sincera. In quel momento mi ricordò la ragazzina che avevo conosciuto da piccola, forse meno timida e senza l’apparecchio ai denti. Anzi, sicuramente molto meno timida visto che, senza aspettare una risposta, mi abbracciò con calore.

“Che piacere rivederti, Clem!”

Rimasi pietrificata, da noi non si usava manifestare tutto quell'affetto senza conoscersi bene e, leggermente sconcertata, ricambiai il suo saluto.

“Mi ricordo di te…”

Lei sorrise, agitando una mano in aria. “Bugiarda!” E mi abbracciò di nuovo. “Non importa! Allora, ti hanno presa alla Com, così, tutta vestita di nero? Si saranno toccati qua e là, mentre eri girata...”

“Alina!” La madre fece una faccia sconcertata. “Non si dicono certe cose. “Piuttosto, fatti raccontare com'è andato il colloquio.”

La signora Mancini si girò verso la madre per aiutarla a togliersi la giacca e un voluminoso cappello con le piume. Dopo, con delicatezza, la prese a braccetto e l’aiutò a sedersi sul divano.

“Alina non far affaticare la nostra ospite.” Disse la signora Ruda, cominciando a dare ordini. “E tu, Clementina, vieni a sederti qui che faccio portare qualcosa da bere.”

La domestica, una filippina di mezz’età e l’aspetto robusto, si avvicinò alla signora.

“Cosa potto pottare, signora?”

Mentre la signora Ruda dava indicazioni io e Alina ci sedemmo accanto a lei, guardandola con stima e simpatia.

“Mamma” disse a voce bassa la signora Mancini “visto che Clementina sarà stanca, perché non facciamo portare il pranzo?”

Le due donne cominciarono a discutere e Alina, afferrandomi per una mano, ne approfittò per trascinarmi fuori dal salone.

“Vieni, ti mostro la stanza.”

La seguii oltre la porta, fino alla zona notte della casa, riconoscibile per un corridoio rettangolare su cui affacciavano numerose porte. Le nostre stanze erano attigue, molto simili sia nella grandezza che nell'arredamento, solo che la sua era rosa e piena di foto mentre la mia era verde e decisamente impersonale. Un letto in ferro battuto bianco, con comodino e una sedia abbinati, un tavolo di legno con uno specchio, un puff e un'enorme cabina armadio. La mia vista cadde sulla nuvola di piccoli cuscini a forma di caramella e sognai di buttarmici sopra, dimenticando quella faticosa mattinata, ma Alina mi spinse in camera sua come se stesse per esplodere una bomba.

“Vieni, dobbiamo organizzarci! Tra una settimana tornerà papà dall’estero e mamma vorrà festeggiare. Ti ricordi le feste della mamma?”

“Alina, non vorrei deluderti, ma non ricordo molto delle vostre feste. Forse, una volta sono venuta qui, in Continente, ma non in questa casa. Credo che fosse quella di tua nonna.”

“È vero, Antonio non ti portava. Diceva sempre: “le feste non sono per le bambine.” Ma sapevamo tutti che era una scusa per tenerti lontana. Mamma pensa che tuo zio sia ossessionato dall’idea di proteggerti.”

“Alina, è per la maledizione… cioè, non c’è una vera e propria maledizione, ma lui ritiene che sia mio nonno che mia madre siano morti a causa di un amore  sbagliato, e teme che possa capitare anche a me. Io, comunque, faccio molta attenzione a non mettermi in pericolo...”

Alina si lasciò cadere nel letto, immergendosi nei suoi cuscini a forma di caramella.

“Conosco la storia. Mia madre conosceva la tua e mi ha sempre parlato di lei come di un angelo caduto dal cielo e nonna era una cara amica di tuo nonno. Di certo sono stati entrambi ingenui, ma non si muore per amore, semplicemente, le cose accadono... Non devi pensare che debba per forza capitare anche a te.”

“Oh, no! Io non ci penso. Per ora tutto quello che voglio è trovare un lavoro.”

Alina giocherellò con un cuscino, come se fosse sovrappensiero, poi si alzò di scatto per andare verso al suo armadio, aprendo una delle ante.

“Un lavoro, dici?” Si mise in punta di piedi per prendere un vestito. “Guarda qui, penso di mettere questo abito per la festa, ti piace?”

Il suo abito consisteva in qualcosa di minuscolo in tulle di organza rosso. Una fila di brillantini sul bustino foderato,  niente spalline e una gonna svolazzante con due o tre micro sottane dello stesso colore. Per i miei canoni di castità, non l’avrei messo neanche a Barbie-Prostituta, però, salvo lasciar cadere la mascella, non riuscii a dirle quello che pensavo, e me ne uscii con un timido: “sembra grazioso!?”

Lei rise e mi venne accanto. 

“Quindi, se ho capito bene, non hai un ragazzo?”

“Un ragazzo?? No, no! Nessun ragazzo.” 

Cercai di mostrarmi indifferente, non mi sembrava doveroso raccontarle che Antonio mi stava così addosso che avevo faticato persino ad andare alla cena di fine corso. Avere un ragazzo, poi… Comunque, a parte qualche cotta, peraltro durata pochissimo, non mi ero mai innamorata di nessuno. Avevo pensato persino di essere… beh, dell’altra sponda, ma mi ero accorta di non provare attrazione per le ragazze. In seguito, avevo conosciuto Mirko all’università e per colpa sua avevo passato non so quante notti insonni. Ma dopo averlo conosciuto bene, mi ero accorta che mi era indifferente. Forse, ero anaffettiva oppure non avevo trovato la persona giusta. Ad ogni modo, innamorarmi sarebbe stato un problema e dunque non ci pensavo.

Sollevai gli occhi e, solo in quel momento, mi accorsi dello sguardo divertito di Alina:

“Quindi sei vergine?” mi chiese a bruciapelo.

Sussultai, fingendo che la domanda non mi turbasse.

“Vergine? Perché?”

Lei scoppiò a ridere. 

“Non posso crederci! Alla tua età!”

“Io-io” diventai paonazza e quasi balbettai per la vergogna. “In realtà ho pensato, in accordo con zio Antonio, ovviamente… Ecco, io… gli promesso che sarei arrivata intatta al matrimonio, e che prima avrei chiesto il suo permesso. Ho pensato che così, forse, potrei evitare che capiti anche a me…”

Alina prima rise a crepapelle, poi diventò serissima e mi prese una mano.

“Senti Clem, voglio esserti amica. I tempi sono cambiati, adesso le donne fanno i figli anche senza mariti e scopano con chi vogliono, dove vogliono e quanto vogliono. E soprattutto non chiedono l’approvazione allo zio! Con tutto l’affetto che puoi provare per Antonio, non dovresti mettere la tua vita in mano ad un uomo così anziano. È di un’altra epoca, lo capisci? E se volesse tenerti tutta per sé?”

A quelle parole non riuscii più stare seduta e non volevo mostrarmi turbata, perciò cercai di fingermi convinta. 

“Alina, zio Antonio ha visto morire mio nonno e mia madre. Ha 85 anni, non potrebbe reggere un altro errore. Io ascolterò i suoi consigli… l’ho giurato. E, comunque, probabilmente non mi innamorerò di nessuno. Quindi, il problema non si pone.”

Alina spalancò gli occhi e si girò di nuovo verso l’armadio, frugando freneticamente tra i suoi vestiti. Un profumo agrumato si diffuse per la stanza. Dopo un lungo tintinnio delle grucce, si girò con qualcosa in mano. 

“Ti piace?” 

Era un abito identico a quello rosso, ma nelle tonalità del nero. Questo, tra dimensioni e colore, lo vedevo più adatto a Barbie-Regina della lap dance. E trattenendo una risata iniziai a pensare a cosa dirle per dissuaderla, ma lei voleva discutere ancora sul mio giuramento. Probabilmente doveva sembrarle inconcepibile. Ma la convinsi che per me quella scelta fosse la cosa giusta e dopo aver discusso per ore, alla fine, accettò le mie ragioni.

“Ora che sai tutto, riesci a capirmi?”

“No! Quando ero piccola, non vedevo l’ora di sposarmi, ma adesso… l’unica cosa a cui veramente penso è il … “ Alina mi fissò per un istante “beh, lascia stare…”

“No, no, parla apertamente!”

Alina diventò rossa e si mise a ridere, poi aprì la porta della camera e si mise a gridare.

“Mamma, è pronto il pranzo?”

 

Pranzammo insieme a sua madre e alla signora Ruda, che erano sempre gentili e affabili nei miei confronti. Sembravano come delle zie che mi amavano da sempre. Stare con loro era piacevole e mi faceva sentire felice e a casa. Ogni giorno mi accompagnavano a vedere monumenti, a teatro o a comprare qualcosa. Era tutto così meraviglioso che dentro di me non sapevo come avrei mai potuto tornare in Sardegna, se non mi avessero preso alla Com ma, nonostante le mie numerose preghiere, nessuno mi chiamò dopo al colloquio. Al punto che, verso la fine della settimana, avevo già perso la speranza. Per fortuna c’era ancora la festa per il rientro del Capitano Mancini, così, con Antonio, mi accordai che sarei rimasta ancora una settimana dopo al ricevimento e dopo, se non fosse cambiato niente, sarei tornata a Muravera. Che peccato! Sarebbe stato bello poter restare con la famiglia Mancini per sempre, ma Antonio aveva ragione: quella non era la mia famiglia e, probabilmente, Roma non era il mio destino.

 

Angolo dell'autrice:

Carissime/i, vi ringrazio per aver letto questa storia e grazie per ogni singolo commento che avete scritto.
Sappiate che vi sono riconoscente e se potessi vedervi di persona vi abbraccerei tutti.
Purtroppo, dalla scorsa settimana sono di nuovo sommersa di lavoro e tutto andrà più lentamente, però, cercherò di pubblicare un capitolo ogni domenica.
Grazie a tutti e un abbraccio virtuale <3
Shaara


Ps: Carissimi lettori scusate se sto tardando a rispondere alle recensioni e a voi cari scrittori, scusatemi se sto leggendo così a rilento. Purtroppo, sto lavorando veramente tantissimo e continuerò così fino a febbraio. Abbiate pazienza, passerò a terminare tutte le storie che ho iniziato. Inoltre, quando avrò tempo, voglio fare l'elenco delle storie che sto leggendo, così, se vi va, potreste anche leggervi e scambiarvi i commenti anche tra di voi. Tutte le storie che sto leggendo sono bellissime e anche voi siete tutti persone deliziose che meritano tantissima attenzione e affetto sincero. Aspettatemi, passerò prima possibile!
Un bacio 
Shaara_2

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