Il nostro amore avrebbe bruciato una città

di Chocolate_senpai
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Una cioccolata, due biscotti e qualche dovuto ringraziamento ***
Capitolo 19: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 27: *** Annotazione ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 31: *** Il nostro amore avrebbe bruciato una città ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Prologo


Si vestì più leggero che poteva quella mattina. Ancora intontito dal viaggio e dal cambio  di fuso orario, afferrò dalla valigia sfatta una maglietta e un paio di pantaloni corti, assaporando già l’afa che lo avrebbe accolto fuori dall’hotel. Uscì dalla camera in fretta, in tasca solo la chiave e gli occhiali da sole; voleva sbrigare quella faccenda il più in fretta possibile. Premette il pulsante dell’ascensore, un elegante marchingegno trasparente che lo faceva sentire in un albergo più costoso di quello che era in realtà; attraversò l’enorme hall corredata di cantante dal vivo, superò la guardia all’ingresso e fu fuori. Un’intensa ondata di luce, caldo e polvere lo investirono. 

Era in Thailandia, per qualche motivo. Si era spinto fino a Bangkok per vedere un vecchio amico; lui glielo aveva chiesto e gli aveva persino inviato i biglietti aerei, e Boris si disse che sarebbe stato uno spreco rifiutarli. Ma il clima del luogo non era proprio il suo, e tutta quella gentilezza, quei ringraziamenti infiniti dei camerieri, dei negozianti, gli parevano fasulli. La gente del posto, all’apparenza dei simpatici cinesi abbronzati, lo indisponeva; la costante afa lo opprimeva. 

Non sembrava esserci un luogo silenzioso, calmo, tutto si muoveva costantemente con la pesantezza e la lentezza degli ingorghi di motorini sulle enormi strade. Sull’asfalto reso lucido dal sole riflettevano le bancarelle degli ambulanti che proponevano cibi e frutti insoliti, che lui non aveva avuto il coraggio di provare. L’atmosfera lo opprimeva, lo stordiva, lui che era abituato al silenzioso e freddo impatto ovattato della neve sul terreno.

Ci mise venticinque interminabili minuti a trovare la casa. Maledisse Igor e le sue fantasie esotiche; ai tempi del monastero non faceva che ripetere di quanto desiderasse andarsene da quel luogo freddo e inospitale, e alla prima occasione aveva realizzato i suoi sogni rifugiandosi nella parte di mondo esattamente opposta alla Russia. Lo aveva chiamato tre settimane prima, spedendogli via mail quei biglietti. Aveva bisogno di parlargli, a quanto pare voleva togliersi un peso dal cuore; un’affermazione ridicola. Non contava nulla quella purificazione tardiva per gente come loro. Avevano fatto di tutto, troppo. Nessuno poteva davvero immaginare.


- è passato molto tempo –

- Mh –

La casa era piccola e ben arredata. Un bel tappeto, un divano e una poltroncina in pelle un po’ datati, un tavolino in legno sormontato da un piatto ricolmo di quello strano frutto del drago che i locali vendevano ad ogni angolo della strada. Igor gli versò un tè incredibilmente caldo nonostante la temperatura esterna, che superava di gran lunga le aspettative di Boris.

- Come state? Vi ho visti all’ultimo campionato –

- Ma guarda un po’-

- Vedi ancora Yuriy?-

- Ogni tanto – 

- Bene –

Non avevano mai avuto chissà quale rapporto da giovani, altro motivo per il quale Boris si era stupito non poco di quell’invito.

Igor bevve con calma il suo te. Era cambiato parecchio; la pelle chiara aveva assunto un tono color caramello, i capelli erano più lunghi, i modi di fare più cordiali. Lui aveva trovato la sua strada dopo il monastero. 

- Tu come stai?- 

Forse era il suo modo di muovere le mani, o quel suo sguardo languidamente benevolo che gli scivolava addosso, o era tutto il contesto, poco importava; Boris non si sentiva a suo agio. Non prese neanche in mano la tazza di tè, che sarebbe rimasta a freddarsi sul tavolino per quella mattina. Si sistemò sul divano, sporgendosi verso Igor.

- Che vuoi?- Fu la domanda secca. 

L’altro ridacchiò. Ricordava bene il comportamento di quello che una volta era stato un compagno di allenamento.

- Vedo che non sei cambiato –

- Diciamo che non ho molto tempo da perdere –

Igor poggiò con estrema calma la tazzina sul tavolo. Boris prese a ticchettare il dito sul ginocchio sempre più velocemente; se l’altro ci avesse messo un secondo in più a cominciare a parlare, gli avrebbe tirato un pugno.

- Devo parlarti di una cosa importante. Prestami molta attenzione –

Il ragazzo si sporse anch’egli in avanti, con fare un po’ troppo cospiratorio.

Lui si è messo a cercare qualcuno –

Aveva detto una frase e non si capiva già nulla; Boris decise che lo avrebbe preso a botte proprio in quel momento, ma Igor pronunciò una parola magica che fermò per un po’ l’istinto omicida.

Vorkov –

Boris non si scompose. L’unica cosa che gli venne in mente fu che stava parlando con uno fuori di testa, e i malati mentali non vanno picchiati.

- Igor, lui non è più in circolazione da anni –

- Ma questo non è collegato ad un atto recente –

- Non credo di seguirti –

- è qualcosa che è successo quando ancora eravamo al monastero –

Boris stava per perdere la pazienza. Chiuse un secondo gli occhi, respirando profondamente.

- Igor, soggetto, verbo e complemento. Di cosa cazzo stai parlando?-

- Della Bambina dannazione! Non hai letto la mia mail?-

L’aveva letta? No, probabilmente no. Non che gli importasse delle fantasie di una persona che non vedeva da una vita; per lui quei biglietti erano stata solo una buona occasione per sfuggire dalla monotonia.

E ora quel pazzoide gli parlava di Vorkov che cerca una bambina.

Boris sogghignò, sotto gli occhi meno divertiti del padrone di casa.

- Dimmi la verità Igor, hai cominciato a drogarti?-

Le iridi azzurrissime dell’altro, così tanto in risalto sul color caramello del volto affilato, si assottigliarono con la severità di un professore pronto a segnare a tutta la classe una nota sul registro. Tutta l’enfasi che metteva nei suoi movimenti dipinse la situazione ancora più irrealistica e montata agli occhi di Boris.

- Stammi a sentire: ne avevo già sentito parlare al monastero, ma solo ora la storia è venuta di nuovo a galla–

- E dimmi, chi ti avrebbe raccontato questa incredibile e misteriosa faccenda?-

- Ho avuto contatti con una persona che lavorava negli archivi –

Questa volta la risata proruppe dalla bocca di Boris. Sospirò, un sorriso tra il divertito e l’irritato sulle labbra. Portò una mano a tirarsi indietro i capelli grigi, facendo saettare veloci gli occhi per la stanza alla ricerca di un qualche bong, o di cocaina tagliata male.

- Tu ... hai contatti con quelli che erano vicini alla direzione del monastero?-

Negli archivi ci poteva andare solo chi aveva la fiducia del monaco. Come era arrivato lui a quelle persone? 

Igor, serio in volto come quella mattina non lo era ancora stato, annuì.

- Qualcuno mi ha detto che lo ha visto muoversi. La sta cercando, me lo ha confermato–

- Chi? Chi te lo avrebbe confermato?-

- Il mio contatto-

- E, dimmi, lui da chi lo avrebbe saputo?-

- da Vorkov –

Bum, era fatta. Igor era ufficialmente pazzo. 

-  Fammi capire bene ... Vorkov si sarebbe messo alla ricerca di una bambina, e ne avrebbe parlato con un qualcuno che lavorava agli archivi del  monastero, che a sua volta lo avrebbe detto a te?-

Suonava decisamente come una barzelletta alle orecchie di Boris. Evidentemente non a quelle del padrone di casa. Igor, con un gesto secco della mano, cercò di deviare sul centro della questione.

– Pressappoco, ma non è questo il punto –

- No, certo, il punto è che ti sei ammattito –

- Tu non capisci! Può significare la fine di tutto!-

- Di tutto cosa? Vorkov non si muove da più di dieci anni, e tutta questa storia mi sembra un’enorme stronzata –

Boris si alzò di scatto, inforcò gli occhiali da sole e si diresse verso la porta.

- Boris!-

- Non c’è bisogno che mi riaccompagni – 

Il ragazzo afferrò con foga la maniglia, scoprendosi in corpo una strana fretta di uscire da quella casa. 

Accolse l’ondata di afa con un sospiro di sollievo. La porta si richiuse dietro di lui; dall’uscio scivolò l’eco delle ultime parole di Igor che subito si dispersero nel suono del traffico di metà mattina.

- La bambina! Cerca la bambina!-


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Capitolo 1



- Te lo ricordi? Sul serio?-

- Come potrei dimenticarlo, eri stato grande –

Takao si portò una mano al capo, passandosela tra i capelli blu più corti del solito. Rise imbarazzato. Era tutta la sera di quel calmo sabato che Rei gli richiamava alla mente ricordi che pensava avessero dimenticato tutti tranne lui; ma il cinese sembrava avere una memoria elefantesca per le brutte figure che la squadra aveva collezionato nel primo campionato.

Rei alzò gli occhi al cielo. Dal dojo si vedevano un sacco di stelle. 

- Ricordo quando sono tornato con voi in Cina, cavolo, Lai mi avrebbe strangolato con le sue mani –

- Ma hai riconquistato la loro fiducia. Cioè, quella di Mao l’avevi sempre avuta –

L’ex compagno di squadra arrossì. Non aveva ancora aggiustato le cose con Mao, che si era dichiarata più di una volta con lui. Lai forse avrebbe anche accettato la coppia, ma Rei non ne era totalmente sicuro. Quello che lo portava sempre a procrastinare la decisione era la sua perenne insicurezza. Mao meritava di essere felice, e lui non era certo di potersene prendere cura.

- E Hilary? L’hai più sentita?- Il cinese cambiò discorso con noncuranza. Non aveva intenzione di passare la sera a rimuginare sui suoi dubbi amorosi.

- Certo che la sento – Takao allungò uno spiedino di mitarashi dango all’amico, prendendone uno per se – Con lei e Kenny ci si vede tutti i giorni –

- Stanno bene?-

Il giapponese annuì – Pensa che Hila è anche migliorata con il beyblade –

- Grande!-

- Già ... –

Rimasero in silenzio per qualche momento. Si creava un momento di intensa nostalgia a ricordare i bei tempi andati. Non che ora la loro vita fosse noiosa; però si vedevano più di rado, ognuno aveva trovato qualcosa da fare che lo allontanava un po’ alla volta dal mondo del bey, che rimaneva comunque il loro centro di gravità. Max tornava solo una settimana al mese per stare con il padre, il resto del tempo lo passava con la madre in America. Rei era quasi sempre in Cina, e Kai era stato incastrato dal nonno in una specie di scuola di economia; sbuffando e pestando i piedi, aveva accettato l’idea del parente con il quale aveva ripreso i contatti solo pochi anni prima. Daichi appariva e scompariva senza preavviso, ma negli ultimi mesi doveva essere partito per una specie di pellegrinaggio spirituale con dei suoi vecchi compagni d’infanzia, in un luogo sperduto tra le montagne e non meglio identificato. Molto nel suo stile.

- Sarebbe bello trovarsi di nuovo –

- Sì ... – Rei rigirò tra le dita lo spiedino privato dai dango – Siamo stati tutti un po’ occupati ultimamente –

Ad un tratto, l’idea geniale dell’ex capitano.

- E se chiamassimo anche Kai?-

- Kai?-

- Ma sì! Tanto è a casa di suo nonno e sono sicuro che non sta facendo niente di interessante –

Il giapponese era così entusiasta del suo colpo di genio che Rei venne contagiato dal suo sorriso. Prese un altro spiedino di dango, masticandone uno dopo l’altro. Sì, gli sarebbe davvero piaciuto trovarsi con Kai, era quasi un anno che non lo vedeva. Già se lo immaginava sbuffare e inveire al telefono, per poi accettare tacitamente fingendo noia e disappunto per la rimpatriata. Un vecchio scorbutico, come era sempre stato. Un vecchio scorbutico che gli mancava.

Takao tirò fuori il cellulare dalla tasca.

- Aspetta Takao ... non vorrai chiamarlo ora?-

Neanche a dirlo il giapponese stava già componendo il numero – Certo! Così ce lo prenotiamo subito e non può inventare scuse per non venire –

- Ma è mezzanotte passata ... non credi sarebbe meglio aspettare?- Non credi che ci ucciderebbe dalla sua villa con un fucile da cecchino se lo chiamassimo a quest’ora? avrebbe voluto commentare Rei, mentre una gocciolina di sudore gli scendeva lungo la fronte.

Ma Takao aveva deciso. E quando il capitano dei Bladebreakers prendeva una decisione, fosse questa la peggiore della sua vita, cascasse il mondo l’avrebbe portata a termine.

- Nhaaa – Commentò, compiendo infine l’insano gesto di pigiare sul touch screen del cellulare il simbolo della chiamata, quell’allegro telefono verde ora presagio infausto di morte.

Rei rise nervoso. La sua blanda diplomazia non era bastata a fermarlo.

Il telefono squillò una, due, tre volte. Il giapponese rimase in impaziente attesa, tamburellando con lo stecchino vuoto dei dango sul pavimento di legno del dojo.

- Non risponde ... – sospirò Takao sconsolato. Rei riprese a respirare solo in quel momento.

- Dai, andiamo da lui- 

Il cinese perse un paio di battiti. Afferrò Takao per un braccio cercando di frenarlo nella sua fretta di uscire di casa per andare incontro ad un Kai molto assonnato e molto nervoso.

- Aspetta aspetta aspetta! Potremmo andarci domani mattina, forse ora sta dormendo ... –

Takao non lo ascoltò neppure. Con un ma va là frantumò i dubbi dell’amico, infilò giacca rossa e scarpe e lanciò a Rei la maglia che il cinese si era tolto per dare un effetto da post allenamento ai suoi muscoli molto scolpiti; sicuramente più scolpiti di quelli di Takao. 

Rei doveva ammettere di essere diventato un po’ vanesio da quando Mao gli aveva fatto notare quanto fosse palestrato. La ragazza passava il dito negli incavi dei suoi perfetti e squadrati addominali, facendolo sentire per un po’ una specie di agente 007, un fusto accalappia donne.

- Rei muoviti! Passiamo a prendere anche Kenny! –

Takao era già fuori dal portone. La gioia all’idea di rivedere il prof. K era soppressa dal timore della morte imminente. Il cinese ripassò mentalmente la sua vita, nel caso arrivati faccia a faccia con il fucile di Kai non avesse avuto il tempo di vedersela scorrere davanti.



..........



L’unica cosa che gli piaceva dell’Inghilterra era il clima. D’inverno. Solo d’inverno. Il resto delle stagioni le avrebbe volentieri passate chiuso in casa a maledire ogni singola goccia di pioggia perché pioveva, pioveva e pioveva. E basta.

Stupida estate. Stupido autunno. Stupido tutto.

Il morale migliorò subito quando qualcuno fece sfilare sotto il suo naso un bicchierino ricolmo di alcool, non gli importava tanto sapere quale tipo di alcool fosse. Lo prese e lo trangugiò senza pensarci troppo.

- Cosa stai cercando di dimenticare?-

Yuriy alzò le spalle con noncuranza. Ce n’erano tante di cose da dimenticare nella sua vita, ma in quel momento specifico niente di particolare. 

Ribaltò la domanda all’amico – Tu?-

Boris bevve, guardando pensieroso il muro davanti a lui. 

Era uno di quegli squallidi bar a tema giapponese, l’interno lugubre coronato da una cortina di fumo di sigarette e oppio. Donne lascive in kimono accoglievano gli ospiti; il proprietario, cinese, invitava con uno sguardo malizioso a seguirlo nel retro per un divertimento più fisico e intimo. Lui era sempre lì, davanti al bancone con una bottiglia del sakè migliore che quella topaia potesse permettersi. Ogni tanto la bottiglia diventava di vodka; ogni tanto di qualcos’altro.

- Ho visto Igor di recente –

- Chi?- Con tutti gli Igor che aveva conosciuto in Russia non poteva certo ricordarsi di una specifica persona.

- Il ragazzo del monastero che ... –

- Aaaah, quel Igor –

Boris avrebbe potuto prenderlo a pugni in faccia ma non lo fece. Sapeva bene quanto all’amico piacesse mostrarsi indifferente verso il mondo; se poi si trattava dei problemi degli altri, estraniarsene diventava per lui una priorità. Era lì, seduto accanto a lui al bancone, guardando svogliatamente il bicchierino ormai vuoto. A suo modo lo stava ascoltando.

- Mi ha raccontato una cosa strana, forse il caldo lo ha fatto ammattire – 

Boris si portò il bicchiere alle labbra e bevve, lasciando il discorso in sospeso. Gli occhi erano sempre fissi al muro ma non gli serviva vederlo per sapere che Yuriy si stava irritando secondo dopo secondo. Forse fingeva disinteresse per il mondo, ma non poteva negare di essere sempre stato curioso.

Quando dalla bocca del capitano uscì un e quindi? un po’ biascicato, Boris si autoproclamò vincitore. Avrebbe potuto spingersi oltre con un se non ti interessa ... e lasciare il discorso in sospeso ancora per un po’, giusto per vedere quanto ci avrebbe messo l’altro a regalargli uno dei suoi sguardi gelidi; avrebbe sancito il trionfo della sua opinione: Yuriy Ivanov era una vecchia pettegola. 

Ma non lo fece. Per quella sera si sarebbe accontentato.

- Hai mai sentito parlare di una bambina al monastero?-

- Una bambina? Di chi?-

- Non lo so, Igor ha insistito su questa bambina ma non ci ho capito molto –

- Uhm ... – Pausa di silenzio – Nient’altro?-

- Ha detto che dei vecchi contatti del monastero gli avrebbero detto che Vorkov li aveva reclutati per mettersi in cerca di questa bambina –

Disse la frase tutto d’un fiato, senza particolare enfasi. Più la ripeteva più gli sembrava perdere di senso. Yuriy non si scompose, nemmeno al sentir pronunciare il nome del monaco dopo così tanto tempo. Erano passati ormai dieci anni dall’ultima volta che avevano avuto a che fare con lui. Non aveva intenzione di ripetere l’esperienza.

- Tutto qui?-

Boris alzò le spalle. Gli occhi saettarono di sfuggita su una di quelle donne in kimono che mimavano, molto blandamente, movenze da geisha. 

- Tutto qui. Ma Igor è un po’ squilibrato –

- Però me lo stai raccontando –

Ecco, ecco il fiuto di Yuriy che scovava quello che l’apparenza cercava di nascondere; aveva trovato il sospetto, il sottile filo di inquietudine che la storiella fantasiosa di Igor aveva insinuato nella testa di Boris. Lui buttò il capo all’indietro, lasciando le ciocche grigie scivolargli via dalla fronte; chiuse gli occhi e inspirò a fondo il forte odore di fumo. Per un attimo ne rimase stordito; ma non bastò a fargli dimenticare tutto.

Non sapeva esattamente perché lo aveva raccontato a Yuriy. Forse sperava in un commento distaccato che gli desse la conferma che tutta quella storiella era un’enorme stronzata. 

Fu l’amico a rompere il silenzio.

- è curioso –

Boris riaprì gli occhi.

- Cosa?-

- Prima di tutto che lo abbia detto a te –

- Forse non aveva altri contatti ... –

- Mmh ... – La frase rimase sospesa. Si versò dell’altro sake dalla bottiglia lasciata sul banco - ... mah, saranno un mucchio di stronzate –

Ecco quello che voleva sentirsi dire. Con questo, Boris considerò chiuso il discorso.

- Notizie degli altri del branco?-

Una domanda a caso, giusto per essere sicuro che avrebbero cambiato il topic della discussione.

- Sergej è a fare qualcosa che ... boh, non ricordo, l’ultima volta che ci siamo sentiti parlava di libri –

- Il nano malefico?-

- Ivan è rimasto in Russia, lo sai no?-

- A fare che?-

Yuriy buttò giù l’ultimo sorso di alcool, fermandosi un momento per gustare la sensazione di bruciore lungo la gola.

- Non ne ho idea –



......................



- Stai bene?-

Erano passati per un saluto, solo per un saluto. E magari due chiacchiere. Una battuta sarcastica sull’odierno mondo del beyblade. E una capatina al frigo fornito di casa Hiwatari.

- Si, ho detto che sto meglio –

Il cancello, grande abbastanza da farti sentire intimidito e povero, era aperto, così come l’enorme portone in legno scuro. Erano entrati e con sgomento si erano resi conto che le botte che risuonavano dal piano di sopra non potevano essere quelle di una battaglia di cuscini. Salendo di corsa le scale avevano chiamato a gran voce il padrone di casa, e un intruso, allarmato dagli schiamazzi, gli era sfrecciato di fianco in un outfit total black che faceva molto agente dell’MI6. Kai era in uno dei salotti, circondato da un caos di fogli volanti e mobili rovesciati; brandiva un attizzatoio e si premeva la mano sul fianco destro.

Takao chiese subito: - Miodio Kai chi hai ucciso?-

Kenny fu più diplomatico.



- Ahia – commentò laconico il nippo-russo. 

- Scusa –

Il fianco destro scoperto, in volto un’espressione sconsolata e senza speranza, Kai aveva accettato di farsi medicare con le mistiche arti cinesi. Rei lo avrebbe fatto anche senza il suo permesso; non appena aveva fiutato la ferita si era trasformato in un efficientissima crocerossina. Il cinese finì di spalmare un intruglio che aveva creato sul momento, una pappetta fatta di erbe aromatiche selvaggiamente raziate dalla dispensa della cucina. Si era anche lamentato che non erano fresche, coronando il discorso sull’importanza di coltivare in casa il basilico, piuttosto che comprarlo già pronto, con un “per adesso mi accontenterò”.

Kai si era dimostrato incredibilmente cedevole. Forse perché era ancora mezzo addormentato. Lo aveva svegliato l’allarme; era scattato giù dal letto, conscio che la tregua con il nonno sarebbe finita se un ladro gli avesse svaligiato casa. Aveva inforcato tutta la sua rabbia repressa per sfogarla sul ladro; quando si era trovato davanti un Man In Black armato aveva vacillato un po’; almeno fino al momento in cui aveva afferrato un attizzatoio, senza sapere bene come ci era finito a tenere in mano il lussuoso utensile da caminetto. Poi 007 aveva sparato, e dalle scale era arrivata la voce di Takao. Non avrebbe saputo dire quale delle due cose lo infastidì di più.

- Per fortuna siamo arrivati noi –

- Già, per fortuna-

- Hai avuto culo amico, pensa se per caso avessimo rimandato a domani!-

- Proprio un gran culo –

- E tu Rei che non volevi disturbare, se non fosse stato per me ora qualcuno sarebbe morto –

Takao non specificò chi; non era sicuro che il ladro si sarebbe salvato.

Rei fece un ultimo nodo alla fasciatura, guardando la sua opera soddisfatto –

- Ho finito. Va meglio?-

Kai biascicò un grazie molto assonnato, passandosi una mano sugli occhi.

- Dove hai trovato le garze?- fu la prima cosa che gli venne da chiedere, visto che il cinese ne aveva usati chilometri, e in casa loro non ne avevano, ma la sua voce stanca e lugubre venne sorpassata dallo squillare delle domande di Takao, ancora allarmato. 

- Ma scusa, vivi qui da solo? Se me lo dicevi ti venivo a fare compagnia più spesso! –

Kai gli avrebbe volentieri spiegato che se non lo aveva mai chiamato c’era il suo valido, validissimo motivo, ma avrebbe rimandato la discussione al momento in cui il suo cervello fosse stato abbastanza sveglio.

- Non sono solo Takao, ci vivo con mio nonno –

Capì che avrebbe dovuto stare zitto quando gli occhi dei presenti si sgranarono sbigottiti. Kenny si aggiustò addirittura gli occhiali sul naso, come se vederci poco avesse influito sull’udire quella rivelazione.

- Come ... con tuo nonno? Sei sicuro?-

- Abbastanza –

- Ma quindi lui è ... ehm ... buono?-

- Normale – Rispose laconico il padrone di casa, reprimendo uno sbadiglio.

- Lui?- Gli occhi di Tako erano sempre più sgranati.

- Aha- 

Passò un momento di silenzio. Takao e Kenny ne approfittarono per pensare se l’amico non si fosse bevuto il cervello, o peggio, non fosse di nuovo passato dalla parte dei piani malvagi del parente. Kai ne approfittò per pensare a come far finta di riaddormentarsi, per poi potersi addormentare davvero.

- E quindi il ladro cosa cercava qui?- La voce di Rei risuonò lungo le lussuose pareti, mentre dal lussuoso bagno si sciacquava le mani nell’altrettanto lussuoso lavandino, per eliminare la sostanza appiccicaticcia che aveva spalmato sulla ferita dell’amico. Il basilico gli avrebbe donato un gustoso profumo di pizza per tutta la settimana.

Kai si alzò dalla poltrona, lussuosamente ricoperta di broccato color avorio, rassicurando i due amici iperprotettivi, che stavano per rimproverarlo di non muoversi troppo, con un mezzo sorriso un po’ sghembo. Si guardò attorno; i cassetti aperti, i cuscini del divano rovesciati a terra, i cocci in frantumi di quello che rimaneva del preziosissimo vaso cinese che il nonno gli avrebbe depennato dall’eredità.

Kai sospirò. Poteva andare peggio, anche se non sapeva in che modo. 

- Ho pescato James Bond a frugare tra i documenti in cassaforte ... –

- C’è qualcosa di importante?-

Kai alzò le spalle – Non ho idea di cosa ci tenga mio nonno –

- E chi gli ha dato la chiave per entrare?-

- Babbo Natale Takao, Babbo Natale –


..............


- Chi parla?-

- Sono la zia-

C’erano davvero poche situazioni che lasciavano Yuriy Ivanov completamente a bocca aperta; pochi momenti in cui non sapeva cosa dire, come reagire. Era accaduto un numero di volte che si potevano contare sulle dita di una mano. Quella domenica mattina andava ad aggiungere un dito in più al conteggio.

Aggrottò le sopracciglia, drizzandosi meglio sulla sedia come se il telefono non avesse ricevuto bene il segnale quando aveva risposto, spalmato sul tavolo con la prima di innumerevoli tazzine di caffè davanti. Dormire poco la notte lo trasformava in un tappeto la mattina, molto poco efficiente e operativo. Ma il sonno arretrato acuiva il naturale odio per l’umanità, rendendo il suo sguardo un misto tra una lama affilata e una serranda che minacciava di chiudersi.

- Ha sbagliato numero – Sul momento fu la cosa più intelligente che si sentì di dire.

- Volevo avvisarvi che il suo compleanno si farà al solito posto, non mancate!- 

- Ma che cazzo ... –

L’interlocutore buttò giù, lasciando a metà l’imprecazione di Yuriy. Il ragazzo appoggiò il cellulare sul tavolino, accanto alla tazzina di caffè ormai freddo. Pensò che quello che aveva chiamato fosse un simpatico burlone che voleva solo fargli uno scherzo, e iniziò a progettare per lui una lenta e dolorosa agonia. Prese la tazzina e bevve d’un fiato il caffè, lasciando che una smorfia di disgusto gli si dipingesse sul volto. 

Ne beveva una mezza dozzina al giorno e nemmeno gli piacevano. Aveva cominciato così, controvoglia, dicendosi che forse lo avrebbe aiutato a stare sveglio dopo una di quelle tante notti insonni. Poi il sapore amaro che tanto lo disgustava aveva cominciato a diventare un rituale al mattino, tanto che se non ne prendeva per giorni si scopriva a sentirne la mancanza.

Si ricordò del caffè che preparava Ivan. Oh, lui era un esperto; aveva conosciuto un turco che gli aveva insegnato tutti i segreti per preparare un caffè perfetto, e nessuno lo faceva buono come il suo.

- Ivan ... – sussurrò tra sé e sé. Si ripetè il nome più volte in testa, finchè il suono perse di significato. E gli venne in mente qualcosa.

La zia di Ivan ... ma porca puttana –

Si alzò di scatto, afferrò cappotto e telefono e uscì rapido di casa, infilandosi in macchina. 

Erano divisi da diversi anni, ma il branco rimane sempre in contatto in qualche modo.

Pigiò il touch del telefono con precisione, portandolo all’orecchio. Accese la macchina e partì.

Dall’altra parte dell’apparecchio Boris si fece vivo.

- Yu?- 

- Fatti trovare pronto, sono da te fra cinque minuti –

Lo raggiunse al lavoro in quattro minuti e quarantadue secondi. Boris si inventò una scusa qualsiasi per assentarsi; mezz’ora dopo erano all’aeroporto.


...................


Era una notte buia e tempestosa. Sì, proprio così. In Inghilterra serate del genere non si fanno attendere troppo quando l’autunno bussa alle porte della Manica, portando un’atmosfera misteriosa che i profani dell’impero britannico riconoscono in quel mucchio di film gialli su Sherlock Holmes, o Poirot. Capolavori che Andrew non riusciva ad apprezzare potendo vivere, respirare appieno il mistero e la punta di inquietudine che la sua città secerneva come ossigeno. Olivier era molto più distaccato. Un mucchio di laboriose formiche che rincorrono la metro in una nuvola di gas tossici; questa era la sua descrizione più lusinghiera di Londra.

Eppure eccolo lì, il romantico francese, seduto su un elegante divano rosso di uno dei salotti di villa McGregor, lo sguardo accigliato rivolto al mazzo di carte davanti a lui. Sollevò una carta con cura, un tremolio di speranza gli percorse la mano. La girò, la valutò, e la posò sul tavolo con precisione sotto un’altra fila di carte.

Il gioco del solitario era un’arte che pochi potevano perfezionare. Una piccola mania che gli aveva lasciato il soggiorno in Italia di un paio di settimane prima.

I genitori dell’amico inglese erano a teatro, a presenziare alla prima di un’opera di Shakespeare, non ricordava quale, tenuta da un gruppo di giovani attori emergenti, e molto promettenti secondo la critica. La servitù si era dileguata nella propria ala della casa non appena le mansioni domestiche erano terminate, salutando i due giovani con un freddo “buonanotte”, che Olivier colse di striscio. Il solitario ormai lo aveva rapito, tanto che nemmeno si accorse che l’amico, nonchè padrone di casa, era ricomparso affannato nel salotto.

- Vier –

- Mh-

- C’è qualcuno ... in casa. C’è qualcuno- 

La voce dell’inglese, ridotta ad un sussurro, lo costrinse a distogliere l’attenzione dalle carte. Alzò gli occhi su Andrew, leggermente pallido in viso.

- Va tutto bene Drew?-

- No non va bene, in fondo alle scale ho visto la luce di una torcia – fece lui senza prendere fiato nemmeno una volta, facendo saettare gli occhi dietro di se come se lo avessero inseguito i fantasmi.

Il francese lo guardò con noncuranza, puntando un gomito sulle gambe elegantemente accavallate, il capo poggiato sul dorso della mano - Forse sono solo tornati i tuoi e non vedendo l’interruttore lo cercano con la torcia ... – 

- Ti prego di smetterla di fare battute sui decimi di vista dei miei genitori e di metterti a fare qualcosa, c’è qualcuno al piano di sotto –

- ... Oppure volevano rubare dalla casa dei Bethencourt quella loro splendida collezione di tazzine in ceramica di cui si sono vantati all’ultimo party ... –

- Vier –

- ... Ma non hanno letto bene il numero civico e si sono infilati in casa vostra –

- Olivier sei insopportabile –

Il francese sospirò; stuzzicare l’amico era un passatempo irresistibile. Ciò che più lo divertiva era la velocità di reazione dell’altro ad ogni minima parola; una bomba pronta ad esplodere. Erano gli ultimi giorni di novembre, per gli ultimi del britannico soggiorno, e si sarebbe goduto la compagnia dell’inglese più che poteva.

- Va bene – si alzò puntellando le mani sulle ginocchia; si stiracchiò con noncuranza e assunse la sua solita aria disinteressata e spensierata, spaventosamente simile a quella di Gianni. Passava troppo tempo  con quel soggetto.

- Andiamo a controllare –

- Ma sei scemo? E se sono davvero ladri?-

- Quindi hai tenuto in considerazione l’ipotesi che siano i tuoi accecati genitori?-

- Olivier!- Soffiò l'inglese irritato – Ti prego!-

L'amico alzò le braccia in segno di resa. Si era divertito abbastanza, e l’altro sembrava sull’orlo di una crisi isterica dalla quale non sarebbe uscito se non dopo svariate tazze di tè.

- Vuoi chiamare la servitù?-

- Sono dall’altra parte della casa, ora che arrivano mi avranno svaligiato!-

- ... la polizia?-

- Io ... –

Il fracasso di cocci rotti a terra fece sobbalzare i due. Andrew andò a piazzarsi vicino ad Olivier, dietro il tavolino in mogano. Il francese trattenne il fiato; fino a quel momento non ci aveva nemmeno creduto alla storia dei ladri, e invece Drew non aveva detto una sciocchezza.

Bon, bon ... – sussurrò per calmarsi, sentendo la presa ferrea della mano dell’altro sulla sua camicia di seta.

- Olivier ... –

- Cosa? –

Le loro voci erano appena sussurrate. Se le loro famiglie avessero visto i fieri eredi di una stirpe di guerrieri tremare come foglie davanti ad un intruso in casa, li avrebbero diseredati e depennati dall’albero genealogico.

Dobbiamo chiamare aiuto – Andrew sottolineò il verbo nella frase.

- Prendi il telefon ... –

Un secondo rumore li fece di nuovo sobbalzare. Era più vicino, sembrava arrivare dalle scale. Olivier pensò che sarebbe stata davvero una fine indegna, morire in suolo inglese. Ovunque, ma non lì, in quella città di smog, piogge, umidità e persone sgradevoli.

- Ora prendo quella e lo affetto – Andrew indicò con gli occhi una delle spade da collezione che il padre teneva orgogliosamente in mostra in una vetrinetta.

- Certo, così sarà tuo padre a farti fuori quando tornerà –

Un suono di passi. Questa volta erano sicuri, provenivano dalla saletta accanto. 

- Ora entra e ci rapisce ... –

- O peggio, svuota la cassaforte e i miei mi diseredano –


...................


Era un piccolo edificio quello dell’asilo a Croydon. Una bella cittadina poco lontano da Londra; gli piaceva stare lì. D’altra parte aveva studiato parecchio per arrivare in quella piccola isola di calma e pace, circondato da piccoli e felici bambini. 

Sergej si appoggiò meglio alla panchina. Nuvole nere si addensavano oltre la tettoia rossa; avrebbe piovuto, e addio attività all’aperto. Poco male; potevano giocare ad altro anche dentro. Un due tre stella era uno dei giochi preferiti dei bambini.

- Sergej –

Il ragazzo alzò gli occhi. Una donna paffutella dal volto gentile gli stava porgendo il suo cellulare con un sorriso.

- Qualcuno ti cerca al telefono. Stava squillando da un po’, mi sono permessa di rispondere –

Lui accennò un rassicurante sorriso - Hai fatto bene, hai fatto bene. Chi è?-

La donna scosse il capo. Gli lasciò l’apparecchio, tornando dentro l’edificio di un color giallo un po’ sbiadito.

Sergej rispose incuriosito.

- Pronto?-

- Sono Yuriy. fatti trovare all’aeroporto di Londra ora, andiamo dalla zia-

La prima cosa che pensò Sergej fu che era successo qualcosa di grosso. La seconda cosa, che avrebbe dovuto chiedere almeno tre, no, quattro giorni di ferie.



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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2



- Da quando ti seguivano?-

Ivan strinse le spalle. 

- Una settimana? Giorno più giorno meno -

Yuriy annuì, lo sguardo perso fuori dalle fessure delle imposte che serravano la piccola finestra.

Era stato un viaggio precipitoso il loro; la mattina erano a Londra, la notte al limitare di una sperduta cittadina nelle vicinanze di Mosca; ed erano stati fortunati a beccare il volo più breve. 

Yuriy giocherellò con la cerniera del cappotto. Era pensieroso, come non poteva esserlo? Ivan aveva chiamato improvvisamente dal loro vecchio nascondiglio, parlando in codice. La zia era il segnale di pericolo, nessuno di loro si ricordava esattamente perché lo avessero chiamato così. Erano arrivati insieme all’aeroporto di Londra; Sergej li aveva raggiunti tempestivamente da Croydon. Non era servito nemmeno darsi appuntamento: si erano trovati puntuali allo stesso gate, in partenza per lo stesso volo.

Sapevano ancora lavorare come un branco.

- Hai idea di chi ... –

- Agenti standard in borghese, ma si muovevano in modo meccanico ... sarebbero stati scoperti anche da un imbecille –

- Quanti erano?- 

- Almeno cinque persone. Li ho lasciati fare per un po’, e quando ho visto che non mollavano la presa mi sono nascosto –

- Hai fatto bene – Yuriy gettò un’altra occhiata alle fessure delle persiane. Allungò una mano nella tasca dei pantaloni, tastando alla ricerca di qualcosa che non c’era. Chiuse gli occhi rassegnato. Niente sigarette.

Giusto, devo smettere

- Nuove reclute quindi? Spero che quel pazzoide non si stia muovendo di nuovo ... avete capito di quale pazzoide parlo -

- Sarebbe stato meglio se te ne fossi andato dalla Russia – continuò, con l’amaro in bocca di non poter rilassare il cervello con un po’ di sano fumo.

Ivan si stiracchiò. Il terribile maglione rosso, molto natalizio e un po’ in anticipo ai primi di novembre, rivelò in tutto il suo splendore la trama a fiocchi di neve sul davanti. 

- Mi avrebbero seguito anche in Africa  – afferrò un elastico dal comodino gettato in un angolo accanto al letto, legando i capelli viola prugna in una lunga coda 

- Che vogliono?-

- Bella domanda. Sicuro non me –

Boris tornò dal bagno in quel momento, se un cespuglio rinsecchito fuori casa potesse definirsi tale. Il suo mal d’aereo era ben conosciuto, e da lui ostentato fino all'inverosimile. Passò teatralmente una mano sugli occhi, come se avesse trascorso i  peggiori venti minuti della sua vita in quel gabinetto improvvisato, a vomitare sulla neve. 

Yuriy guardò l’amico con un sorrisino sarcastico. 

- Tutto bene caro?- 

Boris lo liquidò con un zitta troia a denti stretti, per poi accasciarsi sul letto  accanto a Ivan. 

Il capitano chiuse gli occhi, sospirando. Incrociò le mani al petto, appoggiò la schiena alla parete e si permise di rilassarsi un secondo. Ora che c’erano tutti, anche i ritardatari del gabinetto, si sentiva più tranquillo. Più disteso. Era tutto sotto controllo. Sigarette a parte.

- Nulla di cui preoccuparsi quindi?- Ser riagganciò il filo del discorso di Ivan, porgendo ai compagni una tazza di tè. Chissà poi da quale anfratto della credenza lo aveva tirato fuori. Conoscendolo poteva anche essersi portato i filtri da casa.

Ivan trangugiò una metà del liquido bollente senza fare caso né al sapore nè al bruciore in gola – Mi sono convinto invece che qualcosa di cui preoccuparsi c’è –

- E perché? Se non erano lì per te i problemi dovrebbero essere finiti–

Il più piccolo, perché Ivan era ancora il più piccolo in quantità di anni e di centimetri nel gruppo, finì il tè in un ultimo sorso; la tazza finì a poggiata a terra con malagrazia. Ivan puntellò i gomiti sulle gambe, lasciando le mani a sorreggere il volto. Non voleva ammetterlo, ma era stanco. Era molto probabile che non chiudesse occhio da quando si era rintanato in quella casa.

Una folata di vento più forte delle altre fece sbattere le persiane contro la finestra, producendo un cigolio che sapeva di avventura. Yuriy ricordava ogni fuga finita in quella casa sperduta, gli occhi sbarrati nel buio, le orecchie tese poiché ogni minimo suono poteva significare pericolo. Gli venne quasi da ridere.

Quelli erano bei tempi

Ora erano solo dei blader un po’ datati, con una quantità di esperienza che li faceva apparire quasi mistici agli occhi dei giovani. Almeno così era per lui e Boris. 

Sergej ad esempio aveva percorso un’altra via.


- Che hai fatto in questi anni?-

- Te l’ho detto, ho insegnato-

- Aspetta aspetta, quindi alla fine hai davvero ripreso l’università?-

- L’ho anche finita se è per questo. Ora ho una laurea –

Non ci era voluto molta immaginazione a Yuriy per indovinare a quale lavoro si fosse impiegato l’amico.

- Asilo?- Azzardò.

Sergej annuì, sulle labbra un vago sorriso nato dal ricordo improvviso della classe di bambini che lo aspettavano a Croydon.

- Immaginavo-


- Ora ce ne torniamo a casa?- I grugniti di Boris vennero percepiti a stento dal capitano, che comunque li ignorò. Puntò i suoi occhi su Ivan.

- Hai detto che non erano qui per te. Perché?-

- Perché se cercavano me e basta mi potevano attaccare quando volevano. Invece mi seguivano solo –

- E quindi?-

- Quindi cosa?-

- Avevano un motivo valido per farlo?-

Ivan sbuffò. 

- No! – alzò le mani al cielo con esasperazione – Insomma, dai, sono un tecnico informatico! Anche volendo non avrei più il tempo per una vita avventurosa – Agli occhi degli altri Ivan assunse le sembianze di un uomo di mezza età che lamenta la sua condizione lavorativa il venerdì sera al bar, prima di andare a puttane. 

A Yuriy venne quasi da ridere.

- Un tecnico informatico, eh?- Sussurrò tra se. Solo qualche anno prima stavano organizzando la formazione per l’ennesima partita di beyblade; nulla di emozionante, e di sicuro non un campionato, ma qualsiasi invito proveniente dal mondo di quelle dannate trottole era per loro un toccasana. Ce l’avevano nell’anima.

Poi Sergej si era svegliato e aveva deciso di intraprendere un’altra strada, qualcosa che gli desse più sicurezza nel futuro. Un lavoro vero, lo aveva definito così. Kai, per la prima volta nella sua vita, aveva dato retta al nonno e si era messo a giocare all’imprenditore. Ivan aveva deciso che il suo posto era a perdere diottrie dietro ad uno schermo e, a differenza degli altri, si era rifiutato di abbandonare la sua gelida madre Russia.

Erano trascorsi quattro anni da allora, tutto tempo volato via in un attimo. Erano di nuovo tutti lì a guardarsi negli occhi, ognuno conoscendo i pensieri dell'altro. Ne mancava solo uno, ma Yuriy giudicava da anni Kai irrecuperabile. Il nonnino caro ormai lo aveva incastrato negli affari di famiglia.

Il capitano finalmente si decise. Si staccò dal muro; allungò stancamente una mano alla zip del cappotto e lo riallacciò con calma.  

- Quante ferie arretrate hai Ivan?-

Sul volto del più piccolo si aprì un ghigno divertito. Alzò le spalle, poi afferrò anch’egli il cappotto e un borsone lasciato in un angolo della stanza. Boris gli diede una poderosa pacca sulla schiena.

- Allora ti eri preparato, piccolo bastardo –

- Mi conosci, lo sai che sono efficiente –

Neanche un’ora dopo erano imbarcati sul primo volo per Londra.


...........................


Kai era stato irremovibile.

- Vi ho detto che sto bene –

- Ma, il dottore ... –

- Lo chiamerò io se sarà necessario –

- Non credi che ... –

NO-

Gli fremevano le mani, ma decise di tenerle a posto. Prendere a pugni quei disgraziati non sarebbe servito a molto. Rei aveva già preparato il tè due volte quella sera, e ormai Kai sapeva che di dormire non se ne sarebbe più parlato. Ma voleva, pretendeva un po’ di calma. Si era liberato di suo nonno in viaggio d’affari per almeno una settimana, non avrebbe tollerato altre presenze in casa a minare la sua tranquillità inaspettata.

Per scongiurare la nefanda eventualità di trovarsi quei soggetti fra i piedi da lì fino al giorno del giudizio, prese una decisione terribile, ma necessaria.

Si infilò la giacca, sotto lo sguardo stupito di Takao.

- Dove vuoi andare?-

- Vi accompagno a casa –

Sapeva di stare firmando la sua condanna, ma almeno era sicuro che le pulci si sarebbero allontanate dalla sua dimora. A Takao all’inizio venne in mente di fermarlo, non avrebbe dovuto fare troppi sforzi con quella ferita, e poi il maniaco che aveva fatto irruzione in casa sarebbe potuto tornare in loro assenza. Ma poi si rese conto che il tragitto fino a casa sua sarebbe stato tutto tempo guadagnato per parlare di beyblade.

Con un sorriso a trentadue denti spintonò l’amico di fuori, affiancandosi a lui mentre Kai, con gli occhi al cielo alla ricerca di una qualsiasi divinità cui immolare l’amico, richiudeva il portone con l’unica delle tre serrature che il ladro non aveva rotto.

La prossima volta ci metto del filo elettrificato 

Rei si affiancò a Kenny, ancora scosso dagli avvenimenti. Gli mise una mano sulla spalla.

- Coraggio professore, siamo ancora tutti qui – concluse con un sorrisone.

- Già ... già ... –

Il prof. non era proprio un uomo d’azione. Forse anche Rei avrebbe dovuto riflettere su quello che era successo. Sarebbe stato meglio chiamare un dottore e la polizia; soprattutto la polizia. Ma non era stato rubato nulla, e Kai era convinto che avrebbero solo perso tempo. 

Rei alzò gli occhi al cielo. Non era stellato come quello sopra al dojo di Takao; le luci di villa Hiwatari rischiaravano il circondario quasi a giorno, nascondendo qualsiasi accenno di vita nel firmamento. Peccato.

Era una bella notte. Una di quelle che al villaggio avrebbe passato alla cascata con Mao, rincorso dai gridolini divertiti dei compagni di squadra, dalle occhiate severe di Lai e dai sospiri della ragazza dei cui sentimenti non sapeva ancora bene cosa fare.


- Io ti amo, Rei Kon-

Glielo aveva detto guardandolo negli occhi, davanti al letto dove avevano passato l’ultima notte accoccolati l’uno all’altra. Aveva una voce così morbida che avrebbe fatto sciogliere una roccia al sole. 

Ma lui non aveva risposto. Anche volendo, non sapeva che dire. Aprì la bocca più volte, richiudendola sempre. 

Un giorno avrebbe saputo cosa fare.


Ma quel giorno era sempre più lontano, e ormai sperava quasi che Mao si dimenticasse di lui. Si stava convincendo di non poterle dare più di un amore fraterno.

- Rei!-

Il cinese si riscosse.  Davanti a lui Takao, un sorrisone a colorargli il volto, gli stava porgendo il cellulare. Sullo schermo si vedeva una foto del loro primissimo campionato insieme.

- Ti ricordi? Quanto tempo è passato! – Sugli occhi dell’ex capitano si dipinse un po’ di nostalgia. Ah, Takao avrebbe dato tutto per poter di nuovo battersi con la sua vecchia squadra. Ma il tempo era trascorso anche per lui.

- Erano bei tempi ... ma forse tuo nonno è più contento ora – scherzò Rei, giusto per cambiare argomento. 

Takao sbuffò.

- Eravamo grandi campioni ... e guardaci!- Diede una leggera gomitata a Kai, standi attento ad evitare il fianco malandato – Per stare dietro ai nostri vecchi abbiamo rinunciato alle nostre passioni –

- Volevi tirare il bey fino alla morte?-

- Sì, cavolo! Certo che lo volevo!-

Kai non si sarebbe aspettato nessun’altra risposta da lui.

- Ma ... Rei? Kai?-

La comitiva si fermò. Davanti a loro, dal lato opposto del marciapiede, una ragazza mora, magrolina e con due grandi occhi nocciola li guardava stupita. Dalla busta della spesa che teneva in mano pendeva un grosso pacco di biscotti. 

- Ma guarda chi sta facendo le ore piccole!- Takao corse verso l’amica, gettando un’occhiata curiosa alla busta della spesa.

- Non mi dirai che sei uscita di casa a mezzanotte solo per prendere i biscotti?-

Hilary gli tirò un pugno amichevole su una spalla, che lui finse di incassare lamentando un ahia molto teatrale.

Rei, che non si dimenticava mai di essere un gentiluomo, si avvicinò con un misto di eccitazione e cordialità alla ragazza. Era più di un anno che non si vedevano, ma le sue lettere arrivavano puntualissime al villaggio. Era comunque la migliore amica di Mao.

La abbracciò con uno slancio ricambiato, facendola affondare nella felpa morbida. Hilary sospirò rilassata. Dopo la serata che aveva passato era quello che ci voleva. Anche meglio dei biscotti, che comunque non erano lì per caso. 

Si staccò dall’abbraccio solo per scontrarsi con lo sguardo assonnato di Kai. Abbassò subito gli occhi. Abitavano nella stessa città, eppure nemmeno una volta si erano ritrovati se non con la complicità di Takao. Era lui che organizzava le serate dei componenti che rimanevano dei Bladebreakers, ma con il tempo era tutto venuto meno. I sabati sera si erano accorciati per poi sparire del tutto quando Kai aveva cominciato a lavorare con Hito; Takao era quasi sempre chiuso nel dojo a sostituire il nonno nelle lezioni; Kenny studiava come un forsennato per quella laurea in ingegneria che tanto desiderava. E lei aveva deciso di fare altrettanto, ma in una facoltà più abbordabile.



- Ho saputo che stai studiando teatro tradizionale-

Hilary arrossì. Non che si vergognasse di quello che faceva, anzi: la appassionava enormemente. Quello che la emozionava ancora, dopo così tanti anni, era sentirsi addosso lo sguardo indagatore di Kai. 

- Sì io ... ho cominciato tre anni fa –

- Oh, quindi ci sei quasi –

- Già ... tu che fai?-

Takao si intromise nel discorso, sputacchiando briciole di biscotti al cacao. Circondò il collo di Kai con un braccio, affiancandosi a lui.

- Kai ha deciso di mollare tutto per dedicarsi al bey – 

L’amico fece per allontanarsi dalle briciole marroncine che dalla bocca di Takao gli stavano finendo addosso – Casomai è quello che vorresti fare tu –

- Non hai idea di quanto è vero –

L’ex capitano si sedette di nuovo, accasciandosi un po’ sul cuscino. Sarebbe stato meraviglioso.

- Bene, ti ringrazio per l’ospitalità, è stato un piacere rivedere tutti voi, ma io devo tornare a casa- Kai sottolineò il verbo con più enfasi del dovuto. Si alzò seguito da un coro di disapprovazione. 

- Ma dai! Sei appena arrivato, resta ancora un po’!-

- Già, poi chissà quando ci rivedremo –

Persino Kenny, ancora semi scioccato, rincarò la dose – Tanto ormai è tardi, tanto vale rimanere qui, no?-

- Giusto!- 

E così a Takao venne l’ennesima idea geniale della serata.

- Restate tutti a dormire qui!-

Kai sbiancò. Provò a protestare ma nel marasma generale di voci entusiaste che si levarono al cielo, la sua si perse. Non seppe come, ma cinque minuti dopo aveva addosso uno dei pigiami di Takao, era steso su un futon dentro al dojo e stava ascoltando Rei raccontare ad Hilary come se la passava Mao al villaggio con un orecchio, e con l’altro Takao e Kenny che gli blateravano di quanto sarebbe stato figo sfidarsi con il bey il giorno dopo; coronando il tutto con per fortuna che domani è domenica!

Già, per fortuna

Kai disse addio al suo tranquillo weekend. Ma una piccola, piccolissima parte di se era felice. La vita monotona non aveva mai fatto per lui, e quell’assaggio di follia non gli dispiaceva. Si sfiorò con la mano il fianco ferito. Nulla di più di un graffio, che gli fece venire in mente che la pallottola era finita nel muro del salotto. In qualche modo lo avrebbe spiegato al nonno. Il ricordo dell’emozione, dell’adrenalina di trovarsi davanti un nemico armato, gli portò alla mente anche una persona in particolare. Un lieve sorriso gli colorò il volto.

Chissà dov’era Yuriy in quel momento?


...........................


Una giornata piovosa a Londra. Che novità. Olivier aprì l’ombrello verde pastello puntellato di piccole paperelle gialle. Un regalo di una vecchia zia di Gianni che non aveva potuto rifiutare, e che ora faceva proprio al caso suo. Si appostò sotto Westminster, evitando che le profonde pozzanghere scalfissero le sue scarpe eleganti. Il cappotto beige forse era troppo leggero per l’aria gelida della prima mattina, ma si abbinava così bene con il resto dell’outfit che non aveva potuto rinunciarvi. 

Quella mattina aveva poche commissioni da fare, e la prima era recuperare colui che lo avrebbe accompagnato nei giri di compere ad Harrods.

Andrew uscì dal cancello di corsa, in un look total black che avrebbe fatto impallidire qualsiasi agente segreto. Adocchiò Olivier e gli corse incontro, nascondendosi sotto l’ombrello. 

- Dovevi venirmi a prendere dentro Vier! Mi stavo infradiciando-

- Perdonami, caro, ma la tua cameriera mi ha svegliato con mezz’ora di ritardo stamattina –

- Certo certo ... ma che cavolo di ombrello hai preso? Se mi vedono i colleghi dei miei sarò preso per i fondelli a vita!-

- Uuuh, come siamo permalosi mon amour 

Olivier sorrise sotto i baffi; lo sguardo gelido dell’inglese cercò di trapassarlo, ma non lo scalfì. Si era svegliato con la bella sensazione di essere invincibile, specialmente dopo una colazione a base di croccanti e caldi croissant nella pasticceria francese più buona del quartiere. Ciò fece ricordare a Olivier che quella mattina si sentiva anche incredibilmente generoso. Alzò un dito davanti al tentativo di Andrew di riprendere gli insulti all’ombrello, cavando dalla larga tasca del cappotto un sacchetto di carta che sprigionava un profumo intenso di cioccolato

pour toi-

Andrew vi affondò una mano, tastando quello che doveva essere la testa rotonda di un morbido chocolate muffin.

Per quella mattina il francese avrebbe evitato gli insulti.


- Dove siamo diretti?-

- Harrods ovviamente –

Non c’era luogo migliore per le compere ai parenti. Un cadeau dall’Inghilterra ai suoi genitori avrebbe loro ricordato che il figlio prediletto, nonchè unico, li pensava sempre. Evitarono i marciapiedi più affollati, prendendo scorciatoie che conosceva solo Andrew, lo scalpiccio delle scarpe sulle pozzanghere divenne terribilmente nostalgico per il francese. Sotto sotto sentiva sempre un po’ la mancanza dell’Inghilterra; dopotutto vi aveva passato la maggior parte delle estati prima di conoscere Gianni.

Decisero di evitare la metropolitana, come facevano sempre. Stare stretti come sardine tra quella marmaglia di persone umidicce non faceva al caso loro. Presero il primo taxi che trovarono, fiondandovisi dentro.

Andrew richiuse in fretta l’ombrello, di cui aveva preso possesso poichè il francese lo teneva troppo basso e glielo sbatteva in testa, e richiuse l’elegante sportello nero.

Harrods, s’il te plait –

L’aria dell’abitacolo era satura di umidità, ma sempre meglio della metro. Olivier scrutò dal finestrino leggermente appannato il viavai di persone e ombrelli venire oltrepassati dal taxi.

- Non capisco perché voi inglesi dobbiate mettere fretta in qualsiasi cosa. Sono le nove del mattino –

- Noi lavoriamo, facciamo girare l’economia. Non abbiamo tempo per osservare quadri tutto il giorno –

- Sbaglio o avete una delle gallerie più grandi di tutta Europa? Ed è gratis per giunta –

Andrew non rispose. Non era mai stato un appassionato di quadri, non quanto lo era di economia comunque. La frenesia della sua città, gli edifici ingrigiti vicini alle vecchie ville, gli uomini in giacca e cravatta con la ventiquattrore in una mano e il caffè di Starbucks nell’altra ... gli piaceva respirare quell’aria, tanto meglio se sotto una scrosciante pioggia mattutina.

Contemplò per un altro paio di minuti il paesaggio, pulendo una porzione di finestrino appannato per guardare meglio la sua industriosa città muoversi ...  finché gli occhi si incastrarono per un istante in una testa rossa ben visibile tra tutte le altre.

Senza nemmeno pensarci fece fermare il tassista con un grido un po’ troppo violento, facendo sobbalzare Olivier.



Ci voleva un caffè forte, e ovviamente il miglior caffè era quello italiano. Che Olivier conoscesse quel piccolo bar sperduto in una via traversa era quasi scontato; una volta che ti abitui ai sapori italiani non ne fai più a meno, e Gianni lo aveva assuefatto. 

Andrew posò la tazzina bianca sul tavolo quadrato. Un locale semplice, con pochi posti e una calma innaturale tra le pareti tappezzate da una carta da parati che sapeva di casa di campagna dei nonni. 

- Non vi facevo tipi da vita mondana –

- è un modo simpatico per chiederci cosa ci facciamo qui?-

- Piuttosto che simpatico lo definirei ... elegante –

Yuriy il suo caffè lo aveva già terminato. Lui il gusto forte della bevanda calda non sapeva gustarselo e nemmeno gli piaceva, ma quella era la prima caffeina che immetteva nel suo corpo quella mattina, e ne aveva dannatamente bisogno.

Ivan rispose al suo posto alla curiosità dell’inglese, dietro alla sua enorme tazza di cappuccino. 

- Avevo bisogno di un disco fisso, ho trovato su internet un posto ben fornito di materiale informatico qua vicino –

- Aha ... – 

Olivier era stato stranamente in silenzio. Erano passati tanti anni, ma l’unica cosa che era cambiata erano i capelli. Quelli di Ivan più lunghi, quelli di Yuriy meno ... appuntiti? Avrebbe voluto chiedergli se faceva la pettinatura orecchiuta di proposito, ma non voleva rovinare quella calda atmosfera del caffè con le occhiate gelide del russo. Vier passò distrattamente una mano fra le sue ciocche verde pastello. A differenza dell’amico inglese lui aveva preferito dare un taglio netto alla loro crescita.

- Siete a Londra in vacanza?- Il francese sorpassò gli assillanti commenti puntigliosi dell’amico che continuava a sottolineare come due russi stonassero nella sua bella cittadina. 

Quando gli occhi di Yuriy si posarono su di lui ebbe un brivido.

Sono perfetti

Non si vergognò nemmeno un po’ di sembrare poco eterosessuale a pensarlo. Quando una cosa era bella, era giusto ammirarla.

- Io e Boris viviamo nella periferia di Londra da un anno – e con questo rispose alla domanda su cosa facessero lì.

Le sopracciglia di Olivier schizzarono alte sulla fronte.

- Vivete qui?-

- A una mezz’ora di macchina –

Mon dieu! Eravamo così vicini e non lo sapevamo – esclamò, sinceramente sorpreso, volgendo gli occhi su Andrew, altrettanto sorpreso anche se meno entusiasta.

- E come mai questo trasferimento? In Russia faceva troppo freddo?-

- In Russia si stava benissimo, grazie per l’interessamento – la risposta di Yuriy fu un pelo glaciale, ma Andrew sorrise. Si poggiò trionfante allo schienale della sedia, incrociando le braccia al petto. Era riuscito a punzecchiarlo a dovere.

Punto per me

- Siamo qua su invito di un’accademia di beyblade per dare delle lezioni tecniche, che si sono dilungate –

- Quindi navigate ancora nel bey –

- Occasionalmente –

- Hai parlato di te e dei tuoi colleghi russi, ma ne manca uno all’appello o sbaglio? L’uomo bicolore non è con voi?-

L’uomo bicolore. Kai nel tempo aveva assunto più soprannomi da parte dell’inglese, sempre mal sopportati. Era stato amore di nonnoprincipessinaPocahontasaquilottotesta di cocco, o semplicemente stronzo. Andrew era particolarmente fantasioso con i soprannomi.

- Kai è in Giappone a fare ... non ne ho idea, cose con suo nonno comunque – Non si sarebbe certo messo a raccontare la vita dell’ex compagno. Non aveva ben chiaro cosa stesse confabulando con il parente nella villa nipponica di loro proprietà, e non era abbastanza pettegolo per spifferarlo al caro inglesino.

Andrew rimestò il cucchiaino nella tazzina vuota. Un sorriso gli allargò le labbra.

- A casa del nonnino a farsi mantenere quindi?-

Yuriy roteò gli occhi al cielo. Non si era certo svegliato quella mattina per parlare di Kai, dei loro progetti futuri o della loro vita. Ivan notò il vago tremolio della mano del capitano; decise che era ora di intervenire, prima che perdesse la calma del tutto e riempisse di grida di dolore quel tranquillo barettino. Urla di dolore in inglese magari.

- Tu Olivier sei ospite da Andrew?-

Incredibile come anni passati a socializzare davanti alla macchinetta del caffè nella pausa pranzo lo avessero abituato a trovare argomenti di discussione con chiunque, pur di riempire un silenzio opprimente, o coprire i commenti di un collega particolarmente petulante. Ivan si diceva di essere finalmente diventato grande, quella grandezza di cui parlano tutti gli adulti ai bambini per indicare loro l’età in cui potranno capire certe cose, e farne altre che da piccoli possono solo sognare. In realtà lui era diventato grande molto tempo prima, e non era servito cercare un lavoro serio. Forse quindi era più ... maturo?

- Certamente, i McGregor sono stati così carini da ospitarmi, mh mh –

Appena ebbe terminato la frase, Olivier si portò le mani al viso; la bocca si aprì e gli occhi si spalancarono. Ivan pensò stesse vivendo un’epifania di qualche tipo, ma il francese riprese a parlare con più enfasi di prima, sporgendosi verso di lui dall’altra parte del tavolino.

- Ma sapete cosa è successo ieri notte? Sono venuti i ladri! Cielo, che emozione –

Andrew poggiò una mano sulla spalla dell’amico.

- Scusatelo, è diventato scemo a passare troppo tempo in Italia – Fece, alludendo brutalmente a Gianni e ai suoi neuroni malfunzionanti.

Olivier non fece nemmeno caso ai commenti dell’inglese. Attaccò a parlare, la voce sempre più acuta e le mani in una gesticolazione costante, anch’essa ricordo dei lunghi periodi trascorsi in Italia. Lentamente il piccolo bar fu invaso dalle chiacchiere dall’accento gallicano, e Yuriy si arrese all’idea di non tornare a casa prima dell’ora di pranzo. Represse uno sbadiglio, osservando Ivan di sfuggita. L’amico si era appoggiato al tavolino con i gomiti, una mano sorreggeva il mento e gli occhi erano puntati su Olivier. Sembrava incredibilmente attento, se non fosse che l’altra mano tirava nervosamente su e giù la zip della felpa. Dall’altro lato del tavolo Andrew stava dietro al racconto del francese parlandogli sopra quando necessario, per correggere piccole imprecisioni sull’accaduto.







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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3



Gli piacevano le chiese. Non perché fosse religioso, o credesse in chissà quale divinità che punisse i malvagi a vantaggio dei deboli. Per lui queste erano tutte sciocchezze. No, le chiese erano altro. Incenso, una calda luce dai mosaici di vetri colorati, silenzio. Il suono dei passi lungo la navata lo coccolava nella meditazione.

- Mi ero innamorata di voi –

Kai non alzò nemmeno gli occhi. Non era la prima volta che una fan del beyblade lo riconosceva e lo avvicinava con rivelazioni amorose. 

- Scusami ma non credo di poter condividere. Tenta con gli altri –

- Fa lo stesso –

Lei girò i tacchi. Un tintinnio metallico accompagnò i suoi passi. Quando la sentì abbastanza lontana, Kai sbirciò a terra un paio di volte; era sempre stato curioso. Con la coda dell’occhio notò un luccichio. Sul mosaico di un rosso scolorito sbrilluccicava l’oro di una piccola fede, accompagnato dal più lieve riflesso del brillante che vi svettava sulla sommità.

Il ragazzo si sporse dalla panca per osservarlo meglio. Si decise a raccoglierlo solo dopo essersi accertato che sulle altre panche non c’era nessun altro. 

Nella sua mano sembrava ancora più piccolo; era palesemente un anello da donna. Chissà se le era caduto per sbaglio. Avrebbe potuto anche uscire dalla chiesa e vedere se riusciva a trovare quella sprovveduta per restituirglielo, era comunque un oggetto prezioso.

Sospirò, volgendo lo sguardo verso la fine della navata. 

Se ne sarà già andata chissà dove

Era solo una scusa per non incappare in chissà quali discussioni con una fan abbastanza sfegatata da rivelargli il suo amore in una chiesa. Si infilò l’anello della tasca del cappotto elegante. Lo avrebbe consegnato al prete della chiesa, forse la donna era una frequentatrice abituale.

Si alzò dalla panca e fece un leggero inchino davanti al crocifisso. Le chiese di rito cattolico avevano un’atmosfera che in nessun altro edificio religioso si poteva trovare; quella in particolare: abbastanza vicina da non perderci mezza giornata di macchina per arrivarci, e abbastanza lontana da non rischiare di incappare in qualche conoscente. Perfetta nella sua calma e pulizia, senza tutti quei lampadari ad altezza d’uomo che nelle chiese ortodosse facevano venire la claustrofobia.

Trovava il rito cristiano cattolico più intrigante che altro, e ancora di più i suoi misteri e la spiegazione di un oltretomba con tanto di livello intermedio tra inferno e paradiso. L’ultima chance per salvarsi dalla dannazione eterna. Si passò una mano tra la chioma grigia, portandosi indietro le ciocche appena tagliate. Una delle cose che non avrebbe sostituito per nulla al mondo nella sua vita era il parrucchiere; perfetto, pulito e sempre in orario. Chissà se quell’uomo sarebbe finito in purgatorio? Sarà valso a qualcosa acconciare così tante teste in vita? 

Attraversò la navata con calma, misurando con i passi il pavimento di marmo scheggiato dal tempo. Arrivato all’ingresso, si voltò di nuovo prima di uscire. La luce filtrata dalle vetrate illuminava il crocifisso di colori sfocati, riempiendo l’abside di sacralità. 

Si chiese se e valesse la pena credere in un paradiso. Era legittimo crederci, quando si avevano le prove certe dell’esistenza dell’inferno?


.......................


- Sei sicuro, sicuro sicuro?-

- Te l’ho detto Rei, non c’è problema!-

- Guarda che non ci metto nulla a prenotare l’albergo per più giorni, e nemmeno a prendere una stanza in più –

- Rei – 

Takao fece un sorriso talmente largo e rassicurante che il cinese si convinse. Non voleva dare troppo da pensare all’amico, aveva già il suo da fare con le lezioni al dojo. Il nonno era partito a trovare il papà del giapponese, sperduto chissà dove in uno dei suoi avventurosi viaggi archeologici, mollando il lavoro al nipote.

È ora che ti prendi qualche responsabilità!

Per Takao la presenza degli amici invece era un vero toccasana, soprattutto di Kai e Rei, che vedeva una volta ogni morte di papa. E non gli costava assolutamente nulla togliere dall’armadio un futon in più, di spazio nel dojo ce n’era quanto ne volevano.

- Allora la passo a prendere e torno qui. Sei sicuro che ... –

- Ma sei incredibile! Hei, mi fa un sacco piacere vedere Mao! E non ci penso neanche a farla dormire in un altro posto che non sia casa mia – concluse, orgoglioso della sua ospitalità. Per i suoi amici si sarebbe fatto in quattro, in questo non era assolutamente cambiato.

- Poi figurati quanto sarà contenta Hila! Le faremo una sorpresa, quando tornerà dal corso sarà al settimo cielo –

- Già –

Rei prese le chiavi della macchina che Takao gli aveva gentilmente messo a disposizione. Avrebbe potuto prenotare un taxi o andare semplicemente in metro, ma il giapponese aveva insistito.

Così avrete uno spazio più intimo per ... chiacchierare, aveva maliziosamente insinuato.


- Rei!-

La ragazza gli saltò al collo, facendogli quasi perdere l’equilibrio. Mao si avvinghiò a lui con quanta forza aveva in corpo, mollando il trolley che venne prontamente recuperato dalla mano libera di Rei prima che cadesse rovinosamente a terra.

Lei si staccò dall’abbraccio solo per immergere i suoi occhi dorati in quelli di lui, dello stesso splendido colore.

- Mi sei mancato un sacco – sussurrò, sull’orlo della commozione. Erano solo un paio di settimane che Rei era partito dal villaggio, ma lei non se ne faceva una ragione. Voleva, doveva stare al suo fianco. Sentirsi pari a lui era diventata una questione di principio, non le andava più di fare la parte della sorellina minore lasciata al sicuro nel villaggio ad occuparsi del vecchio tutore, nonché allenatore dei White Tigers. Lei voleva lui. Non il villaggio, non suo fratello. 

E Rei, cosa voleva? 

Lo aveva chiesto più volte a lui direttamente, senza grandi risultati; allora aveva deciso di aspettare. Non serviva a niente forzarlo a darle una risposta. Ma il tempo passava, e lei era sempre meno paziente.

- Hai fatto buon viaggio?-

Mao osservò curiosa la macchina nella quale Rei stava caricando la valigia rosa shocking un po’ logora, reduce da tutti i campionati di beyblade.

- Certo, certo, ma ... e questa macchina? Non sarà mica tua?-

Rei sorrise sotto i baffi – Infatti no. È di Takao –

A Mao si illuminarono gli occhi. Portò le mani al viso, pronta a saltellare di gioia. Perché se macchina era uguale a Takao, allora Takao era uguale a Hilary. Rei percepì l’entusiasmo della ragazza, anticipandone le domande su come e perché lui avesse la macchina del giapponese.

- Saremo ospiti di Takao in questi giorni, lui ci ha gentilmente invitati. E sì, ci sarà anche Hilary. Ma credo tu lo immaginassi già –

- Oddio Rei, non so perché nessuna si sia ancora sposata quell’uomo –


.............


Yuriy appoggiò la busta della spesa sul tavolo con malagrazia; spostò rumorosamente una sedia e ci si buttò sopra. Si passò una mano sugli occhi.

Che. Cazzo.

Erano le dodici e mezza, e dal piccolo bar italiano erano usciti solo tre quarti d’ora prima. Olivier aveva parlato per due ore. Due. Ore. Senza fermarsi. Ivan gli diede una pacca di incoraggiamento.

- Siamo a casa Yu, siamo a casa – disse, più a se stesso che al compagno di squadra. Anche fare finta di ascoltare aveva dei limiti di tempo, e i suoi erano stati ampiamente superati. 

Boris sarebbe tornato all’una. Ciò significava che avevano solo mezz’ora per preparare il pranzo, a meno che non volessero subire le madonne di quell’uomo oberato di lavoro

Bofonchiando qualche brutta parola in russo, Yuriy si tolse la giacca. Frugò nella sportina per togliere gli ingredienti del pranzo, gettando tutto alla rinfusa sul tavolo.

- Mi ha preso per una colf, quel bastardo ... – Continuò. Ivan era arrivato da pochi giorni, e aveva potuto constatare che non ci si annoiava di certo in quella casa. Le bestemmie poco velate di Boris e le occhiate gelide di Yuriy riempivano l’atmosfera di un non so che di energico. Il capitano si lamentava in continuazione dell’assenza di pulizia del collega, del fatto che doveva sempre cucinare lui, se scaldare cibi precotti si poteva considerare cucina; e puntualmente, dopo una giornata di frecciatine, il giorno dopo si ripeteva tutto. Al terzo giorno di convivenza Ivan aveva realizzato che nel tempo non era cambiato davvero niente tra loro. Non è che non si sopportavano; semplicemente quello era il loro modo di parlare e di confrontarsi. Il loro modo di vivere. 

- Lascia, faccio io –

Prese dalle mani di Yuriy l’enorme busta di fish&chips che l’amico stava squartando senza capire da dove si aprisse. Ivan la soppesò con le mani prima di infilarla nel microonde.

- Ma quanto cibo hai preso?-

- Non hai idea di quanto mangi quell’altro –

Il più piccolo squadrò l’amico da capo a piedi – Tu non sei ai suoi livelli, vedo –

- Mh?-

- Sembri addirittura dimagrito –

Yuriy fece un gesto stizzito con la mano.

- Se ne stanno andando tutti i muscoli, senza fare esercizio –

- Perché non ti iscrivi in palestra?-

- Perché ci sono le persone che mi guardano, è fastidioso –

- Che?-

- Ivan, ma porca troia, non ti abbiamo portato qui per farci da mamma –

E la discussione finì lì. Ivan scosse il capo sorridendo sotto i baffi; le persone gli davano fastidio. Non capiva come potesse essere possibile: dato il potere intimidatorio del capitano, raramente qualcuno lo avvicinava; a meno che non volesse tornare a casa con un paio di falangi in meno. Ivan soffocò una risata nel dorso della mano; si ricordava bene di quando Yuriy aveva dislocato la scapola ad un ragazzo ubriaco la sera prima della partenza di Sergej per Croydon. Quello era vero divertimento. Poi la vita si era appiattita, i giorni erano diventati monotoni e nessun osso era stato più toccato.

- Il giornale – Borbottò Yuriy, ancora in preda all’astio da casalinga incompresa, allungando una mano verso il più piccolo. Ivan adocchiò il plico di fogli ripiegato, fresco di buchetta della posta, allungandolo al compagno. 

Poi gettò uno sguardo all’orologio della cucina.

- Quando torna dalle lezioni Boris?- Era già l’una, lui aveva fame e ore di sonno arretrato dalla settimana precedente da recuperare. 

- Fra cinque minuti – Era una palese bugia. Non lo sapeva nemmeno Yuriy quando l’altro sarebbe tornato, ma liquidò in poco tempo i problemi dell’amico per concentrarsi su altro. Si drizzò meglio sulla sedia, appoggiando il giornale sul tavolo. L’articolo che aveva davanti lo stava incuriosendo più del dovuto.

Imprenditore giapponese derubato, i ladri fanno irruzione nella villa e feriscono il nipote

Gli venne da ridere. Quando poi lesse il nome del proprietario della villa il ghigno sul suo volto si allargò.

- Non ci credo – Si astenne dal fare ulteriori commenti e passò il giornale a Ivan. Lui sgranò gli occhi.

- Ma che cazzo ... –

- Il buon vecchio Kai si sta divertendo col nonnino –

Ivan scoppiò a ridere. Stese il giornale sul tavolo, rileggendo più volte il titolo dell’articolo. 

I ladri feriscono il nipote?- Si asciugò una falsa lacrima con teatralità, per poi tornare al fish&chips nel microonde – Non ci credo neanche se lo vedo. Mi meraviglierei se i ladri ne fossero usciti vivi –

- Quanto sei stronzo Ivan ... – Yuriy non riusciva a smettere di sogghignare - ... Il piccolo Kai era in pericolo, addirittura ferito, cavolo ... –

Prendere in giro Kai era diventato un passatempo molto godibile. Lui era nella sua bella villa, con il nonno, mantenuto, servito e riverito; come minimo qualche madonna se la doveva lasciar tirare, considerato che dava sue notizie una volta ogni morte di papa, quello stronzetto. 

- Mi meraviglio che non abbia chiamato –

- Cosa vuoi Ivan, noi non siamo più indispensabili per il suo tenore di vita –

- Oh sì – Ivan sistemò il cibo nei piatti, arrangiando un rapido apparecchiamento sul tavolo con le tovagliette di plastica decorate a piccoli delfini. Non perse tempo a chiedersi dove cavolo le avessero trovate – Ormai lui è un vero gentleman –

Yuriy scoppiò a ridere. Quel vecchio bastardo gli mancava; ricordava con piacere gli anni passati a insultarsi, a vincere, e soprattutto vivere insieme. Poi era sparito, ed erano venuti a sapere che viveva in Giappone da suo nonno. Erano talmente abituati a vederlo fare quello che voleva che non si erano nemmeno preoccupati, nè tanto meno erano arrabbiati per la sua scelta. L’ennesimo voltafaccia verso lidi più prosperi. Ma Kai era fatto così, e loro lo apprezzavano anche per quello. L’autosufficienza era sempre una dote da non sottovalutare.

Ivan rimuginò, picchiettandosi il mento con una forchetta - Curioso però –

- Cosa?-

- Mah, sembra che questa sia la settimana dei ladri –

- In che senso? – 

- Prima Andrew, poi Kai ... –

- Oh, già ... – Era stato talmente intontito dalle chiacchiere di quell’inglese che aveva completamente perso il filo del suo discorso chilometrico. La rapina, giusto. Si era quasi dimenticato.

- Prima Andrew ... poi Kai ... – ripetè Yuriy pensieroso. Puntò un dito verso Ivan, gli occhi assottigliati da un ragionamento in atto - ... E tutti e due la stessa notte –

- Aha –

- Guarda te com'è piccolo il mondo ... conosciamo due persone che hanno subito un furto allo stesso tempo –

Ivan afferrò il telecomando. L’unico canale decente in quel paese dimenticato tra la nebbia sembrava essere quello dei documentari. Fermò sulla BBC davanti all’accattivante immagine di un branco di leoni a caccia – Cos’è, ora credi nelle coincidenze? Nel destino?-

Yuriy liquidò l’amico senza degnarlo di una risposta. Conoscendosi da anni ben sapevano entrambi quale fosse la filosofia di vita di Ivanov, e sicuramente il destino non ne faceva parte.

- Boris ha parlato con Igor – Non seppe perché gli venne in mente di dirlo, forse per riempire lo spazio vuoto lasciato dalla sua non-risposta. Ivan parve non capire.

- Igor?-

- Quello del monastero. Non mi dire che non te lo ricordi, avete anche condiviso una comodissima cella se non ricordo male –

- Oh! Lui!- Ivan sorrise. Erano sempre divertenti i ricordi del monastero – Sì, ero finito in punizione con quel bastardo, ma ero piccolo ... è qui a Londra?-

- A Bangkok –

Il più piccolo sgranò gli occhi – Dove? E come ci sarebbe arrivato Boris?-

- Gli ha pagato i biglietti aerei Igor –

- Wow ... – Ivan abbassò il volume del televisore. Questo era più interessante di come si cacciava in branco – Si è fatto i soldi quindi. E come mai aveva voglia di vedere Boris? Voleva beccarsi qualche insulto gratuito?-

Boris e Igor non erano mai andati molto d'accordo. Il secondo era più grande e avrebbe dato qualsiasi cosa per vedere il più piccolo smorzare la sua innata spavalderia, ma Boris faceva parte della squadra; era più in alto nella gerarchia. Una specie intoccabile da un semplice blader. E quindi i loro anni insieme si erano risolti in tanti insulti velati e tanti pugni in bocca. A Igor era anche saltato qualche dente.

Yuriy alzò le spalle – Questo devi fartelo dire da lui. Io dal racconto di Boris ci ho capito solo che Igor si è rincoglionito –

- Il caldo gli ha dato alla testa?-

- Ha detto di essere in contatto con ex archivisti del monastero, e che Boris doveva cercare una bambina perché Vorkov ha qualcosa in atto –

Ivan sputò l’acqua appena bevuta centrando in pieno il telecomando. Portò la manica del maglione alla bocca per arginare lo sbavamento, soffocando un paio di colpi di tosse. Quando si fu calmato posò su Yuriy lo sguardo più confuso mai sfoderato in vita sua.

- Come scusa?-

Il capitano annuì con leggerezza, come se stesse parlando di noci di cocco – Per Igor, Vorkov sta architettando qualcosa –

- E come cazzo ha tirato fuori questa storia?-

Yuriy alzò le spalle. Il suo cellulare squillò, vibrando con forza sul tavolino. Quando Ivan lo prese per rispondere, cominciò a rivalutare la mano del caso in quella giornata. Lo passò a Yuriy, un mezzo sorriso a dipingergli il volto.

- Vuoi rispondere tu?-

Il capitano afferrò l’oggetto dubbioso. Poi lesse il nome sul display. Soppresse una risata.

- Dai ... e dire che ci siamo lamentati di lui fino a prima ... ora mi sento quasi in colpa – commentò con un sarcasmo per nulla velato. Rispose alla chiamata, ma quando stava per parlare la voce dall’altra parte dell’apparecchio lo superò in velocità.

- Ho chiamato per dirvi di avvertire quell’inglesino del cazzo che sono vivo e vegeto, e che se non gli date mie notizie non significa che sono già sotto tre metri di terra –

Erano solo quasi due anni che non si sentivano, gli era mancata la sua voce soave.

- Buongiorno anche a te Hiwatari junior –

E partirono una serie di improperi in giapponese.


......................................



La mattina dopo Kai era all’aeroporto di Londra. La chiamata del giorno prima era stata abbastanza lapidaria, ma il succo del discorso poteva essere di questo tipo: il nonno sarebbe stato a Londra per affari, e Kai aveva deciso di accompagnarlo per poi tornare con lui in Giappone. E coglieva anche l’occasione per insultare di persona McGregor, e rivedere la vecchia combriccola.

Kai si passò la mano sugli occhi. Era quasi abituato a svegliarsi presto, ma la stanchezza piuttosto che per il volo era rivolta alla giornata che lo attendeva. Fuori intanto pioveva, e già un paio di taxi gli erano sfrecciati davanti rischiando di macchiare di acqua pregna di smog e schifo il suo prezioso completo coordinato; e già si partiva male. Poi pregustava in anticipo i discorsi che Andrew gli avrebbe rifilato. La mattina dopo la rapina, ad un orario indegno, saranno state le dodici, nel dojo pregno di odore di cibo cinese l’inglese lo aveva chiamato per commentare sarcasticamente le prodezze del primogenito Hiwatari. Kai non sapeva come cavolo la notizia si era sparsa così rapidamente da un continente all’altro. Il monologo britannico si era concluso con un commento sulla misantropia del giovane rampollo giapponese:

Nemmeno i tuoi ex colleghi hanno tue notizie, se non ti fai sentire ogni tanto finiremo per pensare che sei passato a miglior vita.

Persino gli insulti erano diventati eleganti con la maturità. Un paio di anni prima Andrew gli avrebbe semplicemente dato dell’imbecille, e Kai avrebbe caldamente ricambiato.

La nebbia inglese gli è andata nel cervello

L’ennesima macchina frenò davanti a lui, producendo un’ondata di schizzi nerastri dai quali Kai si protesse nascondendosi dietro la valigia. Stava per inveire in una lingua abbastanza poco conosciuta da non essere compresa, ma quando uscì l’autista capì che parlare in russo avrebbe peggiorato le cose.

Boris non era cambiato per niente. Il solito sorriso spavaldo, le solite giacche con il pelo, i soliti occhietti indagatori e irriverenti. I capelli sì, quelli erano diversi, tirati indietro e legati in una specie di codino.

L’esatto contrario dell’eleganza e della compostezza sfoggiata dall’Hiwatari, che si era abituato a gestire giacca e camicia senza rinunciare alla sua pettinatura sbarazzina.

Boris si appoggiò al cofano, incurante della pioggerellina che si insinuava tra i capelli.

- Guarda guarda, puntualissimo e impeccabile, eh?-

- A differenza tua –

Senza troppe cerimonie Kai gli allungò la valigia, che l’altro caricò in macchina con poca grazia. 

- Ti credevo completamente trasformato in una specie di dandy, e invece ... –

- Invece cosa?-

Boris alzò le spalle.

- Mi sembri il solito vecchio bastardo –

Mise in moto e l’auto partì in terza, con un rumore sinistro del motore.

Kai sogghignò.

- Anche tu sei rimasto lo stesso –



La casa era piccola. D’altra parte era una sistemazione temporanea, e per due persone come loro non serviva nulla di principesco. Senonché, in quel lasso di tempo, nello spazio di due ci vivevano in quattro.

Kai si guardò  intorno con aria circospetta.

- Non credevo foste così ordinati –

- è ironico?-

In effetti le valigie di Sergej erano tutti accatastate in un angolo del salottino, e il tavolo in cucina era cosparso di un misto di parti di beyblade e pezzi smontati di un computer.

- Non proprio ... pensavo innanzitutto di sentire odore di fumo –

- Yuriy sta cercando di smettere –

- Aaah ... –

Kai indagò curioso la casa. Era un piccolo appartamento con due camere da letto, un bagnetto, la cucina e un salottino. Era incredibilmente strano per lui pensare i suoi due vecchi compagni di squadra a vivere insieme, due persone come Yuriy e Boris, in un luogo del genere. Quasi troppo normale.

Ma erano i due che si conoscevano meglio di tutti nel gruppo, e se c’era qualcuno che sapeva perfettamente come sopportarsi, quel qualcuno erano loro.

- Non ci sono gli altri? Mi sembrava di aver capito che si erano trasferiti qui -

- Sergej è al lavoro, Yuriy ha il turno per le lezioni e Ivan ... boh – concluse arraffando un biscotto dalla confezione semi aperta e abbandonata sul ripiano della cucina.

Kai si sedette composto. Guardò l’amico sgranocchiare rumorosamente biscotti, e concepì solo in quel momento quanto lui e gli altri si fossero allontanati. 

- Mi dispiace di essere sparito all’improvviso – Lo disse quasi d’istinto, come se quell’occasione fosse arrivata giusto per permettergli di dirlo. Guardava Boris negli occhi, con lo stesso sguardo con cui anni prima aveva deciso che la vita in Russia non faceva più per lui. L’altro ragazzo scrollò le spalle, infilandosi in bocca un altro biscotto.

Era la risposta che Kai si aspettava.

- Vecchio bastardo –

L’amichevole nomignolo con cui i russi lo avevano appellato risuonò dal corridoio d’ingresso. Kai si alzò al richiamo di quella voce che aveva sentito solo il giorno prima per telefono, e per cui continuava ad avere rispetto. Era pur sempre stato il suo capitano. 

Yuriy entrò in cucina producendo impronte bagnaticce; si fermò un momento sull’uscio quando vide Kai. 

- Cavolo ... – lo squadrò da capo a piedi – Non ero pronto per accogliere un imprenditore – Concluse, riferendosi all’abbigliamento estremamente elegante.

Kai gli si avvicinò, tirandogli un pugno amichevole sul braccio.

- Sei uno stronzo Ivanov –

- Piano con le parole, non sono io che ho telefonato ululando cose senza senso come una zitella isterica –

- Vaffanculo –

- Ti ringrazio per l’offerta, ma rifiuto. Allora ... – si tolse il cappotto fradicio, che finì gettato a sgocciolare su una delle sedie – Come va la vita con il nonno?-

Kai sospirò. Non si sarebbe aspettato altro; sapeva che in quella casa non sarebbe scampato alle frecciatine sulla sua relazione con il caro nonnino.

- La mia vita va molto, molto bene, caro. Sono più interessato alle vostre prodezze –

Yuriy alzò le spalle, portandosi dietro il capo le ciocche rosse sgocciolanti. Era evidente che aveva lasciato l’ombrello a casa, come quasi tutte le mattine.

- Si sopravvive – 

- Come, tutto qui? –

- Avresti preferito un racconto piccante su quanto noi due scopiamo la notte?-

- Sì, a dire il vero mi aspettavo qualcosa del genere –

Boris tirò un calcio alla sedia di Kai, lanciandogli uno sguardo lascivo.

- Ti piacerebbe unirti a noi, vecchio pervertito?-

- Declino l’offerta, grazie –

Boris alzò verso di lui un ennesimo biscotto con un gesto teatrale – Non sai cosa ti perdi –

Yuriy stava per mandare l’amico amichevolmente a fanculo, e Kai stava per fare altrettanto, quando lo squillo del telefono del giapponese interruppe i probabili improperi. Kai frugò nella tasca del cappotto cavandone il cellulare, e senza accorgersene tirò fuori anche un altro piccolo oggetto.

Con un tintinnio metallico il piccolo anello finì sul pavimento. 

- Pronto? Ah sì ... sì, sono già arrivato – il giapponese raccolse da terra il solitario dorato. Si era dimenticato di averlo ancora nella tasca del cappotto. E si era anche dimenticato di lasciarlo a qualcuno in quella chiesa. Se lo rigirò tra le dita sotto lo sguardo curioso di Yuriy. 

- Sì certo ... perfetto – Chiuse la chiamata senza nemmeno salutare.

- Pensavi di chiedere la mano di qualche bella ragazza?-

Kai ruotò gli occhi al cielo. Infilò il cellulare in tasca e lanciò l’anello all’amico. Lui lo guardò, scarsamente impressionato.

- Potevi fare di meglio Kai. Con tutti i soldi che hai, almeno un bel diamante potevi mettercelo qui sopra.

- Non è mio, idiota –

- Non mi dire che è di tuo nonno –

- Lo ha perso una donna in chiesa –

Yuriy sogghignò – In ... chiesa? Lo ha perso una donna in chiesa? A chi hai spezzato il cuore all’altare?-

- Non in quel senso! ... Guarda, lascia stare, è una storia assurda ... –

- Dove?-

I due si voltarono. Boris stava guardando l’anello con occhi molto confusi, la fronte era corrugata in un’espressione pensierosa, come se si stesse sforzando di ricordare qualcosa.

Dove che cosa?-

- Dove lo hai trovato?-

- A venti chilometri da casa mia –

- In Giappone?-

- Aha –

Kai si sporse verso l’altro, assottigliando gli occhi.

- C’è qualcosa che non va?-

Poche volte nella sua vita Boris si era trovato impreparato davanti a un evento. Quando qualcosa non gli tornava si vedeva subito. 

Il ragazzo scosse il capo senza però distogliere lo sguardo dall’anello.

- No ... no ... – la sua voce era calata talmente tanto dal normale tono squillante che sembrava stesse parlando più a se stesso che a Kai.

- Mi sarò sbagliato –

- A proposito di sbaglio – Yuriy monopolizzò l’attenzione su qualcosa di più interessante – Hai saputo di Ivan?-

- Cosa ha combinato?-

- Quindi la zia aveva chiamato soltanto me –

Kai si drizzò sulla sedia. Si ricordava molto bene della zia.

- Quel rifugio funziona ancora?-

- Quando non devi essere trovato sì, funziona egregiamente –

- Chi lo cercava?-

Yuriy scosse il capo – Uomini, non molto esperti nel pedinamento, ma abbastanza pedanti da convincerlo a rifugiarsi altrove –

- E la situazione era così grave da farlo venire a Londra? Una fuga in piena regola –

- Un suo vicino gli ha detto di aver visto gente strana attorno a casa sua. Ha preferito non rischiare e sparire per un po’ –

Kai tamburellò le dita sul tavolo. Si passò un dito sulle labbra, tirate in un mezzo sorriso.

- Cavolo ... Questo mi fa ricordare i bei vecchi tempi ... –

- Quelli in cui stavamo più a fuggire per strada che a casa?-

- Aha -

- Tu avevi scelto di restare –

- Già ... Comunque, non mi sembrate preoccupati per il piccolo nano malefico. È stato pur sempre pedinato. Avete pensato che potesse essere qualche nostra vecchia conoscenza?–

Yuriy alzò le spalle 

– Erano talmente sprovveduti che lo escluderei. Può essere fossero solo ladri e tenessero d’occhio casa sua da un po’. Sai come si fa, no? Prima studi le abitudini del proprietario, poi ti infili in casa quando non c’è nessuno –

- Mmh, parla la voce dell’esperienza –

- E poi ha detto di avere delle ferie arretrate –

- Quindi la fuga alla fine è una vacanza –

- Diciamo di sì –

- Restando in tema di vacanze, ho incontrato Igor di recente – Boris si inserì nella discussione con disinvoltura – Ma è diventato uno squilibrato –

- Igor chi?- 

- Dai Kai, quello del monastero ... ma non se lo ricorda nessuno ‘sto uomo?-

La porta d’ingresso cigolò e ne emersero una serie di improperi. Yuriy non era l’unico ad essersi dimenticato l’ombrello quella mattina.

Kai si alzò finalmente dalla sedia, stiracchiando la schiena ancora indolenzita da quei maledetti sedili d’aereo. Anche la prima classe stava perdendo di comodità. Abbandonò il cappotto su una sedia, lontano da quello ancora fradicio di Yuriy, andando ad accogliere il terzo vecchio membro della squadra.



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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

 



- Una bambina? E di chi? Di Vorkov?-

- Che ne so ... non ho perso tempo a chiederglielo –

- Potevi farlo, già che c’eri –

- è semplicemente impazzito –

- Può darsi, ma è strano che lo abbia detto a te –

- Anche Yuriy ha detto la stessa cosa –

 

Da quando Boris gliel'aveva raccontata, quella storia gli era rimasta in testa. Una bambina ... ma più di tutto ad averlo tormentato era una lunga serie di coincidenze. Prima Ivan viene pedinato; poi lui e Andrew trovano i ladri in casa. E prima ancora, Igor chiama Boris per parlargli di un complotto di Vorkov.

Dopo quasi sette anni di assoluto silenzio.

Kai si portò il calice alle labbra, bagnandole appena. Sarebbe stato molto contrariato se quel monaco si fosse di nuovo fatto vivo, dopo tutta la fatica che lui e la squadra avevano fatto per radere al suolo ogni briciola della sua organizzazione. Perché era questo che era successo dopo l’ultimo campionato. E non erano stati soli nell’impresa.

 

- Sei sicuro?-

- Lo tengo d’occhio da anni. Ne sono certo –

- Un passatempo un po’ rischioso –

- Mi ha preso e calpestato, lo ha fatto con me e con gli altri. Il minimo che possa fare è distruggerlo –

- Stai attento a quello che desideri Michelle, quando scendi all’inferno non puoi più tornare indietro –

- Correrò il rischio –

 

Era stata una collaborazione proficua quella con l’ex Barthez Bathallion. Ragazzi in cerca di un modo per placare il loro odio, e in possesso di una moltitudine di informazioni utili sulla BORG, finite nelle loro mani come manna dal cielo dopo l’arresto dell’allenatore psicopatico. Tutto quello che Yuriy poteva desiderare. Dopo aver combattuto da soli, avevano deciso di collaborare, frugando tra i bassifondi di tutto quello che poteva anche solo lontanamente sembrare illegale, tagliando i fili sottili con cui Vorkov cercava di tenere ancora saldo il suo imper. Quegli anni erano culminati con la loro vittoria; ma non avevano reso la loro vita più facile.

Kai sorrise, un sorriso velato di tristezza. Giorni passati a fuggire da tutti, a nascondersi; si rischiava ogni secondo la testa, ma nessuno si era fermato. E forse quell’adrenalina, quella che senti quando svolti vicoli bui a testa bassa, con un documento falso in una mano e una pistola carica nell’altra ... era quello che gli mancava. E, di questo ne era certo, mancava anche a Yuriy, a Boris, sicuramente a Ivan e persino a Sergej, chiuso in un asilo nella periferia londinese. Cercarsi una vita tranquilla non faceva più per loro. 

Sospirò, poggiando il calice al tavolino in mogano. In qualche modo si era abituato alla piattezza della quotidianità. Ma ora qualcosa si stava ... incrinando.

- Sei in anticipo –

La voce profonda lo raggiunse dall’uscio. L’uomo posò la valigia a terra, subito raccolta da un ragazzo che vestiva la divisa dell’hotel. Chissà se da anziano anche lui avrebbe avuto la voce potente del nonno?

- Hito ... – Lo chiamò per nome, ovviamente. Il fatto che fossero tornati in rapporti rispettabili non significava che la distanza tra loro si fosse assottigliata. L’uomo non fece tante cerimonie. Era diverso tempo che non vedeva il nipote, ma per lui e i suoi viaggi d’affari era normale amministrazione. Quello che lo aveva colpito era la proposta di Kai di tornare in Giappone insieme. Insolito da parte sua.

- Ti sei goduto la città?- Lo chiese senza interesse. Sedette nella poltrona al lato opposto del tavolino. Lasciò che un cameriere gli versasse del vino nel calice, senza però toccarlo.

- Sono stato da Yuriy – tagliò corto Kai. Era da quando aveva incontrato i ragazzi che si arrovellava su quanto la mano del caso avesse effettivamente a che fare con quel concatenarsi di recenti avvenimenti. Ma lui era un essere estremamente razionale; tutto parte da una causa e arriva a un effetto, pulito come un ragionamento cartesiano. Al di sopra di ogni dubbio metodico.

- Non credevo fosse a Londra –

- Sì, lui e gli altri abitano qui per ... vari motivi – Era troppo lunga da spiegare la storia, e Kai era troppo curioso di soddisfare i suoi ragionamenti per raccontarla – Senti ... vorrei chiederti una cosa –

L’uomo non si scompose, nè spostò gli occhi dal plico di fogli che teneva in mano. Non staccava mai la testa dal proprio lavoro. 

Kai accavallò le gambe, raddrizzandosi sulla poltrona. Cercò il modo più diretto e pulito per fare la sua domanda.

- Una vecchia conoscenza del monastero ha incontrato Boris. Gli ha detto che Vorkov sta macchinando qualcosa che riguarda una bambina

Hito non si mosse, ma Kai era certo che la sua attenzione fosse rivolta verso di lui.

- Ne sai qualcosa?-

Non voleva suonare come un’accusa verso il nonno; Kai era abbastanza sicuro che il parente ormai fosse fuori dal giro di affari con la Russia. Ma mettere l’uomo alle strette era l’unico modo per farlo partecipare alla discussione. Nella penombra del salottino elegante, tra le ombre gettate sul pavimento dalla lussuosa mobilia, il ragazzo fu sicuro che, per una frazione di secondo, gli occhi di Hito si fossero posati su i suoi, combaciando alla perfezione. Lo avrebbe negato per tutta la vita, ma non c’era nessun familiare che gli somigliasse tanto quanto suo nonno.

- Non sento parlare di Vorkov da tempo – Risposta evasiva, ma calcolata.

- Forse te ne aveva parlato quando eravate in affari –

- Non ricordo nulla del genere –

- Magari c’è qualcosa fra i vecchi documenti del monastero –

Solo a quel punto Hito lo guardò davvero. Assottigliò gli occhi, abbassando il plico di documenti di modo da avere una buona visuale del nipote.

- Di quali documenti parli?-

- Non fingere Hito, vivo in quella villa da abbastanza tempo per sapere che certe cose non si buttano mai via-

- Mmh –

Hito abbassò gli occhi. Kai riprese in mano il calice, bevendone un piccolo sorso.

Touché

Nessuno aggiunse altro finché, finalmente, l’uomo non poggiò i fogli sul tavolino rivolgendo tutta la sua attenzione al nipote. Giunse le mani sulle gambe, guardandolo con un misto di curiosità e severità insieme.

- Se non ricordo male, vi siete battuti per diversi anni per eliminare ogni traccia di quel monaco –

- Pensavamo di esserci riusciti –

- E ora non lo pensate più? Solo perché ve lo ha detto un ragazzo che non vedevate da anni? Credevo di averti insegnato che la sicurezza in se stessi è la chiave per una vita brillante –

Non aveva tutti i torti. Forse Kai stava dando troppo peso al discorso di un uomo definito addirittura squilibrato da Boris. Ma, come già è stato sottolineato, Kai Hiwatari non credeva al caso.

- Forse sono solo storielle inventate. In ogni caso, tu ne hai mai sentito parlare?- Cercò di ignorare i tentativi del nonno di disarmarlo psicologicamente. Voleva una risposta alla sua curiosità, e l’avrebbe avuta quella sera.

- Il monastero è diventato un’ossessione anche per te quindi. Credevo che tu e quei ragazzi vi foste liberati-

- Desidererei una risposta, o forse devo credere che la vecchiaia ti stia dando problemi di memoria?-

Hito incassò il colpo. Sapeva di essere sulla via dell’anzianità, ma essere accusato di inefficienza era per lui inaccettabile. La sua mente era ancora un computer perfettamente funzionante.

Kai continuò, sicuro di riuscire a rompere la muraglia di mutismo del parente; e sicuro che dietro di essa si nascondesse qualcosa.

- Quando i ladri sono entrati in casa hanno evitato ogni possibile oggetto prezioso, buttandosi a capofitto sulla cassaforte. Ne deduco che lì ci fosse qualcosa di importante –

- Se credi che tenessi in casa dei documenti dei tempi del monastero sei davvero un ingenuo –

Gli occhi del più giovane si illuminarono.

- Quindi c’è qualcosa –

- C’era –

Kai aggrottò le sopracciglia.

- In che senso? –

Hito abbassò gli occhi, guardando pensieroso il pavimento. Erano vecchie storie, ma Kai aveva ragione: i documenti in quella casa non si gettavano mai. Prese il calice e bevve controvoglia, solo per guadagnare un secondo in più di tempo.

- Vorkov mi informava raramente delle sue follie, a meno che non richiedessero un finanziamento. Come tu ben ricorderai, all’epoca i nostri scopi presero una ... via divergente – Ruotò il vino rosso nel calice con lentezza, osservandolo ondeggiare. Kai era sempre più attento, il tamburellare di un dito sulla poltrona tradiva un moto di impazienza.

- Non mi parlò di una bambina, ma ricordo bene che si rivolgeva al soggetto definendola lei –

- Un ... soggetto?-

- Era una delle sue ennesime idee stupide su come sfruttare i bit power per prendere il potere. Fu un discorso talmente assurdo che non gli diedi il minimo peso –

- Di cosa si trattava esattamente? –

Hito sbuffò, affondando più pesantemente nella poltrona.

- Vorkov voleva apportare modifiche ad un bit power con l’aiuto di un qualche professore. Era sicuro di poter dare vita ad un armamento invincibile –

- Voleva scatenare una guerra?-

La risata proruppe dalla bocca dell’uomo, lasciando Kai di stucco. 

- Una guerra? Non riusciva nemmeno a tenere a freno un branco di ragazzini! Era una follia inapplicabile, e posi subito fine ai finanziamenti per il progetto. Avevo di meglio da fare –

Kai rimase rigido sulla poltrona, incapace di rilassarsi. Un armamento. Certo. Vorkov ne aveva avute di idee strane, ma questa era assurda. I bit power non potevano funzionare come comuni armi,  necessitavano di una persona per essere controllati. Ma quel pazzoide aveva sempre avuto la fissa per gli esperimenti con le creature sacre.

Hito sembrava essere tornato alla normalità, come se fino a quel momento avessero parlato di quando da piccolo collezionava francobolli. 

Kai fece un’ultima domanda.

- Ma quindi ... cosa cercavano esattamente nella tua cassaforte?-

- Soldi, che altro? Oggigiorno non si è più sicuri nemmeno a casa propria –

No, non era quella la risposta giusta. Ma era evidente che il nonno voleva lasciarsi quella storia alle spalle, e per quella sera Kai dovette accontentarsi.

 

..................

 

Era uscito tardi, più tardi del solito. Una bevuta non si negava a nessuno, ma il suo era piuttosto un tentativo di fare uno sforzo di memoria. C’era qualcosa che mancava, che non tornava. E il perfetto calcolatore che era il suo cervello non aveva smesso un attimo di muovere gli ingranaggi.

Incredibilmente, quella notte non pioveva. Boris non amava l’atmosfera chiusa, otturata di fumo, la musica soffusa e l’alcool di scarsa qualità che girava in quel locale dove Yuriy si rintanava tanto volentieri. Eppure, svoltato l’angolo, eccolo lì, in uno dei vicoli più sconosciuti della periferia londinese, davanti ad una scritta al neon che recitava Violet bar.

Entrò senza guardare in faccia nessuno degli altri clienti, pochi ma abituali a suo avviso, strusciati lascivamente da donne agghindate da geishe. 

Non aveva mai accusato il fascino della cultura giapponese. Quei quadri bidimensionali, i modi di fare silenziosi, i volti bianchi e tutto quel maledetto sake, gli facevano solo ricordare quanto fosse lontano da casa. Aveva una nostalgia folle del freddo, della tranquillità di un inverno perenne, dei modi di fare che lo rendevano tanto diverso dagli inglesi con la puzza sotto il naso, e anche dai giapponesi e da tutte le loro assurde tradizioni. 

Gli mancava la Russia, la sua lingua, la sua città.

Sedette ad uno sgabello un po’ isolato, poggiandosi al bancone. Declinò con malagrazia lo sguardo del proprietario che lo invitava sul retro sfregandosi le mani; quella non era serata per scopare. In realtà, nemmeno per bere. Ordinò la prima cosa che gli venne in mente, poiché in realtà lui era lì per pensare.

Ed era colpa di Kai. Lui gli aveva messo quella pulce nell’orecchio, lui gli aveva mostrato qualcosa che non gli era andato a genio. Era un dettaglio che poteva benissimo non voler dire nulla, eppure a lui aveva fatto scattare qualcosa, qualcosa che non riusciva a togliersi dalla testa. Poteva essersi sbagliato. Ma l’istinto non era di questa opinione.

Il piccolo cinese dietro al bancone gli servì un bicchiere pieno di un liquido dall’aroma forte e dolciastro. Poi ne mise accanto un altro uguale. Una mano elegante avanzò per prenderlo, portandolo alle labbra di quello che sembrava un ragazzino, non troppo alto e assolutamente poco piazzato. Lui bevve il liquore tutto d’un fiato.

Boris scrutò il suo vicino con la coda dell’occhio; era talmente pensieroso che non si era accorto nemmeno che qualcuno gli si fosse seduto accanto. Peccato, avrebbe preferito stare solo. Fece per bere quello che aveva ordinato, non sapeva bene nemmeno lui cosa fosse, ma quando il liquido gli toccò la lingua per poco non lo sputò.

- Troppo dolce?-

Ecco, ora il ragazzino voleva anche fare conversazione.

- Non sono abituato a bere caramelle, preferisco qualcosa di più forte – Lo sguardo di Boris trapassò il barista che stava per mettersi a ridere, zittendolo all’istante.

Il suo nuovo compagno di bevuta non sembrava impressionato dall’affermazione.

- Non è così male ... –

- è un alcool da femminucce –

Nessun altro commento venne aggiunto. Boris fece cenno al piccolo cinese che gli riempisse di nuovo il bicchiere, possibilmente di qualcos’altro. L’uomo non fece in tempo a finire il lavoro; il russo ingoiò l’alcool come fosse acqua. Lo fece un altro paio di volte, con sempre più stizza, sentendosi addosso uno sguardo che non voleva.

Saettò gli occhi sul suo vicino. Stava ancora lì, con il bicchierino vuoto in mano e lo sguardo a vagare sugli scaffali pieni di bottiglie. Le luci rossastre ballavano sui vetri, saltando tra le pareti come in una danza. Una danza che rimbalzava su volto chiaro del giovane. Lui si calò il borsalino blu intenso sugli occhi. Allungò una mano in tasca, tirandone fuori qualcosa che Boris non vide bene. Il fumo e l’intenso odore di oppio gli erano penetrati nelle narici fino al cervello, collaborando con l’alcool fino a inebetirlo. 

Forse aveva un po’ esagerato. Boris si appoggiò con una mano al bancone, alzandosi goffamente.

È questo maledetto fumo

L’odore, il disgustoso sapore dolce che ancora gli legava la bocca, la presenza di quel vicino di banco non richiesto; troppe cose lo stavano infastidendo, e non finiva mai bene quando si trovava sia arrabbiato che ubriaco.

- Boris –

Drizzò le orecchie quando sentì il suo nome. Stava già immaginando lo sguardo di ghiaccio di Yuriy, venuto fin lì a cercarlo. Ma era talmente improbabile, che persino da ubriaco si rese conto che non sarebbe mai accaduto. Non gli serviva certo Ivanov a fargli da mamma; il capitano comunque non ne aveva alcuna intenzione.

Ruotò la testa piano; intravide sul bancone un foglietto. Non fece in tempo a girarsi di nuovo che il ragazzino gli era sfilato accanto, superandolo verso l’uscita.

Biascicò un hei tu verso quell’uomo che, per qualche motivo, conosceva il suo nome. Sembrò funzionare. Ad un passo dalla porta, il giovane alzò il cappello quanto bastava per dare un colpo di luce alla sua figura: il riflesso delle lampade si infranse su un paio di piccoli, severi occhi azzurri.

Boris buttò fuori l’aria; cercò di mettere insieme una frase, con qualche difficoltà.

- Chi ... chi diavolo ... come cazzo mi ... conosci?-

- Spero tu non ti sia già dimenticato di me. Ricordi? I vecchi peccati hanno l’ombra lunga –

Poi se ne andò, silenzioso come era arrivato, lasciando quel foglio ben ripiegato sul bancone e Boris a chiedersi se non stesse per caso sognando tutta la scena.

 

......

 

- I vecchi peccati proiettano lunghe ombre –

- Metti via quel libro Rose, è ora di allenarci –

- Uffa –

- Cosa?-

- Lo finirò quando sarò vecchia di questo passo –

- Ti interessa così tanto?-

 

L’incubo lo svegliò con la forza di uno schiaffo. Si alzò di scatto dal letto, passandosi una mano sul volto. Quando la sentì appiccicaticcia di sudore non se ne stupì affatto, e non solo perché in quel maledetto paese continuava a soffrire per la terribile umidità. 

Scese dal letto cercando di non fare rumore; svegliare Yuriy e le sue domande da crocerossina erano l’ultimo dei suoi pensieri. Da quando Ivan e Ser si erano temporaneamente trasferiti, lui divideva la stanza con il rosso e il suo sonno leggero, e ad ogni minimo scricchiolio gli arrivava un che cazzo stai facendo assonnato dall’altro lato della camera.

La visita di Kai lo aveva rimbambito; quello che era successo al bar poche ore prima aveva peggiorato la situazione. Era tornato a casa frastornato, stringendo nel pugno quel foglietto che era stato lasciato lì per lui. Non lo aveva neanche letto; era talmente ebbro di fumo e alcool che non ci avrebbe comunque capito un tubo. Si era buttato a letto, cercando di essere il più silenzioso possibile. Era sicuro di aver sentito i grugniti di Yuriy, ma se li era fatti scivolare addosso. Il sonno era giunto subito. E con lui quel ricordo, fino ad allora rimasto chiuso nel cassetto anni ignobili d’infanzia.

E, di nuovo, il monastero tornava a bussare alla sua porta.

Andò dritto in cucina, sperando che ci fosse una tanica d’acqua gelida in frigo, che per sua fortuna trovò. Se ne scolò una bottiglia tutta d’un fiato.

- I vecchi peccati... proiettano lunghe ombre – sussurrò. 

Allungò la mano nella tasca dei pantaloni della tuta che sfruttava come abito da casa; i pigiami gli erano sempre stati antipatici. Tastò nell’antro di stoffa morbida fino a sentire la superficie stropicciata della carta. Aveva una brutta sensazione a riguardo.

- Lo sapevo –

Boris sobbalzò. Una ciocca di capelli grigi finì sugli occhi, oscurandogli parzialmente la visuale dell’assonnato capitano sulla soglia della porta. Se la tirò dietro l’orecchio.

- Si può sapere perchè cavolo non riesci a passare una, dico una eh, non cento, ma una sola notte senza muoverti dal letto?-

- E io posso sapere perché in questa casa non posso avere un momento di intimità?-

Yuriy represse uno sbadiglio con il dorso della mano, svaccandosi stancamente su una sedia. Spostò lo sguardo assonnato su Boris, le occhiaie ben visibili sul bianco latte del volto gli procuravano un’aria sinistra. Beh, più sinistra del solito.

I due si osservarono per qualche istante. Yuriy notò nel buio della cucina qualcosa di bianco che spiccava tra le dita dell’altro.

- Non dirmi che ti sei alzato a quest’ora per scriverti un discorso sensato per la lezione di domani. Non ci crederei -

- è successa una cosa –

- Che ti ha tenuto sveglio? Sarebbe la prima volta che qualcosa ti dà così tanto da pensare. Di solito fai direttamente di testa tua senza ascoltare niente e nessuno. Deve essere una faccenda grave – ironizzò il capitano.

- Sono stato in quello schifo di bar che frequenti tu –

- Non è un posto così orribile –

- Ti ricordi di Rosemary?-

Yuriy ci mise qualche secondo a realizzare. Il sonno mancato non lo aiutava certo a oliare le rotelle della mente, tantomeno quando si trattava di ricordare cose che cercava di buttarsi alle spalle. Ma gli anni passati tra le grinfie di quel monaco rimanevano sempre vivi nella sua testa; certo, reclusi in un angolino, ma mai dimenticati.

-  Ma che razza di domande fai? Certo che mi ricordo –

Qualcosa scattò nella sua mente, forse la stessa cosa che era scattata in quella di Boris il giorno prima. Si piegò in avanti sulla sedia, poggiando gli avambracci sulle cosce. 

- Cosa è successo Boris?- Non era una domanda da crocerossina, da mamma apprensiva o cose simili. Era una domanda terribilmente retorica. Forse non si allenava più da anni, non partecipava a nessun inseguimento e non impugnava una pistola, ma Yuriy non era diventato scemo.

- è tornata –

- Dove?-

- L’ho vista, in quel bar –

Yuriy scosse in capo – No Boris. Se n’è andata, non ricordi? L’abbiamo salutata, e tanti saluti e baci -

- Ne sono sicuro –

- Come lo sai? –

- C’era un tale seduto con me. Mi conosceva per nome  –

- Tutto qui? Come se non fossi abbastanza famoso –

- Non è tutto qui. Ha detto una cosa, una frase che lei ripeteva sempre, che aveva letto su uno dei suoi maledetti libri ... E l’anello, quello di Kai ... quell’anello era suo –

- Di Rosemary?-

Boris annuì.

Yuriy lo guardava di sottecchi. 

- Ti sarai confuso –

- Non prendermi per il culo Ivanov. Sai che su queste cose non scherzo. E non dirmi che non hai fatto anche tu due più due –

Yuriy abbassò il capo, poi lo ributtò all’indietro, facendo scrocchiare il collo. Prese a tamburellare le dita fra di loro. Certo che l’aveva fatto due più due. Igor che si rifà vivo, il monastero, i furti, Ivan che viene pedinato ... Tutto poteva ricollegarsi in un certo modo.

- Da quant’è che Ivan non la sente più? –

Boris scosse il capo – Non lo so. Tre, quattro anni? L’ultima volta lei gli aveva fatto gli auguri per Natale credo –

- E se non mi sbaglio ... – Yuriy riprese il filo del discorso dell’amico – Dopo l’ultimo campionato, lei aveva trascorso del tempo in Inghilterra. E aveva stretto amicizia con McGregor –

- Yuriy qui è tutto collegato, ci arriva anche un bambino. Ivan e Andrew sono stati gli ultimi a vederla, Hiwatari poteva avere dei documenti alla villa sul progetto di cui ha parlato Igor ... una bambina, ricordi? –

- Mi sembrava gli avessi dato del rimbambito –

- Beh, magari aveva ragione! Cazzo, cos’è che non ti torna ancora?-

- Domani ne parleremo con Ivan e Sergej –

Boris restò interdetto. Certo, erano tutte supposizioni, ma a lui sembravano così ovvie che la procrastinazione del capitano gli cadde addosso come un macigno. Fece il giro del tavolo avvicinandosi a lui con la vena del collo già pronta ad esplodere.

- Ma sei scemo? Andiamo a cercarla!-

- E di preciso dove? Forse Ivan avrà qualche contatto, noi no di sicuro –

- Allora andiamo a svegliare quel nano malefico e sentiamo che ha da dirci!-

- Boris, sono le ... – Yuriy strinse gli occhi per capire come fossero posizionate le lancette dell’orologio della cucina - ... Quattro e quaranta del mattino. Puoi aspettare ancora un paio d’ore, o no?-

- Non mi sembra che te ne freghi qualcosa di tutta questa storia –

Yuriy lo guardò esasperato. 

- Non è una storia. Sono solo idee –

- Ti dico che era lei in quel dannato bar!-

Gli occhi gelidi di Yuriy gli si piantarono addosso come due pugnali. 

- Boris, eri fottutamente ubriaco! E poi, di che hai paura? Che le sia successo qualcosa? Dopo una vita che abbiamo tagliato i ponti? È un po’ tardi per preoccuparsi di lei -

Lui non rispose. L’amico aveva ragione; non poteva permettersi di pensare a lei, non dopo tutta la distanza che avevano creato tra lei e loro. 

Yuriy si alzò, poggiando una mano sulla spalla dell’amico.

- Siamo stanchi. Domani ragioneremo a mente lucida, e capiremo di aver pensato un sacco di stronzate – Uscì dalla cucina senza aggiungere altro, diretto al bagno; ormai era inutile cercare di riaddormentarsi. Boris strinse tra le dita il foglio un’ultima volta.

No. Non erano stronzate. E se Yuriy non credeva più a quello che gli diceva la sua testa, allora lo avrebbe fatto lui.

 

....................................................................................................

 

Due giorni

3:00 a.m

Richmond upon Thames 

 

Era scritto in una grafia un po’ storta, in stampatello. Tutto il contenuto del foglietto erano quelle sintetiche righe.

Affondò le mani nel cappotto. Il pelo del cappuccio gli solleticava il collo dandogli un’insolita sensazione di fastidio. Era teso, più teso di come era mai stato negli ultimi anni. Aveva affrontato molte cose, ma era sicuramente più preparato allo scatto di un grilletto piuttosto che a quell’incontro.

Perché erano tutte supposizioni; ma erano così dannatamente logiche. All’improvviso si era trovato quell’anello fra le mani, i due ricconi rapinati, Ivan pedinato ... poi il bar, quella frase; e il giorno, l’ora e il luogo segnati sul foglio. Quella storia era pregna dell’odore di lei.

Gettò occhiate fugaci attorno a se. Dopo il pedinamento di Ivan, tendeva ad essere guardingo ogni volta che usciva di casa. Non che qualcuno di solito tentasse di avvicinarlo; brave o cattive persone che fossero, i suoi sguardi allontanavano chiunque pensasse di avere a che fare con lui. 

Si fermò davanti all’ingresso del sottopassaggio della metro, alla fermata di Richmond upon Thames. Era tutto chiuso a quell’ora; qualche barbone solitario sonnecchiava addossato alle pareti, un paio di giovani con il cappuccio ben calcato sul viso si aggiravano nel buio per i loro traffici poco puliti. A Boris non importava; lui era lì per fare ben altro. 

 

-Ci siete mai stati?-

- E chi si ricorda?Uff ... saranno passati secoli!-

- Quindi?-

- Quanto sei impaziente ... sì, mi pare proprio di sì. Ci abbiamo fatto una scampagnata. Le avevo fatto vedere il Tamigi da una ... diversa prospettiva –

 

Gli era costato  pazienza e tempo per strappare quell’informazione dalla mente acciaccata di Andrew, ma se quello era l’ultimo posto che lei aveva visitato a Londra, ed era anche poco distante dalla loro abitazione attuale, era quasi certo che la stazione di Richmond upon Thames fosse davvero il luogo di un appuntamento.

Non sapeva se scendere verso i binari, e la sua indecisione lo stupì; aveva affrontato di petto tutta la sua vita e ora, a un passo dallo scoprire se i suoi ragionamenti da malato fossero veri, si stava tirando indietro.

Perché quelle, come aveva detto Yuriy la sera prima, erano solo idee. Nulla di più. Poteva benissimo non arrivare nessuno, e lui poteva essersi immaginato tutto. 

Ma ogni pezzo combaciava troppo bene nella sua testa. E quel foglietto era troppo ovvio per non dargli una possibilità.

Sentì un passo.

Due passi.

Abbassò gli occhi verso l’antro buio in cui si gettava la scalinata; una luce lampeggiava a intermittenza mezza infulminata, creando un’atmosfera ancora più lugubre.

Tre passi; e si mise allerta. Erano troppo lenti per essere quelli di un viaggiatore solitario, troppo calcolati per essere quelli di un senza tetto o di un qualunque drogato. Strinse i pugni dentro le tasche della giacca, tastando la forma di un oggetto familiare.

Falborg vibrava tra le sue mani. Non sapeva bene perché lo aveva portato con sé; lo faceva sempre, senza un motivo specifico, se non per qualche dimostrazione a quelle pallosissime lezioni di teoria del beyblade. Quella sera avrebbe potuto benissimo lasciarlo a casa, ma non ne trovò la giustificazione abbastanza convincente. 

Quattro passi. Il cuore perse un battito quando scorse la figura salire i gradini. Non la distinse dai vestiti, né dai capelli. 

Cinque passi. Era sicuramente una donna; un uomo non poteva certo permettersi di girare con un paio di stivali stretti in pelle nera alti sopra al ginocchio, non senza sembrare un nazista mancato.

Sei passi. La figura si fermò proprio sotto il lampione lampeggiante.

- Ciao –

Parlò con un accento italiano marcatissimo, e solo allora Boris si ricordò della sua provenienza, nascosta da un nome che tradiva il luogo in cui era cresciuta prima di finire in Russia.

Lui non rispose al saluto. Assaporò quel momento; erano dieci anni che avrebbe voluto farlo.

La luce le illuminava il viso a scatti. Prima rivelò i capelli legati, poi gli occhiali tondi, e ancora dopo il lungo cappotto grigio. Lei dovette risalire ancora qualche gradino perché si distinguesse bene il colore degli occhi, ma Boris lo ricordava alla perfezione.

Azzurri come il cielo

- Dove sei stata?- Disse infine lui, tradendo un tremolio nella voce.

Lei sorrise, ma non era felice.

- Che importa?-

- Dimmelo –

- Ora non fingere di essere ancora interessato a me –

- Perchè sei tornata, Rosemary? –

Lei continuava a sorridere triste, a guardarlo con quei piccoli occhi azzurri come per accusarlo di qualcosa.

- Sono venuta solo per una cosa –

Quell’incontro se l’era immaginato diverso. Certo, sospettava che ci fosse sotto qualcosa, che non fosse solo la voglia di rivederlo che l’aveva spinta a farsi viva. Non dopo che lui, come gli altri, si era negato da quasi dieci anni. Ma quella freddezza nella voce di lei incrinò la sua mente già pressata di pensieri e idee, crepandola come una vecchia finestra.

Lei allungò la mano, chiedendogli qualcosa che lui non si aspettava.

- Dammi Falborg –





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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 

Capitolo 5


 

- Perché?-

Non era riuscito a formulare altro. Se fosse stata una qualsiasi altra persona gli si sarebbe avventato contro prendendolo a pugni fino a fargli perdere conoscenza, coprendolo di insulti fino al giorno dopo. Ma con lei il meccanismo difensivo era corrotto, non funzionava più; lei era il bastone fra le ruote che muovevano i suoi pugni e la sua rabbia.

- Mi serve –

Solo l’insistenza a mantenere quel distacco sia fisico che psicologico lo indispettì a tal punto da portarlo a reagire. Indurì lo sguardo cercando di ritrovare quella faccia tosta che sfoggiava davanti a tutti quelli che non gli andavano a genio.

- Hai organizzato tutta la messa in scena solo per questo? Potevi mandarmi una mail, un messaggio ... un piccione viaggiatore –

- Boris, voglio Falborg. So che lo porti con te –

- Oooh, non mi dire che ti manca il mio bey? Ricordo che ti piaceva provare a lanciarlo, ma non pensavo ci fossi così affezionata –

- Dammelo –

- Se sei venuta solo per questo puoi anche andartene – Gli costò un’enorme fatica diglielo; non la voleva vedere andare via. Non adesso che lei era a lì a due metri, che aveva intravisto per un attimo la possibilità di riderci di nuovo insieme, di parlarle, magari chiederle come stava. Ma non aveva il diritto di fare tutto questo, e il distacco che la ragazza dimostrava nei suoi confronti era anche opera sua. 

- Voglio solo il tuo bey. Dallo a me prima che lo prendano loro –

Questo cambiò le cose nella testa del ragazzo.

- Loro chi?- 

La domanda era talmente retorica che lei non rispose nemmeno. Lo guardò fisso, la mano sempre tesa nella muta richiesta del bey. Dalle labbra di Boris sfuggì una risata appena soffiata. Inclinò la testa di lato. Nella tasca del cappotto, la mano strinse la presa su Falborg.

- Quindi è vero. Vorkov si è mosso –

- Non ci metteranno molto ad arrivare Boris –

- Gli hai detto tu dove trovarmi? –

- Sì –

La risposta arrivò diretta e spietata, come lui si aspettava che fosse.

- Dammi Falborg e vattene Boris. A loro non servi –

- Era una trappola fin dall’inizio vero? Mi hai portato dove volevano loro –

- Saranno qui fra pochi minuti –

- Perché lo stai facendo?-

Gli sembrò quasi di sentirla reprimere un singulto. Quando riprese a parlare la sua voce tremava impercettibilmente.

- è solo una questione di affari. Lui avrà Falborg e io riavrò la mia vita –

- E a costo di cosa? di vendergli i tuoi amici?-

Lei scosse il capo.

-  Non farmi la morale proprio tu, non te lo permetto - 

Il lieve tremore nelle sue parole poteva anche tradire un moto di rabbia, ma Boris non credette per un solo secondo che fosse così semplice. Lui la conosceva bene. Lei non era così, non lo sarebbe mai stata.

- Cosa c’è sotto? Da cosa cerchi di salvarci?-

Non poteva essere altrimenti; si rifiutava di credere che lei lo avesse cercato, dopo anni di distanza, solo per portarlo tra gli artigli del monaco che tanto odiava. Non gli passò nemmeno per l’anticamera del cervello che lei si fosse unita ai piani megalomani di quel pazzo.

La ragazza non cedette. La mano ancora tesa, gli occhi fissi verso di lui illuminati a intermittenza dalla luce delle scale, e le stesse parole sulle labbra.

- Dammi Falborg prima che arrivino. Vattene e torna a dimenticarmi –

Fu con uno scatto inaspettato che le si avvicinò; in pochi passi le fu davanti. Lei sobbalzò, ritraendo la mano ancora tesa, ma Boris la afferrò prima che potesse nasconderla. Solo ora che le era così vicino la riconobbe completamente. 

- Non potrò più farlo ora, ed è colpa tua –

Avvertì subito la presenza di qualcuno muoversi verso di lui. Era un combattente, era sempre pronto per certe cose. Quando la mano di un uomo lo strattonò con prepotenza tentando di bloccargli un braccio dietro la schiena, fu facile per lui reagire. Si divincolò con facilità, assestando all’assalitore un pugno in pieno stomaco che lo piegò in due. Dietro di lui comparvero altre tre persone. Armate.

- Pensate di spaventarmi con una pistola?-

- E cosa mi dici di lei?-

L’adrenalina del combattimento imminente gli aveva fatto dimenticare di non essere solo. Si voltò verso i gradini: lei era ferma allo stesso posto, composta; affianco un uomo le puntava l’arma contro. Boris era sicuro di non aver mai visto il volto viscido di quel sicario, e fu anche sicuro che erano uomini della stessa combriccola che aveva pedinato Ivan: volti nuovi, e poco preparati.

Non fece nulla per aiutare la ragazza. Era sicuro che non l’avrebbero uccisa lì, dopo tutto quel teatrino che avevano imbastito. Lei non mosse un muscolo.

Quando Boris sentì un’arma puntata alla sua testa, reagì senza pensare. Afferrò la mano dell’uomo, disarmandolo in un secondo tanto la sua presa sulla pistola era blanda. Gli assestò un calcio al ginocchio facendolo cadere con un lamento e, prima che il terzo collega potesse reagire, Boris gli regalò una pallottola nel braccio. Sparare gli venne così naturale che quasi pensò a quanto quel gesto gli fosse mancato. Quando udì un secondo sparo, nel pieno dell’adrenalina, si girò su se stesso e puntò inconsciamente l’arma contro il nemico. Ma davanti a lui la ragazza si teneva un braccio, una macchia di sangue si allargava sul cappotto, e la pistola dell’uomo accanto a lei emetteva un leggerissimo sbuffo di fumo.

- Perché non fai il bravo?- 

Lui aveva un accento russo pesantissimo, e questo completò il quadro della situazione confermando quello che sapeva già: erano uomini di Vorkov.

- Vattene –

- Io lascerei l’arma se fossi in te –

- Ti do un secondo per allontanarti –

L’uomo scosse il capo inarcando le sopracciglia. Un sorriso cattivo si allargò sulle sue labbra.

- Vedo che non ci siamo capiti –

Ora lui non le puntava più l’arma contro. Lei avrebbe potuto farlo fuori, spostarsi, chiedere aiuto, diamine, le aveva sparato al braccio in fondo. Invece rimase ferma, gli occhi su Boris, la mano premuta sulla ferita.

Bastò quel secondo di distrazione, quello stimolo di preoccupazione per lei che gli fece abbassare la guardia. Sentì la presa ferrea di una mano sulla sua bocca, poi una forte scossa; il suo corpo si bloccò di colpo, come fosse stato paralizzato.

Taser

Sentì il colpo della caduta a terra rimbombare in tutto il corpo. Gli furono addosso in tre, e quando si accorse di poter di nuovo muovere le articolazioni era completamente inchiodato a terra. 

Lo assalì una rabbia cieca alla consapevolezza di essere caduto come uno stupido in una trappola così banale. Avrebbe voluto alzarsi e mettere le mani al collo a quegli uomini , uno dopo l’altro, ascoltando il suono dei loro respiri farsi strozzato e flebile fino a sparire, sentire le loro membra farsi rigide e fredde sotto la sua presa. 

E lei, proprio lei, era lì a guardarlo con i suoi piccoli, dolci e severi occhi di cielo. I suoi amici lo avrebbero pestato a sangue per il casino in cui si era messo, se di lui ne fosse rimasto qualcosa. Lei lo aveva venduto al diavolo con estrema noncuranza, e ora forse se ne sarebbe andata, silenziosa e discreta come era comparsa.

Ma cazzo se l’avrebbe amata comunque.

 

...........................

 

- Non è venuto?-

Era al telefono da venti minuti con il preside della maledetta scuola dove tenevano lezioni, a sentire le sue preoccupazioni su come recuperare le ore di quella mattina che erano saltate, perché Boris non si era presentato.

Yuriy si passò una mano sugli occhi. Non era la prima volta che l’amico non tornava per la notte, e quando la mattina non lo avevano trovato a letto nessuno si era preoccupato. Ma ora erano quasi ventiquattro ore che di lui nessuno aveva notizie, e venivano a dirgli che non era stato al lavoro.

- Lo sai come è fatto, gli piace fare quello che vuole –

- Sì Ivan, certo, ma non è proprio una buona occasione per farsi i cazzi propri questa –

Il più piccolo non commentò. Con mano ferma e incredibile perizia sistemò l’ultimo piccolo pezzo di computer che restava sul tavolo della cucina, finalmente libero da tutta la tecnologia che era rimasta lì sopra a vegetare dal suo arrivo in quella casa.

- Sarà andato a ubriacarsi da qualche parte e si è dimenticato del lavoro –

- Non è così scemo ... almeno spero –

Yuriy non se la poteva prendere. L’ennesima giornata di pioggia stava peggiorando il suo umore, l’umidità perenne non aiutava e, come se non bastasse, ora quell’idiota spariva dove gli pareva. Aspettava solo di averlo tra le mani, e di lui sarebbe rimasto solo un sopracciglio.

- Vedrai che ... non è ... niente ... – Trattenendo il fiato, Ivan posizionò al suo posto l’ultimo piccolo cavetto rimasto sul tavolo. 

- Fatto!- 

Mollò la presa sulle pinzette usate per portare a termine il lavoro, gettandosi a peso morto sullo schienale della sedia. Si tolse gli occhiali, massaggiandosi la radice del naso.

- Questo lavoro mi farà diventare cieco ... –

Si accorse che Yuriy non era più nella stanza solo dopo due minuti di totale silenzio.

- Yuriy?-

- Esco – la voce arrivò dal corridoio, e subito dopo seguì il cigolio dell’uscio che si richiudeva. Ivan afferrò stizzito un biscotto dalla confezione lasciata perennemente aperta sul piano della cucina. Non gli piaceva essere ignorato. Addentò il biscotto, e per un attimo il suo umore venne ristorato.  Poi il telefono squillò, lui lesse il nome sullo schermo e capì che quel giorno la pace domestica non era prevista.

- Kai – Non si scomodò a dire cose come pronto, o a salutare; con lui non c’era bisogno.

- Siete in quattro, Cristo, è mai possibile che nessuno risponda mai al maledetto telefono?-

Ivan ruotò gli occhi al cielo – Ti sto rispondendo io vecchia bisbetica. Che c’è? Ti manchiamo già?-

- Devo parlare con Boris, è per quello che gli ha detto Igor –

- Boris non c’è –

Dall’altra parte dell’apparecchio arrivò un silenzio intriso di bestemmie trattenute.

- Beh, quando torna digli che ... –

- No Kai, lui non c’è, nel senso che non abbiamo idea di dove sia –

Il silenzio si fece più fitto.

- Come prego?- Se Ivan non avesse conosciuto bene l’amico, avrebbe quasi pensato che si stesse preoccupando.

- Ieri sera è uscito tardi, stamattina non era al lavoro e al telefono non risponde –

- Che palle ... –

- Ma non è la prima volta che sparisce a caso, quindi ... boh –

- Sì, sì ... mi ricordo come è fatto ... idiota –

- Perché? Che gli devi dire?-

- Ho parlato con mio nonno della storia della bambina. Mi ha detto qualcosa a proposito di un vecchio progetto di Vorkov, mai realizzato –

- Ah –

- Ma se quell’imbecille non c’è ... –

- Kai, di cosa si tratta? Se è roba vecchia possiamo anche non preoccuparcene, abbiamo sistemato tutto l’ultima volta, no?-

- Io non ne sono più convinto –

Ivan afferrò un altro biscotto, sgranocchiandolo piano. Con un balzo si sedette sul bancone della cucina; pigiò il simbolo del vivavoce per stare più comodo. La faccenda si faceva interessante.

- Ti ascolto, dimmi tutto -

- Yuriy è lì con te?-

- No, sono solo. Dovrai accontentarti di me per ora –

- Me ne farò una ragione –

 

...................

 

Prima di cena le strade erano costellate di persone e ombrelli; più ombrelli che persone. Le luci dei lampioni creavano un’atmosfera romantica che solo l’Inghilterra, con la sua commistione di moderno e tradizionale, l’asfalto grigio, l’atmosfera misteriosa e la fretta dei suoi abitanti, sapeva restituire. Quella sera però non pioveva, e gli ombrelli, tutti chiusi, sbatacchiavano per terra ad ogni singolo passo, rischiando di intralciare il cammino altrui.

A Yuriy piaceva la sera, quel momento in cui il sole è calato, ma ancora il cielo è sfumato di arancio nell’orizzonte. La confusione gli permetteva di nascondersi tra gli altri, di non sentirsi osservato; si mimetizzava perfettamente tra tutti quegli uomini in procinto di tornare a casa dal lavoro, quelle donne con la busta della spesa e la cena da preparare in testa. O anche il contrario. Quelle rare volte che aveva sentito parlare Olivier di donne, era per lo più per lamentarsi di quante poche ce ne fossero capaci di cucinare. 

Svoltò nella solita stradina, scontrandosi con le luci al neon del Violet Bar. Erano quasi le sette di sera; un po’ presto per bere, ma per quella sera poco importava. Entrò, salutò con un cenno il piccolo cinese dietro al bancone che, senza chiedere, afferrò un bicchiere preparandogli il solito drink. Yuriy si sedette, questa volta su uno dei divanetti in lucido tessuto rosso, un po’ slavato, per evitare la coppietta molto indiscreta che si stava sbaciucchiando davanti al bar. Inalò l’odore di fumo come fosse una medicina, maledicendo il momento in cui aveva promesso a Boris di smettere.

C’è più fumo nella nostra cucina che nella zona fumatori in metropolitana.

Non aveva tutti i torti.

- Non avrei mai pensato di trovarti qui –

Yuriy alzò gli occhi. Dovette sbattere le palpebre un paio di volte per essere sicuro dell’identità del ragazzo che si stava sedendo nel divanetto accanto a lui. Il nuovo arrivato lo scrutò nella penombra con un sorriso enigmatico, spostando i lunghi capelli argentati dietro la schiena. Indossava un completo bianco che rendeva impossibile non notarlo, persino nel buio del locale.

- Garland –

Il sorriso sul suo volto si allargò.

- Ora sono proprio curioso di sapere cosa ci fai in Inghilterra. Non credevo che uno sputo di bar del genere fosse nel tuo stile –

Anche Yuriy si permise di sorridere – Potrei dire lo stesso di te. Sono qui per lavoro, nulla di eccezionale. Tu invece mi sembri uscito da un film di spionaggio –

Garland si aggiustò il colletto della camicia con un movimento meccanico, quasi fosse abituato a farlo. Una ragazza in un kimono troppo scollato portò loro i drink, lanciando occhiate che non vennero colte da nessuno dei due. Yuriy prese in mano il bicchiere, bevendolo tutto d’un fiato - Che ci fai a Londra? Sei anche tu in giro per affari?-

- Anche? Chi altri ha affari da concludere qui? Non mi dirai che hai abbandonato il beyblade per l’alta finanza –

- Io no, ma Kai era qui pochi giorni fa, e di soldi ne capisce più di noi –

Garland accavallò elegantemente le gambe; dischiuse appena le labbra, ma rimase con il bicchiere a mezz’aria – Sai che quel figlio di buona donna mi ha quasi fatto espellere dal club di scacchi a Tokyo?-

Yuriy fece un mezzo sorriso. Aveva sentito del piccolo incidente sorto in Giappone l’anno prima, molto esilarante.

 - Ho letto qualcosa ... mi sembrava che avessi cominciato tu la discussione – Fece un cenno al barista, che prese subito in mano un altro bicchiere; quella serata sarebbe finita in due soli modi possibili: sbronzi marci, o a letto con una prostituta. 

Garland non apprezzò il commento. Bevve un poderoso sorso di qualunque cosa fosse quello che aveva nel bicchiere, facendo anch’egli cenno al barista di prepararne già un altro.

- Non aveva fatto altro che provocarmi ... –

- ... E gli hai tirato addosso la scacchiera –

Esisteva un solo uomo capace di irritare un campione di calma interiore come Garland, e costui era sicuramente Kai Hiwatari. Lui, i suoi sguardi storti, le sue battute taglienti e i suoi modi di fare da campione del mondo di tutte le attività possibili e immaginabili.

A Yuriy non sarebbe dispiaciuto assistere alla partita di scacchi.

- Non mi hai detto come sei finito in questo bar. Non dirmi che non hai trovato di meglio –

- Non ci crederai, ma il tassista ha forato a dieci metri da qui. L’incidente potrebbe costringermi ad annullare un appuntamento; sembra che in questa dannata città i taxi si siano dati alla macchia. Parlando d’altro – Garland poggiò il bicchiere ormai vuoto sulla copia di scarsa qualità di tavolino in stile orientale – Ho letto che i McGregor hanno avuto uno spiacevole incontro con i ladri questa settimana –

- Sì. Sono stati anche alla villa di Kai, non hai letto i giornali?–

Il moto di sorpresa del ragazzo fu talmente sincero che rimase per un attimo a bocca aperta. Un sorrisetto cattivo e divertito si fece largo sul suo volto.

- Ahi ahi, qui qualcuno non chiude bene la porta prima di andare a letto –

Yuriy alzò le spalle.

- Comunque nessuno ha rubato nulla –

- Nemmeno da McGregor, per quel che so. Strano no? –

- Che c’è di strano?-

- Andiamo Yuriy, non ti si sarà rammollito il cervello in questi anni. Ti pare che qualcuno entri in due ville di quel calibro senza portarsi dietro nessun ricordino? Hai idea di quello che certa gente tiene in casa?-

- Non mi interesso particolarmente di antiquariato –

- Io invece sì, e quando ho visto sul giornale la foto del salotto deturpato di Andrew, ti assicuro che avrei saputo benissimo cosa rubare –

- Forse i ladri non erano esperti. In ogni modo ... – Yuriy si sporse verso l’interlocutore, guardandolo con un’ironia talmente malcelata che per poco non scoppiava a ridergli in faccia – Io mi sarò rammollito, ma  tu sei diventato una pettegola, Garland –

Lui non si fece sfiorare minimamente dall’insulto. Si sistemò meglio sul divanetto, affondò una mano tra i capelli argentati e tornò a guardare Yuriy, con il suo solito savoir faire elegante e distaccato. Abbastanza affascinante per far svenire stuoli di donne ai suoi piedi; ma non per impressionare un soggetto come Ivanov.

- Non mi hai detto cosa sei venuto a fare qui –

Garland sospirò profondamente, guardando l’altro ragazzo di sottecchi.

- Yuriy, Yuriy ... poi sarei io la pettegola? –

- Staresti bene con un fazzoletto a fiori in testa. Che appuntamento ti sei perso? –

- Farò finta di non aver sentito. Ma se ti interessa tanto, ti metterò a parte dei miei impegni –

- Beh, diciamo che la tua esistenza non fa parte delle mie priorità. Ma visto che siamo qui ... sputa il rospo –

- Lo scorso weekend – Cominciò Garland, ignorando il commento del russo - Ho ricevuto una mail da un mittente inglese –

- La regina d’Inghilterra ti si è proposta come moglie?-

- No, ma effettivamente era un invito. Per me. E, sicchè dovevo presentarmi a Londra per assistere al campionato sportivo di una mia cugina ... ho pensato di approfittarne per accettare –

- Aha ... – Yuriy afferrò l’ennesimo bicchiere, facendone sparire in un attimo il contenuto.

- Tutto qui?-

- La sede inglese del comitato sportivo di beyblade vuole realizzare un servizio ... e ha pensato a me, erede di una famiglia di campioni in diverse discipline – Concluse, senza nessuna traccia di falsa modestia – Non ci sono mai stato, ho preferito prendere il taxi piuttosto che noleggiare una macchina –

- Ma come, non hai un autista che ti porta ovunque ti dice il cuore?-

Garland fece finta di non percepire l’ironia.

La storia stava diventando talmente noiosa e autocelebrativa, che Yuriy quasi non si mise a sbadigliare. La mano raggiunse di nuovo il bicchiere, pieno per l’ennesima volta, avvicinandolo alle labbra in un unico, fluido movimento.

- Mi aspettavano a Enfield, vicino a Brimsdown. Un’ora di macchina dal centro di Londra, ti rendi conto? Ma un centro sportivo non dovrebbe essere sistemato meglio? A guardare il navigatore sembra che vogliano farmi finire dritto dentro al Lee Navigation -

Il sake da quattro soldi scese di traverso nella gola del russo. Yuriy boccheggiò per un attimo, pensando che il cuore gli si sarebbe fermato. 

Non è vero

Garland riprese il discorso, ma lui si era estraniato dal mondo. Guardava fisso il bicchiere vuoto sul tavolo, ripensando mentalmente al discorso che due notti prima aveva fatto con Boris.

Igor, i furti, Ivan.

E poi pensò a tutti gli anni spesi a tagliare gli artigli del monaco sparsi per il mondo. E gli fu tutto piuttosto chiaro; gli fu chiaro persino quello cui Garland stava andando incontro, ne capì il motivo, talmente banale da spiazzarlo, e realizzò quanto fosse stato fortunato ad incontrarlo. Di nuovo, il caso si insinuava nella sua vita spezzandone la razionalità.

- Starai scherzando -

Garland alzò un sopracciglio. Il russo era sempre stato un essere enigmatico, ma almeno da più giovane aveva la buona creanza di ascoltare quando qualcuno parlava.

- Come prego?-

- A Brimsdown? Vicino al Lee Navigation?-

- Ci sei andato a puttane e ti sei trovato male?-

- Non dire cazzate Garland. Dov’è il posto?-

- Te l’ho detto, verso Brimsdown, e ... –

- Di preciso, maledizione –

Il ragazzo lo guardò come si guarda chi, in un convegno di scienze politiche, chiede la ricetta della torta margherita. Estrasse il cellulare, mostrando al russo la via esatta nel navigatore ancora acceso.

- Ecco. Hai raggiunto l’illuminazione ora?-

- Garland, qui non può esserci niente. Ne sono certo –

Lui sorrise, nascondendo dietro le labbra il pensiero che i matti andavano assecondati.

- E perchè mai?-

- Perché l’ultima cosa che c’era l’abbiamo fatta saltare in aria io e Ivan, sette anni fa –

Garland smise di ridere. Aggrottò la fronte; le mani raggiunsero automaticamente i polsini, sistemandoli in un gesto meccanico che tradiva un brivido di preoccupazione. Prima che potesse parlare, Yuriy lo incalzò.

- Cosa sai di una bambina?-

- Di chi?-

- Una bambina Garland, dannazione, qualcuno con cui Vorkov aveva a che fare!-

Dalle labbra di Garland esplose una breve risata.

– Vorkov? Mi prendi per un idiota Ivanov? Sai che conosco quell’uomo, non voglio più averci nulla a che fare. Cosa c’entra lui ora? Lo sai che non è ... –

- Cosa, libero? –

I toni si stavano decisamente scaldando, e Garland non era più sicuro di riuscire a tenere Yuriy a freno. Quello che per lui era partito come una sciocchezza, nella testa del russo aveva assunto le terribili sembianze di quell’uomo che li accomunava nello stesso odio.

Stava per ribattere con fermezza per ristabilire la calma, ormai perduta, del loro angolo di bar, prima che il piccolo cinese che li osservava da qualche minuto chiamasse la sicurezza. Poi nel suo cervello scattò qualcosa.

- Una ... bambina. Non ne sono sicuro, ma ... nel suo studio ... aveva delle foto, in un fascicolo. Foto di una ragazzina, molto giovane  –

Ed ecco che i conti cominciavano a quadrare.

- Com’era?-

- Non so dirtelo. Le vidi di sfuggita sulla sua scrivania, ma quel monaco le nascose subito –

- Quando è successo? –

- Quando ancora credevo nel progetto di quello schizzato. Saranno ormai più di dieci anni, ma io ... non avevo più sentito parlare di lui, mi era stato detto che i suoi progetti erano completamente crollati –

- E indovina chi è stato a farli crollare?-

Garland lo guardò in silenzio, per uno, forse due secondi. Non ci mise molto ad arrivare alla risposta; sgranò gli occhi, ma si ricompose subito. Anni prima aveva avuto il sospetto che nel crollo definitivo del monaco ci fosse lo zampino di qualcuno.

- Come avete ... credevo avesse solo perso gli appoggi politici –

Yuriy scosse il capo lentamente.

- Sbagliato. Abbiamo sgominato noi le sue basi, una dopo l’altra, facendo sparire ogni traccia delle sue ricerche su quei maledettissimi bit power –

Perché era su questo che il piccolo impero di Vorkov si fondava: bit power modificati. Ci aveva provato ai tempi del primo campionato mondiale, e aveva continuato la ricerca. 

Garland fece due più due.

- Tutti quegli incendi, le irruzioni nelle chiese sconsacrate a Mosca, le esplosioni in vecchie fabbriche ... ce ne sono stati un’infinità cinque, forse sei anni fa. Eravate voi?-

- Erano tutti suoi laboratori. Senza quelli niente più ricerche, e senza ricerche niente più affari, e quindi se ne andavano anche i suoi accordi con chi gli stava parando il culo –

- Tutti uomini politici o di un certo peso, o sbaglio? Erano loro che lo proteggevano, ecco perché era sempre riuscito a evitare la prigione –

Yuriy annuì. Non aveva staccato per un momento i suoi occhi freddi dal volto esterrefatto di Garland. Persino nella penombra di quel luogo, persino tra i riflessi rossastri delle luci soffuse quegli occhi risplendevano come due pezzi di ghiaccio.

Era affascinante e pericoloso al tempo stesso. Più che il tono tagliente delle parole del russo, più che le rivelazioni di cui gli stava parlando, cose che lo avevano appena sfiorato, ma mai avrebbe pensato fossero reali; più di tutto a farlo temere erano quegli occhi. Loro gli indicarono il pericolo al quale stava andando incontro.

Garland indurì lo sguardo, abbassando il tono della voce.

- Volevano eliminarmi? Quelle foto ... ho visto qualcosa che non dovevo vedere? –

- Lui se n’era accorto? –

- è probabile ... ma parliamo di quasi dieci anni fa –

- Igor ha detto che ha in atto qualcosa, qualcosa che è cominciato da molto tempo ... –

- Chi è Igor?-

Yuriy scosse il capo – Non ha importanza –

Con la coda dell’occhio squadrò il barista, che li stava palesemente ascoltando. Anche perché non avevano esattamente moderato il tono di voce. Si alzò con calma, il respiro regolare come sempre, come se nulla fosse successo. Infilò la mano in tasca e mise distrattamente un paio di banconote sul bancone, lasciando una mancia più che rispettabile. Con un cenno del capo invitò Garland a seguirlo.

- Oggi offro io – Gli sussurrò, spingendolo leggermente verso l’uscita.

 

 

- Sai se altri della vecchia squadra hanno avuto lo stesso invito?-

- No, ma lo scoprirò subito –

Garland afferrò il cellulare appena salito in macchina. Yuriy mise in moto, uscendo dal parcheggio con una retromarcia un po’ frettolosa. Aveva in testa solo una persona.

Boris.

Lanciò il suo telefono all’altro che era ancora in chiamata, dall’apparecchio si sentiva la voce assonnata di Brooklyn.

- Metti il navigatore –

 

Tre quarti d’ora dopo, tempo record, erano arrivati. 

Yuriy si aspettava di trovarsi in mezzo al nulla più totale, invece era una zona abbastanza trafficata; la maggior parte del tempo l’avevano persa nel trovare parcheggio, dietro insistenza di Garland, che di multe sulla coscienza non ne voleva. Si fermarono a pochi metri dall’edificio, abbandonato all’incuria del tempo. Yuriy ne squadrò gli angoli, le crepe, le pareti annerite dal fumo. Ne riconosceva ogni mattone; lui e Ivan avevano studiato dove piazzare le cariche esplosive per settimane.

Era talmente strano pensare ad un agguato in un luogo del genere, che Yuriy venne sfiorato dall’idea di essersi sbagliato.

No

Doveva essere così.

- Entriamo? Tanto vale andare fino in fondo, no?-

Garland era uscito dalla macchina senza giacca. Si tirò su le maniche della camicia, arrotolandole con perizia. 

- Ti tieni in allenamento –

Garland sorrise, il primo sorriso vagamente sadico che sfoggiava da tutta la sera. 

- Non sia mai che mi tiri indietro di fronte al nemico –

 

....................

 

 L’orologio scoccò le due di notte quando Sergej si accorse che qualcuno stava girando una chiave nella serratura. Il vantaggio di avere un appartamento piccolo era che da una stanza si poteva sentire cosa succedeva in tutta la casa.

Nella sua abitazione a Croydon, nulla di più che un monolocale ben curato al secondo piano di una palazzina, a due passi dalla metropolitana, se solo si fermava e stava in silenzio poteva sentire tutto. I vicini che discutevano su chi dovesse pulire il vomito del gatto; il fornaio che andava al lavoro alle tre del mattino, facendo scattare l’apertura del cancello d’ingresso; i passetti rapidi del volpino della signora Williams al piano di sopra.

Si alzò dal letto senza fare rumore. Nel buio scorse la figura di Ivan spiaggiata a pancia sotto, con le coperte ribaltate sul pavimento e i capelli appiccicati al volto. Decise di non svegliarlo; per qualunque tipo di ladro sarebbe bastato tranquillamente lui.

Aprì piano l’uscio, sporgendo la testa sul il corridoio. Si accorse subito che una luce illuminava il salotto e, a giudicare dall’aria fresca, la porta d’ingresso era rimasta aperta. Senza pensarci due volte raggiunse la stanza, a passo così silenzioso che stupì se stesso di non far cigolare le assi del pavimento con la sua stazza. Stava quasi pensando di afferrare un oggetto contundente qualsiasi, giusto per sicurezza; la lampada appoggiata sul mobiletto dove Yuriy teneva i libretti della metro sarebbe andata benissimo. Ma dal salotto provenivano voci fin troppo familiari.

Bastò un’imprecazione prodotta da quello che riconobbe come uno dei padroni di casa a farlo rilassare. Entrò in salotto, pronto a sfoderare il suo sguardo severo più penetrante e ad aspettarsi scuse su dove cavolo quell’uomo dai capelli rossi fosse sparito per tutta la notte. Si preparò ad ascoltare qualunque tipo di spiegazione, ma non alla scena che si trovò davanti.

- Ma che cazzo ... – La parola con la c gli sfuggì di bocca. Seduto sul divano, con una mano vistosamente macchiata di sangue, così come quella che doveva essere una camicia piuttosto costosa, Garland lo salutò con un cenno del capo, come se ripulirsi le mani sporche di globuli rossi, si sperava altrui, fosse una cosa normale.

- Ah, Sergej. Ivan è sveglio?-

Il ragazzo avrebbe voluto rispondere, ma rimase di nuovo attonito nel vedere il suo capitano che, anche lui come se nulla fosse, si tamponava un taglio slabbrato e abbastanza rossastro sulla spalla.

Sergej lì guardò esasperato. Alzò una mano, come per dire qualcosa, ma non sapeva nemmeno lui da dove cominciare. Yuriy prese la parola al suo posto.

- Vai a chiamarlo e digli di avvertire Kai che stiamo andando da lui. Non siamo più sicuri qui –

Sergej lo fissò con due palle d’occhi, a lui e a quell’altro che sembrava uscito da una nottata al Fight club. Avrebbe voluto prima mandarli a quel paese, poi sapere cosa cavolo era successo e dove, per l’amor del cielo, erano stati. Riuscì solo a formulare vagamente un Cosa? a cui Yuriy si premurò di rispondere rendendo la faccenda ancora più caotica.

- Se non ci sbrighiamo ci verranno a trovare gli amichetti del monaco. Credo che non gli sia piaciuto il trattamento di stasera –

Sergej scosse la testa, sperando di aver capito male - Quale trattamento? Che diavolo avete ... –

Yuriy si rivolse a Garland senza fornire altre spiegazioni – Ci servono quattro biglietti aerei per il Giappone. Il primo volo che trovi. Puoi procurarmeli?-

Lui alzò le spalle.

- Mi sdebiterò per il drink di stasera –

Sergej si fidava del suo capitano. Non aveva mai fatto nulla a caso, e non li aveva mai messi in pericolo. Sapeva che quel suo modo di fare significava che la situazione era grave, e che non c’era tempo per le spiegazioni, e sapeva che poteva affidarsi totalmente alla sua organizzazione. 

Ma sapeva anche che usciva da una giornata di lavoro infernale, dove aveva saltato il pranzo perché uno dei bambini era stato male e aveva dovuto chiamare l’ambulanza; e che il suddetto bambino gli aveva vomitato sulla camicia appena ritirata dalla lavanderia; camicia con la quale doveva presentarsi al matrimonio di una sua collega; matrimonio che, a quanto pare, sarebbe stato irrimediabilmente eiettato dai suoi piani settimanali.

Si passò entrambe le mani sul capo, portandosi dietro la testa la chioma bionda. Alzò gli occhi al cielo, indeciso se far finta di svenire o rintracciare il suo ben noto sangue freddo e dare retta al suo capitano.

Optò per una via di mezzo.

Afferrò Yuriy per un braccio, fermandolo nel suo tentativo di fasciarsi lo squarcio sulla spalla con una mano sola. Lo guardò due secondi contati negli occhi, per fargli capire che aveva intuito la gravità della situazione, poi formulò l’unica domanda che non aveva trovato risposta nelle istruzioni del capitano.

- Dov’è Boris? –

La sentenza fu lapidaria, come Sergej si aspettava, e, per qualche motivo, non lo meravigliò nemmeno più di tanto.

- Vorkov –

Bastava questo. Con un cenno del capo Sergej imboccò la porta e si apprestò a buttare giù dal letto Ivan, richiudere tutti i suoi effetti dentro le valigie nel modo più ordinato possibile, e andare in bagno a sciacquarsi la faccia per essere sicuro di non stare sognando. Non necessariamente in quest’ordine.




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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

 

 

 

- Siamo qui riuniti... –

- Salterei le presentazioni. Siamo tipo in otto, e ci conosciamo tutti –

Takao incrociò le mani dietro la testa, squadrando i presenti uno ad uno, in particolare i due che più lo inquietavano della tavolata. Cercò di non guardare troppo intensamente la chiazza di sangue sulla felpa di Yuriy e la fasciatura sporca sulla mano di Garland.

- A proposito, com’è che vi siete incontrati voi due?-

Yuriy rispose senza neanche guardarlo, troppo impegnato a comporre l’ennesimo numero di telefono della giornata.

- Frequentiamo lo stesso bar –

- Oppure vi scopate la stessa puttana. Ha poca importanza –

Occhi sgranati fissarono Kai, più irritato di un bagnante ricoperto di meduse. Rei sospirò, rassegnato all’idea che quella giornata potesse solo peggiorare.

- La finezza non è migliorata –

Kai bevve il suo tè senza dire una parola, gli occhi ridotti a due fessure puntati sul suo ex capitano.

 

- Arriviamo all’aeroporto di Tokio alle tre del pomeriggio-

- Come scusa? –

- Ti aspettiamo lì –

- Cazzo Yuriy sono le due di notte –

- Ti spiegherò poi –

- Sarà meglio che tu lo faccia –

 

Le spiegazioni erano arrivate quel pomeriggio, insieme a tre quarti della squadra russa e un quinto della vecchia BEGA. Quando Kai si era visto entrare in macchina Garland per poco non aveva dato di matto, ma Yuriy aveva messo in moto costringendolo a riprendere le redini del volante.

Il tragitto era stato carico di insulti amichevoli tra i due avversari del Chess club di Tokio, le richieste di Sergej di avere un minuto, uno, di silenzio in quella macchina di indemoniati, le impronte della faccia di Ivan sull finestrino dove si era addormentato e i tentativi di chiamate telefoniche di Yuriy, tutti conclusi senza risposta e con mille imprecazioni.

I chiarimenti veri e propri cominciarono a casa, davanti al caminetto del salotto e alle rivelazioni che il nonno aveva fatto a Kai, e che lui aveva già spiegato a Ivan.

E, la mattina dopo, erano tutti a casa di Takao. Perché in quel pandemonio Yuriy si era accorto che gli serviva il numero di telefono di McGregor, e l’unico che poteva avercelo lì dentro, Kai, lo aveva cancellato perché ritenuto inutile e controproducente per la sua salute mentale.

Per fortuna Takao era una fonte preziosa in necessità di stalkeraggio.

- E quindi avete fatto a botte?-

- Pressappoco –

Kenny, che si era già pentito di non essersi rinchiuso nel suo laboratorio appena aveva intravisto del sangue addosso a Yuriy Ivanov, guardò Garland come se fosse un alieno – Pressappoco? Sembrate usciti da un film horror!-

Il telefono di Yuriy squillò in quel momento.

- Ce ne ha messo di tempo ... – sussurrò, rispondendo all’inglese che finalmente si era degnato di richiamarlo.

- Chi parla?-

- La fata turchina. Quanto cazzo ci metti a rispondere al telefono?-

- Oh, è un piacere risentirti, mi mancavano gli insulti di prima mattina –

- Ho bisogno di alcune informazioni, e l’Inghilterra per voi non è più sicura –

- Frena frena. Vai con ordine perché non sto capendo cosa ... –

- Potreste incappare in qualcuno di molto cattivo e molto armato, vi consiglio di prendere il primo volo per il Giappone –

Dall’altra parte dell’apparecchio si sentì distintamente il Mon dieu di Olivier spezzare il silenzio esterrefatto dell’inglese.

- Yuriy, mi vuoi dire cosa succede?-

- Vorkov potrebbe venire a bussare alla vostra porta, ed essere meno gentile dell’ultima volta –

A sentire pronunciare quel nome nella stanza calò il silenzio. Tutti si aspettavano che fosse successo qualcosa di grosso, e che quel qualcosa prevedesse anche il monaco, ma sicuramente la concretizzazione di quell’eventualità fece un certo effetto.

Kai e Garland incrociarono gli sguardi, in una tacita tregua dalle divergenze scacchistiche.

La voce di Andrew tornò a tuonare dall’altra parte del telefono, con accentuato allarmismo.

- Spero tu stia scherzando!-

- Non lo sto facendo, e ora muovetevi –

- My ... come fai a dire che ... –

- Siamo stati attaccati anche noi due giorni fa, sono sicuro che torneranno a trovarvi –

- Wait Wait ... “torneranno”? Quindi i ladri dell’altra settimana erano uomini di quel pazzoide?-

- Andrew, ve la date una cazzo di mossa?-

- Quando cavolo pensavi di dircelo che rischiavamo la pelle a starcene a casa?!-

- Ve l’avrei detto prima se qualcuno avesse risposto a quel maledetto telefono!-

- Ma io che ne sapevo che il numero era il tuo?!-

La voce di Yuriy si ridusse ad un sibilo. Portato all’esasperazione staccò il telefono dall’orecchio, portandolo direttamente davanti alla bocca per essere sicuro che i due dall’altra parte sentissero molto bene ciò che aveva da dire.

- McGregor, prendete un cazzo di aereo, un traghetto, un tandem, il cavolo che vi pare, ma muovete in fretta i vostri culi in Giappone –

Poi chiuse la chiamata senza curarsi delle possibili obiezioni, di cui comunque non gli fregava assolutamente nulla.

Rei, nel silenzio di tomba che si era creato, si azzardò a rompere la magia dando sfogo ai dubbi che occupavano la mente di quasi tutti i presenti.

- Possiamo sapere cosa sta succedendo?-

Yuriy guardò Ivan, che lanciò un’occhiata a Sergej, che fece altrettando con Garland, e il giro si chiuse con tutti gli sguardi puntati su Kai. Yuriy si sedette a terra sul cuscino rosa pallido; Kai aveva parlato con il nonno illuminandoli sulla questione, e Kai avrebbe spiegato tutto ai componenti della sua vecchia squadra.

-  A te l’onore –

Il giapponese colse tutta l’ironia possile e immaginabile nelle parole del russo, ma si astenne dal fare commenti. Si schiarì la voce.

- Sta succedendo qualcosa, e quel qualcosa è partito da Vorkov –

 

...............

 

- Dunque, fatemi ricapitolare ... –

Avevano passato la precedente ora e mezza a dare spiegazioni su spiegazioni di tutto quello che era successo dall’inizio della settimana, interrotti dalle domande diversamente intelligenti di Takao, a cui ancora sfuggiva il punto della situazione.

Il capitano dei Bladebreakers portò le mani alla fronte, massaggiandosi le meningi. Tutta quella storia era un’assurdità. Assottigliò gli occhi e puntò un dito verso Yuriy.

- Boris è andato da questo Igor, che gli ha parlato di un certo piano di Vorkov ... –

- Aha –

- Poi Andrew e Kai sono stati derubati ... –

- Esatto –

- E hanno pedinato Ivan. E fin qui ci siamo –

Kai sospirò; gli avrebbe volentieri lanciato in faccia la tazzina del tè, ma si contenne.

- Esattamente cosa non hai capito?-

Takao si massaggiò la fronte con più enfasi.

- Dunque, credo di aver capito ... credo ... che Garland era in pericolo perché anni fa aveva visto qualcosa che non doveva vedere ... e quindi Vorkov ha cercato di eliminarlo ... forse ... –

Rei unì i suoi dubbi a quelli dell’amico, intervenendo sulla questione.

- E tutto sarebbe collegato con i furti? –

- Esatto!- Takao esclamò all’improvviso facendo sobbalzare Kenny,  che non ne aveva più per nessuno e si era accasciato a terra, spalmato sul cuscino.

- Non ci arrivo: perché Andrew è in pericolo? Cosa cercavano a casa sua e di Kai, e poi da Ivan ... cioè, che c’entra tutto questo con Vorkov?

- In qualche modo lui è nel mezzo, poco ma sicuro –

- Ma ne siete davvero sicuri? –

- Sì –

La risposta lapidaria di Yuriy zittì Takao, inchiodato al pavimento dal suo sguardo gelido. Il giapponese alzò le mani in segno di resa.

- Scusa, scusa, non volevo insinuare niente –

Per la prima volta nella sua vita, Kai diede ragione alla curiosità di Takao. Si erano presentati da lui in fretta e furia per avere quel cavolo di numero di telefono di quel cavolo di inglese, dando spiegazioni affrettate, e abbastanza lacunose. E ora il giapponese aveva in casa due soggetti macchiati di sangue, dei quali uno aveva rischiato la vita pochi giorni prima. Come minimo si meritava un grazie. Kai avrebbe provveduto a riferirglielo qualora il suo ego glielo avesse permesso.

Fu Kenny a spezzare il silenzio, con una domanda più che legittima.

- E ora? Che farete?–

Nessuno sapeva cosa rispondere. Cioè: Yuriy lo sapeva. Come lo sapevano Ivan e Sergej, e anche Kai che faceva finta di non centrare nulla con la faccenda.

Il rumore dello sciacquone del water, e la vescica carica da quella mattina, imposero a Garland di alzarsi e prendere il posto di Ivan, che finalmente lasciava sola la toilette.

- Beh, visto che Ivanov ha insistito tanto per chiamare qui McGregor e quell’altro, tanto vale aspettare fino a domani, no?- Concluse, indicando con quell’altro il povero francese che si era trovato completamente vittima degli eventi.

L’avvicinarsi di un vociare continuo verso la porta d’ingresso interruppe Takao e i suoi tentativi di invitare tutti a dormire da lui, anche se il più si è meglio è non venne recepito alla perfezione dai russi. Soprattutto non da Kai, che finalmente trovava nell’ospitare alla villa i suoi ex compagni di squadra la scusa buona per levarsi dai piedi. Rei guardò l’orario di sfuggita dal piccolo orologio appeso alla parete del dojo, troppo in alto per essere notato, ma non per i suoi allenatissimi occhi.

Quasi le quattro del pomeriggio.

Deglutì a fatica quando gli tornò in mente che la sera prima aveva promesso a Mao di portarla in giro per la città. Sperava se ne fosse dimenticata; dopo quell’estenuante riunione non aveva davvero nessuna voglia di fare qualcosa che non fosse preparare una camomilla e dormire fino al giorno dopo.

Le vocette acute si fermarono sull’uscio della porta, che quando si aprì rivelò ai presenti le figure familiari delle due blader ospiti di casa Kinomiya. Mao e Hilary rimasero con le parole in sospeso; davanti a loro c’erano almeno cinque persone che non ricordavano di avere notato la sera prima.

Mao fermò i pettegolezzi sulla punta della lingua, davanti alle facce talmente serie dei maschietti seduti a terra che sembravano in procinto di organizzare un funerale. I suoi occhi saettarono su Rei, in cerca di una spiegazione a quella che sembrava una riunione di condominio interrotta. O un rito satanico mancato.

Il silenzio fu così denso e prolungato da risultare imbarazzante; visto che nessuno sembrava voler rompere il ghiaccio, Hilary prese la parola.

- Abbiamo ... interrotto qualcosa di importante?-

Takao si accorse solo in quel momento di essere rimasto imbambolato a fissare un lembo del cuscino su cui era seduto. Scosse il capo, alzandosi finalmente in piedi con uno sforzo non indifferente, dopo una mezza giornata seduto per terra.

- Venite ragazze, stavamo giusto ... –

- Garland! Wow! –

Mao puntò il dito contro il ragazzo appena uscito dal gabinetto, che ancora si stava sistemando la camicia sotto i pantaloni. Lui la salutò con un sorriso cortese mentre la cinesina si avventò sui suoi capelli, attirata da quei lunghissimi fili argentei che risvegliarono in lei la rinnovata passione per le acconciature, di cui stava appunto parlando con Hilary.

Mentre Mao era troppo occupata a pettinare i capelli di Garland, che tentava di liberarsi gentilmente delle di lei cattive intenzioni prima che lo riempisse di treccine, sotto lo sguardo contrariato di Rei, Hilary prestò attenzione alla restante parte non identificata di ospiti.

- E voi? Che ci fate tutti qui?-

Yuriy la salutò con un cenno; Sergej cercò di essere più cordiale, nonostante con la giapponesina avesse avuto molto poco a che fare.

Quando lui azzardò un abbraccio amichevole, Hilary per poco non sprofondò tra i suoi pettorali. Yuriy e Ivan guardarono di sbieco il compagno di squadra; se l’avessero preso solo un anno prima, non gli sarebbe passato neanche per l’anticamera del cervello di dispensare coccole. L’asilo l’aveva completamente ammorbidito.

- Allora? Vi siete presi una vacanza? Aspetta ... ma ... – Mao contò i presenti membri della squadra russa pensierosa – Ne manca uno! Dov’è quello squilibrato?- Chiese, riferendosi palesemente a Boris.

Sergej si rifiutò di spiegare. Indicò Kai con un cenno del capo, al quale il ragazzo rispose con un’occhiata di fuoco.

Mao e Hilary si guardarono negli occhi senza intendere cosa non andasse.

- Ragazzi?- Incalzò la cinesina sedendosi accanto a Rei e trascinando con se i capelli di Garland, che fu costretto a sedersi a sua volta.

- Oddio! Ma tu sanguini!-

Il grido semi terrorizzato di Hilary fece girare gli sguardi su Yuriy e sulla macchia rossa che si stava allargando sulla felpa. Lui si coprì la parte lesa con una mano, come se bastasse a non farla vedere.

- Non è nulla –

- Ma starai scherzando –

La frase fu detta con una tale intensità che Yuriy rimase di sasso, come un bambino beccato a copiare dalla maestra. Sotto gli occhi attoniti del russo Hilary gli si avvicinò, per fare non sapeva bene cosa; ma qualcosa andava fatto di sicuro.

- Sei stato all’ospedale? –

- No – Yuriy l’avrebbe anche mandata a cagare, ma decise di cercare di essere gentile.

- Sto benissimo –

- Ok, ora ci dite che cosa succede – La richiesta perentoria di Mao, che più che richiesta era un ordine, colpì i presenti come una valanga. Kenny stava per andarsene; non si sarebbe certo fatto un’altra mezza giornata di infinite spiegazioni.

- Mao ... possiamo dirtelo più tardi? – Azzardò il professore con aria supplichevole.

- No –

Mao si era infine trasformata in un generale. Era solo questione di tempo.

A salvare la situazione, inaspettatamente, ci pensò Ivan. Rimasto in silenzio a godersi lo spettacolo fino a quel momento, decise che di stare seduto nel dojo non ne aveva più voglia. Si alzò, stiracchiando braccia e gambe con una tranquillità ammirevole, come se avessero parlato di gattini e non di questioni di vita o di morte.

Poi, col viso più angelico possibile, disse: - Rei perché non le spieghi tu come stanno le cose? Hai detto che è la tua ragazza, no?-

Girò i tacchi, concludendo con un prenditi le tue responsabilità sibilato e scattò fuori dal dojo con un sorriso furbo sulla faccia, lasciandosi alle spalle il volto paonazzo del cinese, la bocca spalancata di Mao e le espressioni allibite di buona parte dei presenti, più quelle devastate di Sergej e Kai. Nel dojo scoppiò un vociare scomposto, orchestrato dalle due ragazze, mentre Rei cercava di portare le sue ragioni sul fatto che Mao è una sorella per me, e Mao lo zittiva con un Questo vuol dire che non mi vuoi?.

Fu il turno di Yuriy di sgattaiolare al bagno. E decise che ci sarebbe rimasto molto, molto a lungo.

Takao incrociò le braccia dietro la testa, estraniandosi dal coro di voci e dai vani tentativi di Rei di spiegarsi davanti all’amica d’infanzia. Il giapponese si grattò distrattamente i capelli.

- Io però non ho capito perché hanno voluto chiamare Andrew ... –

Un brontolio del suo stomaco, puntuale come un orologio per l’ora della merenda, gli fece venire in mente che in dispensa c’erano dei buonissimi mochi pronti per essere divorati. E ogni altro pensiero perse d’importanza.

 

.....................

 

- Perché non hai detto niente su quello che ha riferito il nonno di Kai? Intendo, la storia della bambina-

- Non sono affari loro –

- Ormai credo che lo siano, gli siamo piombati in casa senza alcun motivo ... –

- Allora muoviamoci a levare le tende, così loro torneranno a farsi i cazzi propri e noi faremo altrettanto –

Yuriy sciolse la blanda fasciatura che si era fatto la sera prima, borbottando come un anziano davanti a un gruppo di teenagers in skateboard. Tra un perché cazzo siamo venuti? e un la prossima volta lascio McGregor a crepare, eliminò la vecchia benda, rivelando un taglio abbastanza arrossato da essere quasi sicuramente infetto.

Sergej indicò lo scempio sulla spalla dell’amico con un cenno del capo, reprimendo un moto di vago orrore. Non gli era mai andato a genio il sangue; cosa curiosa, visti i trascorsi suoi e della squadra.

- Dovresti fartelo vedere –

- Non ce n’è bisogno –

Era una causa persa. Non si era preso cura di se stesso nemmeno una volta nella sua vita, e non avrebbe certo cominciato ora. Ma stare a casa di Takao, con annessi i suoi amici giapponesi e non, significava anche subire gli istinti materni del blader e il suo assurdo modo di comportarsi come se fosse amico di tutti.

Sergej cambiò argomento, ben conscio che non sarebbe riuscito a convincere quella testa di rapa del suo capitano a farsi controllare da un medico. O per lo meno da Rei.

- Garland ha detto qualcosa dei suoi compagni di squadra?-

- Nessuno ha ricevuto lettere, o chiamate anonime –

- Hai pensato che ... –

- ... Che Garland non mi abbia incontrato per caso e che la sua fosse una trappola? Sì, ci ho pensato –

- è per questo che lo vuoi portare con noi da Kai?-

Sergej era riuscito a spiegarsi l’improvvisa voglia di Yuriy di non perdere di vista Garland in un solo modo: aveva paura che facesse da tramite a Vorkov, e per prima cosa, se era vero, sperava di cavargli qualche informazione; poi, in fondo alla lista delle motivazioni, poteva esserci anche quella di non lasciarlo da Takao mettendo eventualmente in pericolo lui e gli altri.

Yuriy era un tipo che di pesi in più sulla coscienza non ne voleva.

- Quella gente ci voleva morti Sergej. Questo – Si indicò il taglio sulla spalla – Era per lui –

- Ti sei preso un colpo diretto a Garland?-

- Erano in tre a circondarlo. Per fortuna che a fermare il quarto c’ero io, o la coltellata se la sarebbe trovata negli occhi –

Le sue parole erano fredde e taglienti come una lama, ma tutt’altro che preoccupate. Raccontava di un combattimento armato come niente, riflettendo su quello che era successo. No, non stavano fingendo. Avrebbero ucciso Garland se ne avessero avuto l’opportunità.

- Escluderei che sia stata tutta una messa in scena-

Sergej richiuse la valigia, per l’ennesima volta in quella settimana. Ogni volta che lo faceva la zip sembrava girare attorno al bagaglio con sempre più difficoltà, come se i vestiti si moltiplicassero. Ciò gli fece venire in mente che erano giorni che non faceva un bucato.

- Dici che Kai ha una lavatrice a casa?-

- Ne avrà anche più di una in quella casa da ricconi. Il vero problema è se la sa usare –

Yuriy frugò nella tasca dei jeans alla ricerca di qualcosa.

Imprecò sottovoce.

- Yuriy –

- Cosa?-

Sergej lo guardò di sottecchi, intuendo le intenzoni dell’amico.

- Cosa stai cercando?-

- Niente – mentì, ma l’altro lo sapeva benissimo. Da quando stava cercando di smetterla con il fumo, era nato in lui il tic nervoso di frugare in ogni dove alla ricerca di nicotina, sicuro di aver lasciato delle sigarette in giro tra le tasche dei suoi abiti.

- Sei nervoso?-

Yuriy rise – Nervoso io? No Sergej, no, ho solo una ferita che pulsa maledettamente perché ho fatto a botte con gli uomini di Vorkov, e un componente in meno nella squadra che molto probabilmente è già nelle grinfie dei quello schizzato di un monaco – Afferrò il suo borsone agganciandolo alla spalla sana con malcelata rabbia – Non sono nervoso. Sono ... –

- Arrabbiato –

Kai apparve sull’uscio della porta, braccia incrociate sul petto e viso incrinato dalla battuta ironica che aveva sulla punta della lingua.

- Il nostro capitano è arrabbiato- Scosse il capo con lentezza, facendo ondeggiare ciuffi argentei davanti al volto – Povero, povero piccolo Yuriy –

- Non hai nessun altro da tormentare Hiwatari?-

Kai entrò, sedendosi sul letto, le labbra tirate in un mezzo sorriso.

- Ahi Ahi, quando chiami le persone per cognome vuol dire che tira una brutta aria –

Per quel che ne sapeva Sergej, poteva anche scoppiare la terza guerra mondiale. Tutto dipendeva da come Yuriy avrebbe preso le battute sarcastiche dell’altro. L’atmosfera, già pesante, si fece densa di elettricità, ammorbidendosi solo quando sul volto di Yuriy comparve lo stesso sorriso ironico, appena accennato, che coronava l’espressione di Kai.

Il rosso fece ricadere il borsone a terra.

- Sì. Sono arrabbiato –

- Immagino anche di sapere perché –

- No. Non lo sai –

La frase pronunciata dal capitano risultò talmente enigmatica che l’ironia sprizzata da Kai si incrinò. I suoi occhi si allargarono impercettibilmente.

Yuriy riprese; glielo doveva dire. Era qualcosa in cui erano dentro anche loro, fino al collo.

- Dov’è Ivan? Non voglio ripetere la cosa un’altra volta –

Sergej con un cenno gli diede a intendere che sarebbe andato lui a chiamarlo. Kai si sistemò meglio sul letto, concentratissimo sulla figura del rosso. Tentare di studiarlo era inutile; Yuriy se ne stava in piedi in mezzo alla stanza, impenetrabile come una parete di roccia. Unico indizio che il suo corpo esternava per far capire la tensione che lo stava attraversando, erano gli occhi; due lastre di ghiaccio, fisse in quelli di Kai. Se avessero potuto, avrebbero facilmente comunicato con la sola forza del pensiero.

Quando i due membri mancanti della squadra entrarono in religioso silenzio, bastò che Sergej si premurasse di richiudere la porta scorrevole dietro di se. E il racconto cominciò.

- Kai, Hito ha parlato di una lei per quanto riguardava un progetto di Vorkov, qualcosa di molto vecchio-

- Mi ha anche detto che non andò mai in porto –

- Però Garland è sicuro di avere visto delle foto di una ragazza tra i documenti del monaco-

Di nuovo nel giro di quei pochi minuti lo sguardo di Kai ebbe un fremito. L’atmosfera densa della stanza si appesantì impercettibilmente.

- è per questo che hanno cercato di eliminarlo? Perché aveva visto queste foto?- Azzardò Ivan, seguito da un cenno di assenso del capitano.

- O almeno, questa è l’idea che mi sono fatto io. Certo, potevano essere foto di chiunque. Ma c’è un’altra cosa. Ti ricordi della ragazza in chiesa Kai?-

- Quella dell’anello?-

- Ti sei accorto che l’anello non lo hai più?-

- Non direri, mi ero quasi scordato di ... –

- Lo ha preso Boris –

La pesantezza nell’aria creebbe all’udire quel nome. Non avevano dato spiegazioni sul perché lui non fosse presente, ma sapevano tutti che ogni ospite del dojo si stava facendo delle domande a riguardo. Il fatto che l’amico fosse sparito e che non si potesse fare nulla per lui, se non aspettare, logorava ognuno dei partecipanti a quella riunione privata indetta da Yuriy. Sapevano con chi era; la loro era una supposizione quasi certa.

- Perché?- La domanda di Kai fu più che legittima, esattamente come lo era stata quella di Takao nel chiedere spiegazioni su cosa cavolo stava succedendo a quei ragazzi. Ma, a differenza della prima volta, il quesito ebbe risposta.

- Per via di Rosemary –

L’aria, divenuta pesante come un macigno, si schiantò al suolo. Ivan saettò gli occhi su Yuriy; non sapeva nemmeno lui se aveva paura che il capitano continuasse, o se era curioso di sapere se quello che stava per dire lo avevano pensato tutti in quella stanza. Non era stato così difficile fare la semplice somma degli eventi, non per loro che conoscevano il significato nascosto dietro ogni pedinamento, dietro ogni rapina.

Yuriy gettò il capo all’indietro, prendendo una breve pausa per pensare. Si passò le dita affusolate tra i capelli, nascondendo per un secondo, uno solo, il ghiaccio degli occhi dietro le palpebre.

Era strano tornare a ricordare dopo così tanti anni, dopo aver cercato strenuamente di lasciarsi alle spalle qualcuno.

- Non so perché. Ma la sera prima che sparisse abbiamo parlato, e lui aveva tirato in ballo quell’anello quando ha cominciato a parlarmi di Rosemary. Mi ha detto che l’anello era suo–

Gli sguardi dei presenti parlarono al posto delle voci, e fu palese che nella testa di ognuno di loro quel due più due che aveva già fatto Boris, e a cui Yuriy non aveva creduto, combaciò alla perfezione.

- Prima io ... poi Andrew – Sussurrò Ivan, gli occhi concentrati sul capitano; strinse i pugni senza accorgersene, irrigidendosi alla sola idea che ci avevano messo giorni per venire a capo di una storia così semplice.

Yuriy continuò il ragionamento con mente fredda, esponendo dei semplici calcoli che gli avevano messo davanti un risultato ambiguo.

- Tu e Rosemary siete stati molto legati Ivan, anche dopo l’ultimo campionato, nonostante  la nostra decisione di non ... –

- Vuoi dire che mi hanno pedinato perché cercavano lei?-

- Prima hanno controllato te, poi Andrew. E McGregor la conosceva, dopo che noi ci siamo ... allotanati, lei ha passato due anni a Londra –

Kai interruppe il ragionamento.

- E da me suppongo cercassero dei vecchi documenti del monasero, visto che anni fa abbiamo dato fuoco a tutti i loro archivi –

- Quasi certamente –

- E Boris?-

Quello era l’unico punto che non quadrava. Perché era sparito? Cosa volevano da lui?

- Mi disse di averla vista –

Ivan trattenne il fiato.

- Aveva visto Rosemary?-

Yury annuì. Sergej scrollò il capo con forza; piegò le labbra in un mezzo sorriso cercando di essere più convincente possibile, ma il corpo non la smetteva di irrigidirsi.

- Non è possibile Yuriy, sai come stavano le cose –

Ci avevano messo quasi dieci anni per allontanarsi da lei, ogni giorno più distanti, ogni mese più silenziosi. Sapevano di avere chiuso con quella ragazza, ma le parole di Kai non sapevano abbastanza di verità.

- Eppure lui ha detto così. E subito dopo averla vista ... è sparito –

- No!-

Ivan scattò in piedi con una tale veemenza che la sedia strisciò all’indietro sul pavimento. Puntò uno sguardo accusatore su Yuriy.

- Non penserai che lei lo abbia messo nelle mani di Vorkov?!-

Sergej mise una mano sulla spalla del più piccolo.

- Nessuno ha detto questo –

- Però lo ha insinuato –

I profondi occhi rossi di Ivan si riempirono di un misto tra rabbia, malinconia e incredulità. Forse quella ragazza stava ricomparedo nelle loro vite, ma si rifiutava di credere che fosse finita a patteggiare con il monaco.

- Possiamo fare mille ipotesi, ma finchè non sentiremo cosa ha da dire Andrew, non avremo nessuna certezza. Lo hai chiamato per questo, vero Yuriy? Per dirci quanto ne sa di Rose –

Quel nomignolo rieccheggiò tra le quattro pareti, portando a galla la maliconia dei ricordi a lei legati. Sergej ci aveva visto giustissimo; Yuriy non aveva dubbi che quello che aveva esposto in quei minuti fosse già passato per la testa dei compagni.

Prese di nuovo in spalla il borsone.

- Ora non ci resta che aspettare –

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***



Capitolo 7

 

- Grazie-

- Non l’ho mica fatto per te –

- Grazie lo stesso –

 

 

Si svegliò di soprassalto, percependo immediatamente che qualcosa non andava. Respirava affannosamente, il cuore batteva più forte del normale e sentiva caldo, troppo caldo. Sbatté le palpebre un paio di volte per abituarsi alla luce innaturale di quel luogo. Capì di essere in una piccola stanza; davanti a lui si ergeva una porta fatta per metà da sbarre di metallo; una luce fredda le attraversava, gettando su di lui ombre tremolanti. Ci mise un attimo a capire di essere in una cella, e ricordò anche come ci era finito.

Rosemary

Boris fece per alzarsi, sforzando il corpo indolenzito; non sapeva da quanto si trovava lì ma, a giudicare dalla schiena che gli doleva, aveva passato sicuramente più di qualche ora seduto su quello scomodo pavimento. Quando cercò di muovere le braccia riuscì a spostare solo il sinistro. Guardò di sbieco la parete; una catena  teneva l’altro braccio agganciato al muro.

Fantastico

Si accasciò di nuovo contro la parete; poi chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro. Fece mente locale riportando a se i ricordi della sera dell’incontro. La lettera, l’’anello, Rosemary, quegli uomini, la scarica del taser.

È stata lei

Ricacciò quella vocetta lontano dai suoi pensieri. Non voleva crederci. Non poteva essere solo una trappola, non di Rosemary. Lei non l'avrebbe mai fatto, e sicuramente non lo avrebbe fatto per Vorkov.

- Ciao Boris –

Alzò piano gli occhi verdi, non aveva fretta. Le labbra si curvarono in un sorriso distorto.

- Sei venuta a darmi il buongiorno?-

Gli occhi di lei erano rivolti verso il ragazzo, ma non lo guardavano davvero. Boris ne era attraversato. Lei era persa in qualcosa di sconosciuto, la sua mente era completamente assente nonostante volesse sembrare autoritaria, lì, davanti alla cella, nascosta dalle sbarre.

Ma Boris voleva sapere dove stessero vagando i suoi pensieri.

- Come sei cresciuta Rose –

- Zitto – La sua voce era poco più di un sussurro, le parole dette con scarsa convinzione risuonarono tra le sbarre. E, di nuovo, i suoi occhi non lo guardavano.

- Te lo avevo detto di darmi Falborg –

- Oh, quindi questa è la punizione?-

- Te ne saresti potuto andare, e invece ... –

- E invece cosa?- La incalzò lui – Cosa sei stata costretta a fare?-

Non ebbe risposta. Lei era di nuovo lontana, nascosta, non la poteva vedere con chiarezza. Non sapeva se stesse ridendo o piangendo, se con l’indice cercasse di scalfire le pellicine del pollice come faceva sempre da piccola; non riusciva a capire, nel semibuio azzurrognolo del corridoio, se portasse ancora quegli occhiali così spessi, se i capelli fossero sempre biondo cenere.

- Guardami –

Era un ordine, e per qualche motivo Rosemary obbedì. Non era mai stata una ragazza ubbidiente, e questo suo vivere all’infuori degli schemi, nella sua ingenuità, in una felicità per gli altri irraggiungibile, l’aveva posta in serio svantaggio al monastero.

- A che gioco stai giocando?-

- Fra poco ... sarà tutto finito –

Lui alzò un sopracciglio; soffiò una risata sarcastica.

- Cosa? Cosa deve finire?-

- Mi dispiace, non avevo alternativa –

- Rosemary –

-Lo so, lo so che ho sbagliato ... –

- è stato Vorkov?-

Lei portò una mano agli occhi, e Boris fu sicuro che stesse per piangere. Era sempre stata una piagnucolona. Quando per l’ennesima volta lei non rispose, fu anche sicuro che i suoi sospetti, come quelli di Yuriy, erano veri. Il nome del monaco svettava a caratteri cubitali sulle loro teste, pronto a calare come una ghigliottina.

- Vattene via. Appena potrai, esci di qui e vattene –

- Prima rispondimi. A che ti serve Falborg? Perché serve a lui?-

Rosemary scosse la testa. Le spalle si mossero in piccoli spasmi, le mani andarono di nuovo ad asciugare gli occhi.

Boris avrebbe voluto guardarla con durezza, con cattiveria; con il suo sguardo che pietrificava gli avversari al di là del campo da gioco e faceva paura agli ubriachi nelle risse da bar. Avrebbe voluto ridere e dirle cosa fare, come faceva quando erano piccoli, quando lei non sapeva come comportarsi davanti alla rigidità delle regole del monastero. Strinse i pugni facendo tintinnare la catena che lo teneva inchiodato al muro, maledicendola più volte.

- Dimmelo maledizione!- esplose al silenzio ostinato di lei.

- Mi dispiace ... mi dispiace ... –

Ripeté le parole come una cantilena, piegando leggermente il busto in avanti con le mani strette al petto, come se il cuore le stesse facendo male.

- Perché lo stai facendo?-

- Perché voglio che finisca tutto – Sembrava lo stesse dicendo più a se stessa che a lui. Alzò di poco la testa, giusto per far riflettere i suoi occhi in quelli di Boris, guardandolo davvero solo in quel momento.

- Sono stanca Boris, stanca di essermi di nuovo trovata a fuggire, a nascondermi, ad avere paura–

- Da cosa stai cercando di salvarci?-

La domanda la spiazzò, e Boris se ne accorse. Lui sorrise impercettibilmente.

- Ti conosco bene Rose. Non è tutta farina del tuo sacco questa, tu non sei così. Perchè lo hai fatto? –

- Questa era una battaglia solo mia. Volevo ... volevo solo provare a vincerla. Da sola –

- Perché volevi Falborg? Devi dirmelo, penso di esserci in mezzo anche io a questo punto –

- Non avresti dovuto. Ma io non ho potuto ... salvarti. Non ce l’ho fatta a fare tutto da sola. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace –

- A fare cosa? Perché ci dovresti salvare? Rosemary, giuro su dio che appena esco da qui ti prendo a schiaffi–

Uno spasmo un po’ più forte degli altri la scosse. Un sorriso le si disegnò in volto, un po’ per il pianto, un po’ per il tentativo di Boris di fare dell’ironia. Lui si addolcì appena.

- Mi dici come faccio ad aiutarti, se non so chi andare a picchiare?-

Lei si aggrappò all’improvviso alle sbarre. Prese il coraggio a due mani e lo guardò fisso, anche se si era ripromessa di non farlo. E, quando si fu tuffata in quegli occhi di un bellissimi, gelido verde chiaro, seppe che sarebbe stato ancora più difficile farla finita. Perché quello era una specie di capolinea.

- Io ... –

Distolse gli occhi, abbassò il capo fino a toccare le sbarre con la fronte. Quando si rialzò la voce le era venuta a mancare. Sussurrò qualcosa, mimando un labiale ben scandito.

Boris sentì distintamente il cuore perdere più di un battito.

Poi, all’improvviso, lei girò i tacchi. Il ragazzo sgranò gli occhi.

Non ci provare

- Rosemary!-

Tentò di alzarsi ma il braccio incatenato al muro lo inchiodò a terra.

- Hei!-

Le sue urla si spensero nel corridoio; l’eco rimbombò sulle pareti senza raggiungere la persona desiderata.

Il cuore continuava a lavorare a intermittenza al pensiero che di nuovo, come dieci anni prima, l’aveva persa così; in silenzio, davanti ai suoi occhi, senza fare niente. Ma la prima volta la decisione era stata sua; sua e degli altri, ma anche, e soprattutto, sua. E si era preso le sue responsabilità. Adesso no.

Adesso non te lo permetto

 

..............

 

Decise di aspettare. Prima o poi qualcuno sarebbe arrivato, ne era sicuro. Era solo questione di tempo; non lo avrebbero portato lì solo per tenerlo incatenato ad una parete, con Falborg perso chissà dove e Rosemary a svolgere un ruolo non proprio chiaro alle sue spalle.

Tentò di nuovo a forzare gli anelli d’acciaio con un tirone ben assestato, con l’unico risultato di farsi male al polso. A giudicare dal bruciore che sentiva sulla pelle, l’anello che lo teneva congiunto alla catena lo stava graffiando. Poco importava.

Non si sentiva volare una mosca. L’unica sensazione che dava quella cella era l’odore di umidità; chissà in quale buco lo avevano sbattuto. Per il resto, il buio era sempre lo stesso di quando si era svegliato, rotto dalla luce bluastra che filtrava dal corridoio.

La serratura della cella scattò. Dietro le sbarre comparve un uomo alto, visibilmente a disagio a intuire da come si guardava intorno. Boris sorrise, facendo saettare gli occhi sul nuovo arrivato.

Guarda che fortuna

- Lui ti vuole parlare- Parlò con una voce borbottata, evitando palesemente lo sguardo verde e incandescente dell’altro. Boris lo notò subito.

Paura, eh?

- E lui chi sarebbe? Mago Merlino?-

- Vedremo se fra poco avrai ancora voglia di scherzare –

- Uuuh, come siamo minacciosi –

L’uomo tirò fuori una piccola chiave. Esitò prima di inserirla nella manetta legata alla catena. Boris lo squadrò scettico, sfoderando un sorriso tutt’altro che rassicurante.

- Beh? Hai già cambiato idea?-

- Non provare a fare scherzi –

- Che uomini coraggiosi – L’ironia nella sua voce era palpabile, talmente tanto che persino l’uomo, in tutta la sua fifa, ne venne ben presto irritato. Boris incassò un pugno in pieno volto, sentendo distintamente un rivolo di sangue scendere dal naso. La sua espressione non mutò e i suoi occhi incrinati di astio perforarono l’altro.

- Io non ci riproverei se fossi in te –

- Altrimenti?-

Era evidente che il momento di superiorità gli aveva fatto credere di potersi prendere certe confidenze. Inutile sottolineare quanto si sbagliasse.

Boris chinò il capo facendolo ciondolare verso terra. Sputò un grumo di saliva sporco di rosso che gli fece montare altra rabbia.

Con uno scatto del braccio libero afferrò l’uomo per il bavero, sbattendolo contro il muro. La mano si staccò solo per prendere una presa migliore, afferrandolo per i capelli. Assestò un secondo colpo, facendo cozzare la testa dell’uomo contro la parete. Un suono secco riempì il silenzio della cella. Quando Boris lasciò la presa, il corpo dell’altro scivolò tra le sue dita, accasciandosi al suolo.

- Vedi se mi dovevo far dare un pugno da un idiota del genere ... –

Portò una mano al volto asciugandosi il  sangue che gli colava sul labbro.

- Ivan aveva ragione, sono dei fottuti novellini –

Avvicinarsi al nemico semi libero senza un’arma era davvero da idioti. Con la mano libera afferrò da terra la piccola chiave, liberandosi dalla catena. Quando la manetta in acciaio si aprì Boris soffocò un’imprecazione: il polso era tagliato in più punti dal metallo. Poco male, un graffio non lo avrebbe certo fermato.

Uscì dalla cella senza nemmeno fare lo sforzo di aprire la porta, lasciata spalancata dall’imbecille che ora giaceva inerte al suolo. Non si preoccupò nemmeno di vedere se era ancora vivo, ma non ci avrebbe scommesso.

Ricordò le parole del tizio. Se quel lui, che Boris immaginava sapere chi fosse, voleva parlargli, allora avrebbero mandato altri a vedere perché non si presentava nessuno all’appuntamento. Quindi aveva i minuti contati.

Dove sei?

Ci mise poco a capire di trovarsi in un dedalo di corridoi stretti, forse uno scantinato o chissà quale diavolo di posto scavato sottoterra. Le memorie del monastero gli vennero in aiuto nel districarsi in quel labirinto; il problema era che non sapeva bene cosa cercare.

Ci sarà una stanza più grande, forse un laboratorio

Se quel pazzoide aveva ricominciato gli esperimenti di dieci anni prima, era sicuramente così.

Camminò per almeno dieci minuti nel silenzio più totale; strano che in giro non ci fosse anima viva.

In che diavolo di posto sono finito?

Un altro corridoio, i suoi passi silenziosi sulle pietre, il buio azzurrognolo che illuminava gli ambienti tutti uguali tra loro. Ogni volta che arrivava ad un bivio si fermava, sporgeva il capo in avanti per controllare che non ci fosse nessuno, poi si muoveva.

Era quasi sicuro di essersi perso quando, finalmente, gli giunsero distanti delle voci. Si appiattì contro la parete giusto in tempo per veder sbucare dalla fine del corridoio due uomini in camice bianco. Erano così presi nel loro confabulare, che gli sfilarono davanti senza accorgersi della sua presenza nascosta nel buio. Parlavano una lingua inconfondibile, e l’idea che li avessero portati a Mosca sfiorò la mente di Boris.

Scacciò via il pensiero; avrebbe pensato più tardi a come levarsi dai piedi, se fosse riuscito ad uscire ovviamente.

Prima la devo trovare

Senza indugiare ulteriormente, decise che seguire i due soggetti in camice bianco sarebbe stata la mossa giusta. Percorse con loro un tratto di strada abbastanza breve, finché, dietro un corridoio non comparve una porta in vetro. Boris si appiattì al muro, sporgendo il capo verso quella che doveva essere la sua meta, sperando che di laboratori, o quello che era, ce ne fosse solo uno. Notò subito che uno dei due pseudo scienziati aveva passato una carta magnetica a lato della porta per farla aprire.

Boris sorrise d’istinto.

Così è troppo facile però

Gli bastò aspettare che i due uomini uscissero dalla stanza segreta. Presi dai loro affari non si accorsero minimamente di lui, e quando il primo dei due era già steso a terra con un colpo secco alla nuca, il secondo ricevette lo stesso trattamento senza il tempo di reagire. Boris strappò la carta metallica dalla mano di uno dei due, sperando fossero abbastanza anestetizzati da rimanere a nanna per il resto della giornata; o della nottata. Non aveva idea di che ore fossero lì sotto.

La visuale che la porta a vetri dava sull’interno della stanza la faceva sembrare vuota. Boris entrò, e subito si nascose dietro al primo strano macchinario a tiro. Anche se non c’era nessuno era meglio essere prudenti.

Diede un’occhiata veloce alla zona, completamente addobbata di marchingegni elettronici che riconobbe subito. Ricordava molto bene tutti quelli che lui e gli altri avevano distrutto dieci anni prima.

Si morse la lingua per non imprecare. Anni di lavoro andati in fumo.

Si mosse piano, un passo davanti all’altro, districandosi tra vasche verticali che un tempo dovevano essere state piene.

Quando i suoi occhi si scontrarono con la silhouette di una persona, si fece scudo con una di queste; poi osservò meglio l’individuo, e capì che non aveva bisogno di nascondersi.

Lei sembrava seduta su una sedia metallica, al centro del pavimento. Ad un’occhiata ravvicinata notò che i suoi polsi erano legati alla sedia da due manette. Trovare la chiave sarebbe stato un ulteriore problema.

Le si avvicinò piano, e quando le fu a tiro lei aprì gli occhi di soprassalto. Boris le mise una mano sulla bocca; se avesse urlato, tutta la fatica che aveva fatto per arrivare lì sarebbe andata sprecata.

Rosemary lo guardò con occhi spalancati.

- Zitta- Gli intimò lui, liberandole la bocca.

- Boris?-

- Ora ce ne andiamo, poi mi dovrai spiegare un sacco di cose – Il tono ammonitorio da maestrina arrabbiata smorzava molto l’atmosfera lugubre di quel luogo, ma la ragazza non lo colse. Sembrava molto spaventata, e questo incuriosì Boris. Era quasi certo che lei fosse lì di sua spontanea volontà: allora perché l’avevano legata?

Il ragazzo non perse tempo; gli occhi vagarono per la stanza, scivolando sui tavoli ricolmi di fogli e scartoffie, frugando veloci in ogni soprammobile presente.

- Dove cavolo sono le chiavi?-

- Prendi Falborg –

- Uh?-

Lei indicò con un cenno del capo uno dei macchinari in un angolo della stanza.

- è laggiù –

- Non mi hai ancora detto cosa ci vogliono fare –

Trovò il suo bey chiuso nella morsa di un piccolo braccio meccanico, circondato da una serie infinita di cacciaviti e lenti d’ingrandimento. Ringraziò il cielo che non lo avessero già smontato, o avrebbe fatto davvero una strage. Gli bastò forzare il braccio, o per meglio dire romperlo, per recuperare Falborg.

Mi sembra tutto troppo facile

Boris tornò a concentrarsi sulla ricerca della chiave, o di un modo per rompere quella maledetta sedia.

- Hai visto delle telecamere in giro? Perché credo che ci sia rimasto poco tempo – Borbottò, frugando su una scrivania.

Lei gettò il capo all’indietro, chiudendo stancamente gli occhi.

- Non lo so. Io ...  –

- Ah, non sforzarti di aiutare eh, me la cavo da dio anche da solo –

- Mi stai prendendo in giro? –

- No, no, figurati –

- Mi dispiace, ok? Non sarebbe dovuto succedere tutto questo –

Un dialogo vuoto. Nel cassetto della memoria in cui Boris conservava i ricordi di Rose, qualcosa fece un sordo crack. Quello che le usciva dalle labbra era un gelo innaturale. Ricordò in un flash gli occhi di lei l’ultima volta che li aveva visti. Quanto era passato? Due ore? Un giorno? Sovrappose quei cieli che a stento trattenevano le lacrime a ciò che ora si trovava davanti.

Che ti hanno fatto?

- Ormai ci sono in mezzo anche io –

- Boris ... –

Il sangue freddo mantenuto fino a quel momento gli scoppiò in gola. Non solo era finito in un casino grande come il globo terracqueo, cadendo in una trappola banale; ora ci si mettevano di mezzo i ricordi, i dubbi, dubbi terribili, e lei non era d’aiuto. Boris saettò i suoi occhi su Rose, parandosi davanti al suo campo visivo.

- Ok, ora stai zitta e per una volta, una sola, fai quello che ti dico. È una pessima idea? Forse. Ci salverà? Non lo so –

- ... Grazie –

Fu un lampo quella parola, e di nuovo la ragazza e la bambina si sovrapposero.

Grazie lo stesso

Un secondo dopo scattò l’allarme. Boris non capì in che modo nè cosa aveva toccato per farlo partire, ma il suo cervello cominciò in automatico a fare il conto alla rovescia dei secondi che avevano per sgombrare quel posto. Il cuore restò calmo, la mente si svuotò con un respiro profondo.

Afferrò Falborg e lo agganciò a un lanciatore recuperato da uno dei tavoli ammassati di scartoffie. Il lancio fu rapido e preciso, come aveva sempre fatto. Con un suono metallico le manette si incrinarono, e bastò un ulteriore strattone per farle rompere.

- Andiamo –

Lei si alzò barcollante; sbatté le palpebre più volte respirando intensamente. Doveva cercare di riattivarsi, ma aveva la testa completamente vuota, un peso morto sulle spalle.

- Ci sei?-

Si scontrò con i suoi occhi, quel verde brillante e gelido che riusciva a penetrarle l’anima. Annuì, senza credere davvero che sarebbe riuscita a stare in piedi per più di dieci minuti. L’avevano conciata per le feste. Ma non aveva alternative.

- Non so quanto reggerò –

- Risparmia il fiato per correre allora –

Era una follia. L’allarme era scattato, e sicuramente si erano accorti che la sua cella era vuota. Lui non conosceva la pianta dell’edificio, e lei sembrava sfinita. Si sarebbero persi per quel dedalo di corridoi, li avrebbero presi e sarebbe stata la fine. Ma non l’avrebbe lasciata fare, ah no. Questa volta Rosemary non avrebbe fatto a modo suo.

 

................

 

 

- Destra!-

L’urlo arrivò alle sue orecchie; il cervello lo elaborò in meno di un secondo, portando le gambe a virare bruscamente la corsa. Gli occhi erano fissi sui corridoi tutti uguali, la mano stringeva quella di Rose.

Per qualche motivo lei sapeva come muoversi in quel labirinto; Boris non si fermò a pensare a come fosse possibile, al fatto che poteva significare che lei in quel posto ci aveva trascorso parecchio tempo, a quanto gli suonasse strano tutto quello che stava succedendo. Spense la parte di coscienza che gli chiedeva di fermarsi a riflettere, e non fece altro che correre.

Il respiro della ragazza dietro di lui gli arrivava affannato e incespicante; non era una buona scusa per fermarsi.

- Bo ... aspetta-

Non la ascoltò. La trascinò con se, l’eco dei loro passi rimbombava sulle pareti appena coperto dall’allarme che non cessava di suonare.

- Dove?- Fece lui schietto davanti all’ennesimo bivio.

Rosemary si guardò attorno con il fiatone e un pallore innaturale in volto.

- Io ... –

- Dove Rosemary?- Insistè Boris.

Di tempo non ne avevano, e quella era la loro unica possibilità e non potevano sprecarla. La penalità per aver perso il gioco sarebbe stata inaccettabile.

- A ... destra. A destra – ripetè sicura. Strinse la mano in quella di lui, sentendolo scattare di nuovo in quella folle corsa che li avrebbe portati verso la libertà, o verso un’orribile fine. Poteva essere solo una questione di fortuna. Ma Boris non credeva alla dea bendata; per lui quella stronza non aveva mai soppesato la bilancia tra buono e cattivo. Decidere di ignorarla era stata la sua vendetta.

Un proiettile sfiorò le loro teste, scheggiando infuocato sulla pietra della parete a destra, a tanto così dall’orecchio di Rosemary.

È sacrificabile

Boris la spinse davanti senza preavviso, invertendo l’ordine della loro corsa. Se era a lei che miravano sarebbe stata un bersaglio troppo facile da colpire, con la schiena direttamente esposta ai proiettili.

Rendiamogli la vita più difficile

Rosemary non era messa bene a fiato, e, a giudicare da come rischiava di incespicare ad ogni passo, le sua gambe non avrebbero retto a lungo. Era tenuta in piedi dalla paura e dall’adrenalina, e tanto bastava a Boris.

Gli spari si fecero più fitti, costringendoli ad aumentare il ritmo, zigzagando tra i corridoi. Per un attimo lui pensò che non avrebbero mai raggiunto l’uscita; balenò nella sua testa l’idea di affrontare i nemici di petto, a pugni se necessario. Forse sarebbe stata una follia, ma se non ci fosse stato altro modo lo avrebbe fatto. Un sorriso contorto gli dipinse il volto. Erano secoli che non provava quella sensazione di pericolo, l’adrenalina in corpo, i polmoni che bruciano per il fiato che non è mai abbastanza; e la certezza che chi si ferma muore.

Fu un lampo in un cielo non proprio sereno quando si accorse che Rose aveva drasticamente rallentato il passo. La afferrò per un polso, trascinandola di nuovo con sé nella corsa sperando che non cadesse a terra a peso morto.

- Hei, hei! –

Lei non rispose nemmeno, risparmiando il fiato per muovere le gambe. Andava bene così, bastava che corresse.

Continua a muoverti

Boris non avrebbe tenuto il passo con il peso di un corpo da trasportare.

- Dove siamo?-

Le urla del ragazzo le arrivavano ovattate alle orecchie, mischiate alle sirene d’allarme e ai proiettili che rimbalzavano ad un pelo da loro, al sapore ferroso in bocca che le fece presagire il peggio sulle sue condizioni e all’urlo dei polmoni che chiedevano aria.

Il corridoio si allargò impercettibilmente. In un istante la strada che percorrevano li catapultò in una sala circolare con più uscite. L’immagine si sovrappose a quella dei sotterranei al monastero.

- Merda ... –

- Di ... qua ... –

Rose gli passò davanti portata avanti solo dai muscoli delle gambe che non ne volevano sapere di fermarsi. Scattò in uno dei corridoi a sinistra, conducendo Boris fino ad una rampa di scale nascosta nell’incavo della parete di pietra fredda. Il ragazzo la spinse verso i gradini, appiattendola contro la parete. Lui aspettò pochi secondi, tutto il vantaggio che avevano sugli inseguitori; li sentì avvicinarsi; al momento giusto scattò fuori dal nascondiglio, prendendoli di sorpresa. Strappò la pistola dalle mani del più vicino, colpendolo con una ginocchiata allo stomaco. Per gli altri tre bastarono i proiettili. Tre colpi, e il corridoio fu di nuovo fatto solo dell’allarme che non smetteva di urlare al pericolo.

Si gettò sulle scale, prese la mano di Rose e riprese la corsa. Alla fine della scalinata li accolse una piccola porta, la prima visione rassicurante di quella corsa infinita. Boris la spinse con una spallata, spalancandola. Si catapultò fuori senza avere idea di dove fosse, e dopo aver incrociato gli occhi con un paio di crocifissi si fece qualche idea.

- Una chiesa ... –

Era una piccola stanza, una specie di sgabuzzino stracolmo di oggetti liturgici e vecchi libri impilati e polverosi. Boris non si fermò più di tanto a pensare all’arredamento di quello che sembrava un posto dimenticato, a giudicare dall’ammontare di polvere. Tirò con sé Rose, uscendo dalla stanza al ritmo del fiatone di lei e dei loro passi sul pavimento ingrigito dagli anni. Oltrepassarono lo spazio buio che un tempo doveva essere il corpo principale della chiesa, mentre ora appariva completamente spoglio, se non per i candelieri che pendevano bassi sulle loro teste.

Non si fermò nemmeno quando la presa della mano di Rose sulla sua venne a mancare, continuando a correre verso l’unico punto da cui arrivava uno sprazzo di luce flebile.

- Bo ... Boris –

- Ci siamo quasi –

- Non ... –

Un suono fuori posto, e Boris capì che non erano soli. Spinse Rosemary contro una parete, frapponendosi tra lei e chiunque stesse arrivando in quel momento così vicino al traguardo. Non gli servì neanche vedere in faccia l’uomo: al baluginare della canna di una pistola fece un rapido calcolo, sparando alla gamba di lui. Con un tonfo il corpo cadde a terra.

Rose si era accasciata completamente alla parete, tenendosi le mani al petto. Gli occhi le bruciavano e la testa le girava da impazzire. Boris la fece rialzare, tirandola per un polso, buttandosi letteralmente verso il portone della chiesa che, chissà perché poi, era appena accostato.

Qualcosa non va

Scacciò subito via quel pensiero nel momento in cui l’aria satura di umidità delle notti inglesi lo investì in pieno. Non si diede ancora il tempo di respirare. Gli occhi saettarono veloci sulla strada davanti a lui, completamente deserta e abbastanza buia da fargli intuire che fosse tardi. Molto tardi.

- Rosemary –

Lei aveva il fiato corto, spezzato da colpi di tosse. Dalla sua bocca uscivano continue nuvolette di condensa, e il pallore del volto non prospettava nulla di buono.

Ma lo guardava. I suoi piccoli e severi occhi azzurri penetravano le distese verdi e fredde di Boris con un’intensità devastante.

Il ragazzo non aggiunse altro. Lei fece un respiro più profondo.

E ripresero a correre.

 


 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***



Capitolo 8


 

- ... Sale ... –

- Sale ... –

- Tonno in scatola ... –

- Tonno ... –

- Paprika ... –

- ...che?-

Sergej scostò appena gli occhi dalla dispensa. Guardò Ivan da dietro gli squadrati occhialini da lettura, completamente inutili per fare la lista della spesa. Ma gli piaceva tenerli; gli davano un non so che di ... professionale.

- Paprika Ivan. La ... spezia – fece, gesticolando per dare un’idea all’altro di quello di cui stesse parlando. Come se avesse potuto descrivere la paprika a gesti.

- ... Aha –

Ivan non era convinto. Nulla di quell’idea lo convinceva, ma in casa di Kai i domestici non avevano fatto la spesa, e gli inquilini si erano moltiplicati. E il maggiordomo, congedato dal padrone di casa dopo la notte del furto (Kai non sopportava i suoi commenti non richiesti sul non aver chiamato subito la polizia), sarebbe tornato solo la settimana dopo. E Kai non si fidava dei domestici per la spesa.

Sergej a quel punto aveva avuto l’illuminazione.

Andiamoci noi al supermercato

Yuriy e Ivan avevano, debolmente, protestato, proponendo una serie di alternative che vertevano tutte sull’ordinare da asporto per tutta la settimana. Quando Kai, davanti all’insistenza del biondissimo collega, aveva ceduto, gli occhi di Sergej erano diventati due stelle cadenti per la gioia.

Ivan contò le voci sulla lista della spesa, scritta in ben due fogli di block notes. Si grattò il mento con la matita.

- Ma ... a che ci serve la paprika? Cioè ... cosa ci puoi fare con una spezia?-

- Un sacco di cose Ivan –

Il più piccolo era sempre meno convinto.

 

La tensione dal summit nel dojo Kinomiya del giorno prima non era ancora calata. Di Boris nessuna traccia, dei due sposini che dovevano arrivare dall’Inghilterra nemmeno, e Garland e Kai non facevano altro che scambiarsi frecciatine poco amichevoli ogni volta che si incrociavano in corridoio. E Villa Hiwatari aveva molti, molti corridoi.

Quello che consolava Kai era di essere riuscito a fuggire dalle grinfie di uno dei suoi migliori amici. Takao poteva diventare pesante come un macigno, e in quei giorni non era proprio il caso. Quello che non lo consolava era l’ansiogena impossibilità di fare qualunque cosa. Avevano in mano un mare di supposizioni, ma nessuna prova. Oh, a parte la sessione di wrestling tra Yuriy, Garland e brutti ceffi non identificati.

Il cozzare di una tazzina sul tavolo distrasse Kai. Ruotò svogliatamente le profonde ametiste alla sua sinistra.

- Che brutta cera-

Yuriy non si prese la briga di rispondere. Non aveva dormito, tanto per cambiare, e quello che aveva appena appoggiato sul tavolo era il quarto caffè della mattina.

- Zitto – Soffiò, avvicinando di nuovo alle labbra un pezzo del servizio buono di casa Hiwatari.

I due rimasero in silenzio per qualche minuto, uno a fissare il tavolo in legno scuro, che forse costava più della villa, l’altro a guardare svogliatamente il giornale. Dalla cucina rimbombava la voce di Sergej; Kai preferì fingere di non sentire quello che il ragazzo stava pensando di fare con la spesa della settimana.

Yuriy ruppe il silenzio all’improvviso.

- Torno a Londra –

La mano di Kai continuò a sfogliare il giornale con lentezza, senza scomporsi. Un lungo aha appena borbottato fece eco alla rivelazione del capitano. Yuriy parve soddisfatto del segnale; più probabilmente non se ne curò.

- Sono sicuro che è ancora lì –

- Boris?-

- No Kai, la fatina dei denti –

- Come sei permaloso ... –

Gli occhi del russo saettarono sul compagno di squadra. Se c’era una cosa che irritava Yuriy, era essere circondato da persone completamente rilassate nel momento in cui lui era un tronco di tensione. Lo faceva sentire inutilmente ansiogeno, e lui di ansia non ne avrebbe avuta nemmeno se avesse fatto partorire una donna a mani nude. Scrollò il capo; che immagine inquietante.

Kai chiuse il giornale. Lo piegò, lo sistemò accanto a sé parallelamente al bordo del tavolo. Sollevò con calma la tazzina di caffè e bevve a piccoli sorsi.

Yuriy gli avrebbe messo le mani al collo, ma quella mattina non gli andava di macchiarsi di omicidio.

- è la tua mania di controllo –

Evidentemente Kai si era svegliato con la voglia di sperimentare una morte orribile.

- Prego?-

- Hai passato la vita ... – lo incalzò il giapponese – A essere il migliore fra i migliori. Onori, responsabilità ... e credi di poter controllare tutto e tutti. Di dire a tutti cosa fare per far funzionare bene le cose –

- Ha parlato il campione del non dirmi cosa devo fare-

- Esatto-

Yuriy rimase interdetto. Stava per alzarsi e recuperare dell’altro caffè dalla macchinetta in cucina, rischiando di essere tirato in mezzo alle disquisizioni su quante confezioni di olio di semi sarebbe stato meglio comprare. Ma si trattenne.

- ... esatto?-

Gli occhi di Kai saettarono su di lui sfoggiando sicurezza, orgoglio, un certo disprezzo per gli ordini altrui e tante altre cose che solo chi lo aveva conosciuto poteva leggervi.

- Pensaci. Noi andiamo d’accordo per questo, no? Perché io faccio quello che voglio. E tu hai imparato a fidarti –

- Diciamo che sono stato costretto, e poi chi ti ha detto che mi fido?-

Kai liquidò la frecciatina del capitano agitando la mano – Fammi finire. Sei cresciuto con quell’imbecille per una vita, letteralmente. Pensi davvero di potertelo trascinare dietro come un cagnolino?-

Senza aspettare la risposta, probabilmente acida, Kai si alzò da tavola. Non degnò di uno sguardo tazzina vuota e giornale, ci avrebbe pensato la servitù a pulire, e nemmeno il suo ex capitano. Con un fare elegantemente canzonatorio girò i tacchi, lasciandosi alle spalle un’ultima, profonda, riflessione.

- Comportati da leader. Sei un lupo, non una gallina-

E lasciò Yuriy lì, seduto all’elegante, enorme tavolo in mogano, l’immenso cielo gelido dei suoi occhi a chiedersi in quale universo parallelo Kai Hiwatari avesse pensato di poter definire il suo capitano una gallina e passarla liscia. Il giapponese era ormai scomparso dalla sua vista, inghiottito dal fluttuare delle tende che aprivano la strada all’enorme terrazzo. Un mezzo sorriso di sbigottimento si aprì sul volto di Yuriy, e per la prima volta da diverso tempo il capitano pensò che al mattino quattro caffè non bastavano più. Ne sarebbero serviti una decina.

Con della vodka.

E un coltello affilato, per ogni necessità.

La risposta alla malcelata ironia di Kai, che da generazioni scorreva nelle vene della famiglia, gli proruppe dalla gola appena soffiata, elaborata nel formato standard che da secoli chiudeva ogni sua discussione con Hiwatari.

- Vaffanculo anche a te –

.................

 

La porta si richiuse con un tonfo sordo. Ci fu un lungo cigolio, e per un istante Boris temette che la vecchia casa sarebbe potuta crollare da un momento all’altro. Ma non accadde nulla.

Era uno dei loro vecchi nascondigli, nulla di più di un capanno abbandonato fuori dal centro londinese. Non sapeva neanche come erano riusciti ad arrivarci. Appena Boris aveva capito di non essere lontano da quella tana ci si era subito fiondato, seguendo quel poco di senso dell’orientamento che gli era rimasto e qualche cartello stradale.  Un colpo di fortuna. Ma uno di quelli che ti colpiscono in piena faccia una sola volta nella vita.

Il ragazzo spinse una cassapanca, uno dei pochi pezzi di arredamento nella stanza, davanti alla porta; non si era mai abbastanza sicuri. Si permise di tirare il fiato solo in quel momento.

- Hei ... –

Rosemary si era buttata immediatamente su un materasso polveroso abbandonato in un angolo del nascondiglio. Aveva il fiato ancora corto e tremava impercettibilmente. E lo guardava. Lo guardava come a volergli penetrare il cervello, con quegli occhi severi con cui al monastero lo sgridava quando si comportava in maniera troppo crudele con gli altri.

Boris smise di respirare per un attimo. Per un secondo solo, forse meno, quegli occhi gli sembrarono ... estranei.

L’ho persa

Ed era colpa sua. L’aveva abbandonata, avevano deciso così lui e gli altri, egoisticamente convinti che lasciarla fuori dalle loro vite sarebbe stato per lei un bene.

- Che facciamo ora?-

Le sue parole avevano tagliato l’aria gelida con una sicurezza che lui non le attribuiva, non alla Rosemary del monastero.

Quanto sei cresciuta?

Lui adocchiò un armadio nascosto nella penombra, nulla più di due ante di legno cigolanti e pericolanti che a stento facevano il loro lavoro. Lo aprì, frugandoci dentro.

- Ora ... aspettiamo –

- Cosa? Chi?-

Boris tirò fuori dal mobile una vecchia coperta. La sbattè dalla polvere un paio di volte, poi la porse alla ragazza. Lei la afferrò e se la gettò addosso, senza pensare agli acari che la stavano per ricoprire.

- Aspettiamo che si calmino le acque. Poi cercherò di contattare Yuri –

- Vuoi chiamarlo per farmi fare il terzo grado?-

Lui le si sedette accanto. Si grattò il capo, ripulendosi da un po’ di polvere. Stese le gambe, stiracchiandosi, lasciando che l’adrenalina rimasta a scorrergli in corpo evaporasse completamente.

- Rosemary ... – gettò il capo all’indietro, respirando a pieni polmoni l’aria viziata di quella stanza. Tutto sapeva di vecchio, di ricordi, e sentire di nuovo il respiro di lei lì accanto, dopo ormai dieci anni ... era come un viaggio nel tempo. Si voltò per guardarla negli occhi. Lei non aveva mai davvero smesso di guardarlo. Un angolo della bocca gli si alzò in quel sorriso, quasi un ghigno che tanto lo caratterizzava, che faceva paura sul campo di battaglia, che i suoi avversari sognavano la notte prima degli incontri. Ma non aveva nessun effetto su di lei, lo sapeva.

- Ora che abbiamo un po’ di tempo, che ne dici di raccontarmi perché hai fatto tutto questo casino?-

La porta cigolò sotto la presa lenta delle viti e dei cardini, riempiendo il silenzio. Lei sbatté le palpebre una, due volte, guardandolo come se la risposta fosse ovvia.

Boris decise di aspettare ancora un po’. Con la coda dell’occhio la vide torturarsi le pellicine del pollice con l’indice, fermandosi solo quando stava per sanguinare.

Sei nervosa?

Staccò per un secondo, uno solo, gli occhi da quelli di lei; tanto bastò perché il suo sguardo andasse a posarsi sulla sua bocca.

- è successa una ... una cosa –

Boris si fece attento, le orecchie tese, la mente lucida.

- Cosa?- la incalzò. Ora voleva sentire la storia per intero.

Lei inspirò con enfasi.

- Dimmelo Rosemary –

Eh no. Adesso doveva vuotare il sacco, non poteva fare marcia indietro.

- Ve ne parlerò quando ci saranno tutti. Tanto ho capito che mi porterai dal resto della squadra, no?-

Boris digrignò i denti impercettibilmente, ma non troppo. Si alzò dal materasso con stizza, misurando a grandi passi la stanza.

- Certo, certo, aspettiamo di essere fottuti per spiegare il cazzo che succede, ok –

- Boris io ... –

- Zitta – Le puntò contro un dito accusatore. Si pentì quasi subito del tono che stava usando con lei, ma non volle addolcirlo. Stava succedendo un casino, lei lo aveva iniziato e lo aveva tirato in mezzo. E lui voleva sapere perché.

Le si avvicinò di nuovo, accovacciandosi alla sua altezza con tanta rapidità da farla sobbalzare. Le prese il volto con una mano, guardandola da più vicino. Quando erano piccoli gli bastava un attimo per capire quello che pensava, cosa le passava per la testa. Ma era evidente che le cose in quegli anni erano cambiate.

Lei si liberò della presa con uno strattone, incespicando sul materasso per alzarsi.

- Senti Boris, tu non dovevi nemmeno esserci qui, ok? Non volevo tirarti in mezzo! Ora, per favore, abbi un attimo di pazienza!-

- Di pazienza ne ho già avuta abbastanza tesoro, non credi?-

Quella parola, tesoro, così decontestualizzata, la fece rabbrividire. Non era proprio il momento giusto per essere persone carine e darsi soprannomi, e Boris lo faceva con intento assolutamente canzonatorio.

Ma lei rabbrividì lo stesso.

Si accorse all’ultimo che il ragazzo le si era di nuovo avvicinato, spingendola contro il muro. La sua schiena sbatté contro la parete.

- Forse non avremo tempo per raccontarci i segreti in futuro, quindi che ne dici di vuotare il sacco?-

Non seppe se era stato lui, se l’aveva messa troppo alle strette e la sua psiche non era riuscita a reggere. Non capì se fu per debolezza, per il freddo o per quello che le avevano fatto in quel surrogato di laboratorio. Fatto sta che a Boris bastò terminare la frase e di colpo si ritrovò la ragazza a scivolargli tra le braccia. Rose svenne di peso senza preavviso, rischiando di far cadere entrambi sul dissestato materasso.

- Merda ... –

Ecco la ciliegina a coronare la torta di cacca degli ultimi giorni.

Come la porto fuori ora?

Certo, sarebbe stato un pelo problematico correre per londra alla ricerca di un telefono con una ragazza svenuta tra le braccia. E restare in quella catapecchia per il resto della notte non era molto sicuro. Beh, non lo era per niente. Se gli uomini del Monaco fossero stati un pelo bravini, li avrebbero trovati in poche ore.

Poteva fare una sola cosa. Non gli piaceva per nulla l’idea, ma non c’erano molte alternative senza sapere quando lei si sarebbe svegliata. E in ogni caso quella casa era completamente vuota, non c’era nulla che potesse aiutarla a stare meglio.

Boris tirò il fiato, guardandosi intorno con foga. Appoggiò Rose sul materasso senza troppa grazia. Gliene aveva fatte troppe in un’unica giornata per non essere un po’, solo un po’, arrabbiato con lei.

 

........................................

 

Il telefono vibrò sotto al cuscino facendolo trasalire. Il ronzio spezzò il suo sonno agitato, costellato di figure strane che ricordavano troppo le ombre proiettate sulle pareti dalle sbarre delle celle al monastero.

Brutti ricordi; nulla di diverso da quello che gli passava per la testa ogni sera, come in un vecchio cinema in bianco e nero in cui lui era l’unico spettatore.

Yuriy afferrò il cellulare; aveva dimenticato di averlo messo sotto il cuscino. Rispose senza nemmeno guardare chi era.

- Yu­-

La voce dall’altra parte lo precedette, e sentirla ebbe il potere di rassicurarlo e inquietarlo allo stesso tempo.

- Dove. Cazzo. Sei – Scandì bene le parole soffiandole piano all’apparecchio. Non voleva svegliare altri; non che fosse a letto con qualcuno, ma era sicura che Hiwatari facesse le ore piccole la sera, e non voleva essere interrotto da una delle sue frasi da primadonna alla te l’avevo detto.

- Ti spiegherò tutto appena ci verrai a prendere, e ho bisogno che arrivi qualcuno in fretta 

Yuriy avrebbe voluto chiedergli tante cose. Da dove chiamava? Che fretta aveva? Che pericolo c’era? E doveva venire a prendere lui ... e chi altro? Ma di tempo non ce n’era, e la sua testa per fortuna ragionava ancora abbastanza bene. Scartò le domande inutili, quasi tutte in quel momento, relegandole a quando avrebbe avuto la faccia del compagno di squadra a tiro di pugni.

- Dove sei?-

- Alla vecchia casa a Londra 

- Dammi un’ora, al massimo due. Mi inventerò qualcosa –

Buttarono giù il telefono contemporaneamente, di cose importanti da dirsi non ce n’erano altre. Si buttò giù dal letto, afferrò dalla poltrona in velluto la felpa che aveva buttato a giacere prima di andare a dormire e sgattaiolò fuori dalla stanza. Sapeva già che numero digitare. Sperò che le due principesse sul pisello non avessero deciso di diventare efficienti all’improvviso; magari avrebbero trovato il modo di essere utili.

- Bonsoir 

- Siete ancora a Londra?-

- ... Yuriy?-

- Siete a Londra o no?-

- Me oui ... cosa ... 

- Passami l’inglese –

Bastarono qualche madonna, una serie di improperi e dieci minuti di battute volgari e poco consone al rampollo di una nobile famiglia inglese, ma alla fine quell’ok Yuryi riuscì a strapparglielo di bocca.

- Vorrei almeno sentire dalla tua adorabile boccuccia un “grazie”-

- Certo, ti ringrazio, se un giorno fossi costretto a farvi fuori ti ucciderò per primo –

 

...............................

 

 

L’elicottero era atterrato un’ora prima sul tetto di villa Hiwatari, perché il nonno di Kai aveva avuto la brillante idea di dotare casa sua di un punto di atterraggio per elicotteri. Non era cosa da tutti, ma per Kai era evidentemente banale. Quando la sera prima Yuriy era arrivato dall’amico con la stramba domanda: dove può atterrare un elicottero?, Kai aveva risposto con estrema noncuranza: ovviamente sul tetto della villa.

Cioè.

Che domande.

Lo stemma dei McGregor svettava talmente brillante sul velivolo, che l’atterraggio fu probabilmente avvistato all’altro capo di Tokyo. La lentezza di Andrew e Olivier era stata provvidenziale: se fossero fuggiti da Londra con tutta la prontezza che aveva chiesto Yuriy, ora forse Boris sarebbe ancora immerso nella melma. O in qualcosa di altrettanto marrone, ma meno profumato. Se la melma sia da considerare profumata.

Kai non si era meravigliato per la richiesta di un punto di atterraggio, e nemmeno per la notizia che Boris era di nuovo spuntato fuori. Aveva un te l’avevo detto sulla punta della lingua, tutto per Yuriy; ma lo aveva trattenuto a occhi sgranati quando aveva visto il ragazzo trasportare di peso un’altra persona fuori dall’elicottero targato McGregor.

 

- Ce lo racconti tu cosa è successo o tiriamo a indovinare?-

Boris si passò una mano sul volto, più tirato del solito. Troppe emozioni tutte in una volta, anche per uno come lui che le sapeva controllare alla perfezione. Dalla poltrona della camera gettò uno sguardo alla ragazza stesa sul letto. Il semibuio ne nascondeva i tratti, ma nella sua testa la vedeva ancora pallida e ansimante mentre fuggivano per i corridoi.

A Ivan era quasi venuto un infarto quando, entrando di corsa nella stanza, aveva visto Rosemary. Ai tempi del monastero loro avevano un’amicizia abbastanza solida. Eppure, quando una decina di anni prima avevano deciso di tagliare i ponti con lei, lui era stato più che d’accordo. Pur sapendo che Rose non li avrebbe capiti. E pur continuando, di nascosto, a mandarle cartoline.

- Devo dirvi la verità? ... non saprei da dove cominciare –

Yuriy accennò a Rosemary con un dito – Partiamo da lei –

- ... l’ho incontrata a Londra. Credevo di sapere dove trovarla, ho fatto un tentativo ... e avevo ragione –

- Sei un’idiota – il commento laconico di Kai, appena soffiato, scivolò lungo le pareti verde menta – perché cazzo, mio dio, non le pensi le cose prima di farle?-

Gli occhi di Boris saettarono glaciali su Kai. Gli fremettero le braccia, e per un attimo pensò di fare quei due metri che lo separavano dal padrone di casa e riempirlo di pugni. Aveva un maledetto bisogno di sfogarsi su qualcuno di vivo, a cui magari far sputare un paio di denti.

- Ma tu che cazzo c’entri?-

Kai alzò un sopracciglio; allargò le braccia indicando tutto quello che lo circondava.

- Forse non ti sei accorto che vi sto ospitando io, e che, vista la situazione, mi sto mettendo in pericolo per un casino che hai fatto tu

Boris sospirò. Era una situazione estenuante.

- Comunque ... – riprese, indicando la ragazza stesa a letto con un cenno della mano – L’ho raggiunta, e tempo un minuto ci hanno circondati –

- Chi?-

- Secondo te? Gli elfi di Babbo Natale?-

Kai stava per rispondere con una delle sue battute acide da repertorio, ma lo sguardo di ghiaccio del capitano lo fermò. Se lui e Boris si fossero messi a litigare ci avrebbero messo due giorni a fare il punto della situazione.

- Continua – incalzò Yuriy.

- Mi sono ritrovato in una cella in una specie di scantinato. Mi sono liberato, ho recuperato Rosemary e abbiamo salutato il laboratorio di scienziati pazzi –

- Era un laboratorio? –

- C’era anche un laboratorio. Per il resto erano celle scavate nelle pareti e corridoi sotterranei – Boris si sistemò meglio sulla poltrona, sporgendosi verso Yuriy – Esattamente come quelli che abbiamo distrutto anni fa – soffiò.

Era uno smacco. Ci avevano messo anni, anni, a finire il lavoro, a ripulire il mondo dalla scia viscida di Vorkov, e ora saltava fuori che non era servito a nulla. Che il monaco aveva ancora le sue mani in pasta dove voleva, addirittura così tanto vicino a loro da riuscire a toccarli.

Rosemary si mosse sul letto. Ivan sobbalzò. L’avrebbe volentieri svegliata per salutarla, per parlarle, vedere se con lei poteva ancora ridere come quando erano piccoli, se era cambiata dai tempi in cui si scambiavano cartoline di natale con orrendi disegni di casette dai tetti innevati.

Ma non fece nulla. Attese a pugni stretti che lei aprisse gli occhi, perché in fondo si sentiva cattivo. L’avevano lasciata da sola decidendo per loro e per lei, e adesso forse non meritavano la sua amicizia. Forse non meritavano più le sue parole dolci, i suoi modo di fare gentili, quelli che si erano lasciati alle spalle senza darle spiegazioni dieci anni prima.

Con un fremito Rosemary aprì le palpebre. Le mani andarono a tastare il morbido che la circondava, e quando sentì lo spessore delle coperte si alzò di scatto, chiedendosi come ci era finita su un letto. Gli occhi saettarono a sinistra e si scontrarono con un volto familiare, teso, quasi esitante.

- ... Ivan?-

Lui non disse nulla. A dire il vero non sapeva cosa dire. Forse era questo il motivo per cui Sergej si era rintanato in cucina con la scusa di preparare del tè.

Rose ruotò gli occhi, anche se non sarebbe servito; sapeva benissimo chi si sarebbe trovata davanti.

Quando incrociò gli occhi del capitano sentì un brivido, e capì di non essere preparata a tutto quello che sarebbe arrivato, e che forse avrebbe dovuto pensare a un piano migliore. Ma di tempo non ne aveva.

- Beh ... – guardò uno ad uno i ragazzi nella stanza - Cosa volete sapere?-

Boris soffiò una mezza risata - A me però non me lo volevi dire ... –

Yuriy continuava a guardarla in silenzio. Come era cresciuta. La pensava ancora una bambina bionda, con due piccoli occhi brillanti, degli occhiali spessi e un maglione troppo grande addosso. E davanti aveva la persona completamente opposta.

- hai uno strano modo di salutarci –

- Che volete? Un bacio in fronte?-

La sua risposta fu lapidaria, glaciale e tagliente. Ebbe il potere di gettare il gelo nella stanza, più delle occhiate di Yuriy, più dei commenti acidi di Kai.

Yuriy abbassò la testa. Immaginava che sarebbe finita così.

Le donne si legano al dito qualunque cosa, glielo aveva detto Olivier in un momento più filosofico degli altri, una sera di svariati anni prima. E per la prima e ultima volta nella sua carriera da blader, Yuriy gli aveva dato ragione.

- Cosa stai cercando di fare?- La domanda di Kay fu altrettanto lapidaria. La sua voce si depositò al centro della stanza con la pesantezza di un macigno.

Rose abbassò il capo. Il palmo della mano passò sul lenzuolo, come se stesse consultando una sfera magica, stendendone le pieghe con leggerezza. Le labbra si allargarono in un mezzo sorriso.

- Da dove comincio ... – sussurrò.

- Dall’inizio – Yuriy la fissò, con meno sicurezza di quello che avrebbe voluto – Per favore – concluse. Non era una supplica, e nemmeno una richiesta. Era un ... intercalare di cortesia.

- Perché volevi Falborg? Me lo hai preso tu, no?-

- Certo Bo, ma non è quello l’inizio –

Quel soprannome gli fece venire i brividi. Detto così, con freddezza, quasi con cattiveria, con stizza. La stizza di chi ha visto i propri piani fallire, e la colpa era delle persone presenti in quella stanza. No, non era la voce dolce di un’amica ritrovata.

Rose prese fiato. Alzò il capo, senza guardare nessuno in particolare. Si prese il tempo di riordinare le idee.

- Ero tranquilla, nel mio piccolo cottage vicino a Londra ... studiavo, avevo qualche amico ... una vita tranquilla. Normale – si tormentava le pellicine delle dita con le unghie, nascondendo le mani tra le lenzuola – Finché un giorno me lo sono ritrovato in casa –

- Chi?-

- Vorkov. Mi ha ... – chiuse gli occhi, respirando profondamente - ... spiegato la situazione e, senza troppi complimenti, mi ha cortesemente invitata a seguirlo. Sulle mie gambe o meno –

- Che situazione?-

Stranamente la domanda di Yuriy la lasciò perplessa. Scosse il capo con incredulità.

- In che senso?-

- Che situazione? Che cazzo vuol dire la situazione? Ti prego Rosemary, non  è il momento di nasconderci certe cose –

Il tono del capitano la irritò. Drizzò la schiena, squadrando Yuriy con orgoglio ferito.

- Io non vi sto nascondendo niente. È che pensavo lo sapeste, tutto qui. Avete fatto tanto per abbattere i nascondigli di Vorkov, sì, lo so che c’eravate voi dietro quei magazzini saltati in aria in giro per il mondo – disse, anticipando le inutili domande che comunque nessuno dei presenti si sarebbe posto: reputavano Rosemary abbastanza intelligente da capire che erano loro i sabotatori dei piani del monaco.

- Credevo aveste visto quello che stava progettando –

- Cosa c’era in più dei laboratori da scienziati pazzi?-

- C’era molto di più, ma forse siete troppo ciechi per accorgervene –

- Rosemary – l’ammonimento le arrivò alle orecchie gelido, così come gli occhi azzurri di Sergej, appena entrato nella stanza, con due tazze di tè per mano. Nemmeno il tempo di salutarla, stava già facendo la capricciosa.

- Non tirare troppo la corda. Vogliamo solo aiutarti –

- Allora potevate rimanere a farvi gli affari vostri –

Boris si alzò di scatto dalla poltrona. Rose si zittì. Il ragazzo fece qualche passo a testa bassa, biascicando qualcosa in russo che somigliava molto a una serie di improperi; poi di scatto tirò un pugno contro il muro accanto al letto. Rosemary sobbalzò. Gli altri non fecero assolutamente nulla.

- Senti – Calò il volto verso di lei, trattenendosi dal metterle le mani al collo. La conosceva da quando era una bambina, e mai l’irritazione aveva superato l’amore che provava per lei.

- Facciamo così, mh? Ora tu parli, ci dici tutto il cazzo che devi dire, poi te ne vai e fai quello che vuoi della tua vita da favola, ok? Me lo fai questo favore?-

Lei non rispose. Saettò lo sguardo sugli altri, ma nessuno sembrava curarsi della scenata di Boris.

- ... Mio padre produceva armi – riprese, ostentando una sicurezza che non aveva – Vorkov ... lui era uno dei suoi tanti clienti. Quando qualcuno ha minacciato mio padre di fargli fuori la figlia, lui ha avuto la brillante idea di tenermi nascosta al monastero. Vorkov gli doveva dei favori, quindi ... è stato costretto a tenermi con se-

Era una storia nuova per tutti. Nessuno sapeva perché, all’improvviso, ormai tanti anni prima, era comparsa al monastero una bambina di 11 anni. Non lo sapeva nemmeno Rosemary perché suo papà, il suo adorato papà, l’aveva lasciata lì, tutta sola, con un monaco che all’improvviso era diventato molto, molto cattivo. E invece ora, saltando fuori dal nulla, la ragazza veniva a raccontare l’inaspettata verità.

- Come lo sai?-

- Non lo sapevo. Fino a poco tempo fa –

- Te lo ha detto Vorkov?-

Lei annuì. – E poi ... mi ha detto un’altra cosa – si toccò istintivamente il collo – Quando papà è morto stava lavorando a un progetto ... grosso. Molto grosso –

Kay soffiò una risata. Quella storia stava diventando troppo lunga e macchinosa.

- Una bomba atomica? – sussurrò, gli angoli della bocca tirati in un sorriso che sapeva di derisione.

- Un arsenale missilistico telecomandato a distanza –

Gli occhi di Kay saettarono sulla ragazza. Poi su Ivan. Sì, perché anni prima il più piccolo del gruppo aveva avuto qualche sospetto su uno strano passaggio di armi nelle retrovie dei laboratori che facevano saltare per aria.

- E in quale nascondiglio segreto avrebbe depositato un intero arsenale?-

- Non ne ho idea. Ma hanno frugato per bene tra i documenti di papà,  e ci hanno trovato il luogo di deposito dei codici –

- Servono dei codici per attivare l'arsenale?-

- Sì Yu –

- E cosa ... –

Lei anticipò ogni domanda – Li ha nascosti da qualche parte qui, nei bey della sua squadra di punta. Forse nella traccia biologica dei vostri stessi bit power –

Fu una rivelazione talmente repentina che i presenti ci misero qualche secondo a capire davvero quello che la ragazza aveva detto.

Sergej abbassò il capo. Prese un respiro profondo. Anni di ricerche, di laboratori fatti saltare, di documentazione bruciata ... tutto inutile a quanto pareva.

- Stai scherzando –

- Sono sempre stati con voi. Mio padre li aveva nascosti, forse aveva ... paura di quello che Vorkov poteva fare. Ma lui lo ha scoperto. Ma non è solo questo –

Le iridi azzurre di lei saettarono verso Boris. Non l’aveva più guardata; i suoi occhi erano ancora vaganti nel nulla.

- C’è una ... una specie di chiave da abbinare ai codici. Da soli non funzionano –

Kay cominciava a spazientirsi.

- E quella dov’è? Nel dispositivo di lancio?-

Tutte quelle informazioni, date a piccole briciole, lo stavano facendo impazzire. Erano troppe cose, e lei le stava spiegando con una  reticenza che dava sui nervi. E, dal punto di vista del ragazzo, non era certo colpa loro se si erano trovati buttati in mezzo a quel caos. Era colpa di Boris, che non era stato fermo e buono. Ma anche di Rosemary, e della sua improvvisa mania di nascondergli le cose. Cristo, non ricordava fosse così al monastero. Per qualunque stronzata correva da Ivan a piangere. Ora no; ora doveva giocare alle spie, nascondere i segreti.

- Vorkov ha scoperto che la chiave è un bey in particolare. Quando lavorava al monastero, papà ha progettato un solo bit power. Forse ha pensato di ... nascondere la chiave in quello, magari credendo di poterla recuperare ... o qualcosa del genere –

- è Falborg, giusto?-

Boris non sembrava starsi divertendo. Non era seccato, nè impaziente o chissà che altro. Era arrabbiato. Così arrabbiato che non ci provò nemmeno a guardare Rosemary negli occhi. Non avrebbe garantito per la sua vita.

- Allora?-

Lei annuì.

- Sì –

- è per questo che lo volevi? Per darlo a lui?-

Silenzio.

- Non potevo fare altro – cercò di giustificarsi in un sussurro. Un soffio di fiato che scatenò una tempesta.

Boris assestò al muro un altro paio di pugni. Gli occhi del capitano scattarono su di lui; quelli di Kay sulla povera parete della sua stanza da letto. Se il giapponese avesse avuto un pelo meno di autocontrollo, forse sarebbe volato accanto a Boris a prendere a testate la carta da parati.

Il ragazzo si staccò dal muro, giusto per evitare di farci un buco. Attraversò la stanza a grandi passi, sussurrando l’ennesima serie di improperi.

Ivan fu più freddo, e forse meno cattivo.

- Perché non ci hai detto niente prima? Lo sai che è stata una follia –

- Io ... io ... mi sono spaventata, va bene? – lei alzò la voce – Vorkov aveva detto che se gli avessi consegnato Falborg vi avrebbe lasciati in pace –

- E gli hai creduto?-

- Certo che no! Nemmeno per un momento!-

- E allora ... – Boris si riavvicinò pericolosamente al letto – Ora spiegami, ti prego, perché cazzo quando ci siamo incontrati era pieno, pieno di uomini armati! Dimmelo, dai, sono curioso di ascoltare la tua incredibile spiegazione!-

- Avrei voluto che tu andassi via prima del loro arrivo!-

- Dovevi avvisarci prima di fare tutto questo casino!-

- E che dovevo fare?- Si alzò di scatto dal letto, fronteggiando Boris con una rabbia che nessuno le aveva mai visto in corpo.

- Sono passati dieci anni! Dieci anni senza risposte alle chiamate, senza contatti, senza notizie! Credevo ... credevo che mi odiaste per qualche motivo, e ho pensato fosse meglio fare le cose per conto mio, lasciarvi in pace!-

Boris la afferrò per le spalle, incastrandola in uno sguardo carico di tante cose. Amore, odio, rabbia, ansia ... un misto di emozioni che cercava di tenere sotto controllo con la presa ferrea sul corpo della ragazza.

- Non ti rendi conto che potevi morire? Che se non ti venivo a ripescare in quel laboratorio adesso non saremmo qui a mandarci a fanculo? Eh?-

- Vuoi la verità? La vuoi?- un sorriso triste le si allargò sulle labbra – Credevo sinceramente che non sarebbe importato a nessuno –

 



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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9


 

- Chi?-

- Rosemary-

- E chi è?-

- Lascia perdere –

- Ma –

- Ho detto. Lascia. Perdere –

La villa era diventata invivibile. Fino a pochi giorni prima era da solo, pacifico, tranquillo, finalmente in armonia con il cosmo. Il nonno non c’era, i domestici si facevano i fatti loro ed era riuscito a seguire le ultime lezioni di quell’orribile corso di marketing aziendale telematicamente. Era lui, e lui solo.

Kai sospirò. Lo faceva spesso ultimamente. Si alzava, si guardava allo specchio, in un flash ricordava tutto quello che era accaduto il giorno prima ... e sospirava. Era l’unica reazione spontanea.

Da quando era arrivata Rose, sembrava che tutti stessero giocando a nascondino. Sergej si fiondava in cucina appena sveglio, preparando pancake alla banana per un esercito. Boris usciva, e poi boh. Ivan aveva addirittura ripreso a lavorare da casa. Con Yuriy non ci si provava neppure a parlare; era diventato il fantasma della villa, sembrava stesse silenziosamente tramando qualcosa. Ma nessuno si azzardava a chiedere cosa. Avevano tutti altro a cui pensare.

E poi c’era Garland. Kai poggiò la tazzina del caffè sul tavolino del salotto. Guardò il suo vicino con la coda dell’occhio: nessun segno. Garland stava quasi trattenendo il fiato. Voleva sapere, tutto. Era stato pugnalato, maledizione! Kai gli doveva delle spiegazioni, tutte quelle che Yuriy non gli aveva dato.

Ma non era impaziente. Padroneggiava la calma in modo ammirevole in un momento come quello, di tensione e pericolo, gettato in mezzo ad una situazione che nemmeno lui capiva.

- Sai che, se mi spieghi la realtà a pezzi, io non capisco nulla, vero?-

- In ogni caso, è inutile che ti racconti la storia della sua vita. È una ragazza del monastero. Punto –

- Kai –

- Mh –

- è lei la bambina?-

- A dire il vero ... – Kai lo guardò fisso, con un’improvvisa, disarmante sincerità - ... Speravo me lo confermassi tu –

Ci sperava davvero. Se Garland l’avesse riconosciuta come quella delle foto, almeno sarebbero stati sicuri che Rose aveva raccontato la verità. Che dietro a questo nuovo progetto marcato Vorkov c’era lei. Altrimenti, c’era solo la sua parola.

Dopo la chiacchierata con Rose, Kai aveva messo in discussione la storia intricata che lei aveva raccontato; era calato il gelo. Nessuno lo aveva contraddetto, nessuno aveva difeso quella ragazza che, come un fulmine a ciel sereno, era piombata tra di loro, rompendo un equilibrio precario.

Avevano imparato a non fidarsi di nessuno. Ma se 10 anni prima fosse successa la stessa cosa, non ci avrebbero pensato due volte sopra: le avrebbero creduto ciecamente.

Cos’era cambiato?

- Onestamente non mi ricordo. Non so che dire –

- A questo punto ... nemmeno io –

- Ma ... – Garland si alzò dalla poltroncina, rigirandosi fra le dita i gemelli di uno dei polsini della camicia nera - ... perché a Londra Yuriy ha pensato che fossi in pericolo? Come ha fatto a capire che quella mail era una trappola?-

- Era abbastanza palese –

L’affermazione indispettì il ragazzo. Garland aggrottò le sopracciglia, senza fermare il gioco delle dita attorno ai gemelli. Quel piccolo movimento lo aiutava a pensare.

- Come scusa?-

- Dai Garland, ragionaci: tu sei un ex membro della BEGA. Hai collaborato con il monaco, no? Yuriy in quel momento immaginava che lui stesse macchinando qualcosa ... quando ha saputo che qualcuno ti aveva dato appuntamento in uno dei vecchi laboratori di Vorkov ... –

- Ha pensato subito a una trappola –

- Aha ... e visto che eri praticamente un suo segretario ... –

Garland si irrigidì.

- Non ero un segretario Kai –

L’altro non badò all’affermazione.

- Era molto probabile che tu avessi visto qualcosa. Qualcosa di ... scomodo-

La vita al monastero insegnava ad agire velocemente. A pensare in pochi secondi a cosa fare, e soprattutto a fare le scelte giuste, perché quelle sbagliate aprivano finali tragici e dolorosi. Sicuramente Yuriy non ci aveva messo più di un millesimo di secondo a capire che, se Garland si fosse presentato a quell’appuntamento, beh ... ora il Chess Club di Tokyo starebbe piangendo la morte di un onorato membro.

Il cellulare di Kai squillò. Guardò il numero.

- Che vuoi?-

-Buongiorno anche a te-

- McGregor. Che. Vuoi. –

- Takao mi ha detto ... 

- Sei diventato il sostituto di Kinomiya?-

- Mi fai finire?! My God, sei insopportabile ... Takao vi invita al dojo per cena, e per la cronaca, te lo sto dicendo io perché lui è a fare la spesa con altre mille persone, e comunque non ho capito perché sono sempre io a dover ... 

- Perché adoriamo vederti stressato, Andry 

- Guarda, butto giù prima di rischiare un incidente diplomatico 

- Ah, e non disturbatevi a prendere alcool. A quello ci penso io –

- Non avevo dubbi. Ah! Portate anche Rosemary, se sta meglio 

Le dita di Kai, intente a ripassare le perfette cuciture della poltroncina di velluto, restarono sospese a mezz’aria.

- ... Sei curioso di vederla da sveglia? –

- Simpatico ... mi farebbe piacere. E poi, visto che in questa situazione orribile ci siamo dentro tutti ormai, potrebbe anche spiegarci meglio ... 

- Andrew - Kai interruppe la richiesta sul nascere - ... facciamo che per stasera è meglio di no. Se ti fa piacere te la porto, ma solo perché sono una persona per bene. Mi ringrazierai, e un giorno ti sdebiterai del mio gentile gesto ... ma le spiegazioni lasciamole perdere. Qui la tensione si taglia a fette, non so se mi spiego ... rischiamo di alitare sulla brace viva e far scatenare un incendio, e oggi non è giornata –

- Uhm ... come ti pare 

La chiamata venne chiusa, e Kai rimase con le dita sospese nel vuoto. La presenza di Garland era diventata solo un ricordo evanescente.

- Cena in compagnia?-

Alzò le ametiste sul ragazzo, in piedi davanti a lui. Ma era così perso nei suoi pensieri che si limitò ad annuire.

- Sarà il caso di avvertire tutti –

Ancora silenzio. Le dita del giapponese sfiorarono il velluto, gli occhi scivolarono da Garland sul pavimento, toccando il tappeto, il tavolino, fino a fissare il cellulare che ancora teneva in mano.

- ... Kai?-

Meritavano tutti delle spiegazioni. Takao più degli altri. Li aveva accolti senza chiedere nulla, nel più genuino senso di amicizia e cordialità. Loro gli avevano portato a casa dei feriti, probabilmente fuggiaschi e dalle dubbie intenzioni. Kenny, Hilary, Rei ... e tutta quella gente gettata a capofitto in qualcosa che non avrebbe portato a nulla di buono, ci poteva scommettere.

- Hiwatari?-

Ma non quella sera. Non era per lui, nè per Takao o gli altri. Kai era semplicemente sicuro che Yuriy, e con lui gli altri tre, non avrebbe mai fatto un terzo grado a quella ragazza davanti a tutti. non perché di solito non ne faceva, anzi. Ma Kai ricordava con che occhi quei tre blader guardavano Rosemary durante gli allenamenti, si ricordava come la chiamavano, come la trattavano ... non le avrebbero mai fatto del male. E chiederle di mettere a nudo il suo passato davanti a degli estranei, era come darle una pugnalata al cuore..

Kai sospirò, per l’ennesima volta quella mattina. Se doveva essere sincero, da quando Rose era arrivata gli era sembrata tutto tranne che l’ingenua e sensibile bambina del monastero.

Chissà cosa avrà passato in questi anni.

- Kai, non sono capace di leggerti nel pensiero, sai?-

- Ci penso io –

Il ragazzo si alzò di colpo, lasciando Garland interdetto. Lo superò a passo svelto.

- A fare cosa?-

- Ad avvertire tutti ... per la cena ... – Rispose vagamente, imboccando le scale per il piano di sotto. Sperò con tutto se stesso che in cucina non ci fosse più nessuno, perché aveva bisogno di qualcosa di più forte del caffè, e non avrebbe retto gli sguardi che Sergej avrebbe lanciato a lui e alla bottiglia del prezioso rum del nonno.

 

 

 

 

Il dojo quella sera divenne il servizio di catering di un ristorante fusion. Takao era partito convinto per fare la spesa per tutti, poi Rei si era offerto di dargli una mano. Hilary, affermando che quando si tratta di cucina è sempre meglio avere una donna in squadra, si era infilata in macchina con loro, e, per amor di amicizia, si era portata dietro Mao, che era diventata la sua ombra in quei giorni. Al loro ritorno la macchina era talmente carica che per poco qualcuno non dovette farsi il viaggio sul tettuccio.

Siccome le sorprese più belle sono quelle, per l’appunto, a sorpresa, Max si era materializzato in Giappone proprio quel pomeriggio, giusto in tempo per essere letteralmente assalito dalle chiamate di Takao che lo obbligava amorevolmente ad unirsi a loro. Inutile dire che non ci fu nemmeno bisogno di convincerlo: l’americano, con la valigia ancora da disfare e una borsa piena di cookies, aveva preso il primo taxi disponibile e, alle sei di sera spaccate, gli avevano già affidato qualcosa da fare in cucina.

Un’ora dopo i russi, Garland, Rosemary e Kai, ognuno armato di due bottiglie per mano, si stavano chiedendo se fosse stato davvero il caso di entrare in quello che sembrava un manicomio.

- Che bello vedervi! Entrate, che aspettate? –

Il dojo sapeva di zucchero, spezie e salsa di soia; la cucina era invasa da confezioni di biscotti, e ora anche di vino, birra, e qualcosa di un po’ più forte.

Hilary li accolse con una frusta da cucina chiazzata di panna, e un sorriso smagliante.

- Non pensavo di vedervi tutti!-

In tutta risposta Boris alzò una bottiglia, con un sorriso poco rassicurante.

- Quando si tratta di bere ... –

- Sì, sì, ma sono sicura che vi mancavamo –

- Rosemary?-

Per un attimo l’allegro vociare cessò. Andrew, che con una sola parola ebbe il potere di far calare il silenzio, entrò in cucina guardando la ragazza sinceramente stupito.

- Cavolo ... come sei cambiata ... –

Era rimasta defilata dietro agli altri, ma tutti l’avevano notata. Era il punto focale della serata, aveva creato quella punta di curiosità e aspettativa, soprattutto in chi di lei aveva un caro ricordo. Andrew l’aveva conosciuta bene negli anni in cui Rose aveva abitato a Londra.

L’inglese si aspettava qualcosa. Qualunque cosa. Che fosse una reazione di affetto o di distacco, poco importava. Ammise a se stesso di essersi fatto avanti subito più per curiosità che per altro. Non aveva potuto fare domande quando aveva recuperato lei e Boris in quella casa sperduta della periferia londinese, e aveva deciso di aspettare il momento giusto. Stando a quel che gli aveva detto Kai, questo momento non sarebbe stato nemmeno quella sera. Ma lui voleva vederci chiaro lo stesso.

Si ricordava una ragazza allegra, al limite dell’ingenuità, creativa ... non esattamente un intellettuale, anche se viveva divorando libri.

Ma lo sguardo di ghiaccio che lo trapassò quando, tutto sorridente, le tese una mano, non aveva nulla di fanciullesco. Durò un solo istante. Poi scattò qualcosa, una scintilla forse. All’improvviso lei si addolcì un poco.

- Non ci vediamo da molti anni –

Un commento quasi scontato. Era palesemente imbarazzata fino alla punta dei capelli e, quel distacco dietro cui si mimetizza per nascondere l’inadeguatezza, le calzava come un abito troppo stretto.

- Sì ... – Andrew non staccò mai gli occhi dai suoi, e fu forse troppo insistente. Si disse che sperava di vedere qualcosa. Non sapeva bene cosa. In ogni caso, non ci riuscì.

- Davvero –

- Vi conoscevate? E a noi non dici niente?-

La provvidenza fece dono a Hilary del tempismo, e in qualche modo l’imbarazzo cominciò a sciogliersi. La ragazza mise in mano ad Andrew un pacco enorme di tovaglioli, e a Kai una pila infinita di piatti, distribuendo tacitamente i compiti di manovalanza.

- Sì, ho abitato a Londra per un po’ –

- Che bello! Io comunque sono Hilary, ma riusciremo a presentarci tutti, forse ... comunque se hai bisogno basta che chiami “hei tu”, qualcuno risponde sempre!-

Rosemary si limitò ad annuire, gli angoli della piccola bocca alzati in un sorriso cordiale.  

 

 

- Come ti è sembrata?-

- ... fredda –

Kai ingoiò il terzo bicchiere di birra della serata. Non l’aveva ancora finito che già stava tenendo d’occhio la bottiglia di vodka, finalmente libera dalle attenzioni di Boris.

- L’ho pensato anche io –

- Kai –

Andrew si frappose tra lui e il tavolo, dando le spalle a tutto l’allegro baccano che si era formato nel dojo, alla ricerca di un po’ di privacy.

- Dimmi la verità –

- No Andrew –

- Che c’entra lei in tutto questo? Perché c’entra qualcosa, poco ma sicuro –

Kai scansò il ragazzo, mettendo le mani sull’agognata bottiglia.

- Sei una volpe ... –

- Evitami la tua ironia. Sono serio –

- Ah, perché, credi che io non lo sia?-

- Kai –

- Senti ... – Si girò, fronteggiandolo con il bicchiere mezzo pieno in mano, pronto ad immergervi, almeno per quella sera, tutti i suoi problemi. Eh sì, sapeva benissimo che l’alcool non risolveva un tubo, ma per quella volta se lo sarebbe fatto bastare.

- Ti prometto che, appena avremo un quadro chiaro della situazione, vi diremo tutto. Per ora ... non lo so –

- Ha fatto qualcosa di sbagliato?-

- Ah, ci puoi scommettere che lo ha fatto – Alzò il bicchiere mimando un silenzioso brindisi, e ne trangugiò il contenuto.

- Ne sono sicuro come che fra due minuti la metà dei presenti sarà piegato sul water dalla sbornia –

- Ho detto di no!-

L’urlo improvviso li fece sobbalzare. Andrew si guardò attorno facendo una silenziosa conta dei presenti, giusto per capire, per esclusione, quale delle fanciulle avesse appena ululato dalla cucina, dove intanto si stava consumando un melodramma.

 

La sentenza di Rosemary fu talmente lapidaria che i presenti nella stanza smisero di muoversi. Boris rimase immobile, la mano che teneva il cookies al cacao sospesa a due centimetri dalla bocca. Max non si azzardò ad armeggiare ulteriormente con la caffettiera. Hilary e Mao si irrigidirono sulle loro sedie, con i pettegolezzi ancora sulla punta della lingua.

Davanti a Rose, Yuriy la guardava con il suo sguardo tipicamente gelido. Gli occhi sottili e i lineamenti del volto induriti erano di chi aveva appena impartito un ordine. Ma Rose non aveva intenzione di prendere ordini da lui.

La ragazza sostenne quello sguardo con un cipiglio altrettanto severo.

- Ivanov, forse non hai inteso quello che sta succedendo, non hai intravisto che ci sono dentro fino al collo. Forse non ti è chiaro quello che ho rischiato andando a cercare Boris, cercando di aiutarlo a non perdere le palle mentre da dieci anni voi mi avete relegata in un angolo polveroso della vostra lacunosa memoria!- disse tutto d’un fiato, concludendo con due toni di voce più alta.

Le cinque anime, quattro delle quali ormai si stavano staccando dai corpi, e quella di Yuriy, non emisero un fiato. Per Hilary fu un record personale di apnea.

La discussione, che nessuno aveva capito come era cominciata, sembrava così conclusa. Ma non per lui. Non gliel’avrebbe data vinta.

Yuriy fece un passo verso di lei, fronteggiandola con tutta la sua altezza.

- Non c’è bisogno di fare una scenata Rosemary –

- Oh no, certo, figurati, ovviamente sono io che faccio scenate senza nessun motivo –

- Ti ho solo chiesto ... –

- Tu non mi hai chiesto¸ mi hai ordinato! Mi sembra un po’ diversa la cosa –

- Rosemary ... –

- Fammi parlare! Vi ho già detto tutto quello che so, da me non puoi sapere più niente –

- Io ... –

- Poi cosa cavolo significa che dobbiamo parlare? Ho già parlato, e poi sono dieci anni che non mi rivolgete più il saluto. A questo punto potreste anche continuare a parlare da soli –

- Stai zitta!-

La frase gli uscì di bocca con una terribile naturalezza. Non se ne pentì subito. Era stanco, da quando Boris era fuggito tutto stava precipitando, e anche ora che erano tutti al sicuro i dubbi lo tormentavano. E adesso lei, quell’adorabile ragazzina con cui aveva condiviso tanti anni, tanti momenti, belli e brutti ... si metteva a fare la primadonna, pensando di bacchettare tutti con i suoi segreti. Perché lei non aveva detto tutto. Oh, Yuriy ne era più che sicuro.

E non era l’unico ad esserlo.

Boris, seduto a portata di biscottiera, li guardava con la coda dell’occhio. Non le aveva più rivolto la parola dopo l’ultima discussione a casa di Kai. Non ci aveva litigato, ma doveva capire. Capire troppe cose. E lei si comportava in un modo che lo mandava in confusione totale.

Così, dietro la rassicurante biscottiera, con le orecchie dritte per non perdersi le parole grosse che volavano per la cucina, rimase in silenzio ad aspettare. Un rapace in attesa che la preda sia pronta.

Perché aveva smesso di fidarsi non appena lei si era svegliata.

 

Sergej fece ritorno nella palestra, lo sguardo basso e appesantito dall’alcool e dalla malinconia. Come erano arrivati a tutto questo?

- Tutto bene?-

Rei lo colse impreparato. Agitò i tovaglioli che teneva in mano, stava aiutando a sparecchiare quando erano cominciati gli urli.

- Sì ... suppongo di sì –

- è bello ritrovare un’amicizia che non si vedeva da tanto tempo –

Rei era così: educato e cortese, con un tatto raro al mondo nel fare le domande più scomode, nell’arrivare al nocciolo del discorso senza forzature.

Sergej invece andò dritto al punto.

- è la prima volta che la sento urlare così –

Rei abbozzò un sorriso divertito.

- Sì, ho ... ehm ... sentito che Yuriy e Rosemary stavano litigando, ma ... –

- litigando? Non hai sentito bene allora –

Takao si unì alla discussione con un impeto travolgente. Si aquattò accanto ai due, lanciandosi attorno occhiate veloci per essere sicuro che nessuno degli interessati fosse nei paraggi.

- è stato spaventoso! Voglio dire ... io non ero nemmeno in cucina, le urla si sentivano dal piano di sopra! Ha zittito Yuriy. Yuriy! Lei lo ha praticamente inchiodato al muro –

- Già. È ... diversa da come la ricordavamo. Molto –

- Detto così sembrate molto legati –

- Lo siamo stati –

- Ma ... ho capito che non vi vedete da diversi anni –

Sergej tagliò corto. Non voleva essere scortese, ma erano questioni private che avrebbe preferito tenere per sé.

- All’epoca pensammo che fosse più giusto ... lasciarla andare –

Takao lo guardò interrogativo.

- Eh?-

- Ma non credo che lei avrebbe mai capito la nostra posizione –

Detto questo se ne andò, con i tovaglioli ancora in mano e la testa persa chissà dove, cercando di riordinare le idee e di non calpestare le chiazze di panna che, abbandonata a se stessa, dai piatti era colata irrimediabilmente sul pavimento.

 

....................

 

Sorseggiava il suo caffè italiano steso sul comodo lettino della Spa; una mano a reggere un libro sulla storia di Federico II, gentile dono di Ralph, mentre con l’altra tastava sul tavolino alla ricerca della bustina di zucchero. Avrebbe voluto distogliere lo sguardo dalla noiosissima lettura, ma non poteva: un gruppo di ragazze dalle forme provocanti erano stese a due lettini di distanza, e lui voleva perseguire nel dar loro a bere che fosse un intellettuale. A quanto pare, era quello che andava di moda.

Quando finalmente la mano toccò la bustina, e sembrava che il vociare delle ragazze si stesse finalmente riferendo a lui, lo squillare del telefono ruppe l'idillio.

Gianni non imprecò, né si scompose; era troppo rilassato per rovinare quella bella giornata. Senza alzarsi dal lettino allungò un braccio fino al borsello, abbandonato ai piedi del tavolino, frugando senza guardare alla ricerca del telefono. Quando lo trovò non si premurò neppure di vedere chi lo stava chiamando. Sarebbe stata una sorpresa.

E lui adorava le sorprese.

- Pronto?-

- Mon ami!-

- Vier!-

Abbassò finalmente il libro, felice di aver trovato un diversivo all’estenuante lettura.

- Che meraviglia, come stai? Non ci sentiamo da quando ti sei rintanato in quella specie di castello del conte Dracula con Drew – Mise un finto broncio, che il francese colse anche dall’altra parte della cornetta.

- Sapessi, mon Dieu! Sono stati giorni terrificanti!-

- Ho saputo del furto! Spero non abbiate avuto traumi –

- Conosci Andrew ... è stata un’esperienza orribile, ma eccitante 

- Dove sei ora?-

- Indovina 

Olivier si zittì, e Gianni tese le orecchie. Sentì, dall’altra parte, come un sottofondo di frasi sconnesse e gridolini, un vociare troppo concitato per l’impeccabile e rigorosa condotta della villa McGregor.

- ... Non dirmi che sei in Italia?-

Olivier scoppiò a ridere.

- Ma non! Sono in Giappone!-

- Dove? Ma sento ... ci sono delle fanciulle lì con te?-

- Sono Hilary e Mao! Ti salutano tanto!-

- Ma che fortunato!-

Gianni lanciò un’occhiata alle ragazza poco distanti da lui, solo per scoprire che lo avevano abbandonato; erano davanti al bar, a sculettare con i loro bei costumini paiettati davanti al palestrato che faceva le bibite. Sospirò sconsolato.

- Sei in migliore compagnia di me, amico!-

- Ooh Gianni, non mi dire che sei solo ora?-

- Mi conosci, sono impegnato solo part time -

- Perché non vieni qui? Stanno accadendo delle cose interessanti ... 

La voce accattivante di Olivier, con quell’accento così marcato anche quando parlava in italiano e l’intonazione così melodica che rasentava una filastrocca, strascicò le sillabe dell’ultima parola un po’ più a lungo. Gianni sentì un brivido lungo la schiena. Se dopo la rapina il francese trovava qualcosa ancora così tanto interessante ... doveva davvero valerne la pena.

Guardò l’orologio.

Poi guardò le ragazze, troppo occupate con il barista per badare a lui. E pensò che non aveva nulla da perdere, o comunque nulla di meglio da fare. E che le ragazze giapponesi avevano un adorabile volto a cuore e un corpo minuto che gli faceva venire voglia di prenderle tra le sue braccia all’infinito.

 

.......................

 

- Mi hai sorpreso –

- Mi sono sorpreso da solo –

- No, non perché lei hai urlato addosso ... –

Yuriy uscì dal frigo armato di un paio di bottiglie di birra. Ne avevano lasciate alcune alla villa, giusto per sicurezza, e quelle che avevano portato a cena erano comunque bastate per mettere quasi ko i partecipanti al banchetto.

Ne passò una a Kai; non esattamente una birra eccelsa, ma a quell’ora andava bene tutto.

- E in che senso?-

- Non pensavo avresti provato a farle domande davanti a tutti –

- Non le ho chiesto nulla –

- Ah no?-

Kai si attaccò alla bottiglia. Yuriy lo seguì, senza troppi complimenti.

- E perché si è messa a urlare?-

- Kai, obiettivamente parlando ... quanti giorni sono che è qui? Tre? Quattro?-

- Tre –

- E quante volte pensi che ci abbia parlato?-

- Mmmm ... – il ragazzo soffiò sul collo della bottiglia - ... mai?-

- è ... non so nemmeno descriverlo –

- Paradossale? –

Yuriy bevve un lungo sorso, molto lungo. Gli occhi vagarono nel semibuio della cucina, illuminata dalla luce accesa nel corridoio. I riflessi sui mobili bianchi, lucidissimi, disegnavano ombre silenziose. Le stesse che lo seguivano nel buio della sua testa mentre dormiva, e che avrebbero continuato a farlo per sempre. Ma ora quelle ombre erano di nuovo reali.

E questo gli bruciava in petto più di qualunque sconfitta.

- Avevamo distrutto tutto ... ma quel maledetto uomo torna indietro –

- Un arsenale .... che ci vorrà fare? Andare a conquistare il mondo?-

- Non sarebbe nemmeno la prima volta che ci prova –

Il russo poggiò la bottiglia ormai vuota sul tavolo, rimettendo mano al frigo.

Kai decise che quello era il momento buono per togliersi una curiosità che lo assillava da giorni, dal momento in cui aveva confessato agli ex compagni di squadra che non credeva ad una parola del racconto di Rosemary. Nessuno aveva aperto bocca sulla questione. Era ora di far cantare almeno il capitano.

- Tu le credi?-

Yuriy si fermò con la bottiglia di vodka a mezz’aria. Di birra ne aveva avuto abbastanza. Prese tempo. Richiuse il frigo, ci si appoggiò contro e bevve piano, gli occhi fissi su Kai. Il ronzio del refrigeratore occupava tutto il silenzio della notte ma, se i pensieri avessero potuto fare rumore, si sarebbe sentito un rimbombo assordante. Il cervello di Yuriy macinava parole, idee, dubbi con una velocità incredibile. E Kai gli stava dietro, aspettando, anche se le attese non gli erano mai piaciute.

- Cosa vuoi sentirti dire?-

Kai rise. Gettò il capo all’indietro, socchiuse gli occhi.

- Non prendere tempo. La verità –

- No –

Ecco. Eccola la risposta, strappata dalle sue labbra. Yuriy ritrattò subito.

- Razionalmente parlando. Ma ... –

- Il capitano della terribile squadra russa ha un ma? Sei diventato così insicuro Yuriy?-

Il russo brandì la bottiglia mezza vuota, agitandola verso l’altro.

- Te la sfascerei in faccia –

- Ma non lo farai –

- La vodka è più preziosa –

- Di cosa? Della mia faccia?-

- Anche –

- Se ci avesse raccontato un sacco di bugie?- Incalzò Kai, tornando all’argomento cardine della sua curiosità.

- Sai qual’è la cosa più assurda? Che ci abbiamo vissuto insieme con quella persona, ma ... io non la riconosco. Dai, l’hai conosciuta anche tu –

- Un po’. Boris?-

- Mh?-

- Mi ricordo bene che lui le era molto ... molto affezionato. Si è messo in un grosso casino solo perché pensava di poterla incontrare, no?-

- Non ha più detto nulla. È come se ... la osservasse da lontano-

- Non è da lui stare così tanto in silenzio –

- Cosa pensi di fare ora?-

Kai guardò l’altro interrogativo.

- Ora ... in che senso?-

- Adesso che sai che nessuno si fida. Non è questo che volevi sapere? –

Il giapponese sbuffò una malcelata risata.

- Comunque voi non vi siete mai fidati di nessuno in particolare ... –

- Ma se pochi giorni fa hai tirato fuori la manfrina che di te ho imparato a fidarmi perché non ho avuto alternativa ... –

- Quindi ti fidi?-

- Di te?-

- Perché se è così ... –

Kai si staccò dalla parete, che ormai aveva l’impronta della sua schiena. In un paio di passi raggiunse Yuriy; lo sguardo si assottigliò come una lama.

- ... Guardala bene. E attento a quello che decidi di fare –

Il russo alzò un sopracciglio. Si attaccò di nuovo alla bottiglia, senza staccare gli occhi da Kai. La sua sentenza perentoria suonava quasi fuori posto lì, in quella cucina disabitata, nel silenzio notturno dell’enorme villa, tra di loro e le bottiglie vuote che si accumulavano sul tavolo.

- Cos’è, un ultimatum? E comunque non credere che non stia già facendo attenzione –

- Mh, certo, mi ricordo l’attenzione che avevate con lei attorno al monastero. Eravate praticamente le sue balie –

- Kai –

La voce giunse alle orecchie del giapponese all’improvviso più tagliente. La vodka era finita, bruciava nella gola di Yuriy tanto quanto il fuoco negli occhi di Kai.

- Tu non sai cosa abbiamo passato con lei –

- Posso immaginarlo, e ... –

- No, non puoi – lo zittì di slancio – noi eravamo il suo scudo, e lei era il nostro –

Kai raramente si era lasciato andare a momenti di romanticismo. Yuriy non lo aveva mai fatto; quello che stava raccontando non era altro che la verità fattuale, empirica, tangibile. Non una metafora dal profumo di rose e violette, non una poesia presa dai cioccolatini per innamorati. Questo erano stati al monastero: l’una lo scudo degli altri.

- Mettila come ti pare, ma considera i fatti. Vorkov sta facendo qualcosa di grosso. Ivan, io e Andrew ci siamo andati di mezzo, e per poco Garland non ci lascia le palle. Boris ci si è buttato dentro solo per lei. Lei è la causa scatenante di tutto. Cercavano indizi per trovare lei dall’inglese e da Ivan, e documenti su di lei a casa mia. Volevano eliminare Garland perché forse, forse, aveva visto delle sue foto, e poteva aver intuito che stavano costruendo qualcosa di losco attorno a quella ragazza. Maledizione Yuriy, tutto porta a lei! –

Finì il discorso moderando a stento la voce. Lo sapeva che quei ragazzi non erano degli stupidi, che i collegamenti li avevano fatti. E che a tutti più di una cosa non tornava.

- Se l’hanno cercata così tanto, in così tanti posti ... che ci faceva in metropolitana con Boris? Vorkov l’ha convinta a collaborare? Lei ha detto di averlo fatto per tenervi lontani dalla questione, per ... salvarvi, se vogliamo metterla così. Però non ci ha pensato due volte a tirare Boris nel mezzo –

- Kai, non c’è bisogno che mi fai l’elenco delle incoerenze –

- Lo so –

Il giapponese trangugiò l’ultimo sorso di birra.

- Ma mi fa incazzare da morire –

Yuriy rise.

- Cos’è? Ti senti preso in giro?-

- Sì, maledizione! È talmente evidente che qualcosa non va ... ma non riesco a collegare i pezzi!-

- è come un tosaerba rotto incollato con lo scotch –

Boris si materializzò in cucina. Non si preoccupò di accendere la luce; raggiunse gli altri due, aprì il frigo, afferrò la prima cosa vagamente alcolica che trovò.

- Sta in piedi, male, ma funziona. E non riesci a capire come fa a funzionare in quelle condizioni -

- Quanta poesia ... –

In piedi davanti al frigo, attaccati alla bottiglia, gli occhi persi nel vuoto e le menti arrovellate. Almeno, quella di Kai lo era. Ma per lui era tutta una questione di orgoglio: doveva far quadrare i conti in qualche modo. E non sopportava chi cercava di fargliela sotto il naso.

- Sta dicendo tante cazzate – Il commento di Boris rieccheggiò tra le pareti, pesante come un macigno – e voglio sapere perché –

Kai si decise.

- Domani ci parlerò –

Yuriy non fu d’accordo.

- No –

- E perché? Sergej si rifiuta, Ivan è sempre chiuso nella sua stanza ... –

- Loro stanno facendo un ... lavoretto su commissione –

- Ok, ma tu e quell’altro? Hai detto tu che non ci hai mai parlato –

- Lo farò io –

Di nuovo dalle labbra di Boris proruppe un’irremovibile sentenza.

- L’ho fatta venire qua io, io ho fatto il casino ... e io rimedierò –

- Da quando ti prendi delle responsabilità?-

- Kai, la vita ti da solo due modi per affrontare i problemi: aggirarli, o abbatterli. E io sono bravo a distruggere le cose –

 


 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10 

 

 

- Scacco matto –

Il re nero cadde sulla scacchiera con un leggero tonfo, scalzato dal trono dalla sua nemesi candida.

Garland sorrise impercettibilmente.

- Ci stiamo arrugginendo un po’ ... –

Kai bofonchiò un stai zitto tra i denti.

Chissà perché, quella mattina aveva accettato la proposta di Garland. Chissà perché, ora, si trovava bloccato al lato di una scacchiera con quel maledetto a ricordargli che gli scacchi non erano proprio il suo sport di punta.

Anche questa era tutta una questione di orgoglio. In realtà era una giornata oziosa, quella domenica. Nessuna lezione di marketing, nessun inseguimento, nessun litigio ... era arrivata, puntualissima con il caffè, la chiamata di Takao che invitava tutti a un pranzo in compagnia. Kai aveva declinato; non tanto perché se ne volesse restare solo, tanto ormai la sua casa era diventata un albergo. Piuttosto perché, chi per un motivo, chi per un altro, quella mattina ognuno aveva qualcosa da fare. Tranne lui. E Garland gli aveva proposto il diversivo degli scacchi.

 E Kai aveva disgraziatamente accettato.

Garland riposizionò i pezzi sulle caselle con calma, la mano era così leggera che il legno non producevano nessun suono al contatto con la scacchiera.

- Che silenzio ... –

- Shhh ... mi deconcentri –

- Dove sono tutti?-

Kai gli scoccò uno sguardo di fuoco. Lo faceva per innervosirlo. Lo sapeva. Era la sua tattica: commenti leggeri, appena sussurrati, impalpabili, che colpivano il segno. Almeno tra loro due funzionava così. Il fiammifero e l’incendio.

- Sergej è a fare ... compere ... – Kai studiava la scacchiera immobile, gli occhi fissi su quel re bianco che aveva le ore contate.

- Ivan ... boh –

- Ho visto Boris con quella ragazza –

Le ametiste si alzarono dal tavolo da gioco.

- Quando?-

Garland mosse un alfiere.

- Prima di colazione –

Kai mosse un cavallo.

- Sono usciti?-

- Pare di sì –

Garland mosse una pedina. Il giapponese provò la sua stessa tattica.

- Che ne pensi? – Sussurrò con falsa noncuranza, fingendo di essere curioso dell’opinione altrui e di non stare soltanto cercando di distrarre l’avversario.

- Non è il mio tipo. Troppo ... insipida –

Gli occhi di Kai ruotarono al cielo - Non di Rosemary, genio ... della situazione –

Una pedina nera si fece avanti.

- Penso di aver scampato la morte per qualcosa che nemmeno ricordavo di aver visto. Che stupidaggine. Vorkov si sarebbe fatto notare di meno se mi avesse lasciato in pace –

Una torre bianca si fece largo sulla scacchiera.

- Ma nei suoi piani a questo punto dovevi essere morto ... e nessuno avrebbe scoperto l’imboscata che ti aveva teso –

- Credo di aver capito che il nocciolo del problema è quella ragazza. Purtroppo nessuno si è degnato di darmi spiegazioni più ... esaustive –

- Ci stiamo lavorando –

Il cavallo nero si avvicinò pericolosamente al re bianco.

- E il vostro lavoro implica la bocca cucita?-

- Il tuo implica la petulanza?-

Con un movimento deciso Garland spostò un alfiere. Kai sgranò impercettibilmente gli occhi. L’altro sorrise.

- Scacco. No, direi di no, ma capisci che ero in pericolo di vita, e forse lo sono anche ora. E tu sei più distratto del solito ... si vede che è tutto più grave di quel che credevo –

Kai fece la sua mossa, leggermente agitato, spostando una pedina con malcelata stizza.

- Abbiamo giocato molte volte Kai ... non ti ho mai visto così perso nei tuoi sogni –

- Zitto –

Garland sorrise di nuovo; le sue labbra si tirarono in un arco perfetto, dolce e misterioso. Socchiuse gli occhi, si tolse dal volto una ciocca di lunghi capelli d’argento con leggerezza. Avrebbe atteso. Prima o poi qualcuno doveva sputare fuori la verità. E lui aveva tempo e pazienza sufficienti.

 

.........................................

 

- Un cappuccino, grazie –

- Per me un tè nero –

Ming Ming spianò le pieghe della gonna beige, molto elegante sotto la camicetta bianca, molto autunnale. Mancavano un paio di foglie dorate a decorarle i capelli a sbuffo color carta da zucchero, in tono con il rossetto color caramello, e sarebbe stata l’incarnazione della stagione delle zucche.

Ma l’arancio per le strade sarebbe stato presto sostituito dal bianco della brina invernale. Erano i primi di dicembre; i negozi allestivano le premature luci natalizie e per le strade aleggiava l’odore dei dolciumi dei venditori ambulanti.

Hilary nascose le mani nelle maniche del maglione.

- Cavolo Minnie, mi dispiace per tutti questi problemi ... sei appena arrivata ed è già un gran caos –

- Ma che dici? Almeno stacchiamo un po’ dalla monotonia –

Minnie; un soprannome adorabile per una ragazza che rasentava le fattezze di una bella bambolina di porcellana, nascondendo dietro i boccoli l’animo di una tigre. Ming Ming era atterrata a Tokyo giusto quella mattina, dopo una lunga chiamata con Garland. Lui le aveva suggerito di raggiungere al più presto un posto sicuro; forse qualcuno avrebbe cercato di eliminare anche lei. Ma la giovane non aveva certo intenzione di lasciare al compagno di squadra tutto il divertimento.

- E sei venuta fin qui da Cuba?-

- Ah, sai ... – Si sporse verso l’amica dall’altra parte del tavolino - ... è dura la vita di una idol– Le fece l’occhiolino, facendo sorridere la giapponesina.

- Ma Brooklyn? Mystel? Che fine hanno fatto?-

- E chi lo sa! Riesco a tenermi in contatto solo con il re dello sport ormai, per un motivo o per un altro, gli altri ... spariscono!-

Il cameriere posò due belle tazze colorate sul tavolino, sorridendo cordiale. Hilary si fiondò sul tè bollente; stava facendo davvero troppo freddo in quei giorni.

- Mystel ... – riprese Ming Ming, pulendosi dalle labbra un baffo di latte - ... sarà in raduno spirituale da qualche parte. Moses è sicuramente con la famiglia. Brooklyn ... l’ultima volta che l’ho sentito voleva fare il giro del mondo –

- Wow!-

- Già, wow, ma vista la situazione ... mi preoccupa un po’ non riuscire a contattarlo –

Si portò le unghie color corallo alle labbra, pulendosi alla meglio i residui di cappuccino. Poi si sporse di nuovo verso Hilary, con fare cospiratorio.

- Ma ... è sicuro? C’è ancora lui di mezzo? Intendo ... – i suoi occhi scivolarono tra i tavolini della piccola pasticceria, guardinghi e misteriosi - ... Vorkov – Sussurrò, come se stesse pronunciando qualcosa di proibito.

Era una ferita mai del tutto rimarginata quella che portava nel cuore. Lei, come tutti gli ex componenti della BEGA. Un tradimento bello e buono, e nonostante tutto la piccola Ming Ming ci aveva creduto fino alla fine ai falsi ideali di quel monaco. Si diede della stupida.

Mai dare agli uomini una seconda possibilità, glielo aveva sempre detto sua madre. E aveva ragione.

- Non so che dire, anche Takao è confuso –

Hilary tolse il filtro inzuppato dalla tazzina azzurra. I suoi occhi navigarono sul liquido ambrato. Chissà se sul fondo del tè avrebbe trovato le sue risposte?

Un ticchettio sul vetro accanto al loro tavolo portò gli sguardi delle due ragazze sulla strada. Di là dalla vetrina, nascosto da un’enorme valigia, un biondissimo ragazzo le stava salutando, sfoderando un sorriso da un orecchio all’altro.

Dieci minuti dopo erano già sotto l’ala protettiva di Gianni, appena tornato dall’aeroporto di Tokyo e provvidenzialmente scaricato dal tassista alla svolta sbagliata, sistemati comodamente nella migliore pasticceria che la capitale giapponese potesse offrire.

L’italiano le fece accomodare, spostando le poltroncine di quella che sembrava una sala da tè uscita dall’epoca vittoriana.

- Cosa vi offro signorine?-

Ming Ming sorrise maliziosa. Adorava tutte quelle attenzioni. Nella sua carriera era stata spesso insultata, bersagliata di invidia e di accuse di ipocrisia. Qualcuno l’aveva appellata, con una punta di disprezzo sulla lingua, primadonna; era assolutamente vero. E lei non poteva andarne più fiera.

- Un tè, una torta al cioccolato e ... qualche pettegolezzo –

- Uuuh, siamo curiose, eh?-

- Mao ha cercato di far parlare Rei, ma lui è troppo bravo a tenere i segreti. E poi credo non sappia nulla – Hilary si fece più vicina al ragazzo, che ora era complice delle macchinazioni delle due fanciulle. Non aveva via di scampo; e, se l’avesse avuta, non l’avrebbe sicuramente presa. Un tè, due belle donne, una storia interessante ... era sceso dall’aereo nel momento giusto.

- Però ... tu sei molto amico di Olivier, no? E lui e Andrew hanno portato a casa Boris e Rosemary quando ... beh, ci siamo capiti –

- Duque queste belle signorine vorrebbero sapere se Vier mi ha confessato qualche ... indiscrezione?-

Gianni sorrise malizioso. Si prese una pausa per aumentare la suspance, giusto in tempo per far comparire il cameriere. Indicò un paio di dolci, che sembravano squisiti, sul menù e tre tazze del miglior tè nero. Poi poggiò la schiena alla poltroncina, guardando di sottecchi le due esitanti ragazze, piene di aspettativa.

Adorava le donne. Potevano essere il più docile gattino e la tigre più feroce al tempo stesso, ma il modo in cui ti guardavano quando riuscivi a catturare la loro attenzione, quegli occhioni lucidi, le labbra socchiuse in un moto di impazienza, quasi stessero pregustando la vittoria, la riuscita dei loro piani ... Gianni era fatto per soddisfare il gentilsesso. In ogni senso, non come un mero accalappia femmine, di cui se ne vedevano tanti in giro per i locali squallidi delle periferie.

Lui era un gentiluomo. E non avrebbe mai negato una soddisfazione a due fanciulle.

- Rosemary Primerose ... Nome curioso, eh?-

Gli occhi di Hilary e Ming Ming si fecero grandi all’unisono, saettando reciprocamente tra loro in un gioco di complicità.

- Si chiama così??-

- Come lo sai?-

- Andrew non ha segreti per un vecchio amico –

- Io ho sentito da Garland ... – Riprese Ming Ming - ... che sarebbe stato quel Boris ad andarla a cercare! –

- Infatti, Drew ha recuperato quei due insieme in una ... casa disabitata da qualche parte –

- Ma perché mi chiedo!-

Tre tazzine rosa cipria vennero adagiate davanti ai cospiratori, accompagnati da due invitanti torte a più piani. Gianni prese educatamente la teiera dalle mani del cameriere, offrendolo personalmente alle ragazze.

- Io credo ... e badate bene che questa è solo un’impressione che mi sono fatto dal racconto di Drew ... credo che in tutta questa storia di cui mi ha parlato, del complotto di quel monaco, dei furti, di gente rapita e quant’altro ... che tutto questo ruoti attorno a lei –

Hilary non disse una parola, ma ne era sicura. Ci aveva pensato un po’ su, e per quanto non fosse mai stata brava nei giochi investigativi, era evidente che Rosemary avesse un ruolo centrale nella faccenda.

- Secondo me ... – proseguì l’italiano, tagliando una fetta di dolce ricolmo di ganache al cioccolato - ... se Boris ha rischiato tanto per portarsela dietro, e se entrambi sono stati ... tratti in salvo, per così dire, beh, vuol dire che lei deve essere davvero importante –

- Gianni –

Ming Ming incastrò i suoi occhi, perfettamente cerchiati di ombretto color bronzo, con quelli del ragazzo.

- Tu lo sai cosa è successo, vero? Intendo, cosa c’è dietro i furti –

- Due ragazze molto curiose vedo ... Bene, ve lo dirò! Sono sempre e solo intuizioni ma ... sono abbastanza sicuro, da quello che dice Andrew, che quei ladri ... stessero cercando proprio Rosemary –

Hilary trattenne il fiato. Ming Ming affondò le labbra nella tazzina, gli occhi attenti e le orecchie tese verso l’italiano. Potevano essere solo congetture le sue, certo, ma ... era la persona più vicina ad Andrew, che era uno di quelli che più di tutti erano stati tirati in ballo in quella faccenda misteriosa. E soprattutto, uno degli unici che aveva vuotato il sacco, per quel che ne sapeva. I russi si rifiutavano di fornire ulteriori spiegazioni, e Garland faceva sempre il vago. Di Kai non ne parliamo.

Così il caffè divenne il nuovo club di cucito e pettegolezzo per quel pomeriggio, con il vento che spazzava via le foglie e faceva entrare i primi accenni dell’inverno.

 

 

................

 

Quella mattina aveva bussato alla porta della sua stanza solo dopo aver pensato a lungo a cosa dire. Si era armato di coraggio, pazienza, prudenza ... tutte doti di cui al momento disponeva a sgoccioli. Persino il coraggio, che non gli era mai mancato, sembrava essere venuto meno.

Davanti al bianco lucido dell'uscio si era chiesto più volte: cosa le dico?

Pensava che avrebbe avuto più tempo per riflettere; invece lei aveva aperto subito la porta. Quando Rosemary lo vide, per un attimo le tremarono le labbra. Boris lo notò. Chissà, magari si aspettava di trovare qualcun’altro.

- Ciao –

- Stai bene?-

- Come vuoi che stia?-

Ahia. Cominciava male. Ma lui non si diede per vinto. Voleva cavare qualcosa da quella discussione. Lo aveva deciso appena sveglio: quello era il giorno giusto, non avrebbe più rimandato la cosa. Non c’era più tempo.

- Senti, io e te dovremmo farci una bella chiacchierata –

- Boris, ti prego ... –

- Non mi chiami più Bo?-

La domanda la lasciò evidentemente spaesata. Aggrottò le sopracciglia, ma si riaddolcì subito quando lui accennò un sorriso.

- Erano dei bei soprannomi –

Rosemary sorrise, sciogliendosi un po’ dall’evidente tensione.

- Sì ... sì, lo erano-

- Ti va di fare due passi? –

- Beh ... – la ragazza lanciò uno sguardo alle ampie vetrate del corridoio; il cielo grigio non faceva presagire nulla di buono, sicuramente non un tempo mite.

- Fuori sembra parecchio freddo ... –

- Staremo in giardino, quel riccone di Kai ha una stufa gigante sotto uno dei portici di questa specie di castello. Almeno credo –

- Stai cercando di convincermi con l’idea di un bel fuocherello?-

- Sì. Ci sono riuscito?-

Rosemary, in tutta risposta, rientrò in camera. Afferrò una sciarpa, un maglione che sembrava fatto di una pecora intera, e raggiunse Boris in corridoio.

 

 

- Mi dispiace per la brutta aria che tirava in questi giorni –

- Credo che sia anche colpa mia –

- Non prendetela, ma sì, effettivamente lo è –

Erano seduti su due enormi sedie da esterno; accanto a loro una bella stufa scaldava l’aria, spandendo i riflessi dorati del fuoco sul muro di mattoni a vista al quale era addossato il piccolo gazebo. Era un luogo adorabile, perfetto per rifugiarsi nella lettura con una cioccolata calda e una coperta morbida. Rosemary tirò il plaid a scacchi, che il maggiordomo le aveva gentilmente fornito, fino alle orecchie.

- Freddo?-

Scosse la testa.

- Sto bene –

- Non mi racconti nulla?-

Lei sapeva di avere quegli occhi verdi addosso; ma non ricambiò. Rifuggiva quello sguardo, aveva paura che le leggesse dentro tutto. E c’erano cose che non avrebbe dovuto sapere. La tensione che sentiva addosso la fece scoppiare in una breve risata. Boris alzò un sopracciglio.

- Che c’è di divertente? –

- No, è che ... chissà cosa direbbero se ci vedessero. Tu, in un gazebo, con una ragazza, seduti accanto a una stufa ... la tua reputazione sarebbe da rivalutare?-

- Che reputazione?-

- Ma come? Il freddo calcolatore, i nemici che tremano solo al pensiero di averti davanti ... ne abbiamo sentite parecchie, nei vecchi campionati di beyblade –

Boris allargò le labbra in un sorriso storto, tra il divertito e il sarcastico. Certo, ricordava bene cosa si diceva di lui. E le dicerie erano tutte verissime.

- Perché, le persone terrificanti non possono passare il tempo con una ragazza?-

- Magari dovresti trovare una donna che faccia più paura di me. Ormai sono un topo di biblioteca –

- Ma che dici? Tutte le donne sono terrificanti –

Lei tolse un braccio dal caldo antro della coperta solo per tirargli un pugno affettuoso. Boris incassò senza lamentarsi.

- Scemo ... –

- Non mi hai risposto –

Rosemary si accucciò meglio sulla sedia, respirando a fondo quell’aria frizzante.

- Che vuoi che ti racconti? Una favola? Una barzelletta?-

- Anche le favole hanno un fondo di verità –

- Aaah ... ma se è la verità che cerchi, non la troverai qui –

Lui si fece improvvisamente serio. Si alzò, fece un paio di passi fino al limite del gazebo. Non si era disturbato a prendere il cappotto; accolse il freddo come un vecchio amico, lasciando che l’aria gelida gli scivolasse sulle braccia, sul collo completamente scoperto, sugli zigomi. Sentì il fischio dell’inverno in arrivo nelle orecchie, respirando a fondo.

La voce della ragazza si insinuò tra quelle note gelide come una cantilena.

- Avrei voluto solo che foste salvi. Almeno voi. Anche se ... –

- Se?- La incalzò lui – Anche se avevamo tagliato i ponti? Anche se ti avevamo abbandonata?-

- Non ho detto questo –

- Ma lo hai pensato. Rosemary ... la nostra non è stata una vita semplice. In quei dieci anni non abbiamo giocato, lo sai anche tu. Ti avremmo solo messa in pericolo –

- Ho passato una vita intera in un posto pericoloso Bo –

- Era diverso –

- In ogni modo, mi dispiace. Ecco, te l’ho detto – prese un grosso respiro, socchiudendo gli occhi. Un velo di tristezza la avvolse – Mi dispiace di averti messo nei guai. Nella mia testa doveva andare tutto in modo ... diverso, ecco –

- Dovevi sacrificarti solo tu? Perché è questo che volevi fare, no? Sei sempre stata brava a pensare di fare da scudo a tutti –

- Ma io ... –

- Ascolta. Non so se davvero è tutto qui, o se ci stai di nuovo nascondendo qualcosa ... ma vorrei che tu ti fidassi .... –

- Mi sono sempre fidata!-

- ... e vorrei avere la possibilità di fare altrettanto con te –

La frase la lasciò turbata. Non si aspettava un finale del genere. I piccoli occhi le si assottigliarono, i denti cozzarono tra di loro dietro le labbra serrate.

- Allora è questo il problema. Non vi fidate più –

Era un problema. Un serio problema, sicuramente per una nella sua posizione.

- Di una persona che è ricomparsa di prepotenza, raccontandoci mezze verità, riportando Vorkov nella nostra vita? No, non ci fidiamo –

- Dopo tutti questi anni ... –

- Rosemary, che c’entri tu con lui? Perché ti cercava?-

- Ve l’ho detto, per i codici –

- Poteva prenderteli senza fare tante storie, e poi tornare a prendersi Falborg se gli serviva –

- Sapeva che non glielo avresti mai dato –

- Non l’ho dato nemmeno a te. Me lo hanno strappato via –

- Eri debole in quel momento, c’ero io lì con te –

- Quindi servivi a questo? Ti hanno usata per distrarmi?-

- Può darsi –

- E i codici? –

- Non lo so, io... so solo che forse, senza saperlo, potreste esserveli portati dietro voi per tutto questo tempo -

- Tutto qui? Non c’è altro?–

-Tutto qui. Come vedi sto rispondendo alle tue domande, come volevi tu – le tremò la voce, al limite della calma.

Boris non si scompose. Rimase a darle la schiena, contemplando il giardino perfettamente curato, godendosi le carezze gelide del vento.

- Non voglio litigare –

Lei si impose di rilassarsi. Portò la coperta fino al naso, comandando al cuore di battere più lentamente.

- Nemmeno io –

 

Venti minuti dopo erano su altre due poltrone, davanti ad un altro fuoco, dentro casa, in uno dei salotti di quella villa immensa. Rosemary si aggiustò i leggins sulle gambe, accovacciandosi tra i dvd in esposizione in un lussuoso mobiletto di legno chiaro.

- Ti va qualcosa tipo ... un giallo? Oh, c’è la collezione dei film di Poirot! Adoro Suchet, è incredibilmente simile a quel piccolo belga –

- Chi?-

- Poirot! L'investigatore di Agatha Christie! –

- Kai tiene in casa quella roba?-

Rosemary gli allungò il dvd, più che intenzionata a godersi il film e a non sentire più scuse. Un attimo dopo era accoccolata sulla poltroncina, tazza di tè alla mano e copertina sulle gambe.

Boris continuò ad osservarla. Era diversa. Davvero diversa. Un po’ troppo diversa. Erano stati felici insieme, nel bene e nel male. Quel suo sorriso illuminava le celle più buie, le sue mani curavano le ferite più profonde.

E allora cos’era, cos’era quella crepa che, sottile, si insinuava nella sua mente, con la forza erosiva di una goccia d’acqua che martella sempre sullo stesso punto? Perché non riusciva a liberarsene?

Lo sapeva. oh, se lo sapeva; conosceva la risposta da quando l’aveva liberata in quel laboratorio. Ma accettare l’evidenza era un altro paio di maniche. E lui voleva essere sicuro che quel sogno di vedere di nuovo Rosemary accanto a sé fosse davvero finito.

- Non mi chiamate più così?-

- Mh?-

Boris tornò a prestare attenzione al film solo un secondo, giusto il tempo di sentire un paio di battute. Non era un appassionato di gialli, men che meno di Poirot. Una donna dai riccioli dorati stava prendendo il tè con quelle che sembravano due cameriere, in una location molto inglese di un giardino ben curato.

- Così come? Come la biondina?-

Non aveva idea di chi fosse il personaggio. Arricciò il naso; solo a guardare quella donna, i suoi riccioli, gli abiti con la gonna, le maniere ben educate ... gli venne il voltastomaco.

- Non ti piace?-

Osservò Rosemary con la coda dell’occhio.

- L’attrice?-

- Il nome!-

- Il suo?-

- Mary. Il personaggio si chiama Mary. Mary qui, Mary là, Muoviti Mary, Mary smettila di frignare ... una volta io ero Mary, solo per voi –

In quel momento qualcosa si ruppe nella testa di Boris. La crepa divenne una voragine, il muro crollò su se stesso come un castello di carte in una bufera. Quel muro che aveva eretto quasi inconsciamente a difesa del ricordo di quella bambina, nel folle tentativo di tenerlo con sé, di sovrapporlo a chi ora ne reclamava l’identità. Fu una tempesta fulminea e terribile. Lasciò un campo di battaglia deserto, incolto e gelido. Solo un’idea, un concetto, vi troneggiava vittorioso.

Bugiarda

 

.............................

 

Sergej sospirò. Inarcò le sopracciglia e scosse il capo, come a voler dire così non ci siamo. Prese in mano un alfiere, e con un movimento fluido lo fece volare sulla scacchiera fino alla regina nera.

Yuriy non si scompose. 

La tensione porta a fare cose incredibili. Persino a vedere quei due, uno più negato dell’altro al gioco degli scacchi, sfidarsi ai lati del tavolo appena liberato dalla presenza di Kai e Garland. Quei due cervelli, abituati ad azioni rapide, precise, letali, si stavano arrovellando sulle pedine lucide, quasi stessero progettando una guerra.

- Così hai sacrificato un pezzo importante. Potevi anteporre una pedina –

- Ma il re è salvo. È così che funziona, giusto? La regina cade per difendere il re –

 


 

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

 

Come faceva? Come faceva Vorkov a sapere dove trovare i codici? E se sapeva che erano nei loro bey, perché disturbarsi a tenere Rosemary in vita? Che voleva farci con lei in quel laboratorio?

Perché Vorkov si era sentito in dovere di disturbare McGregor e Ivan? Da loro potevano essere solo andati in cerca della ragazza, ma non aveva senso, visto che l’avevano già in pugno. Soprattutto, a che gli serviva Rosemary? Vorkov sapeva dove cercare i codici, gli sarebbe bastato usare la forza per prenderseli.  

- Non regge. Non è possibile –

- Forse, ma a conti fatti la soluzione sembra essere una sola –

Quella notte, subito dopo il ritorno di Boris con la ragazza, Kai aveva guardato tutti negli occhi, concludendo un lapidario discorso di poche battute.

- Rosemary ci ha detto più di una bugia-

Lo sapevano tutti. Lo sapeva Sergej, dal primo momento che l’aveva vista, che ne aveva osservato le mani, così affusolate, con le dita così lunghe. Quelle dita che Rosemary avrebbe tanto desiderato avere, perfette per suonare il pianoforte.

Lo sapeva Ivan; gli era bastato guardarla negli occhi, troppo perfetti, troppo profondi, per ricordarsi dei suoi piccoli, lucidi occhietti azzurri, sempre spalancati, vuoi per la gioia, vuoi per la paura.

Lo sapeva Yuriy, sentendola parlare con la cattiveria di una vipera e la lingua tagliente come una lama appena battuta. Non c’era posto in quella voce per la melodia delle fiabe che raccontava, per le ballate che le piaceva cantare.

Boris non aveva avuto bisogno di pensarci. Era stato troppo facile uscire dal laboratorio, troppo comodo trovare l’entrata della chiesa aperta. Troppo bello trovarla ancora viva.

Gli occhi di Kai, quelle belle ametiste che facevano impazzire le ragazze, avevano solo sollevato il coperchio già aperto del vaso di Pandora. Le sue pietre preziose, taglienti e letali, avevano fatto uscire allo scoperto la verità. E la verità era dolorosa, e terribilmente reale.

Perché anche Kai, che non aveva passato l’infanzia con loro e che aveva vissuto solo pochi anni con Rose, anche lui sapeva. Sapeva che lei non mentiva mai, perché non ne era capace. Ne ricordava l’ingenuità e la naturalezza nel dire le cose più banali. Rosemary non mentiva. Non a loro.

L’istinto fu più rapido dell’amore.

Lei non è Rosemary

Boris lo sapeva. Lo sapeva fin dall’inizio. E tutti avevano fatto finta di non credere alla vocina nella loro testa, ma questa bussava, bussava ... e alla fine aveva sfondato la porta.

È una bugiarda

Ma il vaso era stato aperto. E nessuna speranza, questa volta, si sarebbe salvata.

 

...........

 

- Spiegazioni? Sul serio? –

La scopa ondeggiò tra le mani di Takao. Il lunedì mattina era giornata di pulizie al dojo, e per fortuna Rei e Max si erano offerti di dargli una mano. Andrew, Olivier e Gianni si erano stabiliti in un albergo più ... adatto al loro rango. Hilary aveva delle lezioni, Mao delle commissioni da fare; Ming Ming si divertiva a fuggire dai fans ... e Kenny sprofondava tra i computer ogni inizio settimana, per riemergene solo il venerdì sera.

Quella mattina di dicembre, più fredda del giorno prima e probabilmente più calda del giorno dopo, si era presentata una sorpresa alla porta della palestra di famiglia.

Kai, abbandonati gli abiti eleganti che si costringeva a tenere in casa con Garland tra i piedi, si era alzato di buon’ora infilando una tuta e un paio di scarpe sportive. Il rapporto con i completi, le camicie, le cravatte e le scarpe lucide era ... contrastato. Adorava come quegli abiti lo calzavano, sottolineando alla perfezione il suo fisico scultoreo. Ma sentirsi sempre ingessato lo rendeva nervoso. Si sentiva sempre più vecchio. E in questo era incredibilmente simile a suo nonno, che lo volesse o no: entrambi non volevano ammettere lo scorrere del tempo. Se avessero potuto fare un patto col diavolo, sarebbe stato per l’eterna giovinezza.

Quella mattina non era uscito per insultare Garland al club di scacchi, né per guardare dall’alto in basso i figli di papà al corso di marketing. Doveva vedere uno dei suoi migliori amici; e Takao non aveva bisogno di vederlo in giacca e cravatta per prenderlo sul serio.

- Sta per succedere qualcosa, e credo sia meglio ... prepararvi –

- Amico, mi sembri molto, molto ... preoccupato. Ma davvero molto. Hai bisogno di appoggio per qualcun’altro? Al dojo c’è tutto il posto che vuoi, lo sai –

- Sei adorabile Takao, e ... ti ringrazio. Davvero –

Poche erano le persone vere come lui. Umane. Con un senso dell’amicizia più profondo del nucleo terrestre, più duro del diamante.

Kai guardò oltre le spalle dell’amico. In uno dei corridoi del dojo spuntavano i ciuffi biondi di Max; si sentiva un motivetto allegro risuonare per le pareti. Si ricordò di quante volte, durante il primo campionato, Max aveva cantato nelle docce degli innumerevoli alberghi. E si rese conto che, di nuovo, la loro squadra era riunita.

Takao, Rei, Max e lui. Kai non credeva nel destino; ma cominciava a pensare che ci fosse qualcosa a tenerli legati, qualcosa che non avrebbe mai lasciato che le loro strade divergessero del tutto.

- Entra dai, chiamo gli altri –

I futon erano impilati addosso alla parete. Il caos della cena del sabato precedente era stato sgomberato, ma l’aria profumava ancora di dolce. Una piatto ricolmo di biscotti svettava su un mobile vicino all’ingresso.

- Hila si è improvvisata pasticcera –

- Lo vedo –

- Se foste venuti anche voi ieri ... –

- è appunto per qualcosa che è successo ieri che sono qui –

I due si sedettero nel dojo, davanti ad un piedistallo in pietra che a Takao era rimasto tanto caro. Era lì che era cominciato tutto, tanti anni prima.

La ruota gira

Il nonno glielo ripeteva da quando era piccolo.

Rei si materializzò accanto a loro con il suo passo felpato, leggero come un felino. Quando mise una mano sulla spalla di Kai, lo fece sobbalzare leggermente.

- Sei teso?-

- Hai un rimedio erboristico apposta per me?-

La risata limpida del cinese rieccheggiò sulle pareti. Assottigliò gli occhi dorati e si sedette accanto a Kai.

- Potrei averlo ... –

- Kai! Ti siamo mancati?-

- Ho bisogno di parlarvi Max –

- Cavolo ... – l’americano si sedette con loro, completando il cerchio – Che faccia da funerale –

- Allora?- Incalzò Takao - Ti ascoltiamo, vai tranquillo –

- è una storia lunga, cercherò di ... riassumerla, in qualche modo. Ascoltatemi senza interrompermi –

Prese fiato.

- Tempo fa, ma parlo forse di più di dieci, quindici anni, Vorkov ha cominciato a macchinare qualcosa. Qualcosa che aveva a che fare con una bambina

- Sì beh, sapevamo che c’era lui in mezzo a questo macello ... -

- Buono Takao. Fammi finire. Il nocciolo del suo piano, a quanto pare, era la costruzione di ... un arsenale missilistico –

Un velo di ghiaccio scese nel dojo. Gli occhi di Takao e Max si fecero grandi a dismisura, le mani di Rei fremettero.

Un arsenale

Non esattamente dei giochi mortali con le trottole.

- Le armi sono state progettate, a suo tempo, da uno scienziato che lavorava per Vorkov. Era il padre di Rosemary. Ma le cose evidentemente non sono andate tutte lisce ... quell’uomo non si fidava del monaco, e ha nascosto le chiavi per l’attivazione delle armi. Una delle chiavi è il bit power di Falborg. L’altra è nascosta nei bey dei russi. Non chiedetemi come, né in che modo ci sia finita lì dentro -

Ora arrivava la parte difficile. La parte di cui non era sicuro nemmeno lui, quella fatta di congetture. Non che della questione dell’arsenale missilistico avesse qualche prova; c’era solo la parola di quella ragazza. E aveva già dimostrato ampiamente di non essere degna di fiducia. Ma era una storia che quantomeno quadrava. Il resto invece ...

- Non sappiamo perchè, ma Vorkov voleva trovare Rosemary. Crediamo che per farlo abbia tenuto d’occhio due delle persone che le erano state più vicine negli ultimi anni. Prima Ivan, che ha avuto contatti con lei anche dopo che aveva ... tagliato i ponti con la squadra russa. Poi Andrew, con cui aveva stretto amicizia qualche anno fa, quando Rosemary visse a Londra. Poi sono venuti a casa mia, immagino nella speranza che mio nonno avesse tenuto da parte della documentazione utile a capire come far funzionare quei codici. Ma ... Non lo so –

Fece una pausa. Diede il tempo ai tre paia di occhi fissi su di lui di digerire la prima parte della storia.

 

.......................

 

L’aria frizzante le accarezzò il viso, insinuandosi dentro la sciarpa. Rosemary non ci badò. Era talmente piena che sarebbe potuta tornare a casa rotolando.

- Cavolo ... adoro il cinese –

- Ho visto –

Boris la afferrò per un lembo della manica del cappotto, tirandosela dietro per attraversare la strada.

- Beh, non è che tu abbia mangiato meno di me –

- Io sono un po’ più robusto di te, Rosemary. Come fa il tuo stomaco a contenere tutta quella roba?-

- Mistero –

- Aha –

La fortuna aveva voluto regalargli un parcheggio a due passi dal ristorante. Ivan lavorava, Sergej stava ... facendo una ricerca con Yuriy, e lui aveva deciso di cogliere l’occasione per una boccata d’aria. E si era portato dietro la ragazza.

Forse sbagliando, non lo sapeva. Aveva solo voglia, almeno per quella mattina, quell’ultima mattina, di fingere di averla di nuovo con se.

- Bo?-

- Mh?-

- Torniamo a casa? Si sta facendo freddo –

- Mi sorprendi ... – Tirò fuori le chiavi di una delle macchine targate Hiwatari, messa gentilmente a disposizione da Kai. Altrimenti se la sarebbe presa in prestito da solo.

- Hai freddo e sei uscita solo con la sciarpa?-

- Beh? Sciarpa e cappotto, che altro dovrei mettermi? Non siamo mica a Mosca –

- No ... –

Boris mise in moto e partì in terza, senza dare esattamente tutte le precedenze necessarie per uscire dal parcheggio.

Aveva una certa fretta a dire il vero. E ormai era stato esaudito anche il suo ultimo, stupido desiderio.

 

- Non siamo mai andati tutti insieme a mangiare cinese –

- Non credo che ci andremo mai –

La ragazza rimase con il cappotto a mezz’aria, in volo verso l’appendiabiti.

- In ... in che senso? Non avrai mal di pancia?-

- No –

Boris non sembrava ... arrabbiato. D’un tratto si era fatto gelido. Esatto: gelido. Non aveva perso la calma, non era triste, né fuori di sé. Quel vago sorriso che lo aveva accompagnato per tutta la mattina si incrinò da una parte; le iridi verdi diventarono lame affilate, e quando si avvicinò a lei sembrava stare tirando i muscoli fino all’estremo.

Lei si sentì all’improvviso piccola. In pericolo.

- Bo ... cosa ... –

- Non chiamarmi così –

- Che ti prende ora?-

- Adesso noi due ci facciamo una bella chiacchierata –

Strinse i pugni, facendo scricchiolare le dita. Lei d’istinto fece saettare lo sguardo lungo le pareti, ma sembrava che il corridoio desse poche vie di scampo.

- Non capisco, perché adesso ... –

- Oh, invece capisci molto bene. Te lo dico io. Ti fidi di me?-

La voce si incrinò di falsa ironia. Lei deglutì, improvvisando un sorriso, fingendo un sangue freddo che le stava venendo meno.

- M-ma si ... lo sai –

- Quindi ora mi dirai la verità –

- Bo, io non ... –

- Ho detto. Di non. Chiamarmi. Così. –

La voce era diventata un pugnale d’argento, dura, tagliente come il vento gelido delle giornate d’inverno. lei si impietrì. Sperò che in casa ci fosse qualcuno, andava bene chiunque.

- La verità –

Era un ordine. Puro e semplice. Lei si portò d’istinto le braccia al petto, indietreggiando di un passo.

- Perché?-

Boris scosse il capo.

- Non ci siamo capiti –

Un secondo dopo la punta fredda della canna di una pistola sfiorava la fronte della ragazza.

 

.............................

 

- A quel punto Garland è stato attaccato. Crediamo che Vorkov lo volesse eliminare per paura che lui sapesse qualcosa sui suoi piani, e che avesse visto delle foto di questa bambina attorno a cui gira tutto il meccanismo. Bambina che, a questo punto, immaginiamo sia Rosemary. Altrimenti, non sapremmo come spiegare che ci sta a fare lei qui –

- è per questo che era ferito quando è arrivato qui? Garland, dico. Gli uomini con cui si era scontrato erano davvero agenti di Vorkov?-

- Sì Rei, ma lui e Yuriy hanno evitato il peggio. Poi c’è la questione di Boris. Per farla breve, erano dieci anni che Rosemary non era più in contatto con lui e gli altri della squadra. Ma giorni fa, in Giappone, una donna mi ha lasciato un anello che Boris ha riconosciuto essere di Rosemary –

- Che ci faceva in Giappone?-

- Bella domanda. Non ne ho idea. Ma pochi giorni dopo era di nuovo a Londra, dove Boris ha detto di averla vista in un bar. Si è fatta avanti lei, e in qualche modo lui ha capito che voleva parlargli. Non chiedetemi come, ma si sono incontrati ... e hanno preso Boris. Lei ci ha detto che non era sua intenzione metterlo in mezzo, che sperava lui le desse Falborg senza fare storie e se ne andasse prima dell’arrivo degli uomini di Vorkov. Ma non ha fatto in tempo. Li hanno portati in una specie di laboratorio, poi Boris si è liberato, ha recuperato lei e Falborg e ... eccoli qui –

- E i codici?-

Rei aveva sempre la domanda giusta al momento giusto.

- Falborg è ancora integro, quindi, se una delle chiavi è nella sua struttura, non l’hanno ancora presa. Gli altri ... non lo sappiamo. Nei componenti dei bey non c’è nulla di scritto, nessun numero inciso ... niente. Ma non è solo questo il punto –

- Kai, lo sai che questa storia è folle vero?-

- Folle?-

Max sbatté le palpebre un paio di volte, intontito dalla mole di informazioni che celavano un’unica, terribile verità: armi. Vagonate di armi che si sarebbero potuti vedere puntate addosso da un momento all’altro.

- Questa non è solo follia ... io ... non so se ci voglio credere –

- Ma è vero? Rosemary ne è sicura?-

- Il punto, Takao, è che non sappiamo nemmeno se essere sicuri di Rosemary-

La frase lasciò il giapponese ancora più confuso, se poteva esserlo.

- In ... in che senso?-

- Lei non è Rosemary –

 

.......................................

 

Non era lei. Non lo era mai stata. Certo che non lo era.

- Ti prego, mettila via, cosa vuoi fare?-

- Zitta-

Tolse la sicura, tenendo il dito sul grilletto con una freddezza degna di lode. Non un tremore, non un’ombra di dubbio nei suoi gesti.

- Boris ... –

- Ho detto – Avvicinò la canna alla tempia della ragazza – Zitta –

Le somigliava. E loro non la vedevano da dieci anni. Ma non era lei.

Rosemary non era così fredda.

Rosemary non era così tagliente, così rigidamente razionale.

Rosemary non era mai stata solo Mary.

Lei era Rose. La sua Rose.

Rose era ingenua.

Rose amava la musica e il cioccolato.

Rose piangeva durante i temporali, e aveva paura di tutto, persino di nominare il nome di Vorkov. Per lei era sempre stato solo il monaco.

Lei non era Rose. E tutti se n’erano accorti subito, non accettando questa verità. Perché, se lei era lì a fare quella sceneggiata ... che fine aveva fatto la vera Rosemary?

La mano di Boris ebbe il primo fremito.

- Ti ha mandata Vorkov? O lavori da sola?-

- Io ... io ... –

- Ho un minuto di pazienza da concederti, poi non riuscirò più a controllare il mio dito –

- Bo ... –

Un improvviso pugno la raggiunse in pieno volto. Lei sbatte il capo sul muro per il contraccolpo; il sangue le colò caldo dal naso, lungo il mento, macchiandole il maglione beige.

Yuriy si palesò in quel momento.

- Stai buttando giù la parete?-

- Scusa amico, questa troietta ha detto di voler dare una mano a ristrutturare la villa e ho pensato di cominciare col farle smantellare un muro –

- Ma che gentile –

Il ragazzo le si avvicinò. Lei per un attimo pensò di poter fare leva sul nuovo arrivato per uscire da quella situazione. Pensò che avrebbe potuto cavarsela.

Ma Boris aveva una pistola, e una certa voglia di spaccarle la faccia. Ne valeva davvero la pena?

In un attimo lo sguardo della ragazza mutò. Sotto gli occhi dei due compagni di squadra, l’espressione spaventata si tese, e gli occhi grandi e lucidi di un cucciolo in gabbia si svuotarono. Si alzò da terra premendo una mano sul naso, rotto, senza proferire parola. Non aveva più paura della pistola.

C’era abituata.

Boris e Yuriy seppero che la commedia era finalmente terminata. Era durata più di un fine settimana; anche troppo per una pellicola scadente come quella. Il braccio del russo fremette di nuovo. Perché ora il loro dubbio era vero, incredibilmente tangibile, orribilmente fattuale. E quella vocina sibilante, una di quelle che gli ronzavano nella testa da giorni, quella che gli ripeteva dov’è quella vera? ... si stava facendo più forte.

- Mi chiamo Alyna – Iniziò lei – Eh sì, sono sul libro paga del monaco –

Yuriy si espresse in uno sguardo interrogativo che la fece ridere.

- Che c’è?- Si tamponò il naso con il polsino del maglione, cercando di pulire la scia di sangue – Tanto lo avreste scoperto, almeno mi evito altri pugni –

La canna della pistola tornò a sfiorarle la fronte. Boris le si avvicinò, spingendola ancora più verso il muro.

Sorrise cattivo; con odio.

- Ma potresti non evitarti una pallottola –

- Buono Boris ... –

- Col cazzo –

- Potrebbe tornarci utile –

- Sarà più utile alla mia coscienza da morta –

- Hei –

Lei alzò le mani. Cominciò a pensare che non ne sarebbe uscita viva per davvero.

- Facciamo uno scambio. Vi dirò quello che so di questa storia, poi mi lascerete tornare alla mia vita e faremo finta di non conoscerci. Il monaco mi ha solo pagata per impersonare quella Rosemary –

Un secondo pugno la raggiunse alla bocca dello stomaco. Alyna si accasciò su se stessa; il pollo al limone le ballò in pancia, minacciando di uscire.

- Boris ... –

Yuriy tirò indietro l’amico per un braccio, prima che decidesse davvero di passare dai pugni ai proiettili.

- Così sporca il parquet di sangue ... poi ci parli tu con Kai –

 

...............................

 

- Io non la conoscevo bene come gli altri, ma i dubbi mi sono venuti subito lo stesso. Lei ci ha raccontato che è stato Vorkov a dirle del progetto, di quello che aveva fatto suo padre, e tutto il resto. Allora ... lei a cosa serviva? Perchè una parte ce l’ha, se dietro a tutto c’è una qualche bambina. E infatti, Vorkov l’aveva cercata da Ivan e Andrew. Allora ... che ci faceva a contrattare con Boris per avere Falborg? Perché cercarla con così tanta foga, se lei era già con lui? –

- Forse ... – azzardò Rei – è andata da Vorkov solo dopo che lui è venuto da Andrew e Ivan –

Kai scosse la testa – Non torna. I furti, il pedinamento, sono cose recenti. Lei era a conoscenza di tutto da prima -

- E se vi avesse traditi? Cioè, magari è passata dalla parte di Vorkov –

- Yuriy lo esclude. E anche io. Lui avrebbe preso quello che gli interessava, e l’avrebbe uccisa. Non serviva tutta questa macchinazione, sicuramente non per arrivare a Falborg, o agli altri bey –

- E quindi?-

- Quindi ... non lo so. Non lo so più nemmeno io –

- Kai, fammi capire ... a che sarebbe servito mandare una ... falsa Rosemary?-

Il ragazzo scosse il capo.

- Non lo so. Magari ... magari speravano che una sua sosia potesse scoprire qualcosa, che avrebbe avuto l’opportunità di frugare nei beyblade di Yuriy e degli altri. Che avrebbe preso quei cazzo di codici, perchè tanto lo abbiamo capito che gira tutto attorno a loro. Ma non lo so. Non lo so. È come se ... se la parte più importante del quadro sia stata nascosta. La sua parte. Se Vorkov sa dove trovare i codici, perchè cazzo la cercava? Perchè non è venuto da noi? Cosa c’entra lei in tutto questo?–

Il tocco fermo e leggero della mano di Rei sulla sua spalla lo costrinse ad alzare gli occhi dalle travi del pavimento. Si sentiva ... impotente. Ignaro di tutto, su un guscio di noce in balia di un fortunale.

La domanda di Rei gli diede in qualche modo il colpo di grazia; eccolo lì, con la sua precisione chirurgica nella sapiente arte dello smembrare i problemi, un’incognita alla volta, con la pazienza del gatto che osserva i movimenti dell’ignaro topo. Colpendo sempre al momento giusto, con la mossa giusta.

- Hai detto che questa ragazza è una sosia. Che fine ha fatto la vera Rosemary?-

Era la domanda più lecita da fare in quel momento. Perché forse, forse, quella vera sapeva tutto; forse avrebbe potuto spiegargli cosa stava succedendo. Forse era ancora nel laboratorio, e sarebbe bastato andarla a prendere per risolvere il puzzle.

Kai chiuse gli occhi. Si alzò dal pavimento in silenzio, dando per un attimo le spalle ai suoi amici, quei tre ragazzi con i quali aveva condiviso qualunque cosa, qualunque follia.

Persino l’ombra della morte.

E, nonostante questo non fosse un loro problema, perché di Rosemary non avevano mai saputo nulla, si sentì un po’ meno spaesato a condividere con loro il suo terribile dubbio.

Le poche parole che spiegavano ciò che credeva su di lei si persero nel vento. Cominciava già a calare la sera; una delle cose che più apprezzava della stagione fredda erano le giornate corte. Di notte hai l’impressione di poter condividere con te stesso ciò che hai di più segreto, senza sguardi indiscreti addosso. Puoi muoverti nell’ombra, tra le ombre, vivere il tuo tempo con calma e non temere per ciò che vedono gli altri, perché senza luce nessuno si cura di te. Pensano solo a trovare in fretta la strada di casa. Ma, in quel momento, fu contento di condividere con qualcuno la sua oscurità, i cassetti straripanti della sua mente stanca. L’indomani sarebbe tornato il solito, orgoglioso e acido Kai.

 

....................................

 

Ivan si passò una mano sul volto, tirando indietro le ciocche viola che erano sfuggite all’elastico. Guardò distrattamente l’orologio.

Le quattro del pomeriggio.

Non poteva incolpare nessuno per la testa che pulsava ininterrottamente, per gli occhi arrossati che ormai ci vedevano doppio e per lo scricchiolio delle vertebre. Era stata sua l’idea di affidarsi al suo campo d’esperienza per cavare qualche buona informazione.

Era il tipo di lavoro che preferiva.

Ma aveva le sue controindicazioni. E, dopo nove ore di ininterrotta ricerca al computer, era sicuro che una parte del suo cervello gli stesse colando dal naso.

D’altra parte, doveva esserci un modo per verificare se il racconto di quella ragazza fosse attendibile. In passato avevano hackerato i sistemi del monastero per i loro ... lavoretti in incognito. Perché non provarci di nuovo?

Così, Sergej si era chiuso in una vecchi ala della villa, che fungeva un po’ da archivio, per frugare tra i documenti alla ricerca di qualcosa che non fosse abbastanza importante da tenere in cassaforte, ma nemmeno così scontato da buttare nel bidone della differenziata. Kai aveva discretamente sottratto le chiavi di quell’enorme seminterrato al maggiordomo; ovviamente all’insaputa del nonno.

Yuriy si era unito a Ser di malavoglia, ma era sparito non appena Boris e la ragazza avevano fatto ritorno. Sapeva cosa stava per succedere; si erano accordati su tutto la sera prima.

­

- Io lo avrei fatto subito. Ci bastano due minuti: entriamo, le facciamo sputare un paio di denti ... e il gioco è fatto-

- No –

- Perché? Speri di cavarle qualcosa con le buone?-

- Vorrei solo ... bah, non lo so nemmeno io-

 

E invece Boris lo sapeva bene il perché aveva voluto aspettare per far cadere tutto il teatrino messo su da quella. E lo sapeva anche Yuriy.

Il computer eseguì un paio di bip poco rassicuranti.

- Lo so ... lo so che non vuoi collaborare cazzo ... fammi fare il mio lavoro ... –

Dal piano di sotto sentì arrivare l’eco di una voce più alta delle altre. Poi un tonfo. Poco dopo un altro. Se le stavano dando, ci avrebbe scommesso.

La porta si spalancò, facendo entrare una montagna di fogli e raccoglitori ingialliti che sembravano camminare da soli. Sergej cercò di depositare la documentazione con un po’ di grazia, ma la metà delle pagine volarono fuori dal tavolo.

- Ma porca ... – Si trattenne; era comunque un maestro d’asilo.

Ivan acchiappò un paio di fogli da terra.

- Che è tutta questa roba?-

- Devo ancora darci un’occhiata ... ma là sotto stavo finendo l’aria. Trovato qualcosa?-

Il più piccolo si stiracchiò, tornando con gli occhi fissi sui due pc, uno dei quali messo gentilmente a disposizione da Kai con l’ordine perentorio di cancellare la cronologia a fine lavoro.

- Forse ... –

- Di sotto hanno finito?-

- Credo di sì -

- Bene –

A guardare la stanza non sembrava, ma l'efficienza regnava sovrana quel lunedì. Avevano trasformato la camera da letto di Hito in un laboratorio informatico, attaccando cavi a ogni presa possibile; due ciabatte navigavano sospese a mezz’aria sul pavimento, trattenute dai fili. Sulla scrivania, ora stracarica di fogli vecchi e odore di chiuso e polvere, troneggiavano i due computer. Sparsi in giro, Ivan aveva attaccato un tablet, un paio di telefoni, un disco fisso, e un altro piccolo computer portatile. Così, giusto per essere sicuro di avere abbastanza manodopera.

Se il padrone di casa fosse tornato, avrebbe denunciato loro e defenestrato il nipote.

Ivan fece spallucce.

Non era un problema loro.

- Sei riuscito a entrare?-

- Uhm ... quasi –

- Hai già trovato la password, e tutto il resto?-

- Lo vedi questo?-

Ivan indicò uno dei due computer, quello che si portava sempre dietro da una vita. Lo schermo era vagamente crepato, e, quasi sicuramente, se lo avesse chiuso il portatile si sarebbe spezzato in due.

- Sì, e credo sia ora di mandarlo in pensione –

- è di Vorkov –

Sergej strabuzzò gli occhi.

- Ivan, ma che cazz-volo ... –

- Ce l’ho da quando abbiamo buttato giù il suo ultimo laboratorio. L’ho salvato dalla furia distruttrice di Yuriy. sono sicuro che qui dentro deve esserci qualcosa ... ma non è solo una questione di password. Ci sono dei file nascosti, qualcosa che non riesco a forzare –

- Dentro ... il computer?-

- Aha ... –

Un ennesimo tonfo rimbombò dal piano di sotto, un suono che somigliava più a una sedia spaccata che a un pugno. O a una lampada che volava verso il muro. In ogni caso, Kai non ne sarebbe stato contento al suo ritorno.

Sergej scavalcò un paio di cavi, abbandonando le sue ricerche per andare alla salvezza della casa. E per evitare un omicidio.

- Credo sia meglio tenerli d’occhio lì di sotto –

Ivan nemmeno rispose. Stava con il volto appiccicato allo schermo, grattandosi il mento con aria esperta.

Avrebbe trovato quello che cercava. Ne era convinto.

E, se non l’avesse trovato, se lo sarebbe inventato. Poco ma sicuro, prima che facesse notte sarebbe uscito di lì con delle risposte.

 

...............................

 

- Dovevo cercare una cosa. Vorkov mi ha detto che se mi fossi presentata da voi nei suoi panni mi avreste aiutata, e avremmo trovato tutto –

Il grande orologio a pendolo del salotto principale della villa aveva scoccato da poco le cinque e mezza del pomeriggio. Avevano scelto quella stanza per i colori: sulle pareti scure si snodavano linee dorate, riflesse sul pavimento in legno lucidissimo. Davanti alle finestre le tende rosse erano ben tirate, nascondendo la poca luce rimasta di quel giorno che verteva verso la notte. I divanetti color borgogna mimetizzavano alla perfezione il rosso profondo del sangue. Quella ragazza stava macchiando ovunque, come se non si curasse minimamente dei polsini sporchi, che appoggiava in ogni dove, e dei grumi di saliva che a intervalli sputava sul tappeto persiano.

Yuriy sentiva già gli urli di Kai nelle orecchie. Non che gliene importasse qualcosa; ora aveva altre priorità. In ogni caso, quasi tutto era prioritario rispetto alla mobilia di villa Hiwatari, almeno nella sua gerarchia mentale.

- Continua –

Non era un ordine, non era un consiglio; era una minaccia. Boris se ne stava seduto davanti a lei, l’arma puntata verso un bersaglio del suo corpo che non fosse mortale, ma che facesse male. Anche al buio la vedeva perfettamente. Il luccichio della canna della pistola baluginava di tanto in tanto in modo sinistro.

Alyna non sembrava eccessivamente spaventata; una prova di quanto fosse abituata al dolore, che dava l’impressione che quella ragazza fosse uscita direttamente da uno dei monasteri di Vorkov.

- Vorkov ha cercato quella ragazza, Rosemary ... ma lei gli ha detto solo che i codici li aveva nascosti. Lui mi ha mandata a cercarli –

Gli occhi del capitano si illuminarono.

- Quindi i codici li aveva Rose?-

- ... non lo so. Diciamo che il fatto che potessero essere nascosti anche nei vostri bey è una balla che mi sono inventata –

Yuriy imprecò sottovoce. Ecco svelato cosa c’entrava Rosemary in tutta la storia. Aveva nascosto i codici, e il monaco non sapeva dove trovarli.  Era talmente semplice come soluzione, che Yuriy si diede dello stupido per averci perso sopra il sonno.

- E Falborg? –

- Lì c’è qualcosa. Di questo ne sono sicura –

- Spero per te che non sia l’ennesima stronzata -

La voce piatta e fredda di Boris si inserì nel discorso.

- Il teatrino al bar e alla metropolitana lo hai fatto per essere credibile?-

Per un istante lei aggrottò le sopracciglia sottili. Ma subito gli occhi tornarono taglienti.

- Pensavi che fossi io?-

Il cuore battè due colpi più veloci. Boris non perse la mira. Alyna scosse la chioma biondo cenere con leggerezza; ogni onda dimostrava quando poco le importasse della sua vita, e di quella di Rosemary.

- Vorkov stava per venire a prendervi ... ma lei lo ha pregato di lasciarvi in pace. L’ho sentita con le mie orecchie piangere come una bambina. Ha detto che avrebbe preso Falborg e glielo avrebbe consegnato se lui non vi avesse toccati. E poi si è presentata da te. Dio ... che stupida. Si aspettava davvero che Vorkov sarebbe stato al gioco –

- I codici. Che fine hanno fatto? Li avete voi?-

La domanda la zittì. Si morse le labbra senza volerlo. Yuriy la vide.

- No- sentenziò il ragazzo – Pare di no –

Lei lo maledì mentalmente. Il monaco si era raccomandato di non far sapere a nessuno che era stato fregato.

Che Rosemary alla fine non gli aveva consegnato un bel niente.

Ma ad Alyna non interessava. Aveva fatto qualche affare con Vorkov, e questo era solo l’ennesimo lavoro per lei. Non era sua partner in qualunque tipo di intrigo mondiale stesse organizzando. Faceva solo la sua parte. Una parte pericolosa, certo, ma ne aveva avute di peggiori nella sua carriera.

- Perché ha cercato da Ivan e da McGregor?-

- E io che ne so? Avrà pensato che lei gli avesse lasciato qualcosa –

- ... Qualcosa?-

- I codici cazzo, vi ho detto che Vorkov li cercava, no? E lei li aveva nascosti! –

- è questo che facevano dietro ai furti? Cercavano I codici?-

Le domande incalzanti la stavano annoiando. Ma ogni tanto lo scricchiolio del grilletto della pistola, appena sfiorato dalle dita di Boris, le ricordavano che per il momento avrebbe fatto meglio a collaborare, almeno un po’.

- Sì. Mi ha detto di averli già cercati in Russia, dall’inglese e dagli Hiwatari. E che dovevo guardare altrove ... magari li aveva nascosti in un posto che frequentava, dove era già stata negli ultimi anni ... –

Yuriy si diede dello stupido.

Certo. Ovvio. Vorkov non cercava Rosemary da Andrew e da Ivan. E non cercava documenti a casa da Kai. Stava cercando quei maledetti codici.

- Ma – continuò lei con noncuranza, quasi stesse facendo un monologo fra sé e la sua ombra – voi non ne sapevate nulla, né dei codici nè dei piani di Vorkov. Se ne foste stati a conoscenza, mi avreste smascherata in un secondo ... ma per Vorkov valeva la pena rischiare. E per me è tutto lavoro. Dovevo solo approfittare della vostra fiducia. Facile, no?–

Che senso aveva questa messa in scena? Perché mandare una falsa Rosemary, quando Vorkov poteva inviare dei sicari, fare un lavoro di pulizia e interrogatori e cercare i codici con calma?

Perché non avrebbe cavato nessuna informazione da noi.

Yuriy ci pensò su, ma erano problemi inutili. Dei sicari ci avrebbero messo molto più tempo del dovuto. Invece la finta Rosemary aveva già la fiducia di tutti, poteva cercare indisturbata ovunque, anche dentro i loro bey.

Evidentemente Vorkov non voleva rischiare un fallimento. Stava avanzando con i piedi di piombo, attento a non scivolare, a non far incrinare il ghiaccio sotto di lui. Ma aveva fatto un passo falso, e si era aperta una voragine.

Mancava solo un’informazione.

- Dov’è?-

La voce non tremò, e neppure la mano che teneva l’arma. Era come se Boris si fosse già messo il cuore in pace, se mai c’era stata pace in lui.

Non c’erano molte alternative. Se lei, alla fine, si era rifiutata di dare a Vorkov quei codici ...

- Dov’è Rosemary?-

La sua vita aveva sicuramente perso di utilità agli occhi del monaco.

Sergey entrò in quel momento. La porta aperta proiettò sul pavimento un cono di luce che investì Boris, la pistola e la ragazza; una scia di un rosso scarlatto stagliata nel buio.

- è morta –

Alyna ebbe paura. Ebbe paura quando Boris si alzò, avvicinandosi a lei a piccoli passi. Ebbe paura per quegli occhi di ferro e odio, per quel ghigno sadico dipinto sul volto. E lui lesse tutto. E si nutrì del suo terrore.

Ma, sotto tutto, dietro la malvagità e il gusto sadico di quello che stava per succedere, Alyna lesse in lui un ammontare di odio, tanto quanto non ne aveva mai sentito, riversato su di lei.

Sentì la canna sulla sua testa. Chiuse gli occhi. Aspettò il colpo.

Ma la pistola si ritrasse, e quando lei spalancò di nuovo le palpebre Boris era ormai uscito dalla stanza.

 


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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

 

 

Strinse il foglio tra le dita. Avrebbe voluto strapparlo in mille pezzi ma non poteva, non senza averlo letto in ogni parola, averne studiato ogni segno di matita. Era il suo ultimo dono per lui, l’ultima volta che l’avrebbe sentita parlare.

Era arrivato con la posta due giorni prima, ma nessuno era a Londra per recuperarlo. Dopo quello che aveva raccontato Alyna Boris era tornato nell’appartamento che divideva con Yuriy in Inghilterra, sperando di poter trovare ... qualcosa. Non sapeva bene cosa, ma, se i codici erano nascosti, potevano essere anche lì, tra gli effetti personali che avevano abbandonato in quella casa giorni fa.

Prima di andarsene, recuperando Andrew e il suo elicottero che avevano dovuto parcheggiare maledettamente distanti, Boris aveva strappato dalla buchetta intasata di buste tutta la posta dei giorni precedenti. Pensava di trovarci solo bollette in scadenza. Invece, tra le lettere ben sigillate, ce n’era una più piccola, un po’ stropicciata, con gli indirizzi scritti storti sulla busta in una grafia terribile.

 


Se state leggendo questo ora potrei essere morta. Che frase cliché da scrivere. Vorrei chiedervi scusa, ma non c’è davvero qualcosa di cui scusarsi. Abbiamo fatto le nostre scelte, ognuno di noi, e va bene così. Vi ho voluto bene per tutta la vita, e ringrazio il cielo ogni giorno per averci fatto incontrare.

Non so cosa stia succedendo adesso, non conosco nei dettagli i piani del monaco, ho tanta confusione in testa e mi dispiace non poter essere lì ad aiutarvi. Ho fatto quello che ho potuto.

La prima volta che il monaco mi ha trovata sono scappata via. Non volevo che voi finiste in mezzo a questa storia, ma lui ha minacciato di venirvi a cercare. Ha promesso di non farlo se gli avessi dato quello che voleva. Ma lo sapevo che non avrebbe mantenuto la promessa.

La chiave l’ho data a Kai poco tempo fa, sperando che in Giappone fossero al sicuro, sperando di farvi guadagnare un po’ di tempo. L’ho fatto perchè così avreste avuto tutto quello che vi serviva per distruggere il monaco anche questa volta. Lui sarebbe comunque venuto da voi. Ma ora siete un passo avanti a lui.

Non mi sono arresa finchè ho potuto. So che non vi lascerà mai andare, ma non voglio vederlo calpestarvi di nuovo. Non gli darò quello che vuole, quindi so già che futuro mi aspetta.

Non ho nessun rimpianto. Forse non mi capirete, non importa. È qualcosa che voglio fare. Quindi, per favore, non morite. Vivete, amate, e non abbiate paura per me, non pensateci. Vorrei che foste felici.

Ricordatevi di me.

 

Rose

 

 

 

Quella pagina, annegata in una calligrafia infantile, illeggibile e tenera al tempo stesso, gli bruciava nella tasca. Appoggiò le braccia incrociate sul muretto; a pochi metri da lui, dei bambini schiamazzavano in un campo da calcio. Le loro ombre li rincorrevano, strisciando sull’erba dalla parte opposta del sole, su cui calava silenzioso il sipario della notte.

Yuriy lo raggiunse dieci minuti dopo, dandogli giusto il tempo di ricomporre le idee in quel perfetto meccanismo che era il suo cervello; di inserire le informazioni nei reparti giusti, tornando a un livello stabile di efficienza.

Il capitano aveva dato a Boris pochi minuti di vantaggio prima di seguirlo fuori dalla villa. Il tempo giusto per essere sicuro che l’amico non se ne sarebbe andato troppo lontano e che, nel caso, sarebbe riuscito a recuperarlo. Anni di vita accanto a lui gli avevano insegnato il suo modo di elaborare i traumi psicologici: o con i pugni, o con la fuga. In entrambi i casi cercava di eliminare ciò che gli causava dolore, distruggendola o allontanandola dagli occhi.

Il rosso si appoggiò silenzioso al muretto.

- Si sentirà sola in paradiso senza di noi –

Boris strinse le spalle fingendo una noncuranza non sua, non in quel momento della sua vita.

- Se è lì che è andata sicuramente non la rivedremo mai –

La mano andò a stringere in tasca un piccolo anello d’oro. Poco importava se si fosse rotto.

Avevano letto tutto al suo ritorno da Londra. Kai aveva capito subito a cosa si riferiva Rose nella lettera.

La chiave l’ho data a Kai poco tempo fa. Gli era bastato guardare meglio quell’anello d’oro che da giorni vagava in uno dei cassetti della villa per vedere, nella parte interna, la piccola, delicata incisione di una serie di numeri. Quella era la chiave cui si riferiva Rose: i maledetti, ricercatissimi codici.

Rosemary era sempre stata una bambina ingenua. Fuori dagli schemi di un mondo freddo e cattivo, con gli occhi velati di una gentilezza che non poteva permettersi. Voleva salvarli a tutti i costi, prendere la vita, gli dei, Vorkov e chiunque avesse trovato sulla sua strada, e dir loro di lasciarli in pace.

Ma, dato che si prevede tutto tranne gli imprevisti, Igor doveva essere venuto a sapere da qualcuno del progetto Bambina; e lo aveva detto a Boris. Ora che quei ragazzi sapevano, agli occhi del monaco erano ancora più sacrificabili. Evidentemente aveva trovato Rosemary, e le aveva detto che quei codici li voleva, e voleva anche Falborg; e che sarebbe andato a prenderseli con la forza se lei non avesse collaborato; allora Rose aveva deciso cosa fare.

Poteva cercarli, andare a Londra, a Croydon o a Mosca e rifugiarsi da loro, raccontargli tutto. Se la sarebbero cavata, l’avrebbero protetta. Invece la sua testa le disse, per una volta, di cavarsela da sola.

Lei e il monaco erano giunti ad un compromesso. Sapeva già che i patti non sarebbero stati rispettati, e anche lei giocò sporco. Promise i codici, e fece in modo di prendere Falborg. Non era riuscita a far fuggire Boris, ma lo conosceva troppo bene; probabilmente sapeva che si sarebbe messo in salvo da solo.

E poi sapeva che sarebbe morta.

- Stai bene?-

Fu una domanda a tradimento, atipica per essere pronunciata dalle labbra del capitano. Boris non sapeva cosa rispondere. No, non stava bene. Però non stava male, di quel dolore che erano abituati a provare da piccoli, un dolore fisico. Era un male diverso, quasi un annebbiamento della testa che gli ciondolava dolorosa sul capo. Avrebbe potuto correre la maratona, ma non si sarebbe accorto di aver passato il traguardo. Forse era inerzia quella che provava? Forse solo tristezza?

- Sono stanco – Concluse. Un riassunto abbastanza conciso delle sue funzioni psico-motorie. Freddo; distaccato.

- Tutto qui –

- Mi dispiace Boris –

Yuriy non guardava l’amico, ma non guardava nemmeno gli ultimi sgoccioli di tramonto di fronte a lui. Dio solo sapeva cosa c’era nella sua testa, quanto responsabile si stesse sentendo per quello che era successo. Nelle sue orecchie risuonava quel soprannome con cui Rose lo aveva sempre chiamato ... che stupido. Avrebbe dovuto accorgersene subito. Di tutto.

Boris fece retromarcia senza preavviso. Si staccò dal muretto, avviandosi lento e silenzioso in una direzione che non conosceva nemmeno lui.

- Ci vediamo dopo – Soffiò improvvisando una quiete che non aveva. In qualche modo Yuriy fu rassicurato da quella frase.

 

.............

 

 

La sera alla villa era scoppiato il finimondo.

Garland, assoldato da Ivan come assistente, visto che non aveva altro da fare, scaricò sul tavolo il vecchio e pesantissimo portatile, sotto gli occhi vigili del russo.

- Un po’ di grazia per favore, non è una mazza da baseball –

L’altro lo guardò di sbieco.

- Se lo fosse saprei sicuramente come usarla –

Il padrone di casa entrò in quel momento nel salotto al pianterreno, trasformato in un laboratorio informatico. Cercò di non badare al caos, ai fogli volanti, e ai polverosi computer sulle preziosissime poltroncine color avorio.

- Novità?-

- Sì –

Schietto come sempre, Ivan invitò da lui Kai con un cenno degli occhi cremisi. Senza staccare lo sguardo dallo schermo, gli porse un plico di fogli, gentilmente offerti dalla stampante di casa Hiwatari.

- Ho aggirato la sicurezza di questo pezzo di metallo ostinato –

Lo disse con malcelato orgoglio. Gli ci era voluta solo poco più di mezza giornata, e qualche centinaio di bestemmie; un buon record.

Kai sfogliò i documenti con rapidità. Erano pieni di codici incomprensibili, ma Ivan aveva sottolineato in tutti una parola in particolare. Bambina.

- Dunque era vero –

La voce di Garland gli arrivò come un’eco lontana. Quella che avevano in mano era la prova del nove; la ragazza, la bugiarda, aveva detto la verità sul macchinamento del monaco. C’era davvero un progetto Bambina, serviva davvero Falborg, e il padre di Rosemary c’era stato dentro fino al collo.

Le ametiste saettarono su Ivan.

- Come hai trovato tutta questa roba?-

Lui diede un colpo al retro del vecchio portatile di Vorkov – Ho scavato un po’ in questa scatoletta di tonno, e sono saltate fuori un sacco di cose interessanti –

Kai indicò le cinque chiavette USB sparse sul pavimento.

- E lì? Tutti i file che ci hai chiuso dentro? Dove li hai pescati?-

- Hackerati –

- Ivan, sei incredibile –

- No, sono un tecnico informatico. Riconosciamo il valore per il crimine dei lavori onesti, grazie –

- Bene. Tutto molto interessante, ma ... adesso?-

La domanda di Garland rimase sospesa nel vuoto.

L’eco del traffico della sera raggiunse la villa. Kai si immaginò cosa sarebbe successo se una di quelle macchie avesse riportato suo nonno a casa in quel momento. Il salotto era un caos, era pieno di gente che non doveva esserci, e la sua stanza da letto era ancora invasa dai cavi. Uno scenario agghiacciante, quasi quanto il quesito che era appena rimbalzato sulle pareti.

- Cosa sta per succedere? Chi arriverà? Perché qualcuno arriverà, lo sapete vero? Hanno cercato di uccidermi per aver visto una foto più di dieci anni fa. Ora non solo sappiamo tutto, ma a quanto ho capito  avete anche tutti i codici di accesso per quell’arsenale. Nascosto chissà dove –

Il portone d’ingresso si spalancò. Qualcuno entrò a passo svelto, e quando quel qualcuno si palesò in sala, con i capelli rossi legati in un cortissimo codino e il ghiaccio degli occhi puntato sui presenti, Ivan si sentì pronto. Il suo capitano era lì, con un ordine sulla punta della lingua. Sapere cosa fare, in quei giorni, era un lusso meno scontato del solito.

Yuriy scoccò al più piccolo un’occhiata che, silenziosa, chiedeva aggiornamenti. Ivan si limitò ad annuire. E in meno di un secondo si erano già dati tutte le spiegazioni necessarie.

- Perfetto –

- Perfetto ... cosa?- Garland si intromise con poca grazia- Non per mancare di rispetto a qualcuno, ma esattamente cosa significa tutto questo? Principalmente per me, che non dovrei nemmeno essere qui. Oltretutto ... – Con un gesto della mano zittì Kai prima che aprisse una bocca che nessuno sarebbe più riuscito a chiudergli - ... come ci muoviamo? Vorkov non mi teneva come blader per escogitare terrificanti piani malvagi, non pensavo di vivere in un film di Tom Cruise. Dove sarebbe nascosto questo arsenale? Non sarebbe il caso di riferire tutto alla polizia? Mi sembra una questione abbastanza importante –

Yuriy si mise a ridere. Così, all’improvviso. Una risata di malcelata ironia, quasi liberatoria, direttamente in faccia a Garland e al suo completo blu intenso, ai suoi capelli ben pettinati, ai suoi lineamenti curati ed eleganti. Yuriy rise della situazione, e si permise di ridere anche di lui. Yuriy, che si era pettinato i capelli tre volte in tutta la sua vita. Che aveva il volto indurito dal ghiaccio e dalla crudeltà.

Lo sguardo di Garland si fece tagliente. Ma non avrebbe perso la calma. Non ne valeva la pena; la sua tranquillità era al primo posto nella lettera dei desideri da inviare a Babbo Natale da quando era nato. Non l’avrebbe sacrificata ora, nel momento del bisogno. Almeno, non quel briciolo di tranquillità che gli restava.

- Chiedo scusa se la mia è sembrata una domanda stupida, Ivanov –

- Per me, l’arsenale non esiste ancora – sussurrò Ivan, di nuovo perso tra i suoi file.

- Come prego?-

- Non c’è nessun luogo, non ci sono coordinate ... niente. Una mappa ... una via ... uno scantinato ... niente di niente –

- Forse hai preso il computer sbagliato –

Ahia. Punto sul vivo. Le pupille di Ivan si strinsero, due stiletti intrisi di veleno.

- Forse dovresti stare zitto se la lingua è scollegata dal cervello – soffiò acido, pronto ad attaccare di nuovo con parole affilate quanto una sciabola, letali come uno di quei serpenti dai nomi scientificamente impronunciabili, impossibili da trovare se non negli angoli più remoti del mondo.

Garland sentì il pungo stringersi impercettibilmente. Kai lo notò.

Uno a zero per la Russia.

- Ha ben due chiavi di attivazione ... e non c’è l’arsenale?-

L’osservazione di Yuriy era più che lecita.

Ivan strinse le spalle.

- O è ben nascosto ... o era solo un progetto mai realizzato –

- Che dice tuo nonno?-

Le spalle di Kai fecero un lieve sobbalzo, seguendo il ghigno divertito delle labbra.

- Niente – Scandì – E sono convinto che ne sappia meno di noi. O sarebbe sotto tre metri di terra, e io sarei l’ereditiere più giovane e ricco del Giappone –

- Ho bisogno di altri dati –

Ivan, di nuovo, annuì meccanicamente.

Il capitano voleva risposte. E le avrebbe avute.

 

.........................

 

Le bacchette si muovevano lente nel piatto, separando i noodles uno per uno. Affondavano nel bianco lattiginoso e denso della maionese, riemergevano, afferravano uno spaghetto, lo annegavano, lo lasciavano andare. Max guardò placidamente il piatto, come se le bacchette si stessero muovendo da sole, offrendogli un bizzarro spettacolo in mezzo al piatto impiastricciato dalla sua salsa preferita.

- Che hai Maxy? –

Il nomignolo che di solito lo faceva ridere, e gli forniva una battuta pronta sulla punta della lingua, non sortì il suo effetto.

- Ecco ... –

Rimestò nel piatto con meno convinzione, sperando di trovare una risposta nella maionese. Non ci riuscì. Mollò tutto, afflosciandosi a peso morto sulla sedia.

- Uff ... –

- Cavolo, è da secoli che non ti vedo così pensieroso –

Takao si sistemò accanto a lui, portando alla bocca le bacchette stracolme di ramen. Mai una volta nella vita aveva perso l’appetito. Non dopo una sconfitta, non dopo un malanno, non dopo un lutto. E quest’ultimo era proprio il caso di quella sera. Perché, dopo quello che gli aveva raccontato Kai in giornata, tutta la storia sulla Rosemary vera e su quella falsa, sui piani di Vorkov, eccetera eccetera eccetera insomma ... dopo tutto questo era rimasto sul dojo un velo di tristezza ... inesatta. Sì. Era una tristezza sbagliata. Qualcosa che lì non doveva esserci, non aveva motivo di esserci. Eppure Max si era fatto lento e silenzioso, Rei cercava di non rimuginare sull’argomento, Takao era un po’ troppo invadente con le sue battute. Nessuno voleva pensare, esprimere qualcosa a riguardo. Avrebbero voluto che tutto quello se ne fosse andato con Kai, per lasciare la solita normalità.

E invece la sera aveva portato, con il buio, la pesantezza della più spietata realtà.

- è un film dell’orrore ... –

Takao non potè fare altro che nascondere i sospiri dietro ai noodles.

Max continuò, gli occhi bassi sul ramen e la voce piatta - Di quelli dove c’è un solo personaggio che sà tutta la verità ... e muore per salvare tutti. Ma muore a caso, senza motivo. E gli spettatori pensano No! Sarebbe bastato così poco per salvarsi! ... ma il regista ha deciso che una morte ci voleva per creare l’atmosfera giusta -

- Dai Max, non lo sappiamo se è davvero morta –

Takao e il suo ottimismo; la sua lucida intenzione di vivere la vita con il sorriso, di annegare i dispiaceri nella felicità, in quel bicchiere mezzo pieno che solo lui riusciva a vedere. E se l’acqua si rovesciava, poco importa: lo avrebbe riempito di nuovo.

- E ... e poi ... – Max si portò le mani nei capelli, attraversando le ciocche dorate con le dita – Un arsenale! Delle armi ... Takao, sono ... sono tantissime armi! –

Il giapponese non seppe come controbattere. Non era preparato, semplicemente. Chi lo era? Forse i ragazzi russi; forse, perché anche Kai, con la sua vita avventurosa e il suo passato oscuro, non aveva affatto una bella cera quel pomeriggio.

Due tazze di tè fumante si materializzarono sul tavolo, spargendo il loro aroma speziato nella stanza. Mao le porse ai ragazzi, accompagnandole con un sorriso dolcissimo.

- Zenzero, curcuma e liquirizia – spiegò.

- Aiutano a sciogliere i nodi allo stomaco?-

Le labbra della ragazza si tirarono all’insù. Takao portò il te alla bocca, lasciando che il licquido bollente lo distraesse dal groviglio di penseri nella testa.

- Grazie Mao –

- Rei ci ha spiegato la ... situazione –

- Come l’ha presa Hila?-

Mao portò una ciocca di capelli ribelli dietro l’orecchio.

- Beh, è difficile per tutti pensare che tutto questo sia vero. Le è dispiaciuto molto –

- Ci credo ... –

- Lo dovremmo dire anche agli altri?-

- A chi?-

- Andrew, Olivier, Gianni ... anche Ming Ming è in Giappone, sai?-

- Sì, Hila me lo ha detto –

- Vi ricordate il monastero?-

La voce di Max si intromise nel discorso. Si era drizzato sulla sedia, come in preda a un improvviso moto di energia. Un’energia rabbiosa, indispettita. Le sopracciglia aggrottate facevano uno strano effetto sul suo volto da coniglietto.

- Ve lo ricordate? Era un posto lugubre, orribile. Quei ragazzi ci hanno passato una vita. Si sono conquistati la loro libertà. E adesso ... puff! Non è servito a niente! Come? ... Perché? Perché i cattivi non possono solo smettere di essere cattivi, o esserlo per conto loro?-

Sembrava che Max stesse commentando la trama di una serie tv che non gli andava a genio. Aveva estraniato dalla realtà il problema osservandolo dall’esterno, ragionandoci sopra con la sua punta di ingenuità.

- Perché altrimenti non sarebbero cattivi, ma solo ... eremiti molto lugubri?-

- Mi fa arrabbiare Takao. Sono arrabbiato! Ecco! Volevo passare una settimana bella, con i miei amici ... –

La voce dell’americano si spense, e per un attimo sia Takao che Mao pensarono che fosse sull’orlo delle lacrime. Max abbassò le spalle, poggiando di nuovo la schiena alla sedia. La sua capacità di esorcizzare lo stress non gli era mai stata più utile di così.

- Vorrei andare lì e abbattere tutto – Mormorò.

Takao sorrise.

- Dici il monastero? Prendiamo un martello e lo facciamo fuori?-

- Ma anche una palla da demolizione ... un lanciafiamme ... un cacciavite ... qualunque cosa! Anche solo a pugni!-

- Ma sì! –

Takao si alzò di scatto. Trangugiò l’ultimo sorso di tè, poi prese Max per le spalle.

- Facciamolo! Ormai ci siamo dentro, no? Tanto vale combattere!-

L’americano rimase un attimo con lo sguardo sospeso e la bocca aperta.

Poi gli occhi si illuminarono. Si alzò anche lui, strinse i pugni e, per la prima volta da quel pomeriggio, un incoraggiante sorriso illuminò di nuovo il suo volto da coniglietto.

- Sì, cavolo! Diamoci dentro! Non mi voglio tirare indietro, sono stufo! Vuole la guerra? Che guerra sia! Let’s go!-

Mao pensò che avrebbero potuto davvero fare fagotto e partire in quel momento per la Russia, senza dir nulla a nessuno, dimentichi del fatto che Vorkov non era nemmeno più al monastero. Immaginò la faccia di Yuriy e degli altri se avessero letto sul giornale qualcosa del tipo: vandali giapponesi distruggono monastero moscovita. Sghignazzò, e se ne sorprese. Allora si lasciò andare in una risata liberatoria.

Alla fine Takao aveva vinto di nuovo. L’integrità mentale di Max era salva; e il bicchiere era ancora mezzo pieno.

- Dov’è Rei? Hila? Kenny? Dobbiamo dirlo a tutti!-

Max finì in fretta il ramen, trangugiandoci dietro il te. Afferrò la felpa, lanciando a Takao il suo fido cappellino rosso e blu. Mao si fece contagiare dall’adrenalina. Afferrò le tazze di tè e le ciotole vuote e si mise sull’attenti.

- Ci penso io a chiamarli!-

Il sorriso di Takao arrivò ben oltre le orecchie.

- Mitico! Ritrovo in giardino fra dieci minuti!-

 

Alle otto e tre quarti di sera il piccolo esercito di militanti volontari si era riunito fuori da casa Kinomiya. Alle nove spaccate erano passati a recuperare Ming Ming, che non aveva chiesto troppe spiegazioni dettagliate davanti all’espressione enigmatica di Mao e alla promessa di una serata movimentata. Alle nove e dodici la macchina del nonno J, in sovraccarico di passeggeri, era parcheggiata sotto uno degli alberghi più costosi della città. Non il più costoso; quello se lo era accaparrato Ming Ming.

Cinque minuti dopo, tra gli sguardi attoniti degli ospiti ben vestiti e quelli severi del concierge in smoking, la combriccola di ragazzi in tuta, scarpe da ginnastica e tacchi dodici di Ming, era davanti agli occhi sbarellati di Andrew.

L’inglese li squadrò uno ad uno, mentre Gianni li stava già facendo entrare, con poche cerimonie e l’affabilità tipica di un italiano stanco di giocare a rubamazzo per tutta la sera.

- Allora ... –

Come una banda di cospiratori si erano tutti riuniti nel salottino dell’albergo, a distanza da orecchie indiscrete, davanti a una teiera fumante.

Gianni sorseggiò con calma il prezioso liquido.

- ... Di cosa si tratta?-

Non gli erano bastati i pettegolezzi con le ragazze. Non gli era bastato quello che gli aveva raccontato Andrew. Le sue d’altra parte erano solo supposizioni; invece Takao gli stava offrendo la verità.

L’atmosfera in defibrillazione si tese impercettibilmente. Fu Rei a prendere la parola, pronto a raccontare le cose nella maniera più calma, completa e lucida possibile. Hilary si strinse a Mao, ancora toccata da quel racconto che aveva già sentito. Ming Ming tese le orecchie, incurvando le labbra color rubino in un impaziente sorriso.

 

................

 

Il telefono squillò.

Kai scattò giù dal letto, in due passi raggiunse la scrivania e, già dopo il primo squillo, rispose alla chiamata. Nella sua testa scattava un meccanismo ogni volta che veniva sorpreso da qualcosa. Che fosse una chiamata, un saluto, un cane per strada con un maglioncino, poco importava. Non gli piaceva essere impreparato di fronte alle novità. Agli imprevisti. Non gli piacevano nemmeno le sorprese, che fossero lezioni che saltavano o compleanni organizzati a sua insaputa.

- Pronto?-

Con quello che era successo, quello che Ivan aveva scoperto ... si aspettava di tutto. Tutto. Chiamate anonime, biglietti sotto le porte, teste di cavallo sull’uscio di casa. Si erano infilati in un formicaio grande quanto un autocarro, e non ne sarebbero usciti indenni, poco ma sicuro. Ma se qualcuno doveva morire, quel qualcuno non sarebbe stato nessuno di loro.

­- Dormivi?-

- Takao?- Mormorò, la voce ancora impastata dalla stanchezza.

Ci fu una pausa. Dall’altro lato dell’apparecchio si sentì qualcuno dal distinto accento inglese, per nulla celato, commentare che I vecchi vanno a letto presto.

- Che ... che c’è?-

­- Ti disturbo? Eri già a letto? Cavolo amico, sono le dieci e mezza –

­- Takao, ti prego – La voce tradì un tono supplichevole. Aveva solo bisogno di dormire; tutto qui. Il giorno dopo sarebbe stato più lucido, più tranquillo, meno ... emotivo. Ma la provvidenza, quella gran bastarda, o il destino, o semplicemente il karma, insomma qualcuno, aveva deciso che Kai Hiwatari non avrebbe avuto il suo riposo quella notte.

- è successo qualcosa? Qualcosa di grave? Si è sentito male qualcuno?- Elencò, passandosi una mano sugli occhi.

­­- No, no, figurati –

- E allora, perché mi chiami a quest’ora indegna?-

- Vogliamo parlarvi. Tutti –

- Tutti chi?-

Il giapponese mise il telefono in vivavoce. Ad un tratto le orecchie di Kai furono perforate dal vociare poco composto di una decina di persone, tutte che volevano dire la loro. Sul coro risuonava Takao, autoeletto portavoce del gruppo, che cercava, con scarso successo, di fare ordine.

Kai storse il naso; le sopracciglia si aggrottarono, gli occhi si chiusero.

- Takao ... cazzo, non sto capendo nulla!-

- Scusa, è che siamo in tanti qui –

- Ma quale cavolo è il problema?-

­- Senti, domani venite al dojo! Era solo per dirti questo, così chiariamo che ...-

­- Cosa? Cos’è che dovete chiarire?-

­- Che anche noi vogliamo fare la nostra parte!-

Kai spalancò la bocca. La richiuse subito. Lo sapeva, sapeva che sarebbero giunti a questo. Aveva raccontato tutto ai suoi ex compagni di squadra a suo rischio e pericolo, ben conoscendo l’esuberante altruismo di Takao, l’ingenuità di Max e il poco controllo di Rei su quelle due pesti. Sapeva che si sarebbero voluti gettare nella mischia, rischiando più di quanto non stessero già facendo.

Gli venne da sorridere.

Che scemi ...

O si fa tutti insieme, o non si fa. Takao glielo aveva ripetuto fino alla nausea.

- Takao, questo non è come ai vecchi tempi. L’avete sentita la storia, no? E ora è venuto fuori che su qualcosa ci eravamo pure sbagliati ... –

- Che? Zitti ragazzi, non sento nulla! ... su cosa vi eravate sbagliati?-

Kai si passò di nuovo la mano sugli occhi, reprimendo uno sbadiglio.

- Su diverse cose ... ad esempio ... ad esempio, i ladri a casa dell’inglese non stavano cercando Rose –

­- E che cercavano?-

­- Loro ... –

­- E allora che volevano da me??-

L’ululato di Andrew sovrastò la voce di tutti. Piccato nell’animo, si avvicinò così tanto al cellulare che stava quasi per entrarci dentro.

- Mi è quasi venuto un infarto ... per nulla? Spero che stessero cercando qualcosa di importante quei maledetti!-

- Nessuno ti sta accusando di inutilità, Drew – la voce calma del francese si materializzò accanto al grido di battaglia di Andrew.

- è una questione di principio! Cosa cercavano? Che volevano?? Esigo una risposta! Ora!-

Kai ruotò gli occhi al cielo, tra l’esasperazione e l’astio verso la bandiera britannica.

- Cazzo McGregor, il mondo sta per andare a puttane in un conflitto a suon di missili, e tu ci assilli con la storia dei ladri in casa?-

- Beh, scusami se è stata un’esperienza atroce!-

- Qui è in ballo la sicurezza mondiale inglesino, se vivi in una casa piena di soldi sono fatti tuoi-

- Oh certo, ora il mondo ruota solo attorno ai VOSTRI problemi! Poi, “una casa piena di soldi” ... da quale pulpito!-

La voce pacata e la r alla francese di Olivier si unirono di nuovo alla conversazione.

- Drew, tanto i ladri erano i tuoi genitori che non trovavano le scale per il piano di sopra, e hanno dovuto accendere una torcia –

- Per l’amor del cielo Olivier, taci-

- Scusatelo, da quando lo ha lasciato la ragazza è diventato un po’ una attention hore –

- Olivier ti decapito-

- Forse si era offesa perché tua madre l’ha scambiata per un uomo. Sapete, la signora McGregor non ci vede bene-

- Considera riaperta la guerra dei Cent'anni-

- Hei!-

Kai dovette alzare la voce, e a quel punto fu sicuro di aver attirato l’attenzione di qualcun’altro in casa. Sentì dei passi in corridoio, e un attimo dopo dalla porta fece capolino Sergej, con tanto di libro e occhialini da lettura. Kai rispose alla sua espressione interrogativa con un gesto della mano, intenzionato a chiudere la chiassosa discussione telefonica prima di subito.

- Nulla mi trastullerebbe di più dei vostri battibecchi matrimoniali, ma è tardi e credo che impazzirei a starvi ancora a sentire. Domani mattina veniamo al dojo, così ci spiegate la vostra follia-

Forse dall’altro lato dell’apparecchio qualcuno urlò un buonanotte, ma le voci erano così caotiche e sovrapposte che Kai sentì solo gli strascichi degli ululati inglesi. Chiuse la chiamata, più frastornato di prima.

- Mio dio ... – mormorò esasperato.

- Problemi?-

- No, cioè, non ancora ... Ma porca troia Ser, quanto sei invecchiato? –

- Come?-

Kai lo indicò con un cenno della mano - Che ci fai con gli occhiali? Una volta eri quello che ci vedeva meglio nel gruppo –

Ser scosse il capo.

- Ti confondi. Quello è Ivan –

- Aha ... –

- Chi era?-

- Un branco di imbecilli che hanno voglia di perdere qualche anno di vita –

- Ho capito ... sveglia presto domani?-

- Non esageriamo ... –

Kai spense il cellulare, giusto per evitare altre insolite chiamate ad orari più profondi della notte. Non avrebbe saputo come controllare le sue azioni a quel punto.

- ... Trattandosi di Takao, anche alle dieci andrà benissimo –





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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***



Capitolo 13

 

 

- No-

- Ma ... –

- No –

- Potrei almeno ... –

- Assolutamente no –

Erano arrivati al dojo poco prima di pranzo. Ci avevano trovato dentro uno squadrone di ragazzi capitanati dall’esuberante e inamovibile altruismo di Takao e dall’ingenuità senza speranza di Max, tutti pronti a buttarsi nella mischia per i motivi più disparati.

Gianni perché si annoiava. Ming Ming perché, sotto sotto, non vedeva l’ora di ricoprire Vorkov di fango a palate. Andrew perché era stato tirato in ballo suo malgrado quando gli avevano perquisito casa; e Olivier perché se l’era trascinato dietro Andrew. Kenny non sapeva bene perché, era solo sicuro di essere stato rapito da Takao quella mattina. Hilary per il suo indomito senso di giustizia. Mao perché era la migliore amica di Hilary, e perché l’entusiasmo la contagiava con la velocità della peste nel 1348. Rei perché, come i personaggi di Verga, si era fatto travolgere dalla fiumana; non quella del progresso, ma quella di Takao. Il giapponese e l’americano, che avevano dato inizio alla sommossa, erano stati mossi da qualcosa che gli si era ritorto nello stomaco, un misto di adrenalina, giustizia, amicizia e rabbia messe insieme. E alla domanda Perché no? che gli era rimbalzata in testa, non avevano trovato nessuna risposta valida.

Kai si era beccato più di un’occhiata gelida e malvagia da Yuriy, che prometteva silente vendetta; lui rispose a tutto con un’alzata di spalle. Nemmeno il Signore sceso in Terra avrebbe potuto controllare quella masnada di indemoniati.

Il pranzo era passato tra nuove, dolorose e lunghe spiegazioni, e risposte monosillabiche. Solo Boris e Ivan mancavano all’appello; uno era disperso da qualche parte; l’altro aveva ripreso la ricerca negli archivi di casa Hiwatari, da dove l’aveva interrotta Sergej.

Alle quattro e diciassette del pomeriggio il topic della discussione non era ancora cambiato: da un lato fioccavano i Vogliamo aiutarvi¸ dall’altro i No.

- Non ci credo che ti hanno tirata nel mezzo –

- Che vuoi farci Garland ... – Ming Ming leccò via dal labbro superiore le briciole di pan di zenzero – Non so stare lontana dall’azione –

- Ming, qui la questione è più seria dell’altra volta. È un rischio sicuro, non stiamo parlando di un torneo di beyblade –

- Non è affar vostro –

Le sentenze lapidarie di Yuriy volavano per il dojo da quella mattina.

- Non so perché ne stiamo discutendo. È un nostro problema. Punto –

- Caro, ormai ci siamo nel mezzo anche noi!- Andrew incrociò le braccia con stizza – beh, se non altro IO –

- Non so che farci –

- Ma ... –

- McGregor – E quando i cognomi scendevano in ballo, significava che le cose si stavano facendo serie –Non ci tengo ad avere cadaveri sulla coscienza. Soprattutto cadaveri inutili –

Un’ennesima occhiata gelida calò su Kai, che se ne stava in disparte, incredibilmente silenzioso. Perché lui sapeva come sarebbe andata a finire la giornata. E sapeva di non avere nessun potere in merito. Conosceva troppo bene Takao per pensare di poter riuscire a fargli cambiare idea.

- Vi abbiamo raccontato i fatti. Non sappiamo neanche noi cosa farà Vorkov ora. Ma sicuramente non sarà qualcosa di buono, per nessuno di noi –

- Certo Sergej, ma l’unione fa la forza! No? No?-

Il biondo aveva cercato di essere diplomatico, ma questa diplomazia stava per essere scambiata per arrendevolezza. Purtroppo per quegli esuberanti ragazzi, Sergej era il più irremovibile di tutti. Non era nella sua natura tirarsi dietro pesi inutili nel lavoro, tanto meno rischiare più di quanto non fosse necessario.

Si passò una mano sugli occhi azzurri. Avrebbe volentieri tappato la bocca del giapponese a suon di biscotti, ma usare la violenza per risolvere i problemi ... no, nemmeno questo era nel suo stile. Non eccessivamente. Cioè, sempre meglio un lavoro rapido ed efficiente, se con le parole si rischiava di tirarla troppo lunga.

- No –

Takao restò un po’ deluso da quella risposta.

- Insomma ... – Sergej mise le mani avanti – Avresti ragione. Ma non è questo il caso –

- Sergej sta cercando di dire che la tua è una pessima idea – Puntualizzò Kai, al quale i modi un troppo diplomatici dell’amico cominciavano a dare il nervoso.

Mao, inforcando un raviolo al vapore, sbucato da chissà dove visto che stavano mangiando il dolce, si fece avanti battagliera da dietro i capelli perfetti di Garland, l’ossessione che la perseguitava in quei giorni.

- Dai ragazzi, lasciatevi andare! Non chiudetevi così, siamo amici! E quel monaco ha fatto un torto a tutti qui dentro!-

Gli occhi di Yuriy ruotarono sotto le palpebre.

Dio, dammi la pazienza. Perché se mi dai la forza, li ammazzo tutti.

- E cosa avrebbe fatto a te?-

- Sono venuti i ladri anche da te? Al villaggio?-

- Vi ricordo che al primissimo campionato mondiale rubò i bit power a tutti!-

- Quello se non mi sbaglio sono stato io-

Calò per un attimo il silenzio. Decine di occhi si girarono a guardare Kai, mentre sgranocchiava un biscotto. Alzò le spalle.

- Che c’è?-

- Beh, non stiamo qui a rivangare il passato!- Gianni riportò l’attenzione sull’argomento principale, prima che si facesse notte a parlare dei bei vecchi tempi. Aveva già rinunciato a due appuntamenti quel pomeriggio, e non voleva pensare di averlo fatto invano.

- Qui si tratta di ideare un piano d’azione-

- Ma ... che piano d’azione! Vi prego, ragionate!-

Sergej, al limite dell’esaurimento, si mise a gesticolare. La situazione si stava aggravando.

- Si parla di armi! Hanno cercato di uccidere Garland!-

- Già. Emozionante no?-

Il commento della piccola Ming venne ignorato completamente.

- Non potete davvero pensarlo come un gioco –

- Non lo stiamo affatto pensando come un gioco –

- E come allora?-

Yuriy ruppe il flusso di botta e risposta con poca grazia.

- Come lo state pensando? Cosa credete che sia? Un divertimento? Un film d’azione? Cosa?-

- Niente di tutto questo ... –

- Takao, io non mi sto divertendo a stare a sentire le vostre stupidaggini su l’unione fa la forza-

- E allora perché sei venuto con noi?-

Kai si beccò un’occhiata così stizzita e malvagia che avrebbe fatto impallidire la strega Grimilde. Rei, quasi inconsciamente, cominciò a prepararsi un discorso mentale per calmare i possibili bollenti spiriti. E ripassò a memoria qualche mossa di kung fu.

Il silenzio di Yuriy, e la vena che iniziava a pulsare minacciosa sul collo, non fermarono il monologo di Hiwatari. Aveva pronto un discorso per ogni occasione; in famiglia erano bravissimi ad ascoltare il suono delle proprie voci.

- Potevi startene a casa mia, o tornartene sui tuoi passi e fare tutto da solo. No?-

- Yuriy non lo avrebbe fatto –

Le sopracciglia del rosso fecero un salto, e la lingua affilata di Kai si fermò sul più bello davanti a una presa di posizione inaspettata.

Sotto il porticato del dojo, con fagotto legato alla schiena e grandi occhi verdi puntati sui presenti, Daichi si era materializzato quasi per magia. Senza troppe cerimonie depositò armi e bagagli, affiancandosi al capitano dei russi che lo guardava stupito.

Takao lo guardò come si guardano le torte di compleanno a tre piani.

- E tu ... da dove sbuchi?? –

Ma Daichi, che era arrivato in tempo per sentire le ultime battute della discussione, aveva in testa un discorso che gli era uscito così spontaneo da non volerlo dimenticare. Lasciò a dopo i convenevoli, concentrandosi sulle parole giuste.

Parlò con una sincerità che non era quella dei bambini, nascosti nel loro modo magico e ingenuo di vedere le cose, che non sanno cosa voglia dire essere feriti dalle parole. La sua era, piuttosto, la sincerità di chi sapeva che una bugia buona fa più male di una brutta verità; di chi ha vissuto tutta la vita guardando le cose così come sono, non come vogliono apparire. Una sincerità adulta, limpida.

Schiacciante.

- Perché un branco è più forte di un lupo da solo. Giusto?-

Non è che Yuriy Ivanov avesse bisogno di una mano per rialzarsi da una caduta. In un modo o nell’altro, ce l’aveva sempre fatta anche da solo. Era una vita intera che negava a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa, oltre alle sue sole capacità. Ma le azioni dicevano più delle parole, e Daichi se n’era accorto subito, da quando, prima di fare irruzione nella sede della BEGA, anni prima, Yuriy, Boris e Sergej si erano fermati a salutare lui, Takao e gli altri al parco. Il capitano della Neo Borg poteva tirare dritto, farsi gli affari suoi ed evitare le chiacchiere del giapponese e della sua combriccola. E invece si era fermato; li aveva salutati; poi gli aveva detto di farsi gli affari loro. Ma intanto si era fatto notare, in una tacita richiesta di non essere solo nella sua battaglia. In fondo, voleva che gli altri lo seguissero. Che combattessero con lui per quegli ideali per i quali stava sacrificando se stesso.

Daichi, con meno filosofia e una disarmante semplicità, aveva registrato questo fatto come una semplice constatazione.

Yuriy era fatto così. E sapeva che, orgoglio o meno, una squadra sfonda più forte di un uomo solo.

- Yuriy, Sergej –

Il capitano dei giapponesi prese un bel respiro, e mise tutta la sua convinzione in quella frase.

- Permetteteci di aiutarvi –

 

.............

 

Il ritorno alla villa era stato silenzioso. Nessuno aveva dato una risposta precisa alle richieste di casa Kinomiya, e dopo l’arrivo di Daichi i toni si erano pian piano affievoliti. Kai rientrò in casa, ammettendo a se stesso di essere un po’ più leggero; ora era davvero sicuro di sapere come sarebbe finita, e l’inevitabilità della cosa spense in lui gli ultimi fuochi di paura. Paura di perdere qualcuno di troppo; paura di dover prendere decisioni affrettate di cui si sarebbe pentito.

Invece ormai era fatta. Sarebbe bastato aspettare; quel monaco avrebbe fatto qualcosa, e loro si sarebbero mossi di conseguenza. In molti, forse in troppi, ma si sarebbero mossi tutti insieme.

Pensava questo davanti alla televisione, nel salotto sgomberato dai computer di Ivan, con il notiziario di turno davanti agli occhi. Sentiva una presenza ingombrante affianco a sé, e non gli servì voltarsi per capire a chi apparteneva quell’aura lugubre.

- Fidati di Takao. Come hai imparato a fidarti di me –

- Parla il campione del non dare fiducia agli altri –

- Si cambia nella vita, Yuriy –

- No. E non credo di volerlo fare –

- Però il piccoletto ha ragione –

Un lungo sospiro attraversò il salotto. Certo che aveva ragione. Ma Yuriy non lo avrebbe mai ammesso. Mai. Nemmeno al suo possibile futuro psichiatra di fiducia.

- ... Forse dovremmo fare anche un altro discorso, noi due –

- Alyna è scappata –

Kai soffiò un lungo respiro.

- Mi leggi nel pensiero –

- Ha rotto una finestra e se l’è filata – Yuriy allungò la mano su una di quelle belle bottiglie in vetro lavorato, con il tappo circolare, il contenuto dai riflessi dorati e un tasso alcolemico abbastanza alto da permettergli di passare indenne la chiacchierata. Non si scomodò nemmeno di prendere un bicchiere.

- Sì ... ho visto il vetro in frantumi in una delle stanze degli ospiti –

- Non si rifarà viva. Non certo con Vorkov –

- Se ci tiene alla vita ... –

In un tacito gesto di richiesta Kai allungò la mano, cui Yuriy porse la bottiglia.

- Quindi Rose conosceva i codici a memoria?-

Yuriy annuì, afferrando un altro qualsiasi alcolico dal tavolino ben fornito del salotto.

-  Pare di sì. I bambini ricordano tutto, no? –

- E Igor è venuto a sapere per caso del progetto e lo ha detto a noi, mentre lei avrebbe voluto lasciarci fuori dai giochi  –

Ivanov si permise una risata sommessa, prima di affrontare di nuovo quel che sembrava un rum parecchio costoso, che si stava bevendo come fosse latte.

- Se non fosse stato per quell’idiota, se non avessi trovato Garland, se Boris se ne fosse stato buono e fermo ... l’anello sarebbe ancora nella tua tasca, e non ci saremmo accorti assolutamente di nulla –

- Vorkov deve essere stato disperato per aver mandato quella ragazza qui –

- Sperava che con il suo travestimento avrebbe avuto libero accesso ovunque per cercare quei codici ... –

- Lo so. Fare irruzione qui a suon di minacce non gli sarebbe servito a nulla –

Al notiziario stavano facendo parlare una signora piuttosto arzilla, con occhiali spessi quanto un fondo di bottiglia. La scritta nel titolo la indicava come centenaria.

- Chissà se le sarebbe piaciuto vivere così a lungo ... –

Gli occhi di Yuriy si fecero malinconici. Guardò la bottiglia senza farla arrivare alle labbra, come se il momento giusto per bere non fosse ancora arrivato.

- A Rose piaceva, la sua vita –

- Non fartene una colpa Yuriy. E, prima che cominci con i tuoi soliti discorsi da personalità di carta vetrata ... lo so come ti senti. Non credere che non sia così anche per me –

Il russo scosse il capo.

- Tu non ne hai idea ... –

- E invece ce l’ho. Ma non possiamo perdere la testa –

Con la bottiglia sempre stretta nella mano, Yuriy si lasciò ricadere verso lo schienale del divanetto. La sua schiena venne accolta dalla stoffa tesa ed elastica, producendo un leggero pouff.

- Perché, perché quella stupida non è venuta da noi subito?-

Anche Kai scosse la testa, unendosi per un attimo alla lunghezza d’onda pensierosa e malinconica dell’amico. Poi una risata appena soffiata proruppe dalle labbra di Yuriy.

- Lei era fatta così. Una bambina ingenua. Magari pensava di aiutarci ... invece ha solo complicato le cose –

- Perché avete tagliato i ponti? Non me lo avete mai spiegato. Avete vissuto insieme per una vita ... –

- è più semplice di quello che sembra, sai?-

Gli stava parlando con una sincerità notevole, complici il rum e la stanchezza, per uno che frapponeva tra sé e il mondo una barriera di solido ghiaccio.

- Stare in quel buco di matti ha forgiato in noi un certo ... carattere. Ma lei è sempre stata diversa. È stata brava. Ha avuto il coraggio di fare tutto quello che noi non abbiamo mai fatto–

- Ovvero?-

- Farsi una vita sua. Buttare via quello che era stata prima. Sergej e Ivan ci hanno provato, e anche io e Boris in fondo ... ma siamo incastrati Kai, e lo sai. Quel ... maledetto monaco ci perseguiterà per tutta la vita, di persona o nei nostri incubi –

- Credo sia perfettamente comprensibile, Yuriy –

- Potresti avere ragione, ma io non ne sono sicuro. Non più. Ci siamo logorati il fegato una vita intera, passando gli ultimi dieci anni a cercare di far saltare per aria Vorkov e le sue idee del cazzo, di cancellarlo dalla faccia della terra ... per cosa? Cosa ci è rimasto? Perché sta succedendo tutto di nuovo?-

La voce non tremava, il tono non si era scaldato, non si era alzato. Era come se stesse parlando di freddi dati di fatto, terribilmente reali, terribilmente sinceri, di quella sincerità che arriva solo quando sei abbastanza ubriaco per abbassare tutti i filtri mentali. E Yuriy non era neanche lontanamente a quei livelli; la bottiglia non era nemmeno mezza vuota.

- Lei era ... luminosa. Un gigante di luce. Non saprei come altro descrivertela. Non volevamo che condividesse il peso che ci eravamo addossati, tutto qui. E pensare a quello che è successo ... mi uccide, come hanno fatto poche cose al mondo –

Kai ascoltò in silenzio. Riportò la bottiglia sul tavolo solo quando fu sicuro di aver bevuto abbastanza. Quella sera non sarebbe andato a letto presto. Non dopo quello che era successo a Rosemary. Non dopo aver ingoiato la sua morte, non dopo aver metabolizzato che ora Takao, il suo migliore amico, e con lui tanti altri, era stato messo in mezzo a una guerra.

Avrebbe cambiato bottiglia, preso Dranzer, sarebbe uscito di casa e lo avrebbe lanciato come mai in vita sua. C’era qualcosa che gli premeva nel petto, qualcosa che non era il solito fuoco di orgoglio e rabbia. Erano odio, l’odio più cieco, e impotenza. E poco importava se Dranzer avesse incendiato la strada, i negozi, le macchine e chi ci stava dentro.

Con la freddezza calcolata di chi sta per avviarsi a compiere una strage, si alzò dal divanetto, spense la televisione e si diresse verso la porta.

La lasciò aperta.

Due minuti dopo, lui e Yuriy erano in strada.

 

.......................

 

Un click scattò accanto al suo orecchio; a un soffio dalla tempia sentì la presenza di qualcosa di lungo, freddo e metallico.

Inspira.

Espira.

Un secondo dopo l’uomo era a terra, Rei gli torceva il braccio dietro la schiena. Con un calcio esiliò la pistola sotto un mobile. Poi riprese a respirare con più calma.

- Rei!-

Mao fece le scale saltando due terzi dei gradini, correndo al piano di sotto di casa Kinomiya come se avesse un fantasma assetato di sangue alle calcagna.

- Rei cosa è ... –

Quando vide la scena ammutolì. Fece uno scatto, intenzionata ad avvicinarsi e aiutare l’amico, che comunque aveva gestito la situazione perfettamente da solo. Poi un secondo click attraversò l’aria, un sibilo trapassò lo spazio tra il portico aperto del dojo e Mao; la gamba destra le cedette all’improvviso, e sulla pelle bianca si disegnò una macchia scarlatta.

Gli occhi d’oro di Rei si puntarono, precisi come frecce, su uno sconosciuto armato che si era fatto pochi scrupoli a entrare in casa d’altri, e non aveva perso tempo. Il cinese non guardò Mao, che si accostò al muro lasciando che la schiena vi scivolasse sopra, cercando di esporsi il meno possibile per non essere d’intralcio a Rei.

Sapeva che lui non avrebbe avuto problemi. Lo sapeva benissimo. Come sapeva che, armati o meno, quei due uomini erano stati sfortunati: tra tutti gli ospiti della casa che potevano incontrare, avevano preso appuntamento con l’unico che li avrebbe messi k.o.

In un paio di respiri, un paio di secondi, un suono sordo annunciò un osso fuori posto, e un ringhio sommesso il malcelato dolore dell’intruso numero due.

Le pozze dorate si allargarono di nuovo, l’aria fuoriuscì dai polmoni di Rei in un unico, lungo respiro. Lasciò il braccio dell’uomo, che ricadde sulle assi del dojo a peso morto, e si fiondò a lunghe falcate verso Mao. Senza dire una parola, tolse una delle bende che portava sempre attorno agli avambracci e operò una rapida fasciatura sulla ferita. Gli occhi saettarono sulla parete bucata dalla pallottola.

- Hanno fatto la loro mossa –

Ma Rei immaginava, esattamente come Kai, Yuriy e tanti altri avevano pensato il giorno prima, che sarebbe stata solo una questione di tempo.

Passi concitati si avvicinarono dall’altro lato della casa. Dal corridoio fece capolino la zazzera scompigliata di Max, accompagnato da un più saltellante Daichi.

- Abbiamo ... yawn ... sentito un rumore –

Il rosso indicò la gamba di Mao, e con poche cerimonie cominciò a gridare – Sangue! C’è del sangue!-

Max si riscosse, strattonato per la maglia del pigiama; gli occhi divennero grandi, le sopracciglia sfiorarono l’attaccatura dei capelli.

- My ... my God ... –

- Tranquilli, è solo un graffio –

- Ma cosa cavolo ... –

- E questi?-

Daichi, con un calcio ben assestato, tarpò il tentativo di uno dei due intrusi di rialzarsi e tornare all’attacco. Saltellando sopra la schiena dell’uomo, lo osservò con aria critica.

- Mmmmh ... ma non c’erano ieri a cena!- concluse, atterrando sul braccio slogato e facendo produrre all’uomo un paio di maledizioni.

Rei non perse tempo. Con un movimento fluido sollevò Mao, poi la depositò sulla prima sedia a tiro.

- No Daichi, infatti ... –

Max gli si avvicinò, non poco spaventato.

- Rei, cosa succede? Chi sono?-

- Non lo so, ma non credo ci sia tempo per pensarci. Dov’è Takao? Dobbiamo andarcene –

L’americano strabuzzò di nuovo gli occhi, cercando vanamente di farsi un quadro chiaro della situazione, alle sette della mattina, appena buttato giù dal letto, con due uomini tramortiti davanti e Mao ferita alla gamba.

- I ... what ... the hell ... 

- Max –

Rei lo prese per le spalle, guardandolo fisso negli occhi.

Quello sguardo rassicurò Max; quei laghi d’oro che sprizzavano fermezza, di cui aveva imparato a fidarsi in tutti quegli anni, gli ridiedero colore. In un attimo tornò presente a se stesso, al meglio che potè. Ricambiò la decisione negli occhi di Rei, e domandò, senza troppe cerimonie:

- Cosa devo fare?-

- Sveglia Takao, poi chiama Hilary e Kenny. Questi erano in due, ma ne potrebbero arrivare altri. Io mi metto in contatto con Kai –

Con un cenno del capo Max diede la conferma di essere in modalità efficienza. Non c’era un minuto da perdere, e se Rei diceva che si doveva fare in fretta, allora avevano davvero i minuti contati.

 

 

- Dove? ... al dojo? –

- è successo dieci minuti fa. Come ci muoviamo?-

- Vi passo a prendere, datemi un istante –

­- Ti veniamo incontro, forse ci sono altri uomini attorno a casa, dobbiamo uscire-

- No Rei, vengo io. Fidati. Voi nascondetevi in un posto sicuro –

­- Non siamo solo noi. Tutti quelli che c’erano ieri ... –

­- Lo so. Ci penseremo dopo -

Buttò giù la chiamata. Si infilò il telefono in tasca; afferrò le chiavi della Jeep, una macchina che lui non sopportava e che suo nonno aveva preso solo per togliersi una voglia, ma che aveva più posto di quelle sportive scatolette di tonno. Per ultima cosa salì le scale di corsa, a grandi passi raggiunse la stanza accanto al bagno e, senza bussare, spalancò la porta. Comunque sapeva che avrebbe trovato tutti svegli.

Sergej, a petto nudo, occhialini inforcati sul naso e cruciverba in mano, si bloccò con la penna a mezz’aria.

- Sono già arrivati. Al dojo. Dì a tutti di fare i bagagli, perché arriveranno anche qui, e non saranno gentili. Io vado a recuperare quei disgraziati –

Ciò detto Kai, senza chiudere la porta, si precipitò di nuovo al piano di sotto.

Sergej, da dietro gli occhiali da lettura, diede un rapido sguardo all’orologio.

Non erano nemmeno le otto della mattina. La giornata cominciava bene.

 

 

- Lo hai investito!! Kai, torna indietro!-

- Sono sicuro che sta benissimo –

- Ma ... è steso in mezzo alla stradaaaaa!-

Con una curva un po’ troppo allegra, la Jeep sviò in un vicolo largo a malapena a sufficienza per permetterle il passaggio. Sul sedile davanti Takao, aggrappato al borsone dove aveva buttato alla rinfusa qualche effetto personale e mutande a manciate, vedeva già pendere sulla sua testa la sentenza di omissione di soccorso. Quella era stata una tragica, tragica mattina.

Max e Daichi cercavano in tutti i modi di fare spazio a Rei, e soprattutto a Mao, mezza stesa sul compagno di squadra, che nonostante la ferita sembrava la più vigile di tutti. E Kai non avrebbe premuto il freno nemmeno davanti a una famiglia di piccoli panda obesi.

Con un’azzardata manovra di polso il volante ruotò su se stesso un paio di volte, e di nuovo furono in mezzo al traffico di Tokyo, dopo aver seminato un’auto nera e aver preso di striscio, solo di striscio, due uomini armati con davvero pessime intenzioni nei loro confronti. E forse, forse, averne investito un terzo.

La Jeep tremava, decollava sui dossi cigolando orribilmente sotto il peso degli anni di inutilizzo e dei passeggeri, armati di bagagli fino ai denti. Incredibile quanta roba fossero riusciti a imbucare nei borsoni in soli dieci minuti. Il paesaggio sfrecciava dal finestrino in un’unica, lunga pennellata gialla. Takao stava per dire qualcosa, quando si accorse con orrore che l’autista teneva una mano sul cambio e una sul cellulare, senza badare al volante, nel completo disinteresse della trafficatissima strada.

- Non è che potresti almeno tenere una mano sul volante?!-

Kai non si disturbò neanche di alzare gli occhi.

- Non parlare a chi è alla guida. Lo deconcentri –

Pigiò un paio di volte lo schermo, poi lanciò il costosissimo Samsung ultimo modello all’amico.

- Di a Yuriy che stiamo arrivando. Rei, dov'è il resto degli imbecilli?-

- Hilary è in albergo con Ming Ming, Kenny a casa, Gianni, Andrew e Olivier ... –

- Sì, sì, a loro ci pensiamo dopo. Cos’è più vicino? L’albergo o il professore?-

Kai inchiodò di colpo davanti a un semaforo, giusto per fare il bravo cittadino e rispettare almeno gli stop, se non proprio i limiti di velocità e le precedenze.

- Allora?-

- Credo l’albergo, sì, ci avevamo messo poco ad arrivarci dal dojo –

- Perfetto –

Al primo accenno di cambio del colore la Jeep era già in terza.

- Navigatore – Ordinò Kai.

Max si affaccendò con il telefono, mentre dal davanti Takao cercava di spiegare a Yuriy cosa stava succedendo, anche se non ne era sicuro nemmeno lui, e il russo incredibilmente aveva già capito prima che il giapponese aprisse bocca.

Due minuti dopo, battendo ogni tipo di record e infischiandosene di qualsiasi regola stradale, o quasi, la Jeep stava imbarcando due nuovi passeggeri, sotto lo sguardo scettico di Kai davanti all’enorme valigia di Ming Ming, che finì irrimediabilmente sopra a Daichi.

Partenza in quarta, e cinque minuti dopo anche Kenny era a bordo, a combattere contro le curve allegre e la forza centrifuga che cercava di portare il suo naso all’insù a sbattere sul seno della bambolina dai boccolosi capelli azzurri. Ma senza troppa convinzione.

- E Gianni e gli altri?-

- Chiama Andrew e metti in vivavoce –

Takao ubbidì, senza farsi domande alle quali non avrebbe avuto comunque risposta. Appena dalla cornetta soffiò vento inglese Kai, sogghignando, anticipò McGregor.

- Prendete i vostri regali culetti e depositateli a casa mia, prima che qualcuno ci faccia dei buchi in più –

Poi, senza dare altre spiegazioni, mollò di nuovo il volante, prese il cellulare dalle mani di Takao e chiuse la chiamata, recuperando il controllo della macchina giusto in tempo per non schiantarsi su una scolaresca in attraversamento pedonale.

Takao si aggrappò con più forza al suo borsone, come se questo avrebbe potuto salvargli la vita.

Dopo tre minuti e mezzo erano di nuovo alla villa.



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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***



Capitolo 14

 

Daichi guardò sconsolato dal finestrino. La sua montagna, le notti sotto le stelle, il suono del fiume accanto alla tenda ... era quello il suo posto. Si chiese per quale assurdo motivo due giorni prima avesse deciso di tornare a Tokyo. Gli mancava Takao? Mah, può darsi. Forse gli mancava una compagnia umana, qualcuno con cui chiacchierare, a cui fare dei dispetti. Qualcuno che non rispondesse ad artigli, ma a parole; a volte ne sentiva la mancanza. Aveva ceduto alla debolezza, era tornato; e ora, per aver voltato le spalle a Madre Natura, ne pagava le conseguenze, chiuso nell’angusto spazio di un sedile, tra il finestrino e Takao, a guardare il Giappone allontanarsi dall’alto.

Quando la Jeep, un paio di giorni prima, era tornata a villa Hiwatari carica di passeggeri, c’era stato poco tempo per cercare di fare chiarezza. Una squadra di sicari era stata spedita direttamente a casa Kinomiya; ciò significava che Alyna aveva in qualche modo fatto sapere a Vorkov che anche Takao, Rei, Max e altri che alloggiavano al dojo erano a conoscenza, almeno in parte, dei suoi piani. E il monaco aveva deciso che le loro vite erano poco importanti. Fallito il piano della sosia, aveva cominciato a calcare la mano più pesante, a suon di proiettili. Ed era ora, per i bersagli, di trovare un altro nascondiglio. Possibilmente uno nel Nuovo Mondo: tra le scartoffie dell’archivio di casa Hiwatari, Ivan aveva trovato diverse ricevute di pagamenti abbastanza sostanziosi, tutti fatti in dollari e versati in una banca americana. Poteva essere una buona pista da cui partire. Soprattutto in mancanza di altre idee.

Prima Kai aveva proposto di invadere uno dei castelli degli europei, e da lì spostarsi verso la Grande Mela; giusto per confondere un po’ le loro tracce. Ovviamente Andrew si era rifiutato, e comunque lui era già abbastanza compromesso. Gianni non ci pensava nemmeno a tornare a casa, e Olivier non voleva mettere a rischio la sua famiglia. E i loro preziosi quadri. E di tirare in mezzo anche Ralph nessuno se l’era sentita, almeno per quel momento.

Allora a Kenny venne l’illuminazione.

­

- Andiamo al PPB! Potrebbero aiutarci a recuperare la chiave dal bit power di Falborg!-

- Ma certo professore! Però ... è un po’ rischioso credo, coinvolgeremo altra gente ... –

- Ovunque andremo sarà rischioso per qualcuno, a meno che non ci troviamo un posto isolato –

- La mamma e Emily sono spesso a fare ricerca in un piccolo laboratorio, staccato dal centro vero e proprio, nella periferia di New York. E ... se andassimo lì? Non ci sono altri ricercatori, saremmo solo noi –

 

Detto fatto: con il musetto più adorabile di qualunque paffutello coniglietto sul globo terracqueo, Max aveva chiamato Judy che, da efficientissima madre, alla notizia che il figlio rischiava la vita non si era posta altre domande. Li avrebbe attesi all’aeroporto due giorni dopo, il tempo di recuperare i permessi per accedere al laboratorio e inventarsi una scusa con i colleghi per l’improvviso giorno di ferie. Max si era raccomandato: poteva riferire del loro arrivo solo alla squadra americana, gente di cui lui si fidava ciecamente.

Era cominciata la corsa ai biglietti. Andrew, Olivier e Gianni si erano incredibilmente uniti al resto della combriccola, rinunciando volentieri all’aereo privato dopo il lapidario commento di Yuriy: se lo identificano lo fanno affondare nell’oceano con voi dentro.

Tutto sommato, meglio non rischiare.

C’erano pur sempre dei presunti missili in ballo.

Le valige erano state fatte in fretta; Kai aveva comunicato al nonno che se ne sarebbe andato per un po’ da casa, e che mandasse il corso di marketing al diavolo, senza attendere risposta. Takao si era preso una lavata di capo dal suo di nonno, che con la partenza imprevista del nipote si vedeva costretto a chiudere il dojo per un po’, e tanti saluti alle tradizioni di famiglia, e disonore sulla testa del ragazzo e sulla sua discendenza.

Dormendo con un occhio aperto, e tutti gli allarmi della villa innescati, la comitiva, dopo aver invaso casa di Kai, due giorni dopo era all’aeroporto di Tokyo Narita International, in fila al gate delle partenze per il New York Newark. Tempo di volo complessivo: dodici ore e quindici minuti. Daichi si era messo le mani nei capelli; anche Boris, nonostante lo avesse dato meno a vedere.

Il piccoletto dai capelli rossi, incastrato nel suo spazietto accanto al finestrino, salutò mentalmente la sua patria montagnosa. Gli piaceva viaggiare. Amava viaggiare. Ma a piedi; tra i boschi, nei sentieri nascosti, sulle vie secondarie. Non in aereo, un bestione gigante in cui, attaccate l’uno all’altro come sardine in scatola, le persone pregavano che non si rompesse nulla nell’arco di tempo del volo. Dove le hostess ti guardavano come se fossi un imbecille, e l’aria condizionata ti congelava sul posto. Dove il cibo era terrificante e il bagno troppo piccolo, anche per una scimmietta come lui che, nonostante gli anni fossero passati, era cresciuta relativamente poco in altezza, e ancor meno mentalmente.

Appoggiò la fronte allo spesso vetro del finestrino.

- Fatemi tornare a casa ... –

Takao gli diede un ceffone su una spalla, schiacciandogli la faccia sull’oblò.

- Eddai, che vuoi che sia una mezza giornata di volo!-

La risposta fu un sostanzioso gorgoglio dello stomaco del più piccolo. Partendo alle 17:35 di pomeriggio, non avevano fatto in tempo a trascorrere un’ora di volo che il momento della cena si era avvicinato; e con esso un concerto di grugniti intestinali.

- Cavolo ... che fame ... –

- Takao guarda qui!-

Hilary gli affibbiò una delle riviste a disposizione dei passeggeri, mostrandogli tutta felice la pagina sportiva.

- Parlano anche del beyblade! E ci sei tu in copertina! Sembra una foto di secoli fa -

- Che credevi? Ormai è uno sport diffusissimo! E noi siamo stati i primi grandi campioni!- Le fece eco con una punta di orgoglio, battendosi una mano sul petto. Si mise a sfogliare distrattamente la rivista.

Cavolo, quelli sì che erano bei tempi. E non avrebbe smesso di lanciare il suo Dragoon per nulla al mondo, neppure se non ci fosse stato più un solo stadio.

Voltò la terza pagina; stava per andare avanti, ma con la coda dell’occhio notò qualcosa che fermò la sua attenzione.

- E questo?-

Era un semplice bracciale in corda, con una chiusura regolabile e quattro anelli di acciaio a fermare il lavoro intrecciato. La classica cosa che ti vendono come souvenir del volo. Takao non era mai stato uno da orpelli; suo nonno gli aveva inculcato l’amore per la semplicità.

Tuttavia ... stavano, molto probabilmente, rischiando la vita; avrebbero passato i giorni seguenti immersi tra ricerche e scartoffie, e chissà cosa avrebbe mangiato in America, date le scarse doti culinarie di quel paese ... e il volo era ancora lungo. E quel bracciale sembrava stare davvero bene, abbinato al suo cappellino.

Si disse che sì, per una volta avrebbe anche potuto fare uno strappo alla regola della semplicità; in fondo, se lo era meritato.

Fermò una hostess che, provvidenzialmente, stava passando accanto a lui, indicandogli l’accessorio sul giornale.

- Vorrei provare questo –

- Lo stai facendo davvero?-

La voce di Rei lo raggiunse dal sedile dietro al suo. Con occhi scettici l’amico aveva valutato di sfuggita l’articolo, per nulla convinto del valore che gli era stato attribuito sul magazine. Il commento non distolse Takao dal bracciale, orribile, che la Hostess gli stava gentilmente porgendo.

- Stai comprando un bracciale sull’aereo?-

- Che c’è di male? Guarda com’è carino ... lo prendo –

- Takao –

- Cosa?-

Rei si lasciò sfuggire un sorriso. Solo lui, in una situazione del genere, poteva accantonare qualunque tipo di adrenalina, timore o dubbio, facendosi completamente coinvolgere dal momento. Persino Hilary, persa tra i magazine, ne sfogliava vorticosamente le pagine alla ricerca di una distrazione mentale. Non c’era un solo nervo che non fosse teso; ma Takao andava per la sua strada. Senza pensieri. E in fondo aveva ragione; quel che era fatto non poteva essere disfatto. Inutile rimuginarci sopra.

- Sei ... sei ... aaah, lascia stare –

- Per caso lo volevi anche tu Rei? Fermo la hostess?-

 

 

- ... e ho dimenticato persino la spazzola! La mia, quella con i gatti sopra ... la mia spazzola preferita! Hil, mi stai ascoltando?-

- Mh?-

Hilary richiuse l’ennesima rivista, appoggiandola sulle ginocchia fasciate dai leggins. Per fortuna aveva rinunciato alla gonna; su quell’aereo si congelava.

- Cosa? La spazzola?-

- Quella con i gatti –

- Il regalo di Rei?-

Mao arrossì. Sì, il regalo di Rei; per quello era la sua spazzola preferita. Il regalo di un bambino, degli anni in cui ancora si rincorrevano fuori dal villaggio, in cui Rei era il più bravo ad arrampicarsi e lei lo guardava ammirata con occhi enormi; dei tempi in cui non c’erano Vorkov, nè armi nè pericoli, e, anche se ci fossero stati, tutti sarebbero scomparsi davanti al sorriso di Rei. Non che quel sorriso ora avesse perso d’efficacia.

- Mao ... com’è essere innamorati?-

- Come?-

- Voglio dire ... – Hilary affondò la testa fra le spalle, lievemente imbarazzata. Parlava a voce bassa, come se qualcuno potesse sentirla.

- ... Come te ne accorgi? Come reagisci?-

- Mi stai chiedendo ... consigli sull’amore?-

Hilary annuì. Erano migliori amiche. Avevano parlato mille volte di amore, di ragazzi, di cotte segrete che duravano il tempo di una settimana, sfiorendo improvvisamente per poi essere subito rimpiazzate. Non la imbarazzava l’argomento; era piuttosto la presenza imponente che sentiva a poche file di distanza da lei, due per essere precisi, a metterla a disagio. Anche senza guardare, percepiva l’aura di fuoco di Kai; attraversava lo stretto corridoio, saltava sulle teste degli ignari passeggeri e finiva lì, accanto a lei.

Mao circondò con un braccio l’amica, facendole appoggiare il capo sulla sua spalla. Hilary la lasciò fare; aveva bisogno di coccole, davvero tanto. E l’arrivo dell’amica al dojo, giorni prima, era stato un toccasana. Ricordò con un sospiro la confezione di biscotti al cioccolato, quella per cui era finita al combini ad un orario assurdo della sera. Una sera più malinconica delle altre. E, tra gli struggimenti, i ripensamenti, i rimpianti, e qualche lacrima, proprio quella sera che aveva deciso di affogare il cuore nel cioccolato ... si era materializzato Kai. Certo, c’erano anche Takao e gli altri ... ma c’era Kai.

- Non lo so – la risposta di Mao fu sincera, senza filtri.

- Ma ... – continuò - ... lo senti. Quando succede te ne accorgi. Per tutti può essere diverso, io so solo dirti che essere innamorati non è solo un fatto di felicità. Sì, sei felice ... ma c’è anche altro –

- Io non so se sono felice ... –

- è sempre per lui, vero?-

Hilary annuì piano, lasciando che i capelli le scendessero sul volto, nascondendolo. Con la coda dell’occhio sfiorò la fasciatura sulla gamba di Mao.

- Tu sei fortissima – Mormorò – Sei una guerriera. Hai combattuto per avere Rei, per conquistarlo insomma. E lui ti ha capita –

- Non so nemmeno se definirla una relazione amorosa quella che ho con lui. Anzi, so che non la definirei così –

- Però siete così uniti –

- Ma noi siamo cresciuti insieme per una vita Hil!-

- Anche io lo conosco da una vita ... –

- è diverso. E lo sai. E poi, ti sei mai fatta avanti?-

- Sei matta?-

Hilary si scostò all’improvviso, con l’espressione allarmata di chi si è ricordato di aver lasciato il gas acceso e si trova a cento chilometri da casa.

- Insomma ... guardalo! –

Dal sedile davanti a lei Max, munito di auricolari e caduto nel mondo dei sogni, sobbalzò nel sonno. Come faceva a dormire alle sei della sera lo sapeva solo lui. Hilary abbassò un po’ la voce.

- è così ... così ... troppo!-

- ... troppo?-

- Con i suoi segreti, il suo ... passato da film d’azione, dai, mettici a confronto! Io sembro una bambina stupida di fianco a lui, e lui una specie di James Bond giapponese –

- è così che lo sogni la notte? Vestito da agente segreto?-

- Mao!-

La cinesina represse una risata tra i lunghi capelli rosa, piegandosi in avanti fino a toccare con la fronte il sedile davanti al suo. Alzò le mani in segno di resa.

- Scusa, scusa ... non ci starebbe neanche male però ... –

- Ma da che parte stai?-

- Dalla tua tesoro – Le diede un bacino sulla guancia, tornando a guardarla con un sorriso da un orecchio all’altro.

Era troppo carina. Troppo. Kai non le meritava nemmeno tutte le sue attenzioni.

- Ti fa male?-

- Mh?-

- La gamba –

- Ah, me n’ero anche dimenticata, pensa te –

- E se gli succedesse qualcosa di brutto?-

Mao sospirò.

- Allora è questo il punto –

- Il punto è che ho paura. Ecco. L’ho detto – la schiena di Hilary aderì meglio al sedile; il capo le ciondolò all’indietro, scontrandosi con la stoffa grigia. Gli occhi vagarono sulla bocchetta dell’aria condizionata che la stava facendo congelare sul posto.

- Ho paura che faccia qualcosa e che poi non ... non ... –

- Siamo stati d’accordo a buttarci in questa situazione. E poi ... un po’ siamo stati costretti, ecco. Volenti o meno, quei tizi sarebbero venuti lo stesso a dojo, anche se non avessimo già deciso di collaborare con i russi–

- Cosa ci sto facendo qui?- Hilary non aveva davvero ascoltato Mao. Mormorava, con gli occhi persi verso l’alto, esternando un monologo tutto suo.

- Io dovrei essere a casa, tra i libri ... che dirò a mia mamma? –

Sospirò, per l’ennesima volta. Poi si tirò su di scatto.

- Oooh, cavolo, sono una scema! Sto qua a lamentarmi e poi ... e poi quella ragazza è ... beh ... –

- Rosemary –

Le due ragazze fecero un salto sui sedili, saettando di scatto gli occhi sul corridoio dove, per magia, si era materializzato Ivan. Dall’altra parte, nel primo sedile della fila di mezzo, Kenny le guardava incuriosito tenendo sulle gambe il fido portatile. Avevano parlato per mezz’ora senza accorgersi che, lì accanto, lui aveva sentito tutto tranquillamente.

- Si chiamava Rosemary – Ripetè Ivan, con un tono piatto che dava qualche brivido.

- S-scusami ... – Hilary non seppe per cosa si stava scusando. Ma si sentì in dovere di farlo comunque.

- In America limitatevi a nascondervi senza intralciarci. Non abbiamo tempo di farvi da babysitter –

Così Ivan aveva parlato, di nuovo, con il veleno sulla punta della lingua. Mao si sentì ferita nell’orgoglio. Non si era allenata una vita con la sua tribù per poi essere messa al livello di una palla al piede.

- Scusami tanto, ma non accadrà. Non siamo dei bambini rincitrulliti –

- Questo lo vedremo –

Il commento fu lapidario. Ivan si voltò dall’altra parte, e riprese a parlare con Kenny, passandogli chiavette su chiavette. Quei due se la intendevano solo chiacchierando di tecnologia; finito il discorso, Ivan tornava a guardarlo dall’alto, e il professore a evitare i suoi taglienti occhi cremisi.

Mao gonfiò le guance; Hilary le mise una mano sul braccio. Non ne valeva la pena di litigare, se non altro in aereo, con le hostess che, a giudicare dall’odore di mensa scolastica e dalle espressioni esultanti di Takao poco più avanti, stavano passando con la cena.

Poco dopo, con il vassoio fumante davanti e l’astio di Mao che stava per essere affogato nel cibo, Hilary si permise un commento arrivato dritto dritto dal suo innato spirito materno. Guardando le verdure bollite, sospirò tra sé e sé:

- Poveri ragazzi ... –

 

............

 

- Ti sei ricordato di me?-

- Non ho mai smesso di pensarti. Questo è tuo, vero?- Il piccolo anello brillò nella sua mano.

- Eri tu la donna in chiesa-

- Lo riconosci?-

- Te lo regalai il primo Natale dopo la caduta di Vorkov-

- Boris-

- Mh?-

 

- Boris –

Il ragazzo trasalì, aggrappandosi ai braccioli del sedile. Era sudato; sentiva la felpa appiccicata al corpo, troppo stretta. Gli occhi saettarono confusi attorno a sé, rimbalzando tra volti sconosciuti. Si portò le mani al volto. Premette sulle palpebre per uno, due secondi. Quando riaprì gli occhi, il volto di Yuriy occupava il suo campo visivo.

Respirò piano, guardando l’amico con aria vagamente persa.

- Che c’è?-

- La cena –

- Eh?-

- Stanno servendo la cena –

- ... Mi hai svegliato per questo?-

- Non mangi nulla da ieri mattina –

- Non ho bisogno della mamma Yuriy, so quando nutrirmi da solo, grazie –

- Evidentemente no, visto che non mangi da quasi ventiquattro ore –

Boris non rispose alla provocazione, ma lo sguardo di fuoco che Yuriy si sentì addosso poteva valere come argomentazione.

Ivanov non era certo una balia. E non avrebbe saputo come esserlo. Ma conosceva l’amico, il suo modo di punirsi inutilmente quando si sentiva colpevole di qualcosa, e le reazioni al limite della stupidità che lo portavano, quasi sempre, a gesti impensabili.

Come quando dopo aver perso a scacchi sul cellulare aveva scardinato tutte le tende dell’appartamento, pretendendo che Yuriy trovasse della logica nelle sue azioni.

- La stavi ... chiamando. Nel sonno –

Poteva stare zitto. Non volle farlo. Sapeva che quella ragazza avrebbe perseguitato l’amico a vita, ma, purtroppo per loro, c’era poco tempo per metabolizzare l’accaduto.

Boris gli scoccò un’occhiata gelida, tastando con poca voglia il contenuto dei vassoi. L’odore di cibo riscaldato gli diede la nausea.

- E allora?-

L’anello gli bruciava nella tasca della felpa. Falborg, accanto a lui, sembrava vibrare al suo contatto.

Yuriy tolse gli occhi dalle piccole carote bollite, concentrandosi sul vicino di posto. Boris non riuscì a sfuggire quello sguardo; si trovò incatenato a due profonde, brillanti iridi color ghiaccio, piccole e penetranti. Erano occhi con cui aveva condiviso una vita. Prima la strada, la solitudine, il freddo; poi il monastero, la stanchezza, il monaco e le sue follie. Insieme a quegli occhi aveva guardato la neve cadere innumerevoli volte. E ora loro lo guardavano, tra severità e perdono, tristezza ed empatia. Uno sguardo indecifrabile, quello di Yuriy.

- Stai tranquillo. Sarà fatta vendetta per tutto. Ma ora torna freddo. Voglio che tu non faccia sciocchezze. D’accordo?-

Tranquillo. Non lo era davvero nessuno di loro. Boris sentì distrattamente i commenti di Ming Ming dal sedile dietro al suo; parlava di cosmetici, piastre per capelli ed estetiste, intervallata ogni tanto da un commento monosillabico di Garland. Respirò a fondo, anche se l’odore del cibo gli invase le narici fino a dargli il voltastomaco. Era sempre stato un campione del non farsi coinvolgere dalle emozioni. Ma lo avevano anche addestrato a reagire alla rabbia con la violenza; e lui ora ne aveva da vendere. Di entrambe.

- Va bene capitano – concluse, con una velata punta di ironia – Vedrò di essere freddo come un ghiacciolo –

Yuriy tornò con gli occhi sul cibo.

- Bravo bambino – sussurrò, con un mezzo sorriso.

Borsi gli arrivò una gomitata.

......................

 

La Grande Mela li accolse con il traffico delle sei della mattina. I taxi gialli sfrecciavano sulla strada, uomini con ventiquattrore in pelle nera correvano verso la metropolitana; i negozi ancora chiusi davano una visione surreale, mezza sospesa, della città. Un po’ sveglia e un po’ addormentata, come se avesse un occhio aperto e uno chiuso.

Appena sceso dall’aereo Daichi aveva baciato le piastrelle sotto i suoi piedi; Takao era corso a cercare un bagno e Olivier a comprare con Mao una spazzola. Max si era fiondato verso l’uscita, trascinandosi dietro la combriccola che contava su di lui per il passaggio in laboratorio. Judy li aveva accolti con un sorriso smagliante. Sorriso che si era lentamente incurvato verso il basso, man mano che il figlio le raccontava tutti i fatti, uno per uno. Sull’autobus privato del PPB sembrava non esserci più molto spazio per i festeggiamenti del ricongiungimento tra madre e figlio, che comunque era partito per il Giappone solo pochi giorni prima.

- Come è potuto succedere tutto questo? Quell’uomo orribile non è più in carcere? Lo hanno lasciato andare di nuovo?-

- Purtroppo sì ... mi dispiace metterti in mezzo mamma, ma non sapevamo dove altro andare, e sembra che a New York potremmo risolvere il problema –

- In che senso? Vorkov si nasconde qui?-

- Credo di aver capito che queste armi a cui sta lavorando potrebbero essere qui da qualche parte –

Yuriy si intromise nel discorso, mollando Sergej al pc con Ivan e Kenny. Ne aveva abbastanza di codici html, domini e pagine web.

- Ci sono molte ricevute di pagamenti versati in una banca americana. Stiamo cercando di capire chi può essere il compratore. Grazie per l’aiuto, signora Mizuhara –

- Farò tutto quello che posso per assicurare quell’uomo alla giustizia –

- Mi dispiace contraddirla, ma non credo più alla giustizia da molto tempo –

Il commento freddo lasciò Judy senza una risposta pronta. Si mordicchiò un labbro. Non vedeva questi ragazzi da una vita; in cuor suo sperava, forse un po’ per colpa del suo istinto di donna e madre, sperava che avessero trovato un futuro migliore.

Dopo interminabili secondi di silenzio, per rompere il ghiaccio, chiese:

- Come si chiama la banca?-

- Icarus –

- Oh –

- La conosci mamma?-

- Ne ho ... sentito parlare, sì –

- Io mai prima d’ora –

- Max, ti ricordi che qualche anno fa un certo Torres venne inquisito per degli affari ... poco chiari? C’entravano droga, prostituzione ... la notizia fece parecchio scalpore –

Max si illuminò, battendo la mano sul sedile dell’autista.

- Ma sì! Quella specie di imprenditore! Quello che quando lo facevano vedere ai notiziari indossava sempre un bruttissimo completo verde!-

- Lui è il proprietario della Icarus Bank. Un uomo ... losco. Non mi meraviglierei se avesse avuto a che fare anche con Vorkov –

- Come ha detto che si chiama?-

Yuriy si fece attento.

- Vince Torres –

Registrò mentalmente quel nome, che non gli diceva assolutamente nulla.

- Hai sentito Ivan?-

Lui fece un cenno alzando il pollice – Ricevuto –

 

Arrivarono al laboratorio in un paio d’ore. Era dall’altro lato della città, nella più lontana periferia, isolato da tutto ciò che poteva far capitare un visitatore lì per caso. Una struttura più piccola del laboratorio centrale del PPB, ma abbastanza grande per ospitare almeno una trentina di persone.

Davanti all’ingresso tre membri degli All Starz li aspettavano raggiati; ma anche quei sorrisi, dopo i dovuti convenevoli, furono destinati a spegnersi davanti alle novità.

- Che ... cazzo –

- Grazie del commento Rick, un po’ più di tatto sarebbe gradito –

- Impossibile, qui non è una questione di tatto. Sarebbe da prendere a calci nel culo –

- Vuoi farlo tu scimmione? –

Michael si beccò un’occhiataccia, ma non ci fece caso. Seduta accanto a lui Emily, dietro gli occhiali sempre più spessi, si asciugò di nascosto una lacrima. Anche per un topo da laboratorio come lei quella storia era stata una freccia dritta al cuore. Guardò Hilary, che ricambiò con un sospiro il suo stato d’animo. Mao, nonostante la ferita, sembrava avere più vigore in corpo; Ming Ming era emozionata come non mai.

- Eddy e Steve?- Max cercò di cambiare discorso – Non sono venuti?-

- Steve si è rotto un crociato, quell’imbecille ... Eddy aveva del lavoro da fare al laboratorio –

- A proposito di laboratorio, da quello che ho capito Falborg ha qualcosa da nascondere, no?-

Boris si irrigidì. L’ultima volta che qualcuno aveva tirato in ballo il suo bey era stata Rosemary, e non era andata a finire bene.

- Cosa avete detto che ci hanno nascosto?-

- Una chiave. Deve esserci un meccanismo di attivazione, qualcosa del genere, nel bit power –

- Dovremmo analizzarlo –

- Aspetta aspetta aspetta –

Boris era sempre meno convinto. Si sporse dall’altro lato del tavolo, spostando la tazza dell'orribile brodaglia dal vago sentore di caffè dalla sua traiettoria. Puntò uno sguardo molto scettico su Emily.

- In che senso analizzarlo? Se funziona tipo che io te lo do e tu me lo restituisci, intatto, in cinque minuti, mi va bene –

- Non proprio. Nel senso che tu me lo dai, io lo studio per qualche giorno e poi, forse, saprò darti delle risposte –

- Qualche giorno?-

Andrew guardò l’americana allarmato. Accanto a lui Olivier, impeccabilmente seduto con le gambe elegantemente accavallate, fingeva di sorseggiare piacevolmente l’orribile caffè americano, creando una certa discordanza con l’agitazione dell’inglese.

- Per quanto tempo, esattamente, dovremmo stare chiusi qui, nascosti come ... come topi?-

- McGregor, hai già cominciato? Perché non fai per un po’ il gioco del silenzio?-

- Tante grazie, che ne dici di seguire il tuo stesso consiglio, Hiwatari?-

- Che ne dite ... – Rei si erse tra i due litiganti come un novello Salomone, pronto a raffreddare i bollenti spiriti e fare equa giustizia - ... di giocarci entrambi? – Concluse con un sorriso di circostanza, lasciando trasparire per la prima volta in tre giorni un velato moto di stress.

- Se troverai qualcosa, potrai distruggerlo ... lasciando il bit power intatto?-

Hilary aveva preso timidamente la parola, sentendosi un topolino tra gli sguardi di giganti. Boris sembrò prendere bene quella presa di posizione. Indicò la ragazza con un cenno, sfoggiando un mezzo sorriso di compiacimento.

- Sì, mi piace come ragionamento. Ne saresti capace quattrocchi?-

- Dottoressa Watson, per te. Comunque ... con un po’ di aiuto, direi che posso farlo. E, giusto per la cronaca, non distruggerei mai un bit power. Non senza ottimi motivi –

- Una guerra atomica non è un buon motivo?-

- Non esiste nessun motivo abbastanza valido per far fuori Falborg –

Rick alzò le mani.

- Oh, certo, se la mettiamo così vedo già diminuire drasticamente la mia aspettativa di vita –

Michael gli allungò una gomitata, che lui finse di non accusare, sussurrandogli un zitto. In quel momento un ululato di Takao spostò l’attenzione sul campione giapponese che, saltellando a tre metri da terra, si dava delle pacche sui genitali, alla vita dei quali aveva appena attentato Daichi con una tazza di caffè bollente.

Gianni afferrò il cellulare e fece, con nonchalance, una rapida serie di foto. Garland esibì un facepalm molto elegante. Kai non lo imitò per orgoglio, ma in cuor suo stava per fare lo stesso.

 

.............

 

- è stata lei?-

- Pare di sì –

- Ma Gianni ha capito bene?-

- Non è solo Gianni, Kai lo ha spiegato anche a Rei e agli altri. È stata quella ragazza a fare tutto. Cioè, ad attirare Boris. Doveva prendergli Falborg –

- Quindi si era rifatta viva lei ... – Emily si rigirò tra le dita il bey dai contorni appuntiti. Stava cercando, tra la confusione di commenti delle amiche, di raccapezzarsi meglio sulle note più piccanti della storia – Ma ... perché? Se lo ha attirato in trappola, perché poi lui l’ha salvata? Anche se era una sosia ... –

Ming Ming si frappose all’improvviso fra l’americana e il grosso computer da laboratorio, pieno di numeri che nessuno lì dentro, a parte Emily, si stava prendendo la briga di considerare.

- Non capisci Emy?- Sul volto da bambola le labbra rosse dipinsero un sorriso furbo - ... lui ne è innamorato!-

I neuroni di Emily andarono per un momento in blackout. Resettò il sistema nervoso, figurandosi nella sua mente cosa, più di Boris innamorato, poteva essere improbabile. Non trovò risposta.

-Siete sicure? Non mi sembra proprio il tipo –

Smontò con cautela il dischetto del bit power, incastrandolo in un marchingegno con più cavi di un’intera aula informatica. Mao si unì al coro di dissenso.

- Non ci credo neanche io. Li avete visti, no? Ci conoscono da una vita e ancora ci trattano come dei nemici!-

- Te la sei presa solo per il commento di Ivan –

Mao sbuffò. Le dita si attorcigliarono con più foga alle ciocche di capelli.

- Anche se fosse, avete capito cosa intendo –

Ming Ming sorrise enigmatica - Mao, fidati. Sono stata per anni in squadra con dei ragazzi indecifrabili ... e tutti, in un modo o nell’altro, si sono sciolti come un gelato al sole davanti alla donna giusta –

Hilary soffiò una mezza risata.

- Sei seria?-

- Mai stata più seria. Anche Mystel, e pensate che all’inizio l’avevo preso per un omosessuale –

- Mystel?? E chi è la fortunata?-

- Chi sono vorrai dire – l’ennesimo sorrisetto furbo le si dipinse sulla bocca – Avrà cambiato una ragazza al mese da quando lo conosco. E lui si innamora sempre alla follia, a modo suo–

Si sedette su una poltroncina blu, dandosi una leggera spinta con le punte del plateau per farla ruotare su se stessa.

- Poi però, loro si stancano ... mi sono chiesta spesso perché. Ma a certe cose si può rispondere solo vivendole –

- Come l’innamorarsi. No?-

Ming Ming sghignazzò sotto i baffi.

- Rei ti ha fatta diventare moooolto filosofica, gattina – Apostrofò Mao con il nomignolo che a lei non andava molto a genio, ma la cinesina la lasciò fare.

- è che ... così, ci avevo ragionato sopra ultimamente – Voleva avere altri pareri su quello che le aveva chiesto Hilary in aereo, senza tirare in ballo l’amica e la sua inguaribile cotta per Kai – Voi che ne pensate?-

- Io non ero innamorata di Michael quando mi ha chiesto di uscire –

La rivelazione fermò i pensieri e i respiri nel laboratorio. Emily sorrise, fiera dell’entrata a effetto della sua notizia. Nessuno lo sapeva, neanche nella squadra.

Hilary, Mao e Ming Ming erano un tutt’uno di occhioni spalancati.

- Lui ha fatto ... cosa??-

- Siamo usciti insieme. Una volta, nulla di eclatante. E non lo sa nessuno, quindi bocche cucite!- Non riusciva a non sorridere, nonostante imponesse agli angoli della sua bocca di scendere dal piedistallo. Per lei non era stata proprio una sorpresa. Teneva d’occhio il capitano da mesi, sentiva distintamente i suoi sguardi addosso a lei ogni volta che si incrociavano in corridoio. Aveva già calcolato mille possibili varianti di come poteva arrivare la dichiarazione. E Michael aveva deciso di fare le cose con calma, partendo da un invito innocente. Ma Emily aveva già intuito la strategia di fondo.

- Comunque – riprese, senza smettere di sorridere – Ricordo di aver avuto una cotta da piccola, una di quelle che ti porti dietro per tutti gli anni di scuola. Pensavo di essere innamorata solo perché quando lo vedevo mi venivano le farfalle allo stomaco ... e volevo sempre sembrare di più vicino a lui. Più brillante, più bella, più ... perfetta. Ma non credo fosse amore –

- Non vorresti essere perfetta per la tua dolce metà?-

- Credo che la tua metà ti debba accettare per quello che sei. E viceversa –

Ming Ming fece l’ennesima piroetta sulla sedia.

- Buon per noi che siamo già perfette allora –

 

 

- Ho una notizia buona e una ... meno buona –

Takao guardò Kai con la forchetta a mezz’aria, mentre pezzi di bacon si paracadutavano sul piatto.

- Possiamo decidere quale sentire per prima?-

- Quella buona ... – l’amico lo ignorò, passandosi una mano sui capelli d’argento appena usciti da una seduta di shampoo – è che quel tal Torres compare effettivamente nel libro paga di Vorkov. Ho convinto mio nonno a scartabellare meglio nella sua memoria, e lui ha confermato. Inoltre, il padre di Rosemary era americano. Anthony Primerose. Poteva tranquillamente esserci un triangolo tra lui, Torres e Vorkov; uno ci metteva la tecnica, e l’altro i soldi. Ma non sappiamo cosa ci stesse a fare l’imprenditore, a cui Vorkov versava cifre da capogiro –

Takao inghiottì il boccone senza masticare. Max gli passò un tovagliolo, che lui afferrò senza distogliere lo sguardo da Kai, preparandosi psicologicamente alla brutta notizia in arrivo. L’eco di sottofondo del tè sorseggiato da Andrew si stava facendo assordante. Rick, munito di headphones, stava chiaramente fingendo di ignorare tutto e tutti.

- Quella cattiva ... è che con questo Torres dobbiamo parlarci –

- E immagino che non abbiamo idea di come trovarlo. Giusto?-

- Sbagliato Takao. L’idea ce l’abbiamo. Ma metterla in pratica è ... –

- Rischioso?-

- Abbastanza –

- Ah –

Kai prelevò dalla tasca posteriore dei jeans, che aderivano perfettamente a glutei così scolpiti da fare invidia ai bronzi di Riace, un foglio perfettamente ripiegato. Lo aprì con cura, leggendone ad alta voce il contenuto, saltando le parti meno importanti.

- Con la presente lettera invito voi tutti ... rappresentanti dei settori più prestigiosi ... per l’annuale ricevimento di Natale ... eccetera eccetera ... invitiamo a portare un accompagnatore ... appuntamento il giorno 20 alle nove in punto ... all’Empire State Building

Takao e Max guardarono l’amico spaesati. Andrew prese la parola.

- è la festa annuale di una di quelle associazioni per spocchiosi uomini d’affari pieni di soldi. Mio padre non ci va mai ... troppa puzza sotto al naso –

- Grazie delle spiegazioni McGregor. È un gala a scopo benefico, ci va gente schifosamente ricca, e questo – Kai sventolò il foglio – è l’invito per mio nonno. Quando gli ho parlato di Torres me lo ha inviato, invitandomi a divertirmi in quello che ha definito un covo di vipere-

- Ok, ma ... che c’entra l’invito in tutto questo?-

- Sarà sicuramente presente anche lui-

- Il banchiere?-

- Aha-

- Ma è fantastico! Basterà andare là a chiederglielo allora!-

- Qui cominciano i problemi. Chi deve andare. Vorkov sta cercando la metà di noi per farcela pagare, e l’altra metà è stata visitata da sicari giusto pochi giorni fa –

Andrew si alzò dal tavolo, giusto in tempo per tirarsi fuori dalla discussione. Gettò il bicchiere di carta nella pattumiera, avviandosi verso qualunque posto che gli concedesse un po’ di privacy in quella specie di prigione tecnologica.

- Non contare su di me Hiwatari. Il mio sangue è più blu della tua camicia, e non regge certe ostentazioni di ricchezza –

- Non eri nemmeno sulla lista, non temere –

Il commento acido raggiunse Andrew di striscio, ma lui se lo scrollò via.

Max incalzò l’amico.

- E ... quindi? L’invito è per due persone, no?-

- Non possono essere due persone a caso. Una deve essere un rappresentante di una famiglia importante, comunque qualcuno che ha ricevuto l’invito. L’altro ... possibilmente una personalità americana. Siamo a New York alla fine. Quei ricconi si porteranno sicuramente dietro i loro agenti americani –

- è fatta! Andrete tu e Max!-

Kai si portò una mano alla fronte.

- Questo è esattamente quello che vorrei evitare ... Comunque non andrò io. Se Torres aveva contatti con Vorkov, vedendomi capirà subito che miro a lui. Mio nonno ha lavorato con quei due in passato. Rischierei di farlo fuggire, e tanti saluti alla nostra occasione. I tre rampolli europei, d’altro canto, non ne sanno abbastanza degli affari di Vorkov. Ci serve una ... via di mezzo –

- E qui entro in gioco io –

Garland fece un ingresso trionfale in sala, al momento giusto, come se avesse atteso fino ad allora dietro la porta. Prese la lettera dalle mani di Kai puntando lo sguardo sui presenti, soprattutti su coloro che fino a quel momento erano rimasti in silenzio.

- Andrò io. Certo, hanno cercato di eliminarmi, ma non è una notizia di dominio pubblico, e dubito che Torres ne sappia qualcosa. Sono la perfetta via di mezzo, in questo caso –

- E chi verrà con te?-

- Ho pensato a Emily all’inizio. Una compagnia femminile desta meno l’attenzione. Ma Michael mi ha quasi minacciato di non tirarla in mezzo ... e ho dovuto rinunciare ai miei piani, per un’azione di riserva. Rick –

Il ragazzo buttò giù il caffè bollente d’un colpo, mandando la brodaglia di traverso. Prese a tossire, spargendo germi e schizzi marroncini sul tavolo bianco. Olivier fece strisciare la sedia qualche centimetro più lontano con discrezione.

Garland si stava già pentendo di quello che stava per dire..

- Verrai tu con me –


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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***



Capitolo 15

 

 

 

Sarebbe stata un’azione talmente marchingegnosa che neanche Tom Cruise avrebbe mai potuto realizzare una simile sceneggiatura.

Avevano un solo aggancio per capire dove poteva trovarsi questo fantomatico arsenale. E, visto che Vorkov gli aveva già mandato i suoi simpatici sicari a casa, non avevano tutto questo tempo per potersi muovere liberamente.

Hilary aveva insistito, e per una volta l’intrepido spirito avventuroso di Mao le aveva dato retta: la polizia doveva essere avvertita. Per poco Kai non le scoppiava a ridere in faccia.

- Credi davvero che se Vorkov non avesse le palle coperte con la giustizia agirebbe in questo modo? Forse non ricordi bene, ma ai tempi del primo campionato era già un uomo ricercato di diversi paesi, e nonostante questo gli hanno fatto finanziare il torneo di uno sport per ragazzini –

Un modo carino per dire che la polizia, se non era già stata messa a cuccia dal monaco, sarebbe finita presto a novanta davanti a lui e ai suoi metodi persuasivi. Hilary ci aveva provato lo stesso a farsi valere; ma davanti a Kai, e agli sguardi gelidi di quei ragazzi dal passato freddo e misterioso, si era fatta piccola piccola. Che ne sapeva lei? Che ne capiva di criminali, fughe all’ultimo respiro, di lotte per la sopravvivenza? Lei, che aveva passato i giorni più avventurosi della sua vita a guardare dalla panchina Takao combattere con la furia del vento dalla sua? Lei che si era chiusa sui suoi studi a riccio, che aveva sempre avuto un tetto sicuro sulla testa e una mamma pronta ad abbracciarla?

Era stato l’essere più inaspettato a consolarla. Con quanta più delicatezza possibile, la mano di Sergej sulla sua spalla la tranquillizzò un po’, come a dire non possiamo farci niente. Che ragazzo curioso, quel gigantesco armadietto di muscoli. Quei lineamenti induriti dalla vita nascondevano forse un animo dolce? Non come il miele, certamente. Forse più dolce del sapore di ferro che sembrava prorompere da ogni parola di Yuriy, che al piano di Kai e Garland si era opposto fermamente.

- Voglio parlarci di persona –

- Abbiamo una sola possibilità di avvicinarlo in questi giorni, e tu non puoi presentarti a caso a quel ricevimento –

- Andrò con Garland allora –

- Sì, così Torres ti vede, si caga addosso e si dà malato per il resto dei suoi giorni. Dobbiamo avere un minimo di discrezione –

- Perché cazzo non possiamo andare a casa sua e prenderlo a pugni?-

- Perché già la polizia non ci darà una mano nemmeno se glielo chiede Gesù Cristo, ci manca anche che i ricercati diventiamo noi  -

Come al solito quando si trattava delle idee di Kai, Yuriy fu costretto a fidarsi; non aveva nessuna alternativa davanti alla testardaggine del giapponese.

Però in una cosa Yuriy aveva ragione: la casa di quell’uomo poteva avere per loro un qualche interesse. Soprattutto mentre lui era al ricevimento, e la sua enorme proprietà era priva del proprietario. Si trattava di uno dei più lussuosi attici di New York, ed entrarci sarebbe stato un parto, certamente meno pericoloso di minacciare Torres di persona e beccarsi in automatico un soggiorno in carcere.

- Ci servirà qualcuno che disattivi gli allarmi –

Neanche a dirlo, Ivan aveva già tutto quello che serviva.

- Qualcuno che sappia cosa cercare –

E sarebbe andato il più bravo nei lavori rapidi e puliti, abbastanza freddo da non lasciarsi distrarre dagli imprevisti, se non sbroccava all’improvviso. Boris aveva esibito un poco rassicurante ghigno; non aspettava altro che mettersi al lavoro.

- E incrociamo le dita –

 

 

- Lo sapete che stiamo violando comunque la legge, vero?-

- Infatti, tanto valeva entrargli direttamente in casa, legarlo a una sedia e puntargli in faccia una pistola –

- Yuriy, ti prego ... –

- Ragazzi, dico sul serio –

Max era la voce della ragione della giornata. Non era tra le sue priorità vedere una macchia sulla sua fedina penale per aver fatto parte di quel piano macchinoso.

- Potremmo limitarci alla parte di Garland e Rick, no?-

- No –

Yuriy non era del suo parere. Aveva un plico di fogli in mano, parte dei documenti scippati all’archivio di casa Hiwatari, ed erano diversi minuti che ci smaddonava sopra; non era dell’umore per reggere ripensamenti sul da farsi. L’unica cosa che lo aiutava a distendere i nervi era il clima assolutamente rigido che lo aveva salutato appena sveglio: un vento sferzante, gelido, spazzava la strada deserta davanti al laboratorio. Mai come nei giorni d’inverno si sentiva al sicuro.

- E se vi trovano?-

- Non troveranno nessuno. Sempre che tutti facciano la loro parte –

La frecciatina arrivò dritta alle orecchie di Garland.

I preparativi erano partiti presto. Rick doveva rendersi presentabile, il che era tutto un dire per un nemico mortale di giacche e cravatte. Era tutta la mattina che Ming Ming gli metteva davanti quintali di abiti eleganti, arraffati rapidamente dai negozi nei giorni precedenti; l’americano rispondeva al riflesso nel piccolo specchio portatile con un grugnito, per poi distogliere lo sguardo.

Ming Ming sospirò esasperata, facendo sventolare le cravatte a strisce nelle piccole mani.

- Dai Rick, sarà solo per una sera! Collabora un po’! Poi, gli uomini in giacca e cravatta sono estremamente affascinanti –

Gli occhioni dolci sparivano a intermittenza dietro le lunghe ciglia, ma l’effetto su Rick fu quasi nullo. Stravaccato su un divanetto, telecomando in mano e headphones in testa, non aveva la minima intenzione di collaborare. Daichi si palesò in quel momento, di ritorno dal buffet della colazione, portando protettivamente tra le braccia un paio di panini al bacon. Quando vide la stesa di giacche dai colori improbabili gli uscì un commento poco carino, ma molto sincero.

- è arrivato il circo? Non lo sapevo –

Rick grugnì, Ming Ming scoccò al piccoletto un’occhiata di fuoco.

- Già non sta collaborando, non dire queste cose! Altrimenti non lo convinciamo più!-

L’americano guardò di sfuggita la giacca che la ragazza gli stava porgendo, un gessato color grigio topo. Alzò un angolo della bocca, vagamente inorridito.

- Quella non me la metto di certo –

- Riiiiick!-

- Cosa? Non mi vestirò come un imbecille, neanche se fosse una questione di vita o di morte!-

- Ma questa è una questione di vita o di morte!-

- Bambolina ... – il ragazzo puntò su Ming lo sguardo più ironico possibile, ammiccando con un po’ troppo trasporto – Non ho bisogno di vestirmi come un damerino per essere irresistibile –

Lei si arrese. Roteò gli occhi al cielo, sedendosi accanto a lui sul divano, gettando al vento la giacca gessata.

- Sei ... impossibile!-

Lui sorrise vittorioso.

- Lo so –

- Allora? Cos’è questo caos?-

Anche la voce di Mao si unì al coro di quell’improvvisato camerino molto affollato. Raccolse una delle giacche da terra, agitando il capo come a dire Non ci siamo.

- Siamo qui da tre giorni ed è già diventato un manicomio – mormorò – Hanno fatto una specie di campo di battaglia in uno dei laboratori, vi rendete conto? Emily sta ancora urlando–

A sentire campo di battaglia Rick si rianimò, ma un’occhiataccia di Ming lo rimise seduto.

- Tu non ti muovi –

- Ah no, già Boris ha cominciato a tirare pugni a tutto, ci manca che ci vada qualcun’altro a fargli compagnia, così a Emy viene una sincope –

Max si appoggiò allo schienale del divano.

- Perché Boris sta ... tirando pugni in un laboratorio?-

- Per allenarsi a tirarli in faccia alle persone –

Il sibilo di Yuriy fece rabbrividire l’americano. Il russo guardò il caos di abiti attorno al divanetto, senza dire una parola. A lui quella storia sembrava tutta una pagliacciata.

- Facevamo meglio a minacciarlo direttamente ... –

- Lo dico anche io, così evito di vestirmi da valletto –

- Ma che valletto! È solo un completo!-

- Oh, certo, e dopo il completo magari volete anche vedermi zompettare fino a un centro estetico –

Rick, steso sul divano come un sirenetto, alzò una gamba con leggiadria nonostante la stazza. Max rabbrividì davanti allo spettacolo, cercando di non darlo a vedere. Yuriy non ci provò neanche a nascondere un’espressione di disgusto, alzando un sopracciglio e arricciando un angolo del labbro superiore. Daichi si lanciò direttamente in un Dio che schifo poco elegante. L’americano accarezzò contropelo la sua robusta gamba, ancora perpendicolare al corpo, con un terrificante sguardo languido dipinto in volto.

- Credo che potrei cominciare a depilarmi – disse, giusto per gustarsi la reazione degli altri blader davanti alla sua totale assenza di eterosessualità. Che non era di per sé un problema, sicuramente non più del terrificante moto ondoso dei suoi chiarissimi peli.

L’attenzione generale venne distolta dalla gamba di Rick. per concentrarsi sulle bestemmie che rimbalzavano in corridoio. Un attimo dopo Boris fece il suo ingresso nel salottino, a petto rigorosamente nudo, vistosamente sudato e alla ricerca di acqua gelida. Si diresse senza troppe cerimonie verso le macchinette, mentre i due paia di occhi delle donzelle presenti seguivano lo strascico dei suoi pettorali.

- Però ... – commentò Ming Ming, senza distogliere lo sguardo. Mao abbassò subito gli occhi. Immaginava che a fisico quel ragazzo non fosse messo male, ma non si aspettava una tale fornitura muscolare.

Rei è comunque meglio si disse, giusto per distrarre il suo cervello e i suoi istinti, che non percepivano il corpo di un uomo da diversi anni.

Forse non lo avevano mai percepito. Non le piaceva mettere fretta a Rei, anche perché ufficialmente loro non stavano insieme; era una strana relazione, un passettino più avanti di un’amicizia. Una specie di via di mezzo che le andava ogni giorno più stretta.

Dal corridoio comparve la lanciatrice di madonne. Emily, brandendo un tubo, si fece avanti con la palese intenzione di tirarlo in testa a qualcuno.

- ... e non c’è bisogno di buttare giù il laboratorio! Perché non dai i tuoi cavolo di pugni a qualcuno, piuttosto che sulle mie attrezzature?!-

Dalle macchinette si sentì sghignazzare. Emily si tolse gli occhiali con un moto di stizza.

- My fu.... god, i hate him – sospirò. Poi lanciò a Yuriy un appello disperato – Non puoi, che ne so, tenerlo al guinzaglio? Solo per un po’ –

Lui la guardò con malcelata ironia, sollevando un angolo della bocca.

- Provaci tu. Se ci riesci ti dò un biscotto –

- Lasciali perdere Emy. Piuttosto, vieni qui e convinci questo scimmione a vestirsi da persona normale –

L’americana inforcò di nuovo gli occhiali.

- è quasi più facile mettere un collare a quel russo ... –

Mao stava per porgere a Ming una camicia rosso porpora, barbaramente gettata sul pavimento, ma lasciò perdere quando Rei le si materializzò accanto con in mano un tablet. La ragazza si aggrappò a un suo braccio, scodinzolando con una coda metaforica.

- E quello?-

- Michael mi ha chiesto di darlo a Emily. Per trovarla ho seguito le urla –

Emy glielo prese dalle mani fingendo di non aver sentito. Rei si guardò attorno: una stesa di abiti a terra, persone accasciate sulle sedie, Ming Ming che stava per strozzare Rick e ragazzi mezzi nudi a girare per i corridoi. Era davvero diventato un girone infernale.

- è un rompicapo come ci siamo trovati al PPB a organizzare questa specie di piano ... mezzo illegale –

Rick gli fece eco - Già, non potevate rimanere a casa?-

Si beccò un pugno sul capo dalla mano di fata di Emily.

- Se fossimo rimasti in Giappone ora avremmo qualche gamba in meno, e più fiori da portare al cimitero – La voce di Yuriy era piatta e calma, come se stesse parlando di noccioline – E forse potrete anche esserci utili con la vostra tecnologia per cavare da Falborg tutto quello che non dovrebbe esserci –

- Potreste anche ringraziarci –

Emily fece partire un altro ceffone.

- Zitto tu, che non stai facendo un tubo –

Yuriy alzò un sopracciglio, per l’ennesima volta in quella mattina - Però, la ragazza si fa rispettare –

- In pratica ... – Rick si tirò su dal divano, che ormai aveva un solco con l’impronta della sua schiena – Siete venuti a scroccare vitto e alloggio –

- Già. Ti scoccia?-

- Ah no, no, figurati, anzi, se avete bisogno di altro chiedetelo senza complimenti –

- Ti ringrazio, ma siamo a posto –

Di nuovo rimbalzò l’eco della voce di Boris.

- E se a me ora serve della vodka? Eh? –

- Non si beve alle dieci della mattina, datti un criterio per favore –

Boris rispose al commento del cinese senza troppe cerimonie.

- Rei, perché non vai a stenderti a pancia in su e ti lasci fare i grattini? –

 

...........

 

Tra gli schiamazzi, i vestiti saltati per aria e gli occhi rivolti al cielo in cerca di un segno divino, il sole era calato; avevano circa un’ora prima di dare il via ai due atti del loro spettacolo. Speravano solo che non ci fossero colpi di scena inaspettati. Lo sperava Rick, preparandosi a fare una cosa che lo emozionava e lo spaventava, non sapendo bene come comportarsi. Lo sperava Garland, facendo una rapida rassegna all’americano di cosa avrebbe dovuto fare al ricevimento, e cosa assolutamente no. Lo sperava Max, che non voleva mettere la mamma nei guai. Lo speravano Hilary, Mao e anche Ming Ming, che in fondo un po’ di timore lo stava provando nel vedere il compagno di squadra salire nella macchina messa a disposizione da Michael.

- Torna intero. D’accordo?-

Aveva fatto la sostenuta, ma Garland era bravissimo a leggere quei suoi grandi, meravigliosi occhi brillanti.

- Cercherò-

Ma anche Andrew sperava andasse tutto bene, perché quella faccenda gli piaceva ogni minuto di meno, e si sentiva come un capro espiatorio preso a caso nel mucchio. Poi si ricordava di Rosemary, quel nome che nessuno pronunciava più da giorni. E un po’ il cuore, indurito dal sangue nobile e dall’orgoglio di vero uomo che la famiglia gli aveva inculcato, gli si stringeva. Allora Olivier gli portava una tazza di tè, e bastava quello a farlo tornare in se.

Ivan era pronto dal giorno prima. Aveva tutto ciò che gli serviva per disinnescare qualunque tipo di allarme si fosse trovato davanti. Boris non aspettava altro che attivarsi, uscire, fare qualcosa che lo avvicinasse un po’ di più alla fine di quel brutto racconto. E, se si fosse trovato davanti qualcuno, lo avrebbe preso per il collo fino a fargli esalare l’ultimo respiro. Perché qualcuno doveva pagare per quello che era successo; tanto meglio se quel qualcuno fosse stato Vorkov. Ma per ora andava bene chiunque.

- Il ricevimento comincia fra quaranta minuti. Tu e Ivan partirete tra mezz’ora –

- Ricevuto –

Sulla porta della stanza, Yuriy si era appoggiato allo stipite in attesa di qualcosa. Boris lo guardò di sfuggita.

- C’è altro?-

- Non fare cazzate –

- Cos’è, non ti fidi più?-

Il rosso alzò le spalle.

- Il bastardo dice che tanto non mi sono mai fidato di nessuno –

Boris sghignazzò.

- Da quando dai retta a quello che si dice di te?-

Il ragazzo infilò nella tasca del cappotto un paio di guanti neri e un coltellino a serramanico. Indugiò un momento sulla pistola. Non tutti erano a conoscenza del fatto che lui girasse armato, almeno da quando era fuggito dal laboratorio a Londra. Prese l’arma, se la rigirò nella mano. Poi la rimise nel cassetto, sotto lo sguardo vigile di Yuriy. Nel riporla, la sua mano sfiorò un piccolo anello d’oro.

Si fermò a guardarlo un paio di secondi. Bastò quello a fargli vacillare la calma. la sua freddezza si spezzò, e Yuriy lo notò subito.

- Parola mia, quando me lo troverò davanti lo ammazzerò con le mie mani – soffiò Boris, gli occhi ancora puntati dentro il cassetto. L’oro brillò sotto la luce bianca della lampada, disegnando nei suoi occhi verdi pagliuzze gialle. Strinse il pugno, alzandolo verso il muro, ma non assestò il colpo. Rimase così, a mezz’aria. Abbassò la mano, chiudendo il cassetto di scatto.

Yuriy uscì in quel momento.

- Fra venti minuti, all’ingresso-

 

............

 

Porca di quella puttana

Rick si fiondò fuori dal laboratorio con la camicia aperta e senza scarpe, buttandosi dentro il taxi che stava aspettando da una vita. Ignorò i commenti acidi del tassista, gli allungò una mancia e lo esortò, con parole molto dirette, a rasentare la velocità della luce.

Maledizione ai russi, al catering per pranzo e al suo irriducibile amore per la salsa barbeque. Era stato sul water una mezza giornata, piegato in due con dei dolori lancinanti; e, se esisteva la legge del contrappasso, questo era sicuramente il suo stomaco che si vendicava per tutti i chili di cibo spazzatura che era stato costretto a ingerire.

Il risultato dei disturbi intestinali, a parte una nausea da capogiro e un accenno di meteorismo, era il terrificante ritardo. Terrificante come quello che gli avrebbe fatto Garland se non fosse arrivato in tempo al maledettissimo ricevimento, al quale peraltro era stato praticamente costretto a partecipare.

Ma vaffanculo a tutti

Garland era partito una vita prima, con la macchina di Michael, con la raccomandazione di non fare ritardo. E, incredibilmente, grazie a quel tassista che sembrava uscito da un Fast&Furious, ce la stava facendo.

A due minuti dall’inizio del ricevimento era sotto l’Empire State Building, con l’attaccatura dei capelli umidiccia di sudore e la cravatta slacciata. Uscì dal taxi soffiando un sospiro di ansia e sollievo insieme. Le scarpe, annodate per i lacci, gli pendevano attorno al collo; la fretta gli aveva impedito di annodarsi quelle terribili trappole abbinate al completo blu oltremare, che Ming Ming in qualche modo gli aveva rifilato. Già rimpiangeva le sue scarpe da ginnastica.

Garland uscì dall’enorme ingresso proprio in quel momento. I 102 piani di edificio svettavano minacciosi sulla sua testa, facendo pendant con il suo penetrante sguardo, irritato e assolutamente nero. Quando vide Rick fuori dal taxi, quasi irriconoscibile ben vestito e con i capelli finalmente legati verso il basso, senza la tipica pettinatura da ananas, ringraziò tutte le divinità dell’Olimpo.

- Santo cielo, dove eri finito? Stanno per cominciare!-

Rick si era già pentito di non aver dato buca. Era andata bene agli altri che era davvero una questione di vita o di morte, altrimenti sarebbe rimasto tranquillamente sul water a far finta di non esistere.

- Arrivo, arrivo! E che cazzo –

- Una volta che chiudono le porte non possiamo più entrare!-

Gli occhi che vagavano indispettiti tra Rick e l’ingresso tradivano la consueta nonchalance di Garland. Si stavano mettendo in gioco, rischiando non poco, partecipando a quel ricevimento. E lui non lo faceva solo per i russi; se fosse stato solo per loro forse non si sarebbe mosso. Ma Vorkov aveva tirato in ballo anche lui e, nonostante l’innata calma, non era tipo a cui piacesse essere preso per il culo. Dopo tutto quello che c’era in gioco non avrebbe certo permesso di mandare a puttane il piano per uno stupido ritardo.

Rick si fiondò su uno spazio libero del marciapiede per risolvere il problema delle scarpe, ancora appese al collo.

- Ma da dove arrivi? Dalla Città del sole?-

- Ma che città! Ho fatto i cazzo di raggi del fuoco per fare in tempo, e queste stupide scarpe ... –

- Credevo ti piacessero le donne –

- Eh?-

Garland lo liquidò con un cenno della mano. Non aveva resistito a dar fondo alle sue dispense filosofiche per una battuta di spirito campanelliano, ma non c’era tempo per soffermarsi a parlare di filosofia. Lasciò perdere la citazione, invitando caldamente l’americano a darsi una mossa.

In mezzo alla gente ben vestita e dai modi così garbati che rasentavano il lecchinaggio, nessuno fece caso a loro. Garland era figlio di una famiglia di nobili origini e quant’altro, ma in America era famoso il suo cognome piuttosto che il suo aspetto. E Rick, anche se membro degli All Starz, era meno conosciuto del capitano Michael. Un altro espediente per dare nell’occhio il meno possibile.

L’ascensore si fermò al novantottesimo piano. Rick si permise di prendere fiato un’ultima volta. Garland si aggiustò il nodo della cravatta nello specchio, distendendo i lineamenti del volto fino a raggiungere un’espressione indecifrabile.

Le porte scattarono.

- Si va in scena –



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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***



Capitolo 16

 

 

 

- è davvero un piacere avervi qui –

- Il piacere è nostro –

Certo, come no

Appena entrati nel salone, arredato come un lussuoso e opulento albero di natale, i due agenti in incognito erano stati assaliti da una mandria di vecchi impomatati. Ovunque svettavano cravatte di dubbio gusto, scarpe tirate a lucido, tacchi da capogiro e acconciature tirate sù con l’argano pur di farle stare in piedi.

Sfarzo e moine. Esattamente quello che Rick odiava di più. E la creme de la creme statunitense a lanciarsi sguardi tra il lascivo e il minaccioso, in quell’incontro di falsi buoni propositi per le festività natalizie.

La scritta Galà di beneficenza svettava scarlatta sulla parete. Chissà se qualcuno lì dentro sapeva cosa significata beneficenza.

Rick allargò il nodo della cravatta con due dita; in quel buco di ricconi si sentiva soffocare, ed erano arrivati da nemmeno dieci minuti.

- Posso presentarle il mio accompagnatore, nonché collega? Rick –

Garland lo richiamò, con il sorriso più falso e circostanziale che avesse mai visto addosso a una persona. Accanto a lui, una coppia di mezz’età, abbigliata con colori coordinati, era pronta ad attaccare bottone su chissà quale inutilità.

- Ma che piacere! Abbiamo sentito parlare di lei ovviamente. Non quanto il vostro capitano, certo, ma ... –

- Sì, certo, è un piacere anche per me –

Pronunciare quella frase fu per Rick doloroso quasi quanto la diarrea del post pranzo. Un’impercettibile crepa corrugò la fronte del marito della coppia. La bocca di Rick assunse una lieve curvatura; gli dava un immenso piacere sapere di non andare a genio a quella gente.

La donna cercò di portare avanti la discussione, mirando apertamente a Garland. D’altra parte, tutti avevano sentito l’odore del suo portafoglio non appena erano entrati nel salone.

- Allora giovanotti, cosa vi porta qui? È il primo ricevimento che ha l’onore di vedervi partecipi -

- Ah, nulla, siamo semplicemente sensibili alle iniziative degne di lode. È la prima volta che le offerte del galà andranno in beneficenza –

Garland parlava in modo impeccabile, gestendo gli sguardi, i respiri, i sorrisi rivolti agli interlocutori. Era a suo agio, a modo suo. Sapeva nascondere il ribrezzo verso quella gente, impomatata nei loro soldi freschi di stampa, che non vedeva l’ora di saltare addosso a lui, alle sue casse e al buon nome della sua famiglia.

- Ho saputo che di recente la Icarus Bank ha aperto un’altra filiale. Torres è venuto a festeggiare?-

Gestì la domanda con una naturalezza tale che sembrò totalmente casuale. L’uomo lo guardò un po’ stranito.

- Un’altra filiale? Non ne sapevo nulla-

Garland fece il finto tonto, portando avanti il suo giochetto.

- No? Chiedo scusa, devo essermi confuso. Allora chissà se lui sarà presente –

- Ah, se è per quello, Torres non mancherebbe il galà per nulla al mondo!-

Garland sorrise con gli occhi.

Bingo

Rick aveva cominciato a seguire il discorso solo al nome Torres. Arraffò una tartina dal vassoio di uno dei numerosi camerieri, ingurgitandola incurante di cosa ci fosse sopra. Garland, senza scomporsi minimamente, stava tirando avanti le fila del suo trucco. Muoveva i due coniugi verso ciò che voleva, come un abile burattinaio.

- Ne sono convinto, una personalità del suo calibro non poteva mancare –

- Ma certo, siamo tutti orgogliosi della sua presenza ... –

La donna lanciò un paio di occhiate dietro di lei. Cercava evidentemente una scappatoia, visto che Garland non aveva intenzione di chiacchierare di conti e investimenti. Intravide una giacca verde smeraldo, e trovò l’aggancio giusto.

- Ah, eccolo lì! Parli del diavolo ... si dice così, no?-

Con un cenno della mano guantata di rosso indicò un uomo alto, che si stava immergendo tra l’elegante folla. Rick deglutì.

Finalmente

Garland si congedò più elegantemente e rapidamente possibile dai due. Con un’occhiata rapida invitò il collega a seguirlo. Si aggiustò i gemelli ai polsini della camicia nera, avvicinandosi all’orecchio di Rick. L’americano rabbrividì a sentire il suo fiato sul collo.

- Sorridi. Fingi di essere a tuo agio, non lo avvicineremo mai se tieni quella faccia. Sembra che tu sia pronto a prendere qualcuno a pugni –

- Sono pronto a fare di tutti pur di uscire di qui – sussurrò Rick di rimando.

Garland fece finta di niente, sorridendo amabilmente agli sguardi che incrociavano il loro cammino.

- E lascia parlare me –

 

...........................

 

Si erano mossi rapidi, lisci e silenziosi. Michael aveva preso in prestito l’auto di Judy e li aveva accompagnati fino a un paio di isolati prima del grattacielo. Li aveva salutati con un’occhiata un po’ preoccupata. Non tanto per loro; piuttosto per quello che avrebbero potuto fare.

- Quando avete finito chiamatemi. Ci ritroviamo qui –

Boris e Ivan non avevano neanche risposto.

Si erano incamminati tra la folla e il traffico del sabato sera in pieno centro newyorkese, completamente a loro agio, come se non stessero per irrompere in uno degli attici più costosi della città. Le mani nel cappotto, il pelo del cappuccio a sfiorargli le guancie, Boris si era un po’ pentito di non aver preso la pistola con sé.

- Eccolo –

Ivan indicò l’edificio con un cenno del capo. Si fermarono col naso all’insù. Era certamente una faccenda rischiosa; 84 piani, e loro miravano all’ultimo. Il più piccolo diede una pacca alla borsa a tracolla, nascondiglio sicuro del piccolo portatile preso in prestito dal laboratorio. Il suo pc era troppo grande, sarebbe stato d’intralcio. A malincuore Emily si era dovuta separare da un pezzo di attrezzatura.

- Andiamo –

Boris annuì.

Con calma, come fossero due amici a passeggio, aggirarono l’edificio, infilandosi in una viuzza parallela. Avevano studiato il perimetro del grattacielo; ovviamente sapevano cosa stavano facendo. Non potevano certo passare dalla porta; c’erano sicuramente dei facchini, e gli impeccabili uomini alla reception li avrebbero notati subito. due gatti randagi in mezzo ai grassi piccioni.

C’era una recinzione a dividere il capolinea del vicolo dal retro dell’edificio. Nulla di insormontabile; in un paio di salti l’avevano già superata. Sgusciarono dietro quello che sembrava il camioncino della lavanderia, appena in tempo per sfuggire agli sguardi di due donne delle pulizie. Scaricavano cesti pieni di lenzuola, troppo occupate per far caso agli intrusi. Con un cenno del capo, Boris e Ivan si divisero, raggiungendo l’entrata di servizio del personale da due lati opposti. Scivolarono dentro. Boris afferrò da terra una cassa, probabilmente conteneva bottiglie di vino, e Ivan fece altrettanto. Passarono inosservati fino all’ascensore; nessuno faceva caso a loro, coperti dalle casse, nel traffico generale di quella sera.

Facile come bere un bicchier d’acqua.

Appena le porte dell’ascensore si chiusero i due lasciarono la presa sui travestimenti improvvisati. Ivan si sedette a terra a gambe incrociate, aprì il pc e si mise a scartabellare.

- 84 piani ... – Meditò il più piccolo.

- Pensi di farcela?-

Boris era ironico. Sapeva benissimo che l’amico aveva già preparato tutto. Ivan ghignò.

- Per chi mi hai preso?-

Un numero illuminato li avvisò che erano già a metà strada verso l’attico. L’ascensore poteva fermarsi in ogni momento, chiamato da qualche fattorino o chi per lui. Era un piccolo rischio; si sarebbero inventati qualcosa.

- 68 ... 69 ... 70 ... –

Boris contava i piani sottovoce. Fece scrocchiare le nocche; un suono che gli distendeva i nervi ogni volta.

- Ci siamo –

Ivan si alzò rapido; infilò il pc nella borsa senza spegnerlo.

Era tutto pronto.

Le porte si aprirono. I due uscirono rapidi, ma abbastanza a loro agio dal non dare nell’occhio. Comunque in giro non c’era nessuno. Il corridoio accanto agli ascensori si gettava su una finestra alta e stretta; il caos della Grande Mela entrava prepotente, ma lo smog faticava a salire fin lassù. Si erano dovuti fermare due piani prima; l’attico aveva l’ascensore privato. Un’ennesima scocciatura, ma risolvibile.

Dal cunicolo in cui era infilato l’ascensore del personale non ci misero molto ad arrivare al pianerottolo, da dove si dipanavano le lussuose stanze. Risalirono su un secondo ascensore, questa volta quello per gli ospiti, scendendo subito al piano superiore.

Da lì cominciava la parte divertente.

Ivan tirò fuori dalla borsa una corda legata a un arpione. Agganciò l’arpione all’apposita pistola, poi si sporse da una finestra posizionata esattamente come quella del piano di sotto. Era sempre stato bravo a sparare. Il più bravo, almeno nella squadra. Con un colpo secco, la corda andò ad aggrapparsi all’ampia vetrata dell’attico. Il ragazzo saggiò la resistenza della loro via d’entrata, dandole un paio di strattoni.

- Ok. Ora viene il bello –

 

...................

 

Inseguirono la giacca verde di quell’uomo per venti minuti buoni. Ad ogni passo qualcuno li fermava, attentando a Garland con noiosissimi discorsi sull’alta finanza, di cui non interessava nulla a nessuno. Tornavano all’attacco, e Torres non si vedeva più; come per magia si smaterializzava, per ricomparire all’altro lato del salone. E allora eccoli di nuovo in azione, ed ecco un nuovo, impomatato riccone a correre dietro l’odore di ricchezza e nobiltà emanato dal rampollo dei Siebald.

Garland declinò l’ennesimo scocciatore con un sorriso.

- Che palle – Soffiò Rick.

L’amico gli arrivò una gomitata di nascosto.

- Zitto –

Si guardò intorno, cercando di non dare nell’occhio.

- Dove cavolo è ... –

Rimbalzavano da un lato all’altro del salone da interminabili minuti, e la cosa cominciava a farsi snervante. Rick attirò la sua attenzione, ammiccando verso un trio di uomini in giacche dai colori osceni.

- Laggiù –

Si avvicinarono a passi lenti ma decisi. Garland adottò lo stratagemma in uso per non far distrarre i cavalli: munito di un metaforico paraocchi, finse di non vedere tutti quelli che gli sfilavano accanto con accattivanti sorrisi, e noiose intenzioni.

Aveva un unico obiettivo, e si era stancato di rincorrerlo. Si preparò mentalmente un modo di attaccare bottone senza sembrare innaturale. Con un’occhiata fugace ricordò a Rick di stare al suo posto. L’americano comunque non aveva nessuna intenzione di diventare il protagonista di un’ennesima, terribile chiacchierata sulla finanza. Era lì solo per fare presenza.

Quando fu a due passi dall’obiettivo, Garland non poteva crederci.

Ci siamo

- Ma guarda, Torres! È un piacere poterti conoscere!-

Sfoderò il suo miglior sorriso, portandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli argentei con una naturalezza invidiabile. Rick, a due passi da lui, cercò di non sembrare un manico di scopa, tradito dal costante picchiettare a terra della scarpa tirata a lucido.

L’uomo tirato in causa, la loro preda della serata, era talmente alto da sovrastare i suoi interlocutori. La giacca verde era abbastanza aderente da rivelare un fisico non giovane, ma nemmeno fiacco. Mentre si avvicinavano, nell’elegante caos delle chiacchiere da galantuomini, Garland fu quasi sicuro di aver sentito un accento ... particolare. Straniero, ma che in qualche modo gli era familiare.

Torres impiegò qualche secondo per prestare loro attenzione. Si voltò con calma, una mano in tasca e l’altra a pendere lungo il fianco.

Voltò il capo, rivelando il profilo di un naso aquilino e appuntito. Sulla fronte gli ricadevano ciocche che, seppur ingrigite, avevano mantenuto una particolare tonalità di viola scuro. Quando gli occhi, piccoli e cadenti, si puntarono sui due blader, quello fu l’unico momento di tutta la serata in cui Garland si trovò senza parole.

Cazzo

 

..................................

 

- Ci siamo –

Erano saliti senza troppi problemi fino alla finestra dell’attico. Boris l’aveva aperta, scassinandola dall’esterno con una velocità disarmante.

- Un po’ fragile, per essere un attico ... –

- Tanto meglio per noi –

Ivan aveva disinnescato gli allarmi prima di salire. Non c’erano guardie, animali domestici pronti a fare casino, luci accese o rumori sospetti. Tutto era buio, silenzioso, assolutamente privo di presenze umane.

Tranne loro due.

Non accesero la luce. Meglio non rischiare. Ivan lanciò a Boris una torcia, accendendo la sua.

- Quanta roba hai infilato in quella borsa?-

- Il necessario ... da dove cominciamo?-

L’attico aveva un piano superiore costruito come un soppalco; si gettava sul resto dell’appartamento con un balcone in vetro. Boris lo indicò con un cenno del capo.

- Tu comincia da lì. Io dò un’occhiata qua sotto –

- Roger –

Non sapevano esattamente cosa cercare. Potevano esserci dei documenti, come dei file; un computer, come una cassaforte. Potevano esserci entrambi. O poteva non esserci nulla. In ogni caso avevano i minuti contati, ed era meglio uscire di lì nel minor tempo possibile.

- Vorkov ... Vorkov ... Cosa hai nascosto qui?-

Boris tastò le pareti alla ricerca di un nascondiglio, uno di quelli che si vedono nei film, mimetizzati dietro un quadro. Trovò solo la cassaforte, ben in vista. Non ci volle tutto il suo genio per aprirla.

Scartabellò tra i documenti, facendo scivolare fogli, assegni e banconote a terra.

- Non c’è un cavolo ... –

Ad ogni suono tendeva l’orecchio. Riconobbe i passi di Ivan al piano superiore, distinguendoli dai clacson che il vento portava dalla strada distante un’ottantina di piani. Erano pronti anche nel caso Torres fosse tornato in anticipo. Ma era meglio che non accadesse. Non sarebbe stato indolore, almeno per il proprietario di casa.

- Trovato qualcosa?-

- Non urlare!-

Ivan gli lanciò in testa una ventiquattrore in pelle nera. Boris si massaggiò il capo, cominciando a frugare dentro la borsa con poca grazia.

- Niente – Soffiò – Ma siamo sicuri che quest’uomo centri qualcosa?-

Dove si tenevano dei documenti importanti? Forse addirittura segreti? In banca, in un caveau ... in un archivio. O in un nascondiglio segreto. Chi poteva tenere in casa qualcosa che scottava così tanto da poter dare fuoco all’Amazzonia?

Eppure, era lì che loro stavano cercando.

Boris si grattò il mento.

Un nascondiglio ...

Puntò la torcia attorno a se. La luce si scontrò sui mobili, sul divano, sull’enorme televisione ... e su una vetrinetta fornitissima di elaborate bottiglie di vetro. Il ragazzo sogghignò.

- Ci starebbe un bicchierino ... –

Ci si avvicinò col chiaro intento di intascarsi almeno una di quelle meravigliose, costosissime bottiglie; in qualche modo sarebbe riuscito a infilarla nella borsa di Ivan. Poi un particolare attirò la sua attenzione. Sull’enorme scrivania svettava un mappamondo in metallo molto elegante. La luce della torcia ci finì sopra quasi per sbaglio. Boris fece girare la sfera un paio di volte, incrociando gli occhi sulla Russia.

Mio dio, quanto mi manchi

Non era uomo da sentimentalismi; ma per la sua patria, questo e altro. Per quanto la vita in quel posto lo aveva fatto soffrire, c’era sempre una parte di lui che bramava le silenziose distese di ghiaccio.

Sospirò, poggiando una mano sopra il globo terrestre.

Poi sentì un click.

Si allontanò di scatto. Il perno che fissava il mappamondo alla parte superiore dell’asta ricurva si rialzò silenzioso; nella sfera si aprì una fessura, che andò ad allargarsi. Metà del globo stava scorrendo su se stessa. Boris la guardò con le sopracciglia arcuate verso il cielo, senza capire bene come avesse fatto. Terminato il meccanismo, il globo gli presentò la sua cavità. Il ragazzo ci mise subito la mano dentro, tastando alla ricerca di qualcosa, fino a toccare una piccola scatola.

Trovato

Infilò in tasca il contenitore, non più grande del palmo della sua mano. In quel momento la voce del compagno lo richiamò.

- Boris –

Lui sorrise vittorioso.

- Ci siamo Ivan, missione compiuta –

- Dobbiamo andarcene –

Un moto d’ansia tradiva il tono dell’amico. Boris si affrettò su per le scale, raggiungendolo sul pianerottolo.

- Perchè? Che c’è?-

La torcia di Ivan era puntata sul pavimento. A due passi da loro, riverso a terra, il corpo di un uomo li guardava con occhi vuoti. Il foro di un proiettile era ben visibile in mezzo alla fronte.

Boris deglutì.

- Cazzo –

 

 

.........................

 

 

- Il piacere è tutto mio –

Rick aveva avuto poche volte l’onore di scontrarsi con il volto del monaco. Ma lo ricordava bene; ricordava gli occhietti malvagi, i modi di fare eleganti e altezzosi, i sorrisi falsi. Nella sua testa prendeva le forme di un dispettoso demone, e aveva assistito con piacere alla sua caduta, al campionato di dieci anni prima.

Non si aspettava certo di vederselo ricomparire davanti. E Garland meno di lui.

Il ragazzo era impietrito, totalmente impreparato davanti a questa sgraditissima sorpresa. Cominciò a sudare più del dovuto, imponendo al suo respiro di tornare regolare. Si stava facendo prendere dall’ansia; e di questa emozione Vorkov se ne nutriva.

Il monaco scoccò ai due un’occhiata vittoriosa, che subito si tramutò in un sorriso falso.

- Aspettavo di parlarti. Sono sicuro che abbiamo tante cose da dirci –

Garland avrebbe voluto fare un passo indietro, ma non lo fece. Rick prese l’iniziativa al suo posto. Con un gesto forse troppo teatrale alzò il polso sinistro, guardando l’orologio.

- Ah, accidenti! Ci eravamo dimenticati di un impegno importante!-

Mise con fermezza una mano sulla spalla di Garland.

- Dobbiamo andare amico. Rimanderemo la chiacchierata –

Il blader non si mosse. Puntava gli occhi su quell’uomo, quello che lo aveva usato, che gli aveva fatto fare cose orribili vendendole per oro, montandosi sul capo un’aureola fittizia.

Oh, ma un falso assolutamente ben fatto.

Vorkov si era incatenato ai suoi occhi, e il suo sguardo valeva più di tutte le parole di vendetta.

- Garland –

Si riscosse. Rick gli lanciò un’occhiata tra il frettoloso e il preoccupato, mantenendo una discreta faccia tosta. Gli altri due uomini, quelli che stavano parlando con Vorkov, sembravano non capire.

- Oh, certo, quell’impegno –

Garland sfoderò di nuovo la sua naturalezza, che gli venne più rigida. Rivolse un forzatissimo sorriso al monaco.

- Mi dispiace molto Torres¸ sarà per un’altra volta –

- Sarà un piacere. E magari potrò incontrare anche i vostri compagni. A proposito ... – Puntò sui due i suoi occhi cattivi, infiammati di odio. Sorrise di nascosto, se quel ghigno si poteva comparare lontanamente a un sorriso. 

Faceva del male perché poteva e voleva farlo, e mai come ora era pronto a ferire e nutrirsi della loro paura.

- ... Ho saputo che la Neo Borg ha subito un lutto. Porta a quei ragazzi le mie condoglianze –

Rick avrebbe voluto spaccargli la faccia, lì, in mezzo a tutti. Non gli interessava dei russi, e non conosceva Rosemary. Ma quello stronzo era lì, con la faccia come il culo e l’impertinenza di liberare le sue trame da psicopatico davanti a tutti, e a nessuno stava fregando assolutamente nulla. Nessuno aveva mosso un dito davanti a lui, nonostante fosse palese a tutti l’identità di quell’uomo, che sicuramente non era Torres.

Lo scatto repentino di Garland frenò ogni sua iniziativa. Il ragazzo girò i tacchi con una velocità impressionante, con il sorriso di circostanza ancora stampato in volto.

Si fermò prima di essersi allontanato del tutto.

- Non mancherò. E sono certo che verranno di persona a ringraziarti dell’interessamento –

Poi afferrò Rick per una spalla, spingendolo con disinvoltura verso l’uscita. I passi rapidi mettevano quanto più terreno possibile tra loro e il monaco; il sorriso nascondeva il respiro affannato. La porta del salone sembrò quasi una benedizione, ma Garland si permise di respirare solo quando se la fu chiusa alle spalle.

Lui e Rick si scambiarono un’occhiata rapidissima. Poi, allungando ancora di più il passo, si fiondarono nel primo ascensore a tiro.

Rick si levò con malagrazia la cravatta, aprendosi i primi bottoni della giacca. Garland armeggiò con il cellulare.

- Quel bastardo ci ha fregati –

- Garland? Dove siete? Come state?-

- Ming, non uscite, non fate nulla, serratevi nel laboratorio. E cominciate a cercare un’altra sistemazione-

La ragazza rispose prontamente.

- Va bene­-

- Avverti Kai. Sanno che siamo qui, e che indagavamo su Torres –

- Come?-

­- Te lo spiego più tardi –

Quando le porte dell’ascensore si aprirono, i due si fiondarono fuori. In un minuto erano già alla macchina, gettandosi attorno occhiate discrete, sperando che Vorkov non avesse deciso di fargli altre sorprese per quella sera.




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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***



Capitolo 17

 

Nel laboratorio era calato il silenzio. Emily era rimasta con il tablet a mezz’aria, Hilary si copriva la bocca con la mano. Kai lanciava fiamme dagli occhi, e Yuriy avrebbe potuto uccidere con uno sguardo.

 

Boris, Ivan e Michael erano tornati poco prima di Rick e Garland. Senza por tempo in mezzo avevano spiegato la situazione, con parole scarne e lapidarie: qualcuno aveva fatto fuori Torres.

Non avevano fatto in tempo a preoccuparsi di capire come fosse successo, e soprattutto perchè, che Ming Ming aveva ricevuto la chiamata di Garland. Si era allontanata dalla sala, per tornarci un attimo dopo seria in viso. Con gli occhi assottigliati e la voce piatta, aveva annunciato che erano ufficialmente in pericolo.

Kenny stava quasi per svenire, ma Max lo sorresse.

Cinque minuti dopo Garland e Rick erano tornati. Avevano parcheggiato con una sgommata, si erano richiusi le porte del laboratorio a doppia mandata dietro di loro e si erano fiondati dagli altri blader. Sembravano usciti da un campo di battaglia. Rick aveva la camicia completamente aperta e la giacca dispersa chissà dove, e dall'elegante coda dI cavallo di Garland sfuggivano la metà delle ciocche grigie. Senza mezzi termini avevano raccontato la serata. In due parole avevano descritto l’incontro con quello che doveva essere Torres, soffermandosi sull’infarto che gli aveva procurato l’orrenda sorpresa di trovarsi davanti Vladimir Vorkov.

Sergej si era alzato di scatto dalla sedia. Boris aveva preso direttamente a pugni il muro, mentre Ivan cercava di non imitarlo, trattenendo a stento gli insulti nella sua madrelingua. Yuriy era letteralmente esploso in copiose bestemmie, mettendosi a litigare con Kai, come se lui ci potesse fare qualcosa.

Nessuno aveva avuto il coraggio di fermarlo. Sembrava completamente indemoniato.

Si era risolto tutto solo quando, con la voce ormai rauca, il capitano dei Neo Borg aveva lasciato la comitiva a passi svelti, seguito da Kai, che ancora aveva fiato da vendere.

Sergej si sedette di nuovo. Gettò il capo all’indietro, cercando di controllarsi.

Non va bene. No, non va bene per niente.

Garland si tolse la giacca, gettandola in un angolo.

- Mi dispiace. Ci ha presi totalmente alla sprovvista –

- Non avreste potuto fare molto –

- Già ... –

Hilary si sedette; le gambe stavano minacciando di farla cadere.

- M-morto ... quell’uomo è ... –

- E noi faremo la stessa fine se non ce ne andiamo –

Mao saettò gli occhi su Ivan, stringendoli fino a farne due fessure.

- Potresti evitare certi commenti macabri –

- Se volevate stare tranquille potevate starvene nella vostra casa delle bambole –

La cinesina gonfiò le guance. Ivan non la guardava nemmeno, perso in chissà quali pensieri, in chissà che tipo di brutti ricordi a giudicare dalla ruga che gli percorreva la fronte. Emetteva sentenze acide senza bisogno di pensare, in automatico.

Hilary stava a capo chino a stringersi i lembi della felpa fucsia con le mani. Emily si era messa dietro al pc a cercare chissà cosa, Max e Kenny semplicemente non provarono nemmeno a formulare una frase. Il silenzio regnava sovrano, tra chi non sapeva cosa dire e cominciava a sentirsi fuori posto, chi non parlava per non sembrare scontato, e chi di parole ne avrebbe avute troppe, tutte molto brutte.

In quell’ovattata sensazione di disagio, vibravano nell’aria parole di una lingua a molti incomprensibile pronunciate con cattiveria dal capitano dei Neo Borg, dall’altra parte del corridoio. Risposte di fuoco alle altrettanto focose imprecazioni di Kai.

Un Mon Dieu si perse nel silenzio. Mao annuì, in tacito accordo con il francese.

- Sì, davvero –

- Come ha fatto? Io ... non capisco -

Emily scartabellò al computer, battendo con forza le piccole dita pallide sui tasti – Questa è una presa in giro bella e buona –

- In che senso Emy?-

- è morto un uomo, e nessuno si è accorto che Vorkov lo ha sostituito? Siamo seri? Dai, ok che siamo in America, ok che chiunque può girare armato, ok che quell’uomo ha amici potenti ... ma in un gala, pieno di persone, nessuno si fa delle domande?-

Ivan esplose in una brevissima risata. Sergej lo fulminò con un’occhiata, ma ormai l’amico era partito per la tangente. Il ragazzo rivolse all’americana uno sguardo di falso stupore. 

- Cavolo, non lo avrei mai detto. Non avrei mai pensato che degli schifosissimi ricconi potessero difendere qualcuno solo perchè gli fa comodo. Davvero, com’è possibile fare qualcosa solo per i soldi? Mio dio, che scandalo –

Le dita di Emily fremettero sui tasti.

- Non intendevo questo ... –

- No? E allora cosa intendevi?-

- Io ... –

- Te lo dico io cosa – La interruppe bruscamente – Intendevi che tutto questo non è giusto. No? Non è questo che volevi dire? Che non è logico. Bene, mia cara dottoressa, forse non lo hai notato ma questa non è una fiaba di principesse, dove alla fine vivono tutti felici e contenti –

Emily era congelata dietro al pc, abbastanza incredula. Avevano accolto quei ragazzi, si erano offerti di aiutarli ... cavolo, lei aveva persino speso le ultime giornate a studiare Falborg per cavarci qualche cosa, non aveva capito nemmeno lei cosa. E ora in pratica la si accusava di vivere nel mondo magico dei mini pony?

La sua geniale mente stava elaborando una risposta che avesse il giusto connubio di razionalità e acido, ma Mao fu più rapida. Ancora piccata per i commenti che il russo le aveva rivolto in aereo, si allontanò da Hilary per fronteggiare il ragazzo.

- Ora mi hai davvero stancata –

Ivan non si scompose nemmeno. La guardò con aria di sfida, la stessa con cui, ormai tanti anni prima, aveva guardato volare fuori dal campo i bey della squadra americana al torneo di beneficenza.

Davanti a quegli occhi velenosi, Mao non perse l’indole combattiva – Stiamo rischiando grosso per voi, perché vogliamo aiutarvi, perchè vi riteniamo amici. Potete smetterla di trattarci come degli imbecilli?-

- Nessuno vi ha chiesto niente. E mi sembra che vi abbiamo già ringraziato –

Emily decise che quello era il momento buono per inserirsi nella discussione.

- Che bisogno c’è di essere così arrogante, me lo vuoi spiegare? Mi sembra che abbiamo già abbastanza problemi, non c’è bisogno di crearne altri –

- Non credo di aver chiesto la tua opinione –

- Il problema è che non chiedi quella di nessuno, e di conseguenza sbagli –

Per un attimo Ivan fece saettare sull’americana gli occhi, infiammati di un accenno di collera e un pizzico, ma anche due, di orgoglio ferito. Emily non si lasciò intimidire; non troppo almeno.

- Non credi che anche noi, poveri mortali, ormai ci siamo abbastanza dentro a questa storia? E che magari, dico magari, se riusciremo a fare passi avanti sarà anche grazie alle nostre capacità? Anche grazie a me che, così per dire, ho un computer davanti da quando sono nata?-

- Non mi frega nulla della tua vita, quando sono nato io davanti ho avuto cose molto peggiori –

- Non è una gara a chi è stato meno fortunato, voglio solo dire che questi litigi sono stupidi! Siamo qui per aiutarvi!-

- Quando saprai impugnare un’arma e sparare dritto tra gli occhi di un uomo potrai esserci davvero utile -

- Ivan –

Il vocione di Sergej risuonò tra le pareti, paralizzando il compagno di squadra. Non era più il tono diplomatico, amichevole, quello che il biondo aveva cercato di sfoderare anche nelle occasioni peggiori per mantenere la calma. Era una voce profonda, severa, accompagnata da un paio di occhi piccoli e freddi che penetrarono quelli cremisi di Ivan in una richiesta, piuttosto esplicita, di darsi una calmata.

Il più piccolo alzò le spalle, come a volersene fregare, ma non disse più nulla. Si alzò e se ne andò a grandi passi, più che intenzionato a non vedere nessuno degli ospiti di quel laboratorio almeno fino alla mattina dopo.

Il volto indurito di Sergej si rilassò; le spalle si abbassarono e un lungo sospiro gli fuoriuscì dalle labbra.

Le parole di Ivan erano state taglienti come una lama, più di quello che Emily si aspettava. Un sonoro schiaffo, che le fece ricordare una cosa che ogni tanto il suo cervello metteva da parte: il rischio della vita. Si ricordava quel che avevano raccontato i giapponesi. Al dojo erano arrivati uomini armati, avevano sparato a Mao, e per poco non lo facevano anche con Rei. E, prima ancora, non avevano esitato a ferire Kai in casa sua.

- Scusateci – Sergej si passò due dita sugli occhi – Siete stati molto gentili a volerci aiutare, ma credo sia stata una pessima idea –

- No!-

Gli occhi dei presenti, fino a quel momento rimasti a fissare ovunque tranne che il centro della stanza, si alzarono tutti su Hilary. Lei si accorse di essersi lasciata scappare il commento troppo presto, e con troppa enfasi, arrossendo fino alle orecchie. Le piaceva essere al centro dell’attenzione; adorava sentirsi la paladina della giustizia, il braccio su cui fare affidamento per aggrapparsi, la mano da afferrare nel momento del bisogno. Ma di tutta quella storia ne capiva poco. Troppo poco. E questo la faceva sentire continuamente fuori posto, come una gazzella in uno stagno di coccodrilli. Come se lei fosse la gabbianella e chiunque altro il gatto; ma il gatto non era Zorba, e la storia finiva molto prima che l’uccello imparasse a prendere il volo.

Poi però la giapponesina tirò su la testa, che stava per scomparire fra le spalle, puntando sull’enorme ragazzo russo i suoi determinati occhi nocciola. Non era più una bambina. E se davvero non voleva apparire come un peso, tanto valeva darsi da fare. Poi non si era mai fatta problemi a dire quello che pensava. Non avrebbe certo cominciato ora.

- Io sono ... sono contenta di essere qui. No. Sono fiera di esserci, di non aver ... abbandonato qualcuno nel momento del bisogno, soprattutto se si tratta di amici –

Si alzò, asciugandosi un occhio ancora umido con il polsino della felpa. Ne aveva abbastanza di lacrime. E sapeva, era sicura, che avrebbero continuato a scendere, che avrebbe pianto ancora. Ma per quel giorno poteva bastare.

- Mi dispiace solo vedere che non riuscite a fidarvi, ma vi capisco. Cioè, con quello che avete passato ... è ovvio, credo. Ma ... ma adesso, ormai siamo tutti qui, e abbiamo bisogno di stare uniti. Come dieci anni fa, sempre contro quel Vorkov –

Sergej sostenne il suo sguardo con severità, quel tipo di severità adulta, ma non cattiva. Quella con cui gli adulti si guardano mentre discutono delle loro idee, mettendosi davvero ad ascoltare le opinioni l’uno dell’altro. Era la severità maturata con il tempo, e Hilary fu felice di essere presa sul serio in quel modo, senza lo sguardo carico di pietà di chi in lei vedeva una ragazzina cresciuta tra gli abbracci della mamma.

Si sentì grande. E il pensiero le diede la spinta per raddrizzare meglio le spalle, e non distogliere lo sguardo.

Sergej le rispose a tono, senza nasconderle niente – Non dovevamo raccontarvi questa storia. È stato per quello che ci siete caduti in mezzo. Non ero d’accordo con Yuriy quando è voluto andare al dojo a tutti i costi per chiamare Andrew. Ma lui è il capitano, e sa quello che fa –

- Ma ormai siamo qui!- Hilary prese a gesticolare, sostenuta dai cenni del capo di Emily e Mao – Non si torna indietro. A questo punto, tanto vale darci più sostegno possibile –

- E come?-

Hilary restò interdetta. Non si aspettava una domanda del genere, e non poteva certo rispondere con un gli amici si aiutano a vicenda, molto alla Takao. Belle parole, ma che di pratico non avevano nulla. Invece Sergej, che non aveva sbattuto un momento le palpebre davanti al bel monologo della giapponesina, sembrava tacitamente chiedere proprio questo: un piano. Uno che non fosse quello di Yuriy, che avrebbe preso a morsi chiunque giunti a quel punto, sbattendosene della discrezione. Un piano che avrebbe limitato le perdite e li avrebbe tenuti tutti in vita. Un piano molto convincente, perchè a lui la determinazione della ragazza poteva aver fatto buona impressione, ma, ne era sicuro, i suo compagni di squadra sarebbero stati inamovibili.

Fu la grinta vestita di rosa e dagli occhi d’oro che si fece avanti.

- Chi era Rosemary?-

Il primo fremito della serata trapassò gli occhi del russo. Mao continuò, sicura che la sua via d’azione fosse la più giusta.

- è cominciato tutto per lei, giusto? E adesso ... dai, lo hanno visto tutti, da quando è ... beh ... morta ... la situazione è peggiorata. Non penso di sbagliare se dico che siete tutti più ... non lo so –

- Acidi?- Azzardò Emily.

- Scorbutici – Precisò Olivier, che solo in quel momento decise di poter tornare a parlare senza rischiare la vita.

- Comunque – Mao riprese il filo del discorso – Quello che voglio dire è che non possiamo capirvi se voi non vi spiegate. Come facciamo a starvi dietro? –

- Rosemary non c’entra più nulla ormai – Sergej fu lapidario. Si alzò di scatto, come se tutta quella faccenda lo avesse improvvisamente messo a disagio – Il discorso è chiuso –

Se ne andò, attento a non incrociare gli occhi con nessuno, più che fermo nella sua convinzione che per la loro causa non sarebbe servito soddisfare la curiosità di quei volenterosi ragazzi. Quando si fu allontanato, Olivier tirò un sospiro. La tensione lo stava per soffocare, quasi quanto il sonno.

- Impenetrabili come una colata di cemento armato. Sto cominciando a pensare che quel russo abbia ragione: aiutarli è stata una pessima idea –

- Non sono qui per aiutarli, ma per vederci chiaro – Garland liberò i capelli dall’elastico, sotto gli occhi estasiati di Mao nel veder svolazzare quei bellissimi fili argentati – è tardi ora, e ci dormiremo su. Ma, considerando quello che è successo stasera, non credo che potremo rimanere in questo posto ancora a lungo –

- Pensi – Emily deglutì; sapeva dove l’altro stava andando a parare – Pensi che Vorkov verrà a cercarci?-

- Dopo che hanno smascherato la sua complice ha cominciato a sfoderare le armi pesanti. E adesso è addirittura uscito allo scoperto. Sì Emily, io penso proprio che non si farà più nessuno scrupolo per portare a termine quello che ha cominciato. Evidentemente ha visto che con le buone non ha cavato nulla, e ora ... è pronto con le cattive –

............................

 

- Dovevamo muoverci prima, senza aspettare la maledetta festa!-

- Yuriy, mi dici come cazzo facevamo a prevedere che avrebbero fatto fuori Torres?-

- Ma chissene frega! Dovevamo farlo di principio! Non aspettare i vostri piani da damerini in giacca e cravatta solo perché sono una virgola più legali di andare a spaccare la faccia di qualcuno a pugni!-

- Certo, oh, certamente! Infrangiamo trecento leggi, e magari facciamoci sbattere in galera, perchè tanto cercare di dare nell’occhio meno possibile è da damerini!-

- Lo vedi che non capisci un cazzo?!-

- No, sei tu che non ci arrivi! Ci sei dentro da tutta la vita, stupido coglione che non sei altro, e non hai ancora capito che questo è quello che vuole Vorkov! Questo! Vedervi disperati, aspettare che facciate una mossa falsa! –

- Non ti permettere di dire queste cazzate, sai meglio di noi tutto quello che abbiamo fatto per farlo sparire! Per quanto tempo ci siamo dovuti nascondere!-

- E allora, mi dici perchè cazzo adesso non sei più capace di farlo?!-

- Perché lei è morta!-

Ormai era più di un’ora che per i corridoi le loro voci risuonavano come un coro di soprani, acute e taglienti. Ma, mentre la gola di Yuriy era graffiata di ira e odio, in quella di Kai tintinnava ancora una goccia di limpida razionalità.

Lei è morta

È questo quello che voleva sentirsi dire. E, adesso che erano arrivati, al prezzo delle loro corde vocali, al nocciolo della questione, lo avrebbero risolto. Che Yuriy lo avesse voluto o meno. Non come era successo giorni prima alla villa, quando il discorso si era perso per strada e loro due, mezzi ubriachi, erano andati a far parlare la rabbia attraverso i beyblade.

Kai poggiò la schiena alla parete della stanza, senza ricordare come ci erano arrivati a urlarsi in faccia nella camera da letto. Fronteggiò il suo ex capitano con uno sguardo di fuoco, uno di quelli che gli riuscivano benissimo dietro gli occhi limpidi e le sopracciglia corrugate, con quei segni blu che dalle guance urlavano guerra.

- Continua –

Yuriy era come una tempesta. Non potevi far nulla per fermarla, se non lasciarla sfogare, aspettare che scaricasse tutto quello che aveva. Una volta che partiva, bastava solo aspettare.

Il russo ansimava impercettibilmente, con gli occhi così carichi di rabbia che rischiavano di esplodere.

- Continua? Mi sai dire solo questo? Continua?-

Kai stette al suo posto, resistendo alla tentazione di riprendere ad urlargli in faccia – Cosa dovrei dirti?-

- Che ti dispiace! Brutto pezzo di merda, ecco cosa dovresti dirmi! Che avevo ragione, che dovevamo muoverci prima!-

- Questo non l’avrebbe riportata in vita –

- Non parlare di lei come se non te ne fregasse un cazzo! Lo vuoi capire che Vorkov l’ha uccisa? Che è stato lui, con le sue orrende mani, a portarsela via?! Lo hai capito che non tornerà?!-

- E allora? Vuoi che mi senta in colpa? Come state facendo voi da dieci anni?-

Kai non riuscì a trattenere la sfuriata, e Yuriy incassò il colpo.

- L’avete allotanata, perchè la vostra vita era troppo pericolosa per lei. Non avete mai pensato che potreste averla ferita?-

- Lei non avrebbe mai capito. Lo sai come era fatta!-

- E l’avreste dovuto sapere anche voi! È inutile avere i rimpianti adesso -

- Tu non capisci Kai –

- Forse, ma non lo avete fatto nemmeno voi. Non siete mai stati capaci a fare i padri di famiglia, potevate farne a meno con lei –

- Volevamo solo proteggerla!-

- Da cosa? Da voi? Da Vorkov? Beh, non ci siete riusciti mi sembra-

Fu un lampo. Yuriy colmò la distanza tra lui e Kai con un passo, inchiodandolo alla parete. Era a una frazione di un pelo dal tirargli un pugno che gli facesse ingoiare tutti i denti, e magari anche la lingua, con le pupille ridotte a due fessure e uno sguardo feroce in volto.

- Tu non sai niente di noi – Il sibilo arrivò alle orecchie del giapponese, tagliente e sottile – Non sai cosa le era successo al monastero, non sai da cosa cercavamo di tenerla lontana. L’hai sempre e solo vista come una bambina, che piangeva e si lamentava –

Prese fiato per un secondo. Kai attese. Quello era il momento di farlo sbollire, di lasciar scatenare la tempesta.

- Vorkov l’ha trattata come un gioco, ci si è divertito per anni, come se fosse un passatempo vederla stare male. L’ha picchiata, violentata, e ci ha fatto guardare mentre cercava di ridurla in polvere. Siamo stati costretti a farle del male, ma lei non ci ha mai abbandonati. Non ha smesso di ridere, non ha smesso di piangere. Era lì per noi, c’è sempre stata – Ormai la gola non aveva più la spinta per urlare, e la voce graffiava come carta vetrata su una parete – Ma non potevamo farle rivivere un incubo. Lasciarla fuori dai nostri progetti non è stata una scelta, era l’unica via. Non è stato indolore, non siamo stati contenti di farlo, è solo che ... non potevamo fare altro . Appena fosse stato possibile, appena Vorkov fosse sparito dalle nostre maledettissime vite ... saremmo tornati da lei –

Yuriy si allontanò di un paio di passi, lasciando che il respiro si spezzasse, lasciando che i polmoni lo facessero ansimare per raccogliere abbastanza aria. Gli occhi cattivi si riempirono di odio, e la ferita che portava nel cuore divenne quasi visibile dall’esterno.

- Mai lui torna ... torna, in continuazione. Rosemary era l’ultima luce, quella per cui sapevamo che ne valeva la pena di rischiare tutto pur di buttare quell’uomo giù dal suo trono. Era l’ultimo ricordo davvero bello di quel monastero dimenticato da dio. L’ultimo. E come una stupida ha voluto fare tutto da sola, e si è accorta solo alla fine che non ce l’avrebbe fatta. Era una bambina, un’infantilissima ingenua. Era ... era tutto quello che noi non siamo stati –

Si lasciò cadere sul letto di peso, guardando Kai con occhi sempre meno taglienti, mentre la voce diventava bassa, lenta, e la rabbia scompariva. Un velo lucido appena accennato gli appannò lo sguardo, ma sparì subito.

- Le volevo bene. Tanto. Tu non hai idea di quanto gliene abbia voluto. E se Ivan in questi giorni è intrattabile, è per lo stesso motivo. Se Boris si sfoga prendendo tutto a pugni, è per non darli in faccia a qualcuno. Lo stesso vale per Sergej, che preferisce semplicemente stare zitto –

Si passò una mano fra i capelli, lasciando le dita bianche giocare a nascondino tra le ciocche rosso fuoco.

- Voglio solo vederlo morto. Voglio davvero, come non l’ho mai voluto prima d’ora, puntargli una pistola in fronte e premere il grilletto –

A quel punto fu silenzio. Tutta l’ira accumulata fino a quel momento si spense senza fare rumore, come la neve che cade sull’asfalto. Yuriy rimase sul letto, Kai, con le braccia incrociate, appoggiato alla parete. Gli sguardi di fuoco e d’acciaio si erano spenti, lasciando il posto alla quiete scompigliata e stanca che accompagna le tempeste.

- Daichi aveva ragione. Un branco è più forte di un lupo solo. E lo sai anche tu. Ora non venire a farmi la morale da vecchio eremita, non venire a dirmi che sono tutti qui per intralciarti e che avresti sistemato tutto da solo, perché sarebbe una bugia. E tu non sei un bugiardo –

- Non starai per farmi uno dei discorsi da migliori amici, vero Kai? – Yuriy si passò una mano sul viso, tirando dietro tutto i ciuffi rossi che, nella foga della discussione, gli erano caduti sulla fronte. Si permise un breve, tirato sorriso. Il primo dell serata – Da te non lo accetto –

- Non lo accetteresti da nessuno –

- Touchè-

- Io voglio che tu capisca una cosa, Yuriy –

- Che siamo tutti grandi amici e ci vogliamo bene?-

- No, zuccone. Che ci siamo in mezzo tutti. Tu, io, Garland, Takao, Emily, Daichi ... tutti. E non è perchè ci divertiamo all’idea di farci ammazzare. E adesso ... – Si sedette accanto al russo, tenendo le braccia incrociate al petto – non potrete fare più nulla per Rosemary. Nessuno di noi può. Ma – Anticipò Yuriy, zittendolo prima che potesse ricominciare ad inveire – Possiamo combattere, e vincere. E farci giustizia da noi, visto che nessuno lo farà al posto nostro. E questo significa che dobbiamo stare attenti, perchè abbiamo il mondo intero contro –

Si alzò, pronto all’uscita di scena dopo quasi due ore di discussione da malati mentali, per tornare alla calma surreale della notte. Immaginava già lo sguardo impensierito che Takao gli avrebbe sfoderato la mattina dopo, quando lui, e chi come lui dormiva già prima del ritorno di Garland e Rick, sarebbe venuto a conoscenza degli ultimi avvenimenti. Anche se Kai sperava già di affibbiare a Kenny il compito di riassumerli all’amico.

- E smettila di sentirti solo¸ come se non sapessi che hai una squadra pronta a seguirti ovunque. Smettila di sentirti responsabile di tutto. Te l’ho già detto, no? Fidati. O almeno, provaci. Ti potremmo sorprendere –

.............................

 

- E quella?-

La mattina era arrivata presto, troppo presto per chi di loro aveva dormito solo poche, tormentate ore. Michael reggeva in mano un bicchiere straripante di caffè americano, mentre il dito indicava scettico una valigia enorme materializzatasi in camera di Emily. La ragazza fuoriuscì dal piccolo armadio con due maglie per mano.

- Garland ha detto chiaro e tondo che, quasi certamente, Vorkov verrà a cercarci qui. Non ho intenzione di lasciargli i miei vestiti –

- Ti stai preparando alla fuga?-

- E che devo fare? Sarà meglio essere pronti, prima di prenderlo in quel posto –

Michael sghignazzò. Vedere la dottoressa Watson arrabbiata di prima mattina, con i capelli arruffati e gli occhiali storti sul naso, era un privilegio concesso a pochi.

- Non sono d’accordo –

- Con chi?-

- Con Garland. Quell’uomo non può venire qui e fare il bello e il cattivo tempo così, senza conseguenze –

Emily puntò contro di lui lo sguardo più allibito possibile - Michael, ieri sera era a una festa. Davanti a tutti. libero di saltellarsene in giro. Dopo aver probabilmente fatto uccidere una persona –

- E allora? Pensi che possa venire qui, cominciare a sparare e far finta di nulla? Questo è un laboratorio del PPB! Non c’è una torma di ricconi a difenderlo –

- Ma ... ci siamo solo noi! Dimmi, di grazia, come faremo a fermarlo?-

- Se manda dei sicari chiameremo la polizia! ...  Non starai diventando un pelo paranoica?-

La ragazza fermò il suo andirivieni tra l’armadio e le valigie solo per guardare sconfortata il capitano, raggiante con la sua tazza di caffè e la sua innata sicurezza nelle proprie capacità. Si sedette sul letto, gettando al vento maglioni, pigiami e camici da laboratorio.

- Non lo so – Concluse – Non lo so. Ma non resterò qui a scoprirlo. Sai cos’è? Lo sai? … è che Ivan aveva ragione – Le costò uno sforzo immenso dirlo – Noi non ci rendiamo conto di quello che succede. Cavolo ... quando Judy ci ha detto che Max e gli altri erano in pericolo non immaginavo certo un macello del genere –

- Hai trovato qualcosa dentro Falborg?- Michael cambiò argomento, giusto per alleggerire l’atmosfera. Emily scosse il capo.

- Nothing but a bitbeast. Se ci hanno nascosto qualcosa, lo hanno fatto molto, molto bene. Sai Michael, sarà per una questione di orgoglio, ma ormai devo, voglio sapere cosa c’è sotto. Sarà che forse solo noi riusciremo ad aiutarli ... beh, noi, i nostri laboratori, la nostra tecnologia ... –

- Questi mi sembrano discorsi da mammina –

- Non è vero!- Emily saettò su di lui uno sguardo di ripicca, che lo fece sorridere – è che ... bah, mettila come ti pare – Fece per rialzarsi e tornare alle valigie, ma Michael la afferrò per un braccio, facendola ricadere sul letto. Il tempo di lasciare a terra il bicchiere vuoto, e le fu sopra. Emily nascose l’imbarazzo dietro un sorriso furbo, fingendo una sicurezza che non aveva.

- Non è il momento, caro il mio capitano – Gli mise una mano sulla spalla, tenendolo a distanza – Siamo in piena crisi qui, e la porta è aperta –

Michael alzò un sopracciglio, senza smettere di sorridere – E allora? Le crisi si risolvono ... – Appoggiò il peso su un mano, mentre l’altra andava alla ricerca delle ciocche ramate di Emy - ... e le porte si chiudono –

- Sì, beh, ma ti dovrai alzare per chiuderla, perché io non ho la forza del pensiero –

- E se poi tu fuggi?-

- Ah, non garantisco che starò qui ad aspettarti –

L’americano si abbassò su di lei, nonostante la distanza che Emily cercava di mantenere. Il sorriso sul suo volto era sempre più largo. La voce divenne un soffio, e la ragazza lo sentì scivolare fino al collo, rabbrividendo.

- Non credo di voler correre il rischio –

Una parte di lei stava davvero, davvero per cedere alla tentazione, mentre il suo cervello urlava Emily Watson, hai altro da fare. Ma Venere quella mattina dormiva ancora, e la Dea Bendata si era girata dall’altra parte; nessuna divinità si frappose fra i due piccioncini, lo sbocciare del loro amore e il trotterellare di una cascata di boccoli celesti che fece capolino dalla porta, aperta.

- Emy, hai mica vistoooocazzo – Ming Ming si fermò di sasso sullo stipite, riempiendosi gli occhi del capitano degli All Starz a cavallo della sua compagna di squadra. Emily divenne del colore della mela di Biancaneve, rossa come mai una ragazza era diventata. Michael sfoderò un sorriso gigante.

- Ehm, ti dispiacerebbe, beh ... chiudere la porta?-

Gli occhi di Ming si illuminarono. Quelli di Emy si fecero grandi, enormi. Con uno scatto di cui non si credeva capace l’americana sgusciò giù dal letto, lontana dalle amorevoli braccia di Michael. In un lampo raggiunse l’amica, spingendola fuori dalla stanza, gridando qualcosa a proposito dell’essere in ritardo per la colazione.

 

 

- Da chi? E chi è Ralph?-

- Dai, il nostro compagno di squadra! Quello sempre arrabbiato!-

- Gianni!-

Olivier tirò una gomitata all’amico – Non ascoltatelo, non è sempre arrabbiato-

L’italiano tornò a sorseggiare, con malcelato disgusto, l’unico caffè che girava per quel laboratorio.

- Beh, però lo sembra –

- Lo avrai visto un paio di volte Daichi, ma è un tipo affidabile – Takao si batté il petto in segno di garanzia – Te lo dico io. Però ... non volevate evitare di tirarlo in mezzo?-

- Se sarà necessario lo faremo. Garland dice che non potremmo nasconderci qui molto a lungo – Concluse l’italiano, in tono cospiratorio.

Max si pulì le labbra dai residui di latte, dopo aver svuotato nell’enorme tazza una scatola intera di cereali al miele.

- Non è un po’ drastica come soluzione? Siamo appena arrivati, come sanno che siamo qui? Poi pensate davvero che verrà a prenderci di prepotenza, scatenando il caos in un laboratorio del PPB? Io credo che siamo abbastanza protetti –

- Già, ma adesso che facciamo? L’unico appiglio che avevamo è passato a miglior vita –

La sentenza di Gianni rese tutti pensierosi.

Già.

E adesso?

Max si illuminò.

- Wait a moment! Ma Boris e Ivan non avevano trovato qualcosa a casa del banchiere? Una specie di scatola ... non ho visto cosa c’era dentro –

Il tonfo di un oggetto metallico e rettangolare appoggiato sul tavolo in mezzo a loro li fece trasalire. Per lo spavento, Olivier lanciò per aria il bicchiere di caffè, che finì sulla generosa porzione di uova strapazzate di Daichi. Lui non se ne curò, continuando a mangiare.

Davanti a loro si era materializzato Kai che, con la faccia di chi aveva dormito due minuti in una notte intera, aveva palesato l’oggetto di cui stavano tutti parlando.

- Questo – Annunciò laconico – Questo è il qualcosa che hanno trovato a casa di Torres –

Poi si sedette al tavolo, passandosi una mano sugli occhi. Takao lo squadrò come si fa con i malati terminali.

- Hai una faccia, amico ... –

- Credo di non aver dormito un cazzo –

- Vuoi del caffè?-

Kai declinò l’offerta. Ne aveva fin sopra i capelli di quella brodaglia marroncina.

Un istante dopo nella sala comune, o quella che era stata ribattezzata come tale da Max e Kenny in un impeto di riscoperto amore per Harry Potter, fecero la loro comparsa Ivan e Boris, entrambi chini su un plico di fogli.

- Bonjour-

Boris rispose con un cenno della mano, senza alzare la testa dalla documentazione. Lasciò tacitamente a Ivan il compito di dare spiegazioni.

- Questo – E fece svolazzare le pagine intarsiate di caratteri neri – Era lì dentro – Concluse, indicando l’oggetto che Kai aveva barbaramente abbandonato sul tavolo – quello è una specie di disco fisso in miniatura –

- E ci hai trovato quei documenti?-

- Rick ha stampato tutto quello che c’era –

- E ... – Takao azzardò la domanda, pur sapendo che, molto probabilmente, di risposte ancora non ce n’erano - ... Cosa sarebbero?-

Ivan alzò le spalle. Lui e Boris guardavano il foglio come se fosse inciso di geroglifici. Olivier si unì a loro. Indicò un paio di parole, aprì la bocca, poi la richiuse. Stavano penetrando la carta con gli occhi, se avessero avuto dei laser ne avrebbero fatto la scansione. Ma nessuno riusciva a cavarci nulla. Ivan ci aveva già rinunciato; aveva squadrato quell’insieme di lettere e numeri una decina di volte prima di decidersi a stamparlo, e sottoporlo all’altrui giudizio.

Era snervante.

Olivier sbatté le palpebre un paio di volte, come per accertarsi che i suoi occhi non lo stessero prendendo in giro.

- Vi prego, ditemi che non è essenziale per risolvere i nostri problemi –

- Credo – Cominciò Ivan – E badate bene che è solo una mia supposizione, ma credo che qua dentro ci siano nascoste le coordinate del fantomatico arsenale –

Boris alzò un sopracciglio, senza staccare gli occhi dal foglio.

- Seriamente? Mi stai dicendo che ci serve per forza?-

Ivan annuì, alzando e abbassando il capo lentamente.

Due vocette acute, una più allarmata dell’altra, si fecero strada dal corridoio, distogliendo l’attenzione generale dal problema dei fogli. Ming Ming zompettò in sala, trotterellando a due metri dal suolo, mentre Emily la rincorreva con occhi di fuoco e guance altrettanto arrossate.

- Ti giuro Ming, se esce qualcosa dalla tua bocca ... –

- Tesoro, te l’ho detto, no? Sarò una tomba –

Mimando un bacio verso l’americana, la ragazza dai boccoli azzurri si versò un’abbondante dose di caffè.

- Comunque non ci vedo nulla di male –

- MA non dirai una parola. Ok?-

- Ma sì, ma sì!-

- Io ... –

Emily si fermò con il bricco del caffè in mano. Si accorse solo in quel momento del silenzio che si era creato al loro passaggio. Tutti gli occhi erano puntati su di loro.

- Abbiamo ... interrotto qualcosa? –

Gianni alzò le spalle - Solo una questione di vita o di morte, nulla di cui preoccuparsi –

- Watson –

Ivan richiamò l’americana, lasciando a Boris il compito di capirci qualcosa dai fogli che avevano davanti. Si avvicinò a lei a passo di marcia, guardandola fissa negli occhi con una determinazione degna di nota. Le si parò davanti, inchiodandola al buffet della colazione a reggere la caraffa. Per un istante Emily fu tentata di cercare una via di fuga; sembrava quasi che stesse per farle una dichiarazione di guerra.

Invece Ivan chiuse gli occhi, fece un bel respiro, prese il coraggio a due mani e:

- Scusami. Mi sono comportato come un idiota ieri sera. E questo non è un buon momento per essere stupidi – 

L’americana non ne fu sicura, ma giurò a se stessa di aver notato che lo sguardo del ragazzo si abbassava sempre di più verso il pavimento, impercettibilmente. Quasi come se fosse ... in imbarazzo.

- Tutto quello che abbiamo trovato da Torres ... beh, non si risolverà da solo. Ci dai una mano?-

Emily per poco non lasciò cadere la caraffa. L’ultima frase voleva suonare come un ordine nella testa di Ivan, ma l’intonazione vocale si inclinò inesorabilmente verso la richiesta. Persino Daichi, che fino a un secondo prima era immerso nelle sue uova insaporite al caffè, aveva teso incredulo le orecchie. Gli occhi di Max per poco non diventarono a forma di cuore.

L’americano si alzò di scatto, e questa volta fu il turno di Kai di sobbalzare.

- Che bello! È così che si ragiona!-

Ivan si sarebbe voluto sotterrare. Non è che quella mattina avesse più voglia di socializzare del solito. Era solo che per tutta la notte lo aveva tormentato un pensiero fisso, un chiodo che lo martellava. Si era svegliato più volte, rigirandosi nel letto fino allo sfinimento, finché non si era deciso ad alzarsi. Aveva camminato per la struttura, si era fatto una camomilla, era tornato in camera e, guardandosi allo specchio, non aveva notato nulla di diverso dal solito.

Eppure c’era qualcosa che non andava.

C’è che sei diventato un’idiota

Se lo era detto da solo. Anni passati a socializzare con colleghi inopportuni e clienti insopportabili, a fingere interesse nelle riunioni troppo lunghe, a imparare a comportarsi come una persona qualsiasi ... si erano volatilizzati. In pochi giorni era tornato il solito Ivan, quello del monastero, quello acido e scorbutico, sempre con un sorriso cattivo sulle labbra e un insulto sulla punta della lingua. Ma quell’Ivan era anche efficiente, rapido, era quello dei lavori puliti che non lasciavano traccia. Quello di cui ci si fidava sempre.

E, guardandosi in quel terrificante specchio illuminato da un accecante e bianchissimo led, si era reso conto che non gli dispiaceva poi così tanto aver imparato a stare tra le persone senza essere considerato una macchina assassina. Ma anche che gli piaceva che gli altri facessero affidamento su di lui. Perché lui era bravo a risolvere i problemi.

E non voleva tornare a essere il ragazzo glaciale, che rispondeva agli ordini come un animale da circo.

Non era altrettanto bravo a chiedere scusa, e di psicologia umana ne capiva poca. Ma lavorare per anni, circondato da petulanti colleghi, gli era comunque servito a qualcosa.

- Fra venti minuti, in laboratorio –

Emily avrebbe voluto essere seria, stoica; non ci riuscì. Gli angoli delle labbra non accennavano a scendere. Era una scena comica ed epica allo stesso tempo, vedere quel ragazzo scendere dal suo trono di commenti acidi e colmare, nel giro di pochi minuti, tutta la distanza che aveva messo tra se stesso e il mondo intero.

- Non fare tardi – Aggiunse, porgendogli un bicchiere di caffè.

Ivan non ci pensò due volte. Lo prese e lo alzò verso di lei, come segno di assenso.


 

 

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Capitolo 18
*** Una cioccolata, due biscotti e qualche dovuto ringraziamento ***


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Halo

Oggi prendo poche righe di questo spazio che ormai ha raggiunto i 17 capitoli per qualche ringraziamento. Sono molto affezionata a questo fandom, e ho provato una considerevole felicità nel constatare che non sono la sola ad essermi persa tra le storie di questi ragazzi. Dunque, per oggi, vorrei ringraziare tutti coloro che hanno letto fin qui questa avventura in cui ho messo un po’ di me in ogni capitolo. Vi ringrazio perché con voi sto condividendo un viaggio incredibile, e sono felice che mi abbiate accompagnata.

Un abbraccio in particolare a chi questa storia storia l’ha seguita/preferita e commentata, Aky ivanov, hiwatari k, Henya, e Scarlet Jaeger. Grazie per il supporto a questa bambina mai cresciuta, che ormai sta raggiungendo il quarto di secolo <3

Qui terminano gli aggiornamenti per questa settimana! Per me sta per ricominciare il lavoro, e forse i capitoli usciranno con meno puntualità. Ma, se vorrete, sarò felice di continuare il viaggio con voi fino alla fine.

Chocolate

 

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Capitolo 19
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18

 

- One ... two ... three ... 

- Not only you and me ... 

Emily alzò gli occhi dal pc - Che?-

Ming Ming sventolò in aria la mano, facendo sbrilluccicare le unghie smaltate di fresco. Fece il suo ingresso nell’antro tecnologico per consegnare un foglio a Ivan, tenendo la fotocopia con la forza di due dita, attentissima a non toccare il fucsia brillante di OPI.

- Kai ha detto che ti serviva questo –

Lui afferrò la scheda, continuando a guardare il pc di Emily. Diede un’occhiata veloce al foglio, su cui svettavano i nomi di tutti i partecipanti all’elegante party di due sere prima, sperando che qualcosa attirasse la sua attenzione.

Ma niente da fare.

Kai si era lavorato il nonnino per sapere se, in qualche modo, era reperibile una lista degli invitati al gala. In fondo, a Hito sarebbe bastato sventolare i suoi capitali sotto al naso degli organizzatori per avere l’informazione. Nulla di troppo difficile, e Kai si meravigliò di quanto in fretta il nonno aveva ceduto. E dire che si era preparato a sottostare a qualunque tipo di ricatto. Beh, non proprio qualunque.

Invece Hiwatari senior aveva inviato, senza troppi brontolii, una lunga lista della creme de la creme della spocchiosa alta finanza, senza che il nipote dovesse fare chissà che patto col diavolo. Ma, tra i nomi, non c’era assolutamente quello di Vorkov. E nemmeno di qualcun’altro che conoscessero, a parte Torres ovviamente.

Il vuoto totale.

Ivan gettò il foglio sul tavolo, tra i pezzi smontati di Aalborg. Se Boris lo avesse visto in quelle condizioni avrebbe dato di matto, ma a rimontarlo ci avrebbero pensato dopo. Cercavano ancora qualcosa nel bey, non sapendo cosa. Emily non se la poteva prendere. Tornò, a capo chino, a contare tutti i componenti dell’affilato beyblade.

- No ... – scosse il capo – qui non c’è un bel niente –

Il volto a cuore di Ming fece capolino sopra le sua spalle.

- Cosa ci dovrebbe essere?-

- Non lo so ... un componente in più, una vite, un anello di rotazione, un cavolo di qualcosa che ci dica che cosa c’entra Falborg con i missili nascosti chissà dove!-

Ming Ming fece pat pat sulla chioma gagia. Quella faccenda stava mandando Emily fuori di testa.

Ivan si unì al coro del malcontento.

- Non abbiamo nomi ... non abbiamo questi codici ... non abbiamo più una pista da seguire. E Vorkov sa che siamo in America. Grandioso – biascicò. Sciolse i capelli, stretti nel nodo dell’elastico dal giorno prima, pettinandoli con le dita.

Ming Ming diede una rapida occhiata alla spettinata chioma di un viola profondo - Ti presto il mio balsamo? Fa miracoli-

Emily alzò la mano – Io lo accetto volentieri –

Ivan non badò al commento. Tornò a controllare il materiale che avevano a disposizione, facendo la spola tra la lista dei ricconi e le file di lettere e numeri sui file che avevano trovato da Torres.

- Che stracazzo vorranno dire?-

Taylor Momsen interruppe il silenzio intriso di dubbi, pesanti come pietre, con la cadenza di Hit me like a man. La piccoletta dai boccoli celesti recuperò dalla tasca dei jeans aderenti il telefono rosa confetto.

- Sì?-

- ¡Hola chica! ?Como estas?-

Le si illuminarono gli occhi.

- Julia!-

Emily drizzò le orecchie - Come Julia? Da dove chiama?-

- Come stai tesoro? Emy vuole sapere dove sei!-

La spagnola e la idol erano molto diverse. Così diverse da assomigliarsi. Avevano grinta e dolcezza, ritmo e femminilità. Se una era una caramella frizzante color carta da zucchero, l’altra era cioccolato fondente ripieno di liquore. Due dolcezze uniche nel loro genere, non adatte a tutti i palati. E non tutti i palati erano adatti a loro. Se Hilary, Mao e Emily avessero dovuto descrivere una donna, molto probabilmente avrebbero parlato di Julia e Ming Ming.

E queste loro differenti somiglianze, le due ragazze le avevano percepite subito.

- Tu piuttosto! Ho visto Garland en una rivista, c’era la foto di una festa –

- Garland in una festa? Ti sarai sbagliata, quell’eremita non sopporta ... aspetta un secondo!- Ming balzò su una sedia, pedinata da Emy e dalla sua curiosità – Per festa non intenderai quella all’Empire State Building!-

­Dall’altra parte dell’apparecchio risuonò una risata cristallina.

- Es un chico muy guapo. Però non mi sembrava molto divertito –

- Cavolo ... è stata tre giorni fa! Ha già fatto il giro del mondo!-

- ¿Qué giro del mundo? L’ho visto in un magazine in aeroporto –

- Dove? Sei ancora con il circo?-

- Mh, non proprio. Diciamo che ho un impegno di famiglia-

- Giri il mondo con Raul?-

- Raul esta en Espana, sono sola –

Ming sembrava sul punto di spazientirsi, ma in modo ... divertente. La bella spagnola le stava dando le informazioni una briciola dopo l’altra, mantenendo alta la suspense come tanto le piaceva fare. Adorava vedere le persone pendere dalle sue labbra.

- E dove sta andando la nostra Julia tutta sola?-

- En la manzana –

Ming ebbe un fremito. Era un modo ironico di chiamare New York, la mela, perchè Julia diceva che poteva essere grande quanto voleva, ma aveva girato città più grandi di lei. E allora era rimasta solo una mela qualsiasi.

- Sei a New York?-

Emily tese le orecchie, avvicinando il volto al cellulare – Sei seria?-

- Che ci fai in America? La Spagna è finalmente diventata troppo piccola per te?-

- Divertente ... no, sono qui per un funerale. Una noia terrificante, ma ... –

- Ops, condoglianze –

- Gracias mi amor –

- Questo vuol dire che non riusciremo a vederci? Proprio ora che siamo così vicine?-

Dal telefono si fece silenzio. Ming poteva intuire benissimo, anche senza vederlo, il mezzo sorriso sulle labbra perennemente tinte di rosso della spagnola.

- Vederci ora? Non mi dirai que tu también estás aquí, magari con Garland?-

- Sei un’indovina –

Dal cellulare partirono una serie di risatine, che rimbalzarono sulle labbra di Ming Ming e di Emily. Ivan, rimasto in un angolo della stanza a sperare che non lo tirassero nel mezzo della discussione, alzò gli occhi al cielo. Vivere in costante contatto con una mandria di ragazze stava cominciando a segnare la sua, già precaria, salute mentale.

- Y que ci fai aqui?-

- Facciamo così ... – Ming si scambiò un’occhiata complice con Emily, giusto per avere la tacita approvazione di quello che stava per fare. L’americana sospirò, ma finì per annuire. D’altra parte, nessuno sapeva del coinvolgimento suo e di Ming Ming in tutta la faccenda di Vorkov. Certo, sarebbe stato meglio per tutti stare al riparo al laboratorio. Ma sarebbe anche stato bello scambiare due chiacchiere con qualcuno che non avesse una perenne faccia da funerale. E Ming ne aveva tanto, tanto bisogno.

- Noi ci vediamo oggi pomeriggio in un bel posticino ... il tempo di deciderlo, ti dò un orario e parliamo di tutto di persona. Che ne dici?-

- Estas bien. Sarò libera dopo le due –

 

 

- Vorkov? Di nuovo?-

- Shh- Ming Ming portò un dito alle labbra. Abbassò appena gli occhiali; sulle lenti fucsia si infranse il riflesso del sole di dicembre, stagliato su un cielo più limpido che mai. Julia portò una mano alla bocca.

- Cielo, disculpa ... Che è successo stavolta?-

- Guarda, se te lo racconto non mi credi –

- Stupiscimi allora –

Ming bevve a piccoli sorsi il matcha latte bollente, godendosi il primo Starbucks di quell’inverno. Non un posticino molto elegante, e forse troppo trafficato, anche se era primo pomeriggio. Ma era il bar più vicino possibile, e al laboratorio si era già subita una serie di ramanzine per quella sua idea di voler uscire. Prima Ivan aveva squadrato lei e Emily come fossero due bambine incoscienti. Ma almeno aveva avuto la decenza di non commentare. Invece Garland non era stato zitto e, con lo sguardo più paterno e severo possibile, aveva attaccato una filippica su quanto fosse importante restare uniti, e al sicuro. Sottolineando, fra l’altro, che se ci fossero stati problemi nessuna delle ragazze si sarebbe saputa difendere.

Poi era stato il turno di Michael, che, senza mezzi termini, aveva preso da parte Emily giusto per farle rendere conto che al laboratorio c’era del lavoro da fare. E aveva spinto un po’ troppo sul lato non voglio che ti succeda qualcosa della faccenda. Il senso del dovere e la razionalità dell’americana avevano fatto il resto, facendola cedere alle insistenze. Ma con Ming Ming non aveva funzionato. Con la cantilena di Garland di sottofondo, e gli sguardi gelosi delle altre ragazze addosso, si era infilata cappotto e tacchi. Emy aveva ceduto, e Mao e Hilary erano più a rischio di lei. Ma nulla le avrebbe impedito di prendere una buona ventata di aria spagnola quel pomeriggio.

Ming si ravvivò i boccoli, sporgendosi di più verso Julia con fare cospiratorio.

- è una storia lunga, e anche un po’ triste, sai ... ma mi sembra di vivere in un giallo! È ... estremamente emozionante-

- Mmmh, sono ancora più curiosa! Espera ... – si tolse i guanti neri orlati di pizzo, un tocco vintage che stava divinamente sul cappotto lungo – Mi libero di tutta ‘sta roba ... Uff! È orribile partecipare ai funerali –

- Ma sei venuta fin qui solo per questo? Cioè, sono sicura che fosse importante ... però ti sei fatta un bel volo, fin dalla Spagna –

Julia chiuse i guanti nella pochette bordeaux – Il punto è che questo è un parente muy rico ... anche se un po’ lontano. Mira, la famiglia di nostra madre è numerosa, e questo cugino io non me lo ricordavo proprio –

- Mi stai dicendo che ti sei preparata a fare la vita da ricca ereditiera?-

Julia rise, nascondendo le labbra dietro le mani color caramello – No, macchè! Magari fosse andato tutto a noi. Sai però, meglio così. Lui non era un hombre onesto. Poi i Torres mi sono sempre stati antipatici. Meno ci ho a che fare, meglio sto –

Ming stava per ribattere, pronta a prendere un altro sorso di macha tra le labbra lucide di lip gloss; ma il bicchiere restò sospeso a mezz’aria. Nella sua testa riavvolse l’ultima battuta di Julia, riascoltando il nastro una seconda volta, sicura di essersi persa una parte importante.

- Julia ... come hai detto che si chiamano? –

- Chi?-

- I famigliari di tua madre ... quelli di cui stiamo parlando –

 - Ah, Torres. Una famiglia ... non raccomandabile. Y lo se que non si parla male dei morti, però Vince era il più inquietante di ... –

La mano di Ming Ming fermò il flusso di parole – Aspettaaspetta! È Vince Torres il parente morto?- domandò, con molta poca delicatezza e il cuore che aveva accelerato impercettibilmente.

Julia annuì. Sulla fronte, alta e perfettamente liscia, si disegnò una piccola ruga.

- Ming ... ?estas bien?-

 

Venti minuti dopo erano entrambe al laboratorio. Sulle labbra della bambolina di porcellana svettava un sorriso vittorioso. Lo sfoggiava verso chi le aveva addossato uno sguardo scettico quando era uscita di casa, e soprattutto verso Garland. Non solo non si era messa in pericolo: aveva persino trovato un tassello per il puzzle di latte che stavano strenuamente cercando di ricostruire.

O almeno, così sperava. Non era sicura che Julia ne sapesse più di loro su Vince.

Rei era stato adorabile, come al solito. Si era rimboccato le maniche, dando fondo alle scorte della dispensa che non fossero parte del catering, e, con il provvidenziale aiuto di Mao, aveva sfornato dei dolcetti di riso spettacolari. La cinesina versò un tè molto aromatico davanti a Julia, che ne aspirò il profumo intenso. Prese in mano la tazza bollente, facendola scivolare sul tavolo fra le dita. Appena era arrivata nel laboratorio sperduto, aveva percepito la pesantezza. Tra i saluti, gli abbracci, i complimenti e le condoglianze, il nome di Torres le era uscito dalle labbra.

Gli occhi di Yuriy si erano impercettibilmente spalancati. Lei aveva sorriso. Vedere quel blocco di ghiaccio addirittura stupirsi per qualcosa non aveva prezzo.

- Quindi ... è un gioco a tre tra Vorkov, il padre di questa Rosemary, e ... Vince?-

- Non ci sai dire nulla di lui? Di quello che faceva ... dei suoi contatti ... –

- Lo siento ... sò solo quello che mi diceva mia madre –

Yuriy la incalzò, seduto a braccia incrociate dall’altra parte del tavolo – Continua –

Lei spostò una ciocca ramata dal volto, liberando i grandi occhi verdi sui ragazzi. Li studiò per alcuni secondi. C’era un misto di emozioni vibranti in quella stanza: adrenalina, ansia, rabbia, paura, eccitazione, insicurezza, orgoglio, determinazione. E amore. Lo fiutava, come un persiano con la più raffinata erba gatta. Era amore dai più svariati colori, di occhi e nazionalità diversi. Lo vedeva dietro l’azzurro cielo di Michael, costantemente fisso sulla giovane dottoressa americana. Poi tra le profonde, dolci nocciole di Hilary, che a scatti si coloravano di blu, grigio e ametista.

E anche dove non si sarebbe aspettata, nascosto tra l’erba verde di un prato gelido.

- Vince – Cominciò la spagnola – Era un uomo ... viscido. L’ho incontrato una sola volta en mi vida, e mi è bastata. Ti guardava come se fossi un oggetto, e la lingua era quella di una vipera – Disse, senza nascondere nemmeno una briciola del disprezzo provato per quell’uomo – Di lui sò che si è arricchito facendo affari. Affari loschi –

Una breve risata le scoppiò sulla punta della lingua.

- Quando lo incontrai, avevo cinque, forse sei anni. Me lo ricordo perchè io e Raul ci eravamo nascosti dietro la gonna di nostra madre ... – un breve sorso di tè finì tra le sue labbra – Mi diceva che non era una brava persona, e che non dovevo avvicinarmi a lui. Sobre todo yo-

- Perché?- La voce giovane e ingenua di Max diede sfogo alla sua curiosità, frapponendosi fra gli anelli della catena di parole. Julia alzò le spalle.

- No lo se. Ma ebbi l’impressione che qualunque mujer quell’uomo vedesse ... la mangiasse con quel suo orrendo sguardo languido –

- Aspetta – Max la interruppe di nuovo – La mamma ci ha parlato di ... prostituzione. Almeno,  questo è quello che si diceva di lui –

- Puede ser-

Julia incontrò per un secondo gli occhi di Hilary. Affondò nel cioccolato di quelle dolcissime iridi, che sembravano più dispiaciute di lei per quel che si stava dicendo su quell’uomo. Era pur sempre un parente della spagnola. Ma a Julia non importava; dentro quel ramo della famiglia scorreva fiele, piuttosto che clorofilla.

- Non guardarmi con quegli occhi, mi amor- allungò una mano verso Hilary, intrecciando con fermezza le dita tra le sue – Non andavamo fieri di quell’uomo. Alla fine è stato meglio così –

Yuriy alzò un sopracciglio.

- è stato meglio che lo abbiano ucciso?-

Julia lo guardò, stupita.

- Como ... ucciso? Ci hanno detto che è morto per un malore improvviso –

Il rosso si alzò, era stanco di starsene seduto a fare i convenevoli. Prese la tazza di tè, buttandolo giù in un unico sorso.

- Se una pallottola in fronte può essere un malore improvviso, allora sì: è decisamente morto all’improvviso-

La mano di Julia ebbe un fremito. Ma lei non si scompose. Poi, sotto i suoi occhi, Kai fece scivolare un foglio ricolmo di cifre e lettere. Lo guardò confusa, come una bambina di cinque anni davanti a un’equazione di secondo grado. Kai attese qualche istante, giusto per vedere se qualcosa le si illuminasse in testa.

- Cos’è questo?-

- Era in casa di Torres –

- Ha a che fare con il suo assassino? E con le armi di cui avete parlato?-

Kai annuì – Può darsi. Non ti dice proprio nulla?-

La ragazza prese in mano il foglio. Lo guardò meglio, leggendo a bassa voce quelle sigle insignificanti più volte. Poi scosse il capo.

­- Nada. Lo siento 

- Sei una roccia July, non ti sconvolge nulla! – Hilary si rigirò la tazza verde pastello tra le mani – Io ... beh, non dico di esserci rimasta male per ... la fine che ha fatto quel Torres. Però, addirittura ucciso ... cavolo –

La spagnola alzò le spalle – è che ... non mi interessa. Sono venuta solo per il testamento, sinceramente non mi ricordavo neanche come era fatto Vince – Alzò la tazza a mezz’aria, ma non bevve. Posò gli occhi su Yuriy, in piedi a braccia incrociate con una potente aura di superiorità sfoggiata con la solita noncuranza – Non mi piaceva quell’uomo, y también alla mia famiglia. Era ... meschino. Cattivo. E l’ho capito anche se ero appena una nina

Yuriy non sembrò impressionato.

- Lavorava per Vorkov. Non poteva che essere uno stronzo, e non conosco pezzi di merda che siano buoni-

Lei scosse il capo – Non è questo il punto. Vorkov aveva ... uno schema. Quell’uomo no. Sorrideva a tutti, aveva adottato dei bambini a distanza ... sò che aveva avviato anche un’associazione di beneficenza. Y después, ti pugnalava alle spalle. Così. Solo per ... divertimento –

- Spero che tu non abbia imparato solo ora che al mondo è pieno di brutte persone, Fernandez –

- No, el problema es que ci sono tante brave persone che fanno brutte cose. Vince era una di quelle –

 

 

- ci sono tante brave persone ... che fanno brutte cose 

Hilary richiuse lo sportello del minifrigo. Versò il contenuto del cartone di latte in una delle tazze accumulate nel lavello, che nessuno da quel pomeriggio si era disturbato di sistemare.

Avevano salutato Julia un po’ a malincuore. Guardarla salire sul taxi aveva steso su Ming e sulle altre ragazze un velo di malinconia. Era stato come un fulmine a ciel sereno. Ma Hilary era sicura che l’avrebbero rivista. Non tanto perché si fidasse dell’istinto; no, lei non era così, e Mao glielo rimproverava da una vita. Piuttosto, perché gli occhi verdi della spagnola erano stati così sinceri da aver disarmato tutti. E tutta quella sincerità aveva fatto calare sul laboratorio un pesante sipario: Torres c’entrava eccome nei disegni di Vorkov. E forse Julia era il loro unico modo di scoprire il perché. Tirarla in mezzo avrebbe significato una sola cosa: metterla in pericolo. Ma a quel punto Hilary non avrebbe saputo dire se i russi si sarebbero fatti degli scrupoli.

Il bip ritmato del microonde annunciò che il latte era finalmente caldo, pronto per un denso e corposo cucchiaio di miele. Quello che le ci voleva per riuscire ad addormentarsi quella sera. Hilary sorrise; era il sistema infallibile della nonna.

Le labbra persero subito la loro dolce curvatura. Tra loro c’era chi, dall’infanzia, non si portava dietro ricordi di latte e miele, pomeriggi passati a giocare a nascondino tra le tende di casa e chiazze di cioccolato sul grembiule della mamma. I russi continuavano a ripetere che non volevano pesi sulla coscienza, ma quella brutta storia attirava a se sempre più personaggi, risucchiati come in un buco nero.

Il latte le addolcì la gola, scaldandola un po’.

- Ancora sveglia?-

La tazza le saltò tra le mani, ma fortunatamente non scivolò.

- Kai – sospirò, asciugando con la manica del pigiama le gocce bianche che minacciavano di scivolare a terra.

- Mi hai spaventata –

Il ragazzo afferrò il latte dal frigo. Hilary fece per allungargli una tazza, ma lui si attaccò direttamente al cartone, con poca delicatezza, ingurgitandone tutto il contenuto.

- Mmmh ... non so quanto faccia bene bere del latte congelato –

Kai si passò il dorso della mano sulle labbra, ignorando completamente il commento.   

- Vattene a letto. Ti conviene dormire, fra poco sarà l’unica cosa che potrà evitare di farci impazzire - 

- Però anche tu sei sveglio –

- Io non riesco più a dormire da diverso tempo –

- Perchè?-

Non era la curiosità di una bambina ingenua. Hilary sapeva bene cosa pesava nei cassetti dei ricordi di Kai, come sapeva che nemmeno lei sarebbe riuscita a chiudere occhio con quei macigni a zavorrarle l’anima. Ma le sarebbe piaciuto, almeno per una volta, capire cosa passava nella testa di quel ragazzo che si allontanava da lei ogni volta che gli si avvicinava un centimetro di più.

Il cartone finì accartocciato nella pattumiera con un lancio ben assestato.

- Non ha importanza –

- Parlare dei problemi aiuta sempre a risolverli –

- Non questi. Sono al di là dell’essere risolvibili. Sono ... incrostati, diciamo così –

- Allora servirebbe fare un po’ di pulizia –

- Hilary –

La sua voce pronunciò quel nome, e lei sentì le farfalle allo stomaco salirle in gola. Le orecchie le ronzarono, come se uno sciame di api stesse per palesarsi nel bel mezzo della cucina. La ragazza si impose un certo contegno: non poteva sentire le gambe tremare ad ogni sillaba che la voce, meravigliosamente virile, di quell’uomo pronunciava.

Ma era più forte di lei.

Kai non sembrava rendersi conto assolutamente di nulla. Oppure, più probabilmente, era pienamente consapevole del suo potere di seduzione, e fingeva di non vedere gli occhi bassi di lei che vagavano sul pavimento e le sue guance avvampare. Le sue rotelle erano occupate a risolvere problemi più grossi di una cotta adolescenziale degenerata in un’utopica storia d’amore.

- Ti ringrazio per aver deciso di restare ad aiutarci, e mi dispiace che ora anche sulla tua testa pesi una specie di sentenza di morte, anche se tu non c’entri nulla in questa storia –

- Non importa, io ... –

- Ma – La interruppe lui – non avere la pretesa di capirci. Nè me, nè tantomeno Yuriy o gli altri. Non ci riusciresti, e non lo dico per cattiveria – La penetrò con quegli occhi che avrebbero brillato anche al buio, tanto somigliavano a due pietre preziose – Vi abbiamo spiegato tutto quello che è successo, e vi siamo grati per averci ascoltato. Perlomeno io. Ma questo è quanto. Non giocare a fare la crocerossina, ti faresti soltanto del male –

- Kai, io ... – Hilary cominciò a parlare, e solo dopo si accorse che non avrebbe saputo cosa dire. Rimase con la bocca mezza aperta, con una serie di sillabe sulla punta della lingua, due parole che le si erano insinuate nel cuore la prima volta che si era scontrata con la parlantina scorbutica di quel ragazzo.

Ti amo

Glielo avrebbe voluto dire. E la parte più ingenua di lei sperava davvero che quella parole lo avrebbero sciolto come un gelato al sole. Ma quella parte era sempre più piccola, lei non era più una bambina. E non c’era posto per il sole in quel dicembre freddo e inquietante che preannunciava tempesta.

- ... Vorrei solo aiutarvi. Come tutti. Scusami se sono invadente. Cercherò di rendermi utile al meglio che posso, è che ... vorrei che questa storia finisca presto –

Lei terminò con disinvoltura un discorso che nella sua testa filava, scartando il copione originale.

Ma lui se ne accorse. Glielo lesse negli occhi che c’era una frase molto netta nascosta tra le parole di convenienza. E la cosa lo infastidì da morire.

Kai scrollò le spalle.

- Come ti pare –

Hilary restò di sasso.

- Come?-

Lui nemmeno la guardò.

- Fai quello che ti pare- Scandì - Non posso chiederti molto di più, visto che non riesci neanche a essere onesta con te stessa –

Lei questa volta dovette appoggiare la tazza nel lavello per non farla cadere.

- Cosa stai dicendo Kai? Io ... sono onesta, vorrei solo esservi di aiuto! Che altro dovrei dire?-

- Invece non lo sei. Ed è meglio che cominci a chiedertelo per davvero se questo è quello che vuoi, perchè non potrai più pentirti delle tue scelte quando sarai a un passo dal precipitare nel burrone dove tutto questo casino potrebbe portarci –

Le si annodò un improvviso groppo in gola, complice con un moto di rabbia nell’impedirle di prendere fiato. Si sentì nuda, scoperta di fronte a quel ragazzo e alle sue parole di una verità pungente come una vespa, e l’orgoglio corse in suo soccorso per coprirla.

- Io so quello che voglio. Non sono una stupida Kai, credevo che lo sapessi –

- Certo che lo so. Forse sei tu a non rendertene conto –

Il ragazzo fermò la sua uscita di scena, tornando sul palcoscenico. Le fu accanto in un paio di passi, e lei si sentì molto più piccola di quanto non fosse mai stata accanto alle spalle larghe di lui, ai muscoli delle braccia gonfi dagli allenamenti, allo sguardo sostenuto che si rifletteva nei suoi occhi nocciola pieni di ricordi amorevoli e di risate con gli amici.

- Sei una donna adulta Hilary, e non devi vergognarti di esserlo, perché i bambini non sopravvivono in quello che stiamo per fare. Persino Daichi riesce a essere genuino e coerente, e ti assicuro che è una dote che lo salverà da un sacco di brutte situazioni –

Hilary cercò di proiettare, nella sua testa, una frase di senso compiuto che potesse rispecchiare, se non proprio una sicurezza che in quel momento non le apparteneva, almeno un senso di quiete interiore. Che potesse far trasparire a Kai che sì, stava andando tutto bene, e che non si sarebbe fatta prendere da strane manie da mammina; che aveva capito la gravità della situazione.

Lui precedette tutte le sue elucubrazioni mentali.

- Cosa vuoi-

Fu un ordine, un vento gelido che spazzò via ogni castello di carte costruito su instabili sinapsi.

- Cosa ..?-

- Cos’è che vuoi?- Insisté lui, avanzando di un passo come se la stesse braccando, togliendole ogni via di fuga verso un sonno che, comunque, a quel punto, non sarebbe stato tranquillo – E non ripetere che ci vuoi aiutare, perché non è quello che intendo –

Con un altro passo le fu quasi addosso. Hilary sentì premere il bordo del lavello dietro la schiena.

- Sarò uno di poche parole, ma non sono un muro come Ivanov e i suoi. Io le domande me le faccio, e voglio anche delle risposte. Tutti abbiamo dei motivi, più o meno buoni, per essere qui. Anche Takao, Max, Mao, persino Daichi. Magari sono motivi del cazzo, ma ci sono- Le passò gli occhi sul volto quasi stesse cercando di scannerizzarle l’anima; ma la testa di lei era un foglio bianco. I neuroni le si erano completamente carbonizzati.

- Tu invece no. Non hai un motivo. Sei sempre dietro a tutti, a guardare quello che succede con lo sguardo dispiaciuto di un’amichetta apprensiva, come se il massimo che potessi fare fosse mettere un cerotto sui graffi e abbracciarci per far passare il male. Beh, a noi non serve un’infermiera. E se non sai cosa sei venuta a fare, ti conviene fare retromarcia e tornare a casa finché sei in tempo, perchè se sei qui non è solo per merito degli amichetti di Vorkov. C’eri anche tu nel coro di idioti che mi ha chiamato per dirmi che non vedevate l’ora di partecipare a questa festa. E voglio sapere perché –

- Ti ... voglio proteggere –

La risposta arrivò molto rapida. Kai ne fu quasi sorpreso.

Hilary fu più sorpresa di lui.

Quei due neuroni rimasti si erano uniti insieme, ed erano, finalmente, quasi riusciti a farle dire la frase magica che le ronzava in testa da una vita. Ma, sul più bello, quello stupido imbarazzo li aveva interrotti, e il copione era di nuovo cambiato.

Kai restò in silenzio, e Hilary sentì distintamente il suono di quel vuoto di parole rimbombarle in testa. Sperò che la luce della cucina si fulminasse in quel momento; avrebbe approfittato del buio per fuggire tra le coperte e riemergere solo cinque, sei anni dopo, il tempo giusto per dimenticare tutto e fingere che non fosse successo niente.

Ma la luce restò lì dov’era, così come Kai. E lei si sentì in dovere almeno di tentare di finire in bellezza quel casino in cui si era messa.

- Vorrei ... – cominciò, mettendosi a gesticolare - ... che tu non ... che non ti mettessi in pericolo. Più in pericolo di così. Io non posso ... non posso pensare ... di perderti –

Girò la testa di lato, per evitare di incrociare gli occhi di Kai nel momento in cui avesse deciso di guardare finalmente un punto che fosse più in alto del pavimento.

- Mio dio. È tutto sbagliato – Si coprì la bocca con una mano, giusto per soffocare il tremolio della voce che minacciava di spezzarle il fiato – Io ... io non so perché te l’ho detto-

- Però lo hai fatto-

Finalmente Kai si allontanò; ma non era soddisfatto.

- Mi hai deluso –

Hilary non aveva più la forza psicologica per chiedere spiegazioni. Si domandò se Kai lo stesse facendo apposta a devastarla in quel modo, o se fosse tutto un incubo curabile con un bel pizzicotto sul braccio. Magari si sarebbe svegliata, sarebbe andata a parlare con lui e si sarebbe scontrata con i suoi soliti modi di fare, cauti, distanti, orgogliosi e un po’ egocentrici.

Ma quando pinzò, di nascosto, la pelle del braccio fasciata dalla lana morbida del pigiama, sentì solo un vago, fastidioso dolore. E non accadde nulla.

Accidenti

- Io ... io ... –

- Tu cosa? Cos’è che vuoi?-

Anche da più distante Hilary continuò a percepirsi intimidita. Kai la fronteggiò con la sua altezza, con i suoi occhi; con il suo fuoco.

- Dimmelo. Non farlo dire agli altri. Voglio che tu me lo dica –

Lei tornò con gli occhi sulle piastrelle verde menta del pavimento, indagandole più a fondo di prima. Prese a balbettare qualcosa, torturandosi le dita fra loro, lasciando che le unghie tracciassero dei solchi. Ma alla fine non disse nulla.

Un angolo della bocca di Kai montò su un indispettito piedistallo. Poi, finalmente, dopo quegli interminabili minuti di terzo grado, lui girò i tacchi e se ne andò.

Hilary si lasciò scivolare a terra solo quando fu sicura che Kai fosse abbastanza lontano per non tornare sui suoi passi.

 

Takao tirò lo sciacquone con cautela; non voleva svegliare nessuno, ma non poteva nemmeno lasciare nel wc il risultato dei suoi movimenti intestinali.

Qualcuno gli aveva insegnato che un modo elegante per definire il bisogno di evacuare era di dire di dover vedere i cavalli. Beh, quella notte il suo maneggio era stato particolarmente felice di uscire a fare una passeggiata.

Uscì dal bagno barcollando. Di rado si svegliava nel cuore della notte, e quando succedeva la mattina dopo pensava sempre di esserselo sognato. Per questo ci mise un po’ a percepire che il pianto proveniente dalla sala comune non se lo stava immaginando.

Avanzò con cautela, attraversando la stanza deserta fino alla piccola cucina.Se si fosse trovato davanti un nemico, il sonno gli avrebbe messo a disposizione due reazioni in caso di pericolo: urlare a squarciagola, e buttarsi a peso morto addosso a chiunque gli fosse capitato a tiro. Non ebbe bisogno di nessuna delle due armi segrete.

Vide una figura familiare raggomitolata ai piedi del lavello. Non appena i suoi neuroni ricollegarono quella persona a Hilary, gli si spense in testa un campanello d'allarme, ma subito se ne accese un altro.

- Hei, hei – le si avvicinò, cingendole le spalle con un braccio – Cosa succede?-

Lei si portò subito le mani agli occhi, cercando di asciugarli con scarsi risultati – Niente, scusa, non volevo ... non volevo svegliarti –

- Che c’è? Va tutto bene Hil, vieni qui – Le si fece più vicino, lasciando che la lunga chioma color cioccolato di lei andasse a rifugiarsi nell’incavo del suo collo.

- Non lo so cosa c’è, non lo so, non lo so ... –

- Ora passa tutto ... –

- Continuo a trovarmelo davanti, e ... lui non mi guarda nemmeno, io non so cosa farci, non so cosa dire, vorrei solo... mi dispiace Takao, io lo amo, lo amo, lo amo-

Scoppiò in un pianto a dirotto, senza imbarazzo, senza vergogna. Un genuino e semplice sfogo, un groppo in gola che esplose in quel momento, accanto all’amico di una vita, davanti alla palese consapevolezza di quello che Kai le aveva detto.

Lei non era onesta. Non gli avrebbe mai confessato cosa provava, perchè sapeva che non c’era futuro per i suoi sentimenti. E Kai non voleva avere nulla a che fare con chi non aveva nemmeno le palle di ammettere a se stesso la verità.

Il cerchio si chiudeva.

E così tutto fu disperazione nel più bello e più gradevole dei castelli possibili.



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Capitolo 20
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19

 

Quanto ci era voluto per far scattare quel casino? Dieci minuti? Un’ora? Forse erano passati dei giorni, e nessuno se n’era accorto.

Erano trascorse due notti dalla terrificante festa. Al terzo giorno, quando qualcosa sembrava essersi sbloccato, il karma, dio, la provvidenza o chi per loro avevano deciso che le cose non stavano andando abbastanza male.

 

La sveglia era suonata alle cinque. Perlomeno nella testa della dottoressa americana.

Emily era scattata come una molla, alzandosi dal letto alla maniera delle bambine indemoniate nei film dell’orrore. Gli occhi spalancati indagarono il nulla cosmico del buio che li circondava.

Era stato un sogno a destarle dei sospetti. Chiusa in un’aula scolastica, si era rivista mentre, da bambina, subiva l’ennesimo terzo grado in un’interrogazione di geografia. Miss Carlyle la guardava con severità, stagliandosi tra lei e la carta geografica. E Emily dava solo risposte sbagliate.

Un’interrogazione di geografia destinata a fallire era un incubo bello e buono per chi, come lei, aveva trascinato sulle spalle la responsabilità di tenere alto il nome della famiglia in ogni grado scolastico. Ma non era quello il punto. Al momento del terrificante risveglio, le era tornato in mente l’ultimo istante in cui si era trovata a dover sostenere un’interrogazione negli ultimi anni. Era stato durante un corso sulla sicurezza informatica, e in una specifica lezione si era parlato di nickname e nomi in codice.

Emily si sfregò gli occhi, scendendo dal letto prima che il subconscio la convincesse che alle cinque avrebbe potuto ancora dormire. Si fece largo fino alla scrivania, rimanendo per un attimo accecata dalle luci dello specchio. Scartabellò al pc fino a trovare il file di Torres, e cominciò a rileggerlo per l’ennesima volta. Nella sua testa era sicura, sicurissima, che quelle che avevano trovato nel documento non potevano essere coordinate.

Le aveva guardate, lette, rilette, rigirate; aveva cercato di decodificarle, trasformando i numeri in lettere e le lettere in numeri. Niente. E allora, perché accanirsi?

Se, invece, giusto per fare un’ipotesi, quelle liste di segni fossero state scritte apposta così, senza nascondere coordinate, o chissà che altro?

Emily inforcò gli occhiali, prese il pc e, ancora in pigiama, decise che un caffè avrebbe risolto parte dei suoi problemi. La via per il cucinotto era completamente deserta, come era ovvio che fosse a quell’ora indegna del mattino. Ma la sala comune era, incredibilmente, popolata; e qualcuno aveva pensato al caffè prima di lei.

- Ivan –

Il ragazzo alzò una tazza verso di lei.

- Watson –

- Che fai già sveglio?-

Dalla cucina fece capolino una testa di spettinati capelli grigi. Boris sbadigliò, accennando all’americana un saluto che sapeva di insonnia e caffeina.

- Beh, visto che siete qui ... – La ragazza si fece posto accanto a Ivan, aprendogli il computer davanti – Ho pensato a una cosa –

- Anche io –

Lei parve sorpresa.

- Davvero? Che cosa?-

Ivan indicò con un cenno il file d Torres, svettante sul desktop nei suoi incomprensibili caratteri – Che non possono essere coordinate. Beh, a meno che non abbiano usato un sistema incredibilmente macchinoso per nasconderle ... non lo possono essere. Poi, che cazzo ci facevano a casa di Torres? Conosciamo Vorkov: se davvero ha a disposizione un foglietto con la posizione di un arsenale missilistico, prima di tutto non lo lascerebbe a casa di uno che poi fa ammazzare. E secondo ... se lo terrebbe ben stretto alla sottana – Bevve un lungo sorso di caffè – Non è il tipo che delega agli altri le cose importanti –

Emily sembrò impressionata. Per lei era stata quasi un’epifania; per Ivan, una normale deduzione. D’altra parte, loro conoscevano il nemico meglio di chiunque altro.

- Sono d’accordo. Non possono essere coordinate. Non è possibile –

- Allora ... – Boris si stravaccò su una sedia davanti a loro - ... Avete altre idee, o siamo punto a capo?-

- Nomi in codice – Sentenziò Emily.

I due ragazzi si scambiarono un’occhiata tra il preoccupato e l’illuminato. Ivan non sembrava convinto.

- In che senso? Secondo te ci ha nascosto dei nomi di gente che ha a che fare con la faccenda dei missili?-

- Non lo so di chi sono i nomi, non so neanche se sono davvero nomi ... ma, non è plausibile come idea?-

- Sì. Sì, lo è ... –

- E anche se fosse? Dove ci porta tutto questo?-

Gli occhi di Emily si spostarono su Boris, guardandolo solo di sfuggita. Non lo aveva mai notato troppo in giro da quando si era chiusa in laboratorio. Almeno, a parte quando lo aveva trovato a fare a pugni in una palestra improvvisata tra macchinari costosissimi. Ora gli sembrava incredibilmente ... stanco. Dietro gli sguardi affilati e i muscoli gonfi, gli scricchiolii delle nocche consumate dai pugni e quant’altro lo potesse far sembrare un duro ... era stanco.

Emily ne sapeva qualcosa di stanchezza, e le occhiaie di Boris a lei ricordarono solo le notti insonni passate sul progetto di dottorato. Ma chissà quali demoni nel cassetto aveva quel ragazzo.

- Hei?-

L’americana si riscosse giusto in tempo per sentirsi addosso i freddi occhi del russo in questione. Boris la squadrò, in attesa del verdetto – Allora? Nomi, coordinate ... che cambia? È comunque roba da decodificare, no?-

- Se sono nomi, non proprio. Sono lettere, e numeri ... – Ivan si grattò distrattamente il mento. Gli piacevano i giochi di logica: era bravo a risolvere i misteri, aveva il cervello fino, la mente allenata.

- Forse le lettere sono iniziali, e i numeri ... date? –

- Età?- azzardò Emily.

Boris scrollò le spalle – nickname per un sito porno?-     

Il gioco del indovina chi si fermò con l’arrivo dei primi esseri alla ricerca della colazione. Takao e Daichi si trascinarono fino al buffet, prontamente allestito dal mattiniero catering. Hilary li seguì, sfregandosi le mani sugli occhi stranamente arrossati. Volarono per la sala cenni assonnati, che valevano come altrettanti buongiorno. Fin qui sembrava andare tutto bene, quasi meglio dei giorni precedenti. Poi arrivò un fulmine a ciel sereno.

Garland entrò nella sala comune come una furia, spingendo davanti a lui una ragazza magra, ben vestita e con il capo coronato da un biondissimo chignon. Alyna ricadde pesantemente su una sedia; scostò dagli occhi chiari gli occhiali a specchio, abbastanza fuori posto a dicembre. La mano di Garland le premeva sulla spalla, e gli occhi di lui guardavano stizziti due persone in particolare.

Se Boris avesse avuto qualcosa in bocca, gli sarebbe irrimediabilmente caduto insieme alla mandibola. Ivan fermò il ticchettio delle dita sul pc. Non era poi così tanto sorpreso dall’apparizione di quella bugiarda; ma gli venne spontaneo chiedersi come cavolo li avesse trovati.

Alyna soffiò.

- è un piacere rivedervi –

- Zitta – la rimbeccò Garland – e dicci che cazzo stavi facendo fuori dal laboratorio –

Takao si fece avanti, con il suo piatto di bacon e salsiccia in un sugo piuttosto rivoltante 

- ... Rose? –

Lei alzò gli occhi al cielo. Boris rispose per lei.

- No, è ... quella falsa – ammiccò, molto ironicamente – Quella che ci deve un sacco di spiegazioni. Vero, Alyna? –

- Io non vi devo niente –

Garland spinse sulla sua spalla, imponendole un minimo di rispetto verso la situazione. Non che a lei importasse molto.

- Ho capito. Kai ... – continuò Takao, incredibilmente disinteressato alla colazione – Ci ha raccontato. Tutto. Sappiamo chi sei – Concluse, quasi con disprezzo. Il disprezzo che nella sua testa meritavano i bugiardi, e i malvagi.

– Che vuoi ancora da noi? –

Le labbra di Alyna si tirarono in un largo, smagliante sorriso. Uno di quelli che hanno dietro tante, troppe incognite. Emily si sedette davanti a lei con occhi di fuoco, e Hilary fu subito la sua ombra.

- Hai idea – cominciò l’americana – di quello che hai fatto? Lo sai cosa è successo per colpa tua?-

La bugiarda non si scompose nemmeno, restando seduta e sorridente.

- Io non ho causato un bel niente. E prima che cominciate a urlarmi contro ... sono stata manipolata tanto quanto voi –

L’irritazione e l’astio curvarono le labbra di Emily in un falso sorriso.

- Ah, ma certo! Senti questa! Sei venuta a fare la vittima per caso? Perchè caschi male!-

Il commento scivolò addosso ad Alyna come fosse fumo, lasciandola senza un graffio. Non era di Emily che si stava preoccupando: tutta la sua attenzione era per il russo dagli occhi verdi, seduto all’altro capo del tavolo. Attenzione che Boris ricambiava.

- Sono tornata per dirvi delle cose –

Il russo ghignò.

- Bene. Perchè ci sono diverse cose che vorrei sentirti dire –

- Ah sì? Ad esempio?-

- Oh, no ... prego. Prima le signore –

Lei si accomodò meglio sulla sedia, incurante della presa ferrea di Garland sulla sua spalla e degli occhi di chi le stava attorno, brucianti di odio. Sapeva che non avrebbe ricevuto l’accoglienza di una regina, ma loro avevano bisogno di lei quasi quanto lei di loro.

- Io non ne sapevo nulla. Mi sembrava di avervelo detto, dopo che qualcuno mi ha rotto il naso – Si tolse i grandi occhiali a specchio, puntando su Boris lo sguardo turchese – Mi hai fatto male, sai?-

- Sei venuta solo a sventolare la coda di paglia? –

- Beh, prima di venire tirata in mezzo a una storia di vendette ho voluto mettere in chiaro la mia ... posizione. E comunque c’è altro –

- Cosa? Non abbiamo tutto il giorno –

- So dove sono nascoste le armi –

Gli occhi si allargarono, le sopracciglia volarono verso il cielo e i fiati restarono appesi a un filo. Garland strinse la presa.

- Ti conviene non raccontarci altre bugie –

Lei strappò con stizza una ciocca bionda incastrata tra le dita del ragazzo.

- Siete liberi di non credermi. Vi sto solo offrendo quello che so –

- In cambio di cosa?-

Ivan la guardò dietro occhi furbi e sottili. Si sporse verso di lei – Che vuoi da noi?-

- Una via di fuga –

- In che senso?-

- Nel senso che sto rischiando la vita, e voglio un passaporto sicuro e una copertura per andarmene da qui –

- Ma sei pazza?- Emily sbottò, sbattendo le mani sul tavolo – Hai collaborato con Vorkov per fare una cosa atroce, e ora torni qui ... e vuoi che ti aiutiamo a farla franca?!-

- Vi sto offrendo uno scambio di informazioni. Non c’è bisogno di fare l’isterica –

Prima che gli occhi della dottoressa sparassero laser, Ivan le fece segno di tranquillizzarsi. Emily restò in piedi, sperando di mettere un po’ di soggezione ad Alyna con il solo potere della sua aura.

Boris spezzò le voci e le domande sulla punta della lingua del compagno di squadra.

- Perché quando siamo fuggiti dal laboratoria mi hai fatto riprendere Falborg? Ci ho pensato su. Se Falborg è una delle chiavi, tanto valeva lasciarlo in mano a Vorkov. Invece tu me lo hai fatto portare via. Perché?-

- Perché quello stronzo mi stava per far ammazzare. E l’ho saputo solo dopo che tutto il teatrino era cominciato –

Ivan aggrottò le sopracciglia. Boris cominciò a non capirci più nulla. Le idee che gli navigavano in testa si mescolarono tra loro, e il volto dovette assumere la forma di uno che non ha idea del perchè si trova lì.

- Scusa un momento ... mi sta bene che Vorkov volesse eliminare chi era a conoscenza dei suoi piani. Ma che c’entra Falborg? Potevi benissimo scappare e basta –

Alyna alzò gli occhi al cielo; non era mai stata brava a spiegare le cose.

- Le cose stanno così: quando mi hanno chiusa in quel laboratorio, lo hanno fatto perché tu dovevi trovarmi. Era tutto calcolato: avevano mandato un idiota a liberarti con una scusa, tu lo avresti fatto fuori, eccetera eccetera. Esattamente come è successo. Hai abboccato alla perfezione –

- Perché ti avevano legata? Rose era lì di sua spontanea volontà, non aveva senso che ... –

- Diciamo che gli uomini di Vorkov avevano aggiunto un po’ troppa licenza poetica alla messinscena. Doveva sembrare tutto credibile –

- beh, missione fallita. Poi? Che c’entra Falborg?-

- Poi – E Alyna lo guardò con occhi cattivi, molto, molto cattivi – Ho scoperto che sul libro delle vittime sacrificabili di quella testa di cazzo del monaco c’ero anche io –

- Te lo ha detto lui?-

- Non fare l’idiota. Certo che no. Ho sentito due dei suoi scienziati pazzi parlare del piano, e del fatto che, nella remota possibilità che tu fossi fuggito da solo, senza passare a salvare Rosemary, ci avrebbero pensato loro a farmi finire nel bidone dell’organico –

Hilary represse un moto di disgusto. Daichi smise per un attimo di mangiare, al pensiero osceno di trovare pezzi di cadavere nei sacchi della spazzatura. Boris invece non si aspettava nulla di diverso. Vorkov non era il tipo che collezionava pesi morti: una volta usata, una persona era come un vecchio rotolo di scotch; aveva finito il suo lavoro, ed era pronta per la pattumiera.

- Io ho fatto finta di niente – Alyna continuò –Ma non mi piace essere presa per il culo. Allora ti ho fatto prendere Falborg. Perché se le cose fossero andate male, avrei avuto una merce di scambio per farmi uscire dal giro –

- Gli avresti dato Falborg ... –

- ... In cambio della mia vita. Certo –

- Vorkov non sarà stato contento –

- Avrebbe dovuto pensarci prima. Comunque la storia della falsa Rosemary era stupida, non poteva funzionare. Non con voi. Non so a che cazzo gli sia servito –

- E perché lo hai fatto?-

Lei alzò le spalle.

- Il lavoro è lavoro –

- E sei venuta a dirci questo? Mi dispiace averti fatto pensare che siamo interessati alla storia della tua vita, perchè, beh, non lo siamo – Ivan la guardò di sfuggita – Che ne facciamo di lei?- Stava già pregustando il momento in cui le avrebbero fatto sputare tutta la verità a calci, perché di tempo per parlare davanti a tè e pasticcini non ne avevano.

Ma Alyna non si fece impressionare.

- Non ho ancora finito –

- Finisci in fretta allora –

- Quel bastardo ... quel monaco ha fatto e disfatto i suoi patti come voleva, pensando di usarmi a suo piacere. Beh, non funziona così –

Si sporse verso Boris, forzando la presa di Garland su di lei, facendosi così vicina che il ragazzo fu in un attimo circondato da una zaffata del suo profumo dolciastro.

- Avrà una bella punizione, e ... una brutta sorpresa –

- Del tipo?-

- Del tipo che dopo che mi avete fatto saltare la copertura sono tornata da lui per sputargli in faccia, e prima di sfuggirli da sotto il naso ho ... origliato diverse cose interessanti –

Boris ghignò, di nuovo. Piegò il volto di lato, facendo scrocchiare il collo.

- Ci hai raccontato un sacco di cazzate, tesoro. Perché dovremmo crederti ora?-

- Perché vi siete rifugiati in America per scappare dalle sue grinfie, ma non credo ci metterà molto a trovarvi. E sta mettendo in riga armi più forti e persuasive. E io vi sto offrendo la pista giusta per uscire dalla vostra merda, e fargliela pagare –

- In cambio di una via di fuga?-

- Esatto. Vi chiedo solo un passaggio in Europa, e magari ... un’identità nuova, abbastanza convincente da farmi sparire dai suoi radar – Puntò gli occhi di sfuggita sul grembiule da laboratorio di Emily – Che ne so ... quella di un ricercatore in viaggio di studio, magari –

La ragazza arrossì fino alla punta dei capelli.

- Se credi che il PPB aiuterà una criminale ti sbagli di grosso!-

Boris andò dritto al punto, saltando sopra l’indignazione dell’americana - Le armi. Dove sono? Hai detto che conosci il nascondiglio –

Alyna sorrise furba. Le labbra si arricciarono verso l’alto.

- Abbiamo un accordo?-

Boris e Ivan si scambiarono un’occhiata complice. Takao era sul punto di protestare, o almeno andare a chiamare il resto della comitiva per decidere la cosa in gruppo. Ma quella non era una riunione di stato, e di tempo non ne avevano abbastanza per aspettare che tutti fossero abbastanza lucidi da sottoporre i propri cervelli a una simile scelta. Ivan girò i tacchi, puntando il tavolo della colazione per procurarsi altro caffè, lasciando campo libero al compagno di squadra.

- Va bene –

 

 

- Norimberga –

La chiacchierata con la bugiarda era finita lì, dopo il nome di quella città pronunciato dalle sue labbra, incurvate da una vittoria davvero fuoriluogo. Garland l’aveva a malincuore lasciata andare, e si era pentito della cosa appena l’aveva vista varcare la soglia del laboratorio con tutte le intenzioni di non ricomparire mai più. Emily se n’era andata indignata a parlare con Michael dell’assurda idea di aiutare una complice di omicidio; ma non era l’unica a pensarla così.

- E non sa nulla? Niente di niente?-

- Lei dice di no, e io le credo. Vorkov non avrebbe rivelato i dettagli a qualcuno di così sacrificabile –

- Mmmh –

Le dita di Yuriy accompagnarono la zip della felpa nel suo percorso in un unico, fluido movimento. Un’ennesima mattina che cominciava male; ormai aveva perso il conto.

- Norimberga ... –

- Già –

Boris si appoggiò allo stipite della porta – Le credi?-

- Tu hai detto di sì –

Gli schiamazzi di Andrew finirono alle loro orecchie fin dal corridoio parallelo al loro, oltrepassando il muro come se non esistesse.

- Qualcuno sta dando di matto –

- Vorrei vedere – La voce della verità di Rei si materializzò tra loro – Se avessero dato a voi il compito di chiamare Ralph, raccontargli tutto in modo plausibile e prepararsi a ospitarci, rischiando di finire come noi sulla lista dei ricercati di un criminale ... anche voi stareste urlando in corridoio –

Boris piegò il capo di lato, scarsamente interessato alle reazioni inglesi e ben più colpito dalla parte dell’ospitalità tedesca.

- Avete chiamato Ralph?-

- Lo stiamo per fare, sì –

- Ah! E perchè? A cosa dobbiamo tutta questa efficienza?-

Rei finse di non sentire il sarcasmo poco velato – Perchè è l’unica pista che abbiamo, e se vogliamo farla finita ci conviene seguirla –

- Di chi è stata l’idea?-

La domanda di Yuriy arrivò lapidaria, dalla bocca di chi raramente si era fatto impressionare da un gesto di altruismo.

- Di Kai –

Il rosso sbuffò.

- Non avevo dubbi –

Rei azzardò un passo in avanti. Con la delicatezza di chi cammina su morbidi cuscini e la nonchalance del perfetto improvvisatore, chiese: - C’è ... qualcosa che non va? Insomma ... oltre a tutto quello che va già male -

Yuriy lo guardò appena.

- No – Aprì di scatto la zip della felpa, come se un’improvvisa ondata di caldo lo avesse infastidito. Poi prese, con meccanica precisione, a raccogliere vestiti e scartoffie sparsi nella stanza, gettandoli con noncuranza in un borsone mezzo disfatto.

- No, ma la prossima volta fateci il piacere di dirci quello che volete fare –

- Ah, questo dovete dirlo a Kai. E sapete che è inutile –

L’assalto improvviso di una cascata di capelli rosa sbilanciò il cinese. La corsa di Mao alla ricerca della quasi dolce metà, mai ufficializzata, terminò il suo trotterellare per i corridoi al seguito di una dottoressa americana palesemente arrabbiata e contrariata. Emily, a braccia conserte da almeno un’ora, non accennava a scendere dalle sue posizioni.

- è una stupidaggine – Sentenziò, completamente senza contesto, sottolineando l’ultima parola – Cioè ... davvero? Hai fatto un accordo con quella? E noi la dovremmo anche aiutare?-

Tutto l’odio era rivolto verso Boris, la cui attenzione però era concentrata altrove; non si sapeva bene dove. Emily, non soddisfatta, rincarò la dose.

- Beh, non mi sono fatta buttare in una storia al limite della sopravvivenza per poi fare da complice a una mezza assassina! –

- Emy ... –

Mao le piantò addosso uno sguardo eloquente, che valeva più di una striscia di scotch sulla bocca. Ma nel dna americano l’idea del no comment non era stata implementata.

- E poi come sapete che non stava mentendo? Andiamo, vi ha già fregati! –

Yuriy non diceva una parola, troppo occupato a far finta di non sentire. E comunque, i deliri di una donna in crisi di nervi non gli erano mai interessati particolarmente. Rei si sentì in dovere di calmare le acque, ma Emily non gli diede il tempo di aprire bocca. Si avvicinò battagliera alla porta, fronteggiando Boris, i suoi centimetri di altezza in più e le spalle il doppio più larghe di lei.

- Guarda, sarebbe stato quasi meglio torturarla a questo punto, avrei accettato anche questo se poteva servire ad aiutare! Ma non farci diventare complici di quella ... strega! –

Rei notò, con orrore, la vena pulsante sul collo del russo. Non voleva dover prelevare l’americana con la forza, per poi dover guardarsi a vita dalla mazza da baseball di Michael; preferì gettare un paio di occhiate a Mao, inducendola a prendere le redini della situazione. La cinesina afferrò Emily per una manica del camice, strattonandola lontano da Boris e dalla sua pazienza agli sgoccioli.

Emily cercò di divincolarsi - Mao, smettila! Non ho finito!-

- Invece è meglio che finisci qui – Incurante della forza avversa che, con i piedi puntati sulla stessa mattonella, non dava segni di cedimento, Mao semplicemente trascinò l’amica lontano da una possibile scena del delitto – Fidati, andiamo a preparare i bagagli che è meglio –

- Quindi ce ne andiamo?-

Yuriy guardò Rei di sfuggita, alla ricerca di uno dei maglioni che non metteva mai, ma si portava sempre dietro – Sì. Avvertite Ralph, io chiedo a Max se sua madre può farci prendere l’aereo del PPB. Non abbiamo tempo per cercare i biglietti. A questo punto, meglio partire il prima possibile –

Con l’efficienza del sangue orientale e lo sguardo di chi era pronto a una mission impossible, il cinese fece dietro front alla ricerca di Kai, Andrew, e le urla in inglese che ancora rieccheggiavano sulle pareti.

Poi fu la questione di un momento. Nello stesso istante in cui Mao trascinò via Emily e Rei si mise all’inseguimento del suo senso del dovere, in quell’istante, Boris esplose. E con lui la barriera di razionalità che si era creato attorno.

La porta sbatté dietro una sua spinta, chiudendo lui e Yuriy nella stanza. Dalla gola gli salì un groviglio di urla strozzate tra i denti; quelle urla che avrebbe voluto far sputare a Vorkov. Quelle urla che forse aveva emesso chi non doveva farlo.

Perchè, come da sempre nella sua vita, il male vinceva. Lo sopraffaceva.

Tirò un pugno al muro, poi un altro e un altro, fino a sentire la pelle delle nocche sgretolarsi sotto la rabbia. Passò ai mobili: prese la sveglia e la gettò dall’altra parte della stanza, poi passò ai dossier e a tutti i fogli che Yuriy non aveva messo in salvo nel borsone. Finì tutto all’aria, mentre lui si aggirava come una furia da un muro all’altro strappando tutto quello che trovava, quasi per vendetta. La vendetta contro chi si era divertito a strappare il cuore a lui, o quello che ne era rimasto e che aveva custodito per anni, solo per lei.

Aprì l’armadio, gettando fuori in uno strattone asciugamani, appendiabiti, la giacca di Yuriy e tutto quello che trovava, mentre il compagno di squadra guardava in silenzio la sua camera venire disintegrata. Ma non lo avrebbe fermato. Sapeva che aveva bisogno di quella rabbia.

Le mani di Boris si fermarono solo quando qualcosa gli fece male, e nel caos della sua testa sentì vagamente il sangue bagnargli il polso. Forse un chiodo sporgeva dall’armadio, ma per quel che gli importava poteva essere anche la lama di un coltello. Gli sarebbe bastato prenderla, a spingerla nel cuore di chi la meritava.

Fermò la sua furia; rimase così, in piedi davanti alle ante dell’armadio divelte, tra le piume dei cuscini che volavano, a guardarsi le mani che diventavano rosse, con le nocche screpolate. Gli sembrò quasi di sentire un pizzicorìo agli occhi, la sensazione di aver bisogno di un fazzoletto. Non si accorse nemmeno che Yuriy gli si era avvicinato.

Sto ... piangendo?

E ricordò i suoi occhi, quei piccoli, dolci occhi azzurri che lo guardavano da dietro le sbarre. Si rese conto che quel giorno era stato l’ultimo in cui potè riempirsi gli occhi di primavera, estate e autunno insieme. In cui vide le foglie nascere, sbocciare e appassire in una volta sola, e lo vide in lei, lei che era riuscita a scacciare da lui l’inverno che si era annidato come il verme in una mela marcia. Lei che correva nel cortile imbiancato con gli stivali imbrattati di terra umidiccia, rincorrendo a braccia tese i fiocchi di neve che si mischiavano alla cenere dei suoi capelli. Lei che aveva un modo tutto suo per piegare i maglioni, riponendoli nei cassetti in base al colore. Lei che nelle domeniche d’inverno li faceva svegliare con l’odore di zenzero e cannella.

Quella volta, in un sotterraneo sperduto di Londra, era stata l’ultima.

- Boris –

E lei glielo aveva detto che lo era, quando con le labbra, senza voce, aveva sussurrato ti amo.

- Va meglio?-

- No!-

Si voltò di scatto, prendendo il capitano di sorpresa. Yuriy indietreggiò di un paio di passi davanti alla rabbia fatta persona, sentendosi improvvisamente scoperto davanti all’amico. Non sarebbe servita la razionalità questa volta, nessun discorso da mamma apprensiva, nessun ordine di calmarsi.

- Non le ho detto niente ... non ho ... capito niente –

- Non devi farti colpa di niente. Non sei stato tu a ... –

- Ma ero lì!-

Portò una mano al volto, strappando dagli occhi lucidi quel vago velo di lacrime che minacciava di farsi incontrollabile, trattenuto da troppo tempo nei condotti.

- Ero lì, a un metro da lei, e non ho fatto niente! Non l’ho salvata, non l’ho picchiata, non ho ... non sono riuscito a fare niente! Non ho potuto neanche dirle che ... che ... –

Il gelo negli occhi verdi si sciolse, velando i prati di rugiada. Boris si guardò le mani, ancora arrossate, senza curarsi del rivolo di sangue che era arrivato a sporcare il polsino della felpa.

Le lunghe dita della mano bianca del capitano gli coprirono i tagli sul palmo. Il cuore di Boris batteva senza ritmo sotto la presa di Yuriy. Fu come se i ruoli si fossero invertiti, e il rosso tornò padrone della situazione, mentre Boris, nonostante la statura, sembrava farsi piano piano più piccolo, più trasparente. La sua testa ciondolo in avanti, andando a scontrarsi con l’incavo del collo di Yuriy, che non si sottrasse al contatto. Rimasero così, l’uno davati all’altro, l’uno appoggiato sull’altro, mentre Yuriy premeva le ferite sulle mani dell’amico per fermare il sangue e gli occhi di Boris cominciavano a straripare. Il maglione di Yuriy cominciò a inumidirsi sulla spalla, accogliendo le emozioni che da troppo erano incastrate dietro le palpebre.

- Che la amo – Sussurrò Boris.

 

...................

 

 

Fu il boato di un grosso, enorme tuono a svegliarli, mentre i letti ballavano sotto le spinte di una scossa improvvisa di terremoto. Un terremoto molto strano e molto cattivo.

L’allarme antincendio scattò con la violenza di una sveglia alle quattro del mattino dopo essersi ubriacati fino alle tre e cinquanta. Olivier scattò giù dal letto, rotolando accartocciato tra le coperte fino alla parete più vicina. Vagò con occhi terrorizzati nel buio, trovando anche in mezzo a quel delirio il tempo di aggiustarsi l’acconciatura, portando le ciocche dietro la nuca con un gesto meccanico.

- MON DIEU-

La piccola abatjour gli cadde in testa, producendo in lui un gridolino terrorizzato.

-  ANDREW!-

La voce superò l’allarme; stava per gridare ancora quando la mano dell’inglese riemerse da sotto il suo materasso, rivoltato a terra, afferrandolo per una caviglia.

- Sacré ... mon coeur 

- Ma che cavolo urli?-

Olivier si tolse, stizzito, la coperta di dosso.

- La casa crolla e io non posso esprimere le mie emozioni in merito?-

- Sarà stato un terremoto-

- Non senti l’allarme?!-

- Un terremoto un po’ forte allora, per l’amor del cielo Vier, stai calmo! –

- Ha parlato Riccardo cuor di leone!-

- Zitto, Francesco I –

Il francese si fece largo nella stanza invasa di materassi e sveglie buttate a terra, reprimendo un moto di fastidio – Smettila di bullizzarlo solo perchè si è fatto catturare a Pavia –

- Se non altro è passato alla storia per le sue pessime figure. Non ricordi cosa scriveva Ludwig von Pastor?-

- Ora ti metti a tirare in mezzo le fonti?-

- Un sovrano troppo occupato da caccia e altri sollazzi ... – sentenziò l’inglese, perso nei ricordi dei pomeriggi di studio al maniero tedesco degli Jürgens.

- Drew, ti prego –

Il vociare in corridoio portò con sé l’idea che la situazione fosse più grave di quel che sembrava. Andrew fece appena in tempo ad alzarsi da terra, che una poderosa spallata buttò giù la porta della stanza. Rick, in pantaloncini corti e senza nulla a coprirgli l’abbronzatissimo e scultoreo di sopra, guardò i due nelle palle degli occhi.

- Ma che cavolo fate ancora qui? State bene?-

Olivier balbettò qualcosa di incomprensibile, perso tra il fumo che entrava dal corridoio e l’allarmismo incompreso nella voce dell’americano. Rick non aspettò nessuna risposta: afferrò l’inglese per un braccio, e Andrew trascinò Olivier con sè.

- Qualcuno sta cercando di farci saltare per aria – sentenziò Rick, con poco entusiasmo.

Andrew portò gli occhi al cielo, incredulo di essere di nuovo in pericolo, per l’ennesima volta nel giro di un mese. Colpa sua che si era fatto tirare in mezzo alle faccende dei russi. E colpa di quei maledetti ladri. Che non erano ladri.

Un secondo boato strappò il ragazzo dal mondo magico delle vendette da pianificare, e tutti furono certi che questa volta si trattava di un’esplosione.

- Dobbiamo uscire!-

- Ma ... in pigiama?!-

- Preferisci rimanerci secco?-

Olivier indicò spaesato la stampa sulla sua maglia - Non morirò in suolo americano vestito come la Tour Eiffel! –

Rick non perse tempo a discuterci, afferrandolo per la stampa del simbolo di Parigi e della rivoluzione industriale e spingendolo verso le scale.

- Gli altri?-

- Stiamo scendendo tutti!-

Tra le nuvole di fumo si materializzarono Daichi e Max, l’uno in mutande e l’altro che portava sottobraccio il cuscino, come fosse un cucciolo di foca in pericolo di estinzione.

- Qualcuno ha visto Takao?-

In quell’istante il vetro di una finestra si frantumò sotto i colpi della parete che tremava spaventosamente. I capelli di Max si scolorirono di un paio di toni. Rick si prese la briga di spintonare anche lui verso la salvezza.

- Suggerisco di fare più tardi la conta dei superstiti!-

 

Nel cortile dietro il laboratorio sembrava essersi riunito un campo profughi. E in qualche modo era proprio così. Erano tutti intenti a controllare che non avessero per caso perso dei pezzi nella corsa verso la salvezza, tutti più o meno agghindati in maniera impresentabile. Hilary si strinse nella camicia da notte orlata di pizzo, pentendosi di aver portato per quell’occasione il regalo della nonna. Bellissimo e molto caro, ma sicuramente non adatto alla situazione. Mao aveva Rei alle costole che le controllava la vecchia ferita alla gamba, gonfiando una preoccupazione inutile; Emily guardava il laboratorio semi distrutto sull’orlo di una crisi isterica.

- I-il ... il mio ... povero ... –

Ming Ming la abbracciò, sorreggendola nello sconforto.

- Via, via, sono sicura che si può ancora recuperare –

Accanto all’americana, Ivan guardava le mura crollate dell’edificio con la stessa esasperazione.

- I computer ... tutto il lavoro ... –

Sergej si accollò il suo supporto morale, affiancando l’amico in silenzio. Non che ci fosse molto da dire: se i computer erano andati distrutti, e se non riuscivano a cavare da quel caos almeno la chiavetta con il materiale di Torres ... ciaone.

- Boris! –

Emily si staccò all’improvviso dalle coccole di Ming, puntando sul ragazzo un’occhiata di fuoco.

- Tipregotiprego, dimmi che hai Falborg con te-

In tutta risposta, lui alzò la mano, brandendo il bey. L’americana esalò un lungo, rilassato sospiro.

- Per fortuna, cazzo ... –

- Un vero blader non si separa mai dal suo bey – Recitò Takao; e anche per quella sera la frase dei cioccolatini trovò il suo spazio.

Il capitano degli All Starz si guardò intorno smarrito - Ma che stracazzo ... –

- Ci hanno fatti esplodere –

Michael strabuzzò gli occhi. Kai allungò la mano, mostrando ai presenti quel che sembrava un candelotto di dinamite abbandonato.

- Ci saranno sicuramente altre cariche ... –

- E come lo spieghiamo al PPB?-

- Questo adesso non è il problema più grosso –

Kai gettò nell’erba il pezzo di bomba rimasto intatto, passandosi una mano sulle guance annerite di cenere. Ricordò in quel momento che il suo trucco da guerra non era al solito posto: quei triangoli blu che tanto lo caratterizzavano comparivano solo la mattina, per sparire la sera prima del sonno. Aveva ricominciato a farseli solo da pochi giorni. Il nonno adorato non li gradiva, e per l’amore della pace aveva accettato di non mostrarli più tra le mura della villa.

- è stato Vorkov, poco ma sicuro –

- E ... adesso? –

Kai guardò Andrew con gli occhi più severi e supplichevoli che potesse concedersi, sperando che l’inglese avesse messo da parte la pigrizia almeno quella volta in tutta la sua vita.

- McGregor –

- Che c’è?-

- Dimmi che hai parlato con Ralph, e che abbiamo un soggiorno prenotato in Germania –

L’inglese alzò, di nuovo, gli occhi al cielo, in un moto di aplomb molto british nel suo pigiama in tinta unita firmato Harrods.

- Ovviamente – Strascicò la risposta; nessuno si sarebbe dovuto permettere di mettere in discussione la sua efficienza.

- Max –

Il biondo tornò sull’attenti all’improvviso, come colto sul fatto a cospirare con il suo cuscino – Roger!-

Kai sospirò. La strada verso il manicomio si faceva sempre più breve - Ci serve l’aereo privato del PPB. Puoi chiedere a Judy di farcelo avere?-

- Yes sir!-

- Perfetto –

La concitazione si spense, almeno un po’, in quell’istante. Kai tornò a scrutare minaccioso, con le mani sui fianchi, il devasto che era rimasto del laboratorio. Emily si affiancò a lui, e Ivan terminò la fila, con Sergej ancora al suo fianco a supportare la sua esasperazione in religioso silenzio.

Takao si accostò all’ex compagno di squadra, squadrando anche lui le crepe sul muro portante.

- ... Dite che Ralph ci ospita anche se siamo in pigiama?-


 

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 20 ***



Capitolo 20

 


Avevano raccattato il ricattabile velocemente, giusto per presentarsi dignitosamente al maniero tedesco. Con riluttanza, Judy aveva messo tra le curatissime unghie di Alyna un passaporto firmato PPB, pregando il cielo che la comunità scientifica non la disconoscesse. Non aveva saputo dire di no a Max, e aveva capito quanto grave fosse la situazione, soprattutto davanti alle macerie fumanti del suo beneamato laboratorio. Ma quel passaporto le bruciava sulla coscienza, quasi quanto sapere che una falsa dottoressa del PPB ora si aggirava per l’Europa.

Dopo essersi accertati che nessun’altra carica di dinamite sarebbe esplosa sulle loro teste, ciò che restava delle valigie sfatte era stato messo in salvo dai proprietari. Ivan si era fiondato in quel che restava della sua stanza, e gli insulti in russo erano arrivati fino a Central Park quando si era accorto che il pc scippato a Vorkov anni prima era stato frantumato dalla pesantissima bajour. Emily era quasi scoppiata in lacrime davanti alla porta distrutta del suo laboratorio preferito; Michael l’aveva fermata prima che andasse a incastrarsi tra i cavi spezzati e la corrente elettrica libera di ondeggiare pericolosamente tra i macchinari.

Alle cinque della mattina era stato fatto il punto della situazione: Falborg era salvo, e con lui qualunque cosa ci fosse nascosto dentro; la chiavetta con i file di Torres era, fortunatamente, intatta, chiusa provvidenzialmente in un cassetto che si era spiaccicato meno degli altri; i vestiti erano stati i meno fortunati. Tra bruciature, strappi, l’ira di Kai davanti a un buco enorme nella sua camicia blu preferita e i plateau delle scarpe di Ming Ming scollati dal resto delle calzature, erano riusciti comunque a trovare il modo di rendersi tutti presentabili.

Alle sette e mezza della mattina, con il diavolo a rincorrerli, erano tutti al gate, con i motori dell’aereo già caldi e le hostess con il cartellino del PPB a sorridere amabilmente alla combriccola annunciando il decollo, e l’orario del pranzo.

Yuriy sgattaiolò al bagno appena il segnale delle cinture si spense. Il wc del laboratorio era andato distrutto, e la fretta lo aveva costretto a trascurare la sua vescica fino a quel momento. In piedi, incastrato nello spazio che bastava appena a slacciarsi i pantaloni, ebbe il tempo di riflettere su qualcosa che gli era accaduta dieci minuti prima di salire su quell’aereo. Si era trovato seduto accanto a Daichi, negli unici due minuti di pausa dalla loro letterale fuga dal laboratorio, ed era successo qualcosa di ... singolare.

Si sentì addosso uno sguardo insistente, per nulla discreto e, quando cercò con gli occhi su chi fulminare tutto il fastidio di quella tremenda mattina, si scontrò con il piccoletto dei Bladebreakers.

Yuriy si sentì intimidito dall’estenuante, pura curiosità che quel ragazzo secerneva.

- Hai le rughe – Esordì all’improvviso.

- ... Prego?-

Daichi, con la sconcertante sincerità che portava con sé da quando era piccolo, si portò l’indice sotto gli occhi.

- Le rughe. Attorno agli occhi –

- Quindi ...?-

- Sei sempre arrabbiato, e la tua faccia ha preso la forma del ghigno. E ora hai le rughe. Sembri vecchio –

Le sopracciglia di Yuriy fecero un rapido saltello. Si ricompose subito, ma non seppe dare una risposta pronta.

Vecchio?

- Un sorriso ogni tanto? No?-

- Non hai altro a cui pensare?-

- Hei, lo dico solo per te –

- Beh, grazie tante. Altro di interessante da dire?-

Daichi strinse le spalle.

- Fra cinque minuti parte il mio volo, se riesco finalmente a tornare in Giappone. Succede un macello al giorno qui ... –

- E quindi? Questa perla è il tuo regalo d’addio?-

Il più piccolo prese a frugare nel suo zaino; Yuriy fu sicuro che non lo stava ascoltando. Senza dire una parola ne tirò fuori un paio di mutande con una curiosa stampa a scimmiette.

Yuriy chiuse lentamente gli occhi.

Che. Cavolo. Ho. Visto.

- Le avevo addosso – Cominciò Daichi, come se non stesse facendo nulla di anomalo – Quando ti ho battuto a quel torneo, una vita fa –

- ... Aha ... – Yuriy continuava a tenere gli occhi chiusi.

- E mi hanno sempre portato fortuna. Tu non hai qualcosa del genere?-

- Un amuleto a forma di mutande? No, direi proprio di no –

- Beh, tienile allora. Magari ti aiuteranno in quello che stai facendo –

Yuriy avrebbe voluto controbattere. Lo avrebbe voluto davvero. Ma la disarmante genuinità di quel ragazzo gli fece cadere la lingua, e si ritrovò in un attimo con un paio di mutande in mano, di tre taglie in meno e con una scimmia sul pacco, a guardare Daichi allontanarsi verso il suo gate e fargli un bell’ok con entrambi i pollici alzati.

 

Tornò a sedere con quel pensiero in testa. Un paio di mutande come porta fortuna. Davvero a Daichi bastava così poco? Più di tutto però c’era una cosa che lo tormentava. Incastrò le gambe sotto il sedile davanti, trovando scomoda ogni posizione; tirò giù il bracciolo; poi lo tirò sù.

- Sergej –

Il suo compagno di posto rispose al richiamo con un interrogativo Hm.

- Ti sembro ... vecchio?-

- ... Vecchio? –

- Sì, con le rughe, o qualcosa del genere –

Sergej spostò l’attenzione dal panorama fuori dal finestrino fino a Yuriy, perso nella sua attività di crearsi inutili problemi. Il biondo inclinò di lato la testa, guardando il capitano di sottecchi.

- Va tutto bene Yuriy?-

- Sì, sì ... – Sospirò – è che Daichi mi ha detto che sembro invecchiato. Perchè sono sempre ... – Gli costò un po’ di orgoglio dirlo - ... Imbronciato –

- Mmh, molto offensivo – Commentò Sergej, tornando a concentrarsi sul finestrino dopo aver accertato che, sotto sotto, i neuroni di Yuriy non erano messi peggio del solito.

- Sto ... invecchiando? Tu credi che la mia faccia abbia qualcosa di diverso?-

- Te ne fregherebbe qualcosa?-

- Della tua opinione? ... Direi di no –

- ... Vuoi che chiami Hilary?-

Yuriy si prese il volto tra le mani, passandosi i palmi sugli occhi.

- Sergej, ti prego –

- Il parere di una ragazza è più autorevole se si parla di aspetto fisico –

- No –

- Cercavo solo ... –

- Sergej –

Il biondo sorrise, nascondendosi dietro l’imponente schiena e la ricrescita della barba di tre giorni; il maledetto rasoio si era rotto, e tra le bombe, i problemi e il fatto che non poteva uscire di casa non era riuscito a reperirne un altro. Per qualche motivo gli americani si radevano solo dal barbiere, e giapponesi e cinesi avevano un pelo di barba all’anno. Max forse neanche quello.

Hilary era stata molto carina con lui in proposito, proprio quella mattina, mentre recuperavano ciò che si era salvato dal disastro al laboratorio gettando tutto alla rinfusa nelle valigie superstiti. Lo aveva squadrato per un minuto buono, notando i riflessi ramati tra i peletti sul mento.

- Sembri più ... Affascinante? N-non vorrei che ... beh ... ti facessi idee sbagliate. Però, davvero ... mi piace così –

Lo aveva detto gesticolando, dietro un sorriso che chissà dove aveva trovato il coraggio di sfoggiare quella mattina. Sergej aveva parlato sì e no due volte con quella ragazza, in più di dieci anni di conoscenza. Quando se n’era uscita con quella frase ... aveva provato un misto di simpatia e malinconia insieme. E non aveva potuto fare a meno di leggerle in volto qualcosa che lei voleva nascondere. L’istinto, lo stesso che lo aveva portato a prendersi cura dei bambini, aveva accompagnato sulle sue labbra una domanda banale. Al suo Va tutto bene?, la giapponesina aveva esitato; poi se n’era andata con una scusa qualsiasi.

Una hostess carina, corredata di foulard e chignon, passò con il caffè.

- è per Kai ... – Borbottò Sergej.

- Mh?-

Scosse il capo – Ragionavo ad alta voce –

- Che ha fatto il bastardo?-

- Mmh ... qualcosa che ha a che fare con Hilary –

- Ser?-

- Mh?-

Yuriy buttò giù la brodaglia marroncina d’un fiato – Dobbiamo proprio parlare di questo?-

- No, no –

Il silenzio riprese per uno, due secondi. Poi Sergej si drizzò meglio sul sedile, agitandosi come se una cucitura invisibile sulla stoffa lo avesse indispettito.

- Vuoi che debba comportarsi così?-

- Chi?-

- Kai!-

Gli occhi di Yuriy toccarono le bocchette dell’aria condizionata.

- Risparmiami i pettegolezzi, almeno tu –

- Anche tu sei una pettegola, non negarlo –

- Non cominciare a parlare come Boris –

- Non lo sto facendo –

- Che poi – Si accomodò come potè sul sedile, chiudendo il tavolino e accartocciando il bicchierino di plastica nella tasca dello schienale davanti, insieme alle riviste su come sopravvivere in caso di ammaraggio –Che cavolo te ne frega ora di Hilary? Cosa senti, il richiamo della famiglia?-

Sergej scoccò al capitano un’occhiata di fuoco – Certo che no – precisò – Piuttosto è lei che lo sente –

- Verso Kai?- Yuriy soffiò una risata – Impossibile. Quell’uomo è una molletta attaccata alle palle. Non so come faccia ad attirare tante donne, ma pensare di portarselo all’altare è da folli –

Il discorso finì lì, con l’odore del pranzo in arrivo che a Yuriy ricordò terribilmente il volo di andata per New York preso solo pochi giorni prima. Il voltastomaco lo toccò con la rapidità di una zanzara in piena estate, e si accorse di non essere l’unico quando gli sfrecciò accanto Takao, in piena crisi esistenziale con annessi conati di vomito.

Se la salvezza del mondo da una guerra missilistica era nelle loro mani, Yuriy cominciò a considerare la possibilità di emigrare su un altro pianeta.

 

Atterrarono a Norimberga dopo un lungo, estenuante volo. La patria di Dürer li accolse a braccia aperte, inconsapevole di ciò che stava per accadere; per fortuna Ralph lo era. Con una puntualità che spaccava il secondo, sulla pista di atterraggio si palesò un autobus dai vetri oscurati, tappezzato di pubblicità dei luoghi di interesse in quella città storica. Dall’unico finestrino aperto il rampollo degli Jürgens, con un solo, eloquente sguardo, fece loro capire di darsi una mossa e salire a bordo.

 

 

- Andrew mi ha spiegato cosa vi è successo. Temo di non avere capito nulla –

L’inglese si rovesciò a pancia all’aria su uno dei, costosissimi, divani, talmente abituato ad accogliere il suo fondoschiena che ne aveva l’impronta stampata sui cuscini giallo di cadmio. – Mi hanno messo fretta – Sentenziò, scaricando la colpa su altri generici.

- Mh –

Il monosillabo di Ralph, accompagnato da un penetrante giro di sguardi, mise tutti in attesa. Gianni e Olivier, che un po’ come Andrew si sentivano a casa loro in quel maniero dai rimandi gotici, stavano elegantemente facendo incetta di dolcetti; Kai, per nulla impressionato dal lusso decadente della sala, era a braccia incrociate nella sua posa iconica, fingendo di non stare per addormentarsi in piedi. Ming Ming soffiava un wow ad occhi spalancati per ogni arazzo che contava sulle pareti. Takao era al bagno da quando erano arrivati, venti minuti prima.

- Ehm ... – Max prese, timidamente, la parola, incoraggiato da una pacca sulla spalla di Rick, sostenitore morale con nessuna intenzione di scambiare amichevoli chiacchierate da damerini – Grazie per averci ospitati Ralph. Mi sa che ci hai letteralmente salvati –

Il tedesco andò dritto al punto - Cosa c’entra Vorkov in questa storia?- Lo chiese direttamente a Max, che si sentì investito di una certa dose di responsabilità. Voglio dire, in fondo a Norimberga ci erano arrivati con l’aereo del PPB.

- Hai presente tutta la storia dei missili? Ecco ... è per quello –

- Se ha cercato di eliminarvi dovete aver fatto qualcosa di grosso. Non è facile far passare inosservata un’esplosione in un laboratorio del PPB, occupato da un gruppo di famosi blader per giunta –

- Diciamo che questa volta ha un sacco di amici pronti ad aiutarlo –

- Mh –

Ralph si fermò solo per fare un cenno al maggiordomo, fermo sulla porta; al suo segnale, il caldo odore di un pregiatissimo tè si sparse nell’aria – Immaginavo. Come era accaduto nel corso dei due campionati mondiali –

Max specchiò la sua immagine nella bevanda, facendone ruotare il liquido – già ... –

Yuriy si impose sulla discussione; di tempo da perdere in chiacchiere da salotto non ne avevano – In breve, sappiamo che qui a Norimberga è nascosto un arsenale missilistico, che rischia di ritorcersi contro di noi –

Ralph, scarsamente impressionato da una storia già sentita dai deliri dell’amico inglese, inclinò la testa di lato – Dove?-

Yuriy alzò le mani – Speriamo che per questo ci possa aiutare tu –

- Non hai quelle vecchie mappe della città da qualche parte? Sai, quelle ereditate dai tuoi bis bis parenti ... o che sò io – gesticolò Gianni, con l’ennesimo pasticcino in mano – Potrebbe esserci un sotterraneo nascosto, un palazzo in disuso, una cantina, un ... qualcosa –

 Ad un secondo cenno del capo il maggiordomo, che si stava perfettamente mimetizzando con l’ambiente, uscì in silenzio.

- Se ne occuperà Gustav. Nel frattempo ... – Ralph si alzò dalla sua poltrona preferita, scegliendo con noncuranza dalla libreria un enorme volume sulla storia di Bisanzio – Suggerisco a tutti, data l’ora – Accennò all’enorme orologio a pendolo che stava per battere la mezzanotte – Di ritirarci per la notte. Domani discuteremo meglio sul da farsi –

Takao tornò dal bagno in quel momento, captando solo la parola notte; non si fece altre domande, facendo subito dietro front verso il letto. Rei lo afferrò per la felpa, prima che si infilasse in una stanza a caso. Emily e Hilary erano, con Ming Ming, assiepate su un divano, già in semi dormiveglia; Michael si prese la briga di svegliarle, anche se forse era più insonnolito di loro. Mao si aggrappò a Rei, che stava trascinando Takao, e al trenino al seguito di un secondo inserviente, spawnato da chissà dove, si unì anche Ivan, trascinando con sé, con premuroso istinto materno, il pc che era riuscito a salvare dalle macerie del laboratorio.

Gli altri, chi più chi meno, non seppero nemmeno come ci erano arrivati alle proprie camere. Yuriy fu solo sicuro che, fino al momento in cui il sonno lo avvolse, lo sguardo di Boris gli stava penetrando le spalle, nella tacita minaccia che, se per caso avesse raccontato a qualcuno del suo momento di debolezza della sera precedente, in nome della loro vecchia amicizia giurò che di lui non sarebbe rimasto nemmeno un capello rosso.

 

 

- Birra. Questo è quello che vi serve –

Alle sette in punto della mattina Gustav aveva sfoderato le sue armi migliori: spianate sul tavolo della colazione svettavano tre mappe della città, di datazione XIV-XV-XVI secolo, magnificamente originali e ben conservate. Da sotto i baffi brizzolati il maggiordomo tedesco per eccellenza aveva colto la tacita congratulazione di Ralph, ed era silenziosamente tornato ai suoi doveri quotidiani.

Emily sospirò un sapevo che essere astemia non mi avrebbe aiutata nella vita, accompagnata dal ciondolare di approvazione della testa di Hilary.

Rick, con la sua solita diplomazia, partì all’attacco.

- Che è sta roba? Che c’entra la birra?-

- Norimberga – Cominciò Ralph, elevando la voce sopra i mormorii confusi di un coro di voci assonnate che non avevano, evidentemente, la sana abitudine di svegliarsi di buon’ora – era famosa per le sue birrerie. Per una produzione ottimale, i mastri birrai scavarono delle gallerie sotterranee per il mantenimento dei loro prodotti –

Rick si finse impressionato. Accanto a lui, Max lo era davvero. Andrew mimò un applauso.

- Ottimo! Magnificent! Pensi possa essere tutto nascosto lì?-

- Non è possibile che abbia allestito un intero arsenale in un vecchio edificio. E se avesse preso in affitto uno stabile abbastanza spazioso per le sue manovre, la mia famiglia se ne sarebbe accorta. E anche io –

Gianni fischiò, impressionato – Come sempre, la Germania è tuuuutta sotto controllo –

Ralph indicò un punto in una delle mappe.

- Qui è dove, più probabilmente, c’è lo spazio e la ... tranquillità sufficiente a nascondere armi, passando inosservati –

Yuriy non ci provò nemmeno a capire qualcosa da quelle mappe. Incrociò i suoi occhi con quelli del tedesco, felice di scontrarsi con qualcuno che, a differenza di chiunque altro lì dentro, aveva un minimo di stabilità psicologica.

- Puoi portarci lì sotto?-

- Nessun problema –

Un lieve brivido percorse la schiena dei presenti; o almeno, di chi tra loro fosse abbastanza sveglio a quell’ora da aver seguito tutto il ragionamento.

Hilary si scoprì a tormentarsi le pellicine attorno alle unghie, sfogando così l’ansia di quell’istante.

- Quindi ci siamo – sussurrò, lanciando ai suoi amici, chi più chi meno, un’occhiata carica di sentimenti contrastanti. Takao le fece eco.

- Ci siamo –

- Sì, certo, grazie a tutti per averci aiutati e quant’altro ... ma voi non verrete-

La sentenza di Sergej meravigliò tutti; persino Yuriy, che stava per uscire dalla stanza soddisfatto e fare tappa al bagno, si irrigidì sul posto. Tra Ivan e Emily volarono occhiate di complice irrequietezza, convinti entrambi, nella tacita e informatica amicizia che stavano sviluppando, di avere ancora bisogno di tutto il supporto tecnico possibile. Kenny, infiltrato tra loro e promosso ad assistente ufficiale del reparto degli hacker, restò altrettanto sbalordito.

- Ma ... ma non potete! No, cioè, potete, e dovreste ... – si corresse, abbassando progressivamente il tono della voce – Ma non abbiamo ancora finito di analizzare Falborg, e le due chiavi ... –

- Le troveremo – Sergej lo fermò, prima che al ragazzo prendesse una sincope – E forse non ne avremo bisogno. Arrivati lì, ci basterà distruggere il laboratorio –

- Sono d’accordo – La voce di Boris, che dal decollo da New York era stato incredibilmente silenzioso, prese posto prima di altre proteste – Faremo un lavoro rapido e pulito. Sappiamo come si fa, no?-

Gli occhi saettarono sul capitano. Con un cenno del capo, Yuriy decise per tutti.

- Partiremo stanotte, è inutile aspettare –

- Yuriy!- Ivan si alzò di scatto – Abbiamo bisogno di più tempo per preparare tutto, non possiamo fare delle cazzate proprio adesso!-

- è vero! Poi – Takao si fece largo fino al centro del tavolo, giusto per avere gli occhi di tutti addosso.

- Abbiamo cominciato questa cosa insieme, e continueremo insieme!-

A quel punto Sergej mise tutte le mani a disposizione avanti.

- Calmi tutti. Non avete capito. Noi – e puntò gli occhi sui suoi compagni di squadra, tra cui un Ivan abbastanza irritato – Andremo a fare il lavoro sporco. Voi potrete comunque aiutarci da qui –

- Non possiamo fare un tubo Ser! Avremo bisogno di telecamere, di un modo per restare in contatto, di materiale esplosivo e delle stramaledette chiavi! – Ivan si stava per mettere le mani nei capelli – Come lo distruggiamo l’arsenale? Facciamo saltare l’intero impianto di gallerie? Cristo, un minimo di organizzazione!–

Sergej sospirò.

- Se necessario sì –

Boris prese la parola con la sentenza lapidaria della giornata. Kai soffiò una risata – Ma sei scemo? Vuoi far sprofondare la città per caso?-

- Beh, trovami un’altra soluzione allora! Lo capisci che abbiamo i minuti contati?-

- Aspettate un momento – Ralph si intromise, con crescente allarmismo – Se avete intenzione di arrecare danni irreparabili in pieno centro, non vi permetterò di farlo –

- Ma che danni irreparabili! Non abbiamo nessun arma per farli!- Ivan prese in mano il suo pc, agitandolo come una clava – Lo vuoi capire, testa di rapa – E si rivolse a Boris – Che ho solo bisogno di un po’ più di tempo per trovare quelle maledette chiavi?!-

- Beh, non ce lo abbiamo! Dovevi pensarci prima!-

- Silenzio!- L’imperativo di Yuriy riuscì per un attimo a calmare le acque. Poi, andando in modalità efficienza, il suo cervello cominciò a dare ordini a chiunque – Sergej ha ragione, quindi Takao fammi il piacere di non discutere e fare quello che ti si dice. Ivan, hai dodici ore per procurare il necessario. Tutto, il necessario. Boris, se hai voglia di sfogarti per qualcosa fallo prendendo a pugni il muro. E sì Ralph – concluse, con uno dei suoi penetranti, congelati sguardi – Faremo esplodere la città se necessario. Ma fermeremo quel bastardo, e con oggi mettiamo la parola fine a tutto –

Scattò il finimondo.

Boris prese il capitano in parola, assestando un colpo talmente forte alla parete che vibrò il lampadario. Così, per sport. Gianni si spostò con discrezione verso la porta, snasando il pericolo di morte. Ivan inveì con una serie di improperi in russo, che per fortuna capirono in pochi, accompagnato dagli insulti in tedesco di Ralph, così spinti che persino Gustav si palesò nella sala, preoccupato di sentire il signorino pronunciarsi in tali infamanti epiteti.

Takao, in piena crisi da leader inascoltato, si issò sul tavolo in mogano, calpestando direttamente le mappe rinascimentali della città sotto lo sguardo inorridito di Olivier, che rischiò un infarto. Brandendo il suo bey, cominciò a urlare solo uniti si vince, mentre Max e Kenny cercavano di tirarlo giù per le gambe, con l’effetto di abbassargli i pantaloni per sbaglio.

Kai, che ormai era sicuro di trovare la macchina per il manicomio sotto casa, cominciò a calcolare di dileguarsi. Capì che era ora quando anche Emily si lanciò nel dibattito, facendosi passare una delle scarpe di Gucci di Ming per sbatterne il plateau sul tavolo e cercare di ottenere attenzione. Quando anche Sergej si mise a urlare, la situazione ormai era diventata irreparabile. Kai richiuse l’uscio dietro di sé con sollievo, lasciandosi alle spalle quella specie di girone infernale.

 

- Pensavo di essere solo –

Hilary sobbalzò, aggrappandosi alla tenda cremisi. Lo scoppiettare della legna nel camino coprì l'accelerare dei suoi battiti quando incrociò gli occhi con quelli di Kai.

- Io .. –

- Stavo rischiando l’esaurimento nervoso – Lui si avvicinò alla finestra, con corredo di braccia conserte e solito sguardo da noncuranza cronica verso il mondo circostante. Scosse la testa con un mezzo sorriso.

- Quelli sono davvero matti –

- Noi no?-

Kai la guardò di sbieco. Hilary strinse un lembo delle tende fra le mani, perdendosi nella luce che filtrava dalle finestre socchiuse. Poteva essere anche giorno inoltrato, ma in quel castello uscito da chissà quale epoca l’orologio sembrava essersi fermato al tardo pomeriggio.

- Voglio dire ... – La giapponesina riprese, spostando gli occhi sul fuoco – Guardaci. Stiamo fuggendo da giorni, ci nascondiamo ... Se non è follia questa –

- Non sareste dovuti venire. Ma Takao è un imbecille –

Hilary sospirò.

- E lo siete anche voi – Concluse Kai.

- Sinceramente ... non pensavo che sarebbe successo un simile caos –

- Con Vorkov in mezzo che ti aspettavi?-

- Io ... – Aprì la bocca, senza sapere cosa rispondere – Non lo so. Vorrei solo ... che foste al sicuro. Che tutto questo finisca presto, e vorrei, lo vorrei tanto, tornare a scherzare, a ridere con voi come una volta. Senza Vorkov. Senza pensare a cosa sacrificare per salvarci la vita. Vorrei ... – Continuò, un fiume di parole ad uscirle dalle labbra come le perle di una collana – ... vedere Sergej, Yuriy ... quei ragazzi vivere sereni. Tranquilli. Lo meritano, tutti lo meritiamo. Sarebbero più felici loro, lo saremmo noi, e lo saresti tu, e per me è importante, perché Io ti am... –

Sovrappensiero, le sillabe le scivolarono fuori dalle labbra; si accorse subito che si stava lasciando sfuggire cose che non avrebbe voluto dire. Si schiarì la voce, cercando di correggere il tiro – Io t-ti a ... ammiro! Sì – Si allontanò dalle tende, mettendo più spazio tra lei e Kai, che la guardava con crescente curiosità.

- Cioè, ti stai dando così da fare per aiutare i tuoi amici, è ammirevole! Ecco! Esatto, sì! Mh mh!-

E calò un silenzio imbarazzante.

Hilary attorcigliò le dita fra di loro; avrebbe voluto girare i tacchi e far finta che nulla fosse accaduto, complice il ricordo dei pianti fatti due sere prima al laboratorio proprio a causa di Kai. Lui più che imbarazzato sembrava ... attento. Come se alla consegna delle verifiche gli fosse sembrato di sentire il suo nome tra quelli degli studenti con il voto più alto. Le braccia si scomposero dalla posa; le mani finirono nelle tasche dei jeans.

- Non credo di aver capito –

- Non c’è niente da capire! Niente – Puntualizzò lei, sperando che la terra le si aprisse sotto i piedi – Io ... devo andare!-

- Dove?- Kai in due passi la raggiunse. La ragazza fu sicura che le orecchie le stessero andando a fuoco.

- Via – Disse solo, senza trovare una scusa migliore. Via da te, prima di impazzire pensò il suo cervello, che per fortuna non aveva facoltà di parola.

- Che cosa stavi per dire?-

Un enorme groppo le si formò in gola. Sì, lo aveva detto; se l’era lasciato sfuggire. Lo sapeva, se n’era accorta. Abbassò gli occhi, li chiuse e li riaprì, ma scoprì che non bastava per farsi scomparire.

- In tutto questo casino, con una ragazza morta, il laboratorio esploso e un gruppo di indemoniati che di là stanno tirando giù l’inferno ... è questo che non riuscivi a dirmi l’altra sera?-

Poteva sentire il respiro di quel ragazzo ad un palmo da lei. Accusava la pesantezza dei suoi occhi addosso anche se non li vedeva, e il crepitio del maledetto camino le confermava che sì, quella era la realtà, e che no, il tempo non si era fermato e lei non poteva fuggire come se nulla fosse.

Allora fece quello che sapeva fare meglio. Quello per cui Takao l’aveva sempre ringraziata, quello per cui le sue amiche le chiedevano consiglio, quello per cui era passata alla storia, tra i pro e i contro di essere una persona estremamente schietta ma timida, incapace di mentire ma impaurita da ciò che non conosce.

Disse la verità.

Con gli occhi lucidi e pronti al pianto, e la mente incredibilmente sgombra da tutto fuorché quelle poche parole, si scoprì sicura. Stava per buttarsi da una scogliera su un mare di lava senza paracadute, ma era ... tranquilla.

- Ti amo-

Si accorse di essere stata una stupida a non averlo mai detto. E dire che, alla fine, sarebbe bastato solo un po’ di coraggio.

- Lo so –

A Hilary venne quasi un infarto. Le gambe le tremarono, e istintivamente fece un passo indietro. Kai le fu di nuovo addosso in un attimo.

- Direi che abbiamo parlato abbastanza –

Il bacio fu una questione di secondi.

Le bocche si incontrarono, le ginocchia tremarono, le mani si smarrirono tra la porpora di quelle tende. Lui la teneva stretta, e lei lo lasciava fare. Le gambe altrimenti non avrebbero potuto reggerla. Chissà per quale furia stava accadendo, ma lui non riuscì più a fare a meno di quelle labbra, di quel corpo morbido, della sensazione di calore e del profuno dell’incavo del collo di lei, mentre vi affondava la bocca famelico.

Fu una sciagura per lei, e forse per lui una fortuna, che la provvidenza avesse deciso di tendere loro un agguato. E, proprio mentre quelle mani stavano per scendere dove mai mano di uomo si era inabissata, il padrone di casa entrò nel salone con il tè.

I due amanti, colti con le mani nella marmellata, soprattutto lui, si fermarono di colpo. I volti arrossirono, le giunture si fecero rigide. Il bricco del tè traballò tra le mani di Ralph.

Qualcuno stava per dare affrettate spiegazioni; qualcun altro cercava di uscire di scena con discrezione. Poi entrò Gianni. Un secondo dopo, un’ode italiana veniva composta in onore di un amore appena fiorito, ululata per i corridoi del maniero tedesco. Kai cercò, per buona misura, di strappare la lingua al romano. Hilary cercò di frenare il rossore e le vampate di imbarazzo.

E così, stavolta, tutto fu amore nel più bello e più gradevole dei castelli possibili.



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Capitolo 22
*** Capitolo 21 ***



Capitolo 21

 


Che strano silenzio ovattava l’aria quella mattina.

Ivan aveva insistito per andare a controllare di persona l’edificio indicatogli da Ralph, ma Yuriy era stato perentorio: assolutamente no. Loro erano i più ricercati tra i ricercati, e se qualcuno li vedeva potevano dire ciaone a tutta l’operazione.

Poi Gustav portò una notizia interessante: uno dei ricconi in lista alla festa di NY possedeva gli appartamenti proprio davanti al sotterraneo che stavano tenendo d’occhio. O era un grande appassionato della storia della birra tedesca, oppure gli serviva una base per tenere d’occhio ... qualcosa. O magari stavano sbagliando tutto. Ma a quel punto valeva la pena tentare.

L’idea vincente, partorita dai neuroni del professor Kenny, fu quella di appostarsi in uno degli appartamenti con tutta la discrezione possibile. Neanche il tempo di dirlo che Ralph aveva già tirato fuori la carta di credito di famiglia.

Alle otto della mattina, imbronciato come un bambino senza frutta candita alla fiera del paese, Rick si era buttato sull’ampio letto matrimoniale di un appartamento che mai nella vita si sarebbe potuto permettere. Avevano scelto di nuovo lui come inviato.

- Nessuno potrà mai scambiarti per un tedesco, te lo assicuro –

- E quindi? Cosa vuoi insinuare?-

- Che quelli sono appartamenti che, di solito, vengono affittati da turisti. E tu sei il turista più credibile di tutti noi –

Aveva mandato al diavolo il tedesco.

Sdraiato sul letto da almeno un paio d’ore, con gli occhi puntati sulla finestra, pensò che in fondo tutto quel lusso non faceva per lui. Quella stanza gli dava la nausea. Al centro della parete orribilmente verniciata di verde, lo specchio gli rifletteva un’immagine di sé che trovò stranamente ... deludente. Senza staccare gli occhi dallo specchio, Rick passò i polpastrelli sulla linea delle gambe, risalendo fino a scontrarsi con una collinetta morbida all'altezza dei fianchi.

- Stai mettendo su un po’ di salvagente Rick, non sarebbe ora di limitare il McDonald?-

Michael lo aveva detto ridendo, quel maledetto. Ma a lui ora la cosa bruciava da morire.

Si diede uno schiaffo sulla guancia. Da quand’è che uno come lui si legava al dito quello che pensavano gli altri?

- это здесь 

Rick tese le orecchie. La stanza al primo piano era stato l’unico modo per sperare di carpire qualche parola dall’esterno; non ne capiva un accidente di russo, ma la cadenza per lui era inconfondibile: strascicata, gutturale ... incomprensibile. Si alzò finalmente dal letto; dalla finestra vide benissimo due individui fermi davanti all’ingresso della zona sotterranea della birreria, trasformata in un centro di attrazione turistica con dei terrificanti, enormi cartelli colorati.

Se l’arsenale era lì, lo avevano nascosto dove tutti potevano vederlo. Tutti quelli interessati alla storia della birra; quindi in pochi.

I due turisti malriusciti, macchina fotografica alla mano e zainetto in spalla, erano ancora meno tedeschi di lui. Rick scattò una foto.

- Guarda guarda ... quel nanetto di un professore ci ha preso –

 

 

- Sei sicuro? In russo?-

- Yeah

- Ma tu ... – Emily saettò gli occhi su di lui – Che ne sai di russo? –

Rick rispose con una smorfia.

- Ne so quel che basta per capire che quei due lo parlavano. Si sono infilati lì, e li ho visti uscire quaranta minuti dopo, più o meno. Nell’orario in cui quel buco è chiuso ai turisti. Se non è sospetto questo ... –

- Quindi c’è davvero movimento lì sotto –

Rei non era convinto. Passò le dita tra i capelli per l’ennesima volta, come se pettinarli fosse il suo nuovo antistress. E di stress non ne aveva mai avuto in vita sua.

- è troppo provvidenziale che proprio oggi, quando Rick era lì per controllare ... –

- Forse quei due girano qui da un po’, e oggi era un giorno di ronda come un altro –

- Mh –

La testa del cinese ciondolò di lato.

- Beh ... meglio così. Di tempo ne abbiamo poco, no?-

La porta del salone si spalancò. Sergej entrò brandendo due casse di legno al seguito di Ivan, scaricandole con quanta più grazia possibile sul pulitissimo, elegante tappeto.

- E ... queste cosa ... –

Ivan tirò fuori da chissà dove un piede di porco, scardinando le nuove arrivate. Quando ne tirò fuori una pistola qualcuno rischiò lo svenimento.

Olivier indicò l’arma preoccupato.

- Mon Dieu, non vorrete mica ... –

- Entreremo lì dentro stanotte – Ivan smontò e rimontò l’arnese infernale, controllando anche le altre contenute nella casse – Andiamo in bocca a Vorkov, e lui non si farà problemi a regalarti un proiettile in fronte –

Passò un’arma al francese, che se ne tenne distante come fossero le mutande di un appestato.

Ivan sospirò.

- Volete partecipare, no? Beh, queste sono obbligatorie –

- Ivan ... - Emily aveva una domanda da fare. Sapeva che era una domanda stupida, ma la fece lo stesso – Dove ... da dove arrivano queste? –

Lui non rispose nemmeno.

Yuriy si materializzò in sala, sfoderando il primo sguardo soddisfatto della giornata.

- Sono arrivate? Bene-

- Posso sottolineare che non sono d’accordo con niente di tutto questo?-

- Puoi Ser, ma non mi interessa –

Sergej non si era arreso all’idea del capitano. Che senso aveva dare delle armi in mano a  gente che non ne aveva un’idea?

- Non sarebbe meglio trovare un’altra soluzione? –

- No, E se noi siamo lì sotto, chi difende a loro? –

- Ma difendere da cosa? –

Yuriy lo fulminò con gli occhi, zittendolo definitivamente.

- Ci scommetto la testa che Vorkov sa dove siamo. Se li trova mentre noi siamo lì sotto, non gli basterà correre per salvare la pelle –

Ivan riprese il suo filo del discorso.

- Kai sa già sparare. Qui ci sono altre quattro pistole, datele a chi vi pare basta che non vi sparate addosso da soli. Io comunque starò qui, e con quello – Indicò il pc di Emily – Controlleremo che tutto vada bene. Con questi affari – Tirò fuori dall’altra cassa un paio di auricolari – Ci terremo in contatto –

- Quindi ... – Rei prese la pistola, abbandonata sul tavolo davanti a un riluttante Olivier – Chi andrà a controllare il sotterraneo? –

- Yuriy, Boris e Sergej –

- E nessun altro – Sottolineò Ser, giusto per essere sicuro che non si accodasse nessun volontario.

Ralph annuì – Come procederete? –

Yuriy indicò con un cenno una delle due casse – Lì dentro c’è tutto il necessario per far esplodere qualunque arsenale ci troveremo davanti –

Ivan si schiarì la voce – Sì, il minimo indispensabile. Con così poco preavviso ho recuperato poca roba –

- Cela faremo bastare. Andiamo, e quello che troviamo lo facciamo saltare. Fine della storia–

- E noi che possiamo fare?-

- Niente – Yuriy fu lapidario – State buoni e fermi, e se serve vi difendete. Tenete a freno Takao e aspettateci qui –

- Siete sicuri che ... –

- No. Non lo siamo –

Rei si sentì penetrato da quella risposta, rapida e sincera. Se una persona metodica, precisa come Yuriy non era certo di ciò che stava accadendo, allora la situazione era grave. Ma se comunque proseguiva per quella strada, significava anche che non c’erano alternative.

Il cinese non si scompose, lasciando da parte i suoi capelli almeno per quel momento.

- Va bene. Potete contare su di noi –

 

………………………………….

 

All’una di notte, nel buio e nel silenzio della via completamente deserta, tre ombre strisciarono lungo la parete. Si guardavano alle spalle senza farlo notare, incrociando gli occhi tra loro, camminando senza fare rumore.

Si fermarono davanti all’obiettivo. La porta chiusa non era un grosso problema, non per loro. In un paio di minuti, con un po’ di impegno e un calcio alle assi cigolanti, furono dentro.

Boris ispirò profondamente l'odore di chiuso; di turisti quel posto non ne vedeva da almeno un secolo.

- La birra non è la strategia migliore per far soldi ... –

- Tieni –

Sergej gli passò uno degli auricolari.

- E non lo perdere –

I tre avanzarono seguendo la luce di una torcia, inoltrandosi nei cunicoli ammuffiti. Di birra non ne era rimasta nemmeno l’ombra di quella che si produceva secoli prima; in compenso ogni angolo era tappezzato di finte botti e cartelli illustrativi.

- Abbiamo una meta?-

- Per ora no. Ivan, ci senti?-

Un ronzio nell’orecchio ruppe il silenzio.

- Vi sento e vi vedo. Non spostate la telecamera –

- Vedremo di accontentarti –

Il tunnel cominciò ad aprirsi dopo una decina di metri, allargandosi un po’. Yuriy scavalcò le transenne messe apposta per le file di turisti, saettando gli occhi sulle pareti in cerca di qualcosa. Si fermò quando l’ombra dei mattoncini sul muro gli fece intravedere una porta.

- Qua ci si divide. Voi andate avanti, io vedo cosa riesco a trovare –

I compagni si divisero con un cenno, lasciando indietro il capitano. Sergej si fece largo nel buio con la pila, facendo scivolare la luce sulle pareti. Andarono avanti per un po’, accompagnati solo dal ritmo dei loro passi.

- Non sembrano esserci altre porte ... –

- Magari abbiamo sbagliato –

- Impossibile, la strada era dritta –

- No, idiota, nel senso che forse questo è il posto sbagliato –

Ser assestò al collega una spallata, che Boris accusò con un grugnito.

- Mi sentite?-

I due si fecero attenti.

- Trovato qualcosa Yuriy?-

- Niente, vicolo cieco –

La voce di Ivan si intromise nel discorso.

- C’è qualcuno –

Boris e Sergej si fermarono sul posto. La pila si spense in un click, e il fiato venne trattenuto. Boris spostò la mano dietro la schiena, sfiorando con le dita il calcio della pistola.

- Dove? – Sussurrò, sperando che la voce arrivasse all’auricolare.

- La telecamera che avete lasciato all’entrata ... ci è passato qualcuno davanti –

Appena l’ultima sillaba uscì dall’auricolare qualcosa sussurrò ai due che erano in pericolo. Forse fu l’istinto, o uno strano odore di fumo; ma le gambe furono più veloci della testa, e un attimo dopo stavano già correndo per il tunnel lasciandosi alle spalle l’eco di un’esplosione.

Sergej allungò una mano sulle spalle senza fermare la corsa, assicurandosi che lo zaino con gli esplosivi fosse ancora al suo posto.

- Ma non dovevamo essere noi a distruggere sto cavolo di posto?!- Gridò Boris, fiondandosi con l’amico verso il primo angolo di parete che gli concedesse un blando nascondiglio. Voleva sporgersi dal rifugio improvvisato, ma appena mise il naso in corridoio qualcosa gli sfrecciò a un millimetro dalla faccia.

- Merda ...!-

- è armato?-

- Sembra di sì -

Forse, chiunque fosse sulle loro tracce, avrebbe voluto spaventarli. Non ci riuscì. Boris sfoderò il suo ghigno migliore; fece scrocchiare il collo, godendosi l’adrenalina pompata in corpo.

- Tu vai avanti e fai esplodere tutto quello che trovi – Digrignò i denti, le sopracciglia si arcuarono cattive e, finalmente, rilasciò il freno sulla rabbia repressa – Io mi occupo del nuovo arrivato –

 

Era un solo uomo, e questo stupì Boris. Curioso che uno stronzo come Vorkov non cercasse di avvantaggiarsi numericamente su di loro. Con un unico movimento si trovò la pistola in mano; dal fondo del corridoio una strana luce gettava su di lui l’ombra del nemico, e dall’odore fu sicuro che da qualche parte si stava scatenando un incendio.

- Mi hanno detto che devo ucciderti –

La sua voce lo stupì. Aveva qualcosa di strano, di ... falso. Bassa e viscida, sembrava arrivare alle sue orecchie dopo aver strisciato sulle pareti. Non sentiva più colpi di pistola, e i passi si erano fermati non appena Sergej si era allontanato.

Strano

- Vorrei sapere ... – Un suono metallico ruppe le parole – Cosa hai fatto per farlo arrabbiare–

Boris ghignò.

- Non sono affari tuoi – Rispose, ancora nascosto. Avrebbe voluto vedere quel bastardo in faccia, ma non si fidava ancora a uscire allo scoperto.

- Visto che non vuoi rispondere, lascia che ti tappi la bocca per sempre –

Per la prima volta dopo anni, qualcuno riuscì a prenderlo alla sprovvista. Boris era sicuro che, un secondo prima, quell’uomo fosse ben più distante; in un attimo si era avvicinato tanto da riuscire a sussurrargli all’orecchio. Si allontanò con uno scatto, mettendo quanto più spazio possibile tra lui e l’altro. Gli puntò contro la pistola, ma esitò a sparare dopo aver guardato bene chi si trovava davanti.

Il nemico stava davanti a lui ricurvo da un lato, come se il braccio destro fosse più pesante del sinistro. Le fiamme dell’incendio avanzavano verso il corridoio, disegnando su quel braccio un bagliore metallico e rossiccio; una luce più forte delle altre scoprì sulla pelle una larga cicatrice rossastra incastrarsi tra il gomito e quello che sembrava un pezzo di ferro incastrato nell’avambraccio.

- Cosa ... cazzo ... –

- è ora di dirsi – Lui alzò l’arma piano, puntando quella specie di braccio cannone sul russo – ... Addio-

Un fiume di fiamme si liberò al suo comando, avanzando verso Boris senza che nulla lo fermasse.

No

Sarebbe stato stupido finire così, dopo che si era spinto fino a quel punto. Riuscì a gettarsi di lato all’ultimo, mentre le fiamme lo presero solo di striscio. Sentì la stoffa della felpa bruciare e attaccarsi alla pelle, ma strinse i denti.

- Non ti nascondere, non serve –

Una seconda fiammata sfiorò il muro, sbriciolando i mattoni che lo riparavano.

Poi, di nuovo, quell’uomo gli fu addosso ad una velocità incredibile.

- Fammi vedere come prendi fuoco –

Boris non prese tempo per stupirsi. Gli assestò un colpo in faccia con il calcio della pistola, centrandolo in pieno in un occhio. Poi sparò. Un colpo preciso, dritto al cuore. Era bravo a sparare, aveva sempre avuto una buona mira.

Ma questa volta non bastò.

Le iridi verdi si ridussero a due fessure con le pupille, mentre davanti a loro quell’uomo, con il petto macchiato di sangue, gli puntava di nuovo contro il braccio meccanico. Boris trattenne il fiato; senza chiudere gli occhi tornò con la mano alla pistola, sapendo che non avrebbe fatto in tempo. Sentì il muro dietro la sua schiena.

Sono in trappola

Ma il fuoco non arrivò.

Davanti a lui un lampo d’argento fermò le fiamme, ricacciandole indietro; Falborg si erse tra lui e il suo nemico, con un verso acuto che fece tremare le pareti. Con due battiti d’ali smosse l’aria, vibrando fendenti che tagliavano come lame.

E si gettò sul nemico.

 

Yuriy aveva sentito dei rumori poco rassicuranti, l’odore di fumo, i sibili dei proiettili rimbalzare lungo il corridoio ... accelerò il passo, maledicendo il momento in cui si erano divisi. Non che quei due non sapessero difendersi, ma alla fine era proprio come aveva detto Daichi: l’unione fa la forza. E un branco caccia meglio di un lupo da solo.

Non ci aveva messo molto a raggiungere gli altri, ma c’era qualcosa di strano. Sulle pareti ballava sempre più prepotente il bagliore delle fiamme, e fu sicuro di aver sentito il verso di un animale in lontananza. Quando fu abbastanza vicino, si coprì gli occhi con il braccio per non restare accecato dalla luce.

Davanti a lui un enorme falco d’argento stava proteggendo Boris da un uomo con un braccio cannone.

Cosa cazzo sto guardando?

Fu quasi come una visione, durò solo un istante: il falco calò sul nemico a becco spalancato, allungando gli artigli. Fu un'esplosione di luce, poi di nuovo tutto si spense, lasciando solo fiamme. Il nemico era a terra, e il falco era sparito.

Yuriy sentì distintamente il suo cuore accellerare i battiti. Si guardò intorno ancora spaesato, tornando lucido solo alla visione del compagno di squadra.

- Boris! Hei! –

Era attaccato alla parete, con la pistola stretta in pugno e gli occhi persi nel vuoto. Yuriy lo prese per le spalle, strattonandolo con poca grazia.

- Boris!-

- Era ... Falborg – Sussurrò, più a se stesso che al capitano.

Poi inquadrò Yuriy nel suo campo visivo; si liberò dalla sua presa e lo afferrò per le braccia, giusto per essere sicuro che lui fosse reale e non fosse caduto in un trip da droga pesante.

- Lo hai visto? Hai visto cosa ha fatto?!-

- Ok, stai calmo! Non è il momento per impazzire! –

- Quello ... aveva un cannone nel fottuto braccio! Ma che cazzo di problemi hanno tutti quanti?!-

- Ce ne occupiamo dopo! Dov’è Sergej?-

Il frastuono di un boato rimbombò da lontano, arrivando fino a loro portato dalle fiamme. Una serie di esplosioni lo seguirono, e Boris sentì la parete a cui era appoggiato tremare distintamente. Nessuno fece in tempo a farsi delle domande: dal corridoio una figura avanzò a passo spedito verso di loro, urlando cose che i due non riuscirono a sentire.

Yuriy si mise in allarme non appena capì che quello che correva verso di loro era Sergej.

Gesticolando e urlando cose che suonavano come correte!, il ragazzo li raggiunse, li afferrò per le braccia e se li trascinò letteralmente dietro.

- Che diavolo hai fatto?!-

- Ho messo ... – Sergej sputacchiò un po’ di saliva mischiata al fumo, cercando di non badare alla mano bruciacchiata che aveva sacrificato nella fretta – Gli esplosivi! –

- Hai ... trovato l’arsenale?-

- Sì ... cioè ... –

Un tonfo un po’ troppo forte li avvertì che qualcuna delle colonne che reggevano tutta la baracca forse si era un pelo incrinata.

- No ... Ma ho trovato la stanza! Ho fatto saltare tutto!-

- Questo lo vedo!-

Urlavano tra di loro per far valere le voci nel caos che le bombe e il fuoco avevano creato. Sergej stava già pensando a come scusarsi con Ralph, o come evitare di avere una delle sue mannaie sul collo. Avevano fatto davvero un bel casino.

- Ci siamo! Fuori!-

Neanche a dirlo, i tre si buttarono letteralmente sulla porta, sfondata a spallate di prepotenza. Il freddo li investì, insieme ai sassi della stradina lastricata. Boris si voltò indietro solo ora che fu sicuro di non avere più il fuoco attaccato alle natiche. Fissò la porta sfondata, inspirando l’odore della notte di Norimberga a pieni polmoni.

- Ce l’abbiamo ... fatta? –

 

.............

 

La notizia del crollo di una delle gallerie sotto Norimberga fece il giro dei telegiornali. Da due giorni gli storici e gli organizzatori di gite turistiche gridavano allo scandalo, chiedendo giustizia per lo scempio che la città aveva subito. Tutti gli altri se ne infischiavano in allegria, ignari che sotto i loro piedi esistessero vecchi birrifici. Ma il terremoto, quello lo avevano sentito tutti.

- Ahia! Accidenti ... –

- Fermo! Fammi guardare –

Hilary aveva ceduto, di nuovo, al suo istinto da crocerossina. Con la pazienza di una mamma davanti all’ennesimo ginocchio sbucciato, erano due giorni che medicava la mano ustionata di un brontolante Sergej.

- Non c’è bisogno ... –

- Invece sì. E quando tornerai a casa dovrai fartela subito vedere da un medico! –

- Ma quanto è brava la nostra Hil! – Takao le assestò una pacca sulla schiena, con un sorriso da un orecchio all’altro.

Era servita tutta la diplomazia disponibile per spegnere i bollenti spiriti di Ralph, non contento del devasto che i russi avevano fatto ai bassifondi di Norimberga. Tra un grugnito e una velata minaccia di morte, li aveva perdonati.

- Già – Kai si materializzò accanto alla ragazza chinandosi su di lei – è proprio brava la nostra Hil –

A quel sussurro lei rabbrividì. Sergej fece finta di niente, anche se Gianni aveva già urlato ai quattro venti, giorni prima, della situazione imbarazzante in cui i due erano stati scoperti. Ora Ming Ming ammiccava alla giapponesina ogni volta che la incrociava, e Mao si lasciava andare in risatine molto ambigue. Emily era stata troppo occupata, insieme a Ivan e Kenny, a strapparsi metaforicamente gli occhi per la rabbia.

- Come sarebbe a dire che non sentivate niente?-

- Te l’ho detto! Da quando quel tizio col cannone mi ha attaccato ... fine delle trasmissioni-

- E Yuriy? Sergej?-

- Io ... – Ser si grattò il mento pensieroso – Ammetto che non ci ho fatto caso –

- Io avevo altro a cui pensare, mi sono completamente dimenticato del microfono –

Dopo averci messo l’anima per recuperare nel minor tempo possibile microfoni e telecamere, per mettere in pratica quell’assurdo piano ... le telecamere erano andate perse quasi subito, bruciate, e i microfoni ... boh. Ivan avrebbe preso tutti a schiaffi se non fosse stata per la diplomazia di Kenny, che non voleva rischiare la vita di nuovo davanti ai taglienti occhi del capitano dei russi.

- Quand’è il volo? –

- Stasera –

- Valigia? Fatta? –

- Mh –

- Boris?-

- Eh?-

Yuriy gli lanciò in faccia un asciugamano.

- Se non vuoi vestirti, almeno copriti le parti basse –

Boris lanciò un’occhiata al suo inesistente outfit, rendendosi conto in quel momento di essere uscito dalla doccia nudo, ovviamente, e non aver pensato al cambio. Olivier entrò in quel momento in salotto, fermandosi di sasso davanti allo spettacolo.

- Sacre – Recitò teatralmente, bloccando la porta e Gianni che stava cercando di entrare. L’italiano non ci badò nemmeno alle parti basse in bella mostra; ormai era abituato al peggio.

- Vier, non è che puoi spostarti? –

- Temo che potrei morire se aprissi gli occhi –

Intanto dal corridoio arrivava l’eco della telefonata di Mao al fratello iperprotettivo, che aveva già minacciato più volte Rei di cavargli gli occhi a mani nude se non avesse riportato la sorella integra al villaggio. Il cinese dalle iridi dorate poteva sentire la metaforica ascia di Lai pendergli sulla testa.

- Tornerai da loro?-

Rei sospirò, in un tacito assenso. Sapeva che Takao avrebbe voluto che restasse da lui ancora per un po’, ma il dovere chiamava!

- Tu e Max? Sarete al dojo?-

- Sì, ci facciamo compagnia ancora per qualche settimana, il tempo di digerire ... tutto –

- Che c’è? – Rick gli lanciò uno sguardo di sfida – Scappate così? Non dovevamo sfidarci?-

Gli occhi di Takao si illuminarono.

- Sei serio? Ci state per una sfida?? –

- E chi si è mai tirato indietro? –

- Grandioso!-

Takao saltò letteralmente addosso a Rei, afferrandolo per un braccio. Passò un radar sulla stanza, adocchiando le sue prede, poi afferrò Kai per la sciarpa e andò a spintonare Garland per la schiena.

- Cos ... Takao?-

- Idiot ... idiota! Così mi strozzi! –

Non che a Takao in quel momento importasse delle opinioni altrui.

Mentre il capitano dei giapponesi raccattava tutti per il maniero, strappando Ralph e Andrew ai loro scacchi, Emily, Ivan e Kenny ai loro computer e Michael e Ming all’angolo dei consigli sulle relazioni amorose, Yuriy si dileguò con discrezione. Non fu l’unico a scegliere la fuga come opzione.

- Hai fretta?-

Boris lo affiancò, coperto del solo asciugamano.

- Anche tu a quanto pare –

- Abbiamo davvero vinto?-

Si fermarono sulla porta della stanza, indecisi se chiudere il discorso prima di entrare, o fare una discussione da uomo a uomo davanti alle valigie aperte e ai vestiti buttati sul letto.

- Se l’arsenale era lì dentro ... sì, abbiamo vinto –

- Non ne sei sicuro, vero?-

- Avremmo dovuto aprire quella porta. Ma ... –

- Non avevamo tutti i codici –

Fu Boris a prendere l’iniziativa, superando il capitano, deciso a mettere addosso almeno un paio di mutande. Yury si gettò sul letto, mentre il collega scomparve tra i cassetti dell’armadio. Boris ne riemerse semi vestito; uno sbrilluccichio dal comodino attirò la sua attenzione, e allungò la mano sugli oggetti che riposavano l’uno accanto all’altro. Strinse Falborg tra le dita, lasciando che il piccolo anello d’oro di Rosemary catturasse tutta la luce su di sé.

- Vorrei vederlo implorare pietà in ginocchio per quello che ha fatto –

- è fatta Boris. In qualche modo l’abbiamo ... vendicata –

- Non è abbastanza –

- Non lo sarà mai. Ma a lei non importerebbe –

Yuriy chiuse gli occhi, e tanto gli bastò per materializzare nella sua testa il volto di una bambina con gli occhiali spessi e i capelli scompigliati, che tutta sorridente gli rimboccava le coperte in un giorno in cui si era ammalato al monastero. Tanto gli bastò per scacciare dal corpo l’astio e l’odio verso chi ancora non aveva pagato abbastanza per le sue azioni; quel ricordo gli procurò un brivido di serenità.

- Lei vorrebbe solo vederci felici –

L’anello brillò un’ultima volta sul comodino. L’incisione al suo interno sfavillò, nascosta agli occhi di tutti.

 

Non molto lontano, tra le macerie della galleria crollata pochi giorni prima, schiacciata dalle pietre riverse a terra, una grande piuma d’argento era pronta per essere trovata.


....................

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Capitolo 23
*** Capitolo 22 ***


 

Capitolo 22

 

Un uovo.

Due uova.

Zucchero.

Farina.

Accidenti.

Olio di semi. Ci andava prima quello, poi la farina e il lievito. Hilary si era raccomandata: separare sempre i liquidi e le polveri quando si prepara un dolce! E lui, come un idiota, si era dimenticato di fare l’unica cosa importante.

- Al diavolo ... –

Riprese comunque a mischiare l’amalgama con la frusta da cucina, spargendo chiazze d’impasto ovunque per magia.

- Maledizione –

- Lo stai facendo davvero?-

Kai sobbalzò, chiazzando la camicia azzurra di pancake ancora crudo. Maledì mentalmente l’universo creato.

Erano tornati alla normalità da circa tre mesi, lasciandosi dietro il freddo dell’inverno, le esplosioni, le lettere minatorie e tante altre magiche avventure. Appena aveva messo piede in suolo giapponese Kai si era assicurato di avere un minimo di tranquillità domestica, scrollandosi di dosso gli insistenti inviti di Max e Takao a svernare al dojo. Avevano salutato Rei e Mao, gli americani erano tornati al loro covo di computer e tecnologia, Kenny si rintanava di nuovo tra i libri dal lunedì al venerdì e Ralph era stato ben felice di vedere il maniero sgombero dagli intrusi. Andrew e Olivier avevano preso il primo volo per la Francia, mentre Gianni era stato spedito seduta stante a Bologna dai suoi, che, giusto perché non aveva altro da fare al momento, lo avevano iscritto a un master nella più autorevole e antica delle università. Ming Ming aveva un tour in programma, e avrebbe voluto Garland con se. Ma quel tipo di riflettori non facevano per lui.

Yuriy e Boris avevano ringraziato tutti, a modo loro, e se n'erano tornati nell’appartamento di Londra, più che decisi a mandare al diavolo le lezioni di bey e tornare alla madrepatria con Ivan. Sergey no: lui non ne voleva sapere di abbandonare l’asilo di Croydon, almeno per quel momento.

Kai ne aveva approfittato per riflettere sulle sue priorità. Afferrando la valigia stracolma dal nastro trasportatore, si era scoperto sorprendentemente a cambiare l’ordine delle cose importanti nella sua vita. Il beyblade sarebbe rimasto al primo posto, senza soluzione di continuità; ma al secondo, magari, poteva pensare di affiancare ai buoni amici anche una figura più ... sentimentale?

- Hilary-

- Mh?-

- Vieni a stare da me in questi giorni-

Non glielo aveva chiesto; diciamo che non si sarebbe aspettato comunque una risposta negativa; in ogni caso aveva preferito non rischiare. Un infarto aveva colto la ragazza, mentre Takao origliava con un sorriso da un orecchio all’altro e Max saltellava urlando Yeah boy!, gusto per non mettere l’amico in imbarazzo.

E così, immerso nella pace della sua villa, senza nemmeno preoccuparsi di avvertire il nonno e sperando che non tornasse a casa a tradimento, Kai aveva cominciato a convivere con l’idea di inserire qualcuno di significativo tra le sue faccende quotidiane.

E Hilary era stata ben felice di assecondarlo. Così felice che, piano piano, i loro incontri erano diventati di routine.

 

La ragazza gli si presentò in pigiama rosa di Winnie the Pooh; l’antisesso in persona ma, per qualche strana ragione, Kai lo trovò quasi tollerabile. Lei lo guardò con aria di sfida.

- Allora, questi pancake?-

Lui sostenne il suo sguardo.

- Li stavo giusto preparando-

Hilary notò il giallognolo dell’impasto sparso su ogni angolo visibile della cucina.

- I mobili li gradiscono?-

- Ah ah ... spiritosa –

- Vuoi una mano?-

Kai si impettì, tornando con serietà al suo lavoro, pur non sapendo bene come proseguirlo.

- No –

- Sicuro?-

- Certo –

- Hei ... – Hilary, ridacchiando, gli assestò un paio di pacche tra i capelli perfettamente pettinati – Tranquillo! È solo un momento di ... beh, è una novità, no? Non ci si improvvisa cuochi!-

- Stavi per dire di debolezza, vero?-

Gli occhi di Hilary sfiorarono il soffitto. Kai Hiwatari stava davvero cominciando a fare del teatro ... per dei pancake?

- Mio dio ... –

- Cosa? – Kai la guardò dall’alto della sua statura, incrociando le braccia come faceva tutte le volte che stava per cominciare un discorso in cui voleva avere ragione. Hilary non seppe se prenderlo a schiaffi e tagliare lì il discorso, o essere, come sempre, il più onesta possibile.

- Sei ... un pelino esasperante –

Lui inarcò le sopracciglia, senza scomporsi.

- Non la pensavi così ieri notte –

Hilary arrossì fino alla punta dei capelli. Girò i tacchi, evitando di guardare dritto in quegli occhi che la calamitavano verso la follia; afferrò il pacco di farina mezzo aperto e glielo schiaffò in braccio, poi finse di andare alla ricerca di una padella in quella cucina in cui non sapeva dove mettere le mani.

Kai sorrise furbo.

Punto per me

Poi rincarò la dose.

- Ieri non mi sembravi neanche così in imbarazzo ... e dire che abbiamo fatto ben altro che i pan ... –

- Lo stai facendo apposta?- Le uscì quasi balbettando, mentre si dava da fare tra i cassetti con una leccarda in mano, sbucata chissà da quale antro mistico.

- Anche se fosse?-

- ... antipatico –

- Hei, ho detto che mi piace la grinta ... – Kai la prese per le spalle, voltandola verso di sé senza dover insistere troppo, curvando le labbra davanti alla faccia completamente rossa di Hilary - ... ma così esageri –

Lei approfittò della vicinanza per tirargli un calcio al polpaccio. Ma non riuscì a moderare la forza, e Kai non riuscì a nascondere un brivido di dolore che gli percorse il corpo. Fu il turno di Hilary di sorridere alla vittoria.

- E io ti ho detto che sarebbe bello se fossi meno scorbutico-

Ma lui non si diede per vinto.

- Lo hai detto? Sai, non lo ricordo tra tutto quello che mi hai sussurrato ieri notte – Continuò con finta noncuranza, mordendosi la lingua quando un secondo calcio lo raggiunse alla caviglia.

 

...............

 

- L’amore es como una danza. Devi uscirne senza fiato, con i capelli scompigliati, le guance rosse, la fronte sudata e gli abiti sbottonati. Con il fuego dentro che non si spegne nonostante il respiro, che non si darà pace finché non avrà di nuovo ciò che lo ha fatto ardere. E non potrà più bruciare di altro –

- Cavolo ... –

Ming Ming rigirò la cannuccia tra le labbra rosse, godendosi uno degli ultimi chai tea della stagione, vagando con occhi sognanti sulla pelle perennemente abbronzata di Julia.

- Ma quanto sei poetica?-

La spagnola sorrise misteriosa, nascondendo le labbra dietro un dolcissimo cappuccino.

- Dovresti provare anche tu –

- A far che?-

- A lasciarti prendere dalla poesia. la vita sarebbe mas divertente –

- Ma lo faccio! La musica alla fine è poesia, no?-

Ming sorrise di sfuggita a un paio di fan che la indicavano dall’esterno della caffetteria. La Rambla in primavera era uno spettacolo; appena sbarcata in Spagna, si era premurata di ritagliarsi uno spicchio di tempo tra concerti e servizi fotografici, e sapeva già con quale compagnia trascorrere quelle poche ore. Julia non se l'era fatto ripetere due volte.

- Entonces ... è tutto finito? Niente più armi, niente più missili ...?-

- Sembra di sì –

- E Garland?-

- Come?-

Julia rise.

- Andiamo!- Ammiccò con lo sguardo – Non fingere con me. Ho visto come lo guardavi quel giorno a New York, mi è bastato un secondo per fiutare del tenero –

- Julia! – Ming si guardò intorno, più per fare scena che per reale preoccupazione che qualcuno le sentisse -Ma che dici?- Sussurrò, trattenendo le risatine.

- Ma sì! Dai, sto aspettando. Cuentame-

La mano di Ming svolazzò leggera tra i boccoli – Che vuoi che ci sia da raccontare ... è sempre il solito Garland. Io ci ho provato a tenerlo con me, ma lui ... – Si schiarì la voce, pronta alla migliore imitazione possibile – Ora ho bisogno di tempo per meditare-

Julia scoppiò a ridere con foga, sputacchiando cappuccino sulla tovaglietta.

- Disculpa – Si coprì la bocca con un tovagliolino di carta – Ma è troppo ... pff – Soffocò l’ennesima risata.

Ming alzò gli occhi al cielo, immergendo una mano nella pochette paiettata alla ricerca di un fazzoletto per l’irriducibile spagnola.

- Sei incredibile ... –

- Ah no, sei tu che mi hai provocata!-

Con uno scossone la ragazza liberò il pacchetto di fazzoletti dalla prigione paiettata, facendo volare a terra qualunque altra cosa quella piccola borsa contenesse.

- Cavolo ... – Lanciò il pacchetto a Julia, che la aiutò a raccattare gli oggetti dispersi.

- Boris?- Fece lei a tradimento.

- Che c’entra lui?-

- Vamos ... non dirmi che non hai fiutato nulla- Julia sventolò un foglio appena sfuggito dalla borsetta dell’amica – Non li hai visti gli occhi a cuore?-

- Aspetta aspetta ... ti hanno raccontato di lui e Rose?-

Julia strabuzzò gli occhi.

- Rose? Espera... era innamorato della ragazza morta?-

Ming parve non capire. Chiuse un paio di volte le iridi dietro le lunghe ciglia.

- Scusa Julia ... tu avevi capito che Boris era innamorato senza che nessuno ti dicesse nulla?-

- Ma certo! – La guardò come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo – Anche se avreste potuto dirmi qualcosa di più ... –

- Scusa, eravamo un po’ di fretta –

- Lo se, lo se ... però era abbastanza claro. Non aveva il solito sguardo da arrogante, o da svitato ... era diverso. Di una calma ... strana, como nei quadri di De Chirico. Sai, quella tranquillità che fa presagire l’arrivo di una tempesta ... –

- Kogarashi – Ming Ming pronunciò la parola con solennità.

- Mh?-

- è il primo vento freddo che annuncia l’arrivo dell’inverno. Abbastanza poetico?-

- Puede ser ... –  Julia guardò di sfuggita il foglio che ancora reggeva in mano – Questo mi sembra familiare ... Non è quello che mi avete fatto vedere in America? Con i codici che non riuscivate a decifrare?-

- Cavolo, me lo sto portando ancora dietro! Potrei anche buttarlo, tanto è una copia –

- Espera ... – La spagnola assottigliò gli occhi, scorrendo le file di numeri e lettere fino a scontrarsi con qualcosa di familiare. Prese la sua tracolla, tirandone fuori una cartellina nera.

Ming si alzò, sporgendosi verso di lei.

- Che stai facendo?-

- Il giorno dopo il funerale di Vince l’avvocato ci ha dato un’enormità di documenti su quello che possedeva, le sue case, i contratti ... e i conti in banca –

Julia tirò fuori un foglio fitto di scritte. Le passò una ad una, finché non le si illuminò lo sguardo.

- Ero sicura! Mira – Lo passò a Ming – Esto es lo mismo. C’è lo stesso codice sulla vostra lista, è uno dei conti bancari di Vince –

Un brivido percorse la schiena dell’altra, arrivando fino ai boccoli celesti. Julia continuò il discorso, in preda a una strana adrenalina.

- Non ci avevo nemmeno guardato, non aveva collegato minimamente le due cose. Dopo il funerale ho rimosso tutto, ma sono uguali. Forse è una lista di conti bancari, ma non credo siano tutti di Torres. Magari qualcuno può risalire ai proprietari ... –

- Julia ... sai in quale banca è depositato il conto?-

La spagnola tornò a scartabellare tra i fogli, scannerizzandoli con gli occhi.

Si fermò solo quando trovò quello che cercava.

- La Shawbrook Bank, filiale di Croydon –

 

................

 

- 32 ... 34 .... –

Adorava l’Italia. La amava. Nulla era più bello della sua patria, più profumato dei suoi vini, più gustoso del suo cibo. Ma vedersi sballottato da un viaggio all’altro così, senza preavviso, gli aveva messo addosso uno strano malumore.

Gianni strinse a sé la borsa a tracolla, già carica di cultura alla prima settimana di lezioni. Quantitative Risk Management era un nome pomposo e scomodo per chi non aveva mai avuto interesse nella finanza, ma i suoi genitori avevano adocchiato quel master come una grande opportunità. Allora Gianni non aveva potuto fare altro che piegarsi al volere della famiglia, spostarsi nella metà superiore d’Italia, a Bologna, e prepararsi a parlare solo in inglese in una classe di figli di papà. Un po’ come lui, ma più fasciati da giacche e cravatte.

- Che palle ... 38 –

Si fermò davanti al civico che gli avrebbe procurato almeno un altro paio di pesanti libri da infilare in saccoccia. Per di più libri di filosofia, che alla finanza non serviva granché, ma gli erano stati caldamente consigliati per cultura personale.

Avanzò verso la biblioteca del secondo piano, scansando orde di matricole spesate e professori fermi a parlare in mezzo alle scale.

Che stress

Sentiva già la mancanza delle risate cristalline delle ragazze, delle serate interminabili a sentire l’eco degli urli di Yuriy e Kai, dei discorsi da anziano di Olivier ... sì, gli mancavano persino quelli. Soprattutto gli mancava casa. Avrebbe provato a sopperire con l’appartamento provvidenzialmente acquistato dai suoi in pieno centro, cercando di godersi quell’aria d’università che in realtà non amava così tanto.

Entrò in biblioteca con passo felpato, incrociando gli occhi con un paio di ragazze carine.

Forse non sarà una giornata così orribile

- Dovrei prendere in prestito un libro – Chiese alla bibliotecaria, con il sorriso più largo e cordiale che le nove della mattina gli concedessero.

La ragazza gli passò un modulo da compilare. Gianni si mise a scribacchiare, cercando il movente giusto per attaccare bottone con la bella bibliotecaria bionda, ma venne interrotto. Un’altra ragazza scese dalle scale in fretta, beccandosi le occhiatacce di chi stava studiando al piano di sotto.

- Cla, guarda qui! –

Cla, che presumibilmente si chiamava Claudia, la zittì con gli occhi.

- Ma che urli?-

L’altra non la ascoltò nemmeno, piazzandole davanti alla faccia il cellulare.

- Guarda! L’hanno data per morta alla fine!-

- Scherzi?- La bibliotecaria le afferrò il telefono di mano, scorrendo l’articolo sullo schermo – Ma dai ... povera, mi dispiace da morire! –

- Beh, alla fine erano mesi che non se ne sapeva niente –

- Ma così, senza aspettare? Non hanno indagato più di tanto, eh ... certo, tanto lei non era nessuno, non aveva nessuno ... povera Rose –

Gianni drizzò le orecchie. Forse i suoi occhi scattarono sulle due ragazze con troppa foga perché le vide irrigidirsi all’improvviso, come se fossero state colte con le mani nella marmellata. Claudia gli tolse il foglietto compilato da sotto gli occhi con noncuranza.

- Mi scusi ... dunque, questo lo può trovare ... –

- Posso sapere – Gianni la interruppe con più delicatezza – Di chi stavate parlando? Non per farmi gli affari vostri ma ... conoscevo anche io una Rosemary - si inventò una scusa, giusto per inserirsi nella discussione - e so che non torna a casa da un po’, allora ... –

L’altra ragazza si fece avanti con foga, beccandosi altre occhiatacce dalla bibliotecaria.

- Conoscevi Rosemary? Rosemary Primerose?-

Il cuore di Gianni accelerò un poco, e chissà perchè pensare che tutto si era concluso, che l’arsenale era stato distrutto e i piani del monaco malefico erano stati mandati all’aria, beh, non lo aiutò a calmarsi.

- Sì, beh, era una buona amica di un mio amico ... diciamo che la conoscevo. Ma ... è morta?- chiese, giusto per sembrare credibile - Poi, credevo vivesse a Londra –

- Macchè, a Londra non ci andava da una vita! Era qui fino a pochi mesi fa –

- Viveva a Bologna?-

- Viveva, studiava e lavorava. Qui in biblioteca. A proposito ... – Le due ragazze si scambiarono occhiate complici – Lei, beh ... non aveva una famiglia, per quel che ne sappiamo –

- Eravate molto amiche?-

- Diciamo che le piaceva parlare. Era molto esuberante – gli occhi di Claudia si velarono di un’improvvisa malinconia – Sembrava così felice qui. Poi a un certo punto ... puff! Sparita! Nessun saluto, nessun messaggio ... non è venuta a prendere neanche la sua roba dall’armadietto. Ma forse ... se conosci così bene un suo buon amico, la sua borsa puoi prenderla tu –

- Io? – Gianni tentennò. La curiosità lo bruciava, ma non voleva passare per un approfittatore.

- Ma ... non c’è davvero nessun altro che abbia chiesto di lei?-

Claudia alzò le spalle – Nessuno. Ma sono passati così pochi mesi ... non ci avevo neanche pensato che potesse ... insomma ... che le fosse successo ... questo –

- E i suoi amici?-

- Parlava con tutti, ma non aveva davvero legato con qualcuno. Però ... Le sue cose non possono restare qua, e non vorrei che qualcuno le prendesse e le buttasse via. Sono in quell’armadietto da mesi, quindi, se tu volessi ... –

Gianni non se lo fece ripetere. L’armadietto era proprio lì, dietro la segreteria della biblioteca. Non ci avrebbero messo molto.

- L’unico problema è che non so la combinazione, ma possiamo provare a forzarlo, non è per niente robusto-

- La combinazione? Ma non avete le chiavi?-

- Non per tutti. E ricordo che lei ha insistito per averne uno a combinazione. Se mi dai un attimo chiamo qualcuno che ci dia una mano –

- Aspetta un attimo- Gianni sfiorò la superficie di metallo, contando le caselle da riempire con il codice che fungeva da chiave. In un lampo di genialità prese il telefono, rovistò tra le vecchie foto e, nascosta tra i selfie non richiesti di Olivier, ci trovò l’ingrandimento di un piccolo anello.

Boris l’aveva scattata a malincuore. Avrebbe preferito che quell’oggetto rimanesse sempre e solo suo, ma Kai aveva insistito: in caso di necessità tutti dovevano avere copia dei codici nelle loro mani. Non si poteva mai sapere cosa sarebbe potuto succedere. E forse aveva avuto ragione.

Cinque numeri

Si scoprì in corpo una strana eccitazione, che esplose quando, all’inserimento dell’ultima cifra, l’armadietto si aprì con un click. Le due ragazze erano più sorprese di lui.

- Lo vedi? L’armadietto stava aspettando giusto te!-

 

.......................

 

- Cos’è che c’è a Croydon?-

- Ti giuro che non mi sto inventando nulla-

- Non è che non ti credo, solo che ... –

- Tu non abiti lì?-

­- Beh, sì ma ... –

­- E se, così per scrupolo, andassi a controllare? Solo un minutino, giusto per essere sicuri che non ci sia niente-

Sergej si massaggiò gli occhi, devastato dall’ennesima giornata di pioggia, bambini che vomitano il pranzo, camice macchiate e metropolitana sovraffollata. Tra il caos e l’umidità dell’iter del ritorno a casa, si era trovato incastrato in una chiacchierata con qualcuno che decisamente non si sarebbe aspettato.

- Mi dici come fai a essere sicura che a Croydon ci sia un altro laboratorio?-

- Che ne so se è un laboratorio, però è una roba losca!-

- E come ... come cavolo l’hai trovato?-

Ming Ming ridacchiò; dall’altra parte della cornetta Sergej fu sicuro di sentire una seconda vocetta elettrizzata dall’accento latino e il tono troppo acuto per passare inosservata.

- Diciamo che abbiamo fatto un po’ di ricerca ... –

Sergej chiuse gli occhi, ormai all’esasperazione.

- Ming Ming ... –

- Oh, insomma! Abbiamo solo frugato un po’ tra i documenti bancari di Torres, e tutti quei codici che voi avevate trovato in casa sua ... erano iban!-

Sergej riaprì gli occhi di scatto.

- Iban?-

- Sì, quegli affari che identificano il conto in banca ... –

- Sì, sì, so cos’è un iban –

Cercò di rilassarsi, ma un ronzio si inserì tra le sinapsi con insistenza.

Ecco cos’erano

- Ma poi io e Julia abbiamo frugato un po’ in giro ...-

- In giro dove?-

- ... potremmo aver frugato un po’ troppo sul web –

- Ragazze, se vi scoprono ad hackerare le banche ... –

- Ma che hackerare! Non ne siamo mica capaci!-

- Ah, volevo ben dire, infatti –

- Lo ha fatto Emily per noi, Ivan le ha insegnato un sacco di cose-

Sergey si morse la lingua. Stava cercando di vivere la vita nel modo più normale possibile, ed erano bastati pochi giorni a contatto con Ivan per far diventare Emily una fuorilegge.

Sospirò - E quindi?-

­- E quindi è saltato fuori che tra tutti i proprietari di quei conti in banca, ce ne sono diversi con il conto a Croydon! E che uno di loro ha comprato all’asta uno stabile vecchissimo, e guarda che questa notizia non l’abbiamo estorta a nessuno! Era su un articolo online –

- Ok, ok, va bene. Ma perché dovremmo preoccuparcene? Abbiamo fatto esplodere tutto a Norimberga –

Ming Ming si fece più insistente.

- Cioè, ma voi non volevate buttare giù l’impero del monaco pazzo? È probabile che anche quel posto abbia a che fare con lui! Dai, è ovvio pensare che i proprietari dei conti in banca avessero a che fare con Vorkov!-

- Magari erano solo in affari con Torres. Non c’è da allarmarsi così tanto-

Forse la ragazza capì il punto della situazione, perché smise di parlare per cominciare a sospirare copiosamente. Dall’altra parte la voce di Julia cantilenava un Puede ser que lui ha ragione.

La metropolitana giunse a destinazinoe, e la chiamata finì lì, con la promessa da parte delle due donzelle di non fare nulla di stupido. Immischiarsi negli affari di quella gente, soprattutto se amica di Torres, non avrebbe portato sicuramente a nulla di buono.

E comunque il loro obiettivo lo avevano già raggiunto.

Anche se ...

Sergej si incamminò verso casa più perso del solito nel suo mondo magico. Smanettò sul telefono, guardando di sfuggita l’indirizzo che Ming Ming gli aveva inviato.

In fondo controllare non mi costa nulla

 

 

Tra quelle pareti era terribilmente umido.

Il sole era calato da un pezzo, e il buio non contribuiva a rendere l’ambiente meno macabro. Sergej starnutì più volte, stuzzicato dall’odore di chiuso e da un certo fetore ... di chimico. Per terra scorreva un qualche liquido strano, vagamente verdastro, su cui decise che fosse meglio non indagare.

Chissà che cavolo ci facevano qua dentro

Imboccò una scalinata a caso, scendendo di qualche piano. Più andava giù, più tutto gli sembrava abbandonato e inanimato; e si sentiva più leggero, più tranquillo, più convinto che tutti i pensieri che si erano insinuati nella sua testa erano inutili.

Eppure c’era qualcosa che non andava. Alla terza rampa di scale cominciò a chiedersi perché un edificio del genere fosse così tanto sviluppato in profondità. Poi l’odore di liquame si fece più intenso, e quando notò l’uscita delle scale chiusa da una catena molto bassa e poco efficiente, Sergej si convinse che effettivamente c’era qualcosa sotto.

Un cartello attaccato alla catena recitava Warning, don’t entry without authorization. Lo sorpassò senza pensarci due volte. Davanti a lui si materializzò una porta, incredibilmente lucida per essere in un edificio così malandato. La aprì, con uno strano brivido a corrergli lungo la schiena e la certezza che forse sarebbe dovuto tornarsene a casa, senza dare retta alle paturnie di quelle due ragazze.

Quando fu dentro, gli occhi gli si riempirono di uno spettacolo bello e terribile.

- Non è vero –

Non potè far altro che cercare di negare l’evidenza.

Ivan lo aveva detto. Lo aveva detto che per lui l’arsenale non esisteva. Ma il punto non era che l’arsenale non c’era perchè non era ancora stato creato; piuttosto, perché l’arma di cui si parlava non era un arsenale

E Alyna l’aveva detto che in realtà non ne sapeva quasi nulla, che si era inventata quasi tutto quello che gli aveva rifilato. E così li aveva messi involontariamente fuori strada; e loro le avevano creduto.

Invece l’arsenale non esisteva. Ma c’era qualcos’altro.

Davanti a lui enorme, alta e terribilmente familiare, si stagliava una vasca verticale piena di liquido verdognolo. Dentro, tra i cavi sospesi nell’etere, fluttuava qualcosa.

Sembrava un ibrido. Era umano, ma non del tutto. Dalla schiena spuntavano, piccole e sparute, un paio di ali; il corpo era cosparso di cicatrici bluastre; le membra, innaturalmente allungate, gli davano un che di grottesco. Non aveva capelli, e sul capo glabro si snodava una specie di disegno tribale.

Sembrava ... sospeso. Qualunque cosa fosse. Più corporeo dei bit power modificati con cui avevano avuto a che fare in passato. Più ... umano.

Sergej lesse, quasi senza volerlo, i caratteri incisi sul bordo della vasca, illuminati da una tenue luce blu.

Bambina

D’istinto alzò gli occhi, incrociandoli con quelli di quell’essere, ridotti a due lunghe fessure. Gli sguardi si intrecciarono tra loro; Sergej rabbrividì, sentendo le gambe improvvisamente deboli. Allungò una mano verso la vasca, e quello strano angelo fece lo stesso.

Poi gli sorrise.


.....................................

Plot twist

Mi piace pensare che la realtà sia semplice, ma non sia mai come sembra al primo sguardo. Una piazza senza visitatori in una giornata tranquilla; una statua che ti osserva; e la sensazione che stia per succedere qualcosa.

Come nei quadri della metafisica.


Approfitto di questo angoletto per ringraziare di nuovo tutti coloro che leggono queste righe, sperando di continuare a sorprendervi. 

Chiedo scusa se non rispondo più alle recensioni come di consueto, purtroppo sento le ore scorrere più veloce del solito, e i minuti sono sempre arrotondati per difetto. Ma considerate che vi faccio pat pat sulla testa ogni volta. 

Ordunque, un enorme abbraccio a tutti e

arrivederci


Chocolate 

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Capitolo 24
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23

 

Che meraviglia gli Champs Elysee a primavera! Che visione celestiale, rilassante, con i suoi profumi e i suoi colori, mentre Parigi si anima sotto il sole dei primi giorni caldi di primavera. Così bello che Olivier per poco non ignorò completamente il fastidioso ronzio del cellulare.

Rispose, strappato con riluttanza al suo idillio, affiancato da Andrew e dal suo immancabile tè delle cinque.

- Oui?-

- Ciao Vier!-

- Gianni, mon amie! Come procedono gli studi?-

- Lasciamo stare, ti chiamavo per un’altra questione! Andrew è lì con te?-

- Certamente! – Non ci pensò nemmeno a passarglielo, la curiosità fu troppo forte: mise il vivavoce, e l’inglese fu ben felice di non doversi attaccare a un telefono per sentire gli ululati dell’italiano – Parla pure, ti sente anche lui!-

­- Magnifico! Senti Andrew, tu che la conoscevi ... non è che Rosemary studiava chimica? O biologia?-

A sentire quel nome, Andrew rimase con la tazzina a mezz’aria.

- Rosemary? Che c’entra di nuovo lei?-

­- Perché – Al di là dell’apparecchio si sentì scartabellare – Ho scoperto che lavorava in una biblioteca universitaria fino a pochi mesi fa, qua a Bologna! E mi hanno dato i suoi effetti personali che erano rimasti in un armadietto, e ... beh ... c’è della roba strana –

- A Bologna? Che roba c’era a Bologna?-

­- Beh, ci son un sacco di libri ... poi un’agenda un po’ ... inquietante-

Olivier e Andrew si scambiarono un’occhiata confusa.

- Dentro ci sono degli appunti strami, con disegni di organi, formule chimiche ... sembra il diario di uno scienziato pazzo –

- Gianni, ma sei sicuro che sia roba sua?-

- Ma sì, me l’hanno detto in biblioteca –

- Mah, magari era davvero interessata alla biologia –

All’ipotesi del francese, Andrew rispose con una mezza risata.

- Chi? Rosemary? Impossibile! Anche solo parlare di sangue le faceva ribrezzo –

- Ecco, invece qui di roba sanguinolenta ce n’è parecchia ... mio dio – Gianni represse un palese conato di vomito – che schifo –

- Cosa? Che hai visto?-

- Ci sono delle foto qui dentro ... sentite, ho bisogno di farlo vedere a qualcuno, questa roba mi sta facendo venire i brividi. Vi raggiungo lì appena posso –

- Ma non! E l’università?-

- I miei se ne faranno una ragione. Soprattutto se non lo verranno mai a sapere –

 

..............

 

- Il telefono! –

- Arrivoooo! –

Il rientro in patria non era stato così traumatico. Almeno non per lui. Takao era riuscito a evitare le ramanzine del nonno per quanto riguardava l’onore e il buon nome della famiglia finché Max era stato al dojo. Ma, appena nonno J. aveva finito di salutare il taxi che si allontanava con l’americano dal sorriso da coniglietto, il suo shinai aveva assaggiato più volte la testa del nipote.

E così per Takao erano cominciati mesi di intensi allenamenti, e soprattutto di riflessione interiore sul futuro. Perché il nonno quella palestra non l’avrebbe lasciata a nessuno che non avesse il suo stesso sangue nelle vene, e su questo c’era poco da fare.

Takao strascicò la scopa lungo il vialetto; spazzare i pollini alle sei della mattina era davvero un compito ingrato. Il nonno per poco non gli lanciò la cornetta in faccia.

- Ti dai una mossa?! Quando avevo la tua età scalavo le montagne nella metà del tempo che ci metti tu a fare un metro!-

Takao sventagliò la mano, non ci provava neanche più a rispondere in maniera sensata, e si beccò una gomitata sul braccio.

- Pronto?- Fece, massaggiandosi la zona ferita. Non conosceva il record di scalata del nonno, ma il vecchietto avrebbe potuto affrontare senza problemi un incontro di pugilato.

- Bonjour!-

Takao ci mise cinque secondi a registrare e macinare quello che aveva sentito.

- ... Vier?- Tentò.

- Ma oui! –

- Aaaah! Mi pareva!-

- Comme ca va? –

- Ti voglio un sacco bene Vier, però parla normalmente, ti supplico, è già una giornata abbastanza terrificante –

- Ah! Ti chiedo scusa! Guarda, non pensavo nemmeno che rispondesse qualcuno, credo che in Giappone sia mattina presto –

- Sono le sei – Sussurrò un Takao molto sconsolato – Ma il nonno ha deciso che dormire non serve, quindi ... eccomi qua –

- Pensa che invece io e Andrew siamo già in pigiama, qua è notte –

- Aaaah beati voi! –

Il giapponese si sedette sullo scalino del dojo, lasciando da parte la scopa e le faccende domestiche per quel momento.

- Allora? È successo qualcosa? Nuovi tornei in vista?-

- Beh, sì e no –

- Cioè?-

- Non c’è nessun torneo, ma ... è successa una cosa a Gianni. Voleva chiamarti lui, ma temo sia in aereo al momento –

­- E dove va?-

- Ma qui naturalmente! Ora ti spiego –

Dalla cornetta Takao sentì distintamente un assonnato saluto all’inglese, coronato da uno sbadiglio e da Olivier che commentava con Drew smettila di andare a dormire agli orari degli anziani.

- Ecco, dunque ... il punto è che Gianni sta venendo a farci vedere degli effetti personali che ha recuperato a Bologna, in una biblioteca dove lavorava Rosemary –

A sentire quel nome Takao drizzò le orecchie.

- Come scusa? –

- Eh sì. In particolare, Gianni ha trovato un suo quaderno che ha ... qualcosa di strano. Cose inquietanti, disegni di organi, formule chimiche, foto ... beh, strane. Diciamo così –

- Cavolo ... – Takao ci pensò su – Io pensavo che quella di Rosemary fosse una storia chiusa. Ma ... che vuol dire? Pensate che quel quaderno abbia a che fare con la storia dei missili, e di Vorkov ... insomma, di tutta la roba di Norimberga?-

- Je ne sais pas ... ma Gianni è rimasto molto impressionato da quello che ha visto, e a questo proposito ... ora guarderemo quel quaderno con calma, appena sarà qui. Ma so che Kai verrà a Parigi in settimana per, suppongo, affari che riguardano la ditta, il nonno, o giù di lì. Quindi ci chiedevamo ... visto che tu lo conosci meglio di tutti, e abiti nella stessa città, non è che potresti gentilmente parlargliene? E magari dirgli di passare un momentino a casa mia, per dare un’occhiata a quel quaderno?-

Takao scattò in piedi.

- Ma certo! E che problema c’è? Guarda, avrei accettato anche se mi avessi chiesto di portartelo di persona davanti a casa, ho davvero bisogno di uscire da questo cavolo di dojo –

Si guardò intorno per controllare che il nonno non fosse nei paraggi, poi sussurrò con tono cospiratorio – Sono ormai tre mesi che sono chiuso qui. Tre mesi! Da quando Max se n’è andato! Non puoi capire Vier, la situazione ha completamente sclerato –

- Mon peur ami, mi fa piacere darti una mano a evadere dalla routine! Bon, allora aspetto una conferma dell’arrivo di Hiwatari!-

- Sarà fatto! Saluta Andrew!-

Takao non perse tempo. Riagganciò il cordless, lo mollò sul primo scaffale libero e, attento a non incrociare il nonno in corridoio, corse a prendere scarpe e cappello. Urlò un esco a fare una commissione urgente solo quando fu fuori casa, irraggiungibile da ciabatte, shinai e armi improprie, e si corse letteralmente tutta la strada fino a villa Hiwatari. Non si sprecò nemmeno a chiamare Kai per sapere se fosse in casa. Prima agire, poi pensare! Un motto che aveva le sue controindicazioni.

 

 

- ... un quaderno?-

- Aha-

- Con degli organi e delle foto inquietanti ...?-

- Sì –

- E sarebbe di Rosemary –

- è proprio così –

Kai poteva scommetterci che a Takao fosse saltato un neurone quella mattina. A lui, al francese e a quel disgraziato di Andrew, perché in parte era sempre colpa sua. Sempre.

L’amico si era presentato al campanello della villa alle 7, facendo venire un infarto al maggiordomo, che non aveva sentito la sua sveglia, e a Kai, che pensava fosse il nonno di ritorno dai suoi viaggi. Poi si era ricordato che aveva ancora due giorni prima della partenza per Parigi, e l’unica opzione possibile era rimasta che a suonare a quell’ora fosse un imbecille. E infatti si era presentato Takao, con una storia molto fantasiosa.

- Beh? Che ne pensi?-

- Penso che tuo nonno abbia bisogno di tranquillanti. E anche tu –

- Ti giuro che non me lo sono inventato –

- Mh, non sono sicuro di volerti credere-

Takao arraffò un’altra squisita tartina alle fragole dal tavolo, ingoiando come un aspirapolvere la colazione gentilmente offerta dall’eccellente cuoca della villa.

- Gwarda che wer ewa moltwo ... –

- Takao, ti prego, comportati da persona civile – Kai gli passò un fazzoletto, giusto per ripulire la valle di briciole di pasta frolla che era diventata la faccia dell’amico. Takao ingoiò il boccone.

- Dicevo, Vier era molto preoccupato –

- E quindi? Come fanno a sapere che quel quaderno era di Rose?-

- Beh, era tra le sue cose ... –

- Forse doveva restituirlo a un amico che studiava, che ne sò ... biologia? Oppure si divertiva a disegnare organi, a lei piaceva disegnare, magari stava provando diversi soggetti –

- Boh, tu un po’ la conoscevi, dici che era tipo da cose del genere?-

Kai vagò con lo sguardo sul soffitto.

- Da foto inquietanti e formule chimiche? ... no, direi proprio di no- Concluse a malincuore, escludendo la soluzione più semplice al problema – Allora il quaderno è proprio di qualcun altro –

A quel punto squillò il cellulare, e quando Kai lesse il nome sul display pensò che quella mattina il mondo ce l’avesse con lui.

- Aspetta un attimo Takao ... Hei –

- è aperto lo sportello psicologico?-

- Per te sono sempre disponibile Yuriy –

Takao fece un cenno con la mano in segno di saluto, giusto perché aveva di nuovo la bocca piena.

- Ti saluta il campione del mondo. Che c’è? Hai anche tu quaderni inquietanti nascosti nell’armadio?-

- Ma che vi fumate alla villa? –

- Lascia stare ... A chi serve lo psicologo di voi tre?-

- Ti va bene che oggi a casa ci sono solo io –

- Si sta bene in appartamento da Ivan?-

- No, è un buco e ci sono cavi ovunque. Ascoltami bene adesso, perché è successa una ... cosa –

- Una cosa? Che cosa?-

- Potrei spiegartelo, ma non renderebbe l’idea. Ti mando una foto –

Un istante dopo, accompagnata dalla vibrazione del telefono, un’immagine si palesò sul display davanti agli occhi di Kai e di Takao, che gli si era accostato spargendo briciole a larga mano sui cuscini.

I due ammutolirono.

Kai mise il vivavoce, esprimendo il suo stupore all’amico ai limiti del continente europeo.

- Ma che cazzo è?-

Takao si dimenticò di masticare, deglutendo la crostatina al limone come fosse un boa.

- In quale tunnel degli orrori siete stati?-

L’immagine era parecchio buia, ma si vedeva bene la vasca verticale stagliarsi al centro di una stanza, e l’essere non identificato che ci galleggiava dentro.

- L’ha scattata Sergej. Era in uno stabile a Croydon. Avete presente il foglio con i codici che avevamo trovato a casa di Torres? Sono tutti iban, codici di conti bancari. Il proprietario di quello stabile aveva un conto che era sull’elenco –

La spiegazione fu molto rapida, così tanto che persino Kai ci mise un momento per collegare i punti.

- Quindi cosa ... aspetta, aspetta ... e gli altri iban a chi appartengono? E come fai a sapere queste cose?-

- Da quello che ha detto Ser, direi che Ming Ming e Julia sono due pettegole, e Emily una brava hacker –

­- Non credo di aver capito, ma non importa –

- Cristo Kai, per ora fatti bastare che in quella lista c’era tutta gente invischiata con Torres e Vorkov. Sì, anche con lui –

- Come lo sai?-

- Alcuni di quei conti sono suoi –

- ... cazzo –

- Puoi dirlo forte. Hai visto la foto? Hai riconosciuto quella ... –

- La vasca? Sì, mi ricordo dei gingilli che Vorkov usava per modificare i bit power. Un attimo Yuriy –

Kai si alzò di scatto, come se un’idea tanto geniale quanto terrificante gli avesse fatto scattare le ginocchia. Takao lo guardò preoccupato, arraffando un’altra tartina con l’impressione che quello sarebbe potuto essere il suo ultimo pasto.

- Se in quell’edificio c’era una cosa del genere ... non è che Vorkov ha ricominciato i suoi esperimenti da schizzato?-

- è stata esattamente la mia conclusione –

- Ma certo ... al posto di esporsi in prima persona, faceva comprare degli immobili a terzi, e poi ci schiaffava dentro le sue cose ... sta creando altri bit power modificati?-

- Forse la situazione è peggiore di così –

- C’è davvero qualcosa di peggio?-

- Ho parlato con Sergej dopo che ha visto quella cosa. Lo conosco da una vita, e l’ho trovato completamente traumatizzato, mai vista una cosa del genere. Ma mi fido di lui, e gli ho creduto quando mi ha detto che quello non è un semplice bit power –

Kai deglutì. Azzardò la domanda, sperando che la risposta non fosse quello che pensava.

- E allora cosa ... –

- Non l’ho ancora detto a Boris e Ivan, ma ...quell’affare è umano. O almeno, questo è quello che pensa Sergej. Vorkov potrebbe aver... fuso un bit power con un essere umano –

 

...............

 

Andrew appoggiò la tazza di tè sul tavolino di vetro, elegantemente lavorato, allontanandosi da lì per non rischiare di macchiarlo di vomito. Represse l’istinto a fatica.

- Che ... schifo –

Gianni annuì, riconoscendosi nella stessa sensazione.

- Immaginati che gioia, guardare queste cose per strada senza neanche un posticino per vomitare –

- Sacré ... – Olivier sfogliò rapidamente le foto, per poi chiudere gli occhi e allontanarsi lentamente dalla loro vista.

- è orribile –

Gianni era arrivato a notte inoltrata, per la gioia del maggiordomo che era dovuto passare a prenderlo all’aeroporto. L’italiano era incredibilmente vigile; anche volendo, non sarebbe riuscito a prendere sonno.

I suoi amici capirono presto perché.

Il quadernino di Rosemary era aperto davanti a loro, rivelando tutto lo scempio che conteneva: tra formule chimiche e annotazioni di biologia in una scrittura ordinata ed elegante, volavano foto piuttosto macabre di parti del corpo spezzate, animali che sembravano morti, e persone su un lettino che avevano palesemente visto momenti migliori. In mezzo a quel parco degli orrori, c’era una specie di to do list a punti, con roba che neanche uno scienziato pazzo sarebbe stato capace di partorire.

Gianni lesse, tenendosi a distanza dalle foto.

- Un soggetto in salute ... assicurarsi che sia vivo ... verificare compatibilità, ma che è ‘sta roba? È terrificante!-

- Non possiamo, che ne sò, chiudere tutto, bruciarlo e fingere che non sia successo niente? Vi prego, ditemi di sì –

- Anche volendo Drew ... come fai a fare finta di niente? Insomma ... guarda qua!- Gianni gli sventolò il quaderno sotto al naso – Questa ... è follia! Ci avevi detto che Rosemary era una ragazza adorabile, non una specie di maniaco!-

Andrew afferrò il quaderno e lo lasciò cadere sul tavolo – Ma lo era! Questa non è roba sua, ci scommetto il titolo nobiliare! Ecco perché penso sia meglio bruciare tutto quanto finché siamo in tempo –

 - Ma qui ci sono delle foto di cadaveri!-

- Lo so!-

- Dobbiamo chiamare la polizia!-

- Lo soooo!-

- Silence!-

Il grido battagliero di Olivier frenò i bollenti spiriti. Il francese si ricompose, schiarendosi la voce con autorevolezza.

- Perché non ci pensiamo domani? È tardi, e tutto sarà più chiaro davanti a un buon croissant –

Gianni si andò a sedere accanto all’amico, ciondolando il capo addosso alla sua spalla.

- Fai anche due, Vier. Sono a pezzi –

 

..........

 

La sera era calata sul circo con il suo velo misterioso. Il sipario si era alzato, lo spettacolo si era consumato fra fuochi e nastri, accompagnato dallo scrosciare degli applausi.

Era una situazione impagabile, quella di essere acclamati dal pubblico, di sentir gridare il proprio nome sull’orlo del precipizio, appesi per un filo di stoffa colorata suo vuoto. E l’adrenalina che scorreva in corpo era tutto ciò di cui Julia aveva bisogno per sentirsi viva.

Accarezzò un’ultima volta la sua attrezzatura. Ci voleva una notte di riposo dopo tutti quegli applausi.

- Julieta –

Raul la apostrofò con la solita dolcezza. Lei rispose con una pacca sui capelli rossi.

- !Mi amor! Allora? –

- Cosa?-

- Hai visto quella ragazza che ti piace tanto tra il pubblico?-

Raul arrossì all’istante, seguendola verso la roulotte.

- Ma che dici ... –

- Non sono cieca, fratellino –

Lui deviò subito il discorso.

- Senti, mentre eri appesa al nastro ... –

- Mmmh ... non mi ricordare che sono dovuta scendere – La spagnola improvvisò una piroetta, chiudendo gli occhi per immaginarsi ancora sospesa – è così bello riuscire a volare –

Raul rise.

- Lo so, scema, lo so, lo faccio anche io –

- Ma io sono più brava – Gli fece la linguaccia – ?Entonces? Che dicevi?-

- Ecco ... – Raul tirò fuori dall’unica microscopica tasca dello sfavillante costume di scena un foglio ripiegato più volte – Me lo ha passato Anita. È arrivato per email poco fa –

- Dici la ragazzina che gioca a farci da segretaria?-

- Buona, Julieta, non la bullizzare –

- Hm – Julia srotolò il foglio, leggendone qualche parola – Chi l’ha inviato?-

- L’avvocato. Ah, io però non l’ho letto, quindi se non ci capisci qualcosa tu ... –

Raul si fermò di colpo. L’espressione di Julia si fece man mano più concentrata, finchè le sopracciglia tinte di trucco non si curvarono in un moto di improvvisa preoccupazione.

- Julia ... ?Que pasa?-

- Devo – Lei ripiegò il foglio, facendo un rapido dietro front verso il tendone – Devo chiamare una persona! Il mio telefono è nel camerino?-

- Sì, ma Julia ... –

- Torno subito!-

 

Il bip del telefono le squillò più volte all’orecchio.

Rispondi

Salutò con gli occhi qualche spettatore che si era attardato a complimentarsi con gli acrobati, elargendo sorrisi ai bambini che la indicavano adoranti.

Dai ...

- Iòb tvòiu mat –

Julia alzò gli occhi al cielo.

- Quanto ci metti a rispondere?!-

- Ma ... Julia?-

- E chi? La tua fata madrina?-

Si sentì Yuriy soffocare un secondo impropero, visto che il primo non era bastato.

- Ma che c’è? Sono le due di notte cazzo, voi non dormite mai?-

- Qua è ancora l’una, voi correte troppo –

- Senti Fernandez ... –

- Prima che attacchi con gli insulti, devo dirti una cosa –

- Spero per te che sia importante, perché qui abbiamo avuto una giornata di merda –

- è importante, ma non ti risolleverà il morale –

Prese il foglio, mettendoselo davanti agli occhi come se Yuriy potesse scannerizzarlo attraverso le sue retine fin dall’altra parte del mondo.

- Ho una lettera dell’avvocato –

- Se vi hanno denunciato e vuoi che tagliamo le gambe a qualcuno hai sbagliato numero –

­­­- Fammi finire! È l’avvocato di famiglia, è a proposito di Vince –

- ... chi?-

- Torres! Yuriy, por favor

- Ma che ne so di chi cavolo ... –

- Fammi parlare! È una lista di telefonate anonime che l’avvocato ha ricevuto sul cellulare di Vince negli ultimi due giorni, e ... – Fece una pausa, prendendo fiato senza sapere come spiegare quello che stava leggendo.

- ... e? Fernandez?-

- Non sono cose belle Yuriy, qui si parla di ... di pagamenti, ma ... –

- Parla chiaro, non abbiamo tutta la notte –

- L’avvocato ha scritto che parlavano tutti di conti da saldare per il trasporto di ... merce – Prese fiato, e prima che Yuriy potesse di nuovo infilarsi nella frase terminò con un soffio – Merce umana-

 

 

La  mattina seguente il risveglio, per chi di notte aveva dormito, fu traumatica.

Boris allungò la mano verso l’agognato pacco di biscotti, protagonista indiscusso delle sue colazioni in qualunque parte del mondo si trovasse. Tanto più quando era a casa, nel suo adorato clima impietosamente gelido, dove poteva comprare la sua marca di biscotti al cacao preferita invece di dover sperare di azzeccarne una commestibile tra i colori sfavillanti dei supermercati inglesi.

Ivan si trascinò in cucina bofonchiando un ‘giorno, tenendo già sottobraccio un computer. Yuriy e Boris avevano scommesso che ci dormisse con quello, ma ancora le leggende non avevano trovato risposta.

- ‘Giorno –

- Caffè?-

Boris annuì.

- Potevi anche prenderti la sbatta di farlo – Sussurrò Ivan.

- Vedo che la parte acida del tuo cervello si sveglia presto –

Il più piccolo gli scoccò un’occhiata tra il sonno e l’odio.

- Sono le ... – guardò di sfuggita l’orologio sul microonde – Dieci della domenica mattina –

- Mbè? È un buon orario per cominciare a litigare. Anzi – Boris agitò un biscotto verso l’amico – Siamo anche in ritardo sulla tabella di marcia –

Poi suonò il citofono. Ivan sobbalzò, preso alla sprovvista dall’orribile e altissimo trillo che ricordava vagamente i primi accordi di Per Elisa.

- Chi cazzo è a quest’ora ... –

Spiaccicò gli occhi sulla videocamera che dava all’esterno. Non voleva ammetterlo, ma stare al computer 7 giorni su 7 gli stava facendo calare drasticamente la vista. Questo non gli impedì di riconoscere al volo la montagna che si stagliava fuori dal portone del condominio.

- C’è Sergej – Annunciò laconico, preso alla sprovvista.

Boris riemerse dalla cucina, inforcando due presine di plastica a forma di testa di coccodrillo.

- Sergej?-

Ivan pigiò il tasto per aprire il portone.

- Eh. Sì –

- E cosa ... –

- Ah, non chiederlo a me –

Poi gli passò di fianco, andando a mettere sul fuoco un’altra moka bofonchiando tanto casa mia è diventata un albergo.

Boris andò ad aprire la porta, sempre con le mani infilate nelle presine, trovandosi davanti Sergej così all’improvviso che si chiese se all’università non insegnassero anche il teletrasporto.

- Ser – Fece, squadrandolo dalla punta dei capelli fino alle scarpe – Che hai fatto amico? Mi sembri ... – Si soffermò sulla maglietta a mezze maniche frettolosamente infilata nei jeans, che per la prima volta da anni stava rimpiazzando una camicia nell’outfit di Sergej - ... Strano – Concluse, non trovando una parola più adatta.

L’ospite non fece caso né a lui, né alle presine a forma di coccodrillo.

- Yuriy ve lo ha detto?- Soffiò, con il fiatone di chi ha corso cinque rampe di scale in un minuto.

- ... Che saresti venuto? Beh, no, ma ... eccoti qua! – Boris gli fece strada, indicando la cucina – Ivan sta mettendo su dell’altro caffè, ma forse una siringa di anestetico andrebbe meglio –

- Quel bitpower – Sergej afferrò Boris per la spalle, penetrandolo con gli occhi – Ve ne ha parlato?-

Boris rimase fermo a guardarlo come se fosse suonato, con le presine alzate in segno di resa.

- Il ... che?-

- No –

In corridoio si materializzò anche l’ultimo componente del gruppo in tuta, occhiaie e capelli scompigliati, e se ci si avvicinava abbastanza si poteva anche vedere l’impronta del cuscino sulla guancia. Yuriy nascose uno sbadiglio nel dorso della mano.

- Non gliel’ho detto –

- Come? Cosa? –

- Due giorni fa ... –

- Fermi tutti!- Boris prese le distanze dai due soggetti che lo stavano facendo ammattire.

- Raccontate con ordine –

Yuriy avrebbe voluto tentare un approccio diplomatico, reduce anche dalla chiamata notturna con la Fernandez che gli aveva lasciato altre cattive notizie da annunciare. Ma evidentemente in quei giorni Sergej aveva perso tutta la diplomazia di cui naturalmente disponeva.

- Vorkov ha ricominciato gli esperimenti sui bit power –

Già questo bastava a incrinare la tranquilla domenica che tutti si erano augurati quella mattina. Boris sbatté le palpebre un paio di volte, passando gli occhi tra Sergej e Yuriy.

- Di nuovo? Ma non si arrende mai!-

Ma le brutte notizie non erano finite. Sergej scosse il capo, facendosi un po’ più pallido.

- Non hai capito –

Boris lo guardò stupefatto.

- In che senso?-

- Ha fuso un bit power con un ... un essere umano –

Il suo sguardo , estremamente serio, era lo stesso riflesso negli occhi di Yuriy.

- ... Starai scherzando –

Passò qualche secondo, ma non entrò nessuno urlando candid camera, e nessuno si mise a ridere rompendo l’atmosfera pesante e opprimente. Ivan si affacciò dalla cucina, ripetendosi in testa le ultime parole che aveva sentito.

- L’ho visto con i miei occhi –

- Ma come ... chi ... –

- C’è un’altra cosa –

Yuriy si fece attento – C’è dell’altro? –

Sergej chiuse gli occhi, riorganizzando una frase che avesse senso logico.

- Nella vasca dove era contenuto quel ... quell’essere, c’era un nome. Bambina

Un brivido li percorse tutti.

-  è Rose. È lei l’esperimento. Lo ha fatto su di lei –

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Capitolo 25
*** Capitolo 24 ***


Capitolo 24

 

Fu semplice e terrificante fare il punto della situazione.

Yuriy raccontò della chiamata di Julia, e dopo la storiella di Sergej fu chiaro a tutti che l’ipotesi che il monaco stesse fondendo bit power con materiale umano non era poi così campata per aria. Il resto della domenica era trascorso a fissare il vuoto davanti alla scorta di vodka dell’appartamento, mentre ognuno nella sua testa si chiedeva: a) cosa fare adesso; b) se quella nella vasca fosse effettivamente Rose. O quel che ne restava.

Nel frattempo, dall’altro lato dell’Europa, si stava consumando un secondo dramma nel salottino di una villa in pieno centro a Parigi.

Kai era arrivato di buon’ora, seguendo la sveglia ignobile del nonno che si ripeteva da quando era nato che il mattino ha l’oro in bocca. Aveva preso un taxi e, masticando un francese terrificante, in qualche modo era riuscito a farsi portare all’indirizzo giusto.

E lì, davanti a caffe e biscottini, aveva avuto l’impulso, per la prima volta da mesi, di rovesciare un tavolo addosso a qualcuno.

- Il codice era nell’anello? In quell’anello?? Quel codice???-

- Già –

- Ma ... che cazzo!-

Olivier alzò gli occhi al cielo, sperando che sua madre al piano di sopra stesse ancora dormendo. Kai, con le pupille ridotte a due puntaspilli, strinse la tazzina tra le mani con così tanto odio che il francese pensò di dover fare il funerale al servizio buono.

- Perché non ce l'hai detto prima?! Era la cosa più importante!-

Gianni fece spallucce – Calma! Mi sono solo dimenticato!-

La vena sul collo di Kai pulsò molto minacciosamente.

- Calma un cazzo! Significa che Rosemary voleva condurci lì fin dall’inizio! È la prova che quella roba – E indicò, un po’ schifato, il quaderno degli orrori aperto sul tavolo – è sua! E voleva che la vedessimo!-

- E come cavolo facevamo a saperlo?-

- Ragionaci sulle cose, Cristo! Ce l'hai un cervello?-

- Bon!-

Olivier si frappose fra i litiganti, visto che Andrew era sparito appena l’odore di Giappone era entrato in casa.

- Ora lo sappiamo tutti, cerchiamo di stare calmi –

- Mi dici, di grazia, come faccio a stare calmo? Ah già, perché voi ancora non lo sapete –

Sotto gli sguardi preoccupati del proprietario di casa e dell’italiano, Kai tirò fuori il telefono mostrando a tutti la foto della vasca con l’essere non identificato. Gianni si limitò a un’espressione vagamente disgustata; Olivier richiuse subito gli occhi.

- Mon dieu-

- Puoi dirlo forte. Questo lo ha trovato Sergej in uno stabile semi abbandonato a Croydon –

- Dove? Ma ... che roba sarebbe? –

- Ve la faccio breve – Kai si schiarì la voce, spiegandosi più velocemente possibile – Julia e Ming Ming hanno scoperto, non chiedetemi come, che i codici che avevamo trovato da Torres sono iban. Uno dei conti bancari appartiene a un tizio con i soldi anche nel culo, che è il proprietario di quello stabile vicino a Croydon. Sergej è andato a controllare, e ci ha trovato questo –

Gianni lo guardò fisso, non sicuro di aver capito proprio tutto.

- E quel ... quel coso ... cosa sarebbe ...?-

- è questo il punto. Secondo Yuriy e Sergej è la fusione di un bit power con un essere umano-

Olivier si strozzò con il tè, allontanando la tazza del servizio buono dagli schizzi bollenti. Coprì la bocca con il dorso della mano, cercando di mostrare un po’ di eleganza anche in quell’assurda situazione.

- S-scusa ... come hai detto?-

- Sei serio? È possibile fare una cosa del genere?-

- Beh, l’avete vista la foto. E gli appunti su quel quaderno lasciano poco all’immaginazione –

- Ma, scusa ... e l’arsenale? Non era quello il nostro obiettivo? Non lo avevano fatto saltare? – Gianni si alzò di scatto, mentre le rotelle del suo cervello si fermavano, incapaci di gestire quell’insieme di dati – Che c’entrano adesso i bit power?-

Kai passò le dita fra i capelli, sprofondando la schiena sul divanetto. Ci pensò su, ma di ipotesi in mente ne aveva solo una.

La chiave l’ho data a Kai poco tempo fa. Diceva così Rose nella lettera. Alyna gli aveva raccontato di un fantomatico arsenale, ma aveva anche detto di non essere sicura di niente. Quindi forse, semplicemente, l’arsenale non esisteva. E a quel punto, la chiave di cui parlava Rose non era un codice di accesso a dei missili di qualche tipo, no; era letteralmente una chiave. Quella del suo armadietto.

- A questo punto ... abbiamo sbagliato tutto –

 

.....................

 

L’aria italiana lo indispettiva. Non sopportava i falsi sorrisi cordiali della gente, il costante odore di cibo, gli accenni del caldo soffocante che di lì a breve avrebbe assalito quella piccola penisola in balia del mare.

Invece la sua terra era solida. Fredda. Come il suo cuore, dietro una mano di vernice dorata che attirava con il suo luccichio fasullo.

Non gli piaceva quello che stava per fare, e soprattutto non gli piaceva agire in prima persona; ma aveva avuto la dimostrazione di non potersi fidare di nessuno. Nemmeno di Torres, quello squallido uomo perennemente tirato a lucido, dispensatore di languidi sorrisi, che da tempo aveva abbandonato la dignità. Nient’altro che un trafficante di uomini, prostitute, droga e quant’altro di losco potesse passare tra le mani di uno con il portafogli pieno di carte, e gli agganci giusti. Gli era servito, per un po’. Poi però aveva cominciato a fare il doppio gioco, a non spartire più i guadagni; era stato costretto a eliminarlo dal gioco. Come era successo con il padre della piccola Rosemary, quando si era accorto che remava contro i suoi progetti.

 Ma, per quanto amasse pianificare i suoi colpi nell’ombra, aveva trovato magnifico il volto terrorizzato di Garland, il giorno del galà a New York. Incredibile come avessero fatto tutto da soli; a lui era servito solo spaventarli un po’. Alyna li aveva depistati per sbaglio, quando fingeva di essere Rose, e per qualche motivo loro avevano fatto saltare il laboratorio di Norimberga.

Oh, certo, uno dei suoi uomini li aveva intercettati, attaccandoli senza permesso. Ma ci aveva pensato il karma a punirlo.

Vladimir attraversò l’ingresso del civico 38 della via universitaria, scansando i ragazzi che vendevano giornali comunisti e gli ubriachi delle nove del mattino. Un compito ingrato, quello di fare il fattorino per se stesso. Ma poco importava; il gioco valeva la candela, e ci aveva già messo troppo tempo a trovare dove quella piccola stronzetta aveva nascosto gli appunti di quell’altrettanto stronzo di suo padre.

- Mi scusi –

Il perfetto italiano tradiva un accento ben udibile nella sua voce, ma non se ne preoccupò. Il bello di una città di universitari era che potevi trovarci chiunque, proveniente da chissà quale parte del mondo. In generale, il vantaggio dell’Italia era che nessuno avrebbe potuto riconoscere un uomo ricercato in un paese all’altro capo d’Europa.

La bibliotecaria gli sorrise cordialmente, rispondendo al suo sguardo affabile.

- Mi dica –

- Sono un familiare di Rosemary Primerose – Cominciò Vorkov, con la voce piegata da falso rammarico – Avrà sicuramente saputo della sua prematura dipartita –

La ragazza si accigliò.

- Ma certo, Rose. Povera ragazza, abbiamo saputo, sì –

- Ecco, vede –Vorkov sospirò, sfoderando la più fine dote teatrale – A casa mancano alcuni suoi oggetti personali, che la sua famiglia avrebbe piacere di riavere. So che lavorava qui, e mi chiedo se, per caso ... –

- Ma certo!-

Gli occhi dell’uomo si illuminarono.

- Sì?-

- Nel suo armadietto c’era lo zaino! Lo ricordo benissimo. Però ... –

Quando stava per cantare vittoria, l’entusiasmo si spezzò di netto.

- ... Però? Avete bisogno di un documento per il ritiro? Nessun problema in tal caso –

La ragazza scosse il capo.

- No, no, è che tre giorni fa è passato da qui un amico di Rose e, siccome ancora non si era presentato nessun altro a ritirare lo zaino, la mia collega lo ha dato a lui –

Vorkov strinse impercettibilmente la mano sul banco della libreria, ma il volto non fece una piega.

- Accidenti –

- Mi dispiace molto ... ma possiamo contattare il ragazzo e fargli riportare lo zaino! Sono sicura che capirà la situazione –

- Sapete come si chiama?-

Lui non ci sperava davvero; se fosse stato nei panni di quella ragazza sicuramente non avrebbe sbandierato ai quattro venti una simile informazione. Ma, evidentemente, in quella mente giovane l’ingenuità regnava sovrana.

Lei si picchiettò il mento con l’indice, bisbigliando qualcosa fra sé e sé.

- Torniani ... no ... Tor ... Tor ... accidenti, so che è molto conosciuto in università, però ... Giacomo? Tornelli? No, era Giovanni, o Gianni, o qualcosa così –

Gianni Tornatore

Se lo ricordava. Oh, se lo ricordava, lui e il resto della sua combriccola europea che per poco non mandavano a monte tutto l’affare con Barthez. Non era una buona notizia. Non lo era, perché se quel ragazzino aveva lo zaino voleva dire che aveva sicuramente anche letto gli appunti di Primerose. E se li aveva letti lui, ci poteva scommettere, ora tutti gli altri amichetti appassionati di trottole avevano visto quello che non dovevano vedere. Proprio quando sperava di esserseli tolti di torno. Proprio quando ormai aveva quasi tutto quello che gli serviva.

Certo, era stato fortunato. Anche se quella buona a nulla di Alyna gli aveva tolto Falborg, quel bit power aveva comunque trovato il modo di ... raggiungerlo. Forse, in fondo, era stata una fortuna che uno dei suoi uomini avesse deciso di scontrarsi con Boris a Norimberga; quando, da quel che restava del sotterraneo, gli avevano portato una piuma di Falborg, aveva quasi stentato a crederci.

Uscì dalla biblioteca in silenzio, e senza perdere tempo, telefono alla mano, chiamò chi di dovere.

- Govorit'-

- Ho bisogno che recuperate una cosa per me da Gianni Tornatore –

- da-

 

...................................

 

- Quante uova vuoi?-

- Uova? Ancora?—

- Ma se non le ho fatte questa settimana!-

- Non possiamo, tipo, ordinare da asporto?.

Ivan, mani sui fianchi e sguardo da madre in vista della ramanzina, squadrò Boris da dietro il frigo aperto.

- Abbiamo preso la pizza anche ieri, che cazzo –

Lui lo guardò di sbieco.

- Beh? Non ti va?-

- Vorrei mangiare sano ogni tanto!-

- Da quand’è che hai la fissa del cibo sano? Andiamo! Una volta ci sfondavamo di vodka e patatine fino al mattino!-

- Una volta ... – Ivan richiuse il frigo di slancio – Non sarei dovuto andare al lavoro la mattina alle otto!-

- Hei – Yuriy entrò in cucina, agenda alla mano e biro fucsia infilata dietro l’orecchio – Ma che cazzo urlate?-

Boris indicò l’amico con un cenno.

- Non guardare me, io non ho il ciclo –

Le guance di Ivan si gonfiarono, come se stesse per secernere acido. Puntò entrambe le braccia verso Boris, guardando Yuriy implorante.

- Lo senti?! No dico, lo hai visto?! –

Yuriy incrociò le braccia, con una bestemmia per entrambi sulla punta della lingua. Ma Ivan non diede retta al suo sguardo minaccioso.

- Sto cercando di fare del bene al suo intestino, e lui si comporta così!-

- è per questo che la dispensa è piena di fiocchi di avena?- Boris lo guardò scettico – è per il mio intestino?-

- Le fibre fanno bene! Ne mangiamo troppo poche –

- Non le ho mai mangiate in vita mia se è per questo, eppure guardami – Flesse il bicipite, mostrando il muscolo gonfio in tutta la sua fierezza – Sono in splendida forma! Quindi decidi se vuoi pizza o sushi, e ordiniamo su quel cavolo di telefono –

A quel punto Ivan aveva terminato le parole. In un ultimo, disperato tentativo di farsi valere, lanciò uno sguardo furioso verso il capitano, in attesa di tacito assenso alle sue ragioni. In tutta risposta Yuriy, che era tornato a squadrare la sua agenda, rispose laconicamente:

- Per me sushi –

A Ivan cascarono le rotule, le palle, gli occhi e tutto quello che poteva rotolarsene via dal suo corpo. Aprì il frigo, ci guardò dentro, lo richiuse. Guardò l’orologio segnare con un ticchettio le otto di sera. Sospirò. Si massaggiò lo stomaco dolorante, reduce dai pasti fatti a orari indecenti della notte. Sospirò di nuovo.

Poi uscì, mormorando chiamo il giapponese sotto casa.

Yuriy lo osservò di sbieco, fingendo di non vedere la scia di odio che lo seguiva in corridoio.

- Sai, sono contento – Ammise.

- Di non dover cenare con l’ennesima frittata? Sì, anche io –

- No, no ... –

Il capitano si sedette accanto a Boris.

- Dopo quello che ci ha detto Sergej avevano pensato che, beh, che l’avremmo presa molto peggio di così –

Boris lo squadrò.

- Cosa intendi? Pensavi che ci avrebbe spaventato l’idea di trovarci ancora davanti i suoi esperimenti?-

Yuriy aggrottò le sopracciglia.

- Non dire idiozie, non mi riferisco a quello –

- E allora a cosa?-

- Al fatto che il materiale degli esperimenti potrebbe essere Rose –

Contro ogni previsione, Boris scoppiò a ridere. Yuriy rimase di sasso.

- Che c’è di divertente?-

- C’è che – L’amico si ricompose, ma il sorriso sarcastico non se ne andò – Non ci credo –

- No? Non credi a quello che ha detto un tuo compagno di squadra?-

- No, non ci credo. Sergej, e gli voglio bene, sia chiaro, è un buon amico, un fratello, ecc ecc ecc ... ma quella sera doveva aver tirato una striscia di roba buona, perchè nella foto che ha fatto di quell’essere non c’è assolutamente nulla di Rose –

Si alzò, strisciando la sedia a terra con più forza del necessario.

- Lei è morta Yuriy. Morta. Fine della storia –

Yuriy non si diede per vinto. Conosceva la testa del collega, sapeva che tendeva a insabbiare la verità quando qualcosa non gli andava a genio.

- E il nome Bambina? Lo sai anche tu che quasi certamente ... –

- Appunto. Quasi. Noi non siamo sicuri di niente. Non lo era nemmeno Alyna, ci ha raccontato un sacco di cazzate e noi, come degli scemi, le abbiamo creduto –

- Boris –

Anche Yuriy si alzò, fronteggiando l’amico con quello sguardo severo che riusciva a zittire chiunque.

- Quel buco a Croydon dove Ser ha trovato la vasca è di proprietà di uno che aveva contatti con Torres, e che ha dei conti segnati sulla stessa lista dove ne compaiono anche di Vorkov – Assottigliò lo sguardo – Lo sai cosa significa –

Non era una domanda.

Dal corridoio l’urlo di Ivan annunciò che avrebbero consegnato la cena fra mezz’ora, me nessuno gli badò.

- Lo so - Boris chiuse gli occhi – No. Ho paura di saperlo. Tutto qui –

- A questo punto possiamo fare due cose –

- Cosa? Andare a spaccare la faccia a Vorkov personalmente?-

Yuriy sorrise.

- Già. Oppure fare finta di niente, perché se quell’essere non c’entra nulla con Rose ... –

- Noi non abbiamo più voce in capitolo. Ovvio –

Poi squillò il telefono. Yuriy rispose senza guardare chi fosse; solo uno stronzo poteva chiamare all’ora di cena, e infatti al telefono si palesò la voce di Kai.

- Vi devo dire una cosa-

- Beh, buonasera –

- Non è buona neanche un po’ –

........................

 

Gianni scese in cucina saltellando sui gradini dell’imponente scalinata della villa parigina. Dopo la chiacchierata sfiancante con Kai, la dormita lo aveva rimesso finalmente in sesto. Stiracchiò le braccia, spalancando le tende nella sala da pranzo già corredata di caffè, tè, brioches e croissant dall’efficentissima cuoca. Snasò nell’aria l’aroma dolce che gli ricordava l’infanzia, con le colazioni trascorse a ispezionare le pasticcerie di Roma in cerca delle paste migliori, rendendosi conto con orrore che in alcune parti del mondo cominciavano la mattina mangiando bacon e fagioli.

Ecco perché Andrew era sempre stressato: l’errore stava all’inizio della giornata.

Si sedette di slancio al suo lato preferito del tavolo, quello più vicino all’enorme porta finestra; prese un giornale, gentile dotazione del maggiordomo di turno, e attaccò a sfogliarlo con svogliatezza, giusto per ingannare il tempo in attesa degli altri ospiti.

Si versò il caffè, senza staccare gli occhi dai fogli. Si portò la tazzina alle labbra, cominciando a sorseggiarne il contenuto.

Continuò la sua lettura, finendo nella pagina delle notizie internazionali; e per poco non si soffocò col caffè.

Tossicchiò in giro, continuando a leggere il giornale tra gli spasmi dei polmoni invasi di caffeina.

­­- Cazzo – Si lasciò sfuggire, poco elegantemente.

- Gianni?-

Olivier scese in quel momento, guardando stupito l’amico piegato in due, e le chiazze di caffè sul tavolo.

- Va ... tutto bene? –

- Leggi qui - L’italiano gli allungò il giornale, mentre smanettava con il telefono alla ricerca del numero del padre.

Olivier non perse tempo. Un brivido gli percorse la schiena all’articolo sull’ennesimo furto finito in tragedia in Italia.

- Mon Dieu, non si può stare tranquilli nemmeno in casa propria ... che dispiacere –

- Sì, soprattutto perché quella casa è mia!-

La mandibola di Olivier cadde a terra.

- Cos ... ma ... come?!- Rilesse l’articolo con più attenzione – Ma ... è la tua casa di Bologna? Quella che ti hanno comprato in vista del Master all’Università?-

- Eh sì, è proprio quella! Ah, aspetta un attimo!-

Gianni si fece facepalm automatico, trattenendo le madonne.

- Non posso chiamare i miei! Loro pensano che io sia ancora a Bologna, se gli dico che sono qui da te ... aaaaah, che ... cavolo!-

- Beh, mi sembra il minore dei tuoi problemi!- Olivier gli sventolò il giornale sotto al naso, visibilmente allarmato – Qui dice che c’è stata una vittima! Non mi dire che avevi dei coinquilini?-

- Ma che coinquilini! Sarà stato uno di quel pianerottolo che era andato a curiosare –

- Ma ... è terribile! –

- Certo, certo- Taglio corto Gianni, più preoccupato per lui, la sua eredità e il devasto che ne era della casa di Bologna – Ma perchè a casa mia? Con tutti i posti che c’erano!-

Olivier afferrò un croissant al pistacchio, che nemmeno gli piaceva, ma in quel momento aveva bisogno di zuccheri per carburare. Il sapore dolciastro lo prese alla sprovvista, illuminandogli le sinapsi.

- Non sarà che ... – Puntò ciò che restava del cornetto contro Gianni, che ancora teneva sconsolato il telefono in mano aperto sulla rubrica – è successo come per Andrew e Kai?-

- Eh?-

- Non ti ricordi? Quando l’anno scorso ci sono state quelle rapine? Che era Vorkov che cercava ... beh, cercava qualcosa che ... –

- Aspettaspetta Vier - Gianni ci pensò su – Che cavolo può volere Vorkov da me? Nella casa di Bologna, poi! Non c’era assolutamente niente se non libri, vestiti e ... –

Un brivido di intuizione e terrore gli percorse gli occhi, e Vier capì cosa l’amico aveva intuito.

- Lo zaino di Rosemary! – Gridarono all’unisono.

Un secondo dopo Gianni era già alla ricerca del numero di Kai. Olivier lo fermò di slancio.

- Un moment! Non sappiamo se sia stato effettivamente Vorkov!-

- Ma chi vuoi che sia stato altrimenti? Intanto avverto Kai, giusto per stare sul sicuro –

- Questo vorrebbe dire che ... – Olivier inghiottì l’ultimo boccone di croissant – Tra le sue cose ci sarebbe qualcosa di importante ...? – Lo sguardo saettò sulla libreria – Il ... il suo quaderno! Quello con le foto inquietanti!-

- Cavolo, lo sapevo che quell’affare non avrebbe portato niente di buono! Ah, Kai!-

- Ero lì ieri sera, che cosa vi siete dimenticati di dirmi?-

- Hai letto il giornale? –

- Ma che vuoi che me ne freghi del giornale di Parigi!-

- Che c’entra Parigi, mi hanno rapinato casa a Bologna!-

- ... E allora? Cosa stracazzo ... - Kai stava per dare un ceffone al telefono, sperando che arrivasse direttamente al di là della cornetta. Poi gli arrivò l’illuminazione -  ... Oh ... oh no ... non di nuovo –

- Se è stato Vorkov?- Incalzò Gianni, piuttosto preoccupato per la sua incolumità – Se voleva le cose di Rosemary? Se ... –

- Ok, ora state fermi lì e non fate niente. Cazzo ... qua la situazione ci sta sfuggendo di mano –

Trascorse qualche secondo di silenzio. I due si chiesero se Kai non avesse avuto un infarto nel frattempo.

- ... Ehilà?-

- Fra un’ora – La risposta arrivò così rapida che Gianni sobbalzò dalla sedia – Sono da voi. E sarà meglio che facciate i bagagli, perché se Vorkov vuole gli effetti di Rose, potrebbe venire a riprenderseli in ogni momento-

Olivier deglutì, stringendo un lembo della tovaglietta a eleganti disegni floreali.

- Ok, ti aspettiamo –

 

.............................................

 

- Non è adorabile?-

Garland squadrò scettico l’ennesima vetrina. Poi sospirò.

- Non lo so Ming, non è che non ti starebbe bene ... ma è un po’ troppo scollato –

La ragazza sbuffò, trascinando comunque l’amico e la barca di buste e sportine dentro il negozio.

- Non devo andare a farmi suora Garland, è per uno spettacolo!-

- Sì, sì ... – lui sfiorò con gli occhi i manichini agghindati come tante provocanti modelle – Ma questo è comunque troppo! Guarda qua – sussurrò, indicando con un cenno un crop top paiettato – Che senso ha? Perché dovresti lasciare la pancia scoperta? Tanto vale girare in reggiseno allora! Dov’è finita l’eleganza?-

Ming Ming non si fece nemmeno sfiorare dai suoi commenti. Gli appese al braccio l’unica borsa che portava, la sua, e afferrò il crop top della sua taglia, rigirandoselo davanti a uno specchio.

- Mmmh ... non è male –

Garland sospirò sconsolato.

- Beh?- La ragazza mimò verso di lui un bacio, arricciando le labbra che incredibilmente quel pomeriggio non sfoggiavano nessuna tonalità di rossetto – Non sono un amore?-

La tappa inglese del tour aveva portato Ming Ming dritta dritta tra le braccia di Londra, pronta ad accoglierla con le sue metropolitane ordinate, i caffè pieni di uomini in ventiquattr'ore, i fish&chips e ... Harrods. Interi pomeriggi da passare persa tra le vetrine di Harrods.

Quando aveva saputo che un cugino di Garland, asso di chissà quale sport incredibile, era di gara proprio a Londra, sapeva già chi chiamare per avere sia la scorta che un parere più o meno attendibile. E lui, davanti ai suoi occhi a cuore, non aveva saputo dire di no. Era pur sempre un gentiluomo.

- Che ne pensi della storia dei conti in banca?-

Ovviamente gli aveva già raccontato tutto quello che lei, Julia e Emily avevano architettato attorno ai file di Torres.

- Credo che non sia più affar nostro –

- Daaaai Garland, come sei noioso! È estremamente emozionante!-

Ming fece una piroetta all’uscita del camerino, sfoggiando un brillante abito celeste.

- Anche se poi Sergej non ci ha più detto niente –

- Ulteriore dimostrazione che non era nulla di importante –

- Non lo so ... il mio intuito mi dice il contrario –

Uscirono vittoriosi dal negozio, Garland con un’altra borsa alla mano e Ming Ming felice e saltellante, pronti a imboccare la via del ritorno. Appena fuori da una delle uscite, lui assaporò il primo accenno di libertà da almeno tre ore di shopping ininterrotto.

- Prendiamo un taxi?-

- Mmmh ... no dai, tanto l'albergo è vicino! Poi i tassisti mi riconoscono, vogliono fare le foto ... – Ming si aggrappò al braccio di Garland, che per poco non barcollò a terra con tutte le borse, scoccandogli un dolcissimo occhiolino – E io ho voglia di stare un po’ con il mio compagno di squadra –

Lui sospirò, cedendo volentieri ai giocosi comportamenti infantili dell’amica. Si incamminarono nella via principale, stracolma di gente che in fretta tornava dal lavoro, e di ballerini improvvisati che si esibivano in mezzo ai marciapiedi. Ming si perse tra la folla, carica dell’odore di una delle città che più amava in Europa, senza staccarsi dal braccio di Garland.

Poi una presa salda, forte, la afferrò di prepotenza per una spalla. Lei stava per chiedere a chiunque fosse che cavolo stesse facendo, ma appena girò gli occhi qualcosa le oscurò la visuale. Ispirò, e si sentì stranamente leggera, mentre qualcuno la faceva camminare in una direzione sconosciuta e gli occhi le si appannavano. Fu sicura di non sentire più il braccio di Garland sotto la sua mano, e qualcuno in lontananza la chiamò per nome.

Poi, buio.

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Capitolo 26
*** Capitolo 25 ***


Capitolo 25

 

 

- è sparita!-

- ... Sparita?-

­- Sì! Puff! Hai presente?-

- Come ... ma tu ... –

Julia continuò come un fiume in piena, travolgendo l’amica giapponese dall’altra parte del telefono.

- Dovevamo sentirci ieri sera, ho chiamato, richiamato ... niente!-

- Magari dormiva ...? O era a uno spettacolo, oppure ... –

- Lei? Impossibile, non mi ha mai dato buca nemmeno una volta. No, no, impossibile –

- Allora ... –

­- Era con Garland – Sentenziò la spagnola.

Hilary si massaggiò le tempie. Takao le mise una mano sulla spalla per confortarla.

Kai sprofondò la faccia nella tazzina del caffè, che prima di quel giorno non aveva mai sentito il bisogno di bere dopo pranzo, chiedendosi perché i problemi dovevano sempre finire a casa sua.

- Ne sei sicura?-

­- Eccome, ho visto una foto su instagram –

- Hai provato a chiamare lui?-

- Nada –

- ... Come?-

- Non è raggiungibile. E se questo non vi puzza di pericolo ... –

In quell’istante squillò il campanello. Kai scattò in piedi, abbandonando il caffè sul tavolino del salotto; in casa c’era, disgraziatamente, anche suo nonno, e non voleva che per sbaglio intercettasse gli ospiti che avrebbero invaso la tenuta quel pomeriggio.

Gli aveva detto che sarebbero arrivati un amico o due. Non era preparato alle orde vichinghe che aspettavano di attentare alla villa e al suo frigorifero.

O alla sua riserva di alcool.

Aprì il portone, trovandosi davanti una serie di facce devastate. Kai squadrò i russi scettico.

- Come ci siete arrivati qui? In gommone?-

Yuriy lo superò sulla soglia della porta.

- Sarebbe stato quasi meglio –

Dietro di lui Kai notò il nocciolo del problema. Il vociare che si sentiva fin dentro la villa era prodotto da un unico individuo: Gianni.

- ... E ci siamo detti: ma guarda il caso! Sono anche loro in aeroporto, allo stesso momento! Con noi! Ma quanto è piccolo il mondo?-

Accanto a lui Ivan faceva quello che gli riusciva meglio, ovvero fingere di essere interessato, e Sergej l’unica cosa che in quei giorni gli riusciva: farsi scivolare le cose addosso.

Aveva notato un sensibile decremento di stress nel non legarsi al dito ogni singolo problema di ogni singolo individuo del globo terracqueo.

Accanto all’italiano, Olivier stava pregando per la sua vita da quando erano saliti insieme sul taxi, e aveva dovuto fare tutto il viaggio fino alla villa con l’aura poco rassicurante di Yuriy accanto.

Kai si guardò bene attorno. Fermò Olivier con gli occhi, chiedendo informazioni sul membro mancante del gruppo con un lapidario:

- McGregor?-

- Doveva fare delle commissioni, ci raggiunge dopo –

Hiwatari sospirò; niente inglesi nei paraggi. La prima buona notizia della mattina.

 

- Rapiti? –

- Julia ha parlato di sparizione-

- Sì, che vuol dire che qualcuno li ha rapiti. La gente non sparisce-

- Ma la Fernandez è sicura?-

Hilary lanciò un’occhiataccia al commento un pelo acido di Boris, che stava giocando con i soprammobili di casa Hiwatari sotto il controllo dello sguardo di Kai.

Boris fece spallucce.

- Che c’è? Lei non sbaglia mai?-

- Julia non è una stupida –

- No, ma tutta la storia assurda del bit power “umano”- disse, mimando le virgolette con le dita – è saltata fuori perché lei e Ming Ming hanno curiosato. E guarda un po’, ora una delle due è sparita –

- Ma ... perché loro?- Sbottò Takao, con in mano il pacco di macarons gentilmente portato in dono da Olivier – Che c’entrano Ming Ming e Garland? Cosa sperano di ottenere da un ... rapimento?-

Gianni arraffò un biscotto dalla scatola agitata per aria dal giapponese – Forse è stato un fan molto molto insistente –

- Mao dice che per lei c’è ancora lo zampino di Vorkov –

- Aha ... Mao?-

Tutti, anche Sergej che era ancora in semi-coma da overdose di aneddoti di Gianni, puntarono gli occhi su Hilary. Kai le mise una mano sulla spalla.

- Come ... quando, esattamente, Mao avrebbe saputo che Ming Ming e Garland ... –

La giapponesina girò semplicemente il telefono verso di lui, mostrandogli con totale nonchalance le conversazioni degli ultimi giorni, che stavano andando avanti in quell’esatto momento.

Kai guardò i messaggi stranito; per un attimo la sua mente fu tabula rasa. Nella stanza rieccheggiò la risatina sarcastica di Yuriy.

- Ah, beh, quindi questa è la prima cosa che fanno le ragazze quando un’amica è nei guai: spettegolano-

Hilary gonfiò le guance.

- Io NON spettegolo! Mao mi sta aiutando a risolvere il problema –

- Per me ... – Boris si sedette con pesantezza sul divano, maneggiando pericolosamente una statuetta giapponese di chissà quale epoca, e chissà quale valore – Sono stati dei rapinatori randomici. Garland li avrà già picchiati, e fra qualche giorno ricompariranno come per magia –

- Già sì, ok, mi dispiace per quei due – Sergej decise che era ora di affrontare il topic della giornata. Non si era fatto una terribile traversata per arrivare in Giappone a parlare di gossip. Accese il cellulare, scartabellò tra le foto e mise l’apparecchio sul tavolino, in mezzo a tutti, mostrando quello che aveva visto a Croydon.

Poi guardò Gianni nelle palle degli occhi, facendolo rabbrividire.

- Kai ci ha detto dell’anello – Sentenziò, più lapidario del solito – La conclusione ovvia è che Rosemary tenesse nascoste quelle cose nel suo armadietto. E sappiamo che sono venuti i ladri a casa tua, il che significa che Vorkov ha cercato di riprendersi il quaderno. Lo hai con te?-

Gianni sbatté le palpebre un paio di volte.

- B-beh ... sì, certo –

Yuriy allungò la mano.

- Allora tiralo fuori. E vediamo di capirci qualcosa –

 

Fu più facile affrontare la cose, ora che tutti sapevano... beh, tutto sugli ultimi sviluppi. Ma Boris non la prese bene comunque.

Sfogliò il quadernino più volte, sempre più rapidamente, scorrendone le pagine come se le stesse scansionando con gli occhi. Scosse la testa.

- No –

Lanciò il quaderno sul tavolino.

- No. Questa non è la sua scrittura. Non è roba sua, non di Rose –

- Forse non  l’ha scritta lei, ma è sicuramente qualcosa che cercava di tenere nascosto –

- Suo ... – Ivan si illuminò all’improvviso – Suo padre! Era uno scienziato, un ricercatore, un ... ingegnere ... qualcosa del genere cazzo! Se questi appunti fossero suoi?-

Il trillo leggero di una campanella annunciò che l’ora di cena era arrivata; ma se ne accorsero in pochi. Si creò una strana tensione nell’aria, che non tutti colsero; Olivier e Gianni scambiarono con Takao e Hilary occhiate confuse.

- E ... quindi?-

- Già, e quindi?- Incalzò Boris – Che cazzo centra? Ce n’erano a centinaia di schizoidi che facevano esperimenti lì dentro –

- Ma questo – Yuriy indicò il quaderno – Era tra le cose di Rose. È più probabile che chi lo ha scritto fosse legato a lei, no?- Commentò, vagamente acido.

Kai squadrò il capitano con un’occhiataccia.

- Vi dispiace cercare di stare calmi e tranquilli? È già una situazione abbastanza stressante–

- Siamo tutti calmi – Biascicò Boris – Anche se stiamo solo perdendo tempo –

- Bo ... – Il richiamo di Yuriy arrivò, basso e silenzioso, alle orecchie dell’amico. Che però erano evidentemente chiuse.

- Insomma – Boris si alzò di scatto, allontanandosi dal gruppo al centro del salotto – Guardateci! Siamo un gruppo di scemi a cospirare su una stronzata!-

- Questa ti sembra una stronzata?- Commentò Kai, puntando al quaderno e al telefono di Sergej in bella vista sul tavolo – Cazzo Boris, il tuo cervello è andato in totale sciopero –

Lui si riavvicinò a grandi passi, aggrappandosi con una mano allo schienale della poltrona dove era seduto un sempre più rigido Olivier.

- Ehi, io ci vedo benissimo, e ragiono da dio. Siete voi che continuate ad aggrapparvi come cozze a questa storia assurda. Questo – Prese in mano il quaderno, per poi sbatterlo di nuovo sul tavolino – Non è di Rosemary. E non so che cazzo ci faceva tra le sue cose, forse era un ricordo del padre, non lo so. Ma la sua storia è chiusa 

Spinse sull’ultima parola, come a volerla evidenziare con il più giallo degli uniposca. Olivier esibì una risatina nervosa, lanciando qualche occhiata a Gianni, che invece era sempre più preso dalla conversazione e mangiava biscotti come fossero pop corn.

- Beh ... ehm ... io direi di continuare domani, se siete tutti ... –

- Tu non l’hai visto –

Sergej si intromise, troncando di netto il francese.

- Tu non hai visto quell’essere nella vasca Boris –

- Beh, lo vedo ora. E mi sembra solo un esperimento venuto male –

- è Lei! – Sergej si alzò di scatto, con una furia in corpo che nessuno gli aveva mai visto. Il divanetto strisciò all’indietro per il contraccolpo, e Yuriy, che ci era seduto sopra con l’amico, si irrigidì sul posto. Il ragazzo fronteggiò Boris, sovrastandolo di dieci centimetri buoni, mentre sotto di loro Olivier sarebbe voluto sprofondare tra i cuscini della poltrona.

- Mi ha riconosciuto! Mi ha ... sorriso! C’era il suo nome sulla vasca, maledizione!-

- Ti sarai fatto impressionare Ser, e non hai capito più niente, esattamente come ci è successo quando quella stronza di Alyna ci ha raccontato tutte quelle stronzate fingendosi Rose –

- Perché neghi l’evidenza? Lo sai che non è finita! Se non facciamo subito qualcosa ... –

- Qualunque cosa sia – Boris alzò la voce – Noi non ci abbiamo più niente a che fare –

- Ma se quell’essere nella vasca è Rose ... –

- Ma lei non c’è! –

La voce di Boris divenne un ruggito. Ivan scattò in piedi, e Yuriy fu tentato di fare lo stesso prima che i compagni di squadra venissero alle mani. Kai guardò la porta, sperando che nessun domestico decidesse di entrare in quel momento, e sentì distintamente la tensione nelle mani di Hilary farsi tangibile, mentre stringeva il telefono con più foga.

Gli occhi di Boris si fecero taglienti.

- Non c’è più! è morta, sparita, maledizione! Lasciatela in pace! –

La porta si spalancò all’improvviso, lasciando entrare una furia inglese ben vestita e con una lunga coda di capelli rossi stranamente scompigliati. L’attenzione di tutti deviò su Andrew, materializzatosi nella villa; l’inglese puntò gli occhi iniettati di sangue sui presenti, senza curarsi dell’atmosfera tesa, di Olivier sull’orlo della bara e dei due litiganti che emanavano scintille.

Lui raggiunse il tavolino al centro del gruppo in due passi, poi puntò un dito accusatore contro Kai.

- La prossima volta – Iniziò, sputando acido in maniera magistrale – Scrivi il tuo stramaledettissimo indirizzo in una lingua che non sia giapponese! Fu ... -

- Drew!- Olivier alzò una mano timidamente, lanciando occhiate a Boris e Sergej che ancora si fronteggiavano silenziosamente davanti alla sua poltrona.

- Drew, non è il momento ... –

L’inglese si guardò intorno minaccioso.

- Ma che cavolo state facendo? Ci avete fatto correre qua, e adesso giocate a fare a botte tra voi?!-

- Ma guarda quanto è arrogante McGregor stasera – Kai fece schioccare la lingua. Avrebbe voluto giocare sopra la situazione ancora un po’, ma Hilary lo fulminò con lo sguardo.

Andrew soffiò un lungo sospiro, sgonfiandosi da un po’ di bile repressa.

- Comunque – Frugò in tasca, lanciando in grembo a Kai una busta – Questa me l’ha allungata il tuo maggiordomo. Era troppo impaurito dagli urli per entrare e dartela di persona –

- Mpf – Il padrone di casa la aprì senza neanche guardare.

Takao allungò il collo curioso.

- Chi è che invia una lettera al giorno d’oggi ...?-

- Sarà la risposta alla sua letterina a Babbo Natale –

Il commento sarcastico di Andrew si beccò una cuscinata in faccia. Kai lesse distrattamente la lettera, più focalizzato su come tappare la bocca all’inglese che su altro.

Quando arrivò al nome che firmava la missiva sospetta il cuore saltò un battito, e fu costretto a rileggere con più attenzione.

In quell’attimo di pausa Hilary prese in mano la situazione.

- Bene! Perché non andiamo tutti insieme a cena, e ne riparliamo più tardi? Magari con più ... calma?-

- Non c’è nulla di cui parlare –

Boris tagliò corto. Fece per allontanarsi dall’assembramento di divani e odio.

- Per me la storia è già finita da un pezzo –

Passò accanto a Kai, e senza dire nulla lui lo fermò mettendogli la lettera davanti.

- Io non credo –

 

 

- Era nella buchetta della posta?-

- Il maggiordomo ha detto così. Se l’hanno inviata qui è perché sanno che l’avremmo letta tutti –

- Sanno ... che siamo qui?-

- Vorkov non è uno sprovveduto. Purtroppo –

La sera prima era finita ... male? Non proprio. In realtà l’arrivo della lettera aveva aiutato a chiarire la situazione per chi ancora era duro di comprendonio.

Era una minaccia bella e buona stilata in tre righe di elegante calligrafia in russo, che recitava in poche parole: Se li rivolete vivi, sapete cosa fare.

Breve ma intenso.

Poi erano indicati un orario, un indirizzo, lo stesso del laboratorio di Croydon, e la firma di Vorkov.

Ed ecco la prova che Ming Ming e Garland non erano fuggiti in un’isola paradisiaca per vivere insieme felici e contenti.  E questo voleva anche dire che il quaderno aveva effettivamente a che fare con la storia di Rosemary, e che lei lo stava nascondendo da Vorkov. Boris cominciò a riconsiderare l’idea assurda di Ser sull’essere intubato in quella vasca.

Se fosse ... lei?

Hilary aveva cenato con il telefono attaccato all’orecchio, mentre dall’altra parte Mao insisteva nel venire il prima possibile e portare i rinforzi. Il che avrebbe creato solo più caos.

Per il resto, la domanda era una e una soltanto.

- Come li recuperiamo?-

Yuriy ruotò l’acqua nel bicchiere con lentezza, sperando che si trasformasse in alcol per magia.

- ... Dobbiamo?-

- Beh, effettivamente ... –

- Ma scherzate?- Hilary si staccò dal telefono solo per mostrare indignazione – Che idioti ...–

- Cos’è che dice il biglietto? Minacce generiche?-

- Dice che vogliono quel quaderno –

- Sei sicuro che ... –

- Takao – Kai chiuse gli occhi, sospirando – Fidati. So che tu puoi farlo meglio di chiunque altro –

- Certo che mi fido! Ma dobbiamo fare qualcosa! E prima lo facciamo meglio è –

Ivan ci pensò su.

- Ma se vogliono il quaderno ... diamoglielo. Ne faremo una copia, o gliene daremo uno fasullo –

- E se scopre che è finto?-

- Ah no – Hilary tornò alla carica – Non voglio che Ming rischi qualcosa per colpa di un piano folle! è un azzardo!-

Andrew sbottò – Ma che azzardo! Che vuoi che ne sappia di cosa c’è dentro al quaderno? Se l’avesse saputo non si sarebbe disturbato a chiederlo per un riscatto –

La giapponesina abbassò gli occhi, gonfiando le guance.

- Ma ... –

Kai la superò in velocità.

- Vuole una risposta –

Ripiegò la lettera, infilandosela in tasca con quel moto di sicurezza che aveva imparato a mostrare in ogni occasione difficile, quando rischiava di sentirsi più debole. Piuttosto che mostrarsi insicuro si sarebbe fatto tagliare due dita.

Beh, forse non così estremo.

Si alzò da tavola senza guardare in faccia a nessuno.

- L’avrà. E sarò io a dargliela –

- Kai –

- No. Zitto. Voi – E puntò gli occhi su Takao e Hilary in particolare, le due crocerossine della situazione – Non ci andrete di certo. Fareste un casino. E poi voglio avere l’onore di salvare quello stronzo infighettato di Garland di persona. Almeno potrò costringerlo a essermi riconoscente a vita –

 

..........................

 

Takao entrò di slancio in cucina. Non pensava che avrebbe trovato qualcuno alle tre del mattino, e già si meravigliava di essere lui stesso in piedi. Ma quella storia non gli piaceva. Neanche un po’. E se non riusciva a togliergli l’appetito, se non altro gli cavava il sonno pensare che Kai volesse buttarsi in bocca a Vorkov da solo.

- Che follia ... – Rimuginò, afferrando la maniglia del frigo. Era sicuro ci fossero ancora una o due porzione della buonissima cheesecake all’arancia che avevano servito per cena.

Fece per allungare la mano verso l’unica cosa che gli avrebbe addolcito la nottata, più che convinto di sgraffignarne una fetta anche per Hilary, che non aveva fatto altro che preoccuparsi per chiunque per tutta la sera, quando per poco non gli venne un infarto.

Una mano si appoggiò accanto alla sua sul frigo, e Takao si sentì improvvisamente circondato da un’aura minacciosa. Si girò all’improvviso, spalle verso il frigo, pronto a sfoderare tutti gli insegnamenti che il nonno gli aveva inculcato.

Quando vide Boris tirò un mezzo sospiro di sollievo.

- Cavolo ... – Afferrò la torta dal frigo – Mi hai fatto prendere un colpo! –

Boris sghignazzò.

- Ma guarda, il topolino della villa che rapina il frigo a notte fonda ... –

- Ehi – Takao afferrò un cucchiaino, puntandoglielo contro – Con tutti i discorsi macabri degli ultimi giorni mi meraviglio di non essere già andato in analisi –

- Mh –

Boris si appoggiò al frigo chiuso, solo dopo aver afferrato quella che sembrava una bottiglia di vino abbastanza costoso.

Il giapponese aspettò ad affondare il cucchiaio nel dolce.

- Ehi ... beh ... –

- Se stai per farmi una paternale sull’amicizia vera, sul fatto che possiamo contare su di voi e che ... –

- Naaah, ormai non funziona neanche più con Kai, figurati con te –

Boris scoppiò in una breve risata.

- Poi è ovvio che non sei al massimo della forma –

- Perspicace –

- Che faremo? Dopo aver dato il quaderno a quel ... quel ... –

- Kai ha ragione – Boris puntò il collo della bottiglia, ora mezza vuota, verso Takao – Non hai un briciolo di fiducia in te stesso –

- Ah, è questo che dice di me?-

- Tra le altre cose –

Bevve un lungo sorso.

- Dice anche che sei uno dei suoi migliori amici –

Takao si strozzò con un boccone.

- Credo che Yuriy sia quasi geloso di te. Vuole sempre avere l’esclusiva sui suoi amici –

- ... Scherzi?-

- Non così tanto –

- Boris ... le volevi bene? Perché se è così – Takao non gli lasciò il tempo di rispondere – Anche se lei non c’è più, aiutaci a chiudere questa storia –

Lo guardava con così tanta fierezza che Boris si trovò a pensare che avrebbe, per una volta in vita sua, davvero potuto fidarsi di quel ragazzo.

- Non fraintendermi, non ho idea di cosa voglia dire essere nella tua situazione. Solo ... fallo per lei. E per te. Non buttare tutto quello che è successo finora per aria, come se niente fosse. È successo, e, beh, va affrontato. E se non ce la fai da solo ... –

- Ok, ok- Boris lo fermò in tempo, prima che pronunciasse la parola amicizia, o qualcosa con lo stesso nucleo lessicale – So dove vuoi arrivare –

- Cavolo, ti invidio sai?- Takao lasciò il piatto sporco in lavastoviglie, sperando che l’indomani nessuno si sarebbe accorto della torta scomparsa – Cioè, nonostante tutto sei ... composto, hai sbollito e ora ragioni a mente ... beh ... –

- Fredda? –

- Già –

- è solo una mia brutta abitudine –

L’orologio suonò le tre e mezza, riempiendo il silenzio. Le gocce del primo dei tanti acquazzoni che l’estate avrebbe portato si abbatterono sul vetro della finestra.

- Era davvero un angelo –

Boris lasciò la bottiglia vuota su un mobile in mezzo alla cucina con noncuranza, girando le spalle a Takao.

- Ma, sfortunatamente ... le hanno tagliato le ali –

 

.....................

 

Che ore erano?

Erano passati come minimo due giorni, o almeno questa era l’idea che si era fatta, da quando quegli uomini li avevano rapiti appena fuori Harrods; poi, dopo un’attesa estenuante in una stanza isolata, al buio e senza notizie di alcuna anima viva nei paraggi, qualcuno l’aveva prelevata, sedata e portata chissà dove. Ora si era svegliata confusa, con le orecchie ovattate e la testa pesante. Aveva provato a parlare, e il panico l’aveva assalita quando si era accorta di essere legata. Aveva spalancato gli occhi, ma era ancora completamente buio; indovinò di essere stesa in un posto piccolo, chiuso, e ogni tanto degli scossoni la prendevano alla sprovvista.

Il distinto suono di una frenata le diede la risposta a una parte delle sue domande.

Sono in un ... bagagliaio?

Inspirò forte dal naso. Poi qualcuno aprì la macchina, e lei sentì un vento gelido pungerle le gambe appena coperte dalla gonna corta. Due braccia forti la presero di peso, e Ming Ming non provò nemmeno a divincolarsi. Si sentiva debole, spaesata, e in testa aveva solo una persona.

Garland

Qualcuno disse qualcosa in una lingua che non riconobbe, e chi la stava tenendo ferma la spinse in avanti, incitandola a camminare. Fecero solo pochi passi in realtà; poi sentì il cigolio di una porta, e una spinta la fece incespicare dentro qualunque edificio l’avessero portata. Il vento freddo cessò; il suono dei tacchi produsse leggeri eco sul pavimento, e forse fu quello che attirò l’attenzione.

- Ming?-

Garland sussurrò. Non era sicuro che fossero soli, e la benda sugli occhi non aiutava. Ma certamente i rapitori non portavano scarpe con tacco 12, e non usavano Chanel.

- Gar ...land?-

Ming Ming era una ragazza forte. Glielo diceva sua madre, lo confermavano i suoi amici e lei stessa ne andava fiera. Non la più sincera delle fanciulle, ma sopperiva con una stabilità emotiva invidiabile.

Ma in quel momento erano quasi riusciti a romperla. Pensava di essere abituata alle attenzioni non richieste: riceveva lettere inquietanti dai fan tutti i giorni, e più volte le era capitato qualcuno davanti con la faccia di un indemoniato e la richiesta speranzosa dell’amore incondizionato della sua idol preferita.

Ma ora tremava, aveva i brividi e sentiva gli occhi pizzicarle; avrebbe voluto piangere dalla paura.

- Stai bene?-

Ming annuì, senza rendersi conto che lui non l’avrebbe vista.

- Credo ... di sì –

- Stai tranquilla, ok?- La voce di Garland era incredibilmente calma e sicura. La ragazza sentì dei passi avvicinarsi, e un secondo dopo qualcuno le sfiorò il braccio. Ringraziando il cielo per avere le mani legate sul davanti, Ming cercò spasmodicamente quelle di Garland, nel buio della benda, circondata dall’eco dei loro passi.

Le afferrò strette.

Non mi lasciare, non mi lasciare

Poi si sentì un tonfo; entrambi trattennero il fiato mentre, da qualche parte non troppo lontano da loro, una porta si apriva e si chiudeva. Fu silenzio per qualche secondo, poi l’eco di un paio di voci rieccheggiò da quella che doveva essere una stanza adiacente alla loro, parlando in un accento estremamente poco inglese.

E una delle voci aveva un suono vagamente familiare.

 

 

Kai non aveva pensato a cosa avrebbe fatto, una volta lì. Aveva seguito le istruzioni della lettera, l’orario, il luogo, ecc, con in testa la sola idea di perculare Garland a vita per aver dovuto scomodare gli altri e farsi salvare come una principessina.

Era sicuro di sé. Nulla di diverso rispetto al solito; ma si accorse appena entrato in quella specie di capannone antiatomico che forse avrebbe dovuto limare meglio i dettagli del piano. Che, forse, Yuriy aveva avuto ragione quando, prima di farlo uscire di casa, gli aveva offerto con nonchalance una pistola, e lo aveva guardato storto quando lui l’aveva rifiutata.

E che, sempre forse, non era stata una grande idea portarsi dietro Takao. Ma non era riuscita a scrollarselo di dosso; e ora il giapponese aspettava, con il cuore in gola e un forzato, fiducioso sorriso stampato in faccia, fuori dalla porta a pochi metri da Kai. Poteva ancora sentire nelle orecchie l’eco dei passi traballanti dell’amico, e la pesantezza della sua mano sulla spalla quando lo aveva lasciato fuori di guardia.

-Se vedi arrivare qualcuno di sospetto, nasconditi –

- Ma ... e tu? Non ti lascio solo!-

- Takao, se volevo qualcuno con la crisi da maternità repressa mi portavo dietro Hilary –

- è troppo pericoloso. Sono qui per aiutarti e lo farò. Entriamo in due-

- Takao – Kai gli aveva messo le mani sulle spalle, guardandolo dritto negli occhi con tutta la sicurezza e la fermezza che aveva. Prese fiato.

- Stai. Qui. Fermo –

E lì Takao era rimasto, a sfogare ansia e adrenalina calciando ciottoli dalla strada, con gli occhi fissi sulla porta del capannone industriale in disuso da cui Kei era stato inghiottito da ormai dieci minuti. Non si sentiva nulla da fuori, e il ragazzo si disse fra sé, guardandosi attorno cercando di essere il meno sospetto possibile, che se Kai non fosse uscito entro un quarto d’ora lui avrebbe fatto irruzione.

Magari con una frase figa. Del tipo Lasciate stare il mio amico, oppure Prendetevela con chi è grosso quanto voi. Si guardò il bicipite di sfuggita; no, era meglio lasciar perdere le entrate a effetto.

Il suono di un treno in lontananza gli distese i nervi, portandogli alla memoria la casa delle vacanze in campagna, vicino alla stazione, ai tempi in cui, quando andava a trovare i nonni agli albori della primavera, trovava sempre un piatto di dango appena fatti, tutti per lui. Takao, a testa bassa, lanciò in giro un paio di occhiate, scontrandosi con la desolazione di una zona industriale abbandonata, il grigiume degli edifici in rovina e i liquami non identificati che scivolavano verso i tombini.

- ... Come cavolo ci sono finito qui in mezzo?-

Poi un dolore sordo lo aggredì all’improvviso a una spalla, vicino al collo. Strizzò gli occhi, incespicando in avanti, ma qualcuno lo afferrò dal cappotto portandolo indietro con uno strattone. Lo spinsero contro una parete, gli legarono le mani e lui, immerso nel dolore alla spalla che non accennava a diminuire, non riuscì a spiccicare parola.

Ma riusciva già a percepire nelle orecchie le madonne che Kai gli avrebbe rivolto contro.


 

 

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Capitolo 27
*** Annotazione ***


Annotazione per i meravigliosi lettori:

Ho sbagliato. Mi sono accorta ora, dopo un mese e forse più dalla pubblicazione, che ho saltato un capitolo; è quindi con i neuroni completamente sciolti che vi annuncio la pubblicazione del capitolo 24, che si era perso nei meandri del mio computer con tanta allegria.

Giuro che entro stasera pubblicherò anche il capitolo 26, già pronto e sfornato.

Arrivederci al più presto!

Chocolate

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Capitolo 28
*** Capitolo 26 ***



Capitolo 26

 

- Ve l’ho portato –

Il libretto venne sventolato in alto, come fosse un trofeo. L’eco della voce di Kai rieccheggiò tra le mura troppo ampie di quell’enorme magazzino, rimbombando tra i tubi d’acciaio arrugginiti e le travi pericolanti. Era praticamente buio, ma Kai ci vedeva bene; e i fra i tre uomini davanti a lui, due dei quali pericolosamente armati, sicuramente non c’erano Garland e Ming Ming.

- Dove sono loro?-

Lui si sentiva particolarmente sicuro di sè, con il cappotto nero lungo gettato sulle spalle, e le scarpe lucide che ticchettavano sul pavimento a ogni suo passo. L’ego vacillava solo alla vista dei riflessi sulle canne delle pistole.

Maledizione

Sì.

Avrebbe dovuto dare retta a Yuriy.

Uno dei tre uomini si fece avanti, con un ghigno piuttosto terrificante sulla faccia.

- Prima il quaderno – Fece, in un accento inconfondibilmente russo. D’altra parte, poco prima, le presentazioni le avevano fatte in quella lingua. Non che servissero presentazioni a Kai Hiwatari.

Il ragazzo restituì lo stesso ghigno sarcastico.

- Non sono un’idiota. Li voglio vedere –

- Stanno bene. Per ora – Sottolineò con enfasi, allargando il sorriso.

Kai si scoprì a stringere la presa sul quaderno. Pensava sarebbe stato tutto più facile, o perlomeno più rapido.

Soffiò fuori un lungo respiro.

- Facciamo così – Afferrò il quaderno con entrambe le mani, e con un movimento secco cominciò a tirare per romperlo. La carta scricchiolò sotto la sua presa, aprendosi in un primo strappo, e l’uomo davanti a lui smise di ridere. Fu Kai a farlo.

- Non vorrai che finisca in frantumi, vero? Vorkov non sarebbe contento . Aaah, non so cosa potrebbe farti-

L’altro non disse nulla. Le sopracciglia si aggrottarono, e mancò poco che cominciasse a ringhiare; con un gesto secco della mano diede un ordine. Una delle due guardie del corpo si allontanò, uscì da una porta nascosta nell’ombra che Kai non aveva notato, e tornò un minuto dopo. Si sentirono distintamente un paio di scalpiccii in più rimbombare tra le pareti.

Dal buio riemersero l’uomo, Garland e Ming Ming, questi ultimi legati e con una benda sugli occhi. Kai sorrise vittorioso; per un attimo aveva davvero pensato che non fossero nemmeno lì, e che fosse tutta una messinscena.

- Ora ragioniamo –

Garland alzò la testa di scatto.

- Kai ...?-

- Aha –

Sospirò.

- Proprio tu dovevi ... –

Uno strattone lo interruppe, e la fredda presenza di una pistola contro la sua schiena lo convinse a tacere.

Il mediatore tornò a sfoderare un largo, smagliante sorriso.

- I vostri angioletti sono qui. Adesso – Allungò le mani verso Kai – Il quaderno –

 

................

 

- è tutto sbagliato –

- In realtà non proprio tutto ... –

- Beh, e allora mi spieghi, di grazia, perché ci troviamo acquattati in questo orrendo, puzzolente antro come ... come dei topi?-

Gianni non rispose, passandogli invece una torcia che Rei aveva tirato fuori da chissà quale tasca.

- Zitto e guarda dove vai Drew –

- Già – Davanti a loro Ivan sghignazzò – Perché noi saremo topi, ma qui ci sono pantegane così grosse che potrebbero mangiarti, ci scommetto –

Andrew rabbrividì, ma cercò di non darlo a vedere.

Che serata terrificante.

Non era bastata l’escursione di Kai e Takao, già abbastanza pericolosa. Ci si erano messe anche le idee geniali di Julia, ovviamente supportate dalla parte femminile del gruppo. E al telefono le era sfuggito che, forse, se facevano esperimenti con cavie nel laboratorio di Croydon, poteva essere che le cavie le tenessero proprio lì. E lo zio Torres era invischiato in affari di prostituzione ...

Nemmeno a dirlo Hilary, indignatissima, si era mossa subito per elaborare una linea d’azione. Takao non ci aveva neanche provato a farla ragionare, men che meno Kai. E l’unico altro membro del gruppo abbastanza pacifico per darle un freno si era schierato dalla sua parte.

- Quell’essere è Rosemary, e dobbiamo fare qualcosa. Per lei e chiunque altro sia stato buttato in mezzo a questa follia –

- Sergej, ma sei fissato! –

- Non accetto altre opzioni. Verrete con me; Kai e Takao terranno impegnati i rapitori, no? Ci basterà intrufolarci, quando ho trovato quel ... bit power, lo stabile era completamente abbandonato –

- E se ora non lo è? –

- Yuriy, io andrò –

- Vengo con te –

Boris si era materializzato in salotto, con in mano la quarta bottiglia di birra della serata.

- Voglio vedere. Se tutto questo te lo sei sognato, ti prenderò per i fondelli a vita, e forse ti tirerò un pugno. Ma se alla fine questo casino servirà anche solo un po’ a rovinare i piani di Vorkov ... – Sfoggiò un ghigno tendente al sadico, affilando i gelidi occhi verdi - ... beh, allora ne sarà valsa la pena –

 

Erano andati tutti: la squadra russa al completo. Meno Kai, che aveva già il suo bel da fare. Ma serviva qualcuno che facesse da palo, e controllasse che nel laboratorio non ci fossero effettivamente delle cavie umane. Gianni, quando si rese conto che le cavie potevano essere giovani donzelle in difficoltà, si era fatto subito avanti con tutto il suo orgogliosissimo ego. E ci aveva trascinato Andrew, perché sapeva che Olivier, nonostante tutto il bene del mondo che gli voleva, non avrebbe retto venti secondi sotto pressione.

Stavano ancora discutendo sul piano d’azione, quando dio, il karma, la divina provvidenza, o semplicemente il caso, aveva fatto spawnare davanti a villa Hiwatari un aiuto in più per risolvere i loro problemi.

- Rei! Da dove arrivi?-

Il cinese non era nemmeno riuscito ad appoggiare la borsa, che si era trovato sommerso di domande, richieste e problemi che era sicuro non ci fossero quando era partito qualche mese prima. Ma più o meno sapeva che qualcosa non andava.

- Mao mi ha tenuto informato sulla faccenda –

- Ah, che ragazza meravigliosa!- Hilary batté le mani – Sei venuto a darci una mano?-

Rei si grattò il capo, ancora un po’ stralunato dal viaggio e dal caos che lo aveva accolto – In realtà sarei passato per un saluto. Sapete, c’è un raduno di chef a Tokyo sulla cucina tradizionale cinese, e ... –

- Bene – Boris tagliò corto, schiaffando sul tavolino davanti a Rei una mappa di Londra. Lo guardò con un sorriso poco rassicurante, indicando un punto poco lontano da Croydon – Sei arrivato al momento giusto. Sei assunto –

Rei strabuzzò gli occhi.

- Come prego?-

- Andiamo, chi te lo fa fare di farti una noiosissima convention cul cibo cinese, quando puoi buttarti nella mischia per una giusta causa?-

Il cinese stava per ribattere che il cibo cinese era in sé una giusta causa, che aveva prenotato il biglietto eoni prima, e che di prendere un altro aereo e andarsene a Londra non ne aveva assolutamente intenzione.

Ma, chissà come, la sera del giorno successivo gli avevano ficcato in mano un paio di torce, un telefono, una telecamera, lo avevano vestito di nero, e si era trovato a girare in modo circospetto nei corridoi di uno stabile abbandonato dove, quasi sicuramente, Vorkov aveva fatto esperimenti non belli e assolutamente non legali. E dove, forse, erano rinchiuse cavie umane. Oh, e un bit power modificato che, sempre forse, era Rosemary.

Bene, ma non benissimo.

Avanzarono ancora, sbucando dai condotti puzzolenti a una sala più ampia. Gianni annusò l’aria, pentendosene immediatamente. Portò di scatto la mano a coprire il naso: non c’era odore di fogna, era qualcosa di più ... chimico. Sembrava di annusare un barattolo di conservanti e scorie radioattive.

- Ma che cavolo ... –

- Di qua – Sergej avanzò con sicurezza, riconoscendo una delle rampe di scale che aveva già percorso tempo prima – è lì che dobbiamo scendere –

Boris sbuffò, aprendo la cerniera della giacca – Ti giuro Ser, se tutto questo è un’enorme stronzata ... – Era incredibilmente umido lì sotto, e si respirava a stento. Il ragazzo scrutò nell’oscurità le pareti scrostate, ascoltò l’eco dei loro passi e il ticchettare di una goccia che scavava dispettosa sulle mattonelle ammuffite. Trattenne un brivido; per un attimo quel luogo si sovrappose al monastero.

Scesero i gradini in silenzio. L’unico suono umano che riecheggiava erano i sommessi borbottii di Andrew; Gianni gli tirò una leggera gomitata.

Sergej si fermò. L’odore pungente di un non so quale liquame gli punse il naso. Oltrepassò il cartello di warning, lo stesso che aveva trovato la volta precedente, e puntò diretto a una grossa porta in metallo. Poi si fermò.

Yuriy si affiancò a lui. Prese in mano con noncuranza la pistola, perché lui a differenza di Kai preferiva essere sempre previdente, e tolse la sicura. Lanciò un’occhiata distratta alla porta.

- è questa?-

Sergej annuì.

Yuriy non aggiunse nulla. In cuor suo sperò davvero che Sergej si fosse sbagliato, e una volta entrati avrebbero trovato solo una vasca vuota, o un bit power qualsiasi.

Quando la porta si aprì, dovettero ricredersi tutti.

Gianni sgranò gli occhi, irrigidendosi sul posto. Andrew e Rei fecero solo un passo avanti, giusto per essere sicuri di averci visto davvero bene in quella specie di antro. Sergej chiuse gli occhi; sapeva già cosa si sarebbe trovato davanti. Yuriy e Ivan non poterono fare altrettanto.

Boris rimase lì, fermo, le pupille ridotte a due spilli.

- Cosa ... cazzo ... è?-

La vasca verticale era lì, come nella foto sul cellulare di Sergej. Le uniche fonti di luce erano i cavi luminescenti che collegavano la struttura al soffitto e al pavimento, diluendo nel liquido verdastro un baluginio offuscato. Dentro vi galleggiava quell’essere.

Non era umano, ma non era nemmeno animale. Un corpo antropomorfo sottile dalle membra allungate, con il capo rasato coronato da una serie di tatuaggi snodati in linee curve ed eleganti. E poi, dalla schiena, ecco spuntare due piccole, sparute ali. Erano poco più di ramoscelli da cui pendeva qualche lunga piuma argentata.

Boris si avvicinò di qualche passo, tendendo una mano verso il vetro. I suoi occhi fissavano quelle ali.

- Ma ... queste –

Sfiorò appena la vasca con i polpastrelli. L’essere aprì di scatto gli occhi a fessura, facendo sobbalzare i presenti. Yury scattò in avanti, afferrando Boris per una spalla, tirandolo lontano dalla vasca.

- Eccola – Sergej si avvicinò a loro.

Ivan avrebbe voluto scattare una foto, documentare la cosa, cercare qualcosa in giro che gli facesse capire che diavolo stava succedendo. Invece rimase accanto ai suoi compagni di squadra, fissando lo strano angelo galleggiare.

E quello scese. Scese sul fondo dell’enorme vasca, avvicinandosi a loro.

E sorrise.

La botta improvvisa di cardini che saltano riempì l’aria; l’enorme porta saltò in aria, volando di lato fino a schiantarsi sul pavimento. Gianni, che era rimasto più indietro rispetto al gruppo, si fece di lato giusto in tempo per evitare che una scheggia di mattonella gli volasse in piena faccia. Rei lo tirò verso di se.

- Attento!-

- Avete molte cose a cui fare attenzione –

La voce graffiante li fece rabbrividire. Dove prima c’era la porta ora stava in piedi un uomo ricurvo di lato, come se un braccio pesasse di più dell’altro e lo costringesse a piegarsi. Le labbra si tirarono in un sorriso contorto. Alzò il braccio destro, rivelando una struttura in metallo che partiva dal gomito.

Boris rabbrividì; in un istante gli tornò in mente una cosa talmente assurda che l’aveva messa da parte dopo l’incidente nei sotterranei di Norimberga.

Il braccio cannone

Poi qualcosa in quel pezzo di metallo scattò. E un attimo dopo metà della stanza stava andando a fuoco.

Sergej e Ivan si buttarono di lato, travolti da un’improvvisa ondata di calore.

- Yuriy!-

- Via, usciamo! Adesso!-

L’uomo meccanizzato prese a ruotare su se stesso, facendo fuoco attorno a sé; cominciò a ridere.

- Sì, così! Provate a scappare! Provate a ... –

Un calcio in pieno volto lo costrinse al silenzio. Sgranò gli occhi, mentre davanti a lui Rei, saltando al di sopra del braccio cannone, fletteva la gamba caricandola per un secondo calcio. Occhi d’ambra saettarono su di lui affilati.

Il proiettile gli volò a un centimetro dal volto. Il cinese non fermò il calcio, sferrandolo verso il nemico che volò a terra, fermando il flusso di fuoco. A pochi metri da loro Yuriy teneva ancora la pistola in mano, mentre gli occhi puntavano dritti al corridoio. Rei si voltò di scatto: dietro di lui era steso a terra un uomo che, fino a un attimo prima, gli stava puntando un’arma contro.

Fece un grosso respiro. Yuriy gli passò accanto, afferrando Gianni e Andrew per le spalle e scuotendoli dalla specie di trance nel quale sembravano essere entrati.

- Hei! Muovetevi, ce ne dobbiamo andare –

L’italiano boccheggiò, cercando di prendere aria.

- Cosa ... c-come ... –

Yuriy si rivolse direttamente a Rei – Ne arriveranno altri. Aspettavano solo il momento buono per attaccare-

- Quel coso!- Boris si intromise, fissando ancora la vasca verticale – Quel braccio ... a Norimberga eravamo stati attaccati da qualcosa di uguale a quello-

- Che? Come??-

- Ce lo spiegherai più tardi – Ivan lanciò ad Andrew una pistola, che lui afferrò quasi schifato.

- Che ci faccio con questa?-

Non lo degnò di risposta.

- Ci dividiamo. Siamo troppo facili da prendere in gruppo, siamo in troppi – Lanciò un’occhiata a Sergej, che ricambiò senza troppe cerimonie.

- Muoviti Boris –

Il ragazzo annuì. La luce vibrante delle fiamme che si stavano spegnendo lambì la vasca, illuminandone il bordo. La scritta Bambina era lì, ben visibile sotto i suoi occhi. E le piume di quelle ali brillarono tra le fiamme; gli sembrò quasi sentire Falborg richiamarle a se.

Yuriy lo afferrò per un braccio, riscuotendolo dai suoi pensieri.

- Sembra ... Falborg –

Il capitano aggrottò le sopracciglia.

- Che intendi?-

Poi si bloccò. Sul vetro della vasca, sottile e spigolosa, si stava disegnando una crepa.

- Oh no –

Un rivolo verdastro fuoriuscì dal pertugio; l’angelo osservò dall’interno il vetro, passandoci sopra un dito con una specie di curiosità. Poi la crepa si allargò, e ne seguì un’altra. E un’altra; e un’altra ancora. Quando dallo spesso vetro proruppe un suono secco, e la spaccatura si dispiegò per tutta la sua lunghezza, Yuriy decise che era ora di cambiare aria.

Afferrò Boris per il cappotto tirandolo indietro con tutta la forza che aveva, giusto in tempo per vedere il vetro spaccarsi. Poi puntò dritto all’uscita.

- Via!-

 

...............

 

Una scossa fece tremare il pavimento. Kai saettò gli occhi verso il soffitto non appena una serie di goccioline cominciarono a picchiettare con insistenza sulla sua spalla. Bastò quell’istante di distrazione; l’uomo davanti a lui scattò, annullando la distanza che c’era tra loro, puntandogli un taser contro.

La scarica di elettricità lo raggiunse prima che potesse fare qualunque cosa, colpendolo alla bocca dello stomaco. Kai sgranò gli occhi, perdendo la capacità di respirare.

Merda

Barcollò in avanti, cadendo a peso morto sul pavimento. La testa sbattè sulle piastrelle umide, e la stanza divenne confusa. Intravide, come se stesse sognando, due paia di scarpe avvicinarsi a lui; uno di quei due paia gli sembrò estremamente  familiare.

- Che ... cazzo ... – Biascicò. Poi il rosso delle All Stars di Takao gli balenò un’ultima volta negli occhi.

Razza di idiota

Un secondo dopo li raggiunse un’altra scossa; un tonfo sordo si susseguì a una serie di suoni metallici poco rassicuranti, e sul soffitto si produsse uno squarcio improvviso a pochi metri da loro, da cui fuoriuscì una cascata d’acqua verdastra.

La porta si spalancò, ed entrò Rei. Kai fu sicuro di sentire un che cazzo succede provenire dalla bocca di Takao.

 

Il cinese si trovò davanti una strana scena: Kai era a terra, accanto a lui Takao era tenuto in ostaggio e, oltre a lui, Ming Ming e Garland erano allo stesso modo tenuti sotto tiro da un paio di uomini armati. Un terzo uomo lo guardava con due palle d’occhi, brandendo minacciosamente un taser. E dal soffitto sfondato fuoriusciva una cascata d’acqua dal colore poco rassicurante.

Ma non c’era tempo per fermarsi. Dietro di lui comparvero Gianni e Andrew, altrettanto spaesati.

- Kai! Ma ... –

- Non c’è tempo! –

Rei scattò in avanti, disarmando in un secondo l’uomo con il taser. Dietro di lui Gianni si avvicinò a Takao, ma qualcuno gli scaricò contro una serie di proiettili.

- Oddio!-

- Scappate! – Takao si buttò verso uno degli uomini armati, facendolo cadere – Portate via quei due! A Kai ci penso io!-

Rei non se lo fece ripetere due volte. Scattò verso i due amici, lanciandosi contro l’ultimo uomo a frapporsi tra lui e loro. Lo assalì senza pensarci, colpendolo alle gambe per farlo cadere. Dietro di lui si fece largo Andrew, afferrando per le braccia Ming Ming e Garland per poi strappare le bende dai loro occhi. La ragazza sbatté le palpebre, accecata da quel poco di luce che illuminava la stanza. Andrew, con un coltellino a serramanico gentilmente offertogli dalla collezione del padre, si affrettò a liberare le mani a entrambi.

- Andiamo! Via!-

Ming Ming a stento riusciva a capire cosa stava succedendo, ma fu Garland a reagire per lei. La afferrò per un braccio, e le sue gambe cominciarono a correre in automatico dietro a quelle dell’amico, mentre i tacchi a stento la tenevano in equilibrio sopra il pavimento allagato.

Rei stava per allungare la corsa fino a Kai, ancora spiaggiato sul pavimento senza nessuna energia residua per alzarsi, ma il soffitto decise che proprio quello era un buon momento per cedere. Le travi si piegarono, e un secondo squarcio si aprì sopra le loro teste; una cascata d’acqua puntò minacciosa sa Rei e Kai.

Fu la prima volta che il cinese rimase fermo al suo posto, a guardare a bocca aperta la valanga liquida che lo stava per travolgere. Una spinta improvvisa lo fece barcollare all’indietro; con la coda dell’occhio distinse Takao, con le mani ancora legate dietro la schiena e un’incredibile fermezza negli occhi.

- Takao!-

Poi l’acqua lo travolse, insieme a Kai e a due dei nemici.

Ce l’avevamo quasi fatta!

Andrew afferrò Rei, trascinandolo verso l’uscita.

- Andiamo!-

- Ma ... –

- Non c’è tempo! Se la caveranno!-

 

Corsero fuori senza guardarsi indietro, sentendo l’acqua scorrere dietro di loro con sempre più forza.

- Dove andiamo?!-

- Là!- Gianni indicò una rampa di scale che saliva verso l’alto.

- Non c’è una cavolo di uscita?!-

- Non lo so!- Rei urlò, superando il suono dell’acqua e del soffitto che sembrava stare per cedere – Ma tutta questa acqua arriva da quella vasca??-

Continuarono a salire, fino ad arrivare all’ultimo piano disponibile con i polmoni disintegrati. Gianni si massaggiò le ginocchia acciaccate che aveva sbattuto in tutti gli angoli, complice il buio quasi totale.

- Vi prego, ditemi che abbiamo magicamente trovato un modo per uscire da qui ...-

- Voglio ... andarmene ... –

Gianni alzò gli occhi stupito, scontrandosi con due occhioni lucidissimi. Ming Ming tirò su col naso, ancora stretta alla mano di Garland.

- Perché siamo qui?-  Si aggrappò più forte al compagno di squadra – Cosa vogliono da noi?!-

- Qualunque cosa fosse ... – Boris comparve dalle scale, seguito da Yuriy, entrambi completamente umidi - ... L’hanno ottenuta. Dov’è Kai?-

Rei abbassò gli occhi.

- Lui e Takao ... sono ... –

- Il quaderno ce l’aveva lui. E ora ce l’hanno loro –

Sospirò, tirando il fiato.

- Bene –

Poi fece per tornare verso le scale. Yuriy lo fermò con un’occhiata.

- Dove pensi di andare?-

- ... a vederla –

- Boris –

- Voglio capire se Sergej aveva ragione –

- Non ... –

L’ennesima scossa interruppe la discussione. Ma questa non era per colpa dell’acqua. Il boato di un’esplosione li raggiunse, e più paia di occhi si rivoltarono verso il cielo.

Gianni sospirò.

- No ... non di nuovo ... –

- Eccovi!-

In quell’istante la faccia di Ivan comparve sulle scale.

- Stanno facendo saltare il piano terra – Li informò, mentre scartabellava con efficiente noncuranza nel suo zaino. Ne tirò fuori un paio di lunghe corde, srotolandole addosso ad Andrew.

- Prendete queste e tenetevi stretti. Dovremmo saltare da lì – Fece, indicando la finestra con un cenno del capo.

Gianni strabuzzò gli occhi.

- Stai scherzando vero?-

Anche Sergej si materializzò dalle scale, saltando gli ultimi gradini a blocco.

- Non c’è più tempo – Un’altra scossa li fece barcollare, costringendoli ad attaccarsi al muro per non cadere.

Yuriy prese in mano la situazione.

- La corda –

Ivan gliela lanciò; lui si fiondò verso l’unica finestra che la divina provvidenza gli aveva fatto l’onore di fornirgli. La spalancò, e accanto a lui Andrew notò con orrore che erano almeno a cinque piani da terra.

- Ehm, non so se ... –

Yuriy legò la corda a una tubatura accanto alla finestra, rompendo direttamente il vetro senza disturbarsi di vedere se era aperta. Poi mollò la cima in mano all’inglese.

Andrew lo squadrò con sospetto.

- Non ci provare, non mi butterò da qui come ... –

Il russo non lo ascoltò: lo afferrò di peso, producendo un britannico gridolino di stupore in Andrew, e lo spinse quanto bastava verso il davanzale per costringerlo a scendere, volente o meno.

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 27 ***



Capitolo 27

 

- Ti ammazzerò –

- Prima dovrai prendermi. E ti assicuro che so scappare molto velocemente –

- Poi ti farò resuscitare, e ti ammazzerò di nuovo – Continuò Kai, incurante dei commenti dell’altro.

- ... E tu saresti il mio migliore amico?-

Kai rise. Una risata vera, cristallina, terribilmente autentica tra le mura di quella stanza spoglia, su cui rieccheggiavano i cigolii delle catene.

- Mi hai scelto tu. Te ne stai già pentendo?-

- Dopo le minacce di morte?- Takao sorrise – No, no, figurati –

- Ora mi libero e ti ammazzo - Riprese Kai, parlando più a se stesso che al suo ex compagno di squadra.

- Oh se lo farò ... non ne hai nemmeno idea –

Si era svegliato mezzo morto, con la testa in frantumi e gli occhi appannati, legato a un muro da una catena un po’ troppo arrugginita e affiancato da quel disgraziato del suo migliore amico. Ma stava rivalutando la cosa.

Gli avrebbe spaccato la testa con le sue mani, se non fosse che queste erano tenute distanti dal cranio di Takao da due catene troppo corte per permettere movimenti di lungo raggio.

Kai sperò con tutto se stesso che qualcuno, non importava chi della combriccola di imbecilli che dovevano solo andare a controllare quel benedetto bit power umano, fosse riuscito a recuperare il quaderno.

 

 

- LO AVETE PERSO?-

- Non è assolutamente come sembra –

- Giancarlo Tornatore, io ti strappo i capelli uno a uno –

Gianni sospirò, reprimendo più di un tremolio. Era ancora abbastanza infreddolito da essere certo che, come minimo, si sarebbe beccato un’influenza di due settimane. E ora doveva subire, per tutti, gli urli di Olivier.

- Dai Vier, ho bisogno che mandi qualcuno a venirci a prendere! Che ne so, un elicottero ... una mongolfiera ... qualcosa!-

- Mon Dieu Gianni, mi dici come faccio? che scusa dovrei inventarmi?!-

- Ma che ne so!-

Andrew guardava l’italiano da lontano, non provando abbastanza compassione per lui da andare ad aiutarlo contro la furia omicida del francese. Si appoggiò al muro del salotto, rabbrividendo al contatto della pelle nuda con la parete. La doccia fuori programma non era stata proprio un toccasana: Lui all'umidità ci era abituato, ma qui non si era esattamente trattato della pioggerellina autunnale londinese.

Si guardò intorno, assumendo una posa che ricordava troppo quelle di Kai. Si vedeva lontano cento chilometri che Rei non aveva ancora capito cosa ci faceva lì, ma stava facendo del suo meglio per non pensarci. Aveva preparato il suo tè, aiutato Sergej a portare delle coperte nel minuscolo salottino, e aveva fatto per un po’ da psicologo a Ming Ming, che non aveva smesso un attimo di parlare. Era ancora lì, seduta sul divano stretta a Garland, che aveva un labbro spaccato e non sapeva perché.

- Beh – Mormorò fra se l’inglese, guardando di sottecchi i due ragazzi reduci dal salvataggio – Anche se non abbiamo trovato le cavie, almeno una cosa siamo riusciti a farla –

- Ma non dovevamo farla noi –

Andrew sobbalzò. Accanto a lui Ivan si stava sfregando con foga un asciugamano tra i capelli umidicci, sbuffando infastidito ad ogni ciocca che veniva tirata.

- Che cazzo ... –

- Quindi adesso ce ne sono altri due da salvare?-

- No McGregor, il problema qui è un altro – Ivan puntò i suoi brillanti occhi cremisi su Andrew – Adesso Vorkov ha il fottuto quaderno –

L’inglese sbuffò.

- E allora? Credi potrà farci qualcosa? Erano solo appunti di uno schizzato –

- Vorkov è uno schizzato. E l’abbiamo vista, quella specie di bit power. Se vuole farci qualcosa non credere che si farà scrupoli a usare quegli appunti da scienziato pazzo –

- Era davvero lei?-

L’improvviso cambio di argomento stupì Ivan. Andrew aveva abbassato gli occhi, guardando altrove.

Già. La conosceva anche lui alla fine

- Voglio dire – Andrew si guardò le mani, ripensando con un brivido alle membra allungate e innaturali di quello strano angelo – è davvero possibile fare una cosa del genere? Un bit power e ... un essere umano?-

- Sì –

Yuriy irruppe nella discussione. Si buttò su una poltroncina, che subito si inumidì.

- Hai visto il tizio con quella specie di braccio cannone, no?-

Andrew rabbrividì.

- Ecco, lui sarà stato una specie di cavia –

- No, no, aspetta. Mi stai dicendo che quell’affare che sparava fuoco era ... –

- Attaccato al suo corpo? Sì, direi di sì. E forse ce ne sono altri in giro: uno ci ha attaccati anche a Norimberga –

Andrew stava per ribattere, ma all’improvviso la sua maglia gli volò in faccia. Sergej si mise a redistribuire i vestiti asciutti, ringraziando il signore che aveva avuto la prontezza di comprare un’asciugatrice due mesi prima. Passo a Yuriy la sua felpa, scoccando un’occhiata dietro di sé.

- I due piccioncini sembrano essere più tranquilli. Li mando in camera mia a dormire un po’, ma prima ce ne andiamo e meglio è –

Yuriy annuì. Prese tra le mani la felpa, senza indossarla; si perse per un momento ad ascoltare ogni singolo brivido della sua pelle ancora umida, lasciando che si attaccasse alla stoffa della poltroncina. Chiuse gli occhi.

- Yuriy?-

- Mh?-

Sergej sospirò. Non voleva fare quella domanda.

- Cosa facciamo con ... lei? –

Il capitano alzò le palpebre, puntando gli occhi verso un elemento ben preciso tra gli esseri che abitavano l’improvvisamente affollato salottino dell’appartamento di Sergej.

- Se possiamo considerare qualunque cosa abbiamo visto una lei-

Sergej gli scoccò un’occhiata severa, che il capitano ignorò. Stava ancora puntando qualcuno davanti a lui con insistenza; Ivan seguì la scia di ghiaccio dei suoi occhi fino a Boris, che si era auto isolato davanti alla finestra da quando erano arrivati.

- Beh ... l’ha presa bene – Sussurrò, rivestendosi con calma.

- Sa che va eliminata – Yuriy si alzò, decidendosi finalmente a infilare la felpa – Sta solo metabolizzando la cosa –

- Come?-

La voce di Rei tremò impercettibilmente. Poggiò due tazze di tè sul primo mobiletto a tiro, condividendo con Andrew una serie di occhiate preoccupate.

- Vorreste ... – Abbassò la voce, come se cercasse di non farsi sentire in quella piccolissima stanza - ... ucciderla?-

- è già morta – Commentò semplicemente Yuriy. Prese il suo tè, bevendolo con noncuranza – E di certo non lasceremo in vita un esperimento del genere. È follia, quel monaco potrebbe riprodurne quanti ne vuole –

- Ma ... ma non c’è un modo per farla tornare come prima? C’è lei dietro quel corpo!- Rei cominciò a spazientirsi. Gli occhi si fecero sottili come fessure, e la voce aumentò di tono – Era vostra amica e la lasciate così? Non provate nemmeno a ... a ... –

- A fare cosa?-

La voce di Boris lo raggiunse tagliente dall’altra parte della stanza. Un ghigno storto incrinava il suo volto.

- Ha ragione Yuriy. Lei è già morta. E se non facciamo piazza pulita in fretta, potremmo trovare anche il cadavere di qualcun altro - Si avvicinò lentamente, fronteggiando il cinese – Oppure vuoi trovarci altri al suo posto in quella vasca? Magari la tua bella ragazza –

Le pupille di Rei diventarono sottili come aghi; Andrew stava per alzarsi e intervenire, ma Ivan gli lanciò un’occhiataccia. Il cinese inspirò forte, buttando fuori l’aria tutta in un’unica boccata. Le labbra gli tremarono; un brivido gli corse su ogni vertebra, fino al collo. Chiuse gli occhi, la fronte si corrugò; le parole di Boris gli rimbalzarono in testa, e gli angoli della bocca si piegarono dispettosi verso l’alto.

- Io sono ... terrorizzato - Ammise, senza sentirsi debole né a disagio davanti alla falsa sicurezza che il russo stava ostentando – Potrebbero rapirla, potrebbero portarla via .... Ucciderla. Mao potrebbe scomparire in qualsiasi momento e io ... quando ho visto quella foto, in quella vasca per un attimo ci ho visto lei. E ho avuto paura. Tanta –

Puntò lo sguardo d’oro liquido su Boris.

- Ma avrei aperto io stesso quella vasca per andarla a riprendere –

Nessuno rispose. Il cinese aveva risposto alla provocazione con un’emozione così tanto intensa, che l’interno appartamento ne fu travolto, facendosi silenzioso.

Boris sostenne quegli occhi brillanti, leggendovi dentro qualcosa che lui sperava di reprimere nel suo petto. Rei si rilassò.

- Ti manca?-

- Non ne hai nemmeno idea – Sussurrò il russo di slancio.

- Significa che l’hai amata molto. Funziona così, è una specie di contrappasso: più ami qualcosa, più soffri nel perderla –

- Bene – Yuriy interruppe all’improvviso l’atmosfera tra il romantico, il filosofico e il malinconico che si era andata a creare. Si frappose fra Rei e Boris, prendendo quest’ultimo per un braccio e trascinandolo con se.

- Se volete organizzare un pigiama party per raccontarvi le vostre tristi storie, dovrete aspettare. Bo, io e te adesso ci facciamo un bel giro fuori per controllare che nessun individuo poco raccomandabile sia arrivato fino a qui –

Rei guardò sconcertato le sue bellissime, filosofiche parole andare in frantumi davanti all’impenetrabile corazza di Yuriy. Mise le mani sui fianchi, assumendo la posa preferita di Hilary.

- Ma che razza di capitano sei? I problemi psicologici vanno affrontati, non lasciati perdere come se niente fosse!-

- Sì, sì, ma ora non abbiamo tempo –

- Dieci minuti per parlare si trovano sempre, se si vuole! – Insistè Rei, alzando la voce a ogni passo che i due russi facevano verso il portone dell’appartamento.

- Dieci minuti sono già passati – Rispose Yuriy, affrettandosi a trovare la chiave giusta per aprire la maledetta porta.

- Solo perché hai la sensibilità di un ferro da stiro non vuol dire che tu non possa provare a essere empatico almeno una volta nella vita –

Il rumore metallico delle chiavi si fermò all’improvviso. Ivan si morse la lingua per non scoppiare a ridere.

Per un attimo Rei credette che Yuriy sarebbe davvero tornato indietro solo per prenderlo a pugni.

 

............................

 

Non stava andando tutto come era stato programmato. C’erano stati diversi cambi di programma in effetti, ma l’idea di fondo che faceva da pilastro all’intero piano era sempre la stessa: bit power modificati.

Era questo che lo faceva muovere da anni. Ogni passo, ogni torneo, ogni rassicurante sorriso ai bambini che si affidavano a lui ... tutto organizzato per farlo muovere verso un’unica direzione.

Vorkov sistemò la cartella, impilando dentro con cura tutti i documenti. Il disordine era solo un mattone della scala che scendeva in basso, verso l’insuccesso. Ogni suo piano era stato sistematico, ogni passo sicuro; ma qualcosa si era sempre intromesso. Qualcosa di insignificante. Curioso come dei ragazzini sciocchi, che non avevano idea di cosa stesse realmente accadendo, erano sempre riusciti a farlo cadere.

Ma questa volta no. E li avrebbe ridotti al silenzio uno per uno, se necessario.

Aveva tenuto in piedi il laboratorio di Croydon fino a quel momento solo per gli esperimenti più speciali. Lei era uno di quelli. E avrebbe dato qualsiasi cosa per vedere l’espressione sul volto di quei ragazzi dispotici, una volta scoperto che la loro carissima amica non era altro che un essere deforme. E che a renderla tale era stato Falborg.

Aaah, quella piuma trovata nei sotterranei a Norimberga era stata pura manna dal cielo. Certo, l’esperimento non era completo: non aveva ancora tutti i dettagli in mano, almeno fino a poche ore prima.

Il monaco si alzò, facendo attenzione a sollevare la sedia senza strisciarla sul parquet. Aveva arredato anche quello studio in modo da sentirsi sempre a suo agio, lì come in ogni altro laboratorio. I piccoli occhi vagarono sull’enorme libreria, ben illuminata da un paio di lampade da parete di meravigliosa fattura, e altrettanto alto prezzo. Si fermarono davanti a un quadernino rilegato in pelle blu sintetica.

Lo prese in mano, aprendolo con attenzione. Gli sembrò quasi di rivederlo tra le dita sottili del professor Primerose, chino su quelle pagine giorno e notte.

Vorkov soffiò un mezzo sorriso. Quell’uomo era pazzo tanto quanto lui; se la loro si poteva definire pazzia. Ma Primerose non era stato altrettanto coraggioso. Un gesto molto sciocco, quello di nascondere a lui, al suo mecenate, il risultato di sudati anni di ricerca solo per paura di ciò che ne avrebbe potuto fare.

Ma adesso il quaderno era suo. E l’esperimento, Bambina, poteva finalmente giungere a conclusione; e se tutto andava come doveva andare, sarebbe poi stato replicato. Avrebbe trovato qualcun altro per procurarsi cavie umane, Torres non era poi così indispensabile.

Qualcuno bussò alla porta con insistenza, rompendo il filo del discorso mentale. Già, non era quello il momento per perdersi nei ricordi: c’era tanto lavoro da fare, ed era già stato abbastanza difficile spostare Bambina e gli altri due ficcanaso fino al laboratorio di Londra senza essere visti.

- Entra –

Si presentò un uomo in uniforme nera; chinò il capo in segno di saluto, e attese semplicemente che gli fosse dato il permesso di parlare. Un sorriso sottile tinse le labbra di Vorkov.

Li ho addestrati bene. Se solo tutti i miei sottoposti fossero stati così ubbidienti ...

- Parla –

- è ... fuori controllo, signore – C’era esitazione nella sua voce, e questo a Vorkov non piacque – Siamo riusciti a chiudere la vasca, ma ... –

- Se non mi sbaglio, vi avevo detto di sedarla –

L’uomo abbassò ancora di più la testa.

- Sì, lo abbiamo fatto. Ma continua a rimanere sveglia, sembra che stia cercando di rompere il vetro dall’interno –

Vorkov si accigliò per un istante. Avrebbe potuto arrabbiarsi; ma non lo fece. Il progetto stava procedendo bene, non era quello il momento di perdere la lucidità.

- Non importa – Diede la schiena all’uomo, andando a riporre in quadernino nella libreria – Stasera concluderemo l’esperimento, dopodiché lei non ci darà più noie –

- C’è un’ultima cosa, se posso –

Vorkov gli fece un cenno con la mano.

- Quando l’abbiamo portata qua, e ha visto quei due ragazzi in catene... ha reagito in modo strano. Ha ... rotto una delle vasche signore, a mani nude. E ha ferito uno degli uomini del nostro gruppo –

Lo sguardo del monaco scattò verso il sottoposto, saettandovi contro un paio di piccoli occhi sorpresi.

- Lo ha ferito? In che modo?-

- Gli ha dato un morso, piuttosto violento. Per poco non gli staccava un braccio –

Il monaco si sorprese a tendere i muscoli più del dovuto. Si appoggiò con una mano all’angolo della scrivania in legno, affondandovi le unghie.

Allora lei ricorda ancora?

- Il nostro dottore è già arrivato?-

- Non ancora –

- Allora chiamalo, e in fretta. Termineremo l’esperimento adesso, non c’è più ... –

Un improvviso urlo rimbalzò sulle pareti, penetrando le spesse mura dello studio. L’uomo sulla porta alzò il capo di scatto, guardando d’istinto dietro di sé come se, da un momento all’altro, potesse apparire un demone sulla soglia. Vorkov invece guardò d’istinto verso il basso, dove avevano costruito il laboratorio, sotto le fondamenta di una semplice villetta a schiera londinese.

Un secondo urlo lo mise ancora più in allarme. Scattò verso la libreria, afferrando con foga il quaderno; poi raggiunse la porta a grandi passi, spingendo l’altro uomo verso il corridoio.

- Chiama il dottore! Muoviti!-

 

..........................

 

...

...

...

Ti amo

A chi lo aveva detto?

Cosa voleva dire?

Provava una stretta al petto se cercava di ripeterlo a fior di labbra.

Ti amo, ti amo, ti amo

Strinse le lunghe braccia attorno al torso. Era come essere pugnalati al cuore. Perché stava così male? Cosa significavano quelle parole?

Aveva freddo, e si sentiva estremamente pesante. Fino a poco prima il suo corpo era stato come sospeso, e aveva fluttuato per tutto il tempo in quella stanza verticale. Nella sua testa, era come se fosse così da sempre. Non ricordava quando era cominciata quella sensazione.

Poi era arrivato qualcuno, che per qualche motivo sembrava spaventato da quello che aveva visto. Ma i suoi occhi lo avevano riconosciuto; non sapeva perché, ma quel ragazzo biondo e imponente era un amico. Ed era tornato, con altri; però era successo qualcosa di strano. Uno di loro si era avvicinato di più, e il petto aveva cominciato a bruciare e le ali a vibrare, come se volessero volare verso di lui. Lui che guardava dentro la vasca con occhi spaventati, gli stessi occhi davanti ai quali, chissà mai perché poi, la sua testa era andata in tilt, producendo una sola frase:

Ti amo

Era un ricordo. Quando era successo? Non aveva mai visto quel ragazzo fuori dalla vasca.

Poi, all’improvviso, si era accesa una luce accecante, e qualcosa era andato a sbattere contro il vetro. Un attimo dopo la sua casa aveva cominciato a scricchiolare, e man mano che la sostanza usciva il corpo era sempre meno leggero, meno fluttuante. Eppure aveva notato con sgomento che viveva; si muoveva, poteva camminare anche fuori dalla vasca.

A quel punto, in testa aveva un periodo di buio. Il risveglio era stato rassicurante, di nuovo fluttuante nel suo elemento. Poteva vedere da dentro il suo contenitore dentro la stanza, dove un gruppo di persone stavano trascinando di peso due ragazzi; loro cercavano di ribellarsi, ma uno degli uomini cominciò a colpirli più volte, fino a che un rivolo rosso non spuntò sui loro volti.

Fermatevi

Era sbagliato. Non sapeva perché, ma era sbagliato. Tutto. Stringeva i pugni contro lo spessore trasparente del suo antro, osservando inerme la scena attraverso le fessure degli occhi, guardando gli uomini malvagi portare via quei due ragazzi.

Fermatevi

Poi aveva cominciato a sbattere i pugni contro la parete trasparente. Prima piano, poi con maggior foga, fino a ritrovarsi a gridare contro un nemico non identificato a piena voce, sotto lo sguardo atterrito dell’unico uomo che era rimasto nella stanza.

Forse il contenitore era meno resistente; non lo sapeva. Ma la parete aveva ceduto dopo pochi colpi; e un attimo dopo un cattivo sapore metallico pervadeva la sua bocca.

 

 

Chi sei?

Si risvegliò di colpo, trovandosi di nuovo fluttuante. Cos’era successo? Cos’erano quelle voci che sentiva, quelle immagini sbiadite che si imponevano nella sua mente appena chiudeva gli occhi?

Chi sei? Era una domanda aveva sentito da qualcuno. Una scintilla scattò nella sua mente, e l’immagine di una persona piccola e spaventata fece capolino tra i suoi pensieri.

Ma certo. L’aveva già visto di sicuro quel corpicino tremante, e quei piccoli occhi azzurri pieni di terrore. Erano sue quelle immagini? Suoi, quei ricordi? Era stata lei a chiedere Chi sei? Sì, questo, chissà perché, lo sapeva.

Ti amo

Sobbalzò. Anche quello era un ricordo di quella persona? Una sua emozione?

Una fitta strinse il suo petto in una morsa dolorosa. Si afferrò il volto con le mani, lasciandosi scivolare verso il fondo.

Salvali

Chi? Chi è che doveva salvare? Perché all’improvviso stava così male?

- Che diavolo sta facendo?-

Una voce, dall’esterno. Si scoprì gli occhi, notando due uomini che stavano guardando nella sua direzione. Uno dei due rideva.

- Non ne ho idea, ma la dobbiamo spostare –

- Che lavoro del cazzo –

- Zitto. Dobbiamo solo portare la vasca nell’altro laboratorio, poi ci penserà il dottore –

Dove? Dove mi portano?

Il mondo non si era mai mosso così tanto davanti ai suoi occhi. Cosa stava succedendo?

- E quei due? Che ne facciamo? Non possiamo liberarcene così a caso –

- E perché no?-

- Ma dico, sei scemo? Un campione di beyblade, e il nipote di uno degli uomini più ricchi del Giappone! Ma certo, uccidiamoli come se niente fosse!-

- E che ti importa? Ci penserà Vorkov a sistemare la cosa, no?-

No, no, non uccideteli

- Lui è bravo in questo genere di lavori –

- ... e magari potremo dargli una mano. Ho un conto in sospeso con alcuni dei loro amichetti –

- Se parli di Yuriy e Boris devi metterti in fila. Di quei due bastardi voglio occuparmene anche io, e magari imparano a farsi i cazzi loro. Potevamo già averci fatto un sacco di soldi da questo progetto, se non fossimo sempre stati fermati dalla squadra di quelle teste di cazzo –

 

Un suono secco interruppe l’allegra discussione dei due. Due paia di occhi si alzarono lenti verso la vasca, a pochi metri da loro.

Sul vetro c’era una crepa. Dietro la crepa l’essere li guardava minaccioso, con un pungo alzato. Lo abbassò di botto sul vetro, producendo un rimbombo e un altro secco crack. La crepa si allargò.

- Hei ... –

Uno dei due uomini fece un passo indietro.

- Che cazzo sta facendo?-

Un terzo pugno si abbatté sul vetro.

I due uomini mollarono il lavoro che stavano facendo, indietreggiando a grandi passi verso l’uscita.

- Ma non l’avevano sedata?-

Le voci allarmate si persero tra gli scricchiolii del vetro della vasca.

L’angelo alzò di nuovo il pugno.

Salvali

Va bene, si disse, rispondendo ai suoi stessi pensieri. Li salverò

Schiantò il pugno un’ultima volta contro il vetro, gridando con una voce che non sapeva di avere.

 

......................

 

- Ecco! Lo vedi? Mira 

- Lo vedo Julia, lo vedo –

- Julieta, ancora con questa storia?-

L’equilibrista lanciò un’occhiata di fuoco al fratello, che strinse le spalle.

- Ormai è un’ossessione ... –

- Perché è tutto vero – Sputò, vagamente acida, tenendo fermo davanti alla cam del computer un foglio con una lunga lista di città scritta di fretta. Emy, dall’altra parte di Skype, cercava di prenderne nota nel miglior modo possibile.

- E tu dici che queste ... –

- Ha trafficato cose losche ovunque. Ne sono convinta –

- ... Sono un sacco, Julia –

- Lo so, ma non posso fare finta di nulla! Non ci riesco!-

Ci aveva messo due intere giornate a completare quella lista, facendosi negare persino alle prove del circo. Se la sua intuizione era giusta, e Torres forniva davvero a Vorkov il materiale per i suoi esperimenti, doveva fare qualcosa.

- E se ci fossero delle persone prigioniere, beh, da qualche parte?-

- Ma non possiamo cercare in ogni anfratto di tutte quelle città!-

- Sì, se ci dividiamo i compiti da fare –

Emily sospirò, travolta dalla buona volontà dell’amica che, comunque, non riusciva a scalfirla.

- Almeno avvertiamo la polizia!-

- Ecco, questa può essere una cosa intelligente da fare-

- Oppure ... aspetta – La spagnola cominciò a frugare spasmodicamente tra le cose attorno a lei, gettando le mani in ogni anfratto della roulotte ricoperta di costumi sgargianti e nastri colorati.- Chiamo Yuriy –

- Che?-

- O Hilary, o chiunque altro –

- Oddio Julia, non complicare la situazione ti prego –

- Senti – Pigiò con forza sul touch, cercando nella rubrica come fosse una questione di vita o di morte. - Ming Ming è sparita, ci possono essere delle persone in pericolo, e io ... pronto?-

Il suo timpano venne improvvisamente perforato da un suono sordo, rapido e letale, che la fece sobbalzare. Raul, che stava uscendo dalla roulotte, rientrò di slancio a occhi sbarrati.

- Cosa succede?!-

Julia gli fece segno di tacere con la mano.

- Pronto? Hei! Yuriy?-

- Non è il momento –

Altre due botte sorde, che a questo punto Julia identificò come spari, coprirono la voce del russo.

- Cosa succede, dove sei?-

Julia non voleva sembrare allarmata, ma non riusciva a trattenersi. Dall’altra parte del telefono una voce a lei familiare cominciò a sputare uno dietro l’altro una serie di palesi improperi in russo.

- Yuriy, por Dios, dimmi qualcosa!-

- Ti richiamo –

E chiuse la chiamata.

Julia guardò lo schermo nero allibita; mai in vita sua qualcuno le aveva riagganciato il telefono in faccia.

- Julia!- Emily si era attaccata alla sua webcam tanto da mostrare alla spagnola un primissimo piano. – Che succede? Che ha detto?-

L’amica era ancora attonita.

- Io ... ma ... –

- Ho sentito dei palesi spari, ti prego dimmi che non è scoppiato un altro casino –

- Quel brutto pezzo di merda!-

Emily spalancò gli occhi e Raul, che di nuovo stava cercando di uscire da quel covo di matti, rientrò nella roulotte di volata.

- Cosa? Chi c’è?-

- Che ha fatto?-

Julia strinse il telefono fra le curatissime dita, fino a far scricchiolare la cover rosso fuoco. Gli occhi infiammati d’orgoglio perforarono la schermata nera, e in cuor suo sperò che raggiungessero il russo, seccandolo sul colpo.

- Quel grandissimo stronzo! Dopo averci buttati in questo casino mi liquida così?!-

Poi, con tanta rabbia repressa, prese a cercare un altro numero in rubrica. Attaccò il telefono all’orecchio con talmente tanta foga che ci sarebbe potuta entrare dentro.

- Maledettissimo rojo, ora ti faccio vedere io ... –

- Julia?-

- Mi amor – Saltò i convenevoli, passando direttamente ai fatti. – Mi passi Kai? Il suo capitano ha deciso di fare lo stronzo, e ho urgente bisogno di parlare con qualcuno di autorevole al momento, e ... –

- Je suis désolé - Una voce dal marcato accento francese la fermò. – Temo che Hilary sia ... ehm ... un momento al bagno a ... beh ... è successo un po’ di trambusto in questi ultimi dieci minuti –

- Olivier? – Julia alzò gli occhi al cielo. – Cosa? Cosa è successo?-

- Tutto Julia. Tutto – Scandì il francese.

- Dove sono Yuriy e Kai? E gli altri disgraziati con il ghiaccio al posto dei neuroni?-

- Allora, direi che uno al momento è irreperibile, e per gli altri ci stiamo organizzando come possiamo per andarli a prendere –

- Dove? In un poligono di tiro?-

- ... Qua? –

- Perché dovunque siano c’erano decisamente degli spari, e Yuriy non mi sembrava divertito dalla cosa –

- ... Oh cielo –

 

....................................

 

Riattaccò il telefono, consapevole e incurante dell’ira che Julia avrebbe covato verso di lui fino alla fine dei suoi giorni. Maledizione a lei e al suo tempismo, per poco non lo aveva fatto ammazzare.

Lasciò la presa sulla giacca di un uomo tramortito, facendo scivolare a terra il corpo esanime. Quella era stata decisamente una brutta sorpresa.

- Boris –

- Mh?-

Saettò gli occhi verso l’amico, appoggiato al muretto di quella specie di vicolo in cui si erano infilati solo due minuti prima. Incredibile quanti problemi riescono a piombarti addosso in 120 secondi; problemi armati, e con una voglia matta di farti tanto, tanto male.

Boris si guardò di sbieco il fianco, facendo finta di nulla davanti alla chiazza rossa che si allargava sulla maglia che Sergej gli aveva appena lavato.

- Ma vaffanculo ... –

Erano usciti dall’appartamento cinque minuti prima. In un minuto si erano accorti che qualcuno li sorvegliava, e in due minuti avevano portato cinque tizi sospetti, armati e molto arrabbiati fino al primo vicoletto buio. Due minuti dopo, a terra c’erano tre corpi svenuti e coperti di lividi che si sarebbero portati dietro almeno fino all’anno dopo; accasciato contro il muro il quarto cattivone si lamentava come un bambino per un piccolo squarcio sulla gamba; il quinto uomo ... beh, di lui meglio non parlarne.

Diciamo solo che Yuriy aveva un’ottima mira.

Si avvicinò all’amico, tirando un calcio all’uomo ferito alla gamba che ancora continuava a grugnire dal dolore. Passò gli occhi sulla ferita al fianco.

- Sarà meglio metterci una toppa sopra –

Boris sospirò.

- Adesso non è meglio andare via ... ma tipo prima di subito?-

Yuriy lo guardò scettico.

- E quanto pensi di durare, messo così?-

La risposta non arrivò. Appena Boris fece per aprire bocca, la terra cominciò a tremare. I due alzarono gli occhi contemporaneamente, tutti verso la stessa direzione, notando all’istante che il cielo ingrigito si era fatto insolitamente ... azzurro.

Molto azzurro.

In lontananza, quasi fosse un miraggio, una visione, una colonna comparve in mezzo al paesaggio; una colonna molto luminosa e che non sembrava affatto una colonna. Brillò per qualche secondo, riflettendosi negli occhi spalancati dei due ragazzi, diffondendo una luce azzurra, fredda, in cielo.

Poi, lentamente, si spense.

Nessuno disse più nulla. Passarono cinque secondi di silenzio prima che Boris aprisse di nuovo bocca.

- ... Non c’è Londra, laggiù?-

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Capitolo 30
*** Capitolo 28 ***


Capitolo 28

 

Quella evidentemente era la giornata dei terremoti; fisici, e psicologici.

Takao chiuse gli occhi, ma li dovette subito riaprire: davanti a lui, nel buio della sua testa, continuava a rivedere l’immagine di quel bit power umanoide che afferrava il braccio di un uomo, strattonandolo fino a far uscire l’osso dalla carne.

Rabbrividì, riscosso dall'ennesimo tremolio del pavimento.

- Come ... – Deglutì, lanciando a Kai un’occhiata non troppo convinta. – Come usciamo da qui? C’è un modo, vero? Certo, ovvio che c’è ... c’è sempre una via d’uscita –

Kai non rispose. Era troppo occupato a cercare di capire cosa era successo prima, a cosa aveva assistito. Era troppo preso dai suoi tentativi di arrovellarsi sul comportamento di quella strana creatura, che aveva palesemente cercato di aiutarli, attaccando i tirapiedi di Vorkov.

Che ci abbia riconosciuti?

- Lo so che non è il momento giusto – Takao non aveva smesso un secondo di parlare. – Ma mi dispiace di essere stato così imbranato, di avere fatto l’idiota. Lo so che è un momento serio, è che io sono fatto così. Non me ne pento, no. E non mi pento di aver fatto tutto quello che ho fatto. Non troppo. Forse potevo mangiare meno dolci, e allenarmi di più con il nonno ... passare più tempo con Hitoshi ... forse potevo iscrivermi all’università, e invitare Hilary a prendere un gelato insieme, e ... –

- Takao –

- Eh?-

Il capitano dei Blade Breakers alzò gli occhi lucidi sull’amico, tirando su col naso. Kai sospirò.

-  Forse potresti tirare fuori il tuo ottimismo, per una volta che serve – Concluse con un mezzo sorriso, giusto per smorzare l’angoscia che stava aleggiando nel buco di stanza dove li avevano chiusi.

- Ok – Takao si schiarì la voce; chiuse gli occhi, cercando di riorganizzare il caos nella sua testa – Ok. Ok –

- La nostra priorità è levarci queste cazzo di catene di dosso, e vedere di uscire da qui –

- Sì –

- Poi andremo subito, subito, a cercare un fottuto telefono –

- Aha –

- Perché ci serve che qualcuno di quegli altri stronzi ci venga a tirare fuori da qualunque buco di posto siamo capitati –

- Mh –

- Takao – Kai si girò di scatto verso l’ex capitano, che ancora non aveva riaperto gli occhi – Ti dispiace smetterla di rispondere a monosillabi? È snervante –

- Sto cercando – il giapponese prese fiato, inspirando la polvere della stanza a pieni polmoni – Di trovare la mia calma interiore –

Si accomodò meglio sulle ginocchia, drizzando la schiena per quanto la scomoda catena attaccata al muro glielo permettesse. Kai alzò un sopracciglio.

- Nonno J diceva – Prese un lungo respiro, aggrottando le sopracciglia – la paura è amica del guerriero solo se le stringi la mano a sangue freddo- Ripeté come una filastrocca, modulando la voce come se stesse recitando una poesia davanti a un gruppo di bambini.

Kai non ci provò nemmeno a ribattere.

- ... d’accordo – Sospirò – Quindi ora sei pronto per darmi una mano, o rimaniamo qui ancora un po’ ad aspettare che ci crolli il tetto sulla testa?-

- Aspettare-

Un neurone esplose nella testa di Kai. La vena sul collo si ingrossò impercettibilmente.

- Dobbiamo aspettare – Ripetè Takao, ancora ad occhi chiusi.

- Takao –

- Arriverà qualcosa –

- Un pugno sui tuoi denti –

- Lo sento, c’è qualcosa che ... –

- è il mio odio, Takao. Il mio odio verso di te sta diventando tangibile –

- ... dev’essere il vento –

Il polso strattonò la catena, e per poco Kai non la staccò dal muro di netto. Gli anelli di metallo cigolarono, e l’impropero era pronto sulla punta della lingua per essere lanciato verso l’amico ad impressionante velocità.

Ma non ebbe il tempo di parlare.

La porta di metallo, che a occhio e croce sembrava molto, molto pesante, ebbe un sussulto. Poi, letteralmente, volò verso la parete opposta, sorvolando le teste di Kai e Takao con una scia di fumo e schegge. L’eco rimbalzò per la stanza, coprendo il tonfo sordo della superficie metallica che andava a schiantarsi contro il muro.

Ora Takao era ad occhi sbarrati, e il vento lo stava investendo per davvero. Di fianco a loro, dove prima c’era la porta, da un buco enorme entrava un vento gelido e tagliente.

Kai rimase 10 secondi senza respirare.

- Che. Cazzo –

- Giuro che non è colpa mia, mi sembrava solo di aver sentito un fischio, un soffio d’aria, non pensavo ... non avrei mai ... –

- Takao, mi dispiace deluderti ma non credo che tu possa sfondare le porte con la forza del pensiero –

Un grido squarciò l’aria; un verso roco e potente perforò i timpani dei due ragazzi. Takao si piegò in avanti, percorso da un brivido.

- Ma che cavolo succede?!-

Via

La parola attraversò la testa dei due allo stesso tempo, trapassandoli. Due paia di occhi scattarono in avanti. Kai sussultò nel sentire il polso incatenato bruciare leggermente, e si stupì non poco quando, strattonandolo, la catena si dissolse come sabbia.

Si tastò il polso pensando di trovarlo bruciato, ma non sentì nulla.

- Kai ... –

Le ametiste continuarono a vagare su ciò che restava della catena appesa al muro: una vaga macchia nera, nulla di più. Non si era nemmeno alzato da terra, non aveva capito cosa stava succedendo e solo il vento freddo che entrava dal buco dove c’era la porta non gli permise di estraniarsi completamente dalla situazione.

- Kai – Takao insistè, afferrando l’amico per una spalla.

- Cosa?-

- C’è ... c’è qualcosa che ci sta guardando –

- Takao ma che cazzo ... – Kai si alzò, girandosi di scatto - ... Dici –

Non lo notò subito. Sembrava un’ombra, piuttosto che qualcosa; la pelle era azzurrognola, le braccia allungate, gli occhi piccoli e sottili.

Takao era ancora inginocchiato a terra, e sembrava che le gambe non ne volessero sapere di muoversi.

Andate. Via

 

 

- Non so che spiegazione darò ai miei per tutto questo casino!-

- Ma che ti frega!-

- Rischio il depennamento dall’albero genealogico!-

- E allora scrivine uno tutto tuo, no?-

Yuriy aveva chiamato Ivan, che aveva ammiccato a Sergej, che aveva capito l’andazzo. In due parole precise e concise si era spiegato con Rei, Andrew, Gianni. Garland e Ming mIng. Cinque minuti dopo, Andrew aveva convinto, in qualche modo, il suo maggiordomo a portare sopra l’appartamento di Croydon l’elicottero privato di famiglia.

Yuriy e Boris erano tornati in quell’esatto momento e, sbattendosene i coglioni delle ferite, delle spiegazioni e di tutto il resto, si erano buttati dentro l’elicottero.

- Sa mettere in moto questo affare?!-

Le urla di Ivan sovrastavano il rumore delle eliche, mentre gli occhi vagavano scettici sul maggiordomo alla guida in giacca e farfallino.

- Ovviamente – Urlò Andrew di rimando. Poi si rivolse a Gianni, indicandogli Garland e Ming Ming – Noi ci fermeremo a Londra, ma voi continuerete il viaggio fino al castello! -

Gianni strabuzzò gli occhi.

- Ma ... come?! E tu ci vai da solo? Con quelli??- Concluse scioccato, indicando Sergej che stava inserendo con nonchalance i proiettili in una pistola, la maglia di Boris che ormai era zuppa di sangue, e gli sguardi poco rassicuranti di Yuriy e Ivan.

- Hai altre alternative?-

Visto che non c’erano abbastanza urli, e il rumore di un elicottero in volo non era già abbastanza assordante, anche la voce di Garland si unì alla discussione.

- Vengo anche io, voglio vedere quello stronzo di Vorkov in faccia mentre gli facciamo esplodere il laboratorio da sotto i piedi!-

Gli occhi di Yuriy saettarono sul caos che si stava consumando nei sedili dietro di lui.

- Perché non facciamo che ve ne andate tutti a casa?-

Rei, che non aveva ancora aperto bocca, annuì vigorosamente.

- Ecco, vedete? – Yuriy indicò il cinese con un cenno del capo – La voce della ragione ha parlato, quindi non rompete i coglioni e fateci fare il nostro lavoro –

Andrew tentò di protestare - Ma non sapete neppure cosa ci sia laggiù!-

 - No, è per questo che stiamo andando a vedere –

- Ma è una follia! –

Il cellulare vibrò nella tasca della giacca dell’inglese, che rispose senza neppure vedere chi era.

- Pronto – Fece lapidario, sperando che dall’altra parte dell’apparecchio non ci fosse sua madre.

La voce scossa di Olivier gli fece tirare un mezzo sospiro di sollievo.

­- Mon amie, qua è ... è un ... non so cosa dire!-

- Vier che succede? Sono entrati di nuovo dei ladri in casa? Sai dove mio padre tiene la collezione di sciabole, vero?-

- Ma non! A Londra! Non avete visto l’esplosione? C’è fumo ovunque!-

- A ... a Lon ... – Andrew scosse il capo, portando una mano al volto – Vier, ma dove caz...volo sei?-

- Drew, stanno esplodendo cose! Non potevamo starcene in casa, il piano antincendio che hai attaccato alla parete prevede che ... –

- Ma non c’è un incendio al momento!-

Gianni emanò un sospiro, intuendo dagli urli dell’amico che Olivier aveva fatto la cagata di uscire di casa.

- Ma potrebbe esserci!-

- Io ... guarda, lascia stare. Hilary è con te?-

­- Ovviamente! –

- Allora NON vi muovete. In qualche modo arriviamo, non fate un passo!-

 

҉҉҉

Il vento li aveva investiti come una pioggia di aghi.

Kai non ricordava che fosse così freddo quando erano arrivati. O forse era quella creatura che gli aveva messo i brividi.

Andate via

O forse era perché, tra i vari spostamenti di cella, i cappotti erano dispersi chissà dove. Si strinse nella maglia, notando con disappunto che alcuni dei fili di lana erano tirati dal verso sbagliato. Vorkov gli avrebbe ripagato anche quella.

- Lei era due piani sopra di noi –

- lei chi?-

Takao deglutì.

- Beh, Rosemary. Cioè, la ... quella creatura –

- Quindi ce la siamo sognata?- Un mezzo sorriso si allargò sulle labbra di Kai – Sono diventato davvero così tanto rincoglionito?-

Takao allungò la mano verso di lui, consolandolo con un’amorevole pacca sulla spalla.

- Siamo in due amico. Siamo in due –

- Oh, allora non c’è problema –

Il commento sarcastico venne coperto dall’ennesima scossa. I due accelerarono il passo, percorrendo a ritroso una strada che speravano di ricordare che conducesse all’uscita. O a qualcosa di molto simile. Non incontrarono nessuno nel loro cammino, il che non era un indizio molto confortante. Gli occhi di Kai vagarono dentro ogni porta spalancata, alla ricerca di qualcuno che potesse dirgli che cavolo stava succedendo.

- Se ne sono andati tutti ... –

- Kai –

Takao puntò il dito verso un ennesimo buco nella parete; dietro di esso si notava perfettamente una stanza piena di vasche verticali in frantumi.

- è uscita da qui?-

- Immagino di sì-

Quella non era l’unica parete sfondata: come tanti cerchi concentrici, gli squarci si susseguivano per tutta la lunghezza del piano, fino a sfondare il muro più esterno. Gli occhi di Takao brillarono come le lucine natalizie alla lontana visuale dello skyline londinese.

- Ci siamo! Ci basterà uscire da lì!-

- E buttarci di sotto? Beh, che dire, sei un genio –

- Aaah, non fare lo spezzone! Eravamo sotto terra, saremo al massimo, che ne so, al secondo piano-

- E tu sai volare per due piani d’altezza? Perché io no-

- Dopo gli allenamenti estremi con quelle specie di bodybuilder, non verrai a dirmi che hai paura dell’altezza-

Kai strabuzzò gli occhi, trattenendo una risata.

- I bodybuilder sarebbero i russi?-

- Attento!-

All’improvviso venne investito da due cose: da una parte il peso di Takao lo trascinò verso il pavimento; dall’altra, una zaffata d'aria assolutamente bollente sfiorò le punte dei suoi capelli. Kai, caduto di faccia a terra con il giapponese spiaggiato sopra di lui, cercò di issarsi sui gomiti come potè. Gli occhi scattarono verso l’alto, e quando notò il baluginare di una seconda fiammata non ci pensò un secondo a spingere via Takao.

Rotolarono entrambi sul pavimento, evitando per un soffio le fiamme.

- Ma che agilità, complimenti! Si vede che siete abituati a strisciare-

Non avevano mai incontrato l’uomo che ora cercava di friggerli, ma si ricordavano i racconti di Boris: un tizio con un braccio cannone che spara fiamme. Direi che la somiglianza c’era.

Lui sputò a terra, puntandogli di nuovo contro quell’arma che si innestava su di lui in maniera così innaturale.

Takao si alzò di scatto, incurante delle ginocchia che ancora cigolavano e del vento gelido che gli stava segnando il collo. Gli occhi saettarono tra Kai e il buco nella parete. Non ci fu nemmeno bisogno di chiedere: Un secondo dopo, l’asfalto accolse inclemente l’atterraggio dei due, mentre dietro di loro divampava altro fuoco.

Presero a correre, senza preoccuparsi troppo di guardarsi indietro. Kai sentiva il fiato corto di Takao a fianco a lui, e tanto gli bastava. Non fece caso al fatto che erano in pieno centro città, e che intorno all’esplosione si stava creando un caos di persone che scappavano, curiosi usciti per strada e polizia che cercava di mettere la zona in sicurezza.

Sentì dietro di sé un'altra ondata di calore, e qualcuno si mise a gridare.

- Come ... – Takao gli arrancò affianco, ringraziando il cielo che il nonno aveva sempre insistito tanto per fare del cardio dopo gli allenamenti – Come cavolo lo seminiamo?-

- Non lo so! Ora corri, poi ci ... –

Un urlo più forte, e la folla attorno a loro prese a correre con più foga. Kai lanciò un’occhiata dietro di sé; poi cominciò a rallentare.

La creatura, aveva afferrato l’uomo armato di braccio cannone per il collo. Era ... strana. Sembrava più grande di prima, e le ali non erano più piccole e sparute, ma parevano crescere progressivamente.

Emise un grido, che di umano aveva ben poco. Kai rabbrividì, incapace di continuare a correre.

 

- L’hai sentito?-

- Cosa? –

L’eco di un grido rimbalzò nel vento, sormontando persino il suono delle eliche dell’elicottero. Boris tese le orecchie, ignorando le fitte al fianco. Affondò la mano nella tasca della giacca, stringendo Falborg; era sicuro di aver sentito il suo verso.

- Ok, ascoltatemi bene – Yuriy si posizionò davanti al gruppo, gesticolando per attirare la loro attenzione –Voi state qui, e non. Fate. Niente –

Gianni inclinò la testa di lato.

- Ma non è più sicuro se ci muoviamo insieme?-

- Ma non che è che puoi stare zitto, per cinque minuti?-

La velata minaccia di Yuriy non fu abbastanza potente da zittire l’italiano.

- Cioè, guarda! Sta letteralmente crollando tutto!-

- Perché non cerchiamo Olivier e Hilary e ce ne torniamo a casa?!- Ming Ming si strinse a Garland, dopo aver terminato anche la sua ultima goccia di coraggio. Ne aveva fin sopra i capelli di emozioni, poteva permettersi di essere debole almeno per un po’.

 Poi, con la coda dell’occhio, notò in lontananza due figure incedere verso di loro. Sembrava stessero sventolando le mani in aria per consigliargli di girare i tacchi e fuggire, piuttosto che per farsi notare. Gianni drizzò il capo.

- Ma sono Vier e Hila!- Esclamò, dimenticandosi completamente di essere in una situazione di vita o di morte. Poi prese a salutarli. Andrew gli abbassò il braccio con uno strattone.

- Ma sei un idiota? Ti pare il momento?-

- Che c’è? Stiamo tutti bene ... beh, quasi tutti – Ammiccò al fianco di Boris – Non sei felice?-

Un altro urlo squarciò l’aria. Ming Ming strizzò così forte il braccio di Garland che lui si morse la lingua per non gridare. Rei, che si sentiva ancora preso e buttato in mezzo a un film dell’orrore, riacquisì un minimo di lucidità. Con la coda dell’occhio notò una specie di luccichio baluginare tra il fumo della città in preda al panico e alle scosse di terremoto. Un luccichio che si stava avvicinando ad una velocità impressionante.

Prese a sbracciarsi verso Hilary e Olivier, gridando a squarciagola A terra!, sperando che potessero sentirlo.

Li vide riscuotersi, guardare in alto, e impanicarsi. Poi si infilarono nella prima casa a tiro. Un attimo dopo il missile, sbucato da chissà dove, esplose in aria sopra di loro.

Gianni spalancò la bocca, mentre gli occhi si facevano grandi di paura. Il boato superò i loro pensieri; la luce li investì con prepotenza, bruciando le immagini davanti a loro.

- Olivier!-

L’urlo uscì spontaneo dalla sua bocca. Le gambe si mossero da sole, e nonostante Sergej, con tutta la sua stazza, cercasse di trattenerlo, Gianni si divincolò. Corse a rotta di collo verso la casa che, sperava, avesse fatto da rifugio a Olivier e Hilary, senza pensare troppo a quanto stupido fosse quel gesto. Non che avesse mai pensato seriamente alle conseguenze delle sue azioni.

Sergej lo guardò allontanarsi, strizzando gli occhi per resistere alla luce. Ivan, davanti a lui, era a un passo da tornare dentro l’elicottero, se non fosse che era più sicuro starsene con i piedi per terra. Andrew aveva finito le maledizioni; per fortuna i boati delle esplosioni avevano coperto la sua voce soave.

- Quell’idiota!- Gridò, graffiandosi la gola nella speranza che l’insulto arrivasse a chi di dovere – Ma che cazzo ha in testa?!-

Fece per correre verso di lui, ma Rei lo fermò in tempo.

- Non siamo venuti qui per fare i martiri, Andrew!- Indicò con gli occhi la casa in lontananza sputacchiando le ciocche di capelli che il vento gli faceva volare in faccia –Sono al sicuro! Noi dobbiamo allontanarci!-

- E dove? Tanto vale nasconderci con loro!-

In tutta risposta, fregandosene altamente delle questioni di vita o di morte, Boris si fece largo tra il gruppetto di gente, più che deciso ad avanzare verso il luogo dell’esplosione. Yuriy lo afferrò per un braccio, sbattendolo con poca grazia sul fianco dell’elicottero.

- Dove cazzo credi di andare da solo?-

- La devo trovare!- Sbraitò, le sopracciglia inarcate che spingevano sugli occhi, perforando Yuriy con tutta la sicurezza che avesse in corpo – Lei è laggiù!-

Ivan si mise in mezzo.

- La vuoi piantare? Brutta testa di cazzo, non lo hai capito che è morta?-

- Qualunque cosa sia diventata, sta combattendo anche per noi!-

Ivan si sbracciò, indicando la città alle loro spalle andare letteralmente a fuoco – E la tua soluzione è butarci nel casino?-

- Lei lo avrebbe fatto!-

- Lei ci avrebbe voluti vivi!-

- Boris –

Con una freddezza e una calma invidiabile, il richiamo di Yuriy superò qualunque boato, qualunque voce. L’amico si sentì come preso alla sprovvista, con le mani nella marmellata, davanti allo sguardo del suo capitano. Rei e Andrew fermarono il battibecco su quale casa sarebbe stato meglio usare come riparo; Ming Ming allentò la presa sul braccio di Garland.

Sergej e Ivan erano in attesa di ordini. Poco importava in quale assurda situazione si fossero trovati; si sarebbero sempre fidati del loro capitano.

Yuriy fissò Boris negli occhi, trapassandolo con i suoi limpidi fiocchi di neve.

- Va bene – Soffiò infine, lasciando la presa sul braccio dell’amico – Andiamo –

 

 

La città era un caos. Non erano esplosi altri missili, ringraziando il cielo, ma pareva di stare dentro una pellicola post apocalittica. Il centro era deserto; avevano fatto evacuare in fretta gli abitanti, e si sentiva rimbombare l’eco delle sirene dei pompieri. Una luce innaturale regnava tra le case semi distrutte: l’atmosfera era giallognola, ovattata, come in un dipinto di Turner. La polvere si mescolava al vento innaturale, pizzicando la pelle.

Al centro, sullo sfondo nebbioso del laboratorio distrutto, la luce si faceva più azzurra.

Lei si ergeva sopra il nemico, schiacciando con la mano il suo braccio cannone sull’asfalto. La presa era talmente pesante che la strada sotto di loro si era curvata, solcata da un reticolo di crepe sottili.

Takao e Kai erano poco distanti, immobili. Avevano perso ogni facoltà di locomozione. Erano stati testimoni di tante battaglie, di epici scontri tra mistiche creature ... ma a quello non erano pronti.

- Takao –

- Mh –

Kai deglutì. Per qualche motivo, forse per salvare almeno un briciolo di lucidità, la sua testa deviò verso un argomento totalmente estraneo a quello che stava accadendo.

- Quando torneremo a casa, porta Hilary a prendere quel cavolo di gelato –

Il capitano dei BladeBreakers non emise un fiato. Imbambolato, ci mise due minuti a registrare l’informazione ed elaborarla. Inclinò la testa, aggrottando le sopracciglia.

- Ma voi non siete innamorati?-

La creatura si mosse di nuovo, cominciando a prendere a pugni l’avversario che, sotto di lei, era ormai completamente inerte. I colpi risuonarono nel vento, scaricando onde d’urto che fecero drizzare i capelli dei due ragazzi.

- No, sai ... forse mi sono solo lasciato trascinare dal momento – Concluse Kai, completamente estraneo alla situazione.

- Le si spezzerà il cuore –

Alzò le spalle – Non è scema. Lo sa, se n’è accorta. E ci sono stuoli di amiche pronte a consolarla –

- Aha –

- Takao –

- Dimmi tutto –

- Non credo che torneremo a casa, se rimaniamo qui fermi. Poi come la porti Hilary a prendere il gelato?-

L’amico parve riprendersi all’improvviso. Il suo cervello emise una scintilla, mentre un granello di sabbia si insinuava in bocca. Prese a sputacchiare, barcollando all’indietro.

- Sì, giusto – Concluse, ripulendosi la bocca.

- Kai!-

L’eco di una voce li raggiunse, facendoli trasalire. Kai si tranquillizzò solo quando riconobbe la stazza di Sergej venirgli incontro, sfondando il muro di cenere galleggiante che ingialliva la visuale. Non fu mai così tanto tentato di correre ad abbracciare qualcuno.

Ma contenne l’entusiasmo.

Dietro Ser comparve il resto della combriccola, più o meno integro da quel che sembrava. Solo Boris camminava vagamente storto, e bastò lanciare un’occhiata alla chiazza rossa sulla sua maglia per intuire il perché. Yuriy si fece largo tra gli altri, tossicchiando cenere. Aprì la bocca per parlare; poi si accorse della scena a poche decine di metri da loro, e la richiuse.

- Ce ne dobbiamo andare – Disse solo, realizzando il pensiero di tutti.

L’ennesimo pugno tirato all’asfalto fece vibrare l’aria. Brividi li percorsero dai piedi fino alla punta dei capelli.                             Nessuno riusciva a distinguere la sagoma del nemico con il braccio cannone, steso sotto la creatura; ma erano tutti abbastanza sicuri che di lui fosse rimasto ben poco. E che il rosso che macchiava l’asfalto ridotto in pezzi fosse tutto ciò che quell’uomo aveva lasciato di organico.

Nella mente di Takao balenò quell’esclamazione, molto azzeccata, che Olivier ripeteva in continuazione.

- Mon dieu – Sussurrò, stupendosi da solo di aver imparato una parola di francese. Il pensiero creò una catena, che lo portò a contare rapidamente gli amici che erano appena arrivati.

Non c'erano tutti.

- Che fine hanno fatto Vier e Hila?- Fece allarmato. Poi si calmò subito – Ah, già. Saranno alla villa. Giusto?-

Incrociò gli occhi con Rei, l’essere più rassicurante che avesse davanti in quel momento. Quando vide il terrore attraversargli le iridi, la sua ultima scintilla di calma si sbriciolò.

- ... Giusto Rei?-

A sentir pronunciare il nome di Hilary, Kai uscì da una specie di trance.

- Dove? – Agguantò Yuriy per le spalle – Dove sono?-

Garland puntò il dito verso la nebbia più fitta dalla quale eran venuti.

- Olivier, Hilary e Gianni si sono riparati in una casa laggiù. Sono al sicuro –

Bastò il tempo di finire la frase: dalla stessa direzione provenne un boato; una folata di vento si gettò su di loro, investendoli in pieno.

Takao sbiancò.

Garland sospirò.

- Beh, almeno lo erano –

Kai aprì la bocca con la seria intenzione di mandare a fanculo qualcuno. Che idea del cazzo era stata quella di lasciare Hilary e Olivier da soli? Hil e Vier! Non Rambo e Chuck Norris! E perché cavolo, in nome del cielo, era andato Gianni a salvarli, che praticamente era la trasposizione maschile e giovane di Miss Marple?

Ma in quel momento calò il caos. Un grido squarciò l’aria dietro di loro, procurando più di un infarto. Yuriy alzò di scatto gli occhi: la creatura si era alzata da terra, ergendosi su di loro con un’imponenza che lui non ricordava. La vide contorcersi su se stessa, mentre le ali si spiegavano e cominciavano a battere all'impazzata, come se stesse tentando invano di prendere il volo.

Una tempesta li accolse tra le sue braccia.

Ming Ming si aggrappò a Garland con tutto il suo peso, urlando cose che nessuno riuscì a sentire in quel caos di elementi. Persino l’atmosfera gialla, satura di polvere, venne spazzata via, rivelando un cielo livido di nuvole gonfie. Gli occhi di tutti si fecero grandi, non sapevano se più di stupore o di paura. L’essere davanti a loro sembrava incedere incontrollato verso quella direzione.

Fu Boris a riprendere in mano la situazione. Afferrò Yuriy per una spalla, riportandolo alla realtà.

- Tornate indietro!- Gridò, cercando di superare la furia del vento – Andate da Gianni! –

- E tu? Cosa cazzo pensi di fare? – Urlò Yuriy di rimando, al limite dell’esasperazione.

Un’ennesima folata di vento li fece tremare. Portaron le braccia davanti al volto, facendosi scudo di una forza incontrollabile.

- L’hanno creata con Falborg! Voglio parlarle, deve esserci un modo!-

- Sei impazzito? Guardala Boris! Non c’è rimasto nulla di lei!-

- Ti prego –

La richiesta arrivò appena sussurrata; ma Yuriy la sentì benissimo. Rei, che ancora rappresentava la voce della ragione anche nei momenti disperati, si fece subito avanti; aprì la bocca per parlare, pronto a palesare la pericolosità della situazione, ma un’occhiata di Boris lo zittì all’istante.

Il cinese sospirò.

- è una follia – Soffiò con un mezzo sorriso, consapevole che non sarebbe bastato quello a feramarlo.

- Non mi interessa. E se mi cadrà una casa addosso, tanto peggio –

- Qui sta andando tutto a fuoco –

Boris si scostò da Yuriy, bilanciando il peso sul fianco sano. Una folata di vento caldo lo trapassò, portando la cenere in mezzo ai suoi capelli, investendolo con quell’odore di battaglia e distruzione che in qualche modo gli era familiare.

Non gli interessava più del mondo; non c’era più un tutto attorno a lui, non c’erano altri. C’era solo quel corpo tra la nebbia e il fumo, in cui lui non riusciva a non vedere quella ragazzina con gli occhi piccoli e severi, e i capelli color cenere.

Per quel che gli importava, l’universo poteva andare a fuoco.

- Allora lascerò la città bruciare –



҉҉҉

 

Che dire? Rieccoci qui

Mi inchino a chi ancora segue questo mio piccolo parto;

ammetto che sono stata fin troppo indulgente con la pubblicazione

Ma l’anno sta per finire, e con lui questa storia; e dire che un anno fa avevo appena cominciato

Come vola il tempo

Va così piano da restare immobile. E noi, non vedendolo passare, lo accusiamo di essere troppo veloce

Voglio dare un abbraccio a tutti voi che avete sostenuto questa mia piccola impresa

A debita distanza, perché c’è il covid

Vi auguro buone feste

E vi aspetto la prossima settimana, se vorrete, per concludere il tutto insieme.

 

Buon Natale allo zenzero

Chocolate







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Capitolo 31
*** Il nostro amore avrebbe bruciato una città ***


Capitolo 29: Il nostro amore avrebbe bruciato una città

 

Che cos’è l’amore?

Avere bisogno di una persona? Non riuscire a vivere senza di essa?

Volerle bene a tal punto da desiderare la sua felicità sopra la propria?

È qualcosa di caldo e rassicurante. Qualcosa che ti fa sorridere quando non ci pensi, accoccolandoti tra le braccia di qualcosa di invisibile.

Ma l’amore è anche una tempesta. Ti spazza via, strappandoti il cuore, pungendoti l’anima come una pioggia di schegge. Non riesci a pensare, a parlare, sei in balia di una forza incontrollabile che ti infuria dentro.

Ci vuole un grande cuore, per essere amici del vento.

 

Sapeva cosa le stava succedendo. Era tutto scritto sul quadernino blu, quello con le immagini raccapriccianti e la calligrafia riccioluta; quello del padre di Rose.

Era scritto chiaro e tondo, schietto, tra le altre pagine, come se fosse una constatazione qualsiasi.

Qualora lo spirito del bit power non entrasse perfettamente in sintonia con il corpo ospitante, l’esperimento avrà una rapida degenerazione, portando alla morte del soggetto.

Rosemary Primerose non era mai stata una ragazza forte.

Rosemary Primerose piangeva durante i temporali.

Aveva sempre fame.

Leggeva le fiabe di nascosto, e parlava sempre sottovoce.

Rosemary Primerose non era un soldato, non una blader, né una guerriera. Era ... Rosemary.

- Ti amo –

Lo disse di slancio, fermo in piedi, spostando il peso sul fianco ancora sano. Sentiva la ferita pulsare e il sangue scorrere, impregnando ancora di più la stoffa.

- Scusami, se non te l’ho mai detto –

La  creatura aveva lentamente smesso di agitarsi. Si stava accasciando a terra piano, appassendo come un fiore d’inverno. Il vento si stava calmando, le ali non vibravano più. Lei cominciò a rimpicciolirsi: l’enorme corpo azzurro dalle membra lunghe si contrasse, raggomitolandosi al suolo in piccoli spasmi.

Boris le si avvicinò zoppicando. Non aveva tirato il fiato per un solo istante da troppo tempo, e poteva sentire il corpo gridare di fermarsi.

Sarebbe bastato reggere ancora qualche istante.

Le si sedette accanto, soffiando uno sbuffo di fatica e dolore. Il fianco non la smetteva di tormentarlo. Lei era lì accanto, riversa su se stessa; la pelle pulsava, facendole vibrare il colorito che diventava sempre più pallido. Sempre più ... umano. Si accasciò al suolo accanto a lei, passando le braccia attorno al corpo tremante, stringendola in un abbraccio così forte che sentì le ossa di lei scricchiolare.

Non ebbe più nulla da dire. Aveva finito le parole tanti giorni prima, quando, dietro le sbarre di un dei laboratori dove l’aveva vista umana per l’ultima volta, lei gli aveva sussurrato il suo amore. E lui non era riuscito a rispondere.

 

҉҉҉

 

- Ma. Che. Cazzo –

Li aveva lasciati soli un paio d’ore. Non un giorno, due mesi, vent’anni o un’eternità. Quando era partito stavano facendo una torta, che diamine!

Lasciò che la borsa della spesa gli scivolasse dalle mani, cozzando contro il parquet. Hilary stava toccando il pizzo rosa del reggiseno a balconcino che Ming Ming sfoggiava con orgoglio, mentre abbassava con le mani lo scollo della maglia. Poco distante sul pavimento faceva capolino un ciuffo di capelli di Max, cappottato a terra in un lago di quel che sperava fosse ganache al cioccolato. Ivan e Kenny si sorreggevano a vicenda, sghignazzando come due idioti, mentre il primo teneva in mano una chiavetta dai dubbi contenuti.

La palpebra destra  di Kai vibrò; più volte.

In quell’istante dalla cucina emerse Sergej, fuori come un balcone ma con in corpo ancora un vago sentore di dignità. Si aggrappò alla parete, alzando un dito verso il padrone di casa.

- Posso spiegare – Biascicò, strascicando le parole ad occhi chiusi nello sforzo di infilare tutte le sillabe.

Quello fu il momento in cui Kai perse ogni briciolo di fiducia nell’umanità.

- Vi ho – Cominciò a scandire – Lasciati soli per andare a fare la spesa. La. Spesa – Sottolineò, la vena che gli pulsava pericolosamente sul collo.

- Siete un  branco di adulti! Che cazzo è successo qui?-

Si sarebbe volentieri messo le mani nei capelli.

Sergej sogghignò, cercando di aggrapparsi all’ultima scintilla di sobrietà.

- Stavamo fac ... Vol ... volevamo fare una torta ... serviva lo sciroppo, sai no ... per bagnare il pan di spagna-

Se avesse avuto un minimo di forza di volontà in meno, Sergej ora si sarebbe ritrovato per terra.

- Poi Max ... poi ... lui ha ... –

- Cosa?- Lo incalzò Kai, lanciando un’occhiata di sfuggita all’amico americano che si fingeva un realistico tappeto.

- Ha trovato la vodka tra gli alcolici ... ci è sembrataunabuonaidea ... – A quel punto la lingua cominciò ad attorcigliarsi.

Kai mollò tutto a terra, cappotto, chiavi e l’ultima busta della spesa rimasta aggrappata ai suoi polpastrelli. Chiuse gli occhi. Fece a mente il conto di chi, più probabilmente, era rimasto sobrio in quella casa, fermo restando che se Sergej era ridotto così, voleva dire che le riserve di alcool del nonno erano state bellamente bevute.

E lui non avrebbe raccolto col cucchiaino quei disgraziati.

In preda alla disperazione, si risolse a invocare l’unico aiuto possibile. Aprì la bocca, incamerò aria, e urlò a pieni polmoni, sicuro che il richiamo sarebbe arrivato a chi di dovere.

- YURIY –

 

Daichi non sembrava turbato. Faceva la spola con gli occhi tra Takao e lo schermo del pc. Sul desktop svettava la pagina di iscrizione al torneo.

Il piccoletto incrociò le braccia, arrovellandosi su cosa avesse fatto infuriare così tanto il suo capitano.

- Ho fatto tutto, no? Non volevi iscriverti? –

Takao alzò gli occhi al cielo. C’era una, una cosa nella vita sulla quale non era disposto a scendere a compromessi, ed era la sua carriera da blader. Non sarebbe certo stato quell’inconveniente a rovinargli i piani, certo; ma con che faccia avrebbe presentato la squadra alle qualifiche?

- Daichi, io ... – Chiuse gli occhi, cercando di contare fino a dieci e mantenere la calma come gli aveva insegnato Kai – Dovevi inserire il nome della nostra squadra. Quello! Nient’altro!-

L’amico lo guardò come se si fosse rincoglionito.

- Ma l’ho fatto!-

- Nessuno ti ha detto che potevi cambiarlo!- Sbottò Takao, mandando al diavolo i dieci secondi di calma – Noi siamo i BladeBreakers!-

- è un nome noioso! Fire Senpai è molto più accattivante –

- Ma non è quello il punto!-

- Sveglia Takao, non avremo più un seguito di fan se non rinnoviamo la nostra immagine! Siamo troppo pettinati, troppo fighetti. Ecco, idea! Che ne dici di scendere sempre in campo con i pantaloni strappati?-

Ma Takao non diceva più nulla; davanti all’estrema semplicità dell’amico gli cedettero braccia, forza di volontà e neuroni. Guardò un’ultima volta la schermata di iscrizione al torneo, dove Daichi, nel tentativo di cambiare nome alla squadra, aveva scritto un convintissimo Fire Senapi, sbagliando l’incrocio di paio di lettere.

Si stava già immaginando Dj Man gridare a squarciagola il loro nome, in un’arena gremita di gente.

- Risolto il problema?-

Rei si avvicinò di soppiatto, facendolo trasalire. Daichi, di sottofondo, stava proseguendo il suo sproloquio.

- Credevo fossi con Mao –

- Sì, credevo anche io di poter stare con lei. Ma è sparita in cucina, e prima l’ho vista aggrappata con Hilary al reggiseno di Ming Ming – Si sedette accanto a Takao, mimetizzando l’imbarazzo.

L'amico emise una risatina.

- Sicuramente sta bene. Vi iscriverete al torneo?-

- Che domande fai? Certo che sì –

Takao gli assestò una pacca sulla spalla – Grande! E degli altri che mi dici?-

- So che i Majestic ci stanno pensando. Gianni e Olivier hanno passato parecchie emozioni, sai. Un po’ di riposo non gli farebbe male. Gli americani sono già iscritti, La B.E.G.A. è in forse ... –

- La Neo Borg? Kai ha detto nulla?-

- Non a me, e adesso ha un po’ da fare – Sorrise, ripensando un po’ imbarazzato alla scena apocalittica che si stava consumando nella cucina.

- E ... mh, beh - Takao attorcigliò le dita fra di loro. Non voleva passare per pettegolo, ma solo qualche mese prima erano tutti sul filo del rasoio, incastrati in una storia assurda, e lui era finito per farsi rapire con Kai e assistere a qualcosa di assolutamente soprannaturale. Sono cose che non si dimenticano tanto facilmente.

- ... Boris? – Chiese infine, con una punta di curiosità.

Non che Rei ne sapesse molto. Ma il giorno prima lo aveva visto fare una lunga chiacchierata con Sergej, che era sicuro fosse completamente sobrio.

- Ah, credo stia ... bene. Certo, non sarà facile lasciarla andare, dopo tutto quello che è successo. Ma sta bene –

- Quando arriverà?-

- Stasera. So che la accompagna in aeroporto, poi viene qui con Andrew e Olivier –

 

 

 

C’era qualcosa di diverso quella mattina.

Qualcosa di inconsueto. Di dolce.

Annusò l’aria, rapito dall’improvvisa ventata di zucchero che lo travolse appena aprì la porta della sua stanza.

Che ci faceva lì un odore così buono?

Scese le scale piano; voleva cogliere di sorpresa l’artefice di quel dolce risveglio. Per i corridoi riecheggiava un vago clangore di oggetti metallici; il profumo di zenzero, noce moscata, cannella e chiodi di garofano aveva impregnato ogni singolo mattone. Silenzioso, si avvicinò alla porta socchiusa della stanza accusata di produrre un così buon profumo. Dallo spiraglio si intravedeva perfettamente una figura girata di spalle armeggiare con una forchetta.

Prese l’iniziativa.

L’uscio si aprì piano, senza emettere un cigolio. Di soppiatto lui raggiunse la ragazza, la sovrastò con la sua altezza, le portò le mani ai fianchi e ...

- Cazz- –

Le fece il solletico.

Presa alla sprovvista, mancò poco che lei lanciasse la ciotola piena di albumi d’uovo in testa a Boris. Si rigirò spazientita tra le braccia che ancora la cingevano, trovandosi faccia a faccia con un sorriso a trentadue denti.

- Ma che cavolo fai!-

- Scusa – il ragazzo alzò le mani in segno di resa – Non ho resistito-

Un ciuffo di capelli color cenere sfuggì allo chignon lento, posandosi dispettoso sulla sua fronte. Boris lo raccolse tra le dita, posando un bacio sullo stesso punto.

 

҉҉҉

 

Non sapeva quanto tempo era passato. Era rimasto lì con lei, ad abbracciarla, sentendo il suo corpo farsi sempre più freddo.

Quando si era accorto che qualcosa vibrava nella sua tasca, gli sembrò di essersi svegliato da un sogno.

Allungò una mano nella giacca, ritraendola subito. Falborg scottava. Lo tolse dalla tasca rapidamente, posandolo sull’asfalto. I suoi occhi vagavano sul bey confusi.

- Cosa stai facendo?- Sussurrò.

Come se volesse rispondere, una colonna di luce si erse dal disco del bit power. Un grido gli sfuggì dalle labbra; l’onda d’urto lo investì, trascinandolo lontano di qualche metro finché non riuscì a riacquistare l’equilibrio. Strinse gli occhi, abbagliato dal lampo improvviso. Non ne fu sicuro, ma gli parve di vedere il suo bey ruotare da solo, avvicinandosi a Rosemary. Nella colonna di luce poteva distinguere vagamente il corpo di un falco.

Poi il lampo deviò su di lei. Vide il suo corpo flettersi, mentre sembrava che Falborg stesse risucchiando qualcosa dalle sue membra pallide. Durò poco più di un istante. La luce cessò all'improvviso; lei ebbe uno spasmo, mentre il bey terminava la sua rotazione adagiandosi, piano, accanto al suo corpo.

Boris non ebbe la forza di muoversi. Si mise in ginocchio, ansimando come se avesse appena corso una maratona.

Perse un battito quando vide il suo corpo muoversi. Una mano tastò piano l’asfalto, facendo da perno per sorreggere il resto del corpo. Con lentezza si alzò, traballando, i capelli arruffati color cenere a penzolarle davanti al volto. La vide tendere una mano nel vuoto, spostando poi le ciocche dai piccoli occhi chiari.

Non seppe come, ma fu sicuro che lei lo riconobbe anche da lontano, anche con quegli occhi malandati con cui aveva imparato a convivere.

La vide sorridere, e gli si sciolse il cuore.

Noi possiamo scrivere la storia da soli, almeno la nostra

Adesso che stava lì, lì davanti a lui, lo sapeva che era vero. Che tutto quello che desiderava stava diventando vero. Perché lo avevano scritto loro, come in un libro.

Era a pochi metri di distanza, il corpo scosso dagli ultimi ansiti.

- Non mi lasciare mai più-

Lo disse lei. Fu la più vera, la più onesta dei due, come sempre. Come sempre era stata la più forte.

Fece un passo in avanti; le gambe le cedettero, e in attimo fu a terra. Lui scattò, senza pensare, mosso da una forza invisibile che gli diede ancora fiato da bruciare. Le fu accanto in un secondo, prendendola tra le braccia con delicatezza, come se fosse fatta di cristallo. Come se fosse un sogno, un fantasma, come se fosse potuta sparire se lui avesse stretto troppo forte.

E lei rise. Gli angoli delle labbra non riuscivano a scendere, gli occhi erano chiusi dagli spasmi del corpo, le mani strette al petto. E rideva, rideva, rideva.

Un nodo grande come l’universo gli si sciolse in gola. Mandò al diavolo tutto, la fatica, le ferite, le sue e quelle del suo angelo, e la strinse come fosse l’ultimo respiro a cui aggrappare la propria vita, fino a sentire il suo volto sprofondare contro di lui, il suo respiro sul suo petto.

- Ti amo –

Questa volta non perse tempo. Non lo avrebbe più fatto. Abbassò il volto sui suoi capelli color cenere, inspirandone il profumo più a lungo che potè.

- Ti amo, ti amo, ti amo –

E rimasero così; due perle in un campo di nulla. In quel tutt’uno di fuoco e polvere, di macerie, di grida che li chiamavano a gran voce per avere un segno che loro c’erano ancora ... rimasero abbracciati, senza dire una parola, respirandosi a vicenda per non perdere un istante di qualunque cosa stesse accadendo in quel momento.

 

҉҉҉

 

- Hai preso tutto?-

- Ancora? Sì, sono sicura di sì –

- Beh ... – Boris mise le mani in tasca, lanciandole uno sguardo di sfida – Se hai dimenticato qualcosa, al massimo tornerai a riprenderlo. No?-

Le lo squadrò severa.

Organizzare quella partenza era stato difficile. Più difficile di capire cosa avesse fatto Falborg per renderla di nuovo ... beh, viva.

- Pare aver risucchiato quella parte del suo DNA che ti avevano impiantato. Senza quello, il tuo organismo ha ricominciato a funzionare normalmente –

Era stata la spiegazione di Kenny, dopo aver speso sette notti insonni su Falborg. Molto generica, semplicistica e che in realtà non spiegava un tubo; ma era l’unica che avevano.

I giorni successivi erano trascorsi tra spiegazioni, riposo e tanti, tanti abbracci. Nessuno ci avrebbe mai creduto ad una fine del genere. Soprattutto lei, che aveva accolto l’idea del termine della sua vita in quel laboratorio parecchi mesi prima, dopo aver sperato con tutta se stessa che i sotterfugi per far trovare il quadernino a Kai fossero serviti a qualcosa.

E ce l’avevano fatta. In modo macchinoso e artificioso, ma c’erano riusciti.

Dopo lunghe giornate passate a raccontarsi la propria storia a vicenda, fu chiaro a tutti che Rose non sarebbe potuta restare con loro. Vorkov era ancora in circolazione, tanto per cambiare, e su quello che era accaduto a Londra erano in corso delle indagini che avrebbero potuto tirarla in mezzo. La soluzione migliore era stata farla allontanare per un po’.

- Andate a casa mia. Non dovrebbe cercarvi nessuno lì –

L’idea di Ivan era stata accolta di buon grado da Rose, e anche da Boris, che non aveva intenzione di lasciarla da sola. Poi, una volta calmate le acque, la sua destinazione sarebbe stata l’Italia. Nemmeno a dirlo, Gianni era stato più che felice nell’offrirsi di ospitarla, almeno per i primi mesi.

- Lo sai che non posso. Non ti ricordi cos’ha detto Yu?-

- Mmmh, sì, ricordo vagamente un borbottio, seguito da un ultimatum e una vaga minaccia di morte se non avessimo seguito i suoi ordini – Giocherellò con i suoi capelli arruffati, seguendola nella fila per il Gate 5.

- Le solite cose –

- Non fare sciocchezze, Bo –

Lui sbuffò.

- Ma sentila. Parla lei –

- Io sarò in buone mani –

- Stai parlando di Gianni?-

- Ottime mani – Sottolineò lei di rimando, per bilanciare lo scetticismo poco velato di Boris.

Il Gate si aprì in quel momento. La fila cominciò a scorrere; Rose scartabellò nella borsa a tracolla alla ricerca di tutti i documenti.

- Quando potremo rivederci?-

Lei sorrise di nascosto.

- Guarda che io sono ancora qui –

- Sì, ma fra un istante non ci sarai più –

- Hei –

Lui abbassò di nuovo lo sguardo, scontrandosi con due piccoli, severi occhi azzurri, e un enorme sorriso. Rose gli prese la mano, dandogli un biglietto un po’ stropicciato.

- Questo numero è per voi. Se succede qualcosa, se avrete bisogno di me, se vorrete fare i biscotti e non sapete la ricetta ... chiamate qui – Concluse alzando il pollice.

Boris strinse il foglio nella mano. Poi ebbe un’illuminazione.

-- Anche io ho qualcosa per te –

Frugò in tasca, fino a scontrare le dita con qualcosa di metallico. Tirò fuori l’anello, e senza lasciarle il tempo di dire nulla glielo infilò al dito. L’oro della fede e il baluginio del solitario si infransero silenziosi sul vetro dei suoi occhiali.

Rose scacciò via una lacrima.

- Lo hai tenuto –

- Pensavi che lo avrei buttato?-

Lei si affrettò a scuotere il capo. Poi, in un ultimo slancio, a due metri dal gate, si alzò sulle punta degli stivali e gli concesse un bacio a fior di labbra.

Fu piccolo, leggero; ma fu il bacio più bello del mondo.

 

 

 

- è andata?-

Yuriy lo aspettava dietro la porta. Andrew entrò senza troppi complimenti, facendo un cenno a Kai che stava andando in salotto con l’ennesima camomilla del pomeriggio. Boris tolse la giacca.

- Andata –

- Tutto bene?-

- Sì. L’ho messa in sicurezza – Concluse sarcastico, beccandosi un pugno sul braccio. Yuriy tornò sui suoi passi, richiamato dall’urlo isterico del padrone di casa che aveva, di nuovo, trovato le mutande sporche di Daichi sul tappeto del salotto.

- Ah, dimenticavo –

Si fermò un secondo, lanciando a Boris un foglietto che gli volò dritto in testa. Lui lo acchiappò, squadrando il capitano con fare interrogativo.

- è per te  -

Boris cominciò ad aprire il foglio – Cos’è, una denuncia per atti osceni in luogo pubblico?-

- Idiota. Me l’ha lasciata Rose. Leggitela, poi sbrigati a raggiungerci. C’è un torneo da organizzare, Kai è già impazzito e io non lo subirò da solo – Concluse agitando la mano, lasciando Boris ad occhi spalancati davanti al pezzo di carta.

La calligrafia sgangherata di Rose svettava sul bianco come onde leggere di un mare calmo. La quiete dopo la tempesta. Scrollò il capo, scacciando il ricordo terribile dell’ultima lettera che lei gli aveva scritto.

Lesse tutto con il sorriso.

Poi la richiuse, infilandola in tasca, accanto a Falborg.

 

 

 

Il nostro amore avrebbe bruciato una città. Non perché fosse fiamma che voleva distruggere, non perché era rabbia repressa e odio.

Avremmo bruciato una città perché siamo fuoco, nulla di più. Non tanto per dispetto verso chi nel nostro amore, così privo di gelosia, non ci credeva. Non li ascoltare.

Ma la città è finita in fiamme

Perché ci amiamo

 

҉҉҉


 

Una conclusione breve per un lungo viaggio. Alla fine, nonostante l'indecisione, sono felice di aver terminato così: con l'amore.

Ringrazio chiunque ha letto, legge e leggerà questa storia. Chissà che un giorno non ce ne saranno altre.

E ringrazio, Kai, Boris, Takao, Julia e tutti quanti i personaggi che accompagnano da una vita le mie fantasie, subendole e assecondandole. Non avrei la stessa moltezza senza di voi.

Buon viaggio a vederci!

Chocolate




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