Sangue su Chernobyl - Homecoming

di FrenzIsInfected
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Primo capitolo

1

 

 

 

Pripyat, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Checkpoint ‘Pripyat’.

11:02.

Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev, Serg. Olga Petrova, Pvt. Feodor Kovalenko.

Parte del gruppo ha raggiunto Pripyat. La posizione e lo stato di Irina, Sergei, Boris e del soldato Svatok è ignota.

 

 

 

«SVATOK!»

Feodor corse fuori dall’UAZ, venendo rincorso e fermato da uno dei militari del checkpoint.

«Lasciami, Pyatov!» esclamò il soldato, lottando per liberarsi dalla presa del commilitone.

«Fermati, Feodor!» ordinò Olga.

Kovalenko smise di agitarsi, e, accasciatosi, sbatté un pungo a terra, iniziando a lacrimare e imprecare.

«Arrivano le provviste, ma anche guai, a quanto pare» fece l’altro soldato al checkpoint.

Olga si avvicinò a lui.

«Il tuo nome?»

«Soldato Andrei Sydorchuk, sergente.»

«Bene, Sydorchuk. Avvisa chiunque comandi a Pripyat che le provviste sono arrivate, e che abbiamo un commilitone con dei civili dispersi.»

«So dove vuole arrivare, sergente, ma non credo sarà possibile» rispose Sydorchuk. «Nessuno lascia Pripyat, che sia esso un civile, un militare o un membro della Militsiya. Ognuno deve restare nel posto dove è stato assegnato, salvo ordine diretto del maggiore Tsurikov.»

«È così che trattate i vostri commilitoni e i civili, qui? Negando loro aiuto se sono fuori dal perimetro della città? Ma che cosa avete in testa?» sbottò Anatoli.

«Andiamo, Sydorchuk» fece Pyatov, dopo aver aiutato Feodor a rialzarsi. «Il maggiore non negherà un aiuto del genere. È Svatok, uno dei pochi soldati che conoscono la Zona!»

«Il maggiore ci ha dato degli ordini, Pyatov, e dobbiamo rispettarli. Chi entra a Pripyat, resta a Pripyat! Chi lascia Pripyat, non può far ritorno!»

Ci fu qualche secondo di silenzio, prima che qualcuno dei presenti tornasse a parlare.

«Chi comanda la Militsiya qui?» chiese Vassili.

«Nessuno. Voi poliziotti siete subordinati a noi militari» rispose freddamente Sydorchuk.

I tre si guardarono.

«Se entriamo a Pripyat, non potremo più salvare Irina, Sergei, Boris e Svatok, se sono sopravvissuti» fece Anatoli.

Olga guardò il contadino.

«Conosci la zona, Anatoli?» chiese.

Il vecchio annuì.

«Da giovane spesso passavo a prendere mia moglie a Yanov, e insieme andavamo a spasso a Pripyat. La stazione ferroviaria è a tre chilometri da qui» disse.

«L’esplosione proveniva da sud-ovest. Magari i soldati in cima alla fabbrica Jupiter hanno visto qualcosa» fece Pyatov, rivolto al commilitone.

Sydorchuk sbuffò, prendendo la sua radio.

«“Checkpoint ‘Pripyat’” a “Punto d’osservazione ‘Jupiter’”, potreste dare un’occhiata in direzione della stazione di Yanov e riferirmi cosa vedete e sentite?»

«Affermativo, “Checkpoint ‘Pripyat’”. Dacci solo un secondo.»

Dopo qualche attimo di interminabile silenzio, arrivò il responso.

«“Checkpoint ‘Pripyat’”, vediamo del fumo alzarsi a sud-ovest della nostra posizione. Rilevamento sonoro e ulteriori riscontri visivi impossibile da attuare, la foresta è troppo fitta e il fumo troppo lontano. Ad occhio e croce, dovrebbero essere vicino al crocevia delle strade che conducono alla stazione di Yanov, alla fabbrica Jupiter e alla discarica di Buriyakivka.»

Il soldato stava per ringraziare e chiudere, quando un altro soldato parlò via radio.

«“Checkpoint ‘Pripyat’”, parla “Posto di blocco sud-ovest”. Confermo le parole del “Punto d’osservazione ‘Jupiter’”. Abbiamo udito un paio di spari, delle voci e dei ruggiti, ma non sentiamo più nulla da qualche minuto.»

Vassili, Olga e Anatoli si scambiarono uno sguardo.

«Vengo con te, Anatoli» fece il poliziotto. «Tu, Olga, vai pure. Ce la faremo.»

La soldatessa annuì, dando loro la sua radio.

«Portateli qui… e non fatevi ammazzare» disse, sospirando, per poi abbracciare il poliziotto.

«Siamo sopravvissuti finora. Cosa può ucciderci?» sorrise Anatoli.

Partiti i due, Olga si rivolse agli altri.

«Il capitano Yaremchuk alla stazione radar Duga mi ha ordinato di restare a Pripyat e unirmi alla vostra guarnigione. Dove posso essere utile?» chiese.

«Credo che al caporale Yakovenko possano far comodo un paio di braccia in più all’Hotel Polissya» rispose Pyatov.

«Continui lungo la Prospettiva Lenin, fino ad arrivare nella piazza principale. Davanti a lei vedrà il Palazzo della Cultura Energetyk. Alla sua destra, troverà l’hotel.»

Feodor si avvicinò. I suoi occhi erano ancora rossi dalle lacrime.

«Vuole un passaggio, sergente?»

«No, grazie. Non penso che capiti tutti i giorni camminare in mezzo a una città abbandonata. Quanto a te, piuttosto, sii ottimista. Faremo il possibile per riportare gli altri a Pripyat sani e salvi.»

«Lo spero anch’io.»

Il soldato si mise sull’attenti, facendo il saluto.

«È stato un onore, sergente Petrova.»

Olga ricambiò il saluto, accennando un sorriso. Nessuno le aveva mai espresso gratitudine per esser stato sotto il suo comando.

I due soldati alzarono la sbarra del checkpoint, lasciando entrare il mezzo e la soldatessa.

 

 

Così, questa è la città fantasma.

Olga camminava lungo la Prospettiva Lenin come Alice una volta arrivata nel paese delle meraviglie. Certo, l’atomo non aveva fatto meraviglie in quel luogo, ma quel macabro fascino che permeava l’area di Pripyat rendeva impossibile a chiunque non perdersi a guardare ciò che restava degli edifici dell’atomgrad abbandonata.

Volgeva lo sguardo oltre gli alberi spogli che avevano quasi ricoperto l’asfalto della strada, verso quegli appartamenti abbandonati che, con l’arrivo dell’apocalisse, erano stati nuovamente occupati dai cittadini ucraini della Zona o giunti all’interno di essa in fuga dai non morti. Affacciato al balcone del proprio alloggio, qualche neo-residente osservava con aria incuriosita la soldatessa procedere solitaria lungo il viale.

Chissà cosa direbbe Tetyana, se sapesse che sono qui.

Quando iniziò ad andare alle elementari a Kiev, nell’ottobre 1986, nella sua classe c’era anche una ragazzina del nord, Tetyana Ivanenko, figlia di una coppia sfollata da Pripyat. Gran parte dei bambini, dopo un primo momento di integrazione, iniziarono a rigettare la presenza di Tetyana all’interno della classe, spinti dall’odio e dal disprezzo inculcatigli dai genitori verso chi proveniva dall’area di Chernobyl. Solo Olga, che per natura era solidale verso il prossimo, le stette sempre vicino, diventando la sua migliore amica. Le raccontava spesso di quando viveva lì, di quanti fiori e bambini con cui giocare ci fossero. Desiderava tornarci come non mai. Da quando la soldatessa era entrata nell’esercito, però, le due si sentivano raramente. L’ultima cosa che ricordava di Tetyana era che stava cercando disperatamente un gruppo metal dove suonare.

E soprattutto, chissà cosa direbbero mamma e papà.

Oleg Petrov, nato a Kursk, nella Repubblica Socialista Sovietica Russa, negli anni Cinquanta, si era trasferito a Kiev per lavoro. Lì, aveva conosciuto e successivamente sposato Oksana Pavlyuk, una barista che lavorava in un locale non distante dall'appartamento dove si era stabilito l'uomo. Nel 1980, i due diedero alla luce la loro unica figlia, Olga. Gli anni passavano, e Oleg, rimasto disoccupato dopo esser rimasto coinvolto in una rissa con un suo collega, vide nel disastro di Chernobyl un’opportunità per redimersi e render fiera sua moglie e sua figlia. Si unì ai liquidatori, e tra i tanti lavori disponibili, scelse anche quello più pericoloso. Oltre ai vari lavori di rilevazione dei valori delle radiazioni, salì sul tetto della centrale, e per novanta secondi fece il bio-robot, facendo ciò che le macchine non erano riuscite a fare a causa delle troppe radiazioni: rimuovere i detriti e i blocchi di grafite dal tetto del vicino reattore numero 3. Per prendere più soldi ed essere riabilitato agli occhi dell’Unione Sovietica, salì altre tre volte, spalando per un minuto e mezzo all’ombra del camino d’aerazione dei blocchi 3 e 4.

Alla piccola Olga, il padre raccontava di quando passeggiava per le strade buie di Pripyat, illuminate solo dalla luna, o di quando andava a nuotare con i suoi colleghi alla piscina Lazurny, l’unico luogo della città a restare attivo fino al 1998.

Il coraggio (o l’incoscienza) di Oleg fece migliorare leggermente le condizioni economiche della famiglia, ma non la sua salute, che peggiorò con l’avvicinarsi del nuovo millennio. Olga disse addio al padre nel 1997, vittima di un tumore al cervello. Il suo corpo era stato minato troppo dalle radiazioni.

Oksana, da allora, aveva fatto promettere alla figlia che non sarebbe mai andata a Chernobyl.

Eppure, eccola lì, in procinto di arrivare nella piazza centrale della città.

Quando vi arrivò, Olga si sentì quasi una formica. L’immensa area antistante, un tempo piena di vita, gioia e fermento, ora marciva in uno stato di abbandono. L’enorme Palazzo della Cultura, l’Energetyk, si ergeva in condizioni fatiscenti a qualche centinaio di metri da lei. Le immense vetrate che davano sulla piazza erano state distrutte per far disperdere le radiazioni, così come le finestre degli appartamenti di gran parte della città. Le insegne al neon erano state divorate dalla ruggine, e ora i tubi giacevano allo scoperto. Sul tetto, e all’interno dell’edificio, Olga riuscì ad intravedere dei soldati sorvegliare l’area circostante.

La ragazza, poi, volse lo sguardo a destra. L’hotel Polissya era in condizioni simili al Palazzo della Cultura, collegato ad esso da un arco di colonne. Anche qui, le finestre erano state distrutte, e le insegne al neon avevano fatto la stessa fine di quelle dell’Energetyk. Un tempo bianchissimo, ora la struttura tendeva al bianco sporco, con sfumature verdognole causate dalla crescita di muffe o muschi. Notò con stupore delle piante crescere sul tetto.

Dalla terrazza, un soldato la salutò.

«Quassù, sergente!» esclamò, facendole cenno di salire.

Olga quasi lo maledisse per aver interrotto la quiete che aleggiava nella città, nonostante, in lontananza, si sentisse il rumore dell’UAZ di Feodor.

Entrò nell’edificio, restando impressionata dalla pressoché totale devastazione. Gli stalker e i vandali avevano fatto razzia di ogni cosa possibile, non curanti di star distruggendo un potenziale patrimonio storico. Salì le scale, dove fu accolta dal caporale Yakovenko, un ometto barbuto che impugnava un fucile da cecchino Dragunov.

«Benvenuta all’hotel Polyssia, sergente. Si goda la vista.»

Olga rimase a bocca aperta. Da lassù, riusciva a vedere tutta la città. I palazzi-dormitorio, arrugginite insegne luminose recitanti slogan comunisti, l’infinita distesa di alberi… e, in lontananza, come un gigantesco mostro, la centrale nucleare.

La soldatessa rivolse il suo sguardo verso sud-ovest, dove il fumo continuava a salire. E, in silenzio, iniziò a pregare qualunque Dio che non li avesse ancora abbandonati, di far tornare i dispersi sani e salvi.


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Salve, gente!

Vi avevo promesso l'arrivo del sequel di "Sangue su Chernobyl" in questo periodo, e intendo mantenere la promessa data. A causa dei miei impegni con la tesi, sarò però costretto ad aggiornare la storia solo mensilmente. Il prossimo capitolo è in fase di revisione, e il terzo deve essere ancora completato. Spero di riuscire nell'intento di proporvi la storia come piace a me.

Alla prossima,


Frenz

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Capitolo 2
*** 2 ***


Primo capitolo

2

 

 

Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Poco fuori Pripyat.

11:04.

 

 

Irina riaprì gli occhi. L’odore acre del fumo giunse alle sue narici.

Si girò sul fianco, ma se ne pentì quasi subito, dal momento che iniziò a sentire dolore. Stringendo i denti, si guardò intorno.

L’esplosione aveva incendiato l’Honker. Attorno al mezzo in fiamme, i corpi degli zombie che li stavano inseguendo, ormai morti. A pochi metri da lei, giaceva supino Masha, assieme alla sua Makarov.

La ragazza si mise una mano nella zona dolorante, e si guardò il resto del corpo. I pantaloni si erano strappati nella caduta dal mezzo. Sulle braccia c’erano ora numerose escoriazioni.

Si rimise in piedi, iniziando a guardarsi intorno.

«Papà? Boris? Svatok?»

 

 

I due mezzi raggiunsero la stele che indicava la strada per Pripyat. L’Honker sfrecciava lungo la strada. Davanti a loro, l’UAZ stava per iniziare la sua salita nel “Ponte della morte”.

«PREMI QUELL’ACCELLERATORE E SEMINAMI! CI VEDIAMO A PRIPYAT, FRATELLO!» urlò Svatok in radio, mettendo nel mirino una strada sulla sinistra.

Kovalenko non rispose, ma lo scatto del mezzo che lo precedeva fu una risposta abbastanza eloquente per il commilitone.

«Tenetevi forte, curva a sinistra!»

Irina, che sparava dal finestrino, rischiò di finire fuori bordo. Gli zombie, nonostante le raffiche di Sergei, continuavano a essere parecchi.

«Qualche idea su come liberarci di loro?» chiese Boris.

«A parte cercare di seminarli? Nessuna!» fece il padre di Irina.

Svatok sospirò, mettendo una mano su una tasca.

«Non dovrei usarla, ma vista la situazione…»

Il soldato prese una granata, passandola nei sedili posteriori.

«Sergei, lanciala fuori!»

 

La ragazza avanzò barcollando in direzione dell’Honker, e quando le fu vicino inorridì.

Svatok era completamente carbonizzato. La portiera era chiusa; non aveva nemmeno provato a gettarsi dal mezzo.

Iniziò a boccheggiare, guardandosi nervosamente attorno.

«Aiuto! C’è qualcuno?» urlò, senza ricevere risposta.

Guardò indietro l’orsacchiotto e la sua pistola.

Irina raccolse Masha, fissando una parte leggermente bruciacchiata del peluche.

 

 

Sergei tolse la sicura.

«ATTENZIONE!»

Svatok non riuscì ad evitare la carcassa dell’alce che stava venendo divorata dai non morti in mezzo alla strada, facendo sobbalzare il mezzo.

La granata cadde di mano all’uomo.

 

 

Prese poi la Makarov, togliendo la polvere dal lato rimasto a contatto col terreno.

 

 

Il soldato invertì la marcia, lanciandosi a capofitto contro gli inseguitori.

«GETTATEVI!»

Boris aprì la portiera e si lanciò fuori, rotolando fuori dalla strada. Sergei aprì il portellone posteriore.

«Vai, Irina!» urlò alla figlia.

La ragazza si gettò fuori, cadendo rovinosamente sull’asfalto. Sergei si apprestò a seguirla.

Un’esplosione, e la ragazza perse i sensi.

 

 

«Ira…»

Alzò lo sguardo.

«PAPÀ!»

Suo padre giaceva bocconi in un bagno di sangue. Il corpo era stato martoriato dalle schegge provocate dall’esplosione del mezzo.

La ragazza si avvicinò, mettendo Sergei in posizione supina. L’uomo aprì gli occhi, iniziando a lacrimare.

«Ira…p-perdonami…»

«Pà, non puoi lasciarmi ora! Non adesso che siamo tornati a casa!» disse isterica, ripulendo la faccia del padre dal sangue.

«È inutile… s-sono spacciato.»

«Zitto, zitto! Boris, dove cazzo sei?»

«Irina!»

Boris spuntò da un fosso poco più avanti a loro, e corse verso di loro.

«Dobbiamo portarlo al sicuro.» fece il ragazzo, chinandosi per tirarlo su.

«Lasciatemi. Vi rallenterei e basta.» disse l’uomo. «Sparatemi in testa e andatevene. Non voglio trasformarmi in una di quelle cose.»

«No! Dev’esserci un altro modo... Boris?»

Il ragazzo aveva iniziato a lacrimare. Guardò Irina, e scosse la testa.

«Vieni qui, ragazza mia.» sussurrò Sergei.

Sua figlia si avvicinò.

«Ti avevo promesso che ti avrei riportato a Pripyat, un giorno. Ed ora eccoci qui, a pochi chilometri dalla città che mi ha dato e tolto tutto. Posso andarmene in pace.»

Anche Irina iniziò a piangere. L’uomo si voltò verso Boris.

«Prenditi cura di lei, ometto.»

Il ragazzo annuì.

Sergei, poi, si voltò verso la figlia.

«Fallo, Irina. Fallo per tuo padre.»

La ragazza, tra le lacrime, puntò la pistola al centro della fronte di Sergei, che le strinse la mano.

«Ti voglio bene.»

E premette il grilletto.

Altro sangue schizzò sul volto della ragazza. L’urlo che uscì dalla bocca di Irina ebbe del disumano. Per diversi attimi, tutto intorno a lei si fece ovattato, mentre la mano di suo padre mollava la presa e il corpo sbatteva pesantemente a terra. Nemmeno le urla di Boris, assieme ad alcuni spari, riuscirono a riportarla nella realtà. Alla fine, il ragazzo fu costretto a trascinarla via, mentre lei continuava a fissare il cadavere martoriato del padre, prima che svanisse dietro un muro di alberi.

 

 

Irina cadde in ginocchio di nuovo, singhiozzando. Erano in mezzo ai boschi che circondavano Pripyat, in mezzo a una strada asfaltata.

«Papà… perdonami…»

Boris si voltò.

«Andiamo Ira, non possiamo fermarci, siamo ancora troppo esposti!» fece Boris, tornando indietro per tirarla su.

«Lasciami stare.» disse lei, allontanando la mano del ragazzo. «Vattene. Mettiti in salvo. Non preoccuparti per me.»

«Non ti lascio. Tuo padre…»

«Non nominarlo.»

«… lui mi ha chiesto di prendermi cura di te. E intendo farlo. Voglio arrivare a Pripyat insieme a te sano e salvo.»

«Come, Boris? Come? Hai a malapena imparato a sparare. Non sai nemmeno dove siamo. Semmai sono io a dovermi prendere cura di te.»

Boris si passò una mano sul volto.

«Vogliamo iniziare togliendoci dalla strada, magari?»

Irina sospirò, e seguì il ragazzo tra gli alberi, lasciandosi a diversi metri di distanza la strada e curandosi di essere circondati da cespugli. Boris tirò fuori il dosimetro.

«0.29 microsievert… può andare. Fermiamoci qui.» disse, continuando a guardarsi attorno. Irina lanciò lo zaino a terra, assieme a Masha e alla sua Makarov, mettendosi le mani sul volto. Il ragazzo la lasciò sfogare, tornando a parlarle solo quando riuscì a calmarsi.

«Ora che facciamo?» domandò Boris.

«Dovremmo cercare di capire dove siamo.» fece Irina. «Ma non ci riesco. Ricordo Pripyat, ma il suo circondario no. Cazzo, avevo tre anni quando ci hanno evacuato.»

«Grandioso. Ecco, lo sapevo.» disse il ragazzo, scuotendo la testa. «Fanculo le lezioni. Dovevo giocare al nuovo S.T.A.L.K.E.R.

«Cosa?»

«L’ultimo gioco della serie di S.T.A.L.K.E.R., Call Of Pripyat, è uscito un mese fa. Ha tre mega zone, tra cui Yanov e Pripyat… ma sono rimasto fermo a Yanov. Nella missione successiva sarei dovuto arrivare alla fabbrica Jupiter con i miei compagni per raggiungere Pripyat…»

La ragazza era sconcertata.

«Boris, stai collegando il cervello prima di parlare?»

Il ragazzo fece per ricominciare a parlare, ma si fermò.

«Perdonami. Che cosa patetica. Cercare di capire dove siamo dalla mappa di Yanov di un videogioco...»

All’improvviso, però, Irina alzò lo sguardo.

«Yanov… ma certo! La ferrovia!»

Boris restò basito.

«Che ti è saltato in mente?»

«Ricordi che Feodor e gli altri hanno proseguito dritti verso un ponte? Quello è il ponte della ferrovia. Se percorriamo i binari a ritroso, in direzione della centrale nucleare, tra circa un’ora dovremmo essere arrivati.»

«Poco fa li abbiamo oltrepassati. Dovremmo raggiungerli rapidamente.»

«Inoltre, se ci vengono a cercare, la stazione di Yanov è quasi sicuramente il primo posto dove si dirigeranno.»

Irina si alzò, seguita dal ragazzo, incamminandosi verso la strada.

«Irina.» la fermò Boris. «Forse è un’idea stupida, ma… e se proseguissimo lungo la strada? Più avanti ho visto un bivio, e una delle due strade porta quasi sicuramente a Pripyat.»

«Non abbiamo una radio, e non la hanno nemmeno i nostri. Finiremmo per dover tornare fuori a cercarli.»

Il ragazzo annuì.

«Va bene.» sospirò la ragazza. «Torniamo a casa.»

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Capitolo 3
*** 3 ***


Primo capitolo

3

 

 

Pripyat, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Nelle vicinanze della stazione di Yanov.

11:20.

Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev.

I due sono sulle tracce di Irina, Sergei, Boris e del soldato Svatok.

 

 

«E’ vero quello che si dice su questo ponte, Anatoli?»

Il poliziotto e il contadino-stalker erano arrivati al Ponte della Morte. Anni addietro, durante quella notte che avrebbe reso tristemente famoso al mondo intero quel posto, centinaia di persone si radunarono sopra il ponte della ferrovia che prima della catastrofe collegava Ovruch a Chernihiv. Voci erano iniziate a circolare, secondo le quali chiunque era lì quella notte sia morto poche settimane dopo.

«Non lo so, Vassili.» sospirò il vecchio. «Molte voci hanno iniziato a circolare su questo posto dopo il disastro. Ma gran parte di esse sono solo frutto di battute di cattivo gusto.»

«Tipo quelle sugli animali con cinque zampe, i cervi con quattro corna e uomini ridotti il cui aspetto ricorda tutto meno quello di un umano?»

Anatoli scosse la testa.

«Faccio lo stalker da una decina d’anni, e tutti gli animali che ho incontrato erano all’apparenza più che sani. In più, non sono mai stato aggredito dai cosiddetti samosely

I due gettarono lo sguardo verso la parte destra del ponte. Tra gli alberi, seguendo il tragitto della ferrovia, si riuscivano a intravedere degli edifici.

«La stazione di Yanov è laggiù.» indicò Anatoli, puntando poi il dito verso il pennacchio di fumo che si alzava poco più in là. «Non è lontana dal luogo dell’esplosione. Inizieremo le ricerche da lì.»

I due oltrepassarono il ponte, svoltando a destra per dirigersi verso i binari passando tra le piante.

«Meglio non restare in strada. Gli spari e l’esplosione avranno attirato altri zombie.» sussurrò Anatoli, cercando di far meno rumore possibile.

Vassili tirò fuori il dosimetro, curandosi di silenziare i bip dell’oggetto. I valori che vide andavano da un minimo di 0.66 a un massimo di 4.23 microsievert.

«È colpa degli alberi.» fece il contadino, raggiungendo le rotaie. «La radioattività è ancora alta nei tronchi, talvolta anche nelle foglie.»

Il poliziotto si sbrigò ad uscire dalla boscaglia, continuando a seguire il compagno.

«Dov’eri, Anatoli? La notte dell’incidente, intendo.»

L’anziano abbassò lo sguardo.

«Abbastanza vicino alla centrale nucleare da averlo visto con i miei occhi.»

Vassili restò a bocca aperta.

«Come sarebbe? Dytyatky è distante almeno 40 chilometri da Pripyat.»

«Ero assieme a un mio amico di Starolesye, Vadim. Le vendite al mercato di Chernobyl andavano bene, ma stavo valutando assieme a mia moglie di aumentare gli introiti vendendo non solo frutta e verdura, ma anche pesce pescato sul fiume Pripyat. Mi aveva proposto di fare una battuta di pesca non lontano da Pripyat, nelle vicinanze del lago di raffreddamento artificiale della centrale nucleare, dove si diceva ci fossero molti pesci, la notte tra il 25 e il 26 aprile. Io e Vadim ci eravamo accampati sulla sponda est del fiume, con lo sguardo rivolto verso la centrale. Non avevamo pescato molto, e ci stavamo relativamente annoiando. Poi, ad un tratto, si è sentito un tonfo sordo in direzione della centrale, per poi vedere il reattore saltare in aria. Restammo impietriti a fissare lo spettacolo, fin quando non iniziammo a sentire in lontananza le sirene dei vigili del fuoco e decidemmo di andarcene. Il resto è storia.»

I due continuarono per diversi minuti, fino a raggiungere la stazione. Sui binari, fermi da decenni, stazionavano vagoni e locomotive arrugginite. L’erba aveva iniziato a sovrastare le rotaie.

«Non venivo qui dal1980.» disse Anatoli, osservando lo stabile della stazione. «Sposai mia moglie in quell’anno, e si trasferì a Dytyatky da me.»

«Immagino tu abbia un sacco di ricordi legati a questo posto.» fece il poliziotto.

«Eccome. La gioia di vedere Anna scendere dal treno era immensa. Vedere la stazione in questo stato mi rattrista enormemente.»

«Non mi hai mai detto perché avete divorziato, ora che ci penso.»

Il vecchio sospirò.

«Conobbe un uomo a Kiev, al mercato. Più ricco, più ‘bello’, a suo dire. Iniziammo a litigare per le più piccole cose, fin quando non chiesi il divorzio. Si è portata via pure Yuri, mio figlio. Non mi è più venuto a trovare, e non l’ho più visto. Non lo vedo dal 1999.»

Vassili mise una mano sulla spalla del compagno.

«Mi dispiace, vecchio.»

La voce di Olga iniziò a propagarsi dalla radio.

«Squadra di ricerca, parla il sergente Olga Petrova dell’esercito ucraino dal “Punto d’osservazione ‘Polyssia’”. Aggiornateci sulla vostra posizione e la situazione. Passo.»

«Qui Vassili Karavaev della squadra di ricerca. Abbiamo raggiunto la stazione di Yaniv. Non li abbiamo ancora trovati. Passo.»

«“Punto d’osservazione ‘Polyssia’” a “Posto di blocco sud-ovest”, avete qualche aggiornamento? Passo.»

«“Punto d’osservazione ‘Polyssia’”, parla “Posto di blocco sud-ovest”. Nessuna attività da segnalare. Passo.»

«“Punto d’osservazione ‘Jupiter’” alla squadra di ricerca. Se non trovate gli obbiettivi alla stazione, continuate verso ovest lungo i binari per due chilometri, poi svoltate verso nord non appena trovare un’intersezione con una strada. Vi troverete a poche centinaia di metri dal “Posto di blocco sud-ovest”.»

«Grazie a tutti. Squadra di ricerca, passo e chiudo.»

Anatoli alzò lo sguardo.

«Andiamo. Troviamo i nostri e torniamo a Pripyat.»

I due proseguirono lungo i binari fino ad arrivare davanti all’edificio principale della piccola stazione.

 

 

Anatoli uscì dalla sua Lada bianca e girò la chiave per chiuderla.

Controllò l’orologio. Le 15:38.

Sono in orario.

Era un caldo pomeriggio d’agosto. Perfetto per uscire con Anna a Pripyat.

Si sistemò la camicia e i pantaloni, dirigendosi verso l’ingresso della stazione.

 

 

«Aspettami qui.» fece il contadino. «Non vorrei che, qualora dovessero arrivare, non ci vedano e proseguano oltre.»

Vassili annuì.

Anatoli aprì l’enorme portone d’ingresso in legno, accendendo una torcia.

 

 

A quell’ora la stazione era pressoché vuota. L’unica tratta che passava di lì era quella che collegava Chernihiv e Ovruch, e poca gente si fermava a Yanov. Pripyat non faceva ancora così gola alla gente del circondario, benché iniziasse a suscitare curiosità.

 

 

La stazione, immersa nell’oscurità, era rimasta la stessa. Riconobbe le panchine dove si sedeva ad aspettare Anna, i muri bianchi e la piccola biglietteria, dove un tempo il compagno Nikolai gli rivolgeva sorrisi a trentadue denti vedendolo arrivare.

 

 

Guardò il tabellone, anche se sapeva l’orario di arrivo del treno. Le 15:43.

«Sono sempre quelli, compagno Zelenko.» gli disse il bigliettaio, sorridendo.

Anatoli ricambiò il sorriso.

 

 

Un rumore lo fece voltare, ma non vide nulla.

«Boris? Irina?»

Nessuna risposta.

Il contadino puntò la torcia verso il tabellone degli orari. Era rimasto lì, seppur ingiallito e sgualcito. Col dito cercò l’orario di arrivo del treno con il quale arrivava Anna, trovandolo poco dopo.

 

 

Un rumore sordo in lontananza lo fece voltare.

«Sta arrivando.» fece Nikolai.

Anatoli si alzò dalla panchina, vedendo arrivare il treno poco dopo. Cerco con lo sguardo la ragazza tra i passeggeri scesi dalle locomotive per svariati secondi.

Poi la vide. Bella, bionda, con un’elegante gonna bianca e una camicia dello stesso colore. Anna Chernova di Buriyakivka.

Il ragazzo sorrise, e le andò incontro, baciandola dolcemente.

 

 

Una lacrima rigò la guancia di Anatoli.

Perché te ne sei andata, Anna?

Un altro rumore, in direzione della biglietteria, lo fece voltare nuovamente. Si diresse verso finestrella della cassa.

«Boris?»

Un urlo lacerò il silenzio.

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Capitolo 4
*** 4 ***


Primo capitolo

4

 

 

Pripyat, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Stazione di Yanov.

11:47.

Anatoli Zelenko, Vassili Karavaev.

 

L’urlo fece sobbalzare Vassili, che si voltò.

«ANATOLI!»

Il vecchio, che aveva sporto la testa all’interno dell’ufficio del bigliettaio, era stato morso alla spalla, lasciando cadere l’AK-74 per il dolore. Anatoli fece fuoco con la Makarov, uccidendo lo zombie.

«Maledizione…» fece il contadino, guardandosi la spalla sanguinante.

Lo sparo fece alzare una serie di ruggiti all’interno e fuori dall’edificio. Il poliziotto gli prese il fucile d’assalto, e lo aiutò a uscire dalla stazione.

«Forza, andiamocene!» esclamò.

«No, Vasya! Salva i ragazzi.» rispose il contadino, strappandogli dalle mani l’arma. «Io rallenterò questi bastardi.»

Il poliziotto continuò a guardare impietrito il contadino.

«Anatoli...»

 

 

«ATTENTO, ALEKSEY!»

La macchina centrò la station wagon bianca che gli aveva tagliato la strada. Nell’impatto, l’agente Aleksey Petrovskij perse la vita. Al suo fianco, il collega Vassili Karavaev era riuscito a cavarsela con una ferita alla testa.

Il poliziotto uscì dall’auto quasi totalmente imbambolato. A rallentatore, attorno a sé, vide Kiev nel caos più completo. I non morti erano arrivati.

Lo sguardo gli cadde sull’uomo intrappolato nella station wagon, precipitandosi come meglio poté a soccorrerlo. Aprì la portiera, e vide un uomo sui cinquantacinque anni sanguinare anch’egli dalla testa, cosciente.

«Signore, sta bene?»

«Un aiutino non mi farebbe male, agente.» rispose lui.

Vassili lo aiutò, e fece per tornare in macchina, ma non appena rivolse lo sguardo verso il mezzo, vide Aleksey trasformato.

L’agente restò come immobile. Smise di pensare. Tutto intorno a lui si fece ovattato. Lo sguardo fisso su chi fino a pochi minuti prima era un suo collega, e ora rappresentava la morte in vita.

Lo scossone dell’uomo lo fece tornare in sé.

 

 

«VAI!»

Il poliziotto si scosse, e sparò qualche colpo verso alcuni zombie che si erano avvicinati troppo, uccidendoli. Iniziò poi a correre via, verso ovest.

Anatoli si voltò, guardando gli zombie. Alcuni erano turisti, altri gente del posto. Vide perfino qualcuno dei samosely che fino a poco tempo prima aiutava al costo di essere catturato dalla Militsiya.

«Cosa dev’essere il destino. Una vita ad aiutare questa gente, e ora mi vogliono mangiare vivo.» sorrise amaramente.

Cercando di resistere come meglio poteva al dolore, iniziò a sparare.

 

 

 

«Hai sentito?»

Boris rizzò la testa, annuendo.

Delle raffiche di colpi, assieme a dei ruggiti e delle urla, interruppero la quiete. I due, senza dirsi niente, iniziarono a correre in direzione del rumore, fin quando, mezzo minuto dopo, videro finalmente un volto familiare.

«Vassili!»

Il poliziotto quasi non li riconobbe, puntando la pistola contro il ragazzo.

«Non sparare, sono io, Boris!»

L'agente era paonazzo, ansimava e aveva gli occhi spalancati. Irina gli abbassò il braccio armato.

«Che sta succedendo, Vassili?» chiese la ragazza.

«Non ora, ragazzi! Di qua!»

I tre lasciarono i binari, procedendo a passo svelto in direzione nord ovest. Un paio di minuti dopo, raggiunsero quella che sembrava una strada asfaltata. Nelle vicinanze, un paio di edifici probabilmente adibiti alla riparazione di locomotive. Rimasero in ascolto per pochi secondi, sentendo soltanto silenzio.

«Mi mancherai, vecchio...» sussurrò l'agente.

«Che succede, Vassili? Perché sei qua fuori e non a Pripyat?» proferì il ragazzo, preoccupato dall’espressione nel volto del poliziotto.

«Anatoli… siamo stati mandati a cercarvi, non appena abbiamo visto alzarsi del fumo. Eravamo arrivati alla stazione di Yanov, lui ha voluto controllare all’interno… ma uno zombie lo ha morso. È rimasto indietro per rallentarli. Non ce l’ha fatta. Ha atteso per anni l’arrivo del treno con cui arrivava la sua ex moglie… ora è lui ad aver preso l’ultimo treno della vita.»

Boris portò una mano alla bocca, lasciando cadere qualche lacrima. Da quando avevano lasciato Stolyanka, aveva sempre visto il contadino stalker come uno “zio adottivo”. Era stato lui ad avergli insegnato a sparare, assieme a Vassili e nonno Yuri, e il vecchio lo aveva sempre trattato come un figlio. O meglio, un nipote.

«Dove sono Sergei e Svatok?» chiese poi Vassili.

Irina abbassò lo sguardo.

«Svatok ha passato una granata a mio padre per lanciarla addosso agli zombie, ma non appena ha tolto la sicura, ha impattato contro il cadavere di un alce circondata da zombie, e la bomba è caduta nell’Honker. Boris e io ci siamo gettati immediatamente, papà non è uscito in tempo. È morto assieme a Svatok mentre quest’ultimo si lanciava contro gli zombie con l’Honker.»

All’improvviso, qualcuno da Pripyat li contattò.

«Squadra di ricerca, parla il soldato Pyatov del “Checkpoint ‘Pripyat’”. Chiediamo un aggiornamento sul vostro status, abbiamo sentito degli spari. Passo.»

Vassili prese la radio.

«Qui Vassili Karavaev della squadra di ricerca. Abbiamo incontrato degli zombie alla stazione di Yanov. Anatoli Zelenko è caduto. Ho recuperato Boris Volkov e Irina Kabakova, il soldato Svatok e Sergei Kabakov non ce l’hanno fatta. Passo.»

«Dove vi trovate, squadra di ricerca? Passo.»

«Sembra una zona di riparazione per le locomotive, o qualcosa del genere. Ci sono un paio di edifici e dei garage. Passo.»

Un fruscio attirò la loro attenzione.

«C’è qualcosa là dietro.» fece Boris, puntando la pistola verso un cespuglio. Un’altra voce si propagò dalla radio di Vassili.

«Squadra di ricerca, parla il soldato Zubkov del ‘posto di blocco sud-ovest’. Abbiamo una buona e una cattiva notizia per voi. La buona è che siete a poco più di cinquecento metri dalla nostra posizione. La cattiva è che nella vostra zona girano cani randagi. Ne abbiamo anche in città, ma sono amichevoli. Quelli della Zona sono imprevedibili. Dalle nostre informazioni i cani sono immuni al virus ma possono trasmetterlo. A meno che non abbiate cibo da dargli, non esitate ad aprire il fuoco non appena si avvicinano troppo. Proseguite oltre lungo la strada, e non appena incontrate delle tubature del gas, seguitele verso ovest. Dovreste arrivare qui in circa cinque minuti. Passo e chiudo.»

Vassili ripose la radio.

«Avete sentito, ci siamo quasi. Proseguiamo a passo svelto e allontania...»

Dal cespuglio indicato da Boris uscì un cane, che, non appena li vide, iniziò a ringhiare.

«Non sembra molto amichevole.» fece.

«Avanziamo lentamente. Magari si spaventa e scappa.» suggerì Irina.

I tre iniziarono a camminare facendo attenzione a non causare rumori bruschi, puntando le loro armi verso gli edifici, dai quali proveniva il suono di una moltitudine di zampe in movimento.

«Non si mette bene, Vassili.»

«Zitti.»

La ragazza stringeva Masha con la mano sinistra, puntando la Makarov ovunque sentisse provenire rumori. Boris faceva altrettanto, mentre Vassili non smetteva di puntare il cane, che li studiava rabbioso in lontananza, quasi come se fosse indeciso sul da farsi.

«Più avanti c’è uno spiazzo. Appena lo raggiungiamo, iniziamo a correre.» sussurrò il poliziotto.

Il randagio continuava a seguirli con lo sguardo, mano a mano che gli estranei si avvicinavano restando a debita distanza. I tre raggiunsero lo spiazzo.

«Ce l’abbiamo fatta.» fece Boris.

Il suo piede urtò una radice spuntata dal cemento, che lo fece inciampare. Il cane non ci pensò due volte, e iniziò a correre abbaiando verso di lui, venendo però freddato da un colpo di pistola dell’agente.

«Quando imparerai a stare zitto, Boris?» sbottò Irina, aiutandolo a rialzarsi.

Ciò che seguì mise le ali ai piedi dei tre. Una serie di ululati, latrati, e poi decine di cani randagi corsero fuori dagli edifici, diretti verso di loro.

«Che cazzo c’era là dentro? Un canile?» fece Boris, iniziando a correre.

«Taci, idiota!» urlò nuovamente la ragazza.

I tre proseguirono la loro corsa svoltando a sinistra non appena videro delle vecchie tubature, percorrendole parallelamente. In lontananza videro delle figure.

«Laggiù!» esclamò Vassili, sparando qualche colpo verso i cani.

Irina quasi sorrise. Non le sembrava vero. Stava per esaudire il desiderio di una vita.

Prese confidenza, e decise di sparare anche lei dei proiettili verso gli inseguitori.

«AH!»

Una pallottola centrò Boris alla gamba, che cadde a terra urlando dal dolore.

«ODDIO, BORIS!»

La ragazza tornò indietro a soccorrere il ragazzo, continuando ad aprire il fuoco verso i cani, che si facevano sempre più vicini. Alcuni di loro, ormai a pochi metri dai due, si preparavano ad azzannare le loro carni.

«Non così, non adesso…» singhiozzò Irina.

Un cane era ormai a pochi metri da loro. I due chiusero gli occhi.

BANG!

Un colpo, e l’animale cadde a terra. Due secondi dopo, una pioggia di proiettili, sparati da due soldati armati di RPK e AK-74, andò ad uccidere i cani, mentre Vassili faceva rialzare Irina e aiutava Boris a rimettersi in piedi, aiutandolo a raggiungere il posto di blocco.

«Forza, ci siete quasi!» li incoraggiò uno dei due soldati, mentre finiva di eliminare la minaccia.

I tre raggiunsero una casetta di legno, dove ad attenderli c’era un terzo militare. Appena vide la gamba di Boris sanguinare, mise mano alla radio.

«Pripyat, parla il soldato Zubkov del ‘posto di blocco sud-ovest’. Ci serve un mezzo di trasporto, abbiamo un ferito da arma da fuoco.» fece un terzo soldato al posto di blocco.

«Ricevuto, ‘posto di blocco sud-ovest’. È in arrivo un Honker dall’ospedale 126. Tempo di arrivo: cinque minuti.»

Irina aiutò Vassili ad appoggiare il ferito a terra, stringendolo a sé.

«Perdonami, Boris, perdonami...»

Il ragazzo vide l’orsacchiotto di lei.

«Portava fortuna, eh?» fece sarcastico.

Irina rise, abbracciandolo, per poi scoppiare in un pianto liberatorio. Poco più in là, Vassili prese la sua radio.

«Parla Vassili Karavaev della squadra di ricerca. Siamo al “posto di blocco sud-ovest”. Missione compiuta.»

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Capitolo 5
*** 5 ***


Primo capitolo

5

 

 

 

Pripyat, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Ospedale nr. 126.

12:31.

Irina Kabakova, Vassili Karavaev, Boris Volkov.

Irina e Vassili hanno accompagnato Boris in ospedale per farsi togliere il proiettile.

 

 

«Fa tanto male?»

Irina era accanto a Boris, allettato dopo l’operazione. I medici dell’esercito avevano allestito un presidio medico nell’ex ospedale principale di Pripyat, il numero 126. Seppur in assenza di condizioni sanitarie idonee, i dottori erano riusciti a rimuovere il proiettile sparato da Irina e ricucire la ferita. Fortunatamente, il colpo non aveva reciso arterie.

«Nulla che non possa sopportare» fece il ragazzo. «Ho fatto lo stupido, è giusto che ne abbia pagato le conseguenze».

«Non dire così, Boris.» cercò di confortarlo Irina. «Dovevo prendere la mira, e non sparare alla cieca.»

«Già… ormai è andata così. Guardiamo avanti.»

I due stettero in silenzio per qualche momento.

«Quindi ce l’abbiamo fatta» disse lui.

La ragazza annuì.

«Quando uscirai, ti farò vedere il mio appartamento. E potrai sistemarti da me, ovviamente.» aggiunse.

«Prima però voglio visitare la città. Voglio vedere i posti dove ho ucciso tutti quegli ultranazionalisti russi con il capitano MacMillan… e dove ho combattuto i Monolith assieme ai membri della Freedom e ai Duty.»

«Calma, stalker. Faremo una cosa alla volta.»

I due risero, per poi fissarsi.

 «Ira... c'è qualcosa di cui vorrei parlarti.» disse Boris. «Io...»

Un dottore entrò nella stanza.

«Signorina, il paziente ha bisogno di riposo. E, a quanto ho capito, ne avrebbe bisogno anche lei, a giudicare dal viaggio che avete fatto per arrivare fin qui» disse.

«Va bene, me ne vado subito.» fece, alzandosi.

Irina volse un ultimo sguardo a Boris, che sorrise amaramente, facendole cenno di andare.

«Starò bene.» proferì.

«Ti aspetto a casa.» disse lei.

E lo baciò in fronte.




Irina si guardò intorno. Lo spettacolo che aveva davanti non avrebbe mai immaginato di vederlo in vita sua. La città dove era nata era stata conquistata dalla natura, stravolgendone tutti i ricordi che aveva. Guardò l’enorme ospedale a pochi metri da lei. Tra quelle mura, il 16 gennaio del 1983, aveva visto la luce. Ora era in condizioni fatiscenti, ma l’esercito se n’era riappropriato, usandolo per fare sporadici controlli medici e, come nel caso di Boris, operazioni chirurgiche, seppur in situazioni disagianti e non adatte.

Si voltò, guardando i palazzi a poche centinaia di metri da lei. Posti che ricordava essere pieni di vita. Ora, guardando attraverso le finestre rotte, le uniche cose che percepiva erano freddo e morte. Notare la presenza di rifugiati ai balconi o alle finestre dei blocchi di appartamenti le ricordava ciò che c’era fuori dalla città, nel resto del mondo.

Pripyat, la città morta tornata in vita. La città zombie.

L’arrivo di Vassili, che la stava aspettando fuori dalla struttura, interruppe il suo flusso di pensieri.

«Cosa dicono i dottori?» chiese.

«Il tempo che i punti facciano il loro dovere e sarà libero di scorrazzare dove vuole all’interno della città.» rispose Vassili. «Ad eccezione del seminterrato dell’ospedale.»

«Perché? Ci sono i mostri dei videogiochi ai quali ha giocato?»

«Durante un giro di perlustrazione hanno trovato degli indumenti altamente radioattivi. Dicono siano le divise dei pompieri che per primi sono intervenuti per domare l’incendio alla centrale nucleare. Inutile che ti dica che stare nei loro paraggi non è esattamente una botta di salute.»

Irina accennò un sorriso.

«Olga è all’hotel ‘Polyssia’. Ti ricordi la strada per arrivarci?»

La ragazza annuì, andando verso il blocco di appartamenti davanti a loro, iniziando a camminare in mezzo agli alberi.

«Vivevi qua vicino?» domandò il poliziotto.

«No. Il mio appartamento non era distante dal posto dove siamo arrivati. Era in una posizione strategica. Vicino a noi c’era la fabbrica dove lavorava papà, la piscina, una scuola elementare, il centro della città era a circa un chilometro…»

Il membro della Militsiya era a dir poco sconcertato.

«Come fai a ricordarti tutto questo?»

Lei abbassò lo sguardo.

«Papà mi diceva sempre di non dimenticarmi da dove venivo. “Ci rende unici, a modo nostro”, diceva. Mi faceva vedere di continuo i posti che frequentava lui, dove mi portava, dove lavorava mia madre. Così che un giorno, quando e se saremmo tornati, mi sarei saputa anch’io orientare all’interno di Pripyat.»

Irina si fermò, osservando nuovamente l’ambiente circostante.

«Se solo potesse vedermi in questo momento…»

Vassili mise una mano sulla spalla della ragazza.

«Lui… sarebbe contento di vederti sorridere.»

I due continuarono a camminare per qualche minuto, fin quando tornarono su una strada asfaltata.

«Via Kurchatov.» annunciò la ragazza. «Quello là è il cinema ‘Prometey’» fece, indicando un edificio sulla destra. Si voltò poi verso sinistra, rivolgendo lo sguardo verso un alto edificio bianco sporco. «E quello è il posto da dove l’allora tenente Price e il capitano MacMillan cercarono di uccidere Imran Zakhaev nell’inverno del 1996.»

«Ovvero?»

«L’hotel ‘Polyssia’. Ero con Boris quando ha giocato le missioni ambientate a Pripyat su Call Of Duty

A Vassili non sfuggì lo sguardo divertito della ragazza.

«C’è del tenero tra voi?» chiese.

Irina non rispose.

 

 

«Irina!»

Olga corse ad abbracciare la ragazza.

«Mi dispiace tanto per Sergei.» disse.

«Sto bene, Olga. Sto bene. Vorrebbe vedermi felice in questo posto, ora che sono tornata a casa.»

Il sergente sorrise.

«Come sta Boris?» chiese a Vassili, abbracciando anche lui.

«Il proiettile non ha danneggiato sensibilmente la gamba. Guarirà presto.» rispose l’agente.

Il caporale Yakovenko si sporse.

«Chi ha detto di essere tornata a casa?»

Irina alzò la mano, sospettosa.

«Sei un’ex cittadina di Pripyat?» continuò il militare. La ragazza annuì.

«Nata all’ospedale 126 di Pripyat il 16 gennaio 1983. Io e i miei genitori abitavamo al sesto piano del numero 10 G, interno 14, in Via dello Sport.»

«Ho una bella notizia per te, figliola.» le annunciò il soldato. «Ti spetta quell’appartamento di diritto. E di gente in Via dello Sport non ne abbiamo molta, quindi è altamente improbabile che qualcuno si sia stabilito lì. Spero per te che non sia stato razziato troppo dai liquidatori o dagli stalker.»

A Irina spuntò un sorriso a trentadue denti.

«Quanto a me, invece? Sono un membro della Militsiya» fece Vassili, esibendo il suo tesserino.

«Militsiya? Dovrebbe esserci la caserma, a nord-ovest della città. Non è distante da dove abita la ragazza, è al numero 5 di Via Lesya Ukrainka. Da quanto dicono è stata abbandonata solo sette anni fa, non dovrebbe essere in cattivissime condizioni.»

«Ti accompagno io» si offrì Irina. Vassili ringraziò.

«Già che ci siete, passate al Palazzo della Cultura. Vi daranno un po’ di cibo e la tessera per richiederlo.» aggiunse Yakovenko, congedandoli.

I due lasciarono l’hotel, e percorsero il colonnato che collegava l’edificio all’Energetyk. Al suo interno, dove una volta sorgeva il teatro, trovarono dei militari, che consegnarono loro le tessere per le razioni, assieme a un fornelletto per cucinare. Per raggiungere le loro destinazioni, i due sopravvissuti scelsero di passare per la “via turistica”. Uscendo dal Palazzo della Cultura, andarono a nord, ritrovandosi pochi minuti dopo al luna park. Furono sorpresi nel trovare una giovane madre con un bimbo in braccio intenta a guardare la ruota panoramica.

«È quella a cui ti riferivi ieri sera?» domandò il poliziotto.

«L’unica e sola» rispose la ragazza. «È quasi diventata l’icona della città, dopo l'abbandono. Ancora pochi giorni, e sarei potuta salirci a fare un giro.»

«Beh, ora puoi. Non si muoverà, ma è meglio di niente.»

Irina iniziò a muoversi come se fosse ipnotizzata. Ignorando le radiazioni, che resero quella zona di Pripyat una delle più contaminate, avanzò verso la ruota divorata dalla ruggine, fino a trovarsi a pochi metri da essa.

È come se fosse tornata bambina, pensò Vassili.

La ragazza salì in uno dei posti a sedere, e chiuse gli occhi.

Vide la ruota partire, iniziare il suo giro. Dall’altro lato, papà Sergei rideva e faceva versi buffi per farla divertire. Piano piano, salivano sempre più su, fino ad arrivare in cima. Vide i blocchi di appartamenti, l’ospedale, lo stadio Avanhard, la piscina Lazurny, il Palazzo della Cultura, Piazza Lenin, l’hotel, il fiume Pripyat costellato di battelli… la centrale nucleare.

La centrale nucleare.

La centrale nucleare.

VNIMANIYE VINIMANIYE.

Irina riaprì gli occhi, e sospirò.

«Tutto bene?»

Vassili la osservava, pochi metri più a destra.

Lei annuì, e iniziò a camminare verso l’uscita del luna park.

 

 

«Non penso di aver mai visto una cosa del genere.»

I due erano entrati nella piscina Lazurny. Vassili osservava stupefatto l’immensa piscina olimpionica vuota, mentre Irina si arrampicava sui trampolini.

«Papà adorava tuffarsi da qui.» disse, una volta arrivata e accomodatasi. «Lo guardavo prendere il volo e finire in acqua, facendo mille schizzi, che facevano infuriare chi nuotava nelle vicinanze o chi era fuori dalla vasca. Era il suo momento di libertà.»

Il poliziotto entrò nella vasca, e camminò in lungo e in largo al suo interno.

«Cosa darei pur di farmi una nuotata.» sospirò. «Quando arriverà l’estate non potrò nemmeno andare a nuotare sul fiume.»

«A meno che tu non voglia radiografie gratuite.»

I due risero, e il loro eco riempì il locale.

«Chissà se hanno rimesso in funzione la cisterna, in qualche modo.» si chiese la ragazza, iniziando a scendere. «Non sarebbe male lavarci, dopo tutto quello che abbiamo passato.»

I due uscirono dalla piscina per non iniziare a fantasticare troppo. Percorsero qualche centinaio di metri, fin quando Irina si fermò davanti a un blocco di appartamenti.

«Io sono arrivata.» annunciò. «Continua fino alla fine della strada e poi gira a destra. La caserma dovrebbe essere sulla destra.»

Vassili ringraziò per l’informazione, passandole la radio.

«Serve più a te che a me.» fece. «Bentornata a casa.»

Il poliziotto si congedò, continuando a percorrere la via. Irina alzò lo sguardo, fissando un balcone al sesto piano di uno degli edifici che aveva davanti.

 

 

«VNIMANIYE VNIMANIYE!»

 

 

Attraversò il portone, e fissò il vecchio ascensore rotto.

 

 

Sergei si alzò dalla sedia e uscì dalla finestra. Il fumo continuava ad alzarsi dalla centrale.

«VNIMANIYE VNIMANIYE!»

Nadiya accorse. Era stranamente tranquilla.

«VNIMANIYE VNIMANIYE!»

«Che succede, Sergei?» domandò.

«Non ne ho idea.»

 

 

Iniziò a salire le scale di corsa, non curandosi del fatto che doveva arrivare in cima all’edificio.

 

 

Anche la piccola Irina corse fuori dal balcone. Dall'altoparlante di un blindato dell'esercito, la voce di una donna gracchiò un messaggio pre-registrato.

«Cari compagni! Il Consiglio Comunale informa che, a seguito di un incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, nella città di Pripyat le condizioni dell'atmosfera circostante si stanno rivelando nocive e con alti livelli radioattivi. Il Partito Comunista, i suoi funzionari e le forze armate stanno adottando le dovute misure. Tuttavia, al fine di garantire la totale incolumità delle persone, e in primo luogo dei bambini, si rende necessario evacuare temporaneamente i cittadini nei vicini centri abitati della regione di Kiev. A tale scopo, oggi 27 aprile, a partire dalle ore 14, saranno inviati autobus sotto la supervisione della polizia e dei funzionari della città. Si raccomanda di portare con sé i documenti, gli effetti personali strettamente necessari e prodotti alimentari di prima necessità.»

 

 

Arrivò al sesto piano col fiatone. Percorse il corridoio, fino a vedere la targhetta col numero 14.

 

 

«Che cosa ha detto, papà?» domandò innocentemente.

«Dobbiamo andarcene, Ira

«Perché?»

«Tranquilla, cucciola. Torneremo tra qualche giorno.»

 

Qualche giorno... da allora sono passati ventitré anni.

 

L’appartamento era stato quasi completamente ripulito. Il tavolo, il televisore, il divano, gli armadi… tutto quello che c’era al momento dell’abbandono era scomparso. Tutto troppo contaminato per essere lasciato dov’era. Restava solo il materasso dei suoi genitori, assieme a una bambola di pezza, sfuggita o lasciata di proposito dai liquidatori.

Lasciò la busta con le provviste a terra assieme alla Makarov e Masha, e si distese sul materasso. Guardò l’orsacchiotto di peluche, e non nascose un sorriso.

Siamo tornati.

L’atomo le aveva tolto la casa. Gli zombie le avevano tolto i genitori. Il suo futuro e quello dell’umanità erano incerti.

Ma Irina era tornata a casa. Aveva esaudito il desiderio dei suoi genitori.

E nient’altro sembrò più importare.

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