Oltre le apparenze di Roiben (/viewuser.php?uid=601789)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se non è un demonio, noi l’acciuffiamo ***
Capitolo 2: *** Un sorriso incrinato ***
Capitolo 3: *** Nell’attesa di un nome ***
Capitolo 4: *** Servizio d’amico ***
Capitolo 5: *** Vecchie e nuove conoscenze ***
Capitolo 1 *** Se non è un demonio, noi l’acciuffiamo ***
Oltre
le apparenze
01
-
Se non è un demonio, noi l’acciuffiamo
La
Ville Lumière è entrata da poco più di un mese
nel nuovo secolo e lo si nota bene dall'allegria che ancora permea la
città e i suoi cittadini, e dalle luci che sembrano ancora più
numerose e brillanti del solito. La primavera, ancora di là da
venire,
non ha mostrato per il momento i suoi segni distintivi, eppure v’è
un sentore d’eccitazione pronta a sbocciare e sembra si respiri
aria di novità ovunque, perfino nei quartieri poveri e nelle
bettole. Forse non durerà, si sofferma a riflettere il
presidente del consiglio nonché ministro degli interni
Valenglay, ma fintanto che porterà bei pensieri e leggerezza
sarà senza dubbio benvenuta.
Distogliendo
lo sguardo dal panorama che si può ammirare dalla sua
finestra, china un poco la testa sulla propria scrivania poco
distante e sospira esasperato: un altro stupido rapporto dalla
Sûreté, e può scommettere le sue entrate di un
anno che si tratta, di nuovo, di quel seccante ladro da strapazzo e
delle sue prodezze che tanto divertono il popolo. Ed è proprio
questo il problema maggiore; il prefetto Machaux può dire ciò
che vuole al riguardo, ma sprecare tanto personale e denaro pubblico
per correre dietro a una testa calda che piace alla gente non è
affatto un buon affare, economicamente e politicamente parlando.
«Che
diamine avrà combinato questa volta?» si chiede, un poco
amareggiato per essere stato distolto dal proprio studio del
benessere della comunità.
Nulla
di più facile, del resto, che togliere il sigillo apposto
dagli uffici della Sûreté per scoprirlo. Questo è
ciò che suo malgrado si appresta a fare, salvo pentirsene
nemmeno tre minuti dopo, intento a sorbirsi gli sproloqui di quel
borioso del prefetto, oltre che le spiegazioni prolisse e noiose
dell'Ispettore Capo.
«Buon
Dio, che perdita di tempo, che perdita di denaro, e che perdita del
già scarso prestigio di cui godono» lamenta, sapendo di
parlare unicamente a sé stesso, poiché si trova solo
nel suo ufficio. «Farei prima ad assumere questo tizio. Molto
probabilmente mi costerebbe meno che cercare di metterlo dietro le
sbarre e poi mandarlo al patibolo. Chissà» borbotta,
rimuginando sui suoi progetti con tutta probabilità
irrealizzabili.
***
In
un altro edificio e in un differente ufficio il prefetto Machaux sta
facendo una lavata di capo all'Ispettore Capo, reo d'essersi lasciato
sfuggire, lui e la sua squadra al completo, il ricercato per
l'ennesima volta, l'ultima di una serie apparentemente infinita.
«Signor
prefetto, quell'uomo è una specie di demonio. I miei ragazzi
non...» tenta di spiegare le proprie ragioni Justin Ganimard.
«Avete
detto giusto: quell'uomo.
Ed essendo egli un comune mortale esiste di certo un modo per
sbarazzarcene una volta per tutte. Bisogna togliercelo di torno. È
semplicemente oltraggioso che si diverta alle nostre spalle! La gente
ride di noi!» si accalora il prefetto.
L'Ispettore
china la testa a ogni invettiva un poco di più, e si morde la
lingua per evitare di rispondere a tono e dire apertamente ciò
che pensa del problema, se poi di tale si tratta.
«Il
Crédit Lyonnaise! È inammissibile! Chi rimborserà
la perdita? Voi, forse? No di certo, siete solo un poliziotto»
esclama Machaux.
Il
suddetto poliziotto sta per insultare il prefetto, poi ci ripensa e
annuisce, tenendo per sé anche quello. E si augura vivamente
che non ne abbia ancora per molto, perché non è per
nulla certo di quanto spazio gli rimanga ancora in testa per tenerci
tutto quel che vorrebbe fargli sapere.
«Che
accidenti state aspettando, dunque? Andate, marsch! Radunate i vostri
uomini (quelli che non hanno qualche osso rotto) e trovate quel
pagliaccio!» sbraita il prefetto, concedendogli con queste
ultime parole il permesso non scritto di poter lasciare il suo
ufficio.
Ganimard
sospira, indicibilmente grato per quella concessione dell'ultimo
minuto, e approfitta al volo dell'occasione per correre letteralmente
fuori da lì e tornare fra le persone ragionevoli.
***
La
fa facile, Machaux. Fosse per lui dovrebbero presentarsi in forze
alla porta di un cittadino francese, con il mandato, e chiudergli i
polsi nelle manette per poi trascinarlo alla Maison d'arrêt de
la Santé. Che ci vuole? Lo sa lui cosa ci vuole: trovarlo,
prima di tutto. Pensa forse, il signor
prefetto perfetto,
che quel furfante abbia una targhetta d'ottone a fianco della porta
con sopra scritto “Arsène Lupin: ladro, scassinatore e a
tempo perso rubacuori”? Nemmeno per sogno. Seguire la sua pista
è una parola, soprattutto considerando che di rado lascia
tracce, e quelle che lascia sono ormai vecchie e inutili. Il
prefetto, forse, crede di poterlo anticipare sul tempo. Ma chi può
sapere quali siano le sue intenzioni? Scommette che nemmeno la sua
banda venga messa al corrente dei dettagli con troppo anticipo. Le
uniche occasioni in cui la polizia è venuta a conoscenza di
una delle sue malefatte prima che accadesse si sono verificate in
concomitanza di progetti enormi: castelli, musei, banche, tutti
obbiettivi veramente molto complicati da proteggere, in particolare
perché l'operazione della polizia viene giocoforza organizzata
all'ultimo minuto, mentre quella del ladro deve essere stata
pianificata chissà quanto tempo prima, e nei minimi dettagli
per giunta.
«E
allora? Che cosa possiamo fare noi altri?» pensa l'Ispettore,
prelevando la copia di un quotidiano di quella mattina e cercando
indizi, qualcosa,
un'idea qualsiasi che lo porti sulla via giusta per acciuffare quel
farabutto.
Scuote
la testa e sospira. Che poi, anche chiamarlo in quel modo non è
del tutto corretto. In fondo non ha mai ammazzato nessuno, finora, e
neppure derubato gente che a malapena rimane in piedi con il proprio
lavoro. Sì, però è una gran spina nel fianco, e
in una cosa il prefetto Machaux dice il vero: si burla di loro,
ovvero dell'autorità, facendoli passare per deficienti e
incapaci. Non che abbia tutti i torti; molti, lì dentro, lo
sono senz'altro. Però, però non va bene! Che lo
sappiano alla Sûreté è un conto, ma che lo sappia
tutta la Francia non è tollerabile. E quel maledetto in più
si paga perfino gli articoli sul suo giornale; sì, suo,
perché Ganimard non crede affatto che un redattore che non sia
stipendiato si prodighi a cantare le lodi di chicchessia, che si
tratti di un ladro oppure di un deputato.
«Maledetto
Lupin. Bisogna finirla con questa farsa» brontola, sbattendo il
giornale spiegazzato sulla propria scrivania e lanciando sguardi
irritati all'intorno, scorgendo gente che tenta di fare il proprio
dovere, pur senza sapere necessariamente da che parte girarsi, in
mancanza dell'indicazione giusta. La deve proprio trovare lui,
quell'indicazione, a questo punto. «Allora, dove sei?».
«Capo?»
chiede la voce confusa di uno dei suoi uomini che sta passando lì
accanto in quel momento.
L'Ispettore
scuote una mano, a indicargli di lasciar correre, ché sta solo
cercando di mandarsi in fumo il cervello nella speranza di trovare la
soluzione che faccia al caso loro. Quello se ne va, ben felice di
lasciare al superiore la patata bollente.
***
Trascorre
più d'una settimana senza che nulla si muova. Il prefetto
Machaux, nel suo ufficio arroccato, ha i nervi a fior di pelle. Per
contro gli agenti girano più rilassati, a volte con sorrisi e
battute di spirito, quasi non abbiano un solo pensiero per la testa
(e Ganimard sospetta che non sia tutta un'impressione). Dal canto
suo, non passa giorno che non spulci giornali (soprattutto l’Écho
de
France,
ovvero il giornale di Lupin), lettere di segnalazione, persino
riviste ché non si può mai sapere quale sarà
l'ultima trovata del ladro latitante; purtroppo non sembra esserci
alcuna novità, e il suo ricercato continua a esserlo e a non
essere rintracciabile.
Questa
situazione permane fino a un pomeriggio nel quale un dispaccio dalla
cittadina di Épinay-sur-Seine lo avvisa che si è
verificato un incidente strano presso la dimora della famiglia
Yvelain. L'incidente è la scomparsa di un tavolo assieme a
tutte le sue dodici sedie. Ganimard s'imbroncia, digrigna i denti,
sbatte malamente la missiva sulla scrivania e solleva le braccia al
cielo, esasperato.
«Un
tavolo! Che il diavolo lo prenda: cosa diamine dovrebbe farci con uno
stupido tavolo?» sbotta.
Ma
non si sofferma a lambiccarsi troppo. Invece si alza dalla sedia,
afferra la lettera stropicciata e parte a passo di marcia per
reclutare un po' di gente da portare su al nord per indagare su
questo affare. Tanto che altro hanno da combinare quei perdigiorno?
Quasi
due ore dopo, con tutta la sua squadra ammassata dentro un carrozzone
cellulare, giungono infine sul posto. L'ispettore dispone i suoi
uomini in modo da sorvegliare la villa sui quattro lati e il terreno
circostante, mentre lui si fa annunciare ai padroni di casa e viene
accolto dalla signora Yvelain in persona, che lo guida attraverso
l'atrio luminoso fino al salone secondario, dove di norma vengono
serviti i pasti e dove, una volta entrato, Ganimard si rende ben
conto dell’effettiva mancanza del tavolo e delle sedie.
«Che
cosa avevano, di particolare?» domanda alla donna, i cui grandi
occhi nocciola lo guardano come fossero perennemente sorpresi.
«Ma
nulla, signor Ispettore. Erano mobili normali. Forse giusto un poco
vecchi. Sono stati acquistati all'asta solo il mese scorso; ci era
parso un affare, poiché questa sala è stata appena
restaurata e aveva bisogno di essere arredata. Quindi mio marito e io
siamo stati in giro per fiere e antiquari così da trovare dei
mobili adatti. Vedete, Ispettore, per esempio quella credenza, laggiù
nell'angolo? Non è un amore?» trilla la signora, i cui
occhi sempre sorpresi ora mostrano anche compiaciuta eccitazione.
Ganimard
si gratta la testa e borbotta parole inintelligibili, affatto
interessato ai mobili che ci sono ancora, invece curioso di capire
perché, se quelli sono ancora lì, lo stesso non si può
affermare del tavolo con tutte le sedie.
Ma
quando si azzarda a chiedere se, oltre alla loro scomparsa, hanno
rilevato altri ammanchi, la signora, tutta giuliva, esclama «Ah,
no! Anzi, ci pensate che abbiamo trovato, in mezzo a questa stanza
proprio al posto del tavolo scomparso, un assegno? La stessa cifra
che abbiamo pagato per acquistarlo, figuratevi un po’ voi».
L'Ispettore
grugnisce, e mentre tenta come può di non insultare la povera
donna che tutto sommato non ha colpe al suo attivo, maledice invece
dentro di sé quell'uomo malefico e le sue idee scellerate.
Dopo
aver setacciato la sala, nella speranza di trovare qualche indizio ma
senza avere tale fortuna, si congeda dalla padrona di casa con un
inchino e la promessa di fare il possibile, se non per riportare loro
la mobilia per lo meno per indicargli il destino occorso a quel
tavolo e quelle sedie sfruttate così poco. E andandosene,
mentre raduna la sua squadra, scuote la testa immaginando si
trattasse di qualche pezzo d'antiquariato che i coniugi avevano
scambiato per vecchiume e che con tutta probabilità verrà
acquistato da qualche riccone d'oltre oceano per dieci volte il suo
prezzo di partenza.
***
Scoraggiato
e stanco per l’uscita infruttuosa, Justin Ganimard si appresta
a mettere ordine nelle sue carte in ufficio per poi tornarsene a
casa, dove troverà, forse, la cena lasciata in caldo per lui
dalla governante. Se non che, poco prima di lasciare la Sûreté,
un agente giovane e magro come un chiodo gli corre incontro con una
faccia che non promette buone cose. La sua sorpresa è quindi
grande nel momento in cui scopre che, al contrario, la notizia è
delle migliori: non solo è giunta una nuova segnalazione circa
possibili movimenti del ladro, ma addirittura sembra sia stato
avvistato. Le labbra dell’Ispettore hanno un guizzo improvviso
e i suoi occhi si animano di speranza.
«Questa
è la volta buona» si ripete, forse nel tentativo di
convincersi e motivarsi, mentre va a caccia di altri uomini da
trascinare con sé.
In
base alla segnalazione ricevuta, pare che il ricercato si trovasse
nei pressi dei magazzini di Saint Georges, potrebbe perfino
trovarcisi ancora, con una parte della sua banda. Ganimard ha un
brivido violento al pensiero di poterglisi presentare tanto vicino, e
seduto sullo scomodo sedile del cellulare non riesce a stare fermo,
preso da frenesia e impazienza nonostante l’orario tardo e la
faticosa giornata che ha alle spalle.
«Ispettore»
lo interpella il sergente Sorier al proprio fianco, «ma se poi
lo ritroviamo davvero dove dicono, che facciamo?».
Ganimard
gli affibbia un’occhiata urticante. «Imbecille. Se ci
capita sotto le mani lo acciuffiamo e non lo molliamo fino a che non
arriviamo alla prima cella disponibile e ce lo chiudiamo dentro a
doppia mandata».
Il
sergente lo fissa con occhi grandi e disorientati, sembrando più
sconvolto che sorpreso. «Veramente? E voi dite che ce la
facciamo?».
L’Ispettore
assottiglia le labbra in una smorfia irritata. «Fa’ una
cosa, sergente: smetti di pensare e organizzati per eseguire i miei
ordini».
«Signorsì,
capo!».
Ecco
fatto: tutta la sua eccitazione andata in fumo per colpa di quello
stupido di un sergente. È deprimente pensare che la maggior
parte dei suoi uomini, probabilmente, si immaginano di doversi fare
tutta quella strada solo per scontrarsi con un nulla di fatto, senza
neppure stare a chiedersi se sia possibile avere la meglio. “Sciocchi
creduloni” pensa. “Non si saranno per caso fatti l’idea
che abbiamo a che fare con una specie di mago o demonio, spero”.
Quell’idea ha dell’inquietante. Si chiede se, in tal
caso, messi di fronte alla materializzazione dei loro incubi
decideranno di seguire le sue direttive o preferiranno darsela a
gambe levate.
Giunti
infine nella zona indicata, all’incrocio fra la via che porta
ai mercati generali e quella che conduce alla stazione di
Saint-Lazare, il cellulare rallenta e affianca una guardia appostata
sulla strada. Questa si porta accanto ai finestrini del veicolo e
l’Ispettore si sporge per avere notizie.
«Ispettore»
esordisce la guardia con un impeccabile saluto ufficiale. «Uno
degli agenti di pattuglia, non più di dieci minuti fa, ha
potuto vedere movimenti sospetti attorno alla galleria d’arte»
spiega, indicando con il braccio teso un palazzo alto e di
bell’aspetto, accanto a boutiques rinomate.
«Quanti
erano?» si informa Ganimard.
«Ne
sono stati individuati cinque. Potrebbe esserci qualcun altro che già
si trovava all’interno, tuttavia» azzarda la guardia.
L’Ispettore
annuisce e gli fa segno di raggiungere la sua squadra mentre lui
istruisce i suoi uomini e poi li fa scendere per farli appostare in
posizioni adeguate a sorvegliare tutte le uscite del palazzo. Lui
stesso si porta a ridosso dell’entrata principale e dà
un’occhiata all’interno, senza però riuscire a
vedere alcunché di significativo. Respira a fondo, trattenendo
l’agitazione. Il prefetto Machaux ha parlato di liberarsi
della seccatura,
ma la seccatura in questione va catturata con la rete da pesca, non
con l’arpione, ché bisogna tenerselo intero per fargli
snocciolare un po’ dei suoi intrallazzi, e se lo impallinano
avranno un Lupin impagliato, ma niente banda e niente refurtiva.
Si
sta facendo tardi, e sono già cinque minuti e più che
passeggiano senza vedere una sola sagoma dotata di due braccia e due
gambe che non abbia anche la divisa della Sûreté. E
mentre cammina nella penombra dei corridoi della galleria, Ganimard
si blocca e sgrana gli occhi, folgorato dalla consapevolezza.
«Oh,
per il demonio! La guardia!». E mentre si dà
dell’imbecille da solo corre fuori e cerca febbrilmente con lo
sguardo nei dintorni del palazzo ma, come c’era da aspettarsi,
il furfante s’è già belle che dileguato, e con
lui anche i suoi complici e tutto quello che ha reputato di suo gusto
e degno d’essere portato con sé.
Ma
quel che è sicuro è che questa volta non si arrenderà
così facilmente. Non possono poi essere andati così
lontani, e prima di entrare nella galleria lo ha visto dirigersi
verso Batignolles, probabilmente con il progetto di oltrepassare la
Senna e dileguarsi poi in qualcuno dei suoi rifugi, quindi è
là che andrà anche lui con i suoi uomini, e troverà
il modo di tornare sulle sue tracce.
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Capitolo 2 *** Un sorriso incrinato ***
02
-
Un sorriso incrinato
Stipati
i suoi uomini per l’ennesima volta nel cellulare, l’Ispettore
lancia un grido di avvertimento al conducente, il quale sprona i
cavalli facendo ripartire il veicolo di gran carriera. I cittadini,
quella sera, non saranno granché soddisfatti della trovata
dell’ultimo minuto dei tutori della legge di Parigi; tutto il
fracasso del cellulare sul lastricato sveglierebbe anche i loro
antenati. Ma Ganimard ha deciso di non lasciare nulla di intentato e
di ripresentarsi l’indomani a testa alta di fronte al prefetto,
che intenda come sempre ingiuriarlo per gli insuccessi degli agenti
sul campo oppure congratularsi con lui.
Il
cellulare corre veloce e oltrepassa Batignolles, dirigendosi con
decisione verso le rive della prima ansa della Senna. L’Ispettore,
la testa fuori dal finestrino e gli occhi lacrimanti per l’aria
fredda che lo investe, si ostina a fissare la strada che percorrono e
i dintorni nella speranza di intravvedere ombre sospette. Incredibile
a dirsi, ormai a poche lunghezze dal primo ponte, quello di
Saint-Ouen, riesce davvero a scorgere qualcosa e lo indica con
fatica, dato il gran fracasso, al conducente, il quale,
sorprendentemente, ottiene un ulteriore aumento della velocità
proprio mentre la carrozza che Ganimard ha scorto svolta oltre il
ponte prendendo la strada a sinistra in direzione, pare, di Nanterre.
Quando
anche loro si ritrovano sul ponte e l’Ispettore si sporge
ancora finendo quasi per metà fuori dal cellulare, un secondo
veicolo, che somiglia piuttosto a un piccolo cocchio biposto scoperto
trainato da due corsieri, compare sul suo orizzonte, già ben
lontano ma sembrando intenzionato a riportarsi verso il primo, una
carrozza a sei posti. Ganimard aggrotta le sopracciglia e cerca di
immaginare le intenzioni del conducente; tuttavia non ne trova
neppure il tempo perché ben presto le intenzioni si rendono
palesi e il suo, di conducente, è costretto a frenare
bruscamente e trattenere i cavalli, spaventati dal rapido passaggio
dei due corsieri che per un soffio non si sono scontrati con il
cellulare e tutta la squadra ivi contenuta.
Ganimard
ringhia e bestemmia, affacciandosi pericolosamente al finestrino e
scuotendo il pugno in direzione del pazzo conducente, il quale poi
altri non può essere se non l’uomo che cercano da mesi
senza mai riuscire a mettergli le mani addosso.
«Dannato,
fermatevi! Siete in arresto! Mi avete sentito?» sbraita
l’Ispettore, sporgendosi fin che osa dal finestrino e fissando
truce il piccolo veicolo che sta facendo ammattire i loro cavalli.
«Prima
dovreste acchiapparmi, amico Ganimard!» ribatte in tono allegro
il ladro, ridendo della furia impressa sul viso dell’Ispettore.
«Vedrete!
Vedrete se non lo faccio» minaccia Ganimard, insultando al
contempo il proprio conducente e intimandogli di riprendere il
controllo delle loro cavalcature e tornare all’inseguimento del
ricercato.
Ha
anche estratto la sua pistola, ma senza osare servirsene poiché
quello sfrontato si muove con troppa velocità e senza una
logica; se provasse a prendere la mira in quelle condizioni, con la
fortuna che si ritrova finirebbe per farlo secco. Invece, esasperato
dalla situazione, alla fine decide di rimettersi in tasca l’arma
e si trascina verso lo sportello, intenzionato a scendere, nonostante
il veicolo abbia ripreso la marcia, seppur a fatica. I suoi uomini
cercano come possono di trattenerlo all’interno, giudicando la
sua idea una completa pazzia e non a torto, ma l’Ispettore
appare irremovibile e quando ritiene che il momento sia propizio
spalanca lo sportello e, per fortuna o abilità nessuno mai
potrà stabilirlo, il suo slancio lo porta ad atterrare sulla
parte frontale del cocchio.
«Accipicchia,
bel salto, Ganimard!» esclama Lupin, ammirato e divertito dalle
prodezze del suo poliziotto preferito. «Che caro, siete venuto
a trovarmi? Sono lusingato. Per ringraziarvi vi regalo un bel giro
panoramico del quartiere sul mio mezzo, vi va?» propone
allegro.
Senza
attendere replica, che forse neppure giungerebbe data la situazione
precaria dell’Ispettore, sprona i suoi corsieri e li dirige di
nuovo verso la riva della Senna più vicina, ovvero il centro
della prima ansa e con essa l’Île Saint Denis, e nel
farlo taglia di nuovo la strada del cellulare con il risultato di
spaventarne ulteriormente i cavalli e rallentare la squadra di agenti
al completo.
«Fermatevi!»
gracchia Ganimard, appollaiato in modo instabile nello stesso punto
in cui è atterrato. «Vi ordino di fermarvi
immediatamente».
Lupin
ride, sembrando felice come un bambino. «Ma, amico mio, non
vorrete perdervi le bellezze della notte parigina. Guardate»
indica, costeggiando il lungofiume a velocità proibitiva, «le
stelle riflesse sull’acqua scura brillano doppiamente. Non è
una meraviglia?».
Justin
Ganimard grugnisce e, piano piano, tenta di guadagnare una posizione
più sicura e magari che gli permetta di avere accesso a quel
furfante proprio lì accanto. Ma con gli scossoni del veicolo e
la rapidità con la quale procedono l’operazione non si
rivela affatto semplice. E le dita, già piuttosto intirizzite,
gli si stanno ora congelando per bene e perdono sensibilità e
aderenza. Di quel passo finirà con il ritrovarsi a scivolare
sotto le ruote del cocchio; una conclusione per nulla attraente. Con
un poco di fatica si guarda attorno scoprendo, senza neppure
eccessiva sorpresa, che il ladro ha ormai facilmente distanziato il
cellulare. Si augura che, se non altro, i suoi uomini abbiano preso
in considerazione l’idea di tornare all’inseguimento
della prima carrozza, più lenta e quindi più facile da
inseguire. Per lo meno in quel modo qualcuno potrebbe forse avere
l’opportunità di portare a casa un qualunque risultato
che non siano altre ossa rotte e la solita, perenne umiliazione.
«Per
Dio, fermate questo aggeggio infernale» rantola, oramai
stremato e pronto all’imminente resa.
Curiosamente
questa volta avverte il veicolo rallentare in modo progressivo ma ben
percepibile e si sorprende nel constatare che, per motivi che ignora
del tutto, Lupin deve aver deciso di venire incontro alle sue
preghiere. Chissà, forse ha avuto pietà di lui. Sospira
dentro di sé e si rassegna perché, sia come sia, almeno
la pelle per questa volta la riporterà a casa. È anche
quello un risultato, seppur non fra i più brillanti.
Ora
il piccolo veicolo è fermo a bordo strada e può
distintamente udire lo sciabordio dell’acqua accanto a loro;
devono quindi essersi fermati sul fianco del fiume e, quando solleva
gli occhi con prudenza, nota che si trovano proprio accanto alle
radici del Pont d’Argenteuil, in un piccolo Quai a pochi passi
dall’Avenue d’Argenteuil. Con un po’ di fatica si
lascia scivolare giù dal cocchio e, messi i piedi sul solido
lastricato, le ginocchia non lo sostengono e finisce con il
fondoschiena a terra. Il suo grugnito di contrarietà e stizza
viene in parte coperto dalla risata argentina del giovane uomo che si
trova in sua compagnia.
«Dovrei
mettervi sotto chiave solo per questo» borbotta.
«Per
che cosa, Ganimard?».
«Per
questa vostra cattiva abitudine a ridere di me e delle mie
disgrazie».
«Potreste
farlo anche voi, amico mio, ma non sembrate il genere di persona che
può divertirsi per così poco, dico bene?».
L’Ispettore
solleva lo sguardo e ritrova di fronte a sé quello divertito
del ladro. Scuote la testa. Ha ancora con sé la sua pistola;
potrebbe usarla, almeno per tentare di obbligare quel furbastro a
seguirlo alla centrale del Quai des Orfèvres. Chissà se
prenderebbe sul serio la sua intimazione, si domanda perplesso.
«Tiro
a indovinare, signor Ispettore: volete arrestarmi» si burla di
lui Lupin.
«Potrei»
tentenna Ganimard.
«Errore.
Potreste provarci» lo corregge, senza tuttavia rinunciare al
suo sorriso.
Sì,
è vero: potrebbe provarci. Dunque, perché non farlo?
Decide. Estrae di tasca la pistola e gliela punta contro. Le labbra
di Lupin si socchiudono di stupore e i suoi occhi si sgranano appena.
Non accenna a muovere un passo, ma sulla sua bocca il sorriso ha
assunto una sfumatura un poco amara. Scosta le braccia dal corpo e le
allarga davanti al poliziotto, come ad afferrare l’aria attorno
a sé.
«Vorreste
spararmi, Justin Ganimard?» chiede con sarcasmo, scuotendo la
testa. «A che scopo? Che utilità ne trarreste? E poi…
io non ho armi con me, Ispettore. Come credete di potervi
giustificare?».
Ganimard
è confuso. Forse ha davvero voglia di sparargli e farla finita
una volta per tutte con quell’uomo, con le sue irritanti prese
in giro, con tutti i guai che crea alla loro Francia. Sì, ma
dopo? Lui ha ragione: in che modo passare sopra al fatto di aver
ucciso a sangue freddo un uomo disarmato? Fingendo che non sia
accaduto? Rinserra le labbra con disappunto e, lentamente, abbassa le
braccia e l’arma che ancora trattiene fra le mani.
«È
vero: non sono un assassino» ammette, incerto se sentirsi
sconfitto oppure soddisfatto.
«Neppure
io lo sono, amico Ganimard» commenta, allungando una mano per
offrirgli un aiuto a rimettersi in piedi. «Comunque, i miei
complimenti: è stato davvero un tuffo spettacolare»
rimarca, non riuscendo a fare a meno di prendersi gioco di lui.
L’Ispettore
sbuffa. «Molto divertente» bercia stizzito, facendo leva
sulle ginocchia e aiutandosi con l’appoggio della mano
dell’altro per alzarsi da terra.
Proprio
nel momento in cui ci è quasi riuscito, Ganimard nota che il
solito sorrisetto sfrontato del ladro si è incrinato e negli
occhi l’allegria ha lasciato il posto, in modo repentino quanto
inatteso, alla costernazione, mentre all’apparenza fissa un
punto lontano oltre il ponte accanto al quale sono fermi.
«Cosa…?»
tenta di chiedere, impensierito dal drastico cambio d’umore del
giovane uomo in sua compagnia.
Non
ne trova però il tempo perché, giusto mentre la sua
schiena e le sue spalle si stanno definitivamente raddrizzando, Lupin
torna con lo sguardo su di lui e ciò che può vedere è
paura e sgomento. Prima ancora di udire la sua voce concitata e
allarmata, avverte le sue mani su di sé che lo afferrano con
forza per il bavero e lo sospingono di nuovo a terra.
«Attenzione!
Giù!» grida, trascinando di nuovo sul lastricato
l’Ispettore e con lui sé stesso.
Nel
tempo che impiegano ad atterrare malamente al suolo, l’Ispettore
ode tre detonazioni, quasi in contemporanea, giungere da una certa
distanza, forse l’altra sponda del fiume. Un singulto sfiatato
fuoriesce dalle sue labbra, poi digrigna i denti mentre tenta di
recuperare l’arma finita a terra poco distante da sé. La
ricaduta al suolo non è stata fra le più piacevoli e
avverte il dolore pulsare un po’ ovunque tranne alla testa, il
che probabilmente è un bene, almeno se la caverà senza
bernoccoli, ma certo l’indomani dovrà contarsi i lividi
di quell’avventura all’apparenza infinita.
Intanto
la prima domanda che gli salta per la mente è: chi ha sparato?
E la seconda, di conseguenza: a chi era diretto? Prova a
risollevarsi, qualche istante dopo aver sbattuto il fondoschiena per
la seconda volta, ma le mani che ce lo hanno spinto lo trattengono
con forza e decisione.
«State
giù, sciocco poliziotto. Volete proprio farvi ammazzare?»
soffia accanto a lui la voce alterata di Lupin, seguita da un lieve
gemito.
«Amici
vostri?» si informa l’Ispettore.
Uno
sbuffo. «Secondo voi sono tanto fesso da circondarmi di amici
che mi sparano alle spalle alla prima occasione?» ribatte
contrariato.
«Non
si sa mai. Miei non sono di certo» borbotta Ganimard. Un
secondo gemito gli giunge alle orecchie. Il corpo sopra il suo ha un
fremito. Ganimard aggrotta la fronte e curva il collo per tentare di
vedere con più chiarezza e capire in che situazione si
ritrovano. «Ragazzo, tutto a posto?» chiede a quel punto,
benché abbia qualche dubbio che lo sia veramente.
«Stavo
meglio prima. E non mi chiamate ragazzo» borbotta Lupin.
«È
quello che siete, dopo tutto. Che succede? Vi hanno ferito?».
«Pare
di sì» soffia, rabbrividendo.
Quella
risposta ha come infausta conseguenza di metterlo ancora più
di cattivo umore di quanto non fosse stato fino a quel momento. Dato
che ha intenzione di fare un poco di luce sul problema che
attualmente li affligge, lascia perdere per il momento la sua
pistola, ancora dispersa da qualche parte lì accanto e, con
incerta cautela, afferra in una presa ben salda gli abiti del ladro e
se lo scosta appena di dosso voltandosi e rigirandolo di schiena. La
prima cosa che nota è il repentino e insano pallore che spicca
sul viso dell’altro; la seconda, dopo averlo scandagliato con
gli occhi, è l’ampia macchia rossa che si va allargando
con preoccupante rapidità sulla sua coscia sinistra.
«Santiddio»
esclama, scosso dalla scoperta e dalla vista.
Esaurita
la brutta sorpresa iniziale, lascia perdere ulteriori parole e,
sempre rimanendo accucciato dietro il parapetto del ponte per evitare
di far da bersaglio a chiunque ci sia sull’altra sponda, si
slega la cravatta e se la sfila dal collo.
«Ispettore»
mugola Lupin, cercando di muoversi per capire cosa accade.
«Fermo.
Restate fermo lì, ragazzo».
Il
ladro si lascia sfuggire una smorfia infastidita, ma per una volta
(probabilmente la prima e forse l’ultima) nella sua vita decide
di dar retta alle richieste di quell’uomo. Ganimard solleva di
poco la gamba ferita di Lupin, ottenendo un sussulto e un gemito, e
vi avvolge la propria cravatta attorno, poco sopra il punto colpito,
e lì la lega stretta augurandosi che sia sufficiente a
rallentare la perdita di sangue abbastanza a lungo perché
possa trasportarlo all’ospedale. Rimane il problema di quella
gente che gli è ancora sconosciuta ma che non dubita sia in
agguato pronta a impallinare anche lui com’è accaduto al
suo attuale compagno di sventure. Forse sono abbastanza fortunati da
poter ricondurre a loro la squadra che era al seguito dell’Ispettore,
sempre che non sia dispersa in qualche angolo non accessibile di
Parigi, ancora sulle tracce del primo veicolo. Ma deve tentare; se
non risponderanno i suoi uomini, magari lo farà un qualche
agente di pattuglia. Il risultato finale sarà comunque l’aver
attirato l’attenzione di qualcuno che possa venire in loro
soccorso.
Si
china un poco sul giovane uomo al suo fianco. «Ora provo a
richiamare indietro i miei ragazzi, d’accordo? Voi, per l’amor
del cielo, non vi agitate».
Ganimard
non è affatto sicuro che Lupin lo abbia compreso, o anche solo
udito se è per questo; ha un’aria un po’ spaesata
e vacua, di quelle che non ha mai avuto l’opportunità di
vedergli in faccia fino a quel momento. Ma deve sbrigarsi; la sua
indecisione non può certo giovare alle pessime condizioni
dell’altro. Fruga con una mano sotto il colletto della camicia
e ne estrae un fischietto che raccoglie fra le labbra. Sta per dar
fiato ai polmoni, quando un dubbio lo assale. Allora si riaccosta al
ladro e poggia saldamente i palmi delle mani contro le sue orecchie,
quindi solleva il viso al cielo, chiude gli occhi e un fischio acuto
e lacerante trapassa l’aria altrimenti immota e fredda della
città. Lo fa a più riprese, non avendo idea di dove
possa trovarsi in quel momento la sua squadra, né se abbia la
possibilità di sentirlo.
Poco
meno di due minuti dopo, a corto di fiato e di pazienza, scruta la
notte con ansia e premura, fino a che non ode dei passi affrettati
diretti verso di loro. Un mugolio, accanto, lo avvisa che il suo
compagno è ancora vivo, ma per nulla felice di ritrovarsi in
quel posto assieme a lui. I proprietari dei passi si rivelano essere
una guardia piuttosto anziana e un segaligno piantone notturno che li
stanno raggiungendo, ma quando sono a pochi passi dal lasciare la
piccola via dalla quale provengono la voce dell’Ispettore
intima seccamente loro di fermarsi dove sono.
«Siamo
caduti in un’imboscata, credo. Dall’altra parte del fiume
ci sono persone armate di fucili che ci hanno sparato addosso e hanno
colpito il mio compagno» spiega, temendo che avvicinandosi,
impreparati come sono, finirebbero solo con il complicare una
situazione già di per sé difficile.
«Che
si fa, allora?» chiede giustamente il più giovane,
evidentemente poco disposto a starsene con le mani in mano dopo
essere arrivato fin lì.
Ganimard
riflette sulle loro possibilità. Il piccolo veicolo di Lupin è
ancora nei paraggi; i due corsieri si sono allontanati di poco,
giusto per mettersi al riparo dalla gente intenzionata a sparare loro
addosso, ma a quanto pare abbastanza addestrati da non darsela a
gambe levate alla prima difficoltà. Un’idea fa capolino
nella sua testa, ma dipende soprattutto da ciò che sono
disposti a fare i loro due soccorritori.
«Siete
armati?» si informa prima d’ogni altra cosa.
Entrambi,
con sua somma soddisfazione, rispondono in modo affermativo. In più
sono abbastanza svegli da averlo identificato in quanto ufficiale di
grado superiore, e questa fortuna gli permetterà di certo di
risparmiare tempo e fastidi inutili.
«Ottima
notizia» decreta. Si volta un momento a controllare le
condizioni del ladro, notando che il suo respiro si è fatto
più affrettato, a tratti erratico. «Qui le cose vanno
male: hanno sparato a questo ragazzo e lo devo portare al più
presto a farlo medicare, o finisce che mi ritrovo con un morto
ammazzato sulla coscienza. Sareste in grado, voi due, di fornirmi una
copertura, mentre recupero quel cocchio e corro in ospedale?»
spiega, indicando il veicolo fermo a poca distanza.
I
due si consultano per breve tempo, gettando ulteriore angoscia
sull’Ispettore, costretto immobile al riparto del parapetto.
Infine, con suo enorme sollievo, annuiscono e si predispongono a
tenere impegnate le canaglie che non aspettano altro che una mossa
falsa da parte sua. Dopo averli opportunamente istruiti,
assicurandosi che una volta fuori tiro si mettano anche loro al
riparo, magari avvertendo le autorità del quartiere, si
appresta a ripartire. Prima, però, decide di capire a che
punto si ritrovano; così in fretta scioglie il fazzoletto
bianco che Lupin porta legato al collo e lo getta in aria sopra le
loro teste. Con suo profondo sgomento questo viene immediatamente
fatto a brandelli da una raffica di proiettili di fucile. A quanto
sembra, chiunque ci sia laggiù è ben deciso a non
farseli scappare; non tutti interi né sulle proprie gambe, per
lo meno.
Con
un poco di impaccio, vista la scomoda posizione che deve tenere,
Ganimard si carica sulla spalla sinistra Lupin, recupera nella mano
destra la propria pistola e dà un rapido segnale con la testa
ai due uomini appostati dietro l’angolo, i quali si sporgono
quel tanto che basta da poter mirare e aprono il fuoco, tenendo
impegnati quelli con i fucili. Nello stesso momento l’Ispettore
si slancia oltre il parapetto, tenendo gli occhi e l’attenzione
ben fissi sul loro unico mezzo di trasporto nonché possibilità
di salvezza, e nel momento in cui lo raggiunge sente di essere a buon
punto, molto prossimo a portare a compimento la propria missione.
Strana idea, considerando che in teoria la sua missione era, da
principio, quella di acciuffare il ladro e portarlo al fresco. Come
cambiano in modo repentino certe prospettive, si riscopre a pensare.
Carica
con prudenza il ladro sul veicolo, accertandosi che sia al sicuro e
che non possa farsi ulteriormente del male durante il viaggio,
dopodiché prende posto a cassetta e sprona i due corsieri, i
quali partono con uno scatto deciso che fa impallidire il povero
Ispettore, avvezzo a certe bestie di poco più veloci di lui.
«Buon Dio, se non ci ammazziamo questa volta giuro che, finita
questa giornata, entro nella prima chiesa e accendo un cero di
sentiti ringraziamenti a chi di dovere» promette solennemente a
sé stesso.
Diretto
all’Hôtel-Dieu a una velocità cui non è
affatto abituato, di tanto in tanto si volta all’indietro per
controllare che il passeggero sia ancora a bordo o che non sia invece
stato sbalzato fuori dagli scossoni, soprattutto che non abbia subito
ulteriori danni, considerando che le strade percorse fino a quel
momento non sono delle migliori per preservare le ossa integre.
L’ultima di queste osservazioni lo fa fremere d’ansia; se
fino a quel momento il ragazzo era sembrato deciso a tenersi
aggrappato al sedile sul quale viaggia nonché alla sua pelle,
ora è fuor di dubbio privo di sensi e il braccio posizionato
all’esterno pende fino a toccare il pianale del veicolo.
Digrigna i denti e, in barba al terrore cieco che prova nel vedere il
paesaggio scorrere troppo rapidamente sotto il suo sguardo, sprona
ulteriormente le cavalcature, deciso a giungere il prima possibile a
destinazione.
Quando
infine vi approdano, le ginocchia di Ganimard tremano in modo vistoso
mentre scende da cassetta e, con passo malfermo, raggiunge la parte
posteriore del veicolo per recuperare il suo passeggero. Prima di
fare ciò prende alcune, profonde boccate di aria nel tentativo
di calmarsi, così da evitare di farselo sfuggire di mano a
causa della fifa. Nel momento in cui si decide ha però una
brutta sorpresa: non solo è svenuto, ma respira a malapena ed
è di un pallore spettrale.
«Non
fare scherzi, dannato ragazzino» sbotta, issandolo fra le
braccia senza troppi complimenti e salendo ad ampie falcate la
scalinata dell’edificio.
Un
momento dopo aver guadagnato l’atrio manda un urlo di
avvertimento, senza peraltro rallentare la propria marcia, e viene
presto affiancato da un paio di uomini ben piazzati e corredati da un
cipiglio severo che sembrano prendere in consegna i due ospiti appena
sopraggiunti. Ganimard, con poche parole, rammenta loro chi è
e spiega cosa gli è accaduto, ma la sua deve apparire a quelli
del personale più come una minaccia che come una spiegazione,
perché lo scrutano con risentimento e gli fanno presente poco
garbatamente che il loro è un ospedale dove la gente viene
curata.
Di
contro Ganimard, per nulla intimidito, li fissa di rimando. «Se
ben ricordo lo diceste anche quella volta in cui il sottotenente
Dubois fu ricoverato con un braccio e due costole rotte. Qualcuno,
per caso, rammenta che fine abbia fatto quel poveretto?». Con
un ghigno, ancora diretto di filato ai reparti giusti, si gode
l’imbarazzo palese impresso sulle brutte facce che lo
affiancano. «Deduco di sì. Ebbene, aprite le orecchie,
perché intendo dirlo una volta per tutte: questo ragazzo deve
sopravvivere. Se lui muore, verrò personalmente a trovare il
responsabile e lo sbatterò nella cella più umida e
puzzolente di Parigi. Tutto chiaro? Sì? Ottimo».
«Ma
chi è?» vogliono sapere i due.
«Che
ve ne importa? Fate pure conto che sia il figlio del presidente, se
questo può aiutarvi a tenere in testa il semplice concetto che
vi ho appena spiegato».
Un
istante più tardi sono di fronte a uno dei chirurghi
dell’ospedale, il quale occhieggia sorpreso il nuovo venuto,
evidentemente non riconoscendolo. «Ispettore Ganimard» si
presenta con tono asciutto, appoggiando con garbo il ragazzo sul
tavolo davanti a loro. «Vi affido questo mio amico. Lo rivoglio
indietro tutto intero e respirante, intesi?». Non resta ad
attendere una risposta, ma se ne esce invece, sapendo che le
spiegazioni di cui abbisogna il medico le riceverà di certo,
condite di fronzoli vari, dai due impiccioni del personale di
servizio.
Venti
minuti dopo, ovvero alla bellezza delle tre di notte, l’Ispettore
Capo Justin Ganimard della Sûreté di Parigi si infila
attraverso il pesante portone della cattedrale di Notre-Dame de Paris
e si dirige con passo lento ma deciso lungo la navata di sinistra
verso l’abside, intenzionato a concludere in bellezza quella
disgraziata missione che a nulla ha portato salvo a togliersi
d’impiccio senza un graffio (ma con una sproporzionata quantità
di lividi, localizzati in modo particolare sul fondoschiena). Mentre
fruga con indolenza nelle tasche del cappotto per ripescarvi qualche
monetina, i suoi pensieri vagano, tornando all’ansa della Senna
e al parapetto del ponte. Qualche dettaglio gli sfugge, ma intende
fare chiarezza sugli ultimi avvenimenti, e magari trovarvi un senso,
una parvenza di logica. Recupera un cero dal cassetto pieno e lo
inclina verso una delle fiamme accese, dando fuoco allo stoppino, poi
posa la candela nell’alloggio cui è destinata e rimane a
fissare la fiamma gialla, assorto. Quando sono iniziati gli spari?
Prima o dopo che si è rialzato da terra? Cruccia la fronte,
cercando di rammentare. Ricorda invece gli occhi grigi del ladro di
fronte a lui; ricorda il momento esatto in cui la loro espressione è
cambiata, passando da divertita a smarrita. Era già in piedi,
allora? Sgrana gli occhi, rammentando: lo era, sì; si era
appena rimesso diritto, la sua mano ancora stretta in quella di
Lupin. Ma, allora…
«Allora
ero io. Quello che dovevano ammazzare, quello, ero io» soffia
con appena un filo di voce.
A
tentoni raggiunge una panca e vi si lascia scivolare malamente,
ancora frastornato dall’ultima notizia, lo sguardo perso nei
vetri decorati dietro l’altare.
«Ma
chi diamine si prenderebbe la briga di seguirmi per farmi la pelle?»
si chiede in un borbottio incredulo. È quella, tuttavia, una
domanda abbastanza sciocca; gli è sufficiente farsi due conti
per trovare almeno una decina di cattivi soggetti che trarrebbero
grande sollievo e giovamento dalla vista del suo cadavere che va
raffreddandosi. Non è che possa contare su di una folta
schiera di sostenitori all’interno della criminalità
parigina, ben inteso.
Una
mezza risata agghiacciata scivola fra le sue labbra, causandogli un
piccolo attacco di tosse nel momento in cui rammenta che, in effetti,
l’unico suo sostenitore di quella risma al momento si trova
all’Hôtel-Dieu, forse già bello che stecchito e
pronto per l’obitorio, dopo aver avuto la sfortuna di essere
nei diretti paraggi mentre attentavano alla sua vita.
«No,
questo no; li ho praticamente minacciati. Si staranno dando da fare
per trattenerlo da questa parte» ricorda, facendo una smorfia
poiché spera di essere stato incisivo a sufficienza.
Sarebbe
oltremodo seccante scoprire in ritardo di non esserlo stato
abbastanza, e di dover tornare lì solo per prenderne atto. No,
non seccante, sarebbe orribilmente disonorevole. Quanti anni può
avere quel ragazzo? Ventidue? Forse venticinque? E, d’accordo,
quella è il tipo di persona cui diverte enormemente mettersi
nei guai un giorno sì e l’altro pure; ma lo fa per
decisione personale. È differente. Sì, lo è; e,
dannazione, quella gente non cercava Lupin, ci si è ritrovato
in mezzo per puro caso. Si afferra la testa fra le mani. Viene colto
da un istante di panico; trema, il respiro affrettato e la confusione
nei suoi pensieri.
«E
perché se ne va in giro disarmato? Non lo sa che c’è
gente pericolosa in questa città?» sbotta allucinato.
Già:
perché? La risposta è semplice e lo fa boccheggiare di
smarrimento: perché Arsène Lupin non uccide.
«Certo,
però in compenso può morire» ragiona con tetra
amarezza. E chi è al corrente del fatto che a quest’ora
quello sciocco ladro potrebbe essere già morto? Nessuno,
perché la sua banda si sarà di certo dileguata nel
nulla come al solito e gli uomini della Sûreté, poco ma
sicuro, se la saranno lasciata sfuggire sotto il naso come perfetti
imbecilli quali sono. E il personale dell’Hôtel-Dieu
neppure sa chi sia il ragazzo che è stato portato da loro più
morto che vivo direttamente dall’Ispettore Ganimard in piena
notte. E allora chi lo sa? «Io. Lo so io» mormora,
sollevando lo sguardo di nuovo alle fiammelle lì accanto. La
luce che emanano è fioca e basta a malapena a rischiarare una
minima parte dell’abside in cui sono poste, eppure in mezzo a
quelle fiammelle ritrova una parvenza di speranza. Forse non ci ha
impiegato troppo tempo per raggiungere il cocchio prima e l’ospedale
dopo; forse non è troppa la quantità di sangue che ha
perduto accanto al parapetto e poi lungo la strada; forse, dopo
tutto, è stato abbastanza categorico e minaccioso da spronare
a sufficienza quei fanfaroni dell’Hôtel-Dieu; forse il
ragazzo è abbastanza sano e robusto da passare sopra al resto
delle magagne e fregarsene di una fucilata; e forse… forse…
Forse Ganimard dovrebbe semplicemente smetterla di accampare scuse
insensate e offrire un piccolo contributo personale. Non è mai
stato un granché come cristiano, scarsamente devoto e per lo
più scettico, ma di certo l’occasione merita un poco del
suo riguardo e impegno, pertanto, con qualche scricchiolio
preoccupante delle sue povere e maltrattate giunture, si mette in
ginocchio e, borbottando per almeno la metà del tempo, prega.
«Ehm…
Salve, Signore. Non sono certo vi ricordiate di me; mi scuso, ché
non abbiamo molte occasioni di sentirci. Ma siccome non sono io
quello in ballo al momento, mi risparmio di ricordarvi certi
particolari del sottoscritto per sollecitare invece la vostra
attenzione su una faccenda grave accaduta proprio questa notte. Voi,
forse, già conoscete i retroscena. Ecco, io al contrario li ho
appena scoperti, e mi ci sento veramente da schifo, e… Voi,
Signore, non è che potreste, diciamo, metterci una buona
parola? Sì, lo so che è un ragazzaccio e anche uno
scavezzacollo ma, vedete, non fa mica del male a nessuno e… e…
Questa notte mi ha salvato, sapete? E non era per niente obbligato a
farlo. Così… pensavo, se potete… Vorreste…
Oh, magari, non so, metterci del vostro per tirarlo fuori dai guai,
ecco».
Quando
si rialza, con la schiena e le ginocchia a pezzi e il volto
accaldato, è certo di non essersi mai sentito più in
imbarazzo di così, neppure quando anni prima è finito a
mollo nella Senna davanti a mezzo reggimento (lasciamo perdere). Ciò
nonostante sente di aver fatto un passo nella direzione giusta. Il
prossimo sarà quello di tornare all’Hôtel-Dieu e
aspettare che lo avvertano di un qualunque cambiamento, sperando che
non si tratti dell’annuncio di un decesso.
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Capitolo 3 *** Nell’attesa di un nome ***
Nell’attesa
di un nome
Sono
già trascorsi quattro giorni da quell’orrenda notte. La
notizia positiva è che il ladro è ancora vivo (da quel
poco che ha potuto apprendere seguendo gli sproloqui del chirurgo, il
proiettile ha colpito il femore, fratturandolo, ma nessun vaso
sanguinino importante). Quella negativa… A voler essere onesti
le notizie negative abbondano: la prima è che quel furfante
non si è ancora risvegliato; la seconda che, nonostante gli
sforzi dell’Ispettore e della sua squadra, coloro che hanno
messo in atto l’attentato erano e rimangono ignoti; e poi la
terza, ovviamente, è che il prefetto Machaux è molto
scontento di lui, perché non solo si è lasciato
sfuggire il ladro, con la banda al completo e tutta la refurtiva
annessa, ma ha persino coinvolto civili ed esterni nella sua
disavventura, rischiando di lasciarsi alle spalle qualche morto, e
l’opinione pubblica non avrebbe preso bene tale notizia.
“Sì,
certo, l’opinione pubblica” pensa con cinica acidità.
Come se fossero quelli i suoi peggiori problemi. E la gente poco
raccomandabile munita di fucili che voleva fargli la pelle e che è
ancora in giro a piede libero? Ne vogliamo parlare? Ganimard,
sinceramente, dubita che abbiano cambiato idea. Troveranno di sicuro
un’altra occasione o un altro metodo per cercare di stanarlo e
mandarlo al campo santo. Di fatti negli ultimi giorni, se non va a
spasso con i suoi uomini, fa in modo di restare bene in vista e in
luoghi sicuri, così da non offrire troppi spiragli né
opportunità. Non che il prefetto sia particolarmente in
pensiero per l’incolumità del suo Ispettore Capo, sia
chiaro; ma ci pensa il suddetto a essere in pensiero per sé
stesso, e tanto basta. Così ha finito con il dare qualche
settimana di ferie alla sua governante, e il tempo che non passa di
pattuglia con i suoi gendarmi idioti, lo trascorre dietro la
scrivania del suo ufficio alla Sûreté, e all’Hôtel-Dieu
naturalmente.
La
sua scusa ufficiale, per tutti compreso il personale dell’ospedale,
è che si sente responsabile per le sorti del ragazzo che ha
portato lui stesso da loro. Che è poi la sacrosanta verità.
Ha solo omesso un piccolo, infinitesimale particolare: quello
ricoverato non è affatto un illustre sconosciuto capitato per
caso e sfortuna in mezzo alle grane dell’Ispettore, come invece
crede il novantanove percento della popolazione francese attualmente
a conoscenza dei fatti. Il problema è che non se la sente di
spifferare in giro il nome del ragazzo; probabilmente finirebbe in
qualche cella minuscola e umida decorata di sbarre, in buona o
cattiva salute che sia, e dato che considera già un puro
miracolo che respiri ancora, non intende sfidare la sorte con il
rischio che glielo facciano secco sotto il naso. Quindi, fino a nuovo
ordine, è e resterà un ignoto molto sfortunato e al
momento sotto la ferrea tutela dell’Ispettore Justin Ganimard.
In
quel momento sono da poco passate le nove di sera e il suddetto
Ganimard si trova giusto di fianco al giaciglio neppure troppo comodo
che ospita il suo ladro. Non ha idea di come chiamarlo, quindi non lo
chiama affatto e ha dato a intendere che non ne conosca il nome,
pertanto dovranno rassegnarsi tutti ad attendere che si risvegli per
chiederlo direttamente a lui. In fondo, conoscendo il soggetto, un
nome vale l’altro; non è certo la prima volta che se ne
va in giro con nomi presi a prestito (vedi: rubati) per passare
inosservato.
Sospira,
stanco morto perché sono per lo meno cinque giorni che non
riposa come si deve e mangia quello che capita. Fissa il volto ancora
mortalmente pallido e ora anche più magro di quanto sia
normale del ragazzo disteso e, suo malgrado, spera che si svegli in
fretta. Lo sa bene che è una sciocchezza, ma non riesce a fare
a meno di pensare che, se esiste qualcuno in grado di ritrovare quei
tizi armati di fucili, ebbene quello si trova proprio lì,
accanto a lui. Ma dorme, o per lo meno è privo di sensi, e
l’agitazione dell’Ispettore non fa che crescere. È
cosciente di essere ingiusto nei suoi confronti; dopo tutto Lupin non
è certo responsabile dei suoi attuali guai, anzi, semmai il
contrario.
«Che
cosa devo fare?» chiede, a nessuno in particolare.
E
pagherebbe dieci volte il suo stipendio per poter ascoltare la voce
del ladro che si burla di lui con qualche frecciatina e battuta della
sua lingua affilata. Ma l’unico suono che ode è quello
dei loro respiri e dei suoi pensieri opprimenti. Dopo lunghe ore
passate a rimuginare sulle loro disgrazie, senza neppure volerlo, si
assopisce, mezzo steso sulla poltrona che non è certo molto
più comoda del letto lì accanto e che, come souvenir
dell’ennesima, pessima giornata, gli lascia un torcicollo con i
fiocchi che lo accompagna per gran parte del mattino seguente, con
gli omaggi dell’Hôtel-Dieu.
***
La
mattina del sesto giorno, poco meno di un'ora prima della pausa
pranzo, viene raggiunto in ufficio da un portalettere con un
messaggio urgente indirizzato all'Ispettore Capo Justin Ganimard,
inviatogli dal direttore del reparto lunghe degenze dell'Hôtel-Dieu.
Si rimette in piedi di scatto e annaspa, zoppicando incontro al
portalettere con un doloroso crampo al polpaccio, quasi strappandogli
la missiva di mano e borbottando una mezza imprecazione alle sue
inutili e irritanti lagne per avere una firma di ricevuta.
«Silenzio!»
sbotta nervoso, cercando di capire che diamine voglia significare
quel maledetto messaggio, scritto dal maledetto direttore ospedaliero
nella sua stramaledetta scrittura che somiglia più ad aramaico
piuttosto che francese. «Sono l'Ispettore Ganimard, potete
chiedere a chi vi pare qui intorno e vi diranno tutti la stessa cosa.
E ora zitto, che sto decifrando».
In
seguito a immani sforzi di fantasia e logica, Ganimard deduce che il
direttore gli stia chiedendo, con poca gentilezza e minor pazienza
ancora, di raggiungerlo nel più breve tempo possibile poiché
pare ci siano problemi con il ricoverato. L'Ispettore si lascia
sfuggire un paio di bestemmie ben mirate e recupera in fretta il
cappotto, pronto a uscire e pregando tutti i santi che non
gliel'abbiano accoppato mentre era occupato a sorbirsi l'ennesima
tirata del prefetto sui doveri cittadini della Sûreté e
altre simili amenità, o non risponderà delle sue
azioni.
Quasi
un'ora dopo, ché il traffico parigino all'ora di pranzo è
proibitivo, Ganimard entra come un tornado imprecante nella sala
principale dell'Hôtel-Dieu, scansa l'addetta al ricevimento e
altri tre volenterosi ragazzoni che cercano di rallentarne l'andatura
con futili domande, e quasi di corsa raggiunge l'ufficio del
succitato direttore, tale Berthélot e qualcos'altro che
Ganimard non ha recepito né lo interessa in modo particolare.
«Mi
dica che è vivo» ringhia con la pazienza sotto i tacchi.
Il
direttore Berthélot lo fissa di rimando, apparendo molto poco
comprensivo, e arriccia il naso, sembrando schifato. «Vivo e,
purtroppo, sveglio, signor Ispettore».
«Oh!»
si sorprende Ganimard, sgranando gli occhi e non potendosi evitare un
accenno di sorriso all'inaspettata buona notizia. «Bene»
esclama, consolato di tutto quel che ha passato negli ultimi,
terribili giorni.
«Bene
sarà per voi, signore. Senza offesa, ma questo è un
luogo in cui vengono curate le ferite del corpo».
«Chiedo
perdono, direttore, ma non vi seguo» ha l'impudenza di
interromperlo Ganimard.
Il
modo in cui il direttore assottiglia gli occhi dovrebbe risultare
minaccioso, ma per Justin Ganimard sembra piuttosto comico, quindi
deve trattenersi a forza dal ridergli in faccia e, con tutta la
diplomazia di cui si sente capace, spiega «Mi rincresce per le
mie cattive maniere, ma credevo gli fosse capitata qualche altra
disgrazia e sapere che invece è sveglio e in buona salute mi
rinfranca non poco».
«Ho
detto che è sveglio, signore. Non ho mai sostenuto che fosse
in buona salute, né fisica né... mentale».
Molto
bene. E con questo il precedente buon umore dell'Ispettore sprofonda
in un buco nero di disperazione. «Cosa state cercando di dirmi,
per l'esattezza?».
«Il
ragazzo ha evidenti problemi. Abbiamo tentato, non appena messi al
corrente del suo risveglio, di accertarci delle sue effettive
condizioni. Naturalmente era nostro dovere informarci…»
si dilunga il direttore.
Ganimard,
nel mentre, crede di aver intuito il problema, così per
accorciare i tempi che da subito gli paiono biblici, interviene di
nuovo. «Gli avete posto domande, immagino».
«Mi
sembra ovvio, signore» replica Berthélot, piccato.
“Sì,
sarà di certo ovvio e logico per voi”. Sospira, tenendo
per sé i propri pensieri. Nessun dubbio, ora, sul problema. È
già un puro miracolo che non abbia dato di matto. D’accordo,
a quel punto dovrà proprio cercare di salvare il salvabile.
Pertanto si rivolge una volta di più al direttore, accennando
perfino un cordiale sorriso, o quello che reputa tale. «Se
voleste permettermelo, posso provare a parlarci io stesso. Sapete,
con il mio lavoro credo di essere idoneo ad avere a che fare con
certa gente» insinua, intendendo tutto e niente al contempo.
Nonostante
le premesse, il direttore appare indicibilmente sollevato da tale
proposta. Se non fosse ciò che è, ovvero il
responsabile di un reparto ospedaliero, scommette che si metterebbe a
piagnucolare inutili ringraziamenti. Tanto meglio se può
risparmiarseli. Berthélot gli offre di farlo accompagnare da
un'infermiera, ma sono giorni che percorre la medesima strada e
dubita di necessitare di una guida, pertanto rifiuta con fermezza e
lascia il direttore alla sua direzione, dirigendosi invece a passo
svelto verso la camera che ospita il suo ladro.
***
Di
fronte alla porta della camera del suddetto, con un certo stupore da
parte dell’Ispettore, vi staziona una sorta di assembramento, o
forse, date le circostanze, sarebbe più idoneo definirlo
crocchio
di vecchie pettegole.
Seccante. Vorrà dire che dovrà farsi largo con una
certa autoritaria decisione. Un piccolo ghigno, non d’uso sulla
sua persona, compare per pochi istanti sulle sue labbra, mentre a
braccia incrociate scruta dal fondo la piccola folla assiepata a
perdere tempo e curiosare in fatti che non riguardano nessuno di
loro. Aggrotta le sopracciglia e assume un’espressione severa e
categorica.
«Sgomberate,
signori. Immediatamente» intima, spargendo sopra i pettegoli
occhiate raggelanti.
È
soddisfacente notare quanto a volte basti poco per ottenere la
collaborazione delle persone, per quanto recalcitranti possano
essere. Le pecore… cioè, il personale di servizio
dell’ospedale, tra sbuffi e mugugni, si affretta a eseguire
l’ordine impartito e a sgomberare l’entrata. Una volta
ottenuta la via libera si infila nella stanza e richiude la porta
alle spalle, badando bene a che non possa essere aperta dall’esterno
fino a che non abbia terminato la sua attuale missione. Missione che,
stando all’espressione rabbuiata del paziente, non dà
l’idea di presentarsi agevole.
«Non
vi agitate. È tutto a posto» assicura, mettendo le mani
avanti.
Lupin,
nonostante l’aspetto emaciato che lo fa apparire più di
là che di qua, solleva un sopracciglio con fare scettico e
sarcastico. «Il vostro concetto di “tutto a posto”
lascia molto a desiderare, Ispettore» fa notare con pesante
acidità. «Potreste non averlo notato, ma sono
attualmente bloccato in questo… letto, in un luogo che mi è
ignoto e fino a un minuto fa in compagnia di gente altrettanto
ignota. E ora, di grazia, vi dispiacerebbe spiegarmi cosa mi ha
portato qui?».
Ganimard
sente un fastidioso prurito alle dita, ma non si sofferma a
domandarsi che cosa possa essere, lo sa benissimo: è la
tentazione di mettergli le mani al collo e stringere forte. Solo che…
non lo può fare, per più di una buona ragione, la
principale delle quali è che tutto sommato lui non ha tutti i
torti. Respira a fondo nel tentativo di ritrovare la calma necessaria
per trattare con quella specie di demonio.
«D’accordo»
soffia, umettandosi le labbra e cercando con febbrile impegno un modo
per iniziare che non sia un insulto. «Qual è l’ultima
cosa che rammentate?».
Lupin
assottiglia le labbra, poi gli occhi. Quando la sua espressione si fa
vacua Ganimard inizia a sudare, presagendo infauste prospettive.
«Qualcosa che suppongo sia meglio voi non sappiate. Il resto è
piuttosto nebuloso, al momento».
Ganimard
grugnisce, indispettito, poi lo fissa stolido, meritandosi di rimando
un’occhiata di biasimo. «È una brutta notizia»
commenta, avvertendo un principio di ulcera all’arricciarsi del
naso del ladro.
«Non
oso immaginare come potrei vivere senza le vostre preziose perle di
deduzione».
Ganimard
stringe i pugni, stringe i denti, stringe le palpebre. «Per
Dio, quanto vi odio» sibila al colmo dell’irritazione.
Poi ricorda: che ha atteso sei giorni il suo risveglio; che quelli
con il fucile hanno sparato alla persona sbagliata; che non ha ancora
pronunciato una sola parola che serva a spiegargli ciò che a
quanto sembra non è in grado di rammentare con le proprie
attuali forze. E forse, ancora una volta, dovrebbe essere il
contrario, perché al momento l’unico con una buona
ragione per odiare è disteso in un letto di ospedale.
«Capisco»
replica invece quello, e nient’altro.
Quando
Ganimard riapre gli occhi quelli di Lupin sono al contrario chiusi.
Avverte, improvviso, un freddo gelido nelle ossa. Decide di
avvicinarsi, per capire se è ancora sveglio per lo meno, e
poi… si vedrà. In silenzio si siede sulla solita
poltrona scomoda e osserva ancora una volta il viso sciupato del
ragazzo che ha di fronte. Titubante, si allunga e ne raccoglie una
mano fra le sue; quel gesto, pare, serve a sollecitare un minimo di
curiosità nell’altro, che riapre gli occhi e lo fissa,
interdetto e con parecchie domande nei suoi occhi chiari.
«Mi
dispiace. Non… Sono un poco stanco e nervoso, in questi ultimi
giorni» borbotta imbarazzato.
«Per
una volta mi trovate d’accordo» commenta, perdendosi a
scrutare la sua mano racchiusa in quelle dell’Ispettore. Poi
sospira, e Ganimard può chiaramente avvertire il grado di
frustrazione e sfinimento che v’è dietro. «Ho
bisogno di sapere. Ne ho davvero bisogno» soffia, apparendo
stremato.
Allora
Ganimard sembra convincersi dell’idea di dover riassumere
l’accaduto per Lupin e a tale scopo raduna le idee e inizia a
dar loro forma e voce, lentamente ché non è sicuro di
quanto potrà essere veloce nel recepire le informazioni
considerata la pessima forma in cui versa.
«È
un bel guaio, amico Ganimard» considera Lupin, dopo aver
ascoltato con attenzione ciò che ha da raccontargli
l’Ispettore. «E non avete ancora trovato tracce di questa
gente?».
«No,
nessuna fino a ora. Ma dovete anche tenere presente che non mi ci
posso dedicare a tempo pieno, e quando lo faccio mi vengono dietro i
ragazzi della Sûreté» spiega conciliante.
«Sì,
che è come dire che investigate da solo» commenta Lupin,
senza nascondere i suoi dubbi.
Ganimard
vorrebbe protestare, ma non ne trova la forza perché sa che
sotto sotto è ciò che pensa anche lui stesso, dunque a
che scopo fingere offesa? Fa spallucce, rassegnato. «Ci ho
provato. Speravo che vi svegliaste un poco più in fretta»
ammette.
Lupin
incurva un sopracciglio. «Ah, ma guarda un po’ che
approfittatore. E io, povero illuso, che credevo ci teneste alla mia
pelle».
L’Ispettore
arrossisce e borbotta frasi smozzicate. «Mi sono espresso male»
tenta di giustificarsi. «Ho perfino pregato per voi»
bisbiglia, nella segreta speranza di non essere udito.
Invece,
per sua sfortuna, il ladro sgrana gli occhi e accenna un faticoso
sorriso. «Davvero?» soffia, apparendo emozionato.
Ganimard
si limita a grugnire e a desiderare di seppellirsi sotto diversi
metri di terra fertile.
«Sulla
Senna a frugare non ci posso andare per ora, visto che non riesco a
muovermi di un solo millimetro. Però se mi offrite qualche
dettaglio in più posso cercare di trovarveli lo stesso, o
almeno fare un poco di chiarezza su questa faccenda» promette
volenteroso.
«Sì,
è una buona idea» concorda Ganimard, annuendo convinto.
«Prima però mi serve una cosa».
«Vale
a dire?» si incuriosisce Lupin, cercando invano di
accostarglisi maggiormente.
«Un
nome con cui chiamarvi. Finora dormivate e avevo una buona scusa per
non saperlo. Ora che siete sveglio non ce l’ho più e mi
serve un nome da usare quando parlo di voi».
«Aspettate
un momento, quindi nessuno sa chi sono?» si sorprende Lupin.
«Lo
so io, ed è più che sufficiente».
«Dunque
è questo il motivo per cui mi trovo qui anziché alla
Santé».
Ganimard
storce il naso in una smorfia afflitta. «State forse cercando
di farmi sentire più in colpa di quanto non mi ci senta già
di mio? Perché, caso mai lo voleste sapere, sta funzionando
anche troppo bene».
Lupin
lo fissa con aperto stupore, poi piano scuote la testa. «Oh,
no, amico Ganimard. Non intendevo fare nulla di simile. Potete usare
Raoul, è il mio secondo nome».
L’Ispettore
annuisce, rigirandosi il nuovo nome nella testa e immaginando di
parlare di lui ad altre persone chiamandolo Raoul. Suona bene. «E
l’avevate mai usato?».
«Libero
di non crederci ma fino allo scorso anno ero Raoul, per lo meno in
società. Visconte Raoul d’Andrésy, per la
precisione».
«Niente
meno» bercia sarcastico Ganimard sollevando gli occhi al cielo.
«Se
sposi una ragazza nobile devi offrirle qualcosa che valga il cambio
di cognome. E comunque d’Andrésy è un cognome
appartenente all’aristocrazia francese. Lo portava mia madre…
prima di commettere l’errore di sposare mio padre»
riflette ad alta voce Lupin.
Nel
mentre Ganimard lo fissa pensieroso, cercando come può di
trattenersi dal porre domande inappropriate. Un lieve tremore nella
mano del ragazzo lo distoglie dai suoi crucci e lo riporta al
presente e al più impellente problema. «È il caso
che vi riposiate, ora; avete un aspetto tremendo» propone,
sperando di suonare gentile e non scorbutico come invece gli è
parso.
«Immagino
di sì. Avete detto che sono qui da una settimana?».
«Sei
giorni» precisa Ganimard, volendo sincerarsi della direzione
presa dai pensieri di Lupin.
«Non
lo so se potete, ma se riusciste a trovare il tempo e il modo, vi
pregherei di un favore» tentenna il ladro.
Ganimard
annuisce e rimane in attesa, ascoltando il respiro a tratti affannoso
del ragazzo. «Ditemi» aggiunge a mo’ di pacata
esortazione quando nota la sua indecisione.
«C’è
una donna. Lei è… È stata lei a prendersi cura
di me quando ero un bambino. In realtà lo fa anche ora che un
bambino non lo sono più da un po’ di tempo». Offre
un sorriso tremolante e incerto, spostando lo sguardo dalle mani agli
occhi dell’Ispettore.
«Credete
che sia preoccupata per voi? Volete che provi ad avvisarla?»
comprende Ganimard.
«Potete
farlo?» dubita Lupin, scrutando ancora nello sguardo del
poliziotto, esitante.
«Sì,
posso farlo. Ditemi dove la trovo» chiede l’Ispettore. Si
avvicina, forse sperando che le incertezze del ragazzo svaniscano con
la distanza. Troppo tardi si rende conto che per quel giorno
probabilmente non avrà alcuna altra informazione al riguardo,
dato che Lupin è sprofondato in un sonno pesante e, si augura,
riposante.
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Capitolo 4 *** Servizio d’amico ***
Al suo arrivo, ormai a sera fatta vista la lontananza dal centro di Parigi, il posto che trova è molto diverso da come lo immaginava. È una modesta villetta, costruita fuori città e piuttosto distaccata dai più modesti centri abitati che gravitano attorno alla capitale, ampi declivi erbosi a circondarla e qualche alberello ancora giovane. Ha un piano solo, tutto a mattoncini bianchi e beige, il tetto e le imposte rosse e perfino dei fiori alle finestre. Quando Ganimard suona al campanello, che è un pulsante anonimo accanto all’uscio, si aspetta di dover attendere sull’entrata per un tempo indefinito, dubitando che ci sia qualcuno in casa dato che non si scorgono luci visibili alle finestre. Invece, con sua sorpresa, nemmeno un minuto più tardi ode dei passi provenire da dentro, passi che gli paiono perfino affrettati, e un attimo dopo la porta si socchiude con una certa violenza, bloccata nella sua corsa dalla catena del chiavistello che la trattiene, e nello spiraglio creato compare il volto stranito di una donna, i cui occhi scuri lo fissano quasi abbagliati, di certo spauriti.
Ganimard si ritrova a boccheggiare. Neppure la donna è come se la immaginava. Ma d’altra parte si parla pur sempre di Arsène Lupin: nulla, ma proprio nulla, è mai come ce lo si immagina quando c’è di mezzo lui. La donna è più giovane di quanto ritenesse probabile. Certo, non si tratta più di una ragazzina, com’è ovvio supporre visti i trascorsi, ma non si può neppure considerare anziana. Forse una manciata di anni in meno rispetto a lui. È arrossito; lo sa, si sente le guance accaldate. “Dannazione” sbotta mentalmente.
«Voi chi siete? Che cosa volete?» chiede la donna al di là dell’uscio, con evidente ansia sia nel tono di voce che nell’espressione del viso, senza mai smettere di fissarlo e facendo ben trapelare la propria diffidenza verso un visitatore sconosciuto e inatteso.
«Sono l’Ispettore Justin Ganimard, signora» esordisce. Mezzo secondo dopo se n’è già pentito, visto lo sguardo atterrito e pieno d’orrore che gli viene riservato di rimando.
«Ah, Gesù mio» geme la donna, scivolando in ginocchio e coprendosi il volto con le mani tremanti.
«Aspettate! Non è come credete» si precipita a spiegare, accostandosi all’uscio ma senza osare toccarla, forse per un qualche genere di pudore.
Ci ha impiegato per lo meno mezz’ora per convincere la donna a lasciarlo spiegare che no, il suo piccolo (come l’ha più volte definito lei) non è stato buttato in fondo a qualche segreta umida pronto per la ghigliottina. Altri venti minuti sono volati nel tentativo di farsi aprire la porta per aggiornarla sulla reale situazione. Un’ora abbondante perché riprendesse i sensi dopo aver saputo quel che veramente era successo. Alla fine della lunga serata anche Ganimard è estenuato e sente un gran bisogno di una lunga dormita, magari preceduta da un pasto decente.
«Devo andare da lui» annuncia la donna con ferma risoluzione.
«Ha detto di no, signora. Mi ha fatto promettere di non portarvi da lui per nessun motivo» spiega, non per la prima volta.
«Non mi importa cosa ha detto! Forse non era neppure in sé per comprendere la situazione» protesta lei.
Ganimard arriccia le labbra in una smorfia sarcastica. «Oh, credete, era perfettamente cosciente di quel che diceva. Perfino troppo per i miei gusti» replica seccato.
Con le labbra tremanti e lo sguardo implorante, lei prende a fissarlo, pregandolo in silenzio di lasciarla agire a modo suo. Ganimard, per l’ennesima e, prontissimo a giurarlo, non ultima volta, maledice quel dannato di un Lupin e tutta la sua genealogia al completo. Sbuffa.
«Mi rincresce, signora, ma temo di non potervi accontentare. In questo caso, mio malgrado, mi trovo d’accordo con lui. La vostra presenza complicherebbe la situazione, forse in modo irreparabile. In questo momento, oltre a voi, sono l’unico a sapere dove si trova il ragazzo, e credo sia meglio che la situazione rimanga invariata».
«Ma non lo direi a nessuno» si incaponisce lei.
«Non ne dubito. Per lo meno non volontariamente».
«Ma ha bisogno di me!» tenta come ultima carta, ormai prossima alla disperazione.
“Ha bisogno di riposare in santa pace senza il terrore di farsi scoprire, piuttosto” pensa Ganimard, ma senza azzardarsi a dirlo a voce alta.
Ebbene, in qualche modo e con molta fatica e sudore l’Ispettore è stato in grado di persuadere la donna, il cui nome è Victoire, ad astenersi dall’accorrere al capezzale del suo ragazzo con il concreto rischio che tutta Parigi prima e il resto della Francia dopo venisse a scoprire quel che Ganimard ha tentato con notevoli sforzi di occultare, ovvero che Arsène Lupin non è scomparso nel nulla ma si trova sotto falsa identità all’Hôtel-Dieu in qualità di ospite fisso (e nemmeno in particolar modo apprezzato).
È così che, esausto dalla giornata stancante, l’Ispettore Justin Ganimard lascia la casa che racchiude una parte del segreto del ladro e si decide a tornare in città. Le sue alternative non sono molte, e considerata l’ora tarda (è già passata l’ora di cena, e ovviamente lui l’ha saltata a piè pari) non può tornare in ufficio o verrebbe sbattuto fuori dai guardiani notturni e finirebbe con l’essere guardato con sospetto e additato come stravagante, cosa che si rivelerebbe spiacevole a lungo andare. Al suo appartamento non può tornare a meno che non intenda attirare sgradevoli attenzioni, per esempio della gente che lo sta cercando per toglierlo dalla circolazione. Non gli rimane che l’Hôtel-Dieu, a meno che non abbia voglia di trascorrere la notte sulla panca di una chiesa come i migliori clochard. Storce il naso al pensiero; con la sua proverbiale fortuna finirebbe arrestato di sicuro.
«Vada per l’ospedale. Con un poco di buona sorte dormirà». Cosa che in effetti dovrebbe fare anche lui. Ma la realtà è che si sente nervoso e sulle spine, e dentro di sé sente di rinnegare le speranze fittizie espresse a parole e spera invece di ritrovarlo desto, così da poter scambiare qualche parola. Com’era naturale aspettarsi, quando entra nella camera di Lupin questi è sprofondato in un sonno pesante e Ganimard deve accontentarsi dell’ormai familiare poltrona. L’ora seguente la trascorre riflettendo e programmando la giornata successiva, nell’attesa che il sonno infine lo colga.
Ha lasciato gran parte della sua squadra lungo il ponte, e alcuni, i pochi di cui riesce a fidarsi a sufficienza da sapere che eseguiranno alla lettera le sue istruzioni, attorno al limitare della radura nella quale crede che si siano appostati giorni prima gli uomini armati di fucili. Non ha trovato molto fino a quel momento: qualche cartuccia vuota, molti mozziconi di sigaretta, perfino un pezzo di sigaro durante l’ispezione del giorno precedente. Nessuna impronta, poiché il suolo è ricoperto di muschio e aghi di pino. Ma quella mattina, forse, ha veduto qualche cosa si interessante; un brillio del sole riflesso possibilmente da un oggetto metallico, di sicuro lucido. Quando si avvicina e si china a scostare gli aghi, scopre che non è metallo, ma vetro. Si rigira il frammento fra le dita, osservandolo incuriosito; ha un bordo spezzato di netto, ma l’altro è integro e presenta una curvatura precisa che fa pensare che in origine il pezzo di vetro fosse circolare. Ha anche dei segni regolari sulla superficie, segni scuri disposti a crociera. Non ricorda di aver mai veduto nulla di simile, ma poco importa; avvolge il frammento in un fazzoletto e lo ripone nella borsa a tracolla che ha con sé, poi torna a cercare con rinnovata decisione.
Il sole inizia già il suo lento declino pomeridiano quando, pur non ritenendosi abbastanza soddisfatto dei risultati conseguiti, decide comunque di aver fatto a sufficienza per quel giorno e di aver tediato per bene i suoi uomini, quindi annuncia loro che possono tornarsene agli uffici, e tutti esalano un sospiro sollevato, tranne lui. La verità è che non ha in mano molto e quel poco non gli offre le risposte che cerca: chi erano quelli che gli hanno sparato addosso? Perché lo hanno fatto? Dove si trovano in quel momento? Che cosa stanno facendo? A nessuna di quelle domande saprebbe fornire una risposta adeguata, e ve ne sono molte altre che non ama nemmeno formulare, figurarsi cercarne una soluzione.
Quella sera stessa, dopo aver messo ordine negli archivi, chiuso casi di minor importanza e redatto rapporti quasi del tutto inutili, uscendo dall’ufficio decide di fermarsi in un bistrot nelle vicinanze per riempirsi lo stomaco con qualche cosa di decente per una volta. Mentre sorbisce la sua zuppa di cipolle, seduto accanto all’uscita sul retro, ripensa al frammento di vetro ritrovato la mattina nella radura, avvertendo del disagio, come una sensazione di qualcosa di sbagliato cui non sa tuttavia dare un senso logico.
Quasi senza averne cognizione, dal bistrot si reca automaticamente all’Hôtel-Dieu, e quando varca in silenzio la piccola porta che conduce nella stanza in cui è alloggiato il suo ladro, con sorpresa scopre che questi non solo è sveglio ma lo sta osservando con viva curiosità.
«Buona sera, amico Ganimard» lo accoglie la voce pacata di Lupin.
Ammicca, interdetto. «Buona sera a voi. Vi sentite meglio, quest’oggi?» si risolve a chiedere, notando che in effetti ha un aspetto meno affaticato.
«Un poco, sì» conferma, provando invano a sollevarsi per guardarlo con più agio. «Ma il luogo non è dei migliori per stimolare una pronta guarigione: di una noia mortale, direi. Potreste, se non vi disturba, avvicinarvi di qualche passo? Mi riesce difficoltoso guardarvi in faccia nel punto sull’uscio in cui sostate».
Ganimard sobbalza, colto di sorpresa da quella richiesta poiché non si era reso conto di essersi bloccato sull’entrata. «Certo. Scusate, ero soprappensiero» si giustifica, avvicinandosi e prendendo posto sulla poltrona che a quel punto considera quasi di sua proprietà.
«Avete novità?» si informa Lupin.
L’Ispettore aggrotta la fronte, incerto. «Di che genere?».
«Oh, riguardo quel che vi aggrada di più. Considerando che siete l’unico visitatore, mi accontento di un argomento qualunque».
«Ho convinto la vostra nutrice a rimanere a casa, in effetti. Però, da come parlate, forse non è la migliore delle notizie. Credete ancora che sia meglio tenerla lontana? Forse vi sarebbe stata di qualche giovamento».
Lupin storce le labbra, scettico. «Se avete avuto occasione di incontrarla e parlarci sono certo possiate convenire con me che il suo carattere non è dei più discreti. Intendiamoci, è un’ottima persona, perfino troppo premurosa, probabilmente del tutto sprecata con il sottoscritto; di certo dal suo punto di vista sono un completo fallimento. Tuttavia, vi dirò, preferisco saperla al sicuro fra le sue quattro mura, piuttosto che in giro per i corridoi di questo ospedale a far mille domande indignate al personale e a rischiare di lasciarsi sfuggire troppi particolari».
Ganimard annuisce, suo malgrado concorde con l’impressione del ragazzo. «Potreste apprezzare di leggere qualche giornale?».
«Lo farei di certo, se solo mi riuscisse di maneggiarlo. Il problema è che non riesco a mettermi seduto» borbotta seccato.
Si mordicchia un labbro, indeciso. «Potrei...». Si schiarisce la voce, imbarazzato. «Magari, leggervi qualche cosa» bisbiglia, distogliendo lo sguardo.
«Credo che mi farebbe piacere» replica, serio ma in tono gentile.
«E vi danno cibo a sufficienza?».
«A sufficienza di sicuro. Il guaio è la qualità» lamenta indignato, facendo sorridere l’Ispettore.
«Sì, me ne hanno parlato piuttosto male. Sospetto che perfino alla Santé i pasti siano migliori e più curati» prova a scherzare, ricevendo in cambio un piccolo grugnito di assenso. Si infila le mani in tasca e le sue dita sfiorano la stoffa di un fazzoletto. Un’idea prende forma nella sua testa. Sposta lo sguardo in quello del ladro che lo fissa di rimando incuriosito. «Non vorrei farvi stancare inutilmente, tuttavia...» tentenna.
«Sono a posto, per ora. Vi ascolto» proclama, lo sguardo improvvisamente più vivace.
Con titubanza, estrae di tasca il piccolo involto, trattenendolo sul grande palmo di una mano e svolgendo i lembi della stoffa ne mette allo scoperto il contenuto. «Ho trovato questo, oggi, nella radura sulla riva del fiume in cui, presumibilmente, si erano appostati quegli uomini» spiega, porgendo il piccolo reperto.
Per più di un minuto Lupin si limita a fissare il frammento di vetro posato sulla stoffa chiara del fazzoletto, infine si decide e allunga lentamente una mano, afferrando con cautela il reperto fra due dita e scrutandolo da vicino. Terminata la sua osservazione solleva lo sguardo sull’Ispettore e inarca significativamente le sopracciglia. «Voi sapete di cosa si tratta?». In risposta riceve un diniego che appare contrito. Rinserra le labbra, ma si astiene dal fare commenti caustici al riguardo, se non altro per rispetto dell’uomo che ha di fronte e che ha deciso di chiedere spontaneamente la sua collaborazione. «Questo è un frammento di mirino telescopico. Viene di norma montato sulle armi da fuoco per effettuare tiri di precisione» spiega con calma. Poiché in questo caso non ottiene reazioni degne di nota, per un istante si spazientisce ed emette un piccolo soffio stizzito, poi inspira profondamente e torna a calmarsi. «Devo supporre voi non siate al corrente della sua provenienza. Posso dirvi che armi che montano mirini di questo genere sono in dotazione all’esercito, e anche ai servizi segreti. Qualche volta, più di rado, alcuni esemplari finiscono perfino nelle mani di organizzazioni criminali, di solito quelle con più fondi e un mercato più ampio ed eterogeneo».
Durante la spiegazione Ganimard è passato dall’indifferenza alla confusione, poi dal dubbio alla preoccupazione, per finire all’angoscia. Ora è pallido mentre fissa Lupin con molte più domande di quante ne avesse fino a mezz’ora prima.
«Temo di avervi sconvolto» si rende conto Lupin, scoprendosi dispiaciuto. «Me ne rammarico. Forse vi avrei fatto un miglior servizio avvicinandovi alla verità in maniera più graduale».
Il giorno seguente l’ispettore Ganimard non si presenta all’Hôtel-Dieu, fatto che impensierisce Lupin, il quale lo attende invano fra un momento di riposo e l’altro. Non riesce a fare a meno di chiedersi se quell’assenza sia in qualche modo collegata al loro precedente colloquio e, nel qual caso, se il suo modo di fare e le sue parole possano aver maldisposto l’Ispettore più di quanto non si aspettasse da principio.
La sera, dopo la solita cena pietosa, prende sonno a fatica, vagando con i pensieri su quell’assenza che pesa in un modo inatteso e preoccupante sul suo animo.
A conti fatti Ganimard non ha per nulla preso in considerazione l’eventualità che il suo ladro travisasse la diserzione della giornata precedente. Ha avuto fin troppi pensieri per la testa, nelle ultime ventiquattr’ore, per trovare anche il tempo di riflettere sulle possibili conseguenze del suo operato. Piuttosto ha fatto del proprio meglio per non perdersi nemmeno per un secondo in angoscianti riflessioni di tal genere, vuoi perché quel che ha in progetto non si può considerare del tutto legale (e di sicuro non può dimenticare di essere pagato dallo Stato per tutelare la legge, non certo per contribuire a infrangerla), vuoi perché non ha d’abitudine un carattere malizioso e ben difficilmente giungerebbe a immaginare il tenore delle elucubrazioni di quel ragazzo sfrontato e contorto.
Di fatto si ripresenta nell’ormai conosciuta camera dell’Hôtel-Dieu solo nel tardo pomeriggio del secondo giorno, ritrovandosi accolto da un’espressione affatto conciliante, quanto piuttosto crucciata, che presto viene celata da un sogghigno malevolo.
«Sapete, iniziavo a credere di esservi venuto a noia» commenta Lupin, socchiudendo le palpebre.
«Ardua eventualità da prendere in considerazione» commenta Ganimard, credendoci fino in fondo e, suo malgrado, provocando un moto di genuina sorpresa da parte del ladro.
«E dunque?» indaga Lupin, a quel punto piuttosto incuriosito.
«Dunque...» prende a spiegare Ganimard.
Ma viene imprevedibilmente interrotto da un discreto bussare alla porta, che d’abitudine richiude dietro di sé così da non essere sorpreso nell’esercizio di potenziali attività illecite in compagnia del suo ladro.
Sbuffando, torna sui suoi passi e riapre l’uscio, permettendo a un infermiere l’accesso.
«Il direttore mi ha appena avvisato, chiedendomi di passare. Serve un ultimo controllo delle condizioni del paziente, e il permesso ufficiale, prima che possiate portarlo fuori» spiega quest’ultimo, solerte, mentre si dà da fare per eseguire quanto appena illustrato.
Ganimard si limita a storcere il naso, seccato dal fatto che l’ospedale preveda quasi più burocrazia della prefettura. Mentre osserva annoiato le operazioni dell’infermiere, manca invece di accorgersi della reazione di Lupin, il quale non prende con altrettanta filosofia quella inattesa variazione della normale routine.
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Capitolo 5 *** Vecchie e nuove conoscenze ***
05 – Vecchie e nuove conoscenze
Solo nel momento in cui nota l’aggrottarsi delle sopracciglia dell’infermiere e le sue azioni secche e contrariate evidentemente in seguito a risposte negative ai suoi controlli, Ganimard cruccia la fronte e dà attenzione a Lupin, scorgendone allora e con ampio ritardo l’improvviso pallore e i lineamenti tirati. A quel punto finalmente è in grado di giungere a comprendere i risvolti delle parole dell’infermiere e di ciò che potrebbero aver inavvertitamente suggerito alla testa del paziente, in modo particolare essendo esse state udite prima di aver preso atto del piano elaborato da Ganimard al fine di condurlo fuori da quello scomodo ospedale. Rammaricato e impensierito per la sgradevole piega presa dalla situazione, vorrebbe poter chiarire subito il malinteso, ma si ritrova a dover far fronte a un impedimento, rappresentato nella fattispecie dalla presenza innecessaria e sgradita dell’infermiere e delle sue orecchie indiscrete. L’idea di spiegare in sua presenza quel che ha organizzato è da scartare nel modo più assoluto, pertanto dovranno entrambi friggere nell’impazienza ancora per un po’, e Ganimard si augura che tale inattività non contribuisca ad aggravare il già non particolarmente roseo stato di salute del suo ladro.
Circa un quarto d’ora più tardi la situazione, anziché volgere al meglio, sembra destinata a peggiorare: l’infermiere viene raggiunto da un capo-sezione, evidentemente sollecitato dall’oramai famigerato direttore Berthélot a vigilare affinché tutto si svolga secondo le corrette procedure.
Ganirmard, inutile sottolinearlo, inizia a spazientirsi e a chiedersi se non avrebbe fatto prima a prendersi il suo ladro e svignarsela alla chetichella sotto il naso di tutti. Purtroppo in quel momento è tardi per i ripensamenti e il rammarico; può solo augurarsi che non sbuchi dal nulla qualche altro inutile funzionario a rallentare ulteriormente i suoi piani e a rischiare di rendere un inferno quel che resta della sua giornata.
Il nuovo arrivato ha evidentemente stabilito di mettere radici in quella camera che inizia a diventare soffocante. Quando sembra infine giunto alla conclusione che tutto appare in ordine ed è quindi possibile procedere con la stesura degli incartamenti per le dimissioni del paziente, questi ha la malaugurata idea di rivolgere uno sguardo baldanzoso e soddisfatto all’Ispettore, il quale lo gratifica con un’occhiata di fuoco e l’espressione più impaziente che gli riesca di imbastire, fatto che convince il capo-sezione e desistere dal portare avanti le sue irritanti manfrine e a lasciare libero il campo con un semplice: «Torno immediatamente con la documentazione necessaria. Mi si attenda qui». Come se potessero andare lontani, sotto gli occhi di tutto il dannato personale che, ancora una volta, sembra essersi dato appuntamento per un raduno nel corridoio poco fuori dalla porta della loro camera.
“Se estraessi il mio revolver e mettessi tutti agli arresti?” si chiede Ganimard in un moto di stizza. Ha perfino in mente l’accusa: intralcio a pubblico ufficiale. Sogghigna compiaciuto, contemplando quell’idea inattuabile ma così seducente in quel penoso frangente. Non si può nemmeno permettere il lusso di condividere lo strazio per quell’attesa all’apparenza infinita con Lupin, poiché teme anche solo il pensiero di incrociarne lo sguardo e di scoprire in esso ciò che si sta sforzando di ignorare: tradimento. Avrebbe dovuto essere più rapido, o per lo meno avvisare prima il ladro, e solo in un secondo momento il resto del maledetto personale ospedaliero. Alle solite: gli servirà da lezione per il futuro, per quanto si augura con ardore che non debba mai più capitargli una situazione tanto spinosa fra le mani.
Ovviamente l’infermiere non ha mai neppure accennato a levarsi di mezzo, e si mantiene con ostinazione accanto al letto con fare integerrimo e professionale, proprio come se dalla sua presenza dipendesse il futuro della nazione.
In conclusione, quasi prodotto da un evento soprannaturale, il capo-sezione rientra nella camera seguito niente po’ po’ di meno che dal direttore Berthélot in persona, il quale sfoggia un’espressione tanto sollevata da far quasi sghignazzare Ganimard.
«È tutto in ordine» annuncia vittorioso, nemmeno avessero vinto l’ultima guerra grazie ai suoi prodigi. «Potete andare, signor Ispettore, e il qui presente signor Rocher sarà lieto di potervi accompagnare».
“Ne farei volentieri a meno” bercia Ganimard nella propria testa, limitandosi invece ad annuire rispettoso e a farsi un poco da parte al fine di permettere all’infermiere e al capo-sezione di manovrare per mettere in sicurezza il loro a breve ex-paziente. Poiché egli non ha la possibilità di uscirsene sulle proprie gambe, viene deciso di caricarlo su una sedia a rotelle il tempo sufficiente perché venga in seguito condotto su di una carrozza (con o senza il benestare del diretto interessato, in tutta evidenza).
Così è che, contrariato ma ormai persuaso dell’ineluttabile, Ganimard segue la piccola, chiassosa comitiva lungo i corridoi dell’istituto, imbronciato e fremente, fino al momento in cui si ritrovano tutti quanti più o meno allegramente (meno, dal modesto punto di vista dell’Ispettore, e scommette che lo stesso valga per il suo ladro) sul ciglio della strada, di nuovo in attesa, questa volta di un vetturino. Nel mentre colgono l’occasione per fornire al suddetto Ispettore i consigli di rito e dotarlo della documentazione che lo mantenga in regola con le direttive sanitarie e di legge. Manca poco che il direttore Berthélot lo stringa in un caloroso abbraccio; l’occhiata truce di Ganimard raffredda il suo slancio deleterio, ma a quanto pare non il suo buonumore. “Che problema hanno con quel ragazzo?” si ritrova a chiedersi Ganimard, non capacitandosi di tanta sollecitudine per quella che, per quanto ne sanno, è una persona qualunque e senza la minima importanza. Anche in questo caso, preferisce non rifletterci troppo in profondità; le domande scomode, di norma, portano a risposte scomode, e Ganimard è stufo marcio di doversi adattare al peggio.
Quando la carrozza sopraggiunge, Ganimard grugnisce un secco commiato diretto al direttore e ai suoi tirapiedi, e abbassa per la prima volta da molto lo sguardo su Lupin, ritrovandolo tutto preso da probabili, sinistre elucubrazioni. Sospira e si china a sollevarlo dalla sedia nella quale è stato affrancato, avvertendolo tendersi nella sua stretta senza tuttavia pronunciare verbo. Il vetturino, con solerzia, scende da cassetta e spalanca loro la portiera della carrozza e, con qualche scomoda contorsione, Ganimard sale a bordo portandosi dietro il ragazzo, poggiandolo con attenzione sul sedile posteriore e richiudendosi lo sportello alle spalle dopo aver consegnato al vetturino un foglietto con sopra scritte le indicazioni per raggiungere la loro prossima meta.
Solo nel momento in cui le ruote del veicolo iniziano a girare allontanandoli dall’Hôtel-Dieu, Ganimard rivolge la propria attenzione a Lupin, stiracchiando un debole sorriso.
«Raggiungeremo un luogo sicuro. Non dovete preoccuparvi» pensa corretto avvisarlo.
Lo osserva sollevare il capo su di lui, distogliendo lo sguardo dal finestrino, e socchiudere le labbra livide aggrottando le sopracciglia.
«Dunque, non mi condurrete alla Santé?» soffia, mantenendo comunque un contegno pacato e lo sguardo deciso.
Ganimard scuote la testa e trattiene un commento caustico, suo malgrado impressionato dal fatto che, nonostante fino a un momento prima avesse creduto di trascorrere un lasso di tempo indeterminato dietro le sbarre, non abbia mai accennato una sola volta a un qualunque genere di rivolta.
«So che non nutrite un’alta opinione della gendarmerie, ma non pensate sarebbe stato sciocco, da parte mia, aver trascorso l’ultima settimana abbondante nel tentativo di non attirare attenzione su di voi, per poi trascinarvi al fresco, così, senza una ragione plausibile?».
«Qualche volta ho difficoltà a fidarmi perfino di me stesso» commenta Lupin, tornando a rivolgere lo sguardo alla città che scorre sotto i loro occhi.
Ganimard rinserra le labbra, indeciso su cosa pensare di quella risposta. A giudicare dall’espressione del suo ladro, non crede si tratti di un tentativo di insultarlo in modo più o meno velato.
«Vi posso assicurare che non ho intenzione di consegnarvi alla Santé, per lo meno fino al vostro prossimo exploit, s’intende».
A Lupin sfugge un lieve sorriso. Annuisce e poggia il capo contro lo schienale imbottito.
Il suo ladro dorme profondamente nel momento in cui la loro carrozza giunge a destinazione. Invece di svegliarlo discende con calma dal predellino e si osserva attorno, apparendo compiaciuto, e dopo alcuni istanti viene raggiunto dal vetturino, il quale lo soqquadra con evidente perplessità.
«Siete proprio sicuro che sia questo il luogo giusto?» chiede infatti, facendo spaziare lo sguardo all’intorno ma non vedendo altro che una lunga striscia di terra battuta che fa da sentiero fiancheggiata da campagna a perdita d’occhio.
«Non abbiate timore, il posto è questo e non ho critiche da avanzare» assicura Ganimard, posando gli occhi su un gruppo di alberi più fitto degli altri poco oltre il limitare dal sentiero.
Il vetturino si stringe nelle spalle, con buona probabilità convinto che il suo cliente non abbia tutte le rotelle al loro posto, ma questi dopo tutto lo ha pagato in anticipo e tanto gli basta per non darsi troppo pensiero. «Volete che vi dia una mano a far scendere il vostro compagno?» si offre volenteroso.
«È sufficiente che teniate la carrozza ferma e lo sportello aperto, al resto penserò io. Aspettatemi qui, ora» lo istruisce, prima di tornare a bordo del veicolo.
Lupin non si è ancora ridestato e Ganimard si fa qualche scrupolo e si sforza di essere silenzioso e cauto, nella speranza di non disturbarne il riposo, ma sono speranze vane le sue, poiché è sufficiente che le sue braccia lo circondino perché gli occhi del ragazzo si spalanchino, fissandosi nei suoi con una luce allarmata.
«Tutto a posto. Siamo arrivati. Ora vi faccio scendere» soffia Ganimard, deciso a impedire che il sospetto torni a nidificare in quella testaccia già fin troppo ingombra di idee, brutte o belle che siano.
«Ma... dove ci troviamo?» chiede Lupin in un mormorio perplesso, osservando con attenzione e sorpresa la campagna circostante e sbattendo le palpebre affinché la sua vista si abitui alla luce del pomeriggio.
«Lo vedrete fra poco» replica Ganimard, altrettanto a bassa voce così che il vetturino, impegnato a tenere a bada i cavalli, non possa udirlo.
«Siete a posto?» li raggiunge la voce del vetturino, il quale si sta apprestando a risalire a cassetta, attendendo solo di essere certo che i suoi clienti siano consapevoli del luogo nel quale verranno scaricati.
«Certamente. Potete andare, vi ringrazio» conferma Ganimard, sogghignando appena nello scorgere la smorfia dubbiosa dell’uomo che li ha condotti fin lì e che è ancora visibilmente combattuto fra lo scrupolo di abbandonarli nel mezzo del nulla e il desiderio di tornare in città.
A quanto pare alla fine vince la rassegnazione nelle stranezze della clientela e l’urgenza di rivedere il traffico della capitale, perché il vetturino fa voltare cavalli e carrozza e al piccolo trotto scompaiono lungo il sentiero nella direzione da cui sono arrivati pochi minuti prima.
«Immagino abbiate i vostri programmi. Vorreste essere così gentile da condividerne una minima parte con il sottoscritto?» prende la parola Lupin, in tono pacato e con una sfumatura divertita nella voce.
«Oh, naturalmente» conferma Ganimard, prendendo a camminare e inoltrandosi fra l’erba ingiallita dal freddo in direzione del folto degli alberi che si trova ora di fronte a loro. «In effetti avrei voluto parlarvene prima, ma Berthélot, quel gran rompiscatole, s’è messo in mezzo...» bercia, sbuffando sonoramente e accelerando il passo senza nemmeno avvedersene.
«E dunque?» insiste Lupin. «Non fraintendete: il luogo è ameno e piacevole, ma sarebbe interessante sapere cosa stiamo facendo. Non una scampagnata, suppongo».
«Direi di no» replica Ganimard, facendosi largo fra i tronchi degli alberi, badando a che il ragazzo non si faccia del male nell’intrico di rami. «Osservate» annuncia, senza fermarsi ma indicando con lo sguardo una direzione precisa. «Dal sentiero non si nota».
Lupin solleva lo sguardo, stupito, e oltre le fronde ingombranti degli abeti scorge una costruzione che non ha ancora un aspetto ben definito ma è senza ombra di dubbio di origine artificiale.
«Perbacco! Allora non siamo nel mezzo del nulla. Ne avevo avuto il sentore, ma... Oh! Quella è una fattoria» esclama, agitandosi e ridendo. «Ahi! Accidenti» geme, affannando nella stretta dell’Ispettore.
«Decisamente un pessimo cliente. Ma volete stare un po’ fermo? Vi state facendo del male da solo, per la miseria!» protesta Ganimard, affannandosi a sorreggerlo e a non lasciarselo sfuggire di mano.
«Uff, quanto siete noioso».
«Non sono io a essere noioso, siete voi a essere folle» precisa Ganimard.
«Oh, follia! Una condizione sopravvalutata, a mio avviso. E comunque non mi ritengo tale. Sono semplicemente speciale, e sorprendente».
«Giusto: specialmente ingestibile, sorprendentemente scriteriato» borbotta l’Ispettore.
Lupin ridacchia, ma con cautela questa volta. «Completamente, assolutamente, indiscutibilmente esatto, amico mio. Ehi, è proprio carina questa fattoria. Ma ci abita qualcuno?» si incuriosisce, mentre le girano attorno per raggiungere l’entrata posteriore, a quanto sembra.
«In questo periodo no, ed è appunto per tale motivo che ci troviamo qui».
Lupin solleva lo sguardo, puntandolo sull’ispettore. «Volete fare il misterioso?» chiede, arricciando le labbra in un sorrisetto malizioso.
«No, non proprio... D’accordo, forse giusto un poco. Ma giudicate voi, dopo tutto» si limita a dire, sollevando il mento e facendogli segno di guardare con attenzione.
Sul lato posteriore c’è un portone a doppia anta, appena socchiuso. Ganimard lo sospinge lentamente aiutandosi con una spalla, ma così facendo occulta in parte la visuale al ragazzo, il quale deve attendere ancora un lungo momento prima di poter far spaziare lo sguardo sul nuovo ambiente. Quando finalmente ne ha la possibilità, i suoi occhi si sgranano, increduli.
«Celestine! Nadette! Santo cielo, voi qui!» esclama, tendendo le braccia in avanti, con gli occhi scintillanti, rischiando di far capitombolare a terra sé stesso e l’Ispettore con lui.
Questa volta però Ganimard non protesta, si limita a rinserrare la stretta, abbozzare un timido sorriso soddisfatto e ad avvicinarsi ai box in legno profumato che ospitano i due corsieri, che ha scoperto solo in un secondo momento trattarsi di due giumente. Queste, nel mentre, hanno allungato il collo, sporgendosi dai rispettivi box con l’evidente intenzione di andare incontro al ragazzo appena comparso di fronte a loro. Nel momento in cui giungono vicini a sufficienza, Lupin getta le braccia al collo ora dell’una e ora dell’altra giumenta, per poi tentare l’impresa improbabile di afferrare entrambe in una sola bracciata, facendo sbuffare di identica incredulità sia le due giumente che l’Ispettore.
«Vi credevo perdute. E invece... invece...» si scosta, crucciando la fronte, «vi ritrovo qui» soffia, confuso. Ancora con le dita saldamente intrecciate alle criniere, dirige lo sguardo indagatore sull’Ispettore. «Le avete portare qui voi, dunque» afferma, scrutandolo a fondo.
Ganimard solleva le spalle. «Non avrei saputo che farne, per la verità; ma certo non potevo lasciarle per strada. In fondo sono state loro a portarci fuori dai pasticci, sarebbe stato molto irriconoscente. Per fortuna ho un ottimo consulente che è pratico di cavalli».
Lupin sfarfalla le ciglia, sempre più sorpreso, anche se in modo piacevole. Così Ganimard si decide a spiegargli i fatti. Prima però: «Vi dispiace se vi faccio accomodare da qualche parte? Iniziate a essere pesante» e, al cenno di assenso del ragazzo, lo conduce in un angolo più appartato, nel quale sono ammassate fascine e balle di fieno che rappresentano la scorta per il resto dell’inverno, posandolo in un punto un po’ più elevato e scrollando le braccia affinché il sangue torni a circolare agevolmente. Fatto ciò si allontana verso il lato opposto del caseggiato, quello in muratura che con ogni probabilità conduce verso l’abitazione vera e propria, e socchiude una piccola porta in legno grezzo quasi celata allo sguardo, affacciandosi. «Daniel, potresti scendere?».
Qualche momento più tardi uno scalpiccio annuncia l’arrivo di qualcuno di nuovo e presto dalla porticina ora aperta compare una figura minuta, un ragazzino che a prima vista può avere sì e no tredici anni, tutto ginocchia e gomiti, ma con occhi grandi e un poco sgranati, chiari e attenti, che fissano i due uomini con serietà e stupore ma anche con curiosità.
«Ecco, lui è Daniel; è un ragazzino in gamba con qualunque tipo di animale. Si è occupato lui dei vostri cavalli in questi ultimi giorni» spiega Ganimard.
«E ha fatto un ottimo lavoro, da quello che posso vedere» aggiunge Lupin, offrendo un sorriso al ragazzino. «Che altro sai fare?» si informa incuriosito.
Daniel si agita sul posto, evidentemente innervosito da tanta attenzione. «Aggiusto le cose» mormora, distogliendo lo sguardo.
L’attenzione di Lupin al contrario si ridesta, imprevedibilmente stimolata dalla novità. «Beh, questo è interessante. Che genere di cose?».
Il ragazzino, apparendo ora quasi angosciato, si stringe nelle spalle. «Quello che capita: biciclette, grammofoni, attrezzi da lavoro, mobili, accendini, mietitrici, qualche volta anche libri e abiti... Un po’ di tutto» soffia, lo sguardo sfuggente.
«Hai mai dato un’occhiata a un motore?».
Daniel cruccia la fronte, perplesso. «Motore?».
«Di un’automobile» precisa Lupin.
Il ragazzino sbarra gli occhi, sorpreso. «Non ne ho mai veduta una. Ma ne ho sentito parlare. Voi l’avete vista?» esclama, ora eccitato, per lo meno fino a quando si rammenta la situazione in cui si trovano. «Io... Mi dispiace, scusatemi».
«Nulla di male, mio giovane amico. E per rispondere alla tua curiosità, del tutto legittima, sì: ho avuto modo di osservarne un paio. Curiosi marchingegni, promettono grandi cose» commenta con aria un poco trasognata.
Daniel si mordicchia le labbra, ansioso. Dà l’idea di voler fare una quantità di domande, ma si trattiene nel timore di risultare inopportuno. Dal canto suo Lupin lo osserva divertito, ben notando il suo desiderio di sapere.
«Ho una proposta, se ti va naturalmente» si fa avanti, temendo che la situazione rimanga in stallo senza il suo intervento diretto. «Potresti continuare a occuparti delle mie amiche, Celestine e Nadette, nel tuo tempo libero» offre, indicando le due giumente intente a ruminare e gettare sguardi languidi agli umani presenti. «In cambio, io potrei parlarti delle automobili. Che ne pensi? Ti va?».
Per la prima volta da che è comparso, Daniel sorride. «Sarebbe magnifico!» esclama felice e impaziente.
Lì accanto Ganimard, trovatosi un comodo pagliericcio per riposarsi qualche minuto, osserva i due giovanotti con un’espressione soddisfatta e indulgente, sperando al contempo che non finiscano con il mettersi nei guai. Ma a questo penserà in seguito, deciso comunque a sorvegliare perché se ne stiano buoni per un tempo ragionevole.
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