La Stella dei Valar

di AleeraRedwoods
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** Caduta ***
Capitolo 3: *** Prigioniera ***
Capitolo 4: *** Un prezzo da pagare ***
Capitolo 5: *** Tra racconti e memorie ***
Capitolo 6: *** Sillen ***
Capitolo 7: *** Fantasmi ***
Capitolo 8: *** Patto ***
Capitolo 9: *** Mereth en Gilith ***
Capitolo 10: *** L'incontro ***
Capitolo 11: *** Nella Sala delle Udienze ***
Capitolo 12: *** Alatar il Blu ***
Capitolo 13: *** Il Nido delle Aquile ***
Capitolo 14: *** Minas Tirith ***
Capitolo 15: *** Candela ***
Capitolo 16: *** Un Destino Scritto ***
Capitolo 17: *** Vulcano ***
Capitolo 18: *** Mithril ***
Capitolo 19: *** La quiete prima della tempesta ***
Capitolo 20: *** Illusione ***
Capitolo 21: *** In bilico ***
Capitolo 22: *** Alla Battaglia, parte I ***
Capitolo 23: *** Alla Battaglia, parte II ***
Capitolo 24: *** Colpe ***
Capitolo 25: *** Fratelli ***
Capitolo 26: *** Occhio per occhio ***
Capitolo 27: *** L'entanotizia ***
Capitolo 28: *** L'ultimo giorno ***
Capitolo 29: *** Freddo, buio, fuoco ***
Capitolo 30: *** La Contea ***
Capitolo 31: *** Tumulti ***
Capitolo 32: *** Le Miniere di Moria ***
Capitolo 33: *** La fine del gioco ***
Capitolo 34: *** L'Alfiere del Cielo ***
Capitolo 35: *** Un Teatrale Stratagemma ***
Capitolo 36: *** Namárië ***
Capitolo 37: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


-Ciao a tutti! Prima di cominciare questo viaggio, è giusto comunicarvi due cosette: 1) per questa storia mi sono lasciata ispirare sia dai libri che dalla trilogia cinematografica, a seconda di quello che più ritenevo adatto e senza preferire una cosa all’altra;  2) moltissime cose -ma moltissime davvero- provengono esclusivamente dalla mia mente malata, quindi non datevene a male se non corrispondono all’universo tolkieniano che tanto amiamo; 3) ovviamente, tutta la mia riconoscenza va al maestro J.R.R Tolkien e a lui appartengono fatti e personaggi citati in questa sudata, maldestra fanfiction.
Spero davvero di intrattenervi, allietarvi o anche solo regalarvi una piacevole lettura e sarei molto felice di sentire il vostro parere! Sono ben accette anche le critiche costruttive, sono sempre pronta a migliorarmi ;)
Che altro dirvi: spero di pubblicare un capitolo a settimana (esclusi prefazione, primo e secondo capitolo, che getterò nella mischia insieme XD) e niente, buona lettura!
Aleera.-


“Tutto ciò che dobbiamo decidere 
è cosa fare col tempo che ci viene dato.” 
 J.R.R Tolkien.

 
-Prefazione-

 


    A Valinor le luci tremavano, scosse dalle potenti energie generate dall’angoscia e dalla preoccupazione dei suoi nobili abitanti.
    Sul colle Ezellohar presenziavano tutti i più onorevoli Valar di Aman, come si erano riuniti in tempi più antichi per assistere all’incarnazione dei Maiar.
    Nove scranni, rilucenti di pietre e metalli preziosi, formavano un cerchio perfetto sulla vetta del colle. Uno di essi, però, si stagliava scuro e tragicamente vuoto in quello spazio sacro, una nota stonata nella più perfetta delle composizioni.
    Gli otto Supremi[1] di Arda, nelle loro forme più disparate, erano immobili e silenziosi, seduti su quegli scranni che spettavano loro di diritto. Chiunque li avesse scorti in quelle rigide pose li avrebbe di certo creduti delle virtuosistiche statue, ignaro che le loro menti stessero invece partecipando ad una fatale discussione.
    Parlò Oromë, il Grande Cavaliere dall’armatura lucente:
-Credere che l’Oscurità possa scomparire è follia! Distrutto un male ne arriverà uno nuovo e non vi è altra via al di fuori della guerra!-
    Nienna, Signora della Tristezza, lo rabbonì con voce melensa:
-Non dire queste parole, Oromë. Ancora recenti sono le ferite provocate dalla Guerra dell’Anello e quelle povere creature hanno sofferto abbastanza.- Famosa era la sua compassione verso i mortali che popolavano la Terra di Mezzo e il suo cuore aveva sanguinato per ogni vita spezzata dal male.
    Di tutt’altro parere sembrò suo fratello, il cupo Mandos, che appoggiò il Gande Cavaliere con voce tonante: -Oromë non usa le giuste parole e il suo amore per la Caccia gli infervora la mente. Tuttavia, egli non ha torto. La Battaglia dell’Anello è stata dura, è vero. Eppure siamo tutti ben consapevoli che non potrebbe mai essere l’ultima. Non potrà esservi solo Pace, poiché l’equilibrio dell’Universo stesso è l’alternarsi di Bene e Male, di Pace e Guerra. E, cara sorella, lo sai anche tu.-
    La mente della Valië era piena di sofferenza e sgomento ma non poté ribattere alle limpide verità del Signore della Morte e del Destino.
    Yavanna e Aulë, Signori della Terra, si guardarono negli occhi colmi di preoccupazione, mentre il taciturno Ulmo meditava silenziosamente, la pelle traslucida solcata da acque irrequiete.
    Apparentemente, la triste situazione non concedeva soluzioni.

    L’istante successivo, il colle parve vibrare, ridestando i presenti dai loro cupi pensieri: –Esatto, Mandos.-
    Tutti si voltarono verso il Vala che aveva così inaspettatamente parlato, chinando il capo con deferenza: Manwë, Signore dell’Aria e Re di Arda, aveva infine preso la parola, per la prima volta in quell’Assemblea.
    Il suo sguardo viaggiò sul colle Ezellohar, tra i Valar suoi compagni. Osservò i rami secchi e curvi di due immensi alberi ormai morti, echi di avvenimenti strazianti,[2] ed infine si posò sullo scranno vuoto, un velo di tristezza ad oscurare i suoi occhi lucenti: -La partita è ancora aperta e il Male è pronto a fare la sua prossima mossa. Questa volta, il suo attacco sarà più debole, poiché reduce dall’ultimo fallimento contro il Bene e noi avremo un ulteriore vantaggio…-
    Le sue parole suonavano chiare come le note di un liuto, in quello spazio sospeso. -Ulmo attraversa la Terra di Mezzo con le sue acque, come il sangue attraversa le vene dei mortali, e ha osservato ogni cosa, scoprendo nell’oscurità chi sarà il loro nemico.-
    Tutti i Valar rimasero con il fiato sospeso e a stento trattennero l’indignazione quando fu loro rivelata l’identità del nuovo servo dell’Oscurità. Manwë li zittì con un solo gesto, senza alzare la voce: -Questa Guerra sarà decisiva. Poiché le pure creature immortali dalla Terra di Mezzo sono migrate qui a Valinor, anche l’Ombra è tenuta a diminuire. Così si manterrà l’Equilibrio.-
    Al suo fianco, Aulë parlò con voce grave, quasi scoraggiato:
-Come hai detto tu, tutte le creature che un tempo avevano il potere di fronteggiare il Male hanno abbandonato la Terra di Mezzo. Chi combatterà, allora?-
    Il Signore dell’Aria sorrise, rivelando una sicurezza insperata:
-Non ho mai detto tutte. Laggiù dimora tutt’ora qualcuno in grado di ribaltare l’esito di questa storia. E vi è qualcosa, di antico, potente e silenzioso, che ancora deve compiere il suo destino e aspetta di essere trovato. Dobbiamo solo inviare loro un aiuto, una guida, come un tempo partirono i potenti Istari.-
    Solo allora Varda, Regina tra i Valar, si fece avanti, luminosa come il firmamento, lasciandosi investire dal vento impetuoso ma amorevole del marito: –A tutti voi, grandi Valar di Aman, chiedo aiuto per creare l’essere che sarà in grado di portare la Pace nella Terra di Mezzo… e nei cuori di chi vi dimora.-
    E guardò negli occhi Mandos, come se egli già sapesse cosa sarebbe accaduto. Ed era così: nel momento stesso in cui lei pronunciò quelle parole, il Vala custode del Destino ebbe una nitida visione del futuro e non vi fu più alcun dubbio.

    Varda creò allora una stella, poiché esse erano da sempre suo dominio, e le diede forma, le donò Luce, bellissima e potente.
    E tutti i Valar, uno ad uno, le donarono un talento: -Io ti dono la Veggenza, perché tu sappia sempre quale strada intraprendere.- Sussurrò Mandos e la stella vibrò, assorbendo quella parola e il peso che conteneva.
    -Io ti dono la Gentilezza, così che tu possa essere compassionevole e giusta.- La cullò Nienna.
    -Il mio dono per te è la Caparbietà, per non arrenderti mai, difronte a nessuno!- tuonò la voce di Oromë.
    -Noi ti doniamo il Coraggio e l’Astuzia.- pronunciarono insieme Yavanna e Aulë: -Ti aiuteranno ad affrontare tutte le sfide che richiederà questa missione.-
    Ulmo esitò prima di avvicinarsi, lanciando uno sguardo alla luminosa Varda, come a chiederle conferma. -Io ti dono un po’ della mia Conoscenza, perché non esistano barriere tra te e il mondo che ti accoglierà: conoscerai i gesti e conoscerai le lingue. Buona fortuna.- Varda sorrise, compiaciuta.
    Per ultimo, Manwë si avvicinò alla stella, tanto viva e pulsante da sentirne il cuore scalpitare: -Io ti dono la Purezza e farò in modo che il tuo potere non si estingua mai.- E un gioiello apparve nella sua grande mano. Da una sottilissima catenina di mithril lucente, pendeva un ciondolo dalla forma sinuosa dello stesso materiale, che conteneva tra le spire una singolare pietra viola.
    Adagiò il gioiello sulla stella e Varda prese quest’ultima tra le mani, amorevole come una madre che cinge il proprio figlio.
    Piena di speranza, la strinse tra le braccia, sussurrando: -Sarai la luce più pura e magnifica che il mondo abbia mai visto. Porterai la Pace e tornerai da noi vittoriosa.-
    Suonò più come una promessa che come un ordine e la stella divenne talmente brillante da eguagliare il sole. Tutti i Valar intonarono la stessa melodia e le loro voci accompagnarono la stella fino al cielo, dove si adagiò tra tutte le altre.
Varda guardò a lungo quella nuova e risolutiva stella e, dentro di sé, le parlò con voce solenne:




 
“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo,
riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.

A caro prezzo.”



 
[1] I Valar sono le divinità dell’universo di Arda, secondo la mitologia tolkeniana. Essi sono figli di Eru Illuvatar, il creatore di ogni cosa e, con la loro musica, hanno dato origine alla Terra di Mezzo e alle sue razze.
 
[2] I due Alberi di Valinor sono Telperion e Laurelin, rispettivamente l'Albero d'Argento e l'Albero d'Oro, che illuminavano Valinor durante gli Anni degli Alberi. Melkor (Morgoth) si alleò con il ragno gigante Ungoliant per distruggerli e i due Alberi perirono irrimediabilmente e si spensero per sempre. Non furono mai abbattuti e le loro spoglie rimasero sulla collina di Ezellohar come memoria della felicità che è andata perduta.

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Capitolo 2
*** Caduta ***



-Caduta-

 

Arda, Terra di Mezzo. Maggio, Anno 29 Q.E

    La notte già si apprestava ad avvolgere i marmi bianchi e neri della Sala del Trono quando Re Elessar[1] sollevò lo sguardo. Teneva il pesante volume sulle gambe e non ricordava da quanto tempo fosse immerso nella lettura, prima che il buio gli rendesse impossibile continuare.
    Con un unico, lento gesto, il Re di Gondor e di Arnor richiuse il libro e si alzò, lanciando uno sguardo distratto al trono.
    Da quasi due giorni sentiva una strana agitazione dentro di sé, che non voleva abbandonarlo. I nervi a fior di pelle gli impedivano di rilassarsi, di dormire, di riflettere con calma. Le sue dita avevano preso a tremare ogni qual volta si trovava solo, tradendo la sua tensione, ed ora anche un gesto semplice come accendere la sua amata pipa era diventato complicato.
    Si apprestò a uscire dalla sala, ormai buia e desolata, quando qualcosa catturò la sua attenzione, attraverso le finestre ad arco alla sua sinistra. Socchiuse gli occhi, avvicinandosi: per un attimo, nel vasto cielo di Gondor, gli parve di veder le stelle tremare.
    Concentrato su quell’improbabile evento, non si accorse che qualcuno era entrato nella sala, alle sue spalle: -A’maelamin. Lle tyava quel? (Mio amato. Va tutto bene?)- Elessar sussultò e si girò velocemente, la mano sull’elsa della spada. Quando incontrò lo sguardo della sua Regina espirò, rilassando i muscoli che si erano inevitabilmente contratti per quell’improvvisa apparizione. –Arwenamin… (Mia signora)-.
    Lei, avvolta da una delicata veste verde pallido, lo raggiunse lentamente alla finestra, con sguardo preoccupato. Non capitava spesso di vedere il Re degli Uomini spaventato.
    Lui cercò di sorridere: -Perdonami, mi hai colto di sorpresa.-
    Ma la Regina, sensibile come solo una creatura immortale poteva essere, si era accorta dell’ombra scura che da giorni gravava sul marito e sentiva la sua preoccupazione come fosse propria. E, dopotutto, non poteva biasimarlo: -So che anche tu lo avverti. Sta per accadere qualcosa.- Gli sussurrò, appoggiando la testa sul suo petto.
    Elessar aggrottò le sopracciglia, stringendola per cercare conforto: –L’aria vibra, gli alberi fremono e gli uccelli cantano più forte in questi ultimi giorni. Ho un brutto presentimento.-
    La Regina cercò di rassicurarlo, catturando il suo sguardo con occhi gentili: -C’è solo pace in questo canto, il tuo regno è al sicuro. Mornie alantie (l’oscurità è caduta), non hai nulla da temere.-
    Doveva essere vero.
    Erano passati trentuno anni dalla Guerra dell’Anello ed ora la Terra di Mezzo prosperava. Solo le foreste e le montagne erano dimore delle creature oscure, alcune sfuggite alla distruzione dell’Oscuro Signore di Mordor, altre rintanate da secoli nelle viscere della terra.
    Tutte, senza esclusioni, si tenevano ben lontane dagli uomini, ormai padroni del nuovo tempo.
    –Hai ragione, c’è solo pace. Per ora.- Il suo tono si fece più grave di quanto lui stesso avrebbe voluto. -Non posso sottovalutare i presentimenti che il mio sangue di Dúnadan[2] mi ha donato. Manderò un messaggero nell’Ithilien, per avvertire Legolas e gli elfi, Faramir e suo figlio Elboron. Provvederò a far giungere il messaggio anche ad Edoras. I nostri alleati devono essere pronti a metter mano alle armi, qualsiasi cosa stia per accadere.- Concluse lui, lanciando un ultimo sguardo al cielo notturno.
    Senza volerlo, la sua mente volò al di là del mare, nelle Terre Immortali: -Se solo Gandalf fosse ancora qui…-
    Pensava spesso al suo vecchio amico e ora più che mai avrebbe voluto averlo al suo fianco, a consigliarlo, a guidarlo.
    Arwen sorrise, prendendo la mano del marito fra le sue:
-Anche se talvolta ti comporti come tale, non sei più il ramingo del Nord che giunse nella casa di mio padre tanti anni fa. Sei un grande Re, Aragorn. E Mithrandir è partito sapendo che saresti stato degno di questo incarico.-
    Elessar assorbì quelle parole nel suo animo e baciò l’amata, riacquistando momentaneamente il suo temperamento fiero.
    Aveva guidato il suo popolo per trent’anni, l’avrebbe fatto per altrettanti.
    Si lasciarono le stelle della notte alle spalle, senza notare che, inspiegabilmente, una in particolare risplendeva di una luce bianchissima, superando tutte le altre. 

 
**

    Il giorno dopo, Re Elessar uscì dalle sue stanze alle prime luci dell’alba, reduce di una notte insonne e densa di inquietudine. Percorse più volte le sale del Palazzo, senza la reale volontà di recarsi in un luogo preciso.
    Il suo vagare lo condusse nel cortile della Cittadella e qui, sorridendo, si fermò ad osservare la sottile figura seduta su una delle panchine di pietra, ai piedi dell’Albero Bianco.
    Miniel, sua figlia, osservava sovrappensiero il cielo terso, i capelli bruni scossi dalla brezza primaverile. Aveva appena compiuto quattordici anni e la sua bellezza acerba era già nota in tutto il regno. Il sangue elfico le aveva donato delle forme longilinee e un portamento aggraziato e dal suo nobile padre aveva ereditato il carattere impetuoso e allo stesso tempo saggio.
    Elessar la raggiunse, posandole una mano gentile sulla spalla.
-Buon giorno, padre.- Bisbigliò lei, senza avvertire il bisogno di voltarsi: avrebbe riconosciuto il suo tocco premuroso ad occhi chiusi.
    -Perché sussurri, Miniel?-
    La mezzelfo sorrise, stringendogli la mano e invitandolo a sedere accanto a lei. Pose la testa sulla sua spalla, allegramente:
-Non voglio disturbare il sole. È ancora assonnato e fatica a svegliarsi.- Spiegò, indicando i tenui raggi dorati, che ancora non riuscivano a riscaldare l’aria.
    La Principessa, dotata della sensibilità dei suoi avi immortali, comunicava in un modo tutto suo e il Re non poteva fare a meno di rimanerne sempre piacevolmente sorpreso.
    –Anche il mio vecchio padre è ancora assonnato, vedo.- Lo canzonò lei, quando incrociò lo sguardo stanco del Re.
    Lui rise, cingendole le spalle con un braccio: -Vecchio? Che parole sconsiderate. Ricorda che sono pur sempre il Re!-
    Anche lei scoppiò in una risata cristallina, ricambiando l’abbraccio. –Cosa ti turba, padre mio?- Chiese poi, interrogando il Re con i grandi occhi grigi, così simili ai suoi.
    Elessar scosse la testa, abbozzando un sorriso mesto: -Non lo so, Miniel. Forse niente.- Lei sollevò le spalle, spensierata, tornando ad ammirare il cielo: -Allora passerà!-
    Lui sospirò, osservandola con tenerezza: anche al Re degli Uomini sarebbe piaciuto congedare ogni timore con una scrollata di spalle. Le baciò una tempia, attendendo il sorgere del sole con un’inspiegabile impazienza a divorargli il petto, sempre più irrefrenabile.

    La giornata si trascinò lenta, fino al calare della sera, quando il corno della città annunciò improvvisamente l’arrivo di visitatori.
Sorpreso, Elessar raggiunse in fretta la Sala del Trono e il suo volto si distese alla vista dell’inatteso ospite.
    -Nae saian luume’! (È passato troppo tempo!)- La voce di Legolas rimbombò per tutta la sala, squillante.
    Il Re posò la mano ruvida sulla spalla dell’elfo in un gesto complice, felice di rivederlo: –Mellon nîn (amico mio)! La tua visita è una sorpresa più che gradita.-
    Legolas rispose al gesto dell’amico facendo altrettanto, nonostante il suo viso tradisse tutta l’urgenza che l’aveva condotto a Minas Tirith. –Ho viaggiato senza sosta per raggiungerti.- Disse, serio, mentre il vento che penetrava dal portone d’ingresso gli scompigliava i capelli chiari.
    L’altro annuì, conscio che, sicuramente, quella non poteva essere una mera coincidenza: –A dire il vero, io stesso ho inviato un messaggero nell’Ithilien, questa mattina. Ma pare che tu per primo abbia qualcosa da dirmi.- Si scambiarono uno sguardo eloquente, leggendo con chiarezza i pensieri l’uno dell’altro, come da sempre erano in grado di fare.
    Finché una voce allegra non ruppe il silenzio teso che era disceso tra loro, riscuotendoli: –Legolas! Sei tornato!- Miniel attraversò la sala di corsa, diretta verso l’elfo, con la lunga veste rossa a rimbalzarle sulle gambe. Gli lanciò le braccia al collo, in un gesto poco consono ma che intenerì il Re degli Uomini.
    La giovane mezzelfo considerava Legolas parte della famiglia, essendo cresciuta con la sua figura rassicurante costantemente accanto a quella dell’amato padre.
    Legolas ricambiò l’abbraccio con un sorriso sul volto, scostandola gentilmente poco dopo: -Sei cresciuta, Principessa. Alla tua età non è più consigliabile correre così incontro ad un uomo, non te l’ha mai detto tuo padre?- Si inchinò, scherzosamente.
    Lei rise, mimando un inchino a sua volta e lanciando occhiate divertite al Re, ben consapevole di quanto egli detestasse quei discorsi frivoli. Per l’appunto, Elessar la sospinse frettolosamente verso le ancelle, che la aspettavano pazienti: -Lascia stare Legolas adesso. Abbiamo cose molto importanti di cui discutere.-
    Lei puntò i piedi, con tono serio: -Non viene mai a trovarci, voglio stare con voi anche io.-
    Legolas le scompigliò i capelli lisci, addolcendo lo sguardo:
-Prometto che passeremo un po’ di tempo insieme, Miniel. Ma non stasera.-
    La Principessa s’imbronciò lievemente ma sollevò un sopracciglio, disposta ad usare toni più diplomatici: -Se ora me ne vado, mi insegnerai a tirare con l’arco, la prossima volta?- L’elfo annuì e lei saltellò vittoriosa, lasciandosi docilmente recuperare dalle sue ancelle.
    Legolas trasse un respiro di sollievo, scuotendo la testa.
    –Attento a non farti intortare troppo. È davvero brava in questo genere di cose, riuscirebbe a persuadere chiunque! A soli sei anni convinse una delle mie guardie più fedeli a prendere il the con le sue bambole.- Lo avvertì il Re, con un brivido: -Credo abbia preso da sua madre.-
    Risero al pensiero di quella scenetta, dirigendosi insieme verso gli appartamenti reali.

    Dopo una lunga cena i due si ritrovarono nella Torre di Ecthelion, con la luna alta nel cielo come unica spettatrice.
    -Man presta le, mellon nîn? (Cosa ti turba, amico mio?)- Chiese l’elfo, seduto sul davanzale della grande finestra che si apriva sulla valle di Gondor.
    Elessar inspirò un’altra boccata di fumo dalla sua pipa, dove bruciava lentamente l’erba della Contea: –Qualcosa di strano sta accadendo, Legolas. Non riesco a capire cosa.- Ammise. –Ho solo un brutto presentimento e niente mi persuade dal pensare che, qualunque cosa sia, succederà presto. E non sarà nulla di buono.-
    Le sue mani tremarono un’altra volta e, a malincuore, dovette momentaneamente rinunciare alla pipa.
    Legolas volse gli occhi fuori dalla finestra, con espressione assorta: -Sono venuto qui per lo stesso motivo. Credo che a creare tutto questo scompiglio sia la stella.-
    Il Re, confuso, aggrottò le sopracciglia e seguì il suo sguardo verso il cielo notturno. Accanto alla falce argentea della luna, una luce vibrante catturò la sua attenzione. –Di che stella si tratta?-
    L’altro tornò a guardarlo, con espressione grave questa volta:
-Questo è il problema. Non è mai esistita. È apparsa tre giorni fa.-
    Elessar sgranò gli occhi grigi ma Legolas continuò, le sopracciglia sottili lievamente contratte: -Molti elfi nell’Ithilien sono conoscitori delle stelle e tutti concordano sul fatto che sia nuova. Mai, in nessun tempo, è apparsa quella stella. L’hanno nominata Sillen, la Luce Bianca.-
    Come se avesse udito quelle parole, la stella brillò più intensamente per qualche secondo, rischiarando la notte. I due la guardarono costernati, il respiro sospeso.
    –Dobbiamo trovare qualcuno in grado di darci delle informazioni, non possiamo stare fermi senza fare niente quando accade un evento di tale portata.- Rispose il Re, lanciando un’occhiata preoccupata ad Andúril, la sua spada, posata con cura sul tavolo di legno della stanza. Guardò Legolas negli occhi limpidi, abbassando la voce: -Nella Sala del Trono c’è un volume, lo stavo consultando ieri senza nemmeno sapere perché. È la storia di Elentári.-
    L’elfo socchiuse gli occhi, intuendo al volo: -La Regina delle Stelle, Varda.-
    Elessar annuì: -Forse dentro di me già sapevo cosa stava accadendo, sapevo della stella. La mia preveggenza è debole ma, in fin dei conti, non ha mai sbagliato.-
    Discussero a lungo di ciò che quell’evento potesse significare.
    Le stelle erano care agli elfi e Legolas era certo fosse un segno dei Valar, forse un buon auspicio.
    Elessar però non riusciva a convincersene. I suoi timori erano troppo acuti perché quella spiegazione potesse bastare.

    Arwen Undòmiel li raggiunse a notte fonda, incuriosita dalla lunga assenza del marito. Quando trovò i due compagni, immersi in una fitta conversazione, s’irrigidì violentemente sul posto. Da molto tempo non vedeva quell’espressione tesa sul volto dell’amato e, per un attimo, fu inghiottita dal ricordo tormentato di trent’anni prima, quando a lei non era rimasto altro che la speranza di vedere Aragorn tornare vivo dalla battaglia contro Sauron.
    Legolas, dopo qualche attimo, notò la sua presenza sulla soglia e chinò il capo con reverenza: -Arwen en amin. (Mia signora) Sono felice di rivederti.-
    La dama sorrise con dolcezza ma, quando anche il Re alzò gli occhi su di lei, non poté evitare di interrogarli con sguardo preoccupato.
    –Va tutto bene, non temere. Arrivo subito.- La rassicurò Elessar. Al che sospirò profondamente, convenendo che fosse ormai ora di lasciare che anche il suo amico riposasse, dopo il viaggio.
    -Quel kaima, Legolas. (Riposa bene) Sono certo che domani, con la mente fresca, andrà molto meglio.- Sorrise.
    Fece per congedarsi, rimandando a malincuore la conversazione al mattino dopo. Ma i tre non riuscirono a uscire dalla torre che una luce bianchissima li avvolse, facendoli sobbalzare. Essa entrò in ogni finestra della città e tutti si sporsero per capire da dove provenisse.
    Solo Legolas e Elassar sapevano dove volgere lo sguardo: Sillen.
    Si affacciarono dalla torre, gli occhi puntati in direzione della stella e, con sgomento, la videro muoversi nel cielo.
    No, non si stava semplicemente muovendo.
    Stava precipitando.
    Brillava con un’intensità tale da far lacrimare gli occhi ma, sforzandosi di tenerli fissi su di essa, l’acuto elfo vide dove la sua caduta l’avrebbe condotta. Un sibilo si propagò nell’aria, facendosi via via più assordante mentre la stella si avvicinava al suolo.
    Non c’era tempo da perdere.
    Elessar guardò l’amico allontanarsi dalla finestra per afferrare il mantello. –Legolas, cosa hai visto?- In quel momento, un boato scosse la terra e la luce scomparve flebilmente, come una candela che lentamente si consuma nel buio.
    Infine, la stella aveva toccato terra.
    –Aragorn, tula! (Vieni!)- Quello non se lo fece ripetere e prese Andúril, legandola in vita. Incontrò lo sguardo di Arwen, che annuì, intuendo all’istante il peso di quella situazione sconvolgente. Lui la baciò con dolcezza, grato per la sua forza e la sua comprensione e corse al fianco dell’elfo lungo i corridoi della cittadella, verso l’ultimo livello.
    –Manke, Legolas? (Dove?)-
    L’amico legò il mantello alle spalle, teso dalla preoccupazione:
-A Bosco Atro.-



 
[1] Elessar (gemma elfica in Quenya) è il nome con cui Aragorn è salito al trono, nell’anno 3019 della Terza Era.
 
[2] Aragorn appartiene alla stirpe reale di Elendil dei Dúnedain (Numenoreani) e possiede sia capacità curative che il dono della preveggenza.



N.D.A

Eccoci finalmente! Spero che come inizio abbia reso l’idea XD Tutti i dialoghi in Sindarin sono estrapolati da internet, non riuscirei mai a costruirli da me… mea culpa. E dopo questa rivelazione finale, ovviamente elargita da Legolas, ci vediamo nel prossimo capitolo!

Mille baci,

Aleera.

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Capitolo 3
*** Prigioniera ***




-Prigioniera-

 

    Una voce dolce, eterea e fredda come l’argento le martellava in testa. Brandelli di una storia.
    “Tu sei nata per una ragione…”
    Immagini di una vita passata o futura le passarono davanti agli occhi: c’era morte, c’era amore e c’era speranza. 

    “Tu sei nata per una ragione. Una maledizione… Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo. Dannata per l’eternità…”
Le immagini scorrevano veloci e non riusciva più a distinguerne le forme.
    “Scenderai in battaglia. Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo. Sei maledetta… Riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia. La Stella dei Valar si è svegliata. La tua maledizione…”
Le faceva male, voleva fuggire da quella voce pungente ma non poteva: non c’era materia attorno a lei, solo vuoto.
    “Riunirai i Popoli Liberi. La Stella dei Valar porterà la pace e porterà il dolore. Dannata per l’eternità, porterai dolore… Tu sei nata per una ragione. Svegliati. Maledetta… Svegliati. SVEGLIATI!


    –No!- Si tirò a sedere velocemente, portando istintivamente le mani sugli occhi. Aveva il fiato corto e premette forte i palmi sul viso, scossa da un potente mal di testa.
    Sentiva un grande chiasso tutto intorno, come se fino a quel momento avesse dormito in mezzo ad una folla rumorosa.
    Si fece forza e sbirciò timidamente tra le dita: contro ogni aspettativa, si trovava in un pacifico bosco.
    Ed era completamente sola.
    Tolse le mani dal viso e il rimbombare di voci si affievolì nella sua mente, fino a divenire un fastidioso brusio.
    Poi scomparve del tutto.
    Al posto di quelle voci, ella udiva solo il cantare degli uccelli e il sibilare del vento. Allo stesso modo, non riuscì a ricordare una singola immagine delle tante che avevano turbato la sua mente pochi istanti prima.
    Inspiegabilmente scomparse.
    Solo il battere insistente delle sue tempie la distraeva, come un ritmico bussare dall’interno, in cerca della sua attenzione.
    Inspirò ed espirò per molte volte, prima di accorgersi con sgomento che quell’esercizio le risultava del tutto nuovo.
    In effetti, le sue mani, le sue braccia, il suo intero corpo le risultava nuovo. Persino il pensiero la sconvolse.
    Si accorse solo in quel momento di essere un’entità vivente, come gli alberi dalle foglie rosse attorno a lei.
    Sentì la terra solleticarle la pelle nuda, il vento tra i capelli e il sole scaldarla e lasciò che quella consapevolezza si impadronisse completamente di lei.
    Allo stesso modo, riuscì a capire che qualcosa non andava, nel paesaggio che la circondava. Si trovava al centro di un cratere molto profondo, largo più di venti piedi. Era assolutamente innaturale, brullo, coperto da cenere e detriti, mentre tutto attorno, sul suolo intatto, cresceva una rigogliosa erba verde.
    Sotto di lei erano sparse delle strane gemme bianche, luminose come stelle. Altre caddero al suolo, rotolando dal suo corpo e dai suoi capelli, quando provò ad alzarsi in piedi.
    Ne era letteralmente cosparsa.
    Le spazzò via con gesti secchi, scuotendo il capo.
    Sollevandosi da terra, i capelli le piovvero attorno come un groviglio scuro e scomposto, unico riparo per il suo corpo nudo, e lei finì per cadere goffamente in ginocchio, instabile. Sibilò tra i denti nel tentativo di rimettersi in piedi una seconda volta, senza successo. Doveva abituarsi a coordinare tutte quelle estremità e più si concentrava su una di esse, più un’altra cedeva sotto il suo peso: drizzava una gamba mentre l’altra si piegava, faceva leva su un braccio ma l’altro la ostacolava.
    Poco dopo, si arrese sul suolo secco e ruvido, lanciando un sospiro infastidito.
    Nel compiere quel movimento, sentì qualcosa rimbalzarle sullo sterno e abbassò lo sguardo, curiosa: una lunga catenina reggeva un ciondolo, a lei sconosciuto tanto quanto il corpo che lo indossava. Afferrò il ciondolo e lo saggiò tra le mani, trovandolo tiepido e infinitamente resistente. I suoi occhi indugiarono a lungo sulla singolare pietra che il ciondolo conteneva, come rapita: era tondeggiante, luminosa e tinta di infinite sfumature violette, come un’ametista.
    Si stupì, anche se in ritardo, poiché tutto il suo corpo impacciato si era mosso armoniosamente per studiare quell’oggetto. Anche quando si era destata, ricordò, le sue mani erano corse al viso, come se fossero abituate a farlo.
    Poteva farcela, era solo questione di tempo.
    Ancora una volta, il lieve martellare della sua testa la costrinse a prestargli attenzione. C’era qualcosa che voleva essere ascoltato, nella sua mente: un’eco indefinita.
    La sensazione di dover ricordare. Di dover ritrovare.
    “Deve essere da quella parte, laggiù dietro gli alberi”, pensò lei, sfregandosi la fronte con cipiglio infastidito.
    Si riscosse in fretta, accantonando momentaneamente la questione: qualcosa era appena apparso nel raggio della sua visuale.
    O meglio, qualcuno.
    Un gruppo di figure sottili si muoveva veloce e silenzioso come un’ombra, tra gli alberi secolari. Vennero alla luce, avvicinandosi cautamente al cratere dove lei si trovava. Le puntavano addosso delle armi, che lei riconobbe come archi e frecce. 
    Elfi.
    Quella parola le attraversò la mente come uno scroscio improvviso e la associò distintamente a quegli individui dai lineamenti eleganti e affilati, con le orecchie appuntite.
    Istintivamente, le sue mani estranee si mossero verso il suo viso, fino a toccare le orecchie, constatando che erano anch’esse a punta. Sgranò gli occhi, a quella scoperta.
    Lei stessa era un elfo?
    Erano un po’ più piccole al tatto, rispetto a quelle ben evidenti dei suoi ospiti, ma pur sempre appuntite.
    Il dolore provato al suo risveglio le punzecchiò di nuovo la testa quando, dall’ombra del bosco, apparve un’ultima figura.
    Era un elfo alto, slanciato ma imponente. Indossava un lungo mantello, rosso come le fronde degli alberi sopra di loro, e portava sul capo una corona di rami e foglie.
    Era molto regale, notò lei.
    Regale, come un re?
    Lo guardò avvicinarsi lentamente al bordo del cratere e sgranare gli occhi. Guardava quelle pietre bianche e luminose attorno a lei con sgomento. Le sembrò come se un sentimento profondo sbiadisse il colore della sua pelle chiara, qualcosa d’insondabile ma estremamente violento.
    Solo dopo qualche attimo, l’elfo si accorse che nel cratere c’era anche lei.
    La sua espressione mutò, facendosi improvvisamente indecifrabile. La fissò per un tempo che le parve lunghissimo ma, tutto sommato, lei non aveva idea di cosa sarebbe successo dopo. Quindi attese pazientemente, ricambiando lo sguardo.
    Gli occhi dell’elfo regale erano chiari e brillanti, come quelle gemme che aveva guardato con tanto stupore.
    Poi lui avanzò nel cratere, mentre attorno si muovevano cauti gli altri elfi, con gli archi ancora tesi.
    L’elfo si arrestò proprio di fronte a lei e si abbassò con movimenti misurati, per arrivare alla sua altezza. Allungò una mano, adornata da svariati anelli brillanti e lei, suo malgrado, si ritrasse automaticamente. A quel gesto diffidente, l’elfo si accigliò appena, poi mosse ancora la mano pallida, che finì a terra solo per sollevare una di quelle gemme luminose. La portò vicino al viso per esaminarla meglio.
    Solo dopo quelle che parvero ore, egli si decise ad alzare gli occhi chiari su di lei: -Man eneth lîn? (Qual è il tuo nome?)-
    La sua voce la colpì, forse perché era la prima che sentiva, oltre a quelle confuse nella sua testa. Era profonda, senza una qualsiasi intonazione che definisse il suo stato d’animo.
    Si concentrò su di lui e pensò a lungo a quella domanda.
    L’elfo regale doveva essersene accorto, perché attese la sua risposta senza parlare e senza muoversi, limitandosi a studiare il suo viso con attenzione.
    Lei non aveva idea di quale fosse il suo stesso nome, o forse non ne aveva mai avuto uno. Mosse più volte le labbra e riordinò le parole per farle uscire proprio come suonavano nella sua testa, ignorando il dolore che ancora le mordeva le tempie.
    Il primo tentativo fu pietoso e non riuscì ad emettere altro che qualche mormorio sconnesso.
    Cercò altre parole, più semplici, osservando il volto dell’elfo regale.
    Vederlo da così vicino le permetteva di notare molti particolari: i lunghi capelli argentei si muovevano leggeri anche al più flebile alito di vento, gli zigomi alti proiettavano ombre affilate sul pallore candido della sua pelle e i suoi occhi rilucevano di infinite tonalità, intensi e freddi come un mattino d’inverno.
    Per un attimo, articolare le parole si fece più difficile e dovette concentrarsi meglio, nonostante l’elfo non le mettesse alcuna fretta: -Le bain.- Riuscì a dire, infine.
    Era davvero l’unica frase sensata che riuscisse a pronunciare in quel momento, e ne aveva provate tante.
    L’elfo regale dischiuse le labbra in un’espressione attonita, senza smettere di fissarla con ostinazione. Con quelle due semplici parole, lo aveva appena definito “bellissimo”.
    Forse non era proprio quello che le aveva chiesto ma, per lo meno, lo aveva pronunciato correttamente, pensò lei.
    –Non mi hai detto il tuo nome.- Insistette l’elfo. –Chi sei?-
    Lei provò a riflettere su quei nuovi suoni che lui aveva pronunciato e, questa volta, compose più facilmente la frase:
–Non ho un nome.- Sospirò, scossa dallo sforzo.
–Tutti hanno un nome. Come ti chiamavano nel luogo da cui provieni?- L’elfo regale era irremovibile, la sua voce perentoria e lei non voleva certo fallire. -Nessuno… nessuno mi chiamava.- Si concentrò: -Io non lo so. Non riesco a ricordare niente.- Concluse.
    Il che era certamente vero.
    Aveva solo confusione nella sua mente, oltre che dolore, e delle voci che aveva sentito al suo risveglio non riconosceva nessuna frase, troppo sovrapposte l’una sull’altra.
    L’elfo abbassò per un attimo lo sguardo sul petto di lei, scorgendo il particolare gioiello, poi tornò a guardarla negli occhi:
–Ti dirò il mio, dunque. Sono Thranduil, Re del Reame Boscoso.
    Lei ripeté: -Thranduil. Re Thranduil.- E l’elfo continuò, imperturbabile: -Ti trovi nel mio regno e ora sei mia prigioniera.-
    La bocca di lei ebbe un fremito contrariato: -Prigioniera.-
    Aveva una parvenza di cosa potesse significare.
    Convenne però che non importava molto in quel momento: non avrebbe saputo cos’altro fare se non affidarsi a quelle persone. -Be iest lin, Aran Thranduil. (Come desideri, Re Thranduil)- Disse, stringendo le labbra in un’espressione tesa.
    L’elfo si slacciò il lungo mantello dalle spalle e le coprì il corpo per intero, con un gesto secco. Lei si accorse di aver avuto freddo solo in quel momento, quando il calore del mantello la invase, portando con sé una sensazione di benessere del tutto nuova.
    Era una stoffa morbida, vellutata sulla pelle e profumata come l’erba verde attorno a lei. Vi affondò il viso e sorrise, per la prima volta da quando aveva coscienza di sé. Si stupì di quella strana reazione che le modificava così visibilmente i lineamenti.
    Smise all’istante di piegare in quello strano modo il viso e si portò velocemente la mano alle labbra, guardando il Re elfico con gli occhi spalancati, come a cercare risposte.
    Lui, invece, s’irrigidì istintivamente nel vederla compiere quel gesto. Provò l’impulso di allontanarsi immediatamente da lei, come se la sua sola vista lo turbasse.
    Non seppe spiegarsi il perché.
    C’era qualcosa di strano, in quella persona.
    Qualcosa d’innaturale e, allo stesso tempo, spaventoso.
    Si alzò in piedi e le diede le spalle, rivolgendosi agli elfi che lo seguivano: -Prendete tutte le gemme. Che vengano custodite nella tesoreria.- Poi le parlò di nuovo, da sopra la spalla, con lo stesso tono freddo e imperioso: -Khila amin. (Seguimi)-
    Lei si apprestò ad alzarsi ma cadde rovinosamente a terra dopo un solo passo. Si era dimenticata che con quella storia del camminare era un po’ in difficoltà.
    Lui si voltò, guardandola dall’alto e lei si morse un labbro, puntellandosi sui gomiti per rimettersi dritta.
    –Non sei ferita. Perché non riesci a camminare?-
    La giovane si mise carponi, tentando disperatamente di alzarsi: -Non sono… capace.- L’elfo non commentò, con il volto serio, poi fece segno a uno degli arcieri che, prontamente, aiutò la giovane donna a rimettersi in piedi.
    Re Thranduil volse in direzione della fitta vegetazione rossa e un magnifico cervo apparve davanti a loro, bardato al pari di un destriero. L’animale avanzò, regale quanto il suo padrone, e lei vi fu issata sopra senza ulteriori convenevoli.
    Affondò le mani in quella pelliccia folta, per paura di cadere, e sentì Thranduil salire agilmente dietro di lei. Si accorse in breve di quanto avesse bisogno di stabilità e si puntellò contro il petto del Re, cercando di assecondare il movimento dell’animale con tutta la concentrazione possibile. A quella pressione però, Thranduil si scostò bruscamente, toccandola solo quanto bastava per tenerla dritta. La giovane, contro ogni logica, non aveva un minimo di equilibrio e pendeva da ogni parte come un sacco mezzo vuoto. Come poteva essere possibile che una creatura evidentemente adulta non sapesse governare il proprio stesso corpo?
    Alla fine, l’elfo fu costretto a tenerla ferma con un braccio, mentre con l’altro guidava la sua nobile cavalcatura.
    Si addentrarono tra gli alberi silenziosamente, diretti verso la dimora nascosta degli Elfi di Bosco Atro.



 

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Capitolo 4
*** Un prezzo da pagare ***




-Un prezzo da pagare-

 


    Quando giunsero in prossimità del Palazzo di Thranduil, la ragazza sgranò gli occhi, assumendo una buffa espressione sorpresa. Il Re elfico, senza commentare, lasciò che ella si sporgesse dalla loro cavalcatura per ammirare il maestoso paesaggio che le si presentava dinnanzi.
    Superarono un ponte ricurvo, che sovrastava le acque turbinose di un fiume,[1] i cui piccoli affluenti si disperdevano nella valle rendendo rigogliosa la vegetazione circostante.
    Le radici di due enormi alberi dalle fronde rosse creavano un passaggio di archi naturali e i loro rami si avvolgevano attorno al portone d’ingresso come un’elegante cornice.
    Thranduil smontò dal cervo con un movimento fluido e rapido e uno degli elfi si sporse a sorreggere la giovane, lasciata a sé stessa. Questa si aggrappò alle sue braccia, tentando il più possibile di camminare da sola, seguendo il Re oltre i cancelli.
    Lo spettacolo era incredibile.
    Invece che apparire buie, le Sale sotto le colline erano illuminate a giorno da innumerevoli lampadari, larghi anche più di dieci piedi, che pendevano dai soffitti irregolari.
    Il palazzo intero era un saliscendi di corridoi, ponti e scale di pietra, che si affacciavano nelle immense sale gremite di elfi.
    Il gruppo si avviò velocemente lungo i corridoi e, ignorando le innumerevoli volte in cui inciampò, la ragazza stette sulle sue gambe per tutto il tragitto, sorretta solo dal braccio gentile dell’elfo al suo fianco.
    Cercò di non perdere un solo dettaglio di quei luoghi, imprimendoli nella sua memoria tanto da poterne ridisegnare la mappa ad occhi chiusi.
    Sbucarono poi in una sala ancora più maestosa, con grosse colonne simili ad alberi che sostenevano il soffitto altissimo. Un tronco nodoso ed imponente ne dominava il centro, così grande che nemmeno dieci uomini sarebbero riusciti ad abbracciarne la circonferenza. In esso era stata ricavata una scala, che giungeva serpeggiando laddove i rami si dividevano, dando vita ad uno spazio rialzato adorno di lampade ed eleganti archi intarsiati.
    Lì, il Trono di Thranduil si ergeva maestoso e raffinato, ricoperto da stoffe preziose, e decorato con motivi d’argento, sovrastato poi da un enorme palco di corna appartenute a chissà quale enorme ungulato dei tempi remoti.
    Invece che dirigersi verso le scale, il gruppo superò anche quella sala e la ragazza iniziò a chiedersi per quanto ancora si sarebbero inoltrati nelle viscere della terra.
    Come se le avesse letto nel pensiero, il Re si fermò e, ad un suo gesto, tutti gli elfi si dileguarono. Solo l’elfo gentile che sorreggeva la giovane rimase immobile e Thranduil si rivolse a lui, con tono imperioso: –Portala nell’ala est, nelle Sale d’Opale. Rimarrà confinata lì fino al nuovo ordine. Coordina tu i turni delle guardie.- Spostò lo sguardo su di lei, serio e socchiuse gli occhi:
-Non devono essere meno di sei.-
    Era un numero spropositato per come la giovane appariva ma il Re non era uno sprovveduto e non avrebbe sottovalutato la situazione. Lei era stata trovata viva dove la stella era caduta, la stessa stella che aveva fatto tremare la terra e persino le fondamenta del Palazzo, precipitando al suolo.
    Non prima di averle rivolto un’ultima occhiata, Thranduil si voltò e tornò sui suoi passi.
    Lei non avrebbe voluto separarsi dal Re elfico così in fretta, tutt’altro. Aveva così tante domande da porgergli che cominciava a maledire sé stessa per il fatto di non riuscire a formularne nemmeno una.
    Eppure, una parte di lei fu felice di allontanarsi da Thranduil dato che, in breve tempo, la testa smise di dolerle.

    L’elfo gentile la guidò fino ad un insieme di salette di pietra, che si sovrapponevano e si affiancavano senza alcuna simmetria, scandite da archi slanciati e ponticelli coperti di rampicanti rossi.
In alto, a molti piedi da terra, una serie di aperture lasciava filtrare la luce del sole. L’entrata dell’articolato ambiente era anche l’unica uscita e una fontana adornava il piccolo cortile interno, dove già sei guardie si apprestavano a svolgere il loro compito.
    La ragazza fu condotta nella più alta delle stanze, superando salottini dagli arredi eleganti e studioli silenziosi popolati solo da alcuni elfi femmina, che assunsero espressioni curiose e sorprese al suo passaggio.
    -Hama neva i’naur. (siediti accanto al fuoco)-
    Le ordinò l’elfo con voce pacata, quando raggiunsero la stanza.    Lei non se lo fece ripetere e sprofondò nei tessuti morbidi di una poltroncina. Un camino dalle linee sinuose scaldava l’ambiente, arredato solo da una piccola specchiera, una panca, la poltroncina e un letto dalle tende chiare.
    Non molto tempo dopo, una dolce voce femminile risuonò tra le pareti di pietra della stanza: -‘Quel re. (buon giorno)-
    La giovane si voltò verso l’ingresso e il braccio le scivolò dalla poltrona in una posa sgraziata. A parlare era stato un elfo femmina dai capelli ramati, con un abito verde semplice e senza ornamenti.
    -Lle quena i’lambe tel’ Eldalie? (parli la lingua degli elfi?)-
    La ragazza annuì ma si sforzò di risponderle: -Preferisco parlare così.- L’altra sorrise e fece cenno all’elfo gentile che aveva condotto lì la giovane. Lui s’inchinò leggermente e uscì di fretta, lasciandole sole.
    –Io sono Emlinel e mi occuperò di te finché resterai qui.-
    Era una dama molto bella, dal viso affilato e gli occhi tanto chiari da sembrare trasparenti.
    Senza perdersi in convenevoli, la dama le fu vicino, chiedendole con lo sguardo il permesso di toccarla. La giovane si lasciò prendere per mano e seguì Emlinel senza indugio, rassicurata dal suo fare sicuro.
    Scendendo delle ripide scalette a chiocciola, raggiunsero la stanza più bassa di tutte. Era uno spazio piuttosto ampio, con il soffitto basso sorretto da spesse colonne, e diverse vasche piene d’acqua si aprivano nel suolo di pietra.
    Emlinel si apprestò a togliere il mantello del Re dalle spalle della giovane e lo ripose con cura: -Non mi hanno saputo dire molto di te.- Sorrise. La ragazza si accorse che l’altra evitava di chiederle come si chiamasse, forse perché era già al corrente degli avvenimenti di qualche ora prima e ne fu sollevata: –Non so niente di me.- Ammise, sistemandosi in una delle vasche come Emlinel le diceva di fare e cercando di imitare il suo sorriso.
    -Dove siamo?- Chiese, di getto.
    -Sei nella parte Nord di Eryn Lasgalen. Questo è il Reame Boscoso e ci troviamo nelle Sale di Re Thranduil, figlio di Oropher.- Spiegò l’altra, con voce chiara.
    Come se quei molti nomi avessero un qualche significato, pensò la ragazza.
    Non chiese altro, consapevole che delle semplici spiegazioni non sarebbero bastate a istruirla sulla strana situazione in cui si trovava. Senza continuare la conversazione, la dama le bagnò i capelli e li riempì di un liquido profumato, cantando a bassa voce una lieve melodia. La giovane trovò che il suo nome fosse assolutamente adatto alla sua persona: Emlinel, uccellino.
    Notò poi un particolare, osservando l’operato della sua compagna: il contrasto tra la loro pelle era davvero singolare.
    Era evidente e si sorprese di non averlo notato prima. Come consistenza non erano differenti ma la sua pelle era incredibilmente più scura, di un colore che non riusciva a decifrare. -La mia pelle…- Iniziò, studiandosi le braccia e le gambe, sollevandole sul pelo dell’acqua.
    Emlinel annuì, sorridendo dolcemente per celare la sua stessa confusione: -Un colore che ricorda il miele caramellato, non ti sembra? Alla luce di queste candele è quasi dorata. O forse è dei toni del rame, difficile a dirsi!-
    La giovane non aveva idea di cosa fossero il miele caramellato e il rame ma accettò quell’osservazione senza obbiettare.
    Anche i suoi capelli erano diversi da quelli di Emlinel e li scrutò con cipiglio serio mentre galleggiavano e si appiccicavano al suo petto, neri come le piume dei merli che aveva visto nel bosco.
    Ricordò le proprie, strane orecchie e portò le mani rispettivamente una sulle proprie e una su quelle di Emlinel, tastando curiosamente. La dama sussultò ma non si scompose e lasciò che la giovane le toccasse il viso, osservando come muoveva l’altra mano sul proprio per coglierne le differenze.
    -Sono un elfo?- Domandò questa, speranzosa.
    La dama sentì il cuore perdere un battito nel sostenere lo sguardo di quei grandi occhi luminosi: -Proprio non lo so, cara...-

    Poco dopo, la giovane fu asciugata e vestita con un semplice abito bianco, che cadeva dritto senza alcuna decorazione, come quello di Emlinel. Fu delusa dal fatto che la sensazione sulla pelle fosse ben diversa da quella provata con il mantello del Re elfico. Quella stoffa non profumava come il bosco e non era altrettanto calda.
    Tornate nella camera da letto, Emlinel sospinse la ragazza verso la specchiera, gentilmente: -Ti mostro una cosa, vieni qui vicino a me.- Posò le mani sulle sue spalle: -Questo è uno specchio. Riflette le nostre immagini, così possiamo vedere come appariamo.-
    L’altra osservò la bocca di Emlinel muoversi su quella superfice sorprendente e spalancò gli occhi, cosa che la sua immagine riprodusse all’istante.
    Così quello era il suo aspetto.
    Era più bassa della compagna di quasi una testa, le ciglia nerissime che le contornavano gli occhi grandi. Le sue orecchie erano piccole e, seppur appuntite, non somigliavano poi tanto a quelle di un elfo. Si concentrò sulle iridi azzurre di Emlinel, poi sulle sue, di un viola intenso, come la curiosa pietra della sua collana. Passò una mano tra i capelli nerissimi, lisciandone le onde annodate e scomposte fino alla vita, assorta in quell’incredibile scoperta.
    La dama guardò il viso della giovane con tenerezza: chissà quanta confusione regnava nella mente di quella povera fanciulla senza nome.

    Il sole era ormai tramontato quando la giovane si decise a distogliere lo sguardo dallo specchio.
    Emlinel, dopo averle portato del cibo, l’aveva lasciata sola per qualche ora, perché mangiasse e si riposasse a dovere.
    Certo, come se fosse possibile rilassarsi in una situazione tanto assurda.
    In principio, la giovane non aveva degnato di uno sguardo il vassoio che la dama le aveva consegnato, poi la curiosità, o forse la noia, avevano preso il sopravvento.
    Fu interessante assaggiare quelle strane pietanze elfiche.
    Anche se non erano proprio di suo gusto, si ritrovò a pensare lei, storcendo il naso davanti all’ennesima pianta scondita.
    Non aveva fame, non aveva nemmeno sete, però pensò fosse meglio nutrirsi per mantenersi in forze: quel bisogno era istintivo e lasciò che la guidasse.
    Nella camera, inoltre, aveva trovato diversi libri, accatastati in un angolo. In particolare, era stato quello intitolato “Dizionario” ad incuriosirla.
    Il fatto che l’avesse letto e riletto ormai tre volte era la riprova di quanto si stesse annoiando, lì da sola.
    Senz’altro da fare, la prigioniera uscì dalla stanza e andò a sedersi sul bordo freddo della fontana, nel piccolo cortile del comprensorio.
    Le candele erano ancora spente e il fuoco zampillava nel camino solo in quella saletta dove sarebbe dovuta rimanere, lasciando il complesso immerso nella penombra della sera.
    Un timido raggio di luna crescente fece capolino dai lucernai sull’alto soffitto, giocando a riflettersi sull’acqua zampillante della fontanella e, subito, la pietra del caseggiato si riempì di scintillii variopinti.
    La ragazza saltò in piedi, meravigliata, perdendosi nelle luci che la pietra creava come se in sé contenesse decine e decine di minuscoli frammenti di vetro. 
    Opale, ecco il perché di quel nome.
    La pietra conteneva schegge di quel prezioso minerale e ora l’intera sala risplendeva come una notte stellata.
    La giovane provò un’intensa sensazione di familiarità, come se fosse già stata circondata da luci simili.
    Le sue gambe avevano da poco cominciato a seguire i suoi comandi e azzardò un saltello per sfiorare i riflessi di quella luce dai mille colori: per una frazione di secondo, la sua mano divenne altrettanto colorata. Rise ma si fermò un attimo dopo, portandosi una mano alle labbra.
    Che strana sensazione.
    Ma le piaceva il suono che proveniva dal suo petto mentre compiva quel gesto tanto naturale. Rise di nuovo e saltellò ancora.
    –Allora eri qui!- Esclamò Emlinel con voce divertita, raggiungendola. –Disturberai le altre dame con questo chiasso.- La ammonì, dolcemente.
    La giovane, che non voleva perdersi un secondo di quello spettacolo, le afferrò la mano: -Guarda quanta luce Emlinel, non trovi che sia splendida?- L’altra la fissò a bocca aperta e la fanciulla si fermò automaticamente, senza comprendere la sua reazione. -Cosa succede?- Si avvicinò alla dama, sfiorandole un braccio con la mano come per riscuoterla.
    –Le parole escono dalle tue labbra limpide e ordinate, mentre prima a stento riuscivi a pronunciarle.- Esclamò lei, sorpresa.
    La ragazza inclinò la testa e fece spallucce: -C’era un dizionario in camera.- Si giustificò, come fosse una spiegazione del tutto ovvia.
    -E tu sai leggere?-
    In effetti, non era poi così scontato che ne fosse capace, pensò la giovane, stupendosi a sua volta.
    Dopotutto, a malapena sapeva camminare.
    Doveva esserci una spiegazione.
    Forse non era sempre stata incapace di farlo e, per qualche strana ragione, doveva solo ricordare meglio. Magari ricordare chi fosse, tanto per cominciare.
    Sfregò malamente la tempia di nuovo dolorante ma non ebbe il tempo di dire altro che Emlinel si portò una mano alle labbra, trasalendo: -È tardi! Adesso dobbiamo andare. Il Re vuole vederti.-
    La ragazza sussultò a quelle parole, presa in contropiede.
    E così, la prigioniera era attesa, pensò con stizza.
    Giusto, stizza. “Viva irritazione, per lo più momentanea, provocata da un senso di fastidio o di molestia”, appuntò mentalmente la giovane, ricordando senza sforzo la definizione riportata nel vocabolario.
    Inspirò profondamente, lanciando un ultimo sguardo alla sala dalle luci opalescenti, e seguì Emlinel verso le sei guardie pronte a scortarle.

    In fila indiana, i sette elfi e la ragazza salirono le scale dell’immenso tronco, fino in cima.
    Lo sguardo della giovane corse subito verso il trono, posto più in alto rispetto a loro e individuò il Re, in piedi di fronte ad esso.
    Gli occhi gelidi di lui ricambiarono per un istante lo sguardo, spostandosi poi sugli altri ospiti: -Potete andare.- Li congedò, senza attendere oltre.
    Tutti si ritirarono diligentemente, una mano sul cuore. Solo Emlinel si attardò ma Thranduil fu categorico: -Tutti, Emlinel.-
    Lei sgranò gli occhi, guardando la giovane. –Si, mio signore.- Non si aspettava di lasciarla completamente sola con il Re ma non avrebbe di certo potuto ribattere. Così le sorrise, tentando di essere il più rassicurante possibile e se ne andò.
    La ragazza non sembrò capire quello sguardo.
    Doveva avere timore di qualcosa?
    Si voltò verso il Re e lo trovò di nuovo intento a osservarla, con occhi taglienti. Lui la guardò con attenzione, notando particolari cui non aveva dato peso, quella mattina. Certo, se non fosse stata completamente nuda, non avrebbe dovuto concentrarsi solo sul suo viso per tutto il tempo. Adesso, poteva soffermarsi senza fretta sulla pelle ambrata della giovane o sui suoi capelli corvini.
    La ragazza lo lasciò fare, comprendendo il bisogno del Re di studiarla come lei stessa aveva fatto quella mattina ma finì per trarre un sospiro dolorante, quando il mal di testa si ripresentò, lieve ma fastidioso. Si massaggiò una tempia: –Perché mi fa così male la testa?- Chiese, più a sé stessa che al Re.
    Lui sollevò un sopracciglio: -Vedo che ti esprimi in modo meno patetico rispetto a questa mattina.-
    Lei, per tutta risposta, gli lanciò uno sguardo obliquo: -Mi sono informata a dovere con un libro chiamato Dizionario.-
    La piccata risposta tagliò la solenne atmosfera della sala come un’accetta: -Spero, però, di non essere qui solo per mostrarti i miei progressi con la dizione.- Concluse, sollevando il mento.
    Lui rimase spiazzato per un secondo.
    Esterrefatto, anzi, era il termine più calzante.
    Non si sarebbe mai aspettato una risposta simile, soprattutto da quella ragazzina che, fino a poche ore prima, a malapena stava in piedi da sola.
    –Parole sfrontate da rivolgere ad un Re.- Socchiuse gli occhi, più incuriosito che arrabbiato. La giovane non ribatté, catturata dai suoi occhi chiari e incredibilmente espressivi.
    Dopotutto, quell’elfo regale non era poi così impassibile come voleva sembrare, pensò.
    –Tuttavia non posso biasimarti. Sembri non avere familiarità con i bei discorsi. Da dove vieni?- Continuò lui, studiandola.
    La ragazza scrollò la testa: -So di me quanto sapevo questa mattina. Ovvero, niente. I miei ricordi cominciano da quando ho aperto gli occhi nel bosco, poco prima di incontrare voi elfi.-
    Lui sembrò deluso da quella risposta e scese le scale verso di lei, con passi lenti e misurati: -Cosa sai dirmi delle gemme bianche che avevi con te?- I suoi occhi, solo per un momento, furono attraversati di nuovo da quell’ombra che lei non sapeva definire. Lo seguì con lo sguardo mentre lui le girava attorno:
-Erano lì quando mi sono svegliata. Credo di averne avuto alcune addosso ma non so perché.-
    Lui le tornò davanti, questa volta decisamente più vicino: -Sono gemme bianche, di pura luce stellare. Credevo di possedere le uniche esistenti su questa terra ma, a quanto pare, mi sbagliavo.-
Troneggiava su di lei, maestoso e rigido come una dettagliatissima statua. Era talmente alto che la giovane fu costretta a sollevare la testa per guardarlo negli occhi: -Se sapessi qualcosa, qualsiasi cosa, te la direi, Re Thranduil.-
    Ed era totalmente sincera.
    Non avrebbe comunque potuto fare altrimenti, essendo lui l’unica fonte d’informazioni che la giovane potesse sperare di avere in quel luogo.
    Il Re degli Elfi sembrò soppesare a lungo quelle parole, come a volerne saggiare la veridicità fino in fondo e scavò negli occhi viola della strana prigioniera.
    L’unica parola che riusciva a trovare per descriverla era “insolita”. Decisamente insolita.
    Ma niente di più.
    Infine, sembrò prendere una decisione: –Accetto il tuo pagamento e non ti ucciderò.-
    A quelle parole, lei sgranò gli occhi viola, sussultando: -Quale pagamento? E perché volevi uccidermi?-
    Il Re le diede le spalle e andò a sedersi sul suo trono: -Non so chi o cosa sei, quindi non posso ignorare la possibilità che tu divenga un pericolo. Ma ti lascerò vivere. Certo, il disturbo vale tutte le tue gemme bianche. Mi sono preso la libertà di decidere per te.- La guardò dall’alto in basso, altezzoso: -Non che tu possa fare altrimenti.-
    La giovane s’irrigidì di colpo e si stupì delle emozioni che s’impadronirono di lei.
    Era arrabbiata, costernata? Non seppe definirle, questa volta.
    Era certa solo del fatto che l’atteggiamento irriverente che lei stessa assumeva con naturalezza davanti al Re degli Elfi fosse decisamente giustificato.
    Ad un minimo gesto del Re, le sei guardie elfiche la circondarono. –Rinchiudetela di nuovo.- Si limitò a dire lui, quasi annoiato.
    La ragazza si scostò, rivolgendosi al Re con un tono carico di disappunto:  -No, un attimo. Adesso tocca a te rispondere alle mie domande. Non ti aspetterai che io mi faccia segregare ancora in questo modo, vero? Dato che mi fai prigioniera senza una vera motivazione, se non il fatto di ignorare chi sono, me lo devi.-
    Thranduil tornò a guardarla, inaspettatamente incuriosito:
-Non hai mai detto di avere delle domande da pormi.-
    Lei incrociò le braccia al petto, stringendo le labbra: -Non che tu mi abbia dato il tempo, Re degli Elfi.-
    Lui avvertì di nuovo una punta di presunzione in quelle parole ma, cosa per lui assai rara, lasciò correre: -Allora potrai farmi le domande che desideri. Ma tutto ha un prezzo, in questo regno. Soprattutto il mio tempo.-
    La giovane se lo aspettava e sollevò il mento, altezzosa: -Tutto quello che possiedo, lo hai davanti agli occhi.- Disse, alludendo a sé stessa.
    Lui parve quasi divertito da quella risposta e liquidò la faccenda sbrigativamente: -Bene. Vorrà dire che d’ora in poi tu sarai una mia proprietà.-




 
 
[1] Il fiume in questione è chiamato Taurduin e attraversa la parte Nord della Foresta e il cuore delle Sale di Thranduil, per proseguire verso Est. Fu lungo questo corso che i Nani della Compagnia di Thorin fuggirono dal Reame Boscoso, grazie allo stratagemma di Bilbo.



N.D.A

Ciao a tutti! Eccoci anche questa settimana ^-^ Dato che il terzo capitolo è più un passaggio prettamente descrittivo, mi sono sentita in dovere di pubblicare anche il quarto, di seguito!
Mi rendo conto che una panoramica del genere potrebbe risultare poco utile ai fini della trama ma ho adorato immaginare e ricostruire il Reame Boscoso in tutto il suo splendore *-*

Spero che vi piaccia e, come sempre, mi farebbe piacere sentire le vostre opinioni! Buona lettura e grazie a tutti voi che siete arrivati fino a qui :3

Ci rivediamo nei prossimi capitoli,
mille abbracci

Aleera

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Capitolo 5
*** Tra racconti e memorie ***



-Tra racconti e memorie-

 


    Nei giorni seguenti la giovane, seppur indispettita, raggiunse il Re ogni sera, poco dopo il tramonto. Le guardie la scortavano con compostezza nella Sala del Trono, poi li lasciavano soli.
    Thranduil mantenne fede alla propria parola e ogni sera rispose alle sue domande, rivelandole qualcosa sulla Terra di Mezzo.
    La ragazza assorbiva come una spugna i racconti del Re e non dimenticava una sola parola. Apprese la natura delle razze che popolavano quelle terre e il loro passato e il Re non le negò nessun dettaglio.
    In qualche modo, il dolore alla testa si attenuava ad ogni informazione ricevuta, come se fosse stato provocato dall’assenza sorda di informazioni e il Re degli Elfi ponesse rimedio parola dopo parola.
    O forse, e la cosa la disturbava parecchio, era la vicinanza fisica con quest’ultimo a darle sollievo.
    Accanto a lui, al suo antico potere di elfo immortale, era più facile scacciare quell’eco insistente, e più passava il tempo, più questa sembrava scordarsi di lei.
    La giovane poteva stare seduta ad ascoltare il Re per ore, senza che la sua attenzione calasse un attimo: la sua voce profonda la trasportava attraverso il tempo e lo spazio e per nulla al mondo avrebbe saltato uno dei loro incontri.
    Anche Emlinel cercava di fare la sua parte, durante il giorno, quando la ragazza, dopo aver divorato libri su libri, poneva a lei le sue continue domande, come se non ne avesse mai abbastanza. La sua sete di conoscenza era tale da toglierle l’appetito.
    A dirla tutta, la giovane non sopportava affatto di dipendere in quel modo dal Re elfico, che non si era mai mostrato gentile o bendisposto nei suoi confronti.
     Infatti, egli la teneva segregata tutto il giorno, senza permetterle di visitare il palazzo o interagire con qualcuno al di fuori di Emlinel.
    Era più che giustificata a lamentarsi di lui.
    Ma il tramonto portava con sé un’irrefrenabile impazienza, che la spingeva a bramare la sua compagnia sopra ogni cosa, e quelle poche sere le bastarono per non odiare totalmente il Re e la prigionia che le imponeva.
    Un’altra cosa, poi, le impediva di provare astio nei suoi confronti: dal primo momento in cui l’aveva visto, era certa che il Re portasse un grave peso sulle spalle, profondo e antico al di là di ogni sua comprensione.
    Aveva cercato di indovinare le sue emozioni, se tristezza, rabbia o nostalgia ma nessuna di esse sembrava essere abbastanza. Si era arresa all’idea di non poterlo capire e si limitava ad accettare la situazione così com’era.
    Per Thranduil fu, suo malgrado, lo stesso.
    Dapprima, l’elfo cercò di mantenere alti i muri che aveva innalzato tra lui e la straniera, limitandosi a rispondere seccamente alle sue domande. Eppure si era reso conto che parlare con la ragazza non era affatto spiacevole.
    Certo, la studiava al pari di un oggetto sconosciuto, incuriosito e frustrato dal fatto di non poterne sapere di più e stava dispiegando numerose ricerche per tutta la Terra di Mezzo, nella speranza di venire a capo di quel mistero.
    In primo luogo, non aveva idea di dove fosse finito il corpo celeste che era precipitato dal cielo, quella notte. L’unica traccia che riconduceva ad esso erano le gemme di luce stellare che vi si erano distaccate nell’impatto con il suolo.
    E quella giovane, ovviamente.
    Ma nulla di più.
    Thranduil sapeva che le gemme bianche erano solite finire nella loro terra attraverso le scie di antiche stelle cadenti ma non gli risultava che, in tutta la storia conosciuta, una stella fosse precipitata al suolo per svanire nel nulla.
    Anzi, non ne erano cadute affatto.
    Ogni volta che lui poneva una domanda del genere, la giovane non rispondeva e, fino alla sera successiva, l’elfo rimaneva scontroso, insoddisfatto e taciturno.
    Poi incontrava di nuovo lo sguardo curioso della ragazza, quegli occhi color ametista che bramavano conoscenza e il suo umore si placava. Era acuta, intelligente e Thranduil si stupiva spesso della sua schiettezza e della sua sincerità.
    Gli era incomprensibile la spontaneità con cui la giovane si esprimeva, dando voce ad ogni suo pensiero, senza veli. Lo interrompeva di continuo, interrogandolo anche sui più insignificanti particolari dei suoi racconti, emozionata come una bambina e per lui diventava sempre più difficile rimanere distaccato.
    L’ultima sera, le raccontò della sconfitta di Sauron e di come la Terra di Mezzo avesse ripreso a prosperare.
    –Ad oggi regna la pace e il tempo degli Uomini è iniziato.-
    Concluse, seduto scompostamente sul suo trono. La ragazza aggrottò le sopracciglia, seduta docilmente a terra davanti a lui, le ginocchia tirate al petto: -Tutto qui?-
    Lui s’irrigidì: -Come sarebbe a dire, “tutto qui”?-
    Lei scosse la testa e i folti capelli neri le incorniciarono il viso:
-Non può essere finita così. Forse hai dimenticato qualcosa d’importante.- L’elfo non comprese e le rivolse uno sguardo interrogativo. La giovane sembrava agitata e si tormentava un lembo del sottile abito bianco, che creava un netto contrasto con la sua pelle dorata: -Niente di questo spiega chi sono o perché sono qui.- Spiegò.
    Thranduil percepì il suo sconforto ma cercò di sviare il discorso, infastidito: -Non è un problema mio. Ho risposto a tutte le tue domande ma non posso dirti quello che non so. Tu non mi ripeti forse la stessa cosa, ogni volta che sono io a porre una domanda?- Lesse tristezza negli occhi ametistini e decise di interrompere lì la loro quotidiana seduta.
 
**

    Thranduil si recava spesso nella tesoreria.
    Era un’abitudine che aveva da sempre ma ancora di più avvertiva il bisogno di recarcisi ora.
    Le gemme bianche trovate nel cratere erano state raccolte e riposte in uno scrigno di legno levigato, che troneggiava tra tutti gli altri al centro della stanza buia.
    Vicino ad esse, un piccolo panno di velluto cremisi reggeva una collana fatta dalle medesime pietre lucenti, custodita in quel luogo da molto, molto più tempo.
    Quella collana era il cimelio più prezioso della sua collezione.
    Aveva addirittura combattuto una guerra per riaverla, affrontando la testardaggine di un valoroso nano della stirpe di Durin. Ed era certo che l’avrebbe fatto ancora, se fosse stato necessario.
    Solitamente, passava solo pochi minuti a fissare il gioiello, senza muoversi, poi se ne andava.
    Accadeva puntualmente -e inevitabilmente- almeno una volta al giorno.
    Quando rimaneva lì, ritto in piedi con il suo solito cipiglio regale, il Re non pensava a niente. Il suo viso perdeva colorito, il suo corpo diventava rigido e pesante ma riusciva a non sentire niente.
    C’era solo un vuoto terribilmente silenzioso, nient’altro.
    Odiava quella sensazione, avrebbe preferito il dolore.
    Ma un elfo, quando prova un’emozione, l’avverte con più intensità di chiunque altro e il dolore di Thranduil aveva raggiunto vette tanto estreme da minacciare di ucciderlo.
    Forse per istinto di autoconservazione, forse per amor del suo regno e di suo figlio, il Re aveva resistito.
    Ma dopo, non sentì più niente.
    Né nel bene, né nel male.
    Se ripensava a sua moglie, la destinataria di quel dono tanto prezioso, la vedeva e la udiva parlare come se l’avesse dinnanzi agli occhi ma non provava niente.
    Solo un profondissimo nulla da cui non riusciva ad uscire.
    Di lei rimaneva solo la collana, intrisa dei ricordi di quel passato che il Re temeva di dimenticare.
    Eppure era accaduto qualcosa di inaspettato.
    Per un solo istante dopo anni di vuoto incolmabile, Thranduil aveva avvertito un fremito, un brivido che gli aveva percorso la schiena. Era stato lo sguardo violetto di quella giovane donna, nella radura, a riscuoterlo senza clemenza.
    Lo aveva terrorizzato.
    Per secoli era rimasto indifferente a chiunque, divenendo irraggiungibile persino per suo figlio, e per la prima volta non fu così. Lo sentì nelle ossa, sulla pelle, come se quella donna riuscisse a vedere in lui le emozioni che aveva smarrito, quello che era un tempo.
    La potenza di quegli occhi ametistini l’aveva turbato, è vero.
    Poi l’aveva conosciuta.
    Un essere senza identità, senza passato.
    L’aveva osservata costruirsi nel giro di pochi giorni, come se da sempre le fosse chiaro chi dovesse essere e avesse dovuto solo mettere insieme i pezzi.
    Invidiava quella spontaneità.
    Gli sarebbe piaciuto mettere insieme anche i propri pezzi allo stesso modo.
    Anche ora, fissando quelle gemme bianche, non sentiva dolore, non sentiva gioia o tristezza. Ma in qualche modo, nei recessi del suo animo contratto, qualcosa si era risvegliato.
    Qualcosa si era insinuato nei suoi pensieri e lo incuriosiva, lo distraeva da tutto il resto.
    Qualcosa che aveva il colore dell’ametista e la purezza di una stella.
    Sulla porta della tesoreria, Emlinel si arrestò discretamente, riscuotendo il Re dai suoi pensieri. Egli volse leggermente il capo verso di lei: -Cosa c’è?-
    La dama si portò una mano al cuore, inchinandosi:-Mio Re, perdonami. Sono venuta a portarti il resoconto della giornata.-
    Lui inspirò profondamente, poi raggiuse Emlinel, che indietreggiò con il capo ancora chino. -Nulla di nuovo. Non ha detto o fatto niente di diverso rispetto a ieri. O il giorno prima… Ora sta dormendo.-
    Thranduil annuì: -Bene. Puoi andare.-
    Lei non si mosse e continuò, senza guardarlo negli occhi:
-Però…-
    Lui si voltò verso la dama, lo sguardo glaciale: -Però cosa? Parla, Emlinel.- Lei si schiarì la voce, intimorita dalla presenza del Re. Si fece coraggio: -E’ una settimana che la giovane è rinchiusa nelle Sale d’Opale. È insofferente. La vedo sempre più… spenta. Temo abbia paura di non scoprire mai chi è davvero. Se avesse una famiglia, un passato… Ci sarà qualcosa che possiamo fare per-
    Lui la interruppe bruscamente, con un tono basso ma conciso:
-Evita di tediarti oltre, Emlinel. Io decido come e quando fare qualcosa. Nessuna di voi due ha voce in capitolo.-
    Lei si zittì. Lo guardò voltarsi e lasciare il corridoio, senza il coraggio di dire altro.



N.D.A 
Ho deciso di dare un titolo ad ogni capitolo, una parola o poco più che definisca il "fulcro" di esso. Trovo sia molto più ordinato così. Voi cosa ne pensate? ^-^

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Capitolo 6
*** Sillen ***



-Sillen-

 


    La stanza era più buia del solito e il fuoco nel camino si stava lentamente spegnendo, senza che nessuno si apprestasse ad alimentarlo. Il pungente freddo della notte primaverile cominciò ad invadere la stanza ma la giovane non si svegliò. Rimase immobile tra le coperte, il petto che si alzava e si abbassava lentamente.
    Poi un sussulto, poi un altro.
    Stava sognando?
    Non avrebbe nemmeno saputo dire se stesse effettivamente dormendo.

    “Immagini distorte le scivolarono davanti. Una voce melodiosa e glaciale intonava una litania incomprensibile, che rimbombava attorno a lei da tutte le direzioni.
    Ancora e ancora.
    Improvvisamente, si ritrovò ad ammirare un grande paesaggio, ricco di boschi, valli e montagne e lo guardò dall’alto, abbracciandolo completamente con lo sguardo.
    Con dolcezza, si accorse di amarlo moltissimo.
    Si avvicinò ad esso, sempre più velocemente, cogliendone mutevoli dettagli. Vide una torre bianchissima, alta, che svettava su una città altrettanto bianca.
    La pace durò un attimo, poi tutto iniziò a sfumare.
    Le scene pacifiche di quei luoghi si alternarono a orribili visioni, dove il fuoco divampava e il sangue bagnava la terra: ad un tratto, la torre bianca crollò sulla città, ormai tinta di un terribile rosso cremisi.
    Vide poi un bosco farsi sempre più vicino, ad una velocità impressionante. La voce attorno a lei si fece vicinissima, metallica e disincarnata e poche, semplici parole si impressero a fuoco nella sua mente: 
stella, battaglia, popoli liberi.
    Il sangue e il fuoco tra le fronde la accolsero e lei gemette dal dolore quando un assordante fischio le dilaniò i timpani.
    Non riuscì ad opporsi, a muoversi: l’impatto con il terreno fu violento
.”

    Poi si svegliò, urlando. Si tirò a sedere e i capelli scompigliati le si appiccicarono al viso. Era madida di sudore.
    Stravolta, strinse le braccia al petto, singhiozzando. Gocce calde caddero sulle coperte e lei si portò le mani agli occhi, asciugandoli frettolosamente.
    Erano lacrime? Era troppo scossa per stupirsene.
    I suoi singhiozzi erano talmente forti da farle dolere il petto e brividi di freddo le percorsero il corpo come scariche elettriche.
    Il suo grido improvviso, intanto, aveva richiamato l’attenzione delle guardie elfiche, che accorsero velocemente nella stanza. L’elfo gentile che l’aveva accompagnata in quelle sale la prima volta si avvicinò cautamente, una mano sull’elsa della spada.
    Dopo aver constatato che nella stanza non vi fosse assolutamente nulla di sospetto, raggiunse il capezzale della giovane, sedendosi al suo fianco e prendendola per le spalle con delicatezza: -Mani marte? (cosa è successo?)-
    Lei sollevò lo sguardo su di lui: -Io non… Non lo so. Credevo fosse un incubo ma…- Si portò le mani alle tempie, che adesso avevano ripreso a pulsare terribilmente: -No. Non era un semplice incubo...- Fissò i suoi occhi in quelli dell’elfo gentile, con decisione: -Devo vedere il Re. Subito.-

    La guardia scortò la giovane fino agli appartamenti privati del Re, lanciandole occhiate preoccupate lungo tutto il tragitto.
    Lei fece del suo meglio per non apparire troppo sconvolta ma sapeva che il suo aspetto non era dei più rassicuranti. Pregò che il Re accettasse di vederla, nonostante fosse notte fonda.
    Si fermarono nel corridoio davanti alle stanze di Thranduil e la guardia scrutò la porta con apprensione, indeciso se avanzare o meno fino all’ingresso. Fece un passo e subito i due elfi a guardia della porta rossa gli sbarrarono la strada.
    Lui spiegò brevemente la situazione, con voce alta e sicura ma la giovane vide la sua fronte imperlarsi. Ancora non si spiegava tutta quella radicata paura nei confronti di Thranduil e si ritrovò a chiedersi cosa mai lui avesse fatto per incutere quel reverenziale timore nei suoi stessi sudditi.
    Subito, uno degli elfi alla porta si voltò e la aprì, richiudendosela alle sue spalle, una volta entrato.
    Passò appena qualche minuto, poi la porta si spalancò nuovamente. La stessa guardia avanzò verso di loro, facendo segno alla giovane: -Entra.-
    Quando vide l’elfo gentile impallidire e fissarla preoccupato, la ragazza strinse la sua mano sottile tra le sue, a mo’ di conforto. Sorrise e, precedendolo, si diresse verso la porta di legno rossastro che portava alle stanze del Re.
    Trovò in fretta Thranduil, che se ne stava seduto su una poltrona dallo schienale alto, al centro di uno studiolo, intento a leggere alcuni fogli.
    Senza corona, pareva quasi rilassato.
    Un vero peccato turbare tanta tranquillità, pensò distrattamente la giovane, fermandosi sulla soglia con lo stomaco in subbuglio.
    Quando la sentì entrare, il Re sollevò lo sguardo su di lei e sgranò gli occhi: la ragazza aveva il volto rigato di lacrime, i capelli scompigliati e inumiditi, incollati al collo, e la leggera veste bianca maldestramente stropicciata sul busto tremante.
    Il Sindar si alzò in piedi, lasciando malamente i fogli sul bracciolo della poltrona: -Cos’è successo?-
    Lei inspirò profondamente, prima di parlare, come se l’azione le costasse uno sforzo non indifferente: -Ho avuto una visione.-
    Lui dischiuse le labbra, interdetto. La sua mente impiegò qualche tempo per processare l’informazione.
    Lei aveva avuto una visone?
    Forse era un modo per dire che aveva appena sognato.
    O che aveva avuto un incubo e non sapeva come spiegarlo.
    La vide rabbrividire e stringere le braccia al petto e, ignorando il perché, sentì una sorta di urgenza spingerlo ad agire.
    Fece segno alla guardia di lasciarli soli e questa, invece che scattare al suo comando, rivolse uno sguardo apprensivo alla ragazza, che annuì con fare rassicurante.
    Thranduil lo guardò uscire con espressione accigliata ma scosse la testa, concentrandosi sulla giovane. Non era il momento giusto per rimettere in riga una guardia indisciplinata.
    Attraversò lo studio con lunghi passi, diretto nella stanza adiacente e lei lo seguì senza bisogno di un esplicito invito.
    Si ritrovarono nella vera e propria camera da letto reale, arredata con grossi mobili di legno massello intarsiati d’argento.
Thranduil afferrò il primo indumento che trovò sottomano, disordinatamente gettato sull’imponente letto e glielo porse velocemente.
    Lei rimase un attimo immobile, squadrando la veste tra le mani del Re: era la prima volta che lo vedeva compiere un gesto tanto… cortese. Accettò con un cenno del capo e infilò l’indumento, che si rivelò essere una grande vestaglia verde scuro. Suo malgrado, il calore della veste la confortò all’istante, così come il piacevole profumo silvestre che sprigionava.
    Lui si voltò finalmente verso di lei, serio in volto: -Cosa vuol dire “ho avuto una visione”?-
    A lei parve una domanda stupida: -Vuol dire esattamente quello che ho detto.- Erano parole sin troppo sfacciate ma Thranduil cercò di non spazientirsi: -Hai fatto un brutto sogno, un incubo, qualcosa che ti ha spaventata. È normale avere paura.-
    Lei s’irrigidì, infastidita dal tono accondiscendente del Re: -Non ho bisogno di essere consolata come una bambina, mio signore. So cosa ho visto. Non ho avuto un semplice incubo, o non sarei qui.- Lui rimase lì, fermo in mezzo alla stanza, turbato.
    La ragazza chiuse gli occhi per qualche secondo, raccogliendo le proprie forze, e raccontò ciò che aveva visto poco prima. Fu precisa e dettagliata, non diede nulla per scontato. Ripeté le parole che aveva udito con voce sicura e descrisse ogni sensazione provata, con quanta più sincerità possibile.
    Il Re rimase a fissarla con cipiglio severo, concentrato e, incredibilmente, non provò ad interromperla neppure una volta.
    Quando terminò di parlare, la ragazza si appoggiò alla parete dietro di sé, respirando profondamente. Il ricordo era particolarmente vivido e parlarne aveva reso quella visione ancora più reale.
    Aveva disperatamente pregato che, prima o poi, qualche ricordo del passato riaffiorasse nella sua mente e, invece, si era trovata a prevedere un terribile futuro.
    Lanciò un’occhiata frettolosa a Thranduil, attendendo una qualsiasi reazione che non fosse quell’ostinato silenzio.
    Infine, dopo un tempo che le parve infinito, questi sollevò il mento con fare sbrigativo: -Era chiaramente un incubo.-
    Lei sentì il sangue ribollirle nelle vene con un’intensità bruciante: -Prima m’imprigioni qui dentro, poi mi etichetti come una tua proprietà, impedendomi di fare qualsiasi cosa. Non sai darmi le risposte di cui necessito e ti rifiuti di lasciarmi tentare altrove. Adesso vuoi farmi credere che quello che ho visto era solo un dannatissimo incubo.- Parlò con voce forse troppo alta ma la sua rabbia era palpabile e tutto il suo corpo sembrava fremere.
    Poco male: non aveva la lucidità -tantomeno la voglia- per badare ai propri modi, adesso.
    A quelle parole, però, Thranduil strinse gli occhi a due fessure, sentendo il proprio corpo tendersi nervosamente.
    Improvvisamente, nella stanza calarono un gelo e un silenzio innaturali e la ragazza vide il bel volto del Re adombrarsi: -Fa’ silenzio. Non permetterti di usare quel tono con me.-
    Per un secondo, ella intravide il Re di cui tutti in quel luogo avevano paura: potente, freddo, spietato e selvaggio come il Bosco su cui regnava.
    Rabbrividì e indietreggiò involontariamente.
    Era anche così confusa, avrebbe voluto urlare, rompere qualcosa, prendere a pugni i muri. Invece rimase immobile, gli occhi sgranati fissi in quelli glaciali del Re. Si sentiva impotente e avvertiva addosso tutto il peso e la forza brutale di quello sguardo adamantino ma volle a tutti i costi mantenere quel contatto distruttivo, troppo testarda ed orgogliosa per cedere. Alzò caparbiamente il mento, stringendo le labbra in una chiara espressione di disappunto.
    Thranduil s’impose di rilassarsi, lentamente, grato che, perlomeno, lei non avesse ribattuto. Poco dopo, la stanza tornò accogliente come prima e le ombre -prima così dense ed innaturali- si ritirarono al loro giusto posto.
    -Come fai ad essere sicura che il tuo non fosse un sogno?-
    La voce del Sindar si era fatta nuovamente atona e la giovane prigioniera si riscosse, quasi sollevata. Si morse le labbra, trattenendo le lacrime traditrici che minacciavano di nuovo di scenderle sulle guance dorate: -Non riesci proprio a fidarti di me? Non era un incubo. Era il nostro futuro.- Le s’incrinò la voce.
    In quel momento, il Re degli Elfi capì che la giovane non era solo arrabbiata: aveva paura.
    Era spaventata, di una paura che, a tutti gli effetti, non poteva nascere da un semplice incubo. La guardò negli occhi e avvertì la tensione della ragazza far vibrare l’aria attorno a loro.
    Nessun essere umano possedeva un’energia tanto forte da essere percepita così chiaramente, frizzante sulla pelle. Tutto si fece più chiaro, a quel pensiero.
    Lei non era una semplice donna umana.
    Qualsiasi cosa fosse, chiunque fosse, era molto di più.
    Consapevole di questo, suo malgrado, la visione della ragazzina non avrebbe dovuto sorprenderlo poi molto.
    –Undici giorni fa ti ho portata qui. Undici giorni fa ti ho trovata laddove una stella è precipitata al suolo.- Scandì ogni parola, con voce profonda e grave, ammettendo finalmente a sé stesso che ciò che aveva intuito era reale.
    La giovane ricordò con precisione il cratere dove si era risvegliata, la terra bruciata che aveva visto tutt’attorno e deglutì, turbata.
    -Hai detto di non avere ricordi risalenti a prima del giorno in cui ci siamo incontrati. Non sei umana, non sei un elfo e nemmeno appartieni a una razza qui conosciuta. Sei diversa da qualsiasi altra cosa presente qui, nella Terra di Mezzo.-
    Lei lo aveva già capito, anzi, l’aveva sempre saputo ma a quelle parole il suo cuore mancò un battito.
    Il Re continuò, avanzando di un passo per farsi più vicino, sottolineando così la sconvolgente portata di quella rivelazione:
-L’unica conclusione a cui sono giunto in questi pochi giorni è che tu sei la stella. La stella che nell’Ithilien chiamano Sillen. Per qualche ragione sei caduta qui, nel Reame Boscoso.-
    Lei sussultò, fissando l’elfo con sgomento. 
    Sillen. Era quello il suo nome?
    Una stella.
    Dunque, lei veniva dalla volta celeste che ogni notte ammirava dai lucernai delle Sale d’Opale? Si portò una mano alla testa, rivivendo la rapida caduta della sua visione.
    Non era solo una premonizione del futuro ma anche un ricordo.
    Il ricordo del suo stesso arrivo su quella terra.
    Quella consapevolezza le diede le vertigini e fu costretta ad appoggiarsi al muro, con le mani tremanti.
    Era una stella. Era una stella caduta.
    Perché?
    Il Re elfico catturò il suo sguardo con occhi taglienti e, in lui, lei lesse la sua stessa domanda.
    Thranduil si voltò verso il cielo stellato al di là delle finestre: -Stella, battaglia e popoli liberi. In ogni caso, non promette nulla di buono.-
    La testa della giovane pulsava dolorosamente e cercò di non svenire, respirando profondamente più e più volte.
    Cacciò a forza quell’eco insolente, insinuatasi di nuovo tra le sue tempie come un sordo bisbiglio. Non aveva tempo per dare ascolto a un criptico richiamo privo di utilità, ora come ora.
    Stettero a lungo in silenzio ed entrambi si presero il tempo necessario per assimilare quella nuova situazione.
    Fu Thranduil a parlare per primo e, per farlo, si erse in tutta la sua altezza: -Sono stato molto chiaro quando ho detto che saresti diventata una mia proprietà. Perciò non credere che le mie parole non abbiano peso.- Sillen non comprese subito a cosa si riferisse ma lui continuò: -Non lascerai comunque questo posto. Così ho deciso.-
    Lei sbatté le palpebre, sconvolta: -Ho appena avuto una visione di morte e distruzione e tu vuoi tenermi rinchiusa qui?-
    Il Re sollevò un sopracciglio: -Finché non avrò motivo di farlo, non mi preoccuperò delle sorti del mondo. La tua visione non ha spiegato come o quando tutto questo accadrà e, fino ad allora, le cose non cambieranno.- Lei cercò un modo per ribattere, per spiegargli che sarebbe stato un grave errore rimanere semplicemente in attesa.
    Un pensiero angosciante, le attraversò la mente. 
    Era stata lei ad avere quella grave premonizione.
    Forse era quello il suo destino.
    Che fosse quello il suo scopo, il motivo per il quale era caduta.
    Che fosse proprio suo il compito di preparare uomini, elfi, nani e ogni popolo sul quella terra contro il pericolo imminente.
    Doveva per forza essere così o ancora una volta non avrebbe avuto pace nel sapersi smarrita, senza un posto nel mondo.
    Lanciò uno sguardo penetrante al Re, riacquistando sicurezza:
-Dobbiamo avvertire tutti. Questo è il mio compito. È sempre stato questo, ne sono certa.-
    Lui la guardò in tralice, senza battere ciglio: -Non m’interessa.-
    Sillen strinse i pugni, avvicinandosi di un passo: -Dovrebbe! Riguarda tutti, anche gli elfi. Eryn Lasgalen fa parte della Terra di Mezzo, lo hai dimenticato?-
    Thranduil soppesò quelle parole: non poteva, non voleva lasciarla andare. Certo, il pericolo sarebbe anche potuto essere reale -e lui non avrebbe saputo come sostenere il contrario- ma non voleva separarsi da quella straniera che aveva reso sua prigioniera, soprattutto ora che si era rivelata così interessante.
    Tutta la Terra di Mezzo poi, aveva visto la stella cadere: si chiese piuttosto quanto tempo avrebbe impiegato il Re degli Uomini per venirla a cercare. La mascella del Re si contrasse, a quel pensiero: -Se quello che dici è vero, dov’è il nostro nemico? Chi è?-
    Lei aprì la bocca per ribattere ma, nonostante tutta la sua veemenza, tentennò: -Io questo non lo so.-
    Thranduil sorrise, soddisfatto: -Allora è deciso. Possiamo attendere.- Vide il volto della stella farsi livido, poi lei abbassò le spalle, sconfitta: -Ti sbagli, Re degli Elfi. E mi dispiace davvero.-
    Suo malgrado, la giovane non riuscì a celare il tremore delle sue labbra piene: -Io… io credevo di aver visto del buono in te.-
    Poco prima di scoppiare nuovamente in lacrime, girò sui tacchi e uscì dalla stanza di corsa, lasciandolo lì.
    Non avrebbe sopportato la sua vista un secondo di più.
    Thranduil la seguì con lo sguardo, senza ribattere. Con un gesto lento, sedette sul bordo del grande letto, respirando profondamente.
    Stella, battaglia e popoli liberi. 
    Battaglia.
    Sollevò lo sguardo, stringendo i pugni: -Non questa volta.- 



 
 

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Capitolo 7
*** Fantasmi ***



-Fantasmi-

 


    Re Elessar e Legolas cavalcavano nel Mark ormai da giorni.
    Si erano fermati solo durante la notte, per concedere anche alle loro cavalcature un po’ di riposo e avevano attraversato l’Estfalda indisturbati.
    La loro partenza da Minas Tirith aveva inquietato gli animi della popolazione e in molti si erano opposti all’idea di lasciare solo il Re. Tuttavia, Elessar aveva insistito. Se fossero giunti ai confini del Reame Boscoso con un seguito di guardie armate, non avrebbero potuti aspettarsi un caldo benvenuto.
    Finalmente, giunsero in vista di Edoras, la quale spiccava maestosa sullo sfondo creato dai Monti Bianchi ad Est.
    Poco distante, un branco di cavalli galoppavano sulle colline brune del Mark e con loro un Mearas dal manto argenteo, eccelsa cavalcatura dei Signori del luogo.
    Con il sorgere del sole, Legolas e il Re degli Uomini fecero il loro ingresso nel Palazzo d’Oro di Meduseld, accolti da Re Éomer in persona. -Mio Signore Aragorn e Legolas Verdefoglia, è una gioia rivedervi.- Chinò rispettosamente la testa egli, dinanzi al Re di Gondor e Arnor, e i suoi occhi tradirono un sincero affetto. Gli anni avevano scavato rughe profonde sul volto fiero del Rohirrim ma nel corpo e nella volontà era ancora saldo e forte.
    -Anche per me, amico mio.- Lo imitò Elessar.
    Una volta puliti e rifocillati, i due viaggiatori si accomodarono nella Sala del Trono e sire Éomer con loro. Si fece serio, avvicinandosi con fare complice ai due ospiti: –Ho ricevuto il tuo messaggio Aragorn, e ho assistito all’avvenimento di quel giorno. Non so dove sia finita la stella ma Rohan affronterebbe con te qualunque pericolo a costo di trovarla.- Elessar scosse la testa, intimandogli di rilassarsi: -Ti ringrazio per la tua lealtà ma per ora non ve n’è bisogno. Saremo io e Legolas a indagare, poiché già conosciamo il luogo dove la stella è caduta. Gli elfi la chiamano Sillen ed ha toccato terra a Nord di Bosco Atro.-
    Il Re del Mark spostò lo sguardo sull’elfo biondo, sollevando un sopracciglio: -Ormai Bosco Atro viene chiamato Bosco Foglieverdi. Non c’è alcun pericolo lì, da quando Celeborn e Thranduil l’hanno bonificato. Inoltre, sei il Principe di quel luogo, sarà facile trovare la stella, lasciando agli elfi del Reame Boscoso il compito di perlustrare l’intera area.-
    Legolas non parve dello stesso avviso: -Mio padre regna con dedizione su quelle terre ma certamente non è un Re propenso a trattare. È molto probabile che abbia già trovato Sillen ed anche che la stia studiando.-
    L’uomo non capì il motivo di tutta quella ritrosia: -Non è un bene? Gli elfi hanno conoscenze ed esperienza superiori a noi uomini e ora che Lórien e Gran Burrone sono stati quasi del tutto abbandonati, il Reame Boscoso è l’ultimo regno degli elfi ancora autorevole e potente.-
    Fu Elessar a rispondere, posando una mano sulla spalla dell’elfo che, dispiaciuto, guardava in basso: -A Re Thranduil non interessa dividere con altri ciò che è suo. Qualsiasi cosa sia, Sillen apparterrebbe solo a lui e al suo Regno.-
    Éomer alzò le spalle, risoluto: -Che se la tenga pure. Se fosse un pericolo sarebbe il primo ad averci a che fare! Non dovremmo curarcene.-
    Elessar cercò di accendere la propria pipa, con le mani ancora dannatamente tremanti: la sensazione di pericolo non l’aveva abbandonato nemmeno un secondo e la sua preoccupazione andava via via intensificandosi. –Se fosse un pericolo, avresti ragione, amico mio. E se in vero Sillen fosse qualcosa di diverso?- Cercò di spiegarsi meglio, notando l’occhiata confusa del Re di Rohan: -Le stelle sono il dominio di Varda, come sai. Sillen potrebbe essere buona, benevola e chiarificatrice. Potrebbe essere stata mandata dai Valar per qualche motivo a noi ancora sconosciuto.- I tre si guardarono, rimanendo in silenzio a riflettere su quelle parole. Fu Éomer a parlare per primo: -Cosa intendi fare allora, Aragorn?-
    Quello tirò una boccata di fumo e sospirò: -Per ora, possiamo solo trovare Sillen. È l’unico modo per venire a capo di questa situazione. Rohan si tenga sempre pronta e state all’erta. Se Thranduil non sarà disposto a collaborare, non so a che destino potremmo andare incontro.-
    Il Rohirrim annuì. Il loro futuro era probabilmente nelle mani del Re elfico e pregò che fosse meno ostinato di come gli era stato presentato.
    I tre amici furono improvvisamente distratti dal suono chiaro di passi frettolosi, dietro di loro, e una soave voce femminile li raggiunse. –Mio Signore, non sapevo avessimo ospiti.- Nella Sala del Trono avanzò una dama dalla lunga treccia scura e dalla ricca veste rossa e verde, in onore dei colori del vessillo di Rohan.
    Legolas si alzò per primo, inchinandosi: -Vanimle sila tiri, (la tua bellezza risplende) Lothíriel di Dol Amroth.-
    La Regina del Mark era infatti un elfo[1] e fu ben lieta di sentir pronunciare quelle parole nella sua lingua madre. Sorrise, affiancando il marito: -Hannon le, (grazie) Legolas del Reame Boscoso. Dò il benvenuto ad entrambi.- S’inchinò a Re Elessar poi si rivolse ad Éomer, visibilmente irritata, senza curarsi di avere degli spettatori: -Sono sempre l’ultima a sapere le cose. Se mi avessi informata, avrei accolto molto più degnamente il Re di Gondor, non credi?- 
    L’uomo tossicchiò per dissimulare una risata e indicò i loro ospiti con uno sguardo. Lei si ricompose, lisciandosi la veste e sfoderando nuovamente un sorriso affascinante: -Perdonatemi, che sbadata, vi ho interrotti. Di cosa parlavate, se posso chiedere?-
    Elessar e Legolas puntarono gli occhi sul Rohirrim che si limitò a guardare con tenerezza la bella dama e a sollevare le spalle, tentando di sviare il discorso. Non servì, perché il giovane principino di Rohan era entrato a sua volta nella sala e si era inchinato con garbo di fronte a Elessar e Legolas, attirando l’attenzione su di sé: -Buon giorno, mio signore Aragorn. E anche a te, mio signore Legolas.- Loro chinarono il capo, colpiti dal vedere tanta compostezza in un ragazzino.
    La madre lo guardò orgogliosamente: -Molto bene. Proprio come si dovrebbe comportare un principe, Elfwine. Dovresti insegnare le buone maniere anche a tuo padre.- Sibilò, lanciando occhiatacce al marito.
    Elfwine soffocò una risata e scambiò dei rapidi ed eloquenti sguardi con il padre, che s’inchinò brevemente ai suoi ospiti: -Vi lasciamo riposare, il viaggio è stato lungo e faticoso. A partire da domani vi scorterò personalmente ai confini con Lothlórien, se lo desiderate.-
    Quelli annuirono e lui uscì in compagnia di Lothíriel, che ancora cercava di estorcergli qualche informazione: -Dimmi cosa vi siete detti Éomer, o giuro che non ti rivolgerò la parola per i prossimi cento anni!-
    Elfwine sollevò le spalle e sorrise a mo’ di saluto, quasi a volersi scusare dei modi poco ortodossi dei suoi genitori e i due viaggiatori lo guardarono allontanarsi, ridendo per l’intera scenetta.
    –Re Theoden sarebbe felice di vedere tutto questo. Deve essere fiero di suo nipote.- Commentò Legolas.
    –Lo vede. Lui e tutti i suoi antenati assistono allo splendore di Rohan.- Rispose Elessar, ricordando con nostalgia il precedente Re del Mark, con cui aveva combattuto molte volte e che aveva perso la vita al suo fianco, sul campo di battaglia.
    Era stato un matrimonio insolito, quello tra Éomer e Lothíriel, la figlia del principe elfico Imrahil di Dol Amroth, ma gli abitanti di Rohan avevano amato e sostenuto i due regnanti sin dal principio. Ella era discendente di Galador il Mezzelfo e, inoltre, la sua natura immortale rendeva suo figlio Elfwine il primo erede di sangue elfico nella stirpe reale di Rohan. Era ancora un ragazzino ma Elessar aveva intuito la sua natura benevola ed era certo che, d’ora in avanti, le terre del Mark sarebbero state sempre più prospere e pacifiche.

    La mattina dopo, riposati, in forze e ricchi di provviste, Legolas e Re Elessar montarono nuovamente a cavallo, raggiungendo un manipolo di Rohirrim pronti a partire.
    Éomer fece altrettanto, richiamando a sé il Mearas che i due amici avevano scorto il giorno prima. -Lui è Lampoargenteo, figlio di Nevecrino, il destriero di mio zio.- Lo presentò.
    I due amici guardarono con riverenza quella magnifica cavalcatura, che superava in bellezza, intelligenza e forza ogni altro cavallo.
    Salutarono con un cenno la regina e Elfwine, entrambi solennemente in piedi difronte al palazzo di Meduseld e si diressero senza indugio verso Nord, seguendo a ritroso il corso dell’Entalluvio.
    Per giorni, il viaggio della piccola compagnia fu tranquillo e godettero del paesaggio rigoglioso ed assolato.

    Una notte, mentre erano accampati poco distante dalla foresta di Fangorn, Legolas si allontanò con lunghe falcate, lo sguardo sin troppo serio per il suo temperamento gioviale.
    Elessar lo seguì senza interrogarlo, abituato ai modi riservati dell’amico e si limitò a sedersi accanto a lui, sotto il cielo stellato.
    Legolas teneva lo sguardo puntato verso Nord dove, a molte miglia di distanza, si estendeva Bosco Atro. Dopo un po’, parlò, senza guardare il Re negli occhi: -Sono preoccupato, Aragorn. Mio padre non si è fatto vivo per tutto questo tempo. Ho paura che i miei timori siano fondati, non ci darà ascolto. Terrà la stella con sé e io mi troverò costretto a…-
    Elessar gli posò una mano sulla spalla: -Non ti chiederei mai di metterti contro tuo padre e il tuo regno, Legolas.-
    L’elfo gli rivolse uno sguardo grato ma non per questo meno triste: -Lo so, mellon nîn.- Ma non accettava il comportamento del padre e si sentiva responsabile delle sue azioni, quasi come se fosse lui stesso a compierle.
    Elessar riusciva a intuire che genere di pensieri turbassero l’elfo e cercò di rassicurarlo: -Re Thranduil è molte cose, Legolas ma di certo non è uno sprovveduto. Non agirà mai senza la certezza che sia assolutamente necessario ed è un giusto proposito. Protegge il suo regno e i suoi sudditi, non puoi biasimarlo per questo.-
    Legolas assorbì quelle parole. Era così che aveva sempre visto suo padre: protettivo, quasi ossessionato dall’idea che ogni vita elfica fosse infinitamente importante e possessivo nei confronti di quello che riteneva parte del suo dominio. Dopotutto, egli era reduce della distruzione del Doriath, la sua terra natia, e aveva lungamente sofferto e combattuto nelle Ere successive, per proteggere ciò che amava.
    Era sopravvissuto alla sua famiglia, ai suoi compagni, persino alla sua amata moglie. Legolas non poteva nemmeno lontanamente comprendere il suo dolore.
    Strinse i pugni: però non poteva giustificare il suo comportamento ogni volta.
    Elessar lo lasciò solo, rispettando i suoi sentimenti e tornò dagli altri. Éomer lo vide avvicinarsi e gli fece spazio accanto al fuoco.
–Legolas è troppo duro con sé stesso. Non deve tediarsi per gli sbagli di suo padre.- Commentò il Rohirrim, intuendo al volo la situazione.
    Elessar annuì e accese la sua fidata pipa, volgendo lo sguardo alle stelle. Le sue mani erano ormai un continuo tremore e il suo sangue di Dunadan correva rapido e incessante, dentro di lui.
    Dovevano sbrigarsi.

    Giunsero ai confini con Lothlórien in meno di una settimana.
    I Rohirrim dovevano tornare indietro ma Éomer si era fatto titubante, con un grande peso sul cuore all’idea di lasciare andare avanti i due amici da soli.
    –Non temere, mio signore. Conosciamo bene questi boschi e arriveremo sani e salvi dall’altra parte. Torna pure dalla tua famiglia e racconta tutto a tua moglie, per favore.- Sorrise Legolas, lanciando un’occhiata divertita ad Elessar, che ricambiò con complicità.
    Éomer sospirò, troppo turbato per rispondere alla scomoda frecciatina: -Allora i nostri cammini si separano qui. Ma state attenti.- Scrutò gli alberi del limitare boschivo, con apprensione.
-Gira voce che da qualche tempo ci sia qualcuno di strano che si aggira per queste terre, fino in questo luogo abbandonato. Un fantasma, uno spirito sconosciuto. Qualsiasi cosa sia, non abbassate la guardia.- Poi si congedò, lasciando i due viaggiatori al loro destino.
    Elessar volse lo sguardo alla fitta boscaglia, tirando indietro i capelli scuri: -Rassicurante.-
    Legolas, dal canto suo, non si lasciò impressionare, e spronò il proprio destriero ad avanzare. -Questa è Lórien. Da quando non c’è qualcosa di strano qui?-
    Tuttavia, attraversare quel bosco fu difficile.
    Non fisicamente, fu piuttosto lo spirito ad esserne turbato.
    Laddove i Galadhrim, gli abitanti del bosco, avevano eretto le loro case sospese tra i rami, ora c’erano solo fronde scomposte, e della luminosa città di Caras Galadhon non erano rimaste che rovine. La partenza di Galadriel e, in seguito, di Celeborn, aveva restituito a quel luogo il suo aspetto originario, nient’altro che un semplice bosco di mellyrn[2].
    I due viaggiatori fecero il giro della città-albero abbandonata, accompagnati dai ricordi che quei luoghi rievocavano inevitabilmente nelle loro menti.

    Pochi giorni dopo essere entrati a Lórien però, i due cominciarono a notare davvero qualcosa di strano.
    Dapprima fu Legolas ad avvertirlo e i suoi dubbi trovarono conferma in breve, quando Elessar trovò le tracce di un piccolo fuoco, spento da poco, pochissimo tempo, e impronte di zoccoli sul terreno umido.
    –Qualcuno viaggia con noi, sebbene ne ignoriamo l’identità.- Commentò il Re, passando una mano sulla cenere leggera del focolare.
    –Per lo meno sappiamo che è umano. Non si tratta del fantasma di cui parlava Éomer.- Lo informò Legolas ironicamente, mostrandogli le impronte di uno stivale, ben visibili nel manto erboso.
    Non potevano permettersi degli intoppi e dovevano risolvere il problema alla svelta. Si guardarono negli occhi, senza bisogno di parlare: avrebbero agito quella notte.
    Appostati sui rami spessi dei mellyrn, i due viaggiatori attesero il loro inseguitore. Non passò molto tempo prima che l’acuto udito di Legolas percepisse del movimento e, in breve, una figura a cavallo apparve sul sentiero buio, illuminata solo dalla pallida luce lunare. Si guardò attorno con circospezione, poi smontò di sella, accovacciandosi di tanto in tanto per osservare il terreno umido. Elessar strinse la mano attorno all’elsa di Andúril: chiunque fosse, li stava decisamente seguendo.
    Piantò i suoi occhi in quelli chiari dell’elfo e, con un cenno del capo, gli diede il segnale.
    Saltarono a terra contemporaneamente, uno con la spada in pugno e l’altro con l’arco teso, pronti a colpire la figura misteriosa. Non fecero in tempo ad agire che quest’ultima balzò indietro, con un’agilità inaspettata.
    Elessar avanzò, fendendo l’aria con la spada affilata ma si sbilanciò in avanti quando incontrò solo il vuoto.
    Legolas scagliò una freccia, che sibilò senza andare a segno, impiantandosi poi nel legno spesso di un tronco.
    La figura incappucciata si voltò velocemente e scostò il mantello, rivelando un lungo bastone dalla cima ricurva: con esso spazzò il terreno, sprigionando una forte corrente che mandò i due viaggiatori a gambe all’aria.
    Quel poco tempo bastò alla figura per parlare: -Fermati, Re di Gondor e di Arnor. Io non sono un tuo nemico.-
    La sua voce era tonante ma pacifica e Elessar si irrigidì: quel bastone, quella voce.
    Per un attimo, l’immagine di Gandalf irruppe prepotentemente nella sua mente. –Non può essere… tu sei…-
    La luce della luna filtrava tra le fronde, rendendo meno difficile scorgere la figura misteriosa. Sembrava un uomo, alto, ben piazzato, totalmente avvolto in un mantello scuro.
    Elessar si alzò lentamente e si avvicinò di un passo, la spada abbassata, cercando di decifrare i lineamenti di quel viso nascosto dall’ampio cappuccio.
    Non era Gandalf.
    Quella constatazione provocò una fitta al petto del Re, che comunque si costrinse a non abbassare la guardia.
    L’uomo incappucciato sollevò lo sguardo, lasciando che i due viaggiatori lo studiassero attentamente: non sembrava avere più di una cinquantina di anni, il viso dalla pelle olivastra, tesa sugli zigomi sporgenti. Due occhi, antichi e severi, si nascondevano sotto le folte sopracciglia scure e il naso dritto sovrastava le labbra sottili. Si tolse il cappuccio, rivelando una corta ma disordinata chioma, brizzolata quanto l’accenno di barba che gli rendeva ispidi il mento e le guance.
    –Vi state dirigendo a Bosco Atro e io sto facendo altrettanto. Non abbiatevene a male se mi intrometto: dopotutto è lo stesso motivo a spingerci lì.-
    Elessar strinse gli occhi a due fessure, confuso: -Chi sei tu?-
    Quello aggrottò le sopracciglia: -Non sai davvero chi sono, Re Elessar? Eppure dovrei essere abbastanza riconoscibile.- Commentò, quasi offeso.
    Legolas, all’improvviso, sussultò: -Quel bastone lo riconosco. Le leggende ne hanno narrato l’aspetto. Ma non può essere!-
    L’uomo si voltò verso di lui, accompagnando il suo movimento con uno svolazzo del mantello blu: -“Non può essere” l’avete deciso voi. Chi vi ha detto che ero morto? Solo perché sono sparito per un po’, non significa per forza che dovrei essere morto e sepolto, dannazione!-
    Elessar sgranò gli occhi quando, infine, comprese.
    –Ad ogni modo, sì: io sono Alatar, Morinehtar, l’Assassino dell’oscurità o, semplicemente, lo Stregone Blu.-



 
[1] Secondo la versione originale, ella è discendente della stirpe dei Dúnedain, come suo padre, il Principe Imrahil di Dol Amroth. Ho preferito renderli Elfi per puro diletto.
 
[2] Il mallorn (plurale: mellyrn, in Sindarin) è un tipo di grande albero, descritto come simile a una betulla, con corteccia liscia ed argentea. Le foglie sono grandi, verdi sul lato superiore e d'argento su quello inferiore. D'autunno, le fronde dei mellyrn diventano dorate e cadono solo in primavera, quando fioriscono dei grossi grappoli di boccioli dorati. Essi diedero a Lothlórien il nome di Foresta Dorata.

 




N.D.A

Anche questa settimana sono riuscita a pubblicare due capitoli anziché uno solo. Spero di mantenere questo ritmo fino alla fine!
Sillen e Thranduil sono due teste calde e forse è meglio lasciare che calmino i bollenti spiriti per conto loro… Piuttosto, eccoci tornati dal nostro inseparabile duo e stavolta c’è addirittura il colpo di scena XD

Come avrete intuito, la storia è ancora all’inizio ma spero di non annoiarvi!

Aspetto sempre i vostri giudizi, a presto
Aleera 

 

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Capitolo 8
*** Patto ***



-Patto-

 


    -Devi mangiare qualcosa, Sillen. Ti prego.- Emlinel sedette sul bordo del letto, con una scodella in mano.
    La stella, seduta tra le coperte calde, voltò lo sguardo dall’altra parte: -Non mangerò un bel niente finché quell’elfo non mi lascerà andare.-
    Erano già passati tre giorni dalla sera in cui era venuta a conoscenza della sua identità, finendo per litigare con il Re, e da allora si era rifiutata di mangiare o di alzarsi dal letto. Seppur vantasse una straordinaria resistenza, cominciava persino ad avvertire i morsi della fame, ma non le importava.
    Thranduil non l’avrebbe lasciata morire, si sarebbe arreso all’idea di farla partire per le terre degli Uomini, ne era certa.
    Emlinel, invece, non era dello stesso avviso: il Re era ancora più testardo e orgoglioso della giovane, per quanto incredibile potesse sembrare, e lei, con quell’atteggiamento infantile, avrebbe solo peggiorato le cose.
    La dama perse la pazienza, a quell’ennesimo rifiuto: -Sii realista, Sillen! Non puoi andare contro la volontà del Re. Se anche stasera ti rifiuterai d’incontrarlo si arrabbierà moltissimo e sono io quella che dovrà dirglielo!-
    La stella tenne ostinatamente lo sguardo nel vuoto, stringendo i denti. Emlinel si alzò dal letto e le tolse le coperte di dosso, con gesti secchi: -Esci da questa stanza, avanti.-
    Sillen ringhiò piano, troppo decisa per desistere: -Esci tu.-
    La dama la guardò ancora un attimo, furente, poi se ne andò davvero, sbattendo la porta. Si diresse verso la Sala del Trono senza fermarsi un attimo: voleva togliersi in fretta il pensiero di quell’ingrato compito. Salì i gradini e avanzò dinanzi al Re, scompostamente seduto sul Trono rialzato.
    Lui seguì i suoi movimenti con sguardo serio, battendo nervosamente le lunghe dita sul bracciolo ornato.
    Battendole con tanta stizza che, per un attimo, la dama credette di vedere il legno cedere.
     Emlinel si fermò a debita distanza, il respiro veloce per la ripida scala e si inchinò profondamente: -Mio signore Thranduil.-
Il Re elfico strinse i pugni, quando notò la sua eloquente espressione: -Lasciami indovinare. Non ha intenzione di presentarsi. Di nuovo.-
    -Mi dispiace. Ha giurato di non alzarsi dal letto e non mangiare nulla fino a quando non la lascerai andare, anche a costo di morire.- Thranduil contrasse la mascella, cercando di controllare la rabbia che gli ribolliva nel petto.
    Quella Sillen stava cercando di ricattarlo.
    Doveva ammettere che era una trovata molto teatrale.
    Ad ogni modo, nessuno poteva contraddire i suoi ordini, specie qualcuno che rispondeva solo al suo volere. Le aveva dato troppa libertà lasciandola stare per quei tre giorni, forse avrebbe dovuto farle capire chi dettava legge sin da subito.
    Respirò a fondo e si passò una mano sugli occhi. Si era sempre definito paziente ma i rifiuti della giovane stavano mettendo a dura prova la sua calma.
    Rifletté un attimo sul da farsi e convenne che farla portare lì di peso sarebbe stato oltremodo controproducente.
    Non voleva liberarla e non poteva costringerla, quindi era rimasta solo una cosa da fare.
    Una cosa che mai avrebbe preso in considerazione, prima di lei, non dopo tutto quel tempo passato a vivere il suo freddo e imparziale distacco.
    A quanto pare, le cose stavano cambiando.
    E non era certo fosse un bene.
    Congedò Emlinel con un gesto della mano: -Non farle visita fino a domani mattina.-
    La dama si portò le mani al petto, apprensiva ma un ordine era un ordine e si allontanò mesta, senza osare un fiato.
    Thranduil attese finché non rimase solo, poi si alzò dal Trono e si diresse nei corridoi a grandi passi, diretto alle Sale d’Opale.
    Superò le guardie, ordinando loro di non lasciare il posto assegnato e attraversò il cortile opalescente.
    In un attimo, fu davanti alla porta della stanza della stella e non si premurò nemmeno di bussare. Spinse il battente con un gesto secco e fece correre rapidamente lo sguardo tra gli arredi, fino ad individuare Sillen, ancora ostinatamente seduta sul letto.
    Quando lo vide entrare, la stella sgranò gli occhi, sorpresa.
Cercò di protestare, la bocca piegata in una smorfia quasi oltraggiata ma Thranduil non glielo permise: -Tre giorni. Per tre giorni ho aspettato che ti degnassi di presentarti e per tre volte hai ignorato i miei ordini. Con chi credi di aver a che fare?- Il suo volto era livido, la voce profonda che alzava via via il tono.
    Sillen sussultò, stringendosi istintivamente le coperte sul petto.
Dal canto suo, il Re non sembrava volersi calmare: -Che tu sia o no una stella non mi importa. Io sono il Re di questo luogo e finché rimarrai qui sarò io a decidere della tua esistenza.-
    Sillen sgranò gli occhi, avvertendo la prepotenza di quelle parole sulla pelle, come uno schiaffo.
    Non riuscì a trattenersi, nemmeno dinnanzi al temibile Re elfico: -Finché rimarrò qui contro la mia volontà, non è così? Non credo esistano prigionieri che non vogliano ribellarsi al loro carceriere!- Si alzò dal letto in un nugolo di capelli neri e anche Thranduil avanzò di un passò, gli occhi chiari che saettavano su di lei: -Tu mi chiami carceriere ma dovresti solo ringraziarmi. Guarda dove sei, come vieni trattata. Potevo decidere di gettarti nelle caverne sotto queste colline e lasciarti lì a marcire!-
    Lei non si lasciò intimidire e si avvicinò ancora, tanto da dover gettare indietro la testa per non distogliere lo sguardo dal viso contratto dell’elfo: -Fai quello che vuoi! Io non smetterò di ribellarmi, te lo assicuro. Puoi picchiarmi, incatenarmi o gettarmi nelle prigioni, non m’importa!-
Il petto di lui sussultò a quelle parole e si zittì, stringendo gli occhi gelidi in due fessure e fissandoli in quelli viola della stella.
-Dunque è questa l’opinione che hai di me? Credi davvero che io potrei picchiarti, ferirti?- Soffiò quell’ultima parola con voce profonda, il tono contrariato.
    Sillen, suo malgrado, si sentì avvampare dall’imbarazzo, ritrovandosi così direttamente sotto lo sguardo del Re, che la inchiodò al suolo. –Non lo faresti?- Chiese, il cuore che le martellava nel petto.
    Thranduil, per un motivo a lui del tutto sconosciuto, non riuscì ad interrompere quel contatto visivo, umettandosi inconsciamente le labbra: -Meriteresti una lezione per la tua ingratitudine.- La voce dell’elfo risuonò in modo completamente diverso da qualsiasi precedente situazione e Sillen sentì lo stomaco serrarsi.
    Non seppe spiegarsi il perché di quella strana agitazione dentro di sé ma era certa che non fosse provocata dalla paura, non questa volta. Deglutì a vuoto, cercando di regolare il respiro che si era fatto inspiegabilmente più veloce.
    Anche lui parve accorgersi solo in quel momento di quanto le fosse vicino e, più scosso di quanto volesse ammettere, respirò a fondo per riacquistare un po’ di contegno, facendo un passo indietro: -Però no, non lo farei. Tuttavia, chiuderti nelle caverne non è propriamente farti del male, quindi ringrazia la tua buona sorte se sei ancora qui.-
    I suoi occhi scivolarono involontariamente dal viso di Sillen per andare a posarsi sul suo corpo, ancora avvolto dalla sua vestaglia verde allacciata stretta in vita.
    Quel dettaglio lo sorprese e, suo malgrado, lo sorprese anche il fatto di non aver mai notato quanto fossero sinuose le forme della stella, di solito celate dal dritto vestito bianco.
    Questa volta, distolse lo sguardo velocemente.
    Sillen si appoggiò alla specchiera dietro di lei, tirandosi indietro i capelli neri. -Allora perché sei venuto qui? Tu mi hai raccontato tutto, io ti ho raccontato tutto. Se non vuoi lasciarmi andare, che altro abbiamo da dirci?-
    Thranduil storse la bocca, per nulla intenerito: -Non fare l’innocente con me. Tu volevi che io venissi qui.-
    Sillen incrociò le braccia sul petto: -Un pensiero un po’ presuntuoso.-
    Le labbra di lui si curvarono in un accenno di sorriso: -Non per questo errato. Innanzi tutto, ti sei alzata dal letto. La tua inutile farsa è terminata.-
    La stella gli rivolse un’occhiata contrariata attraverso le ciglia scure, trattenendosi dal ribattere.
    Thranduil sedette sulla poltroncina, davanti a lei, ma era tanto imponente da farla sparire tra le stoffe della sua preziosa veste.
    Se non fosse stata così arrabbiata e scossa, Sillen avrebbe trovato quella situazione quasi divertente.
    Si morse il labbro inferiore, titubante: -Forse abbiamo cominciato con il piede sbagliato, Re degli Elfi.-
    Lui sollevò un sopracciglio, accavallando le gambe con un gesto altezzoso, ma lei sapeva che le stava prestando tutta la sua attenzione. –Tu non ti fidi di me e io non posso fare nulla senza il tuo consenso, dato che sono una tua prigioniera.-
    -Una mia proprietà.- Precisò il Re, con sguardo obliquo.
    Lei lo ignorò, decisa a concludere il suo discorso: -Credo dovremmo trovare un accordo.-
    Thranduil stesso, suo malgrado, era entrato in quella stanza con il medesimo pensiero: -Che cosa propone la stella, dunque?-
    -Obbligandomi a rimanere rinchiusa qui non otterrai niente, qualsiasi cosa tu voglia, e nemmeno io. Piuttosto, tenendomi con te e coinvolgendomi nella tua vita impareresti a conoscermi. Magari potresti arrivare addirittura a darmi un po’ di fiducia, no?- Azzardò lei, gli occhi viola che scrutavano attentamente la reazione dell’elfo. 
    Tutto, pur di uscire da quelle Sale.
    Thranduil dischiuse le labbra, soppesando quelle parole:
-Dovrei sopportare la tua presenza più di quanto già non faccia?-
    Lei annuì piano, tuttavia decisa.
    Il Re si alzò dalla poltroncina e misurò la stanza a grandi passi. Era talmente concentrato e serio che Sillen si convinse che stesse pensando a quale punizione infliggerle per aver osato tanto.
    Poco dopo, Thranduil si arrestò di fronte a lei, sorprendentemente calmo: -Sia. Faremo come vuoi tu.-
    Lei sgranò gli occhi, incredula. Non avrebbe mai pensato di riuscire a convincerlo così rapidamente.
    -In questo momento, se non fosse chiaro, mi sto già fidando di te, Sillen.- Aggiunse il Re, scandendo ogni parola.
    Lei s’illuminò all’istante, aprendosi in un sorriso radioso e Thranduil sollevò un sopracciglio, sorpreso.
    Era impressionato dalla varietà di espressioni che la stella possedeva e ancor più dai suoi rapidi cambiamenti d’umore.
    Un elfo chiuso e ritroso come lui non era certo abituato a tutti quei mutamenti d’animo, nonostante una lunghissima vita passata tra creature di ogni sorta.
    Lei si sporse leggermente, posando una mano sulla spalla del Re, come aveva visto fare a due elfi della guardia che avevano stipulato una scommessa qualche giorno prima. Le sembrò che quel gesto calzasse perfettamente alla situazione.
    Lui rimase pietrificato. Guardò Sillen, che sorrideva felice come non l’aveva mai vista e, lentamente, sollevò anche la propria mano, posandola sulla spalla sottile di lei.
    –Ora il nostro patto è suggellato.- Decretò la stella.
    Thranduil, maledicendosi, dimenticò per un attimo la rabbia di quei giorni: come poteva quella donna farlo innervosire tanto e placarlo in modo così repentino?
    –Spero vivamente di non pentirmene.- Sussurrò, guardando la stella negli occhi d’ametista. 

    Il mattino dopo, come promesso, Thranduil mandò a chiamare la giovane. Lei raggiunse i suoi appartamenti quasi di corsa, inseguita dalle sei guardie elfiche che tentavano invano di trattenerla. Si arrestò solo quando fu di fronte al Re, che se ne stava seduto sulla poltroncina del suo studio in una posa, come al solito, scomposta.
    Lui le rivolse uno sguardo distratto, tornando a concentrarsi sulle carte che teneva tra le mani e che invadevano il tavolo alla sua destra.
    L’elfo gentile, che aveva accompagnato Sillen fin dentro lo studiolo, sorrise e s’inchinò leggermente, portandosi la mano della giovane alle labbra.
    Lei ricambiò il suo sorriso familiare con entusiasmo e lo guardò uscire velocemente dalla stanza.
    Thranduil non si lasciò sfuggire la scena e quando la giovane si rivolse a lui, incontrò il suo sguardo glaciale.
    -Buongiorno mio signore Thranduil.- Lo salutò, cortesemente.
    Lui non rispose, riprendendo a leggere i documenti.
    Sillen non diede peso ai suoi modi e si aggirò per la stanza, curiosando tra i volumi riposti nelle grosse librerie a parete. Sfiorò delicatamente le pagine sottili di un grosso tomo, avviandosi verso la portafinestra che dava sulla terrazza spaziosa. Uscì lentamente, fino a trovarsi sotto i raggi del tiepido sole mattutino, e volse lo sguardo al cielo, beandosi di quella meravigliosa sensazione: lasciò il calore entrarle sotto la pelle e il vento muovere delicatamente la veste bianca.
    –Cosa stai facendo?- Chiese poi, rivolta al Re.
    Era nascosto dietro l’alto schienale della poltroncina e lei riusciva a intravederne solo un braccio, mollemente appoggiato al bracciolo.
    -Leggo.-
    Sillen rientrò nella stanza: -Che cosa?-
    -I rapporti delle guardie al confine.- Rispose lui, senza entrare nei dettagli e rimanendo con gli occhi incollati alle carte.
    La stella, incuriosita, sedette docilmente sul tappeto ricamato, ai piedi del Re. Non passò che qualche secondo, poi la sua voce trillante ruppe nuovamente il silenzio: -E cosa dicono?-
    Lui scostò i fogli, guardandola dall’alto: -L’accordo teneva conto anche del fatto che mi avresti infastidito?-
    Lei strinse le labbra, com’era solita fare quando era indispettita: -Prevedeva che io ti rimanessi vicino tutto il giorno.-
    -Bene. Rimani pure ma in silenzio. Grazie.-
    Lei tirò le ginocchia al petto, sospirando.
    Dopotutto, non poteva pretendere così tanto.
    Attese pazientemente che il Re finisse la sua lettura e sfogliò distrattamente qualche volume. Le piaceva molto leggere, passava ore immersa nelle storie di quella terra ma, in quel momento, aveva ben altri pensieri per la testa.
    Difatti, passò la maggior parte del tempo ad osservare l’elfo, con la coda dell’occhio.
    Lui indossava una lunga tunica grigia e un paio di brache di pelle scura, infilate negli stivali di squisita fattura elfica. I lunghi capelli argentei erano lasciati sciolti sulla schiena e sulle spalle, senza corona, donando al Re un aspetto informale e rilassato.
    Sillen doveva ammettere che, di tutti gli elfi che aveva incontrato, lui era di gran lunga il più bello.
    Dal canto suo, Thranduil poteva anche sembrare concentrato sui documenti ma non riusciva a non seguire i movimenti della stella che si aggirava per la stanza.
    Maledizione.
    Rinunciò alla lettura poco dopo, con un sospiro: -Ho finito.-
    Lei si voltò verso di lui e lo raggiunse velocemente.
    -Adesso cosa facciamo?-
    Il Re la aggirò e si avviò verso la camera da letto, con calma. Raggiunse una mensola di legno scuro, sulla parete di rimpetto all’entrata, dove una decina di corone dalle forme più svariate giacevano ordinatamente disposte in fila, da quelle più sottili e lucenti a quelle più voluminose e decorate con ogni tipo di foglia e bacca. Thranduil prese con delicatezza la stessa che portava in quei giorni, di legno e foglie rosse e se la pose sul capo, acquistando immediatamente la sua solita posa regale.
    Sillen assistette alla scena con sguardo reverenziale e non riuscì a staccare gli occhi dal profilo marmoreo del Re.
    -Ogni mattina mi reco nei campi di addestramento e assisto all’allenamento della guardia.- Disse lui, dirigendosi verso i corridoi esterni alle sue stanze.
    Lei gli tenne dietro fino a giungere in una parte del Palazzo che non aveva mai visto. Erano passati nella Sala del Trono, poi per il livello superiore al salone principale, lo stesso dove si teneva il mercato mattutino, fino a trovarsi nella zona residenziale.
    Superarono molti corridoi, i cui lati erano invasi da piante e arbusti rigogliosi, passando sui ponticelli di pietra che sovrastavano il fiume sotterraneo.
    Due guardie accolsero il Re e la stella con un inchino, quando giunsero davanti a un grosso cancello dai profili raffinati, e un elfo dai capelli castani avanzò nel corridoio, posando una mano sul proprio cuore: -Quel re, heru en amin (buon giorno, mio signore.)-
    Thranduil si limitò a rivolgergli un cenno con il capo e l’elfo dai capelli castani, soddisfatto, posò distrattamente gli occhi chiari sulla giovane. A quella vista, si ritrovò a sgranarli leggermente.
    Il Sindar liquidò la faccenda in fretta: -Lei è Sillen. Sillen, lui è Galion, il mio consigliere.-
    Lei sorrise, accogliente, seguendo poi il Re che già si avviava oltre il cancello. E lasciando un esterrefatto Galion dietro di sé.
    -E perché mai lei si trova qui?- Borbottò, conscio che nessuno potesse sentirlo.
    Il Re e la stella sbucarono in un enorme spiazzo tra gli alberi rossi, dove molti campi erano stati tracciati e recintati con tavole di legno e muretti in pietra.
    Gli elfi della guardia erano disposti nei vari campi, ognuno intento ad allenarsi in una diversa disciplina.
    Galion raggiunse Thranduil quasi di corsa, cercando di ignorare la ragazza al suo fianco: -Anche questa mattina è tutto regolare, mio signore. Vorrei farti rapporto sulle ultime missioni ad Ovest.-
    Il Re lo lasciò parlare, ritto in piedi di fronte al poligono da tiro. Sillen si allontanò di qualche passo, appoggiandosi allo steccato, rapita dai movimenti fluidi e sincronizzati degli arcieri: le frecce sibilavano all’unisono, compiendo una perfetta parabola nell’aria e piantandosi con forza nel centro esatto dei bersagli, posti a svariate miglia di distanza.
    Ogni raffica ne seguiva un’altra, con una rapidità tale da sembrare impossibile e la stella memorizzò tutti i movimenti che gli elfi eseguivano con precisione, concentrata.
    Thranduil la riscosse dai suoi pensieri: -Ti piace?-
    Lei annuì, mordendosi il labbro inferiore. -Sembrano una cosa sola. Come fanno?-
    L’elfo sembrò divertito: -E’ una cosa da elfi.-
    Sillen si trattenne dal chiedergli il permesso di provare e lasciò che la guidasse nel campo successivo.
    Un folto manipolo di elfi combattevano tra di loro, veloci e impeccabili, eseguendo una serie impressionante di mosse che ricreavano una danza elegante e micidiale allo stesso tempo.
    Tre elfi, i capi della guardia, dirigevano il combattimento, correggendo e mostrando agli altri le posizioni migliori e i movimenti più complessi.
    Il Re e Sillen passarono parecchio tempo ad osservarli, fino a quando Thranduil stesso non entrò con passo regale nel campo, slacciandosi il mantello. -Galion.-
    L’elfo castano scattò dal suo posto per raggiungere il Re, che sfoderò la sua spada dal fodero legato alla cinta.
Galion fece altrettanto, parandosi di fronte a lui in un’impeccabile posa difensiva.
    Thranduil si rivolse ai capi della guardia e a tutti gli elfi presenti, che si disposero attorno a loro con ordine: -L’attacco al cuore deve essere più rapido. Se esitate, rischiate di non affondare la spada abbastanza in profondità. E, se vi troverete di fronte ad un orco, è esattamente quello che pregherete di evitare.-
    Attaccò con un movimento tanto rapido che Galion a malapena riuscì a vederlo: si ritrovò di spalle al Re, un braccio piegato dietro la schiena e l’estremità della spada elfica che premeva con delicatezza il suo petto, all’altezza del cuore.
    Tutti rimasero in silenzio, fissando con ammirazione i due in mezzo al campo. Anche Sillen era rimasta con lo sguardo incollato al Re e trattenne il respiro, rapita.
    Thranduil lasciò andare Galion, che si voltò, rinfoderando la spada e inchinandosi velocemente. Subito, gli elfi presero a copiare i movimenti appena visti, schierandosi nel campo a coppie e alternandosi negli attacchi.
    –Sei un abile combattente.- Sorrise Sillen, raggiungendo il Re quasi di corsa, i capelli che le rimbalzavano sulla schiena.
    –Dopotutto, non sono sorpresa. Hai avuto davvero tanto tempo per allenarti, questo è certo.-
    Lui sollevò un sopracciglio e trattenne a stento un sorriso:
-Certo ma non minimizzare tanto. Non è solo grazie alla mia longevità che sono così bravo. Una buona parte è talento naturale.-
    Lei lo guardò con espressione divertita: -Da quando il Re degli Elfi è in vena di battute?-
    Lui, pensandoci, s’irrigidì: da quanto, effettivamente, non scherzava con qualcuno? Troppo tempo, sicuramente, perché non riusciva proprio a ricordarlo.
    Passarono il resto della giornata nel Palazzo, tra la Sala del Trono e lo studio di Thranduil, e la stella curiosò a lungo sulla vita degli elfi del Reame Boscoso, osservando attentamente il modo in cui il Re interagiva con i propri sudditi. Solitamente lui si limitava ad ascoltare, rispondendo a monosillabi e solo quando strettamente necessario.
    Sillen non lo vide sorridere a nessuno di loro, nemmeno una volta.
    A fine giornata, Thranduil si alzò improvvisamente dal trono, senza apparente motivo, e la stella sollevò lo sguardo. -Dove vai?- Lui non la guardò: -Mi assento per qualche minuto. Resta qui con Galion.- Finì per ordinarle, nonostante avesse cercato di moderare il tono della voce.
    Il consigliere, sentendosi tirato in causa, rivolse alla stella un’occhiata indecifrabile e Thranduil lasciò la sala, con passo rapido. Sillen s’imbronciò ma si trattenne dal protestare, limitandosi a tirare le ginocchia al petto e stringere le labbra, contrariata.
    Galion, intanto, aveva preso a fissarla con davvero troppa insistenza e dopo un po’ lei si mosse, a disagio: -Che cosa c’è?- Lui era fastidiosamente serio, in piedi di fronte a lei, con le mani incrociate dietro la schiena: -Tu sei la stella.-
    Lei inclinò la testa da un lato: -Quindi?-
    Galion scrollò le spalle e -Felon mi ha parlato di te. Sto cercando di capire cosa ci trovi di tanto interessante nella tua persona.- Sillen aggrottò le sopracciglia e fece per ribattere che non aveva idea di cosa l’altro stesse dicendo ma Galion continuò, specificando per lei: -Felon è l’elfo a guardia delle Sale d’Opale.-
    -Felon è il nome dell’elfo gentile?- Sillen si aprì in un sorriso, addolcendo lo sguardo. -Non lo sapevo.-
    Sul viso di Galion apparve una strana smorfia: -È patetico.-
    Lei si stupì di tanta ostilità. Gli elfi che aveva conosciuto, escluso il Re ovviamente, erano sempre stati gentili, sia con lei che tra di loro.
    Galion non le piaceva affatto, decretò tra sé e sé.
    Avrebbe voluto difendere Felon ma preferì cambiare discorso, per evitare di rendere l’atmosfera ancora più tesa. -Perdonami ma dov’è Thranduil?-
    Quello alzò il mento: -Non è affare tuo. E poi non credo che al Re piacerebbe essere chiamato per nome con tanta insolenza.-  Lei si morse la lingua, reprimendo l’istinto di picchiarlo: -Sono sicura che, anche se me lo dicessi, il Re non si arrabbierebbe.- Galion si pavoneggiò, accarezzandosi i lunghi capelli castani. -Io so bene dov’è, perché sono il suo consigliere. Tu chi sei, per aver bisogno di saperlo?-
    Sillen si passò una mano sul viso, lasciando cadere la conversazione nel silenzio della sala.
    Parlare con quell’elfo era come parlare con un bambino.
    Si sorprese che Thranduil affidasse una carica tanto importante ad un individuo simile.
    Rimasero in silenzio a lanciarsi occhiatacce fino al ritorno del Re. -Perché lo stavi guardando in quel modo?- La interrogò Thranduil, quando Galion uscì finalmente dalla sala.
    Sillen sibilò, ancora arrabbiata: -Come puoi sopportarlo tutti i giorni? Non è affatto gentile, tantomeno piacevole.-
    -Gli elfi silvani possono essere poco amichevoli, abituatici. Non tutti hanno i bei modi di Emlinel.- Il Re degli Elfi si risedette sul torno, visibilmente più stanco di quando era uscito. Alla stella non sfuggì il suo pallore. -Cosa è successo?-
    Lui distolse lo sguardo, fingendo indifferenza: -Non so a cosa tu ti riferisca.- Ovviamente, lei non demorse: -Dove sei stato?-
    -Perché t’interessa?-
    -Perché siamo stati insieme tutto il giorno e non hai avuto problemi a portarmi con te. Quindi mi chiedo dove tu sia stato adesso, dato che non mi hai permesso di seguirti.- Lui sospirò:
-Da nessuna parte, Sillen.-
    Quella comprese ben presto che il Re non aveva nessuna intenzione di rivelarle ciò che voleva sapere e, dalla sua espressione esausta, capì di non poter insistere oltre.
    –Come credi sia andata oggi?- Gli chiese, invece. Lui sollevò lo sguardo, riacquistando un po’ di colore: -Tralasciando il fatto che mi hai disturbato tutto il giorno con il tuo chiacchiericcio, non è andata poi così male.- Sillen sollevò il mento, piccata: -Scusami se mi sono permessa di farti qualche domanda.-
    Lui si appoggiò allo schienale, le lunghe gambe leggermente allargate in una posa rilassata: -Suppongo che questo sia il prezzo per aver trovato un così raro tesoro, in quel cratere.- Convenne, con voce profonda. Sillen strinse le belle labbra: -Quelle pietre bianche e brillanti non hanno niente a che fare con tutto ciò.-
    Di rimando, l’elfo aggrottò le sopracciglia, contrariato: -Io non parlavo delle pietre.- A quelle parole, Sillen sentì nuovamente una stretta artigliarle lo stomaco e si voltò di scatto, trovando gli occhi di Thranduil già fissi nei suoi.
    Lo sguardo dell’elfo la inchiodò sul posto e, per un attimo, lei smise di respirare. Si sentì nuda, indifesa, come se l’elfo fosse in grado di vedere dentro di lei e rabbrividì involontariamente.
    Doveva sottrarsi al potere che quegli occhi gelidi esercitavano sul suo animo. E, a quanto pare, sul suo corpo.
    Si alzò velocemente, fissando con violenta ostinazione il vuoto e facendosi subito più pungente. -Peccato che la mia visione non venga comunque presa in considerazione. Sei così accondiscendente con me perché ti senti in colpa, Re degli Elfi?-
Thranduil socchiuse gli occhi, seguendola con lo sguardo.
-Abbiamo già affrontato il discorso. Se accadesse qualcosa in grado di dare adito alle tue parole, non mi opporrei al tuo desiderio di andare via.-
    La stella misurò la Sala del Trono con lunghi passi, avanti e indietro, tornando a guardarlo in tralice.
    Non credeva ad una sola parola dell’elfo.
    -Ma fino ad allora continuerai a tenermi qui. Battaglia, aveva detto la mia visione? Mi chiedo se non si stesse riferendo a quella tra me e te.- Lui si alzò a sua volta, il volto contratto dal nervosismo: -Se il tuo obiettivo è quello di provocarmi, ci stai riuscendo.- Sillen tornò di nuovo vicino al Re, i pugni serrati: -No, in effetti sono stufa di sbattere contro un muro. Meglio che me ne stia buona a seguirti per il Palazzo, giusto?-
    Fece per superarlo e allontanarsi nuovamente quando lui le afferrò di scatto il braccio, tirandola a sé con una prepotenza che quasi la spaventò.
    Si ritrovò con il viso del Re a pochi centimetri dal proprio, gli occhi di ghiaccio puntati nei suoi: -Sei stata tu a propormelo, Sillen.- Lui soffiò il suo nome a denti stretti. –Non mettermi alla prova: l’opzione delle caverne è ancora valida. E poi- la stretta delle sue dita si fece più forte e la stella gli afferrò istintivamente il polso, senza comunque riuscire a smuoverlo –tu sei una mia proprietà. Appartieni a me. Decido io cosa puoi o non puoi fare. Quante altre volte dovrò ripeterlo?-
    Lei non rispose, schiacciata inesorabilmente dalla presenza fisica e psichica del Re elfico.
Era così vicino che i capelli dei lei si muovevano lievemente ad ogni sua parola.
Nonostante la paura e il sentimento d’impotenza che le attanagliavano lo stomaco, la stella sentì il calore invaderle le guance: si era appena accorta che quel profumo di bosco e terra che aveva sempre caratterizzato gli indumenti del Re, altro non era che il suo odore.
    Era stranamente rassicurante.
    Lo sguardo di lui, però, non lo era affatto e non appena lo incrociò nuovamente si riscosse, scostandosi indietro.
–Non vuoi davvero dirmi dove sei stato?- Sussurrò, tentando di distrarlo.
    Thranduil storse la bocca, voltandosi dall’altra parte e lasciandole il braccio velocemente: -Per oggi è abbastanza.- Lei provò a ribattere ma lui, con un gesto secco, richiamò le guardie. La stella vide i sei elfi entrare nella sala ordinatamente e si sentì sollevata quando scorse l’elfo gentile in testa al gruppo.
    Thranduil le rivolse uno sguardo freddo ma lei parve non accorgersene: era impegnata ad andare incontro a Felon, allontanandosi da quel luogo carico di tensione.
    L’elfo gentile sorrise, fermandosi sul posto e inchinandosi appena per riceverla. Sillen gli sorrise dolcemente, prendendogli le mani: –Sono felice di rivederti, Felon.-
    Il silvano sgranò gli occhi, sorpreso: -Come sai il mio nome, mia signora?- La stella fece spallucce e lui scosse la testa, confuso, eppure allietato da quelle piccole attenzioni che lei gli riservava, così amichevolmente.
    Il Re li seguì con lo sguardo, gli occhi ridotti a due fessure brillanti e, mentre uscivano dalla sala, provò l’irrazionale desiderio di seguirli. Ovviamente, non lo fece e andò nuovamente a sedere sul trono. Respirò a fondo, premendo l’indice e il pollice sugli occhi chiusi.
    Cosa lo infastidiva di più?
    L’espressione adorante di Felon o il modo in cui la stella si era illuminata al suo arrivo?
    Oppure, la tensione delle sue membra di creatura immortale era forse provocata dallo scontro con Sillen?
Uno scontro che, ne era certo, non era stato solo verbale.
    Si era trovato così vicino alla stella da sentirne il calore attraverso gli abiti.
Prima che potesse formulare altri pensieri a riguardo, Galion avanzò lentamente verso il Trono rialzato e Thranduil riaprì gli occhi. -Cosa c’è, Galion?- L’elfo sollevò il mento, altezzoso: -Ora che l’ho vista, capisco perché la stella ti dia tanto da pensare. È insopportabile.- Il Re lo guardò con un’espressione quasi divertita: -Ironico. Lei pensa esattamente lo stesso di te.-
    Galion si accigliò, non aspettandosi certo una risposta simile dal suo signore.
    –Ad ogni modo, evita di infastidirla. Ti ricordo che stai ancora cercando di riscattarti per quella storia dello Hobbit che ti rubò le chiavi da sotto il naso, Galion.- L’elfo castano arrossì, gonfiando il petto: -Mio signore, ti assicuro che non tocco una goccia di vino da allora.- Thranduil gli rivolse un’occhiata sardonica, prendendolo ulteriormente in giro: -Un passo falso e potrei rivalutare la mia indulgenza.-
    Galion s’inchinò e fece per andarsene, solerte, quando venne richiamato. –Un’ultima cosa, Galion.-
    L’elfo si voltò nuovamente verso il Re e, con sorpresa, notò che i suoi occhi di ghiaccio rilucevano di un insolito bagliore, che da anni non vedeva: sembrava quasi uno sguardo di sfida.
    -Prendi tu il comando delle guardie della Sala d’Opale. Da stasera, Felon verrà trasferito alle ronde esterne.-



 


N.D.A

Ciao a tutti! Ben ritrovati in questo nuovo capitolo (che, data la lunghezza, sarà l’unico di questa settimana) ^-^
Allora, cosa ne pensate di questi due? Riusciranno Thranduil e Sillen a trovare un equilibrio, una buona volta? Galion di certo non aiuta XD

Grazie a tutti quelli che sono arrivati sino a qui, ve ne sono grata!

Sono sempre ben accette le vostre recensioni, vi aspetto!
Aleera

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Capitolo 9
*** Mereth en Gilith ***



-Mereth en Gilith-

 
    Emlinel passò delicatamente le mani tra i capelli della stella, intrecciandoli con maestria, riempendo l’aria della stanza con la melodia armoniosa della sua voce.
    Nelle Sale d’Opale, le serate passavano lente, trascinate, inconcludenti, una uguale all’altra.
    E, come se non bastasse, neppure il giorno speso con il Re in giro per il Palazzo riusciva ad acquietare la stella.
    Thranduil, dall’ultimo litigio, le rivolgeva a stento la parola, dimostrandosi sempre distante e freddo nei suoi confronti, quasi ci provasse gusto.
    Sillen non poteva escluderlo, in effetti.
    L’agitazione cresceva inesorabilmente nella giovane, che ancora si domandava quando quell’elfo arrogante l’avrebbe lasciata libera di compiere il suo dovere verso la Terra di Mezzo.
    Ogni minuto passato in quel luogo cominciava a pesarle sul petto come un macigno. Si sentiva inutile.
    Intanto Emlinel, che non conosceva quegli scomodi retroscena, pareva davvero felice di prendersi cura della giovane e Sillen proprio non se la sentiva di inquietarla.
    Anche quella sera, preferì sviare il discorso, decidendo di soddisfare una curiosità che, dalla sua discussione con il Re, non aveva trovato risposta.
Seduta sul basso sgabello, si appoggiò con i gomiti alla specchiera, scrutando la dama dietro di lei attraverso il riflesso.
-Thranduil mi ha permesso di seguirlo ovunque in questi giorni, tranne quando si assenta al tramonto. Quando torna sembra sempre così… triste. Dove va? Lui non vuole dirmelo.-
    Emlinel interruppe il suo canto, ricambiando lo sguardo violetto della giovane: -Se non te ne ha parlato è perché non vuole che tu lo sappia, evidentemente.-
    Ma la stella, troppo curiosa per desistere, si girò verso la dama, afferrandole le mani morbide. -Ti prego Emlinel, ho bisogno di sapere qualcosa di più sul suo conto. L’ho visto occuparsi di documenti, di allenamenti della guardia, ma non mi ha mai parlato di sé stesso o del suo passato.-
    Emlinel addolcì il suo sguardo, comprensiva: -Mia dolce Sillen, lui è il Re. Non stupirti se cerca di ricoprire il suo ruolo nel migliore dei modi. Credi sia giusto che il nostro temuto signore riveli le sue debolezze così facilmente?-
    A quelle parole, la stella sbatté le palpebre: -Debolezze? Perché giudichi il suo passato una debolezza?- La dama si portò subito una mano alle labbra, maledicendosi mentalmente. Tentando di rimediare al suo errore, scosse la mano davanti al viso, con noncuranza: -Non so perché l’ho detto, lascia perdere!-
Ma la stella era di tutt’altro avviso.
    Non staccò gli occhi dalla compagna quando questa si apprestò a rassettare la stanza, palesemente a disagio. -Emlinel. Dimmelo.-
Quella scosse la testa, continuando a riordinare, imperterrita.
–Dove va tutte le sere? Dimmelo, avanti.- Sillen si alzò per raggiungerla, cominciando a spostare ogni cosa sistemasse, per infastidirla: -Sto aspettando! Dimmelo, non fare la difficile!-
La dama si voltò verso di lei, esasperata: -Va nella tesoreria! Adesso smettila di insistere!-
    Sillen sorrise, vittoriosa: per far parlare Emlinel non serviva mai insistere davvero. Incrociò le braccia, alzando il mento con fare provocatorio. -Immaginavo che c'entrassero cose tanto futili come i suoi amati tesori.-
    Emlinel le lanciò uno sguardo severo ma, in quel momento, qualcuno si affacciò alla porta della stanza.
    Sillen sbuffò nel vedere il volto saccente di Galion, che da qualche tempo era diventato la sua ombra al posto del caro Felon, e lui si schiarì la voce, soddisfatto. -Domani non vedrai il Re.- Esordì. La stella si bloccò sul posto, presa in contropiede.
-Perché? Cosa è successo?-
    L’elfo sospirò, guardandosi le unghie con evidente disappunto. -In effetti non potevo aspettarmi che tu lo sapessi: domani è Mereth en Gilith, una festa molto cara a noi elfi.- Lei allargò le braccia, alzando la voce: -Meraviglioso, non ho mai partecipato ad una festa. Non vedo l’ora!-
    Questa volta fu il turno di Emlinel di interrompere Galion, già pronto a rispondere alla stella in modo ben poco gentile: -Sillen, questa è una festa sacra, non una festa come quelle di cui hai letto nei tuoi libri. È un momento fatto per riflettere e pensare. E il Re passa la giornata di Mereth en Gilith da solo.-
    La stella parve non capire ma Galion liquidò la faccenda sbrigativamente: -Confido nel fatto che rimarrai qui senza fare storie. Buona notte.- Sillen lo guardò allontanarsi, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Anche se le cose tra loro erano ancora tese, avrebbe preferito che Thranduil stesso si fosse presentato per darle la notizia. Scosse la testa, scacciando i brutti pensieri.
    In fondo, doveva stare da sola per un solo giorno, avrebbe pazientemente aspettato.
    –Che cosa si festeggia a Mereth en Gilith?- Chiese, rivolta ad Emlinel. Sapeva che quel titolo elfico significasse “Festa delle Stelle” ma non riusciva a immaginare perché gli elfi festeggiassero il firmamento. La dama sedette sull’unica poltroncina della stanza, lisciandosi il vestito: -Non si “festeggia” semplicemente… Le stelle, per noi elfi silvani, sono importanti per molti aspetti. Uno fra tutti, è il modo in cui la loro luce è portatrice delle nostre memorie. Attraverso essa, i ricordi delle nostre lunghissime vite immortali rimangono vivi, cristallizzati nel tempo. Per tutti noi è il momento in cui ricordiamo il passato, capisci?-
    Sillen annuì, riflettendo su quelle parole.
    –Non avrei mai immaginato che noi stelle fossimo in grado di custodire delle memorie. Che sia per questo motivo che ricordo sempre tutto così dettagliatamente?-
    Emlinel alzò le spalle, serenamente: -Forse, chi può dirlo. Purtroppo non ricordi nulla di quando ancora abitavi il cielo. Ma non pensarci troppo, mia cara.-
    Sillen annuì, mordendosi però il labbro inferiore: -Thranduil pensa alla sua famiglia?- Chiese, a mezza voce. Emlinel sospirò seccamente, tirandosi indietro i capelli color rame abilmente intrecciati: -Smettila di chiedermi di lui.-
    -Non ce la faccio.- Si sedette a terra l’altra, posandole la testa sulle ginocchia con fare amareggiato. -Emlinel, perché il Re si reca nella tesoreria ogni sera?- E la dama le accarezzò la testa, indecisa se mettersi nei guai raccontando tutto alla stella o interrompere subito la conversazione.
    Era da tempo che non si prendeva cura di qualcuno con tanta dedizione e, inevitabilmente, finì per sentire l’affetto che provava verso la giovane stella sciogliere ogni sua remora. –Prometti che se adesso ti racconto tutto non lo dirai a nessuno?-
    Sillen strinse le labbra, seria: -Ti ascolto.-
    Ed Emlinel, a bassa voce, le raccontò del Re e della sua Regina, morta molto tempo prima, e della collana di gemme bianche che lui le aveva donato per il loro così felice matrimonio.
    Spiegò con quanta disperata ostinazione facesse visita a quel gioiello ogni sera e di come un tempo il Re fosse diverso, sereno. Le parlò addirittura del giovane Principe Legolas, adesso così lontano da casa, di cui lei stessa si era presa cura sin da quando era un bambino, dopo la morte della Regina.
    Sebbene il racconto fosse stato breve e confuso, Sillen non poté fare a meno di restarne emotivamente coinvolta.Prima ancora di accorgersene, lacrime salate finirono per bagnarle le guance dorate. Non avrebbe saputo dare un nome a quello che stava provando ma faceva male.
    Così male da radicarsi nelle ossa.
    L’aveva sempre saputo, l’aveva letto negli occhi del Re così tante volte da sentirsi una stupida per non averlo compreso prima.
Quanta sofferenza doveva aver indurito il suo cuore immortale…
Voleva correre da lui, dirgli che non poteva nemmeno lontanamente capire quello che provava ma che l’avrebbe raggiunto al di là del dolore pur di aiutarlo.
    Perché, dopotutto, lei desiderava la sua compagnia e, in un modo che non comprendeva, voleva vederlo sorridere davvero.
    Se solo non si fosse intestardita, se non avesse sempre cercato un pretesto per litigare…
    Era stata cieca ed egoista.
    Lo erano stati entrambi.
    Si sentì persa in quei sentimenti così potenti e Emlinel la lasciò piangere a lungo, accarezzandole i capelli neri e mormorandole parole gentili.
    Quando anche gli ultimi singhiozzi della stella cessarono, la dama si sporse per posarle un bacio sulla fronte liscia: -Non puoi proiettare su di te tutte le pene del nostro Re, mia dolce Sillen. Affronterà Mereth en Gilith come facciamo tutti, con coraggio. Cerca di farlo anche tu, per lui. Ora dormi. Tornerò a trovarti appena la festa sarà terminata.-
    Sillen l’abbracciò con slancio, asciugandosi le guance con il dorso della mano: -Ti ringrazio, per tutto.-

    Quella notte però, la stella non chiuse occhio. Rannicchiata nel grande letto freddo, pensava. Pensava alla Regina, alla battaglia, al lutto. Pensava a Thranduil, ai suoi occhi gelidi.
    L’alba arrivò con una lentezza esasperante e quando i primi raggi di sole bagnarono le Sale del Reame Boscoso, un canto etereo e senza tempo si sollevò verso il cielo.
    Mereth en Gilith era iniziata e sarebbe durata fino all’alba successiva.
    La stella rimase supina sul letto per ore, lo sguardo fisso sul tettuccio candido del baldacchino. Seppur ormai indolenzita, si costrinse a non muoversi, stringendo i denti: era sicura che, nell’esatto momento in cui l’avesse fatto, sarebbe corsa in una sola direzione.
    Si coprì il viso con il braccio, sospirando: -Dannazione…-
 
**

    L’intero Reame Boscoso era avvolto da un canto distante, puro e reverenziale. Thranduil non si era unito a quel canto e camminava lentamente lungo le strade snodate del Palazzo, guardandosi attorno.
    Ogni angolo, ogni dettaglio di quei luoghi rievocava nella sua mente un ricordo preciso: la Sala in cui incontrò per la prima volta sua moglie, il ponte dove Legolas mosse i suoi primi passi, i corridoi che per anni aveva attraversato con la sua famiglia, le armerie che conosceva come il palmo della sua mano.
    Mereth en Gilith metteva alla prova la sua mente stanca, l’influenza delle stelle era al culmine e i ricordi, così definiti, lo opprimevano oltre ogni limite di sopportazione.
Si arrestò di fronte alla porta della tesoreria, inspirando profondamente. Per quello che doveva affrontare, aveva bisogno di tempo e impiegò diversi minuti prima di decidersi a entrare.
    Poi, la vista della collana di gemme bianche lo colpì come un pugno nello stomaco.
    Il ricordo fu vivido, intenso e disarmante. 

Si rivide sul monte Gundabad, sul campo di battaglia, sporco di sangue nemico e fango. Il suo sguardo correva rapido in mezzo al caos dello scontro, in cerca di sua moglie.
Ad un centinaio di metri da lui, la Regina stava guidando un gruppo di elfi a proteggere il fianco dell’esercito contro l’avanzata della legione nemica, in arrivo dal Nord. Combatteva con destrezza ed eleganza micidiali, decimando gli orchi.

    Le immagini si fecero più veloci, meno nitide e dettagliate.
La mente del Re si soffermò poi sull’esatto momento in cui sua moglie e il drappello di elfi vennero circondati.
La vide imporre ordini secchi e precisi e gli elfi attorno a lei si asserragliarono per fronteggiare il nemico su ogni lato.
    Thranduil vide sé stesso richiamare rinforzi e tentare di raggiungere la Regina.
    Furono ostacolati, rallentati e costretti ad indietreggiare.
    La battaglia infuriò di nuovo ad una velocità spaventosa, dando al Re le vertigini. I nemici diminuirono, il Re di allora poteva vedere il campo farsi più silenzioso e desolato ogni secondo che passava.

    Per Thranduil, l’immagine successiva fu devastante tanto quanto allora.
    In mezzo a decine di altri corpi individuò i capelli dorati di sua moglie, stesa a terra in un lago di sangue rosso cremisi.
    Thranduil vide sé stesso avvicinarsi quasi a rallentatore, crollare in ginocchio al fianco dell’amata e allungarsi per toccarla.
    Provò a tamponare le ferite, premendo forte con le mani tremanti, ma lei le strinse delicatamente tra le sue, sorridendo.
    Lui la sentì sussurrare, rassicurarlo, quando sarebbe dovuto accadere il contrario.
    Ma lei era sempre stata la più forte, la più coraggiosa.
    Gli fece promettere di crescere Legolas, di proteggerlo e il Thranduil di allora promise.
    Poi la vita abbandonò gli occhi verdi della Regina… 

e il Re si ritrovò di nuovo nella tesoreria
    Il suo volto era rigato di lacrime ma continuava ad assomigliare a una maschera di cera, imperturbabile e distante.
    Percepiva i confini del vuoto dentro di sé perdere consistenza, lasciando che i sentimenti strabordassero fuori per lambire il suo animo stanco.
    Finalmente, sentiva qualcosa.
    Finalmente il dolore tornava a pungere i recessi del suo essere.
    Alle sue spalle percepì dei passi incerti ma non diede loro importanza. Voleva stare da solo, voleva chiudere gli occhi e rivivere quel giorno ancora, ancora e ancora, fino a quando il dolore fosse riuscito a colpirlo, annientando il vuoto.
Ignorò quei passi leggeri, che ora si erano fatti più vicini.
    Tenne ostinatamente lo sguardo fisso, maledicendo l’impudente intruso dietro di lui.
    Poi due braccia sottili si insinuarono sotto le sue e gli strinsero delicatamente il busto, all’altezza del costato.
Sentì la pressione gentile di un corpo sulla propria schiena.
Forse i ricordi si stavano facendo tanto vividi da ingannarlo?
No, non erano le mani di sua moglie ad abbracciarlo, a confortarlo. Alzò una mano per posarla su quelle calde che lo stringevano e non ebbe dubbi su a chi esse appartenessero.
    Sentì il calore di quell’abbraccio irradiarsi nel suo corpo, avvolgendo i confini del suo vuoto.
Come un’onda di luce, il tepore iridescente che sentì esplodere nel petto costrinse il vuoto a ritrarsi: esso non sparì, ma lasciò spazio a tutti i sentimenti che il Re aveva smarrito.
    -Il tuo Regno ti ama, Thranduil. Le stelle lo sanno. Loro ricordano tutto. Il passato è dentro esse e non ti lascerà mai. Ti prego, non smettere di provare emozioni, perché saranno le uniche in grado di ricordarti che sei ancora qui, vivo.- La voce di Sillen era rotta dall’emozione e il Re sentì le sue lacrime bagnargli la schiena. –E non sei solo. Non sarai mai solo.-
    Il Re chiuse gli occhi.
    A lungo rimase immobile, come pietrificato, poi si lasciò andare a un pianto liberatorio, il primo dopo lunghi, lunghissimi anni.
    Era un pianto di tristezza, di malinconia ma anche di sollievo. Si estraniò dal mondo intero, godendosi quelle sensazioni dirompenti. Rimase in piedi, in quella stanza, per un tempo che gli parve infinito e quando si riprese, la notte aveva avvolto ogni cosa e il canto degli elfi era ormai divenuto un lontano brusio.
    Si voltò di scatto ma di Sillen non vi era traccia. Aveva immaginato tutto? Aveva sognato?
Istintivamente, i suoi passi lo portarono alle Sale d’Opale.
Galion, a guardia dell’entrata, si mise sull’attenti.
–Sillen è uscita da queste Sale?- Lo investì, il Re. Galion scosse la testa e si mosse, a disagio: -No, mio signore. Non ha il permesso… l’avremmo fermata…-
    Thranduil socchiuse gli occhi e notò con fin troppa facilità l’aria colpevole dell’elfo. Si avvicinò quel tanto che bastava per sentire l’odore del vino: -Sei proprio sicuro, Galion? O sei troppo ubriaco per ricordartene?- L’altro deglutì, abbassando lo sguardo con le guance in fiamme: -N-no, mio signore, ne sono sicuro!-
    Il Re lo scansò malamente, attraversando il cortile con passo marziale. Suo malgrado, però, quando giunse nella camera della stella rallentò, ed entrò il più silenziosamente possibile.
    La vide distesa sul letto, coperta dalle lenzuola chiare, con un braccio piegato mollemente accanto al viso. Si avvicinò e, con sguardo incredulo, constatò che la stella era profondamente addormentata.
    Forse si era davvero immaginato tutto e Galion stava dicendo la verità. Ubriaco o meno che fosse.
Sospirò, sedendosi sul bordo del letto.
Certo, doveva essere così. Lei non poteva sapere come giungere alle tesorerie, in ogni caso.
    Suo malgrado, non poté fare a meno di ammirarla: i capelli di lei erano sparpagliati sui cuscini come un’aureola di cenere e la pelle scura riluceva di riflessi dorati allo sfavillare del fuoco nel camino. Thranduil si apprestò a coprirle le spalle con gesti delicati, per non svegliarla. Distrattamente, si ritrovò ad avvolgersi una ciocca di capelli corvini attorno alle dita, saggiandone la morbidezza, come se fosse il gesto più naturale del mondo.
    Forse, pensò, si stava solo accertando che lei fosse reale, perché i dubbi si erano insinuati nella sua mente ora più che mai. Le sue dita affusolate si mossero poi ad accarezzarle il viso, tanto leggere da risultare impercettibili.
    Quando le ritirò, il Re le ritrovò umide: la scia di molte lacrime salate solcava ancora le guance della giovane.
    Il Re si bloccò e rivisse in un attimo i momenti nella tesoreria, quando aveva sentito la stella bagnargli la veste con le proprie lacrime. Con un gesto secco, si passò una mano sul tessuto della schiena e sussultò: era inumidito.
    Si voltò nuovamente verso la stella, schiudendo le labbra in un’espressione smarrita. Respirò a fondo per contenere tutte le emozioni che si agitavano tumultuose nel suo petto e strinse i lembi delle lenzuola, stravolto.
    Lei era stata là, con lui.
    Di questo passo, quella donna lo avrebbe fatto diventare un folle privo di ogni certezza.
    Sillen si svegliò in quel momento, sbattendo piano le palpebre. Vide il Re a testa china, di fronte a lei e sorrise, arrossendo. Quando era scappata dalle tesoreria nel panico, scossa dalla silenziosa rigidità dell’elfo, si era domandata se Thranduil le avrebbe mai più rivolto la parola, orgoglioso com’era.
    Invece, vederlo lì davanti a lei riempì il suo cuore di gioia. E le sembrò così fragile e indifeso da straziarle il cuore. La paura provata solo il giorno prima, di fronte alla veemente reazione del Re, ora le pareva sciocca: convivere con Thranduil significava accettare ogni sua sfaccettatura, anche quella più temibile.
Posò una mano su quella grande di lui, stringendo piano. Il Re degli Elfi alzò lo sguardo, ricambiando istintivamente la stretta. Osservò quel viso, ancora disteso dal sonno, come se lo vedesse per la prima volta. -Spiegami come sei uscita da qui.-
    Lei strinse le labbra: ovviamente, non poteva aspettarsi altra domanda dall’ottuso Re. -Non prendertela con Galion. Quel liquido rossastro deve aver sciolto la lingua delle guardie perché non smettevano di raccontarsi storie e cantare.-
    Thranduil alzò gli occhi al cielo, esasperato: Galion e il suo stramaledetto vino. Sorrisero, scambiandosi uno sguardo complice. Quello che avevano condiviso in quel giorno di Mereth en Gilith li aveva avvicinati più di qualsiasi discussione avvenuta fino a quel momento ed entrambi erano consapevoli di aver intrapreso un nuovo cammino.
    Anche se non avevano idea di dove esso li avrebbe condotti.
    Accorgendosi della situazione così intima, Thranduil si riscosse, deglutendo. Lasciò la mano della stella e si alzò velocemente.
    -E come hai fatto a trovare la tesoreria?-
Sillen si tirò a sedere e piegò la testa verso la specchiera. Thranduil notò che, da sotto alcuni volumi, spuntava un foglio scarabocchiato. Scostò i libri e lo afferrò, avvicinandolo al viso.
    –In questi giorni mi sono impegnata a disegnare una mappa del Palazzo, per la buona parte che ho visto fin ora. Andando per esclusione e un po’ per intuito, non ho impiegato molto a trovare la tesoreria.-
Lui la guardò, decisamente ammirato.
Non avrebbe mai smesso di sorprenderlo?
    Studiò la mappa e fu piacevolmente colpito dall’accuratezza della rappresentazione. –Non sapevo avessi una buona memoria.- Sillen alzò le spalle: -Ho praticamente solo quella, credo. Dopotutto sono una stella, no? Non festeggerete di certo Mereth en Gilith senza motivo.- Thranduil scosse la testa, divertito, posando nuovamente la mappa sulla specchiera.
Quello era il suo presente. Lei era il suo presente.
    -Mi aspetto puntualità, domani.-
    La stella sollevò un sopracciglio, falsamente offesa dalla sua malafede: -Come sempre, mio signore Thranduil.-

 



N.D.A

Bentrovati! Scrivere questo capitolo mi ha davvero emozionata e spero che possa suscitare le stesse sensazioni anche a voi T-T
Vi invito sempre a lasciare qualche recensione, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate <3

Grazie a tutti quelli che seguono la storia e sono arrivati fino a qui, spero di avervi regalato dei bei momenti!

Al prossimo capitolo,
Aleera

 

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Capitolo 10
*** L'incontro ***


 
-L'incontro-

 

    Elessar lanciò l’ennesima occhiataccia all’uomo incappucciato di fronte a loro, seduto vicino al fuoco.
    Ancora non si capacitava che egli fosse lo Stregone Blu, uno dei cinque Istari dell’ordine al quale Gandalf stesso apparteneva. Non si stupì invece, del fatto che la gente di Rohan l’avesse preso per un malvagio spirito errante o qualcosa di simile: al pari di Gandalf il Grigio, il suo aspetto non era dei più rassicuranti.
    Legolas, dal canto suo, non smetteva di fargli domande: -Dove sei stato tutto questo tempo? E dove si trova l’altro stregone blu? Perché sei tornato solo adesso?-
    Alatar sorrise, divertito: -Calmati, figlio del Reame Boscoso. A tempo debito vi spiegherò tutto.- Poi si rivolse al Re. –Per prima cosa, vorrei sapere che intenzioni avete con la stella.-
    Elessar incrociò le braccia al petto e premette la schiena all’albero dieto di sé. -Perché dovremmo fidarci di te?- Lo stregone sollevò un sopracciglio, sardonico: -Quanta diffidenza, mio Re. Ti ho dato motivo di dubitare delle mie nobili intenzioni?-
    -Perché inseguirci come un segugio senza presentarti prima, se eri in così buonafede?- Sibilò l’altro, assottigliando gli occhi grigi. Alatar allargò il proprio sorriso, accogliendo la sfida nello sguardo del Re degli Uomini: -Forse non volevo compagnia.-
    Legolas si sporse lesto verso i due uomini, alzando appena la voce per attirare la loro attenzione: -Tu cosa sai della stella, stregone?-
    -Ne so molto più di voi, questo è sicuro.-
    Il Sindar lo fissò con gli occhi verdi spalancati: -Dunque raccontaci, avanti!-
    Alatar rovistò allora nella propria bisaccia, estraendone dei fogli ingialliti. Li dispiegò a terra ed essi andarono a comporre un intricato disegno in inchiostro nero. Era un paesaggio rigoglioso e sullo sfondo s’intravedevano la Torre di Ecthelion e la catena montuosa degli Ered Nimrais. Al centro, si stagliava un'unica figura dettagliata, agghindata con un’armatura dall’aspetto prezioso.
    -Lei è la Stella dei Valar. Sillen, la chiamano nell’Ithilien.-
    Elessar e Legolas rimasero attoniti, gli occhi fissi sul ritratto della stella. I lunghi capelli e le forme morbide non lasciavano spazio al dubbio. –Sillen è una donna?- Esclamò Legolas. Alatar aggrottò le sopracciglia spesse: -È una stella incarnata in una donna. E con questo?- L’elfo si zitti, serrando le labbra con fare imbarazzato.
    –Quindi è vero, sono stati i Valar a mandarla.- Sussurrò Elessar, lisciandosi la barba, sovrappensiero. Alatar annuì: -Questo è proprio quello che deve preoccuparci. Quando ho avuto la visione dell’ascesa della stella, ho compreso la gravità della situazione. E se i Valar ci hanno mandato un tale aiuto, significa che il futuro non si prospetta affatto roseo. Per questo io giungo qui solo ora.- Si rivolse al Re con sguardo serio: -Sono sparito per molto tempo da queste terre ma non sono rimasto con le mani in mano. Per anni ho combattuto nel profondo Est, laddove erano più forti i sostenitori di Sauron, e ho perso molti amici, tra cui il mio compagno Pallando, l’altro Stregone Blu.-
    Legolas guardò il fuoco, intristendosi a quelle parole, e lo stregone gli pose una mano sulla spalla. -Non mi sono mai dato per vinto. Ho viaggiato da solo per anni, prima di estinguere gli ultimi focolai di resistenza nemica, poi ho ricevuto informazioni dai Valar. Attraverso molte visioni, ho disegnato un foglio dopo l’altro, fino a comporre questo scenario. Non avevo dubbi che significasse guai. Era chiaro che dovessi tornare nell’Ovest e la caduta della stella è stata puntuale. Ed eccoci qui.-
    Elessar prese il foglio che ritraeva il volto di Sillen e lo studiò.
-Però ancora non sappiamo chi è il nostro nemico. Potrebbe essere ovunque…-
    Alatar si raddrizzò, riacquistando il suo temperamento baldanzoso: -Non è del tutto esatto. Non so dove si trovi la testa del serpente ma ho scoperto qualcosa. Magari non è una vera e propria pista ma può essere un buon inizio.- Tirò fuori dalla bisaccia l’ennesimo foglio spiegazzato, che si rivelò una mappa della Terra di Mezzo, su cui lasciò correre l’indice scuro: –Io sono giunto da Est e qui ho aggirato ben tre gruppi di orchi.-
    Elessar scosse la testa: -Non è raro trovare ancora degli orchi nelle vecchie terre di Mordor, fuori dai nostri confini. Non sono una minaccia, sono troppo poco numerosi e disorganizzati. Non subiamo attacchi da anni, nemmeno nei piccoli paesi limitrofi.-
Alatar si tirò indietro i corti capelli brizzolati, sollevando le labbra in un sorriso di scherno: -Quindi non c’è da preoccuparsi, dico bene? Nemmeno se specifico che saranno stati minimo trecento orchi per gruppo?-
    Legolas e Elessar balzarono in piedi, allarmati: -Come sarebbe a dire? Ci sono un migliaio di orchi a pochi giorni da Gondor e lo dici solo ora?!- Gridò Elessar, furibondo. Lo stregone non si scompose: -Mi sottovaluti, Re di Gondor e di Arnor. Ho già provveduto a mandare un messaggio per organizzare le difese e a quest’ora sarà giunto a Minas Tirith.- Elessar aprì la bocca per ribattere ma non trovò le parole. Si pentì soltanto di non essere rimasto nella città per guidare al meglio i propri soldati.
    -In città hai uomini fidati e pronti, Aragorn. Sapranno cosa fare e l’allerta di Alatar è stata tempestiva.- Lo rassicurò Legolas, intuendone i pensieri. Elessar annuì, risedendosi. In ogni caso, non avrebbe potuto fare nulla da dove si trovava adesso.
    Alatar ravvivò il fuoco e la luce delle fiamme creò ombre taglienti sul suo viso: –Detto questo, sappiamo che qualcuno sta radunando gli orchi ad Est. Quindi, abbiamo il vantaggio di conoscere la loro posizione e possiamo seguirne gli spostamenti.-
Legolas strinse i pugni: -Ci resta solo da scoprire chi si cela dietro tutto ciò, chi è il nuovo servitore di Morgoth.-
    Un silenzio teso calò sui tre viaggiatori.
    La Terra di Mezzo, dunque, stava andando nuovamente incontro alla battaglia.
    Fu Elessar a riscuotersi, cercando di non mostrare la propria agitazione: –Un migliaio di orchi non sono un problema. Unendo le forze, Gondor, Rohan, l’Ithilien e tutti i territori degli uomini formano un’armata senza precedenti.- Alatar sospirò: -Hai ragione. Ma se la Stella dei Valar è qui, dubito fortemente che si tratti solo di qualche manipolo di orchi, mio signore Elessar.- Volse lo sguardo al cielo notturno, stringendo gli occhi a due fessure: -Dobbiamo prepararci a ricevere un nemico più terribile di quanto immaginiamo.-

    Per i giorni successivi, i tre viaggiarono sostenuti verso Nord-Est, costeggiando il fiume Anduin.
    Si trovarono spesso a raccontarsi degli avvenimenti degli ultimi anni: Alatar volle sapere tutto del regno di Elessar e di sua figlia e gli altri due ascoltarono con interesse i racconti dello stregone.
    Il Re, suo malgrado, finì per apprezzare quella nuova compagnia, nonostante i modi canzonatori di Alatar lo innervosissero spesso. Lo stregone aveva una personalità prorompente e si rivelò un uomo fiero e al contempo ironico e sprezzante. Non perdeva mai il suo contegno e il suo spirito, nemmeno quando, dopo uno scambio di battute poco amichevoli, Re Elessar lanciava lui una gelida frecciata irritata.
    Per tutto il tempo, poi, lo stregone tenne gli occhi puntati al cielo e i due non poterono fare a meno di chiedersi perché.
    -Cosa cerchi, stregone?- Lo apostrofò Elessar, una volta. Lui si voltò appena: -Non sto cercando. Sto aspettando.- Ma non diede ulteriori informazioni.
    La risposta giunse solo il mattino dopo, quando i tre si misero nuovamente in viaggio. D’un tratto, Alatar lanciò un fischio acuto, alzando un braccio al cielo: -Era ora, dannata!-
    Legolas seguì il suo sguardo, fino a scorgere la sottile sagoma di un rapace che volava in lontananza. Pochi secondi dopo, un piccolo falchetto sfrecciò tra i viaggiatori, spaventando i cavalli che quasi disarcionarono i due amici.
    Il volatile dalla testa scura si posò sull’avambraccio dello stregone, che le scompigliò le piume morbide: -Sei sempre più lenta, vecchia cornacchia. Sei in ritardo! Cominciavo a sperare che questa volta fossi schiattata per strada.-
    Il falchetto gli rivolse un’occhiataccia sorprendentemente eloquente, come se avesse ben compreso le parole del padrone.
Alatar si rivolse al Re e allungò la mano libera, che adesso stringeva il foglio arrotolato che aveva sfilato dalla zampetta del falco: -Un messaggio di risposta da Minas Tirith.- Elessar lo afferrò velocemente: -“I rinforzi hanno raggiunto i confini Est. Perlustrazioni in corso. Tutto sicuro.”- Sospirò sollevato. Per ora, Gondor era ancora sicura.
    Legolas si avvicinò al rapace. -Quello è un Falco Dorato di Dûn?- Alatar annuì, fiero: -Il suo nome è Lelya, mia fidata compagna di viaggio. Ho mandato lei a dare l’allarme a Minas Tirith.-
    -Ho sentito dire che sono tra i più veloci falchi al mondo, estremamente intelligenti.- L’altro sbuffò: -Tutte bazzecole. Sono testardi e impudenti. Per esempio, a lei piace fare di testa sua, ogni tanto. Dovrei mangiarmela arrosto.- Lelya gli beccò le dita della mano, contrariata e, con uno stridio acuto, si rialzò in volo.
 –Visto? Però è veloce e affidabile quando c’è davvero bisogno di aiuto, glielo concedo.- L’elfo la guardò ammirato e il rapace ricambiò il suo sguardo curioso, posandosi su un ramo poco distante.
    –Muoviamoci. Ormai siamo quasi arrivati.- Li incitò Elessar, spronando il proprio destriero lungo il sentiero.
    Prima arrivavano dalla stella, prima potevano tornare a Gondor per prepararsi alla guerra imminente.
    Man a mano che si avvicinavano a Bosco Atro, il sole si faceva sempre meno presente, coperto dalle fronde fitte degli alberi secolari che si stagliavano verso il cielo. I tre viaggiatori giunsero alla Vecchia Strada, che tagliava Bosco Atro fino alle montagne dove risiedeva il Palazzo di Thranduil.
    Legolas conosceva a memoria ogni anfratto di quei luoghi e condusse i compagni in scorciatoie sconosciute, usate solo dagli elfi della guardia che si spostavano velocemente per pattugliare i confini. Infatti, poco dopo aver intrapreso una di queste scorciatoie, furono intercettati da un gruppo di elfi della ronda mattutina. Essi puntarono gli archi tesi verso i tre viaggiatori ma, quando Legolas si tolse il cappuccio, si affrettarono a inchinarsi rispettosamente. Un mormorio di stupore generale si alzò dal gruppo di elfi silvani e alcuni indicarono Elessar e Alatar con sospetto.
    Una delle sentinelle avanzò verso Legolas, con una mano sul cuore: -Mio Principe Legolas, non sapevamo della tua visita. Perdonaci.- L’altro sorrise, posando una mano sulla spalla sottile dell’elfo: -Hai solo fatto il tuo dovere, Felon. È bello rivederti.-
    Felon ricambiò il sorriso, con affetto. Il suo sguardo passò prima sullo stregone, poi su Elessar, che tolse il cappuccio per mostrare il proprio viso. Riconoscendolo, Felon chinò la testa in segno di rispetto: -Siamo lieti di ricevere il Re degli Uomini. Tuttavia, al mio signore non piacciono le sorprese. Perché non avete avvertito?-
    Legolas si frappose fra lui e Elessar, il volto austero. Quella era l’espressione del Principe di Bosco Atro e sapeva bene quanto somigliasse a suo padre, in quel momento: -Per il Re non sarà una sorpresa, questo è certo. Ora scortaci al Palazzo.-
    Felon si fece da parte, permettendo ai tre di precederlo e si affiancò a Legolas, lo sguardo serio. Quello si voltò appena verso di lui, continuando a camminare a passo sostenuto: –Mio padre dov’è?-
    -A quest’ora dovrebbe essere ai campi di addestramento ma non appena saprà che siete qui vi riceverà nella Sala del Trono.-
    -E dove tiene la stella?- Felon si voltò verso di lui, velocemente: -Sillen sta con il Re tutto il giorno. Non c’è da preoccuparsi, è una giovane gentile e buona. Non sarete venuti qui con l’intenzione di farle del male, vero?- Legolas si stupì di tanta premura: -La questione non ti riguarda.-
    Erano giunti davanti ai cancelli del Palazzo e le guardie si inchinarono, lasciandoli passare.
    Felon, invece, non si distaccò dal fianco del Sindar: -Con tutto il rispetto mio Principe, ma riguarda anche me. Sono stato io a scortare Sillen fino a una settimana fa e ho avuto l’onore di conoscerla bene.- Alatar e Elessar tesero le orecchie, incuriositi.
    Legolas rivolse uno sguardo interrogativo all’elfo silvano.
    -Scortarla? Dove?-
    Felon alzò le spalle: -In giro per il Palazzo, niente di più. Il Re ha cominciato a richiedere la sua presenza ogni giorno, da circa due settimane. Però, dopo Mereth en Gilith, ho saputo che l’ha lasciata senza guardia. È davvero una brava persona, mio Principe, ci si può fidare.-
    Legolas si fece pensieroso: suo padre, che credeva avesse gettato la stella in qualche caverna sotterranea senza tante cerimonie, si stava dimostrando gentile e disponibile con lei?
    Alatar fece ticchettare il bastone a terra, sorpreso: -Bene, vedo che la stellina si è già data da fare con il Re. E io che mi aspettavo di trovarla deperita in qualche cella sperduta.-
    Dunque, era un pensiero piuttosto unanime, pensò Legolas.
    Furono raggiunti dalla scorta personale del Re poco prima di entrare nella Sala del Trono e salirono in fila indiana lungo la scala tortuosa, intorno al grosso tronco.
    Una volta giunti in cima, le guardie si schierarono tutte intorno a loro, ritte come colonne e pronte ad agire al minimo segnale del Re degli Elfi.
    Thranduil era in piedi, di fronte al Trono rialzato e scrutava i suoi ospiti dall’alto. Il suo sguardo si soffermò su Elessar, poi su Alatar e infine su suo figlio. Sebbene non lo desse a vedere, era teso nel rivedere Legolas e, tra sé e sé, non poté fare a meno di chiedersi se fosse tornato per rimanere, questa volta.
    Dietro al trono, nascosta agli occhi dei tre viaggiatori, Sillen sbirciava oltre le spalle del Re, curiosa. Solo Alatar si accorse di lei e le lanciò uno sguardo sornione, chinando la testa in segno di saluto. Lei sorrise ma rimase al suo posto, come Thranduil le aveva chiesto di fare.
    -Ti aspettavo, Re degli Uomini. Mi chiedevo quanto tempo ancora ci volesse per arrivare qui.- Disse l’elfo, con voce profonda e incolore. Elessar chinò la testa rispettosamente: -Re Thranduil, perdona il mio ritardo. È stato un viaggio molto lungo, siamo partiti da Gondor per raggiungerti ben più di un mese fa.-
    Legolas avanzò di un passo, alzando il mento: -Adar (padre), sai perché siamo qui. Manke naa Sillen? (dov’è Sillen)- Quello puntò lo sguardo glaciale su di lui, specchiandosi in quegli occhi così simili ai suoi: -Ovviamente.- Allungò una mano dietro di sé e Sillen si affrettò a raggiungerlo.
    Lui la sospinse delicatamente davanti ai nuovi arrivati e lei si ritrovò tre paia di occhi puntati addosso. Deglutì, imbarazzata: -Quel’re (buongiorno).- Si limitò a dire.
Strinse la mano del Re come fosse un’ancora sicura in mezzo al mare tempestoso delle sue emozioni.
    L’uomo con il bastone non smise di sorriderle e lei si chiese come mai portasse un piccolo volatile sulla spalla. –Io sono Alatar, lo Stregone Blu. È un vero piacere conoscerti, Sillen.- Lei annuì, accogliente: -Anche per me.- Poi aggrottò le sopracciglia.
-Non sapevo esistesse uno stregone blu… Mi hanno raccontato solo di uno stregone bianco, uno grigio e uno bruno.-
    Alatar sollevò le spalle, rassegnato: -Già, lo so bene. Eppure eccomi qui. Anzi, eccoci.- Indicò il viaggiatore alla sua destra: -Lui è Elessar, Re di Gondor e di Arnor. Ha cominciato a cercarti dal momento stesso in cui sei caduta, sai? Tutti lo abbiamo fatto. Siamo felici di conoscerti, finalmente.-
    Gli occhi violetti della stella incontrarono quelli grigi di Elessar, luccicanti per l’emozione. Finalmente. 
Elessar chinò la testa anche dinanzi a lei, ammirando il colore insolito delle sue iridi e della sua pelle: -Vederti incolume e al sicuro è un sollievo per me.- Sorrise, ma alla stella non sfuggì il suo tono d’urgenza. -Ti ringrazio per esserti preoccupato per me, Re degli Uomini.- Si affrettò lei, ricambiando il sorriso.
    Sillen si stupì di quanto i visi dei due uomini fossero diversi da quelli di tutti gli elfi che aveva conosciuto: sembravano più consumati, solcati da qualche ruga, ed entrambi avevano una folta barba a celarne i lineamenti. Al primo, i favoriti si erano già ingrigiti, mentre il secondo era più giovane e aveva un portamento regale, solenne e molto affascinante.
    Dunque, erano fatti così gli umani.
    Infine, quando si rivolse al terzo ospite, a Sillen mancò un battito. L’elfo che si trovò davanti somigliava terribilmente a Thranduil: gli stessi capelli biondi, le stesse spalle ampie. Eppure, lei trovò il suo sguardo di gran lunga più trasparente e amichevole di quello del Re.
    Lui la osservò a sua volta, senza dire nulla, ma era evidente che la sua attenzione fosse rivolta più al Re degli elfi che a lei.
Sillen capì che si trattava di Legolas, il figlio del Re, colui che Emlinel nominava di tanto in tanto con profonda nostalgia.
Era stata la sua balia quando era ancora un bambino e lo descriveva come un giovane elfo coraggioso, giusto e allegro.
    Quando Legolas puntò nuovamente lo sguardo su suo padre, però, a Sillen non parve affatto allegro: -Cosa ti ha detto? Hai scoperto qualcosa d’importante?- Lei alzò un sopracciglio, risentita: -Perché parli di me come se non fossi presente? Capisco quello che dici e sono in grado di risponderti da me.-
    Legolas trattenne il respiro per un attimo, sorpreso da tanta schiettezza. Si sentì tremendamente in colpa e rivolse uno sguardo di scuse alla giovane. E rise di sé stesso: un tempo, quando ancora viveva sotto lo stesso tetto di suo padre, avrebbe punito tanta impudenza con la morte. In quell’attimo, si chiese perché Thranduil non rendesse giustizia a quei suoi stessi insegnamenti mettendo a tacere la stella: lei si comportava così anche con il Re in persona?
    Prima che il giovane Principe potesse dire altro, Thranduil tirò Sillen a sé, frapponendosi con apparente noncuranza tra lei e i tre viaggiatori: -Un viaggio lungo come il vostro richiede molto riposo. Sarete miei ospiti per quanto vorrete, le guardie vi scorteranno alle vostre stanze. Lasceremo a stasera tutti i chiarimenti.-
    Legolas però non sembrava volersi muovere e il Re gli rivolse uno sguardo in tralice: -Sai bene dove sono le tue stanze, Legolas.-Quello contrasse la mascella ma si voltò in gran fretta, seguendo gli altri lungo le scale.
Quando tutti furono usciti, Sillen espirò profondamente, rilassando i muscoli tesi. –Quindi quello era il Re degli Uomini.- Disse, tra sé e sé. Thranduil si accomodò sul trono, la schiena rigida. -Accompagnato da uno stregone che non si vedeva da anni. Anzi, che non si è praticamente mai visto in queste terre.-
Lei gli rivolse uno sguardo eloquente: -E da tuo figlio, Legolas. Non sei stato gentile a trattarlo con tanta freddezza.-
    -Come tratto mio figlio non è affare tuo, Sillen.-
    Lei s’imbronciò, sedendosi a terra al suo fianco e tirando le ginocchia al petto. Dopo qualche secondo di silenzio, Thranduil si mosse sul trono, a disagio: –Legolas non si aspetta che lo tratti diversamente, comunque.- Sillen sollevò lo sguardo su di lui, prestando attenzione. –Non sono mai stato il padre amorevole che immagini.- Il Re pronunciò quella frase con falsa noncuranza.
Cosa che non sfuggì affatto alla perspicace stella.
    Questa piegò la testa di lato, tornando a guardare davanti a sé: -Non ti ho mai immaginato come un padre amorevole, Thranduil. Ma credo di conoscerti almeno un po’ oramai e posso intuire quello che hai provato nel rivederlo. E sono certa che anche a lui sarebbe piaciuto saperlo.-
    Lui tamburellò le dita sul bracciolo, guardandola dall’alto. Seguì il suo profilo delicato, soffermandosi sulle lunghe ciglia, che proiettavano ombre a mezzaluna sulle guance dorate: -Terrò in considerazione le tue parole.-
Sillen si appoggiò al Trono con la spalla, sospirando.
In quei giorni, lei e il Re potevano anche essersi avvicinati molto -e quel dialogo ne era la riprova- ma gli obiettivi della stella erano chiari e definiti, non ammettevano repliche.
    –Racconterò loro tutto. Che ti piaccia o no.- Si limitò a dire.
    Thranduil contrasse la mascella: -Potrei impedirtelo?-
La stella non rispose e il Re avvertì i propri muscoli tendersi nervosamente.
    Il giorno che più temeva era arrivato.
 
**

    Emlinel indugiò davanti alla porta di legno chiaro, tormentandosi le mani ansiosamente. Alzò una mano per bussare ma l’abbassò velocemente. La alzò nuovamente, per poi ritrarla ancora. Non voleva disturbare Legolas ma le sarebbe davvero piaciuto poterlo salutare. Sapeva che il giovane Principe aveva dei doveri nell’Ithilien e già aveva accettato l’idea che non sarebbe potuto rimanere a lungo.
    Scosse la testa, incrociando le braccia: era troppo impegnato, non avrebbe voluto essere interrotto così solo per un saluto.
    Si voltò, sbuffando stizzita, quando la porta si aprì dietro di lei. Legolas si bloccò sulla soglia quando vide il passaggio occupato e alzò lo sguardo con fare scocciato.
    Nell’attimo in cui incontrò gli occhi chiari di Emlinel, però, il suo viso si distese: -Naneth… (madre)-
Emlinel si diede della sciocca per essersi preoccupata tanto: Legolas era ancora il suo bambino, nonostante i tanti anni passati lontano da casa. Si fermò a guardarlo, ammirata. Era bello come lo ricordava, con i lunghi capelli chiari e gli occhi verdazzurri limpidi e saggi.
    Con slancio, lo abbracciò, cercando di trattenere le lacrime: -Mi sei mancato tanto. Non ti perdonerò facilmente per non avermi mai scritto!- Anche lui ricambiò l’abbraccio con dolcezza, perdendosi nei ricordi. La voce melodiosa della dama era un balsamo per le sue orecchie e in un attimo si rivide bambino, accoccolato sul suo grembo ad ascoltarla cantare, prima di addormentarsi.
    Non aveva quasi memoria di sua madre e suo padre non l’aveva mai più trattato con dolcezza, dopo il loro terribile lutto.
Per tutta la sua vita, Emlinel era sempre stata il suo unico punto di riferimento ed era la cosa più simile a una famiglia che avesse mai avuto.
    Tuttavia, adesso il giovane Principe aveva delle priorità e si costrinse a rimanere concentrato. –Emlinel, dimmi. Tu hai conosciuto Sillen, non è vero?- Le domandò, prendendola per le braccia. Lei annuì, sorridendo: -Mi sono presa cura di lei dal primo giorno. È davvero una giovane incredibile.-
    L’elfo sospirò: -Si, l’ho sentito dire.-
    -Dovresti conoscerla, Legolas. Non ho mai incontrato, in tutta la mia lunghissima vita, qualcuno con i suoi talenti. È intelligente, eppure sa essere davvero testarda. Dovevi vederla, nemmeno riusciva a parlare o a camminare come si deve, quando giunse qui la prima volta! Non che la cosa l’abbia ostacolata dal tener testa a tuo padre…-
    Legolas scosse il capo, cercando di seguire il discorso: -Con calma, naneth. Cosa vuol dire che non riusciva a parlare?-
    Lei si lisciò la veste, tentando di spiegare quell’insolita situazione nel modo più chiaro possibile: -Più che altro, non ne era ancora capace. Doveva semplicemente imparare a fare tutto. Da quello che sa, lei è nata esattamente il giorno in cui è caduta dal cielo, quindi non aveva ricordi cui aggrapparsi. Però è stata rapida, le è bastato osservarci per qualche giorno ed è subito stata in grado di muoversi ed esprimersi alla perfezione. Eccezionale, non credi?-
    Lui assorbì quelle parole: -Ho capito. Quindi, non ha memoria di nulla, prima della caduta.- La dama annuì e si fece seria: -E non finisce qui. Ha avuto una visione. Non conosco i dettagli ma tuo padre sì.-
    Legolas aveva visto come suo padre si era dimostrato possessivo nei confronti della stella e la cosa lo turbava: -Mio padre… Da quello che ho visto, tiene la stella sempre con sé. Perché?- Emlinel rimase per un attimo spiazzata da quella domanda. Tra sé e sé, sorrise: -Non so dirti cosa li abbia avvicinati, ci sono stati momenti difficili per entrambi. So solo che Sillen è unica: capirai anche tu perché è impossibile non desiderare di averla accanto.-
    Legolas rifletté su quelle parole, crucciato.
    La dama gli prese le mani tra le sue, rassicurandolo con lo sguardo: -Non è parlando con me che troverai le risposte alle tue domande, Legolas. Parla con tuo padre e con Sillen, vedrai che tutto andrà per il meglio.-
    Legolas avvertì una fitta al petto, guardando gli occhi speranzosi di Emlinel: lei non sapeva nulla del pericolo che la Terra di Mezzo stava correndo e che esso diveniva più grave ogni minuto che passava.
    La strinse con dolcezza, per poi incamminarsi verso le stanze dei suoi compagni: -Ti ringrazio, naneth. A più tardi, dunque.- Lei lo salutò con un breve inchino: -Di nulla, mio Principe.-
    E lo guardò allontanarsi.

    Legolas giunse in fretta nella Sala degli Ospiti, dove Elessar e Alatar fumavano le loro lunghe pipe. Pose le mani sul tavolo davanti a loro, serio: -Ho delle informazioni. Meglio che vi riveli tutto, prima di essere convocati.- E raccontò ai due quello che aveva sentito da Emlinel.
    Quando l’elfo ebbe finito, Alatar accarezzò distrattamente il piumaggio di Lelya, senza scomporsi: -La notizia cattiva è che la stella non ricorda un bel niente dei Valar che l’hanno creata. Quella buona, ed ecco che i nodi vengono al pettine, è che gli stessi Valar le hanno mostrato qualcosa d’importante. Perciò, dobbiamo sbrigarci a scoprire di cosa si tratta.-
    Elessar si arrese sullo schienale, con un sospiro: -Ma c’è un problema. Non possiamo obbligare Thranduil a collaborare.-
Lo stregone al suo fianco sorrise, rigirandosi la pipa tra le dita nervose: -Noi no, ma Sillen può farlo.- Legolas socchiuse gli occhi, stringendo i pugni: -È presto per cantare vittoria. Mio padre non ama perdere il controllo di quello che gli appartiene e, se si sentirà minacciato, allontanerà Sillen da noi all’istante.- Elessar lo guardò negli occhi, intuendo i suoi pensieri: -Cosa proponi allora, Legolas?-
    Fu Alatar a parlare al posto suo, schietto: -Io, dalla mia modesta opinione di stregone vagabondo, dico che nessuno di noi deve fare proprio un bel niente. Fareste meglio a lasciare che sia la stella a risolvere la questione.-
    Sul suo viso si profilò un sorriso saputo.
    -Ma come fate a non capire? Siete più stupidi di quanto pensassi, dannazione.-




   


N.D.A

Ciao a tutti! <3 Questo capitolo è perennemente in revisione, quindi pubblicarlo è stato un azzardo. Però non potevo saltarlo e tantomeno avrei perso una settimana! Se lo correggerò o modificherò nel tempo, avrò cura di segnalarlo :) Per ora, aspetto con ansia di farvi sapere cosa accadrà nel prossimo capitolo *-* Bando alle ciance, ci vediamo XD
Aspetto sempre i vostri sinceri pareri,
Aleera

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Capitolo 11
*** Nella Sala delle Udienze ***




-Nella Sala delle Udienze-

 
    Nella Sala delle Udienze, Sillen stava camminando avanti e indietro nervosamente.
    Thranduil la seguì con lo sguardo, spazientito: -Siediti, Sillen. Mi verrà il mal di mare.- Lei gli lanciò un’occhiata distratta, inspirando ed espirando profondamente. Era ansiosa all’idea di discutere con il Re degli Uomini e, soprattutto, aveva paura di deluderlo. Doveva essere convincente e raccontargli della sua visione come aveva fatto con Thranduil.
    Sperò solo che l’elfo non si mettesse in mezzo.
    Lo guardò di sottecchi mentre lui prendeva posto sulla sedia dall’altissimo schienale, posta a capo del tavolo d’argento. A vederlo, il Re elfico sembrava tranquillo e pacifico ma lei sapeva bene che era solo una facciata.
    L’arrivo di Elessar non aveva cambiato nulla: Thranduil non intendeva lasciarla andare e avrebbe di sicuro fatto valere la propria volontà.
    In quel momento, la porta della sala si spalancò e i tre viaggiatori fecero il loro ingresso: Legolas e Elessar si erano puliti e vestiti con abiti di fattura pregiata, mentre lo stregone non sembrava affatto diverso da quando era arrivato quella mattina. Sillen sorrise, divertita dal modo in cui quest’ultimo sedette scompostamente sulla sedia, senza aspettare il permesso.
    Thranduil lo guardò senza commentare, aspettando che anche gli altri due si accomodassero: -Fa’ che sia una cosa rapida, Re degli Uomini. Ti concedo di porre a Sillen qualche domanda, nulla di più.- Disse con voce atona.
    Fu Alatar a sporgersi sul tavolo scuro, schiarendosi la voce.
-Sillen, tu sai di essere una stella, giusto?- Lei annuì. –E sai anche che sono stati i Valar a mandarti qui?-
    Lei rimase in silenzio per un attimo, riflettendo. -Non posso esserne sicura, poiché non ho memorie. Ma anche io ho ipotizzato l’intervento dei Valar, quando ho appreso della loro esistenza. Non vedo chi altro avrebbe potuto farmi giungere fino a qui.- Lo stregone sorrise e fece scivolare sul tavolo il plico di fogli su cui aveva disegnato la stella: -Io, invece, so per certo che sono stati loro a crearti, dato che mi hanno mostrato il tuo viso ancor prima della tua venuta.-
    Lei si rigirò quei disegni tra le mani, sconvolta e incuriosita allo stesso tempo. I tasselli trovavano il loro posto nell’intricato ingranaggio della sua mente e si sentì sollevata, seppur la cosa la terrorizzasse: ora sapeva chi l’aveva concepita e resa reale.
    Elessar le rivolse uno sguardo penetrante e lei si rizzò sulla sedia, tornando a concentrarsi sui presenti.
    –Tu credi che stia per succedere qualcosa, non è vero?- Lei annuì nuovamente: -Qualcosa di terribile, temo, anche se non ho molte prove a sostegno di questa tesi.-
    -Noi ti crediamo.- Tagliò corto, Alatar.
    La stella trattenne il respiro: se anche loro si aspettavano il peggio, erano a conoscenza di qualcosa che lei non sapeva.
    –Raccontaci la visione, Sillen.- Le chiese gentilmente, Elessar.
Thranduil si girò verso di loro, con gli occhi ridotti a due fessure puntati sul giovane figlio.
    Non si aspettava che già sapessero della visione.
    Legolas lo ignorò, prestando tutta la sua attenzione alla stella. Sillen, sorpresa, si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio, schiarendosi la voce: -Bene, sapete già della visione... Suppongo di dover ringraziare Emlinel per questo.- Rivolse un’occhiata frettolosa in direzione del Re degli Elfi, sperando che non decidesse di intervenire proprio ora. -La mia visione era molto chiara: la Terra di Mezzo era avvolta dalle fiamme e la Bianca Torre di Ecthelion crollava al suolo.-
    Ad Elessar mancò un battito, a quelle parole, ma non osò scomporsi: -Puoi darci delle informazioni più precise? Hai visto qualcuno?- Lei scosse la testa, desolata: -Non ho visto nessuno, solo un paesaggio devastato dal fuoco.-
    Alatar aggrottò le sopracciglia folte: -Concentrandoti, puoi capire in che stagione era ambientata la tua visione?-
    Confusa, Sillen piegò la testa da un lato: -Cosa intendi?-
    -Potremmo capire quando questa visione diverrebbe realtà. C’era della neve? Oppure gli alberi erano spogli?-
    -Non lo so. Come ho detto, tutto andava a fuoco. Non saprei dirlo con certezza.-
    Quello scrollò una mano: -Oh non c’è problema. Siamo solo punto e a capo, tutto qui.- Lei si morse le labbra, dispiaciuta.
    Come temeva, si stava rivelando inutile.
    Thranduil strinse gli occhi a due fessure gelide e accusatorie: -E tu cosa hai scoperto, stregone? Da come ti comporti, è chiaro che hai già delle informazioni importanti tra le mani.-
    Sillen tese le orecchie e quello, scrocchiando le dita con un rumore secco e sgradevole, spiegò brevemente la situazione al Re degli Elfi.
    Quando il resoconto giunse al termine, Thranduil si limitò a portarsi alle labbra il suo calice di vino: -Come immaginavo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Mille orchi al confine non sono nulla.- Ghignò lievemente: -Anche per voi uomini.-
    Legolas si sporse sul tavolo, serio: -Come ha detto Alatar, questo è solo l’inizio. Dobbiamo trovare il nostro nemico ed abbatterlo, prima che raduni ancora più forze!- Thranduil scrollò le spalle: -Allora fatelo. Ma come vedete, la stella non è d’aiuto.-
    Sillen lo interruppe, gli occhi viola che mandavano bagliori accesi. -Non ho ancora finito e tu lo sai.- I tre viaggiatori le puntarono gli occhi addosso e lei scandì le parole una ad una: -Stella, battaglia, popoli liberi.-
    Thranduil le lanciò uno sguardo di rimprovero ma a lei non importava. Aveva detto che avrebbe rivelato loro ogni cosa.
    Ed ora manteneva tutti i suoi propositi.
    Elessar sgranò gli occhi grigi, avvertendo l’agitazione attanagliargli il petto e le dita tremare: -Sono parole che hai sentito nella tua visione?- Lei distolse lo sguardo, tormentandosi il vestito: -Purtroppo ricordo solo queste poche parole, mi dispiace.- Alatar quasi cadde dalla sedia e, saltando in piedi, esclamò: -Dovevi dirlo subito! Se il problema è ricordare quello che hai sentito nella visione, basta cercarlo nella tua mente.-
    Tutti rimasero con il fiato sospeso: se davvero Sillen avesse rivelato una profezia, tutto sarebbe stato più chiaro.
    Alatar fece il giro del tavolo per avvicinarsi alla stella e, quando Thranduil si alzò in piedi a sua volta, turbato, lo stregone lo pregò con lo sguardo di attendere.
    Tese una mano a Sillen, che deglutì. -Con il tuo permesso, Stella dei Valar, vorrei recuperare il tuo ricordo.- Sorrise lui, rassicurante. La stella non esitò. Afferrò la sua mano e si lasciò guidare, confidando nel suo alto sapere di Istar.
    Alatar si posizionò dietro di lei e posò gli indici sulle sue tempie, respirando a fondo: –Andrà tutto bene, ci vorrà un attimo.- Lei annuì lievemente e lo stregone iniziò a sussurrare un’incomprensibile litania con voce baritonale.
    Dopo pochi secondi, Sillen avvertì una lieve scossa elettrica punzecchiarle la nuca: come un lampo, la visione le esplose nella mente, tornando vivida e presente.
    In reazione a quell’incanto, i suoi occhi violetti divennero pura luce bianca, spalancandosi con violenza, e un’innaturale corrente d’aria s’innalzò intorno al suo corpo, scompigliandole i capelli neri. Thranduil si fece avanti velocemente ma Alatar lo fermò con voce secca: -Che nessuno la tocchi! È forte, accidenti. Ho dovuto fare forza per entrare nella sua mente.-
    Tutto ciò che non era abbastanza pesante prese a vorticare freneticamente nella stanza, sbattendo sulle pareti lisce.
Involontariamente, Thranduil si ritrovò a ringhiare.
    -Lasciala andare.-
    Lo stregone gli lanciò un’occhiata eloquente: -Se interrompo ora il contatto rischio di ucciderla.- A quella rivelazione, il Sindar s’irrigidì violentemente, sentendo il sangue gelarsi nelle vene.
    Dal canto suo, Alatar sorrise tra sé e sé: in vero, la stella non correva nessun pericolo. Semplicemente, lo stregone doveva andare fino in fondo a quell’incanto e, a dirla tutta, era curioso di vedere la reazione del Re a quella piccola menzogna.
    Intanto, Sillen perse ogni contatto con la realtà, precipitando nella visione. Rivisse la caduta e questa volta sentì la voce rimbombarle nella testa con chiarezza.
    Cominciò a parlare, con voce atona e chiara, ripetendo ciò che sentiva:

“Tu sei nata per una ragione e il tuo cammino non può cambiare.
Ma un destino scritto è anche una maledizione.
Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo, riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.
Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male.
Perché la Stella dei Valar si è svegliata.
La Stella dei Valar porterà la pace.
A caro prezzo.”


    Alatar annullò in fretta il suo incanto e Sillen chiuse gli occhi.
La corrente si placò d’un colpo e l’intera sala piombò nel più assoluto silenzio. Solo dopo un primo attimo di totale immobilità, tutti tornarono a respirare.
    Thranduil si affrettò a sorreggere la stella, che vacillò sulle proprie gambe. Lei aggrottò le sopracciglia, concentrata e si sfregò gli occhi, tornati del solito color ametista. -Riunire i popoli liberi e scendere in battaglia.- Alatar annuì: -Ora abbiamo una pista.- Thranduil non parve della stessa idea e strinse la stella per un braccio, evitandole una maldestra caduta.
    -Ma di cosa state parlando, di grazia?-
    Sillen riacquistò l’equilibrio, scostandosi dal Re elfico con un sibilo scocciato: -Sto bene! Ce la faccio da sola.-
    Elessar guardò la stella con un velo di preoccupazione nello sguardo. Quella giovane donna doveva scendere in battaglia in testa a un esercito? A vederla, sembrava a malapena in grado di reggere una spada.
    -Smettetela di sottovalutarla, tutti e due.- Li riproverò Alatar, spazientito dal tono del Re elfico e dallo sguardo pietoso di Elessar. Sillen gli fu subito accanto, grata per la sua fiducia.
–Dobbiamo agire al più presto. I popoli liberi sono sei: Uomini, Elfi, Nani, Hobbit, Aquile ed Ent. Qual è il più vicino a noi?-
    Thranduil scosse la testa, deciso: -No. Tu non vai da nessuna parte.- Lei sollevò il mento con aria di sfida e, come se la situazione già non fosse abbastanza tesa, il Re degli Elfi finì per spazientirsi irrimediabilmente. Avanzò di un passo ma, con sua somma sorpresa, si ritrovò la strada sbarrata da Legolas.
    L’altro respirò a fondo e alzò lo sguardo per puntare i propri occhi in quelli verdi del figlio: -Spostati, Legolas.-
    Quello non si mosse, risoluto: -Non sta più a te decidere. L’intera Terra di Mezzo ha bisogno di lei e tu dovresti aiutarci, non trattarci da nemici.- Thranduil storse la bocca: -Come dovrei trattare qualcuno che entra in casa mia con l’intento di dettare ordini senza il mio consenso?-
    Elessar s’intromise con discrezione, posando una mano sulla spalla di Legolas e rivolgendosi al potente Sindar: -Questa situazione riguarda tutti noi, Re Thranduil. Ma hai ragione, questo è il tuo regno e noi siamo stati troppo invadenti.-
    Alatar lanciò uno sguardo eloquente alla stella, che intuì quello che i due uomini stavano cercando di fare: Thranduil era meno teso quando era solo con lei e sarebbe stato più semplice dialogare senza la loro presenza.
    Legolas, però, strinse i denti: -La mia opinione non conta, padre? Sono pur sempre l’erede che governerà su questo regno, o mi sbaglio?- L’altro si voltò con un gesto spazientito: -Ricordi che questo è il tuo regno solo quando ti fa comodo.-
    Sillen sentì l’amarezza di quelle parole affondare come coltelli nell’animo del Principe, che abbassò la testa con i pugni serrati. Legolas sapeva che suo padre non lo aveva ancora perdonato per il suo coinvolgimento con il Regno degli Uomini, nell’Ithilien, ma sentirlo parlare in quel modo lo ferì crudelmente.
    Per anni, l’unica cosa che aveva cercato di fare era rendere suo padre fiero di lui ma in quel momento gli sembrò davvero di essere lontano più che mai dal riuscirci.
    La voce gentile della stella li interruppe. –Lasciateci soli, per favore.- Alatar annuì e si diresse alla porta, mentre Elessar si voltò verso l’amico: -Andiamo, Legolas.-
    Quello guardò il padre e la stella, poi scosse la testa, rassegnato.
 
**

    Sillen li guardò uscire, tormentandosi il tessuto sottile della veste bianca con le dita dorate. Thranduil rimase immobile, offrendole solo il profilo contrariato.
    Era chiaro che non avesse intenzione di discutere, dunque.
    Dopo qualche minuto di silenzio paziente, lei si schiarì la voce, cercando di apparire più tranquilla di quanto non fosse.
-Thranduil, per favore.- Lui le lanciò uno sguardo in tralice, ancora furente e Sillen si avvicinò con fare diplomatico, forzando addirittura un sorriso. -Parla con me. Troviamo un modo per gestire questa situazione, insieme. Non puoi ignorare tutto ciò che sta accadendo.-
    Lui si costrinse a non guardarla, i muscoli della mascella irrigiditi. Se stava cercando di circuirlo con quei modi gentili, ne sarebbe rimasta delusa: sapeva gestire l’effetto che quegli occhi di ametista sortivano su di lui.
    Sentì la mano affusolata della stella toccargli la spalla ma se la scrollò di dosso con un gesto secco: -Non c’è niente da dire. Tu non sei in nemmeno in grado di comprendere cosa sia una guerra. Faresti meglio a lasciare la questione a chi può gestirla.-
    Lei cercò di controllare la rabbia che sentiva ribollire nel petto e parlò con una calma che non sapeva di possedere: -Per adesso non sono in grado, è vero. Ma se i Valar mi hanno creata con questo intento, sono certa che posso riuscirci.-
    Aggirò l’imponente figura del Re elfico per guardarlo in viso ma questo la fermò con un gesto improvviso. Sillen s’immobilizzò di colpo, avvertendo nelle ossa tutta la forza della sua mano che la tratteneva per il braccio.
    -Perché ti è così difficile capire il concetto? Io prendo le decisioni, non tu.- Lei scattò indietro, trafiggendolo con un’occhiata impietosa. Passò una mano sul braccio offeso, stringendo le labbra piene fino a farle sbiancare.
    Non sopportava che lui la facesse sentire così debole, indifesa, quando in vero avrebbe preferito sotterrarsi piuttosto che dargliela vinta.
    Era un ottuso elfo egoista.
    E doveva capire, una volta per tutte, con chi aveva a che fare.
    -Ci sono persone che potrebbero morire.- Lo accusò.
Thranduil scrollò le spalle con noncuranza: -Il mio regno non crollerà per qualche vita umana in meno.-
    -Ma il tuo onore si!- S’indignò lei.
    Il Re non si scompose e prese a camminare per la stanza con lentezza regale, impassibile davanti alle veementi rimostranze della stella. Questa, invece, non poteva più reprimere il violento desiderio di ribellione che le bruciava nel petto, soprattutto quando il Sindar assumeva quell’atteggiamento dannatamente arrogante e supponente. Sentì ribollire il sangue nelle vene, stufa di ritrovarsi sempre nella stessa situazione: -Io partirò con loro, che ti piaccia o no.- Thranduil si voltò a guardarla, con il volto imperturbabile: -Non sei nella posizione di decidere.-
    Fu allora che Sillen gli si avvicinò, a grandi passi: -Perché l’hai deciso tu? Rifletti Re degli Elfi, chi sono io?-
    Gettò indietro la testa per guardarlo negli occhi con furia distruttiva: -Io sono Sillen, la Stella dei Valar! Non c’è essere su questa terra che possa dirmi cosa io debba o non debba fare! Nemmeno tu, Thranduil.- Gli soffiò a pochi centimetri dal viso, il petto che si alzava e si abbassava per la dirompenza del suo sfogo.
    Il Re, questa volta, rimase in silenzio.
    Si ritrovò a fissarla, non perché non trovasse alcunché da ribattere ma perché non poteva fare altro.
    Finché lei lo guardava in quel modo, bruciava in quel modo, lui era costretto a rimanere immobile, a fissarla di rimando.
E in quel momento, nella Sala delle Udienze, gli parve di vedere la stella per la prima volta.
    Era splendida, gli occhi come pozzi di ametista liquida, bollenti, brillanti alla luce delle torce. I lunghi capelli le piovevano attorno alle spalle tremanti in morbide onde scomposte, nere come l’onice più puro.
    Forte, caparbia e bellissima.
    Poi, gli occhi del Re si soffermarono qualche secondo di troppo sulle labbra di lei e Sillen avvertì il calore invaderle le guance. Quando incontrò di nuovo lo sguardo di Thranduil, le mancò il respiro: non aveva mai visto il fuoco divampare nel ghiaccio.
In un attimo, lui annullò ogni briciolo di controllo che gli era rimasto, premendo le labbra contro quelle di lei.
    Dopo un primo momento di smarrimento, Sillen si accorse di quello che stava accadendo e ogni cosa le parve amplificata: sentiva le labbra dell’elfo sulle sue, i suoi capelli argentei solleticarle il collo.
    Pensò di allontanarlo, di spingerlo via.
    Invece, contro ogni previsione, venne soffocata dall’irragionevole bisogno di baciarlo a sua volta e non riuscì a fare altro che assecondare quell’istinto.
Era ovviamente il primo bacio della sua vita, eppure le parve di averlo sempre portato con sé, sulla pelle, come un ricordo.
    Il ricordo di un sogno.
Una sensazione così assurda che, per un secondo, Sillen si chiese se non stesse sognando per davvero.
    Il Re l’attirò a sé, passandole un braccio attorno alla vita sottile e affondando le dita tra i suoi capelli corvini e la stella sentì le ginocchia cedere dall’emozione. Si aggrappò con le mani tremanti alle spalle larghe dell’elfo, che percepì il suo calore divorante attraverso le vesti, sibilando per la frustrazione.
    La desiderava terribilmente ed era certo che, in breve, non sarebbe più riuscito a controllare le proprie azioni.
    Allo stesso modo, si rese conto di averla sempre desiderata, sin dal momento in cui i loro sguardi si erano scontrati in quella radura devastata.
    Avrebbe dovuto prevederlo.
    Avrebbe dovuto.
Tutto quel tempo passato insieme non aveva fatto altro che accrescere quel sentimento sotterraneo.
    Non poteva biasimare altri che sé stesso.
    Sillen sentì il respiro venire meno quando le mani di Thranduil la strinsero contro il suo corpo slanciato, impazienti.
Non era sicura di poter sopravvivere a tutto ciò che stava provando e rabbrividì, arrendendosi a quel fuoco che presto -ne era certa- l’avrebbe bruciata viva.
    Si lasciò spingere contro la parete dietro di sé, ignorando il tocco freddo della pietra che le graffiava la pelle. C’erano solo i loro respiri, il suono del sangue che le scorreva nelle orecchie.
    C’era il battito forsennato del suo cuore.
    Poi, c’era solo Thranduil.
    E il mondo era sparito.
    Fu in quel momento che la stella sentì nuovamente le voci, quelle che affollavano la sua mente il giorno del suo arrivo sulla Terra di Mezzo. Non le sentì solamente. Esse gridavano, facendo a gare per farsi sentire. Lei spalancò gli occhi, confusa.
    Perché? E perché adesso?
    Si staccò velocemente dalle labbra dell’elfo che, invece, le spostò sulla pelle sensibile del suo collo dorato.
    Sillen rimase immobile, cercando di capire cosa le stessero dicendo quelle chiassose quanto indesiderate voci. Una tra tutte le martellò le tempie, quasi urlando: -Tu sei nata per una ragione e il tuo destino non può cambiare…-
    Le mancò un battito e sentì le lacrime pungerle gli angoli degli occhi violetti. Ma certo.
    Lei lasciò correre velocemente lo sguardo nella Sala delle Udienze, verso la porta. Verso Ovest -ormai aveva imparato- laddove le voci la chiamavano come una folla impaziente.
    Tutto questo non sarebbe dovuto accadere. 
    Non posso permettermi di essere così egoista, giusto Valar? 
    Quel pensiero le ferì la mente e sentì il suo corpo irrigidirsi di conseguenza. Ma oramai era troppo tardi: non il loro litigio ma proprio quel bacio avrebbe comportato il crollo di tutto ciò che lei e il Re elfico avevano costruito insieme.
    La fiducia che lui aveva riposto in lei si sarebbe dissolta, lasciandoli di nuovo distanti ed estranei, come il primo giorno.
    Anzi, molto, molto più distanti.
    Con il suo gesto avventato lo stava irrimediabilmente ferendo.
    Cercò di spingerlo via e le sue mani s’infransero senza troppa convinzione sul petto solido di lui. Si fece forza, ignorando dolorosamente le labbra calde dell’elfo, e infine riuscì a spostarlo a fatica, scivolando lontano dal muro.
    Thranduil avvertì il freddo percorrergli il corpo quando la stella si staccò da lui, lasciandolo a reggersi alla parete di pietra.
Stettero fermi a fissarsi per interminabili secondi, ansimanti.
-Sillen…- Sussurrò lui, ancora immerso nell’intensità di quel momento. Lei si portò istintivamente le mani al corpo, come a volerlo coprire: -No Thranduil, io devo andare. Questo… questo non doveva accadere. Partirò con loro.-
    E le voci nella sua testa cessarono immediatamente.
    Si morse il labbro inferiore, sentendo una lacrima solitaria scivolarle sulla guancia.
    Non doveva cedere, non poteva.
    -Cosa?- Sibilò lui, avvicinandosi di un passo.
    Lei deglutì, avvertendo lo sguardo tagliente del Re addosso con un peso quasi fisico, e le parole uscirono a fatica dalle sue labbra tremanti: -Io non sono qui per questo. Sono qui per combattere, per salvare la Terra di Mezzo. Ti prego, accetta di aiutarmi, Thranduil. Combatterai insieme a me?-
    Lui sbarrò gli occhi e, in un attimo, tutto gli fu chiaro, limpido come se la stella l’avesse urlato: lei stava solo cercando di usarlo, di convincerlo a lasciarle i suoi eserciti, a darle potere.
    Fu come se quell’intuizione avesse rotto un argine invisibile e Thranduil sentì il vuoto dentro di sé tornare ad inghiottire ogni cosa, come un onda inarrestabile.
    Il suo viso s’irrigidì, perdendo colore. 
    Lei non era lì per lui. Voleva solo il suo dannato esercito.
    Si era mostrato debole, indifeso. Non avrebbe dovuto fidarsi e ora ne avrebbe pagato le conseguenze. Ed esse l’avrebbero distrutto ancora una volta.
–Vattene allora. Ma non avrai niente da me.-
    Lei gli rivolse uno sguardo supplice, gli occhi viola ormai offuscati dalle lacrime e, nel cuore, la dolorosa consapevolezza di aver perso tutto.
    -Vattene.- Ripeté il Re, con voce roca.
    Sillen si strinse le braccia al petto, maledicendo quelle voci che minacciavano di tornare ad urlarle nella testa ad ogni sua parola: -Tu… tu non vuoi lasciarmi andare, Thranduil.-
    Ma il Re rimase in silenzio e lei si ritrovò a indietreggiare, trattenendo i dolorosi singhiozzi che le premevano il petto.
    Lesse qualcosa di temibile negli occhi di lui ma, quando si voltò per uscire dalla stanza, Thranduil rimase immobile. 
    La lasciò andare.


N.D.A

Bentrovati! Dopo questa pausa (non voluta ma necessaria T-T) ricomincerò a pubblicare una volta a settimana <3 Questo capitolo impegnò molte delle mie notti insonni e spero che il risultato vi piaccia XD Grazie a chi è arrivato fino a qui e a chi continuerà a seguire Sillen nella sua avventura! Chissà cosa accadrà adesso…
Baci,
Aleera

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Capitolo 12
*** Alatar il Blu ***



-Alatar il Blu-

 
    Emlinel strinse nuovamente i lacci dell’ampio mantello di Sillen, sospirando tristemente.
    Legolas, accanto a loro, sollevò lo sguardo dalle cinghie della propria sella e si aprì in un sorriso dolce: -Te la riporteremo indietro sana e salva, naneth.-
    Quella lo guardò di sfuggita e le sue parole, suo malgrado, si fecero amare: -Manterrai questa promessa come hai mantenuto quella di scrivermi?-
    L’elfo storse la bocca in un’espressione sinceramente colpevole: -Perdonami… Non c’è giustificazione per il mio comportamento.-
    Emlinel scosse la testa, mesta, e si rivolse nuovamente alla stella, accarezzandole la treccia nera che lei stessa aveva acconciato quella mattina.
    Non aveva fatto domande quando, il giorno precedente, Sillen era corsa in camera in lacrime ma sapeva perfettamente che la causa di quello stato d’animo altri non era che il Re.
    Il fatto che il comando del Palazzo fosse improvvisamente passato in mano al Principe Legolas ne era solo la riprova.
    -Mi raccomando, state attenti.- Sussurrò.
    Sillen prese le mani dell’amica fra le sue: -Grazie di tutto, mia dolce Emlinel. Custodirò il tuo ricordo nella mia memoria di stella fino a quando non tornerò da te, lo prometto.-
    La dama comprese il significato sottointeso di quelle parole e trattenne a stento le lacrime, abbracciandola con slancio: -Mi mancherai moltissimo.-
    Le posò un bacio sulla fronte e Alatar si avvicinò alle due donne, sfregandosi le mani per attirare la loro attenzione.
    -Suvvia, non disperare cara dama. Si tratta solo di un viaggetto insidioso e di qualche battaglia all’ultimo sangue contro orde di orchi inferociti. Che sarà mai?-
    Legolas gli rivolse uno sguardo di disapprovazione ma la voce divertita di Sillen lo prese in contropiede: -Non c’è problema, Principe Legolas. Preferisco la dura realtà, piuttosto che qualche menzogna poco utile.-
    Lo stregone le sorrise e Legolas aggrottò le sopracciglia, seguendoli con lo sguardo mentre si dirigevano oltre i cancelli del Reame Boscoso fianco a fianco.
    La stella sistemò gli stretti pantaloni dentro gli stivali, poi caricò la bisaccia dietro alla sella dello stallone baio di Elessar. Egli la raggiunse lentamente, guardandola di sottecchi. Fece per sistemare i finimenti già perfetti, con fare discreto, mentre le rivolgeva distrattamente la parola: -Non si è fatto vivo?-
    Le mani dorate della stella si irrigidirono violentemente, strette attorno alla sacca davanti a lei.
    Certo che non si era fatto vivo.
    Thranduil si era rinchiuso nelle sue stanze rifiutandosi di vedere chiunque, ordinando di non essere disturbato con tanta perentorietà da precludere ogni possibilità di replica.
    I tre viaggiatori avevano provato a cercare una spiegazione dalla stella ma lei si era limitata a dire che il Re non li avrebbe aiutati.
    E nemmeno ostacolati.
    Lei sapeva che non l’avrebbe fatto, per la semplice ragione che Thranduil aveva smesso di considerarla un suo affare.
    Per lui, lei aveva cessato di esistere e questo le faceva più male di qualsiasi altra sua possibile reazione. Anche se era cosciente di quanto il Re degli Elfi potesse essere spietato, avrebbe di gran lunga preferito dover affrontare la sua ira, piuttosto che il suo silenzio.
    Tuttavia, forse era davvero meglio così: schiacciata dalle proprie responsabilità, Sillen non poteva disobbedire ai Valar. Dunque, a conti fatti, conveniva che scappare dai propri sentimenti fosse per lei la scelta più saggia.
    Thranduil era arrabbiato, deluso e la odiava, però l’avrebbe dimenticata, ne era certa.
    Cos’era stata lei se non una momentanea e scomoda apparizione nella vita di quel sovrano immortale?
    Scosse la testa, sorridendo mestamente a Re Elessar.
    Lui le posò una mano gentile sulla spalla, comprensivo.
    -Andiamo. Il viaggio è lungo.-
    A quelle parole, Sillen tormentò la propria treccia scura, lanciando occhiate preoccupare ai cancelli: -Ho già fallito parte della mia missione, Re Elessar. Gli elfi non mi seguiranno.-
    Lui provò a ribattere ma l’altra strinse i pugni, soffiando tra i denti stretti: -E se non ce l’ho fatta qui, dopo essere rimasta per più di un mese, come posso riuscirci con gli altri popoli?-
    Fu Legolas a rispondere, ritto in piedi dietro di lei: -Gli elfi dell’Ithilien combatteranno per te, Stella dei Valar. Ma tu non devi dubitare di te stessa, o lo faremo anche noi.-
    Sillen lo ringraziò con un cenno della testa e si fece coraggio, lisciandosi la larga camicia candida sui fianchi.
    Poteva farcela.
    Finalmente, avrebbe varcato quei cancelli.
    Allora perché si sentiva così vuota?
    Intorno a loro, si era raccolta una piccola folla: elfi di ogni rango erano venuti dai più disparati angoli del Palazzo per assistere alla partenza della stella. Molti visi le erano estranei ma altrettanti le erano familiari. Uno fra tanti, quello di Galion: si scambiarono uno sguardo rapido, dispiaciuto da parte di lei e accusatorio da parte di lui, poi l’elfo sparì nella folla.
    Elessar montò a cavallo, allungando una mano per aiutare la stella a salire, mentre Alatar e Legolas spronavano le loro cavalcature nel fitto della boscaglia.
    Sillen si voltò un’ultima volta verso il Reame Boscoso che era stata la sua casa, le lacrime salate che minacciavano di scenderle dagli occhi d’ametista.
    Poi, con un gesto risoluto, afferrò la mano di Elessar e montò in sella dietro di lui, stringendosi alle sue vesti per non essere sbalzata via mentre si addentravano nel bosco al galoppo, diretti verso Nord.
    –Quanto dista il nido delle Aquile?- Chiese lei, assecondando il movimento dello stallone.
    –Circa una settimana, se viaggiamo sostenuti.-
    Superarono il ponte di pietra, allontanandosi sempre di più dal gorgoglio rassicurante del fiume.
    In quel momento, Sillen individuò del movimento tra i rami alla loro destra e si sporse per guardare meglio.
    Su un albero, a pochi metri d’altezza, una figura sollevò una mano in segno di saluto: Felon.
    La stella si morse il labbro inferiore, con una morsa al cuore che le impediva di respirare a fondo. Poco prima di essere inghiottiti dal sottobosco, vide un sorriso -malinconico eppure rassicurante- aprirsi sul volto dell’elfo gentile.

    Bosco Atro scivolò al loro fianco come un indistinto insieme di macchie dai colori caldi, mentre gli zoccoli delle loro cavalcature divoravano miglia su miglia.
    Più si allontanavano dal Reame Boscoso, più il cielo cominciava a fare capolino tra le fronde, sempre meno fitte.
    Al calar della notte, furono fuori dal bosco.
    Quando Lelya lanciò uno stridio acuto, Alatar si fermò con un’esclamazione allegra, dando qualche pacca al collo del suo cavallo: -Bene! Ci accamperemo qui.-
    Elessar smontò per primo, voltandosi verso la stella per aiutarla e lei si mosse lentamente, con un’espressione dolorante. Cercò di scendere da sola ma finì per scivolare malamente, le gambe irrigidite dal lungo tempo passato in sella; Elessar la sorresse senza troppa difficoltà, aiutandola a sedere dove Legolas aveva già accumulato della legna da ardere, posta vicino al limitare del bosco perché il vento notturno non spegnesse il fuoco.
    Alatar pronunciò distrattamente qualche parola in quella lingua antica che i compagni avevano udito nella Sala delle Udienze e le fiamme guizzarono sul legno, divampando in pochi secondi.
    –Credo di non sentire più la schiena.- Si stiracchiò la stella, massaggiando con forza i muscoli, all’altezza dei reni.
    Alatar si buttò al suo fianco, stancamente: -Già, non dirlo a me.-
    Lei sorrise divertita, quando Legolas ruppe involontariamente l’atmosfera rilassata che si era creata tra i due. -Non possiamo distrarci in questi luoghi poco sorvegliati. Monterò io la guardia, come al solito.- Elessar finì di dissellare i cavalli per farli riposare e sedette alla sua destra, con un sospiro profondo: -No, Legolas. Non riposi da settimane. Per stanotte ci divideremo i turni.-
    Elessar non aveva dimenticato che l’amico non aveva la stessa necessità di dormire che avevano tutti gli altri: per loro natura, gli elfi riposavano anche da coscienti, limitandosi a meditare, rilassando corpo e spirito in comunione con la terra e le sue creature. Tuttavia, sfruttare qualche ora di riposo era saggio e Legolas stesso non obbiettò, al consiglio del compagno.
    Il Re di Gondor e di Arnor rivolse uno sguardo eloquente alla stella: -Tu riposa, Sillen. Si parte all’alba.-
    -Posso montare la guardia anche io, non mi pesa stare sveglia. Ho una buona resistenza.-
    Legolas sollevò un sopracciglio, curioso: -Quanto buona?-
    -Nel giro di un’ora non accuserò più i fastidi della cavalcata, sarei pronta a ripartire. Un mese fa, mi costrinsi a non dormire né mangiare per tre giorni e non rimasi particolarmente indisposta.- Elessar e Legolas si scambiarono uno sguardo sorpreso.
    –Sarà un bel vantaggio quando dovrai sostenere il ritmo di un combattimento per ore, no?- Le fece l’occhiolino, Alatar.
    Sillen morse il labbro inferiore tra i denti bianchi: -Non saprei… Non ho mai nemmeno tenuto un’arma in mano, a dire il vero.-
    Lo stregone scrollò le spalle: -Abbi fede nei Valar. Per stanotte puoi dormire. Approfittane.-
    Lei annuì e si accoccolò davanti al fuoco con la coperta ben sistemata sulle spalle. Si perse a fissare il vuoto, gettando indietro la testa per ammirare quel panorama che, nel grembo del Palazzo di Thranduil, non aveva mai potuto osservare interamente. -Il cielo notturno è davvero bellissimo.-
    Gli altri tre seguirono il suo sguardo. Era strano pensare che quella donna fosse nata come una delle tante stelle che, adesso, brillavano intensamente nel firmamento.
    –A volte vorrei ricordare cosa si prova a stare lassù.-
    Alatar le rivolse uno sguardo comprensivo: -Ti capisco sai? Dopotutto sono un Istar. Anche io, un tempo, abitavo in un luogo meraviglioso.-
    Lei girò il corpo verso di lui, incrociando le gambe: -Valinor…-
    Alatar annuì e guardò con nostalgia il proprio bastone di stregone. -Vedi, anche noi Istari, quando ci siamo incarnati per raggiungere queste terre, abbiamo perso quasi tutti i ricordi di Valinor. Cerchiamo per tutta la nostra lunga esistenza di ricordare, ma è davvero difficile. Possiamo solo continuare a compiere al meglio il compito che ci è stato affidato e sperare di essere degni di tornarci, un giorno.-
    Lei si portò una mano al petto, abbassando lo sguardo: era stata creata e aveva conosciuto i Valar allo stesso modo di Alatar e gli altri Istari ma, nonostante tutta la sua curiosità, il primo luogo in cui sarebbe voluta tornare non era affatto Valinor, e nemmeno il cielo.
    Nella sua mente riusciva solo a immaginare la Sala d’Opale, i ponti di pietra, il Trono imponente del Reame Boscoso.
    Sospirò, passandosi una mano tra i capelli neri e sciogliendo la treccia che ormai pendeva sformata sulla sua spalla.
    Legolas cercò di sviare il discorso, intuendo l’aria malinconica della stella: -Mangiamo adesso. Ho qui il lembas[1] del Reame Boscoso. Non è buono come quello di Lothlórien ma è meglio di niente. -
    Sillen accettò di buon grado la propria razione, nonostante non fosse particolarmente affamata e si limitò a masticare silenziosamente, osservando i suoi compagni.
    Nella sua mente, ripeteva in continuazione la profezia.
    “Una prova ti attende”.
    Una prova più ardua di lasciarsi il Reame Boscoso alle spalle e riunire tutti i popoli liberi?
    Più grande che scendere in battaglia in testa ad essi?
    Si chiese allora a cosa si riferisse davvero quella frase e rabbrividì, immaginando scenari ben poco piacevoli nel suo futuro.
    Elessar si preparò al primo turno di guardia, appoggiandosi con la schiena ad un grosso tronco e incrociando le braccia attorno al fodero di Andùril, una precauzione che, in quel momento, era d’obbligo: nessuno di loro poteva sapere quanto lontano fosse il nemico, soprattutto ora che si apprestavano ad attraversare quegli impervi luoghi disabitati.
    La stella si addormentò poco dopo, rannicchiata in posizione fetale sotto la coperta ruvida e Alatar, al suo fianco, le sistemò la coperta sulle spalle con delicatezza.
    Elessar lo osservò colpito: -Non avrei mai immaginato che tu fossi tanto premuroso, potente Istar.-
    Lo stregone sorrise sornione: -Cerco di non far prendere freddo al nostro asso nella manica, mio Re.-
    L’altro scosse la testa, divertito.
    Era innegabile che lo stregone blu nutrisse un sincero affetto verso la stella: forse era a causa della loro origine, forse per l’affinità del loro carattere ma Alatar l’aveva subito compresa, meglio di quanto potevano sperare di fare il Re degli Uomini e il Sindar al suo fianco. Sillen si mosse nel sonno, avvicinandosi allo stregone e lui non osò spostarsi, per paura di svegliarla.
    Montarono la guardia tutti e tre i compagni, coprendo circa due ore a testa in modo da poter riposare il più possibile, mentre Lelya, dall’alto dei rami nodosi del bosco, osservava l’orizzonte con occhio attento.

    Legolas montò l’ultimo turno di guardia, per attendere l’alba pazientemente e godersi le sue prime luci.
    Il silenzio e l’immobilità del momento erano interrotti soltanto dal ritmico russare dello stregone, malamente stravaccato sull’erba accanto a Sillen.
    Gli occhi verdi del Principe degli Elfi si posarono su quest’ultima, quasi completamente nascosta dalla coperta. Solo i capelli neri facevano intuire che dentro quel fagottino di stoffa ci fosse una stella addormentata.
    Come se avesse avvertito lo sguardo dell’elfo su di sé, Sillen si rigirò con un mugolio assonnato, tirandosi poi a sedere. Si passò una mano tra i lunghi capelli arruffati e stropicciò gli occhi, sbadigliando.
    Legolas le sorrise, richiamando la sua attenzione: -è ancora presto, Stella dei Valar. Puoi dormire ancora un po’, se ti va.-
    Lei voltò la testa verso di lui, stiracchiandosi: -Mi sveglio sempre prima dell’alba.- Ammise, sorridendo e parlando a bassa voce, per non svegliare il Re e lo stregone. Si alzò e affondò i piedi nudi nell’erba umida, andando a sedersi di fianco al Principe.
    Vedere un viso elfico nonostante la lontananza dal Reame Boscoso la rassicurava.
    -Da quanto tempo non tornavi a casa, Principe Legolas?- Chiese, a bruciapelo. Quello sollevò le sopracciglia, sorpreso da tanta schiettezza.
    Il suo sguardo cadde sulla camicia della stella che, sul bordo del colletto, aveva appuntato una piccola spilla a forma di testa di cervo, simbolo del Reame Boscoso: -Circa trent’anni, da quando sono andato a Gran Burrone e mi sono unito alla Compagnia dell’Anello.-
    Lei annuì, ricordando la storia che Thranduil le aveva raccontato e lui sorrise, mesto: -Ma sono stato lontano per molte volte anche in passato. Per esempio, per incontrare lui.- Indicò Re Elessar con il mento.
    Sillen inclinò la testa da un lato: -Quindi, quanti anni hai?-
    Legolas dovette rifletterci un secondo: -Credo di averne duemila… anno più, anno meno.-
    La stella strinse le labbra, cercando di immaginare la reale età di Thranduil, dettaglio che lui non le aveva mai rivelato con la scusa di non ricordarlo affatto.
    Ad ogni modo, lei non provò nemmeno a quantificare ben due millenni: –Ironico. Io, che dovrei salvare il mondo con tanto coraggio, conto poco più che un mese di vita. È ridicolo.- Rise, dopo un po’.
    In effetti, suonava davvero male.
    Quell’affermazione fece ridere anche Legolas che, con la sua voce cristallina, finì per svegliare Aragorn.
    Il Re li guardò, con gli occhi grigi ancora mezzi chiusi: -Bene, vedo che vi state impegnando molto a fare la guardia.- Commentò, sollevando la schiena faticosamente.
    Poteva non sembrare ma il tempo stava mettendo a dura prova anche la sua forza e adesso vantava diversi acciacchi, scomodi lasciti delle battaglie passate.
    Lanciò la propria bisaccia addosso allo stregone, che si svegliò con una sonora imprecazione. –Svegliati, Alatar il Blu. Dobbiamo ripartire o non arriveremo mai più al nido delle Aquile.- Esclamò il Re, mentre Legolas e la stella sorridevano alla scena.
    Quello si tirò su con l’aiuto del bastone, lanciando un’occhiataccia al Re degli Uomini: -Ma cosa accidenti vi succede stamattina? State facendo rumore da mezz’ora, dannazione!-
    Elessar si apprestò a sellare i cavalli e, in breve, furono tutti e quattro in sella.
    –Lelya, precedici.- Ordinò Alatar e il falco si alzò in volo con uno stridio infastidito, sfrecciando verso Ovest.
    –Spero vivamente che non faccia troppo freddo su quelle dannate montagne. Già mi sono svegliato di pessimo umore.- Biascicò lui, guidando il cavallo nero verso i picchi innevati, che si stagliavano nel cielo terso come i denti aguzzi di qualche mitologica creatura.
    Si concessero una pausa solo qualche ora dopo mezzodì, a metà della loro giornata di marcia e non rallentarono il ritmo nemmeno un secondo di più, giungendo alle pendici della catena montuosa al calare della sera.
    –Contro ogni aspettativa, siamo già arrivati. Ecco le Montagne Nebbiose.- Commentò Elessar e Sillen si sporse da dietro la sua schiena, lo sguardo curioso.
    -Il fianco della montagna è davvero ripido. Come faranno i cavalli ad arrivare là in cima?-
    Legolas smontò con agilità: -Non ci arriveranno. Da qui proseguiamo a piedi.-
    Lei approvò con tranquillità e i tre la guardarono sorpresi, convinti che la difficoltà della prova l’avrebbe turbata. Sillen scese velocemente di sella, sollevando le spalle con noncuranza.
    -Sono contenta di camminare con le mie gambe. Ho il fondoschiena a pezzi a forza di stare su questo cavallo.-
    Batté amichevolmente una mano sul collo dello stallone baio di Re Elessar: -Senza offesa, gentile destriero.-
    Il Re degli Uomini scambiò con Legolas uno sguardo complice, ricordando le infinite miglia che avevano percorso di corsa, fino a non sentire più le gambe: anche la stella avrebbe imparato a desiderare un cavallo, prima o dopo.

    Davanti al fuoco, quella sera, Elessar si alzò con disinvoltura, afferrando uno dei bastoni che giacevano lì vicino e lanciandolo a Sillen, che lo prese al volo con espressione interrogativa.
    –Alzati. Vediamo cosa sai fare.- Le fece lui, cercando un bastone anche per sé.
    Lei osservò l’arma improvvisata stretta nella sua mano.
    -Ma io non ho mai provato a combattere.-
    Lui scrollò le spalle: -Per questo è meglio cominciare subito.-
    La stella, titubante, si alzò, mettendosi di fronte al Re. Tirò su le maniche della larga camicia bianca e sistemò il laccio dei pantaloni in vita, per evitare che ostacolasse i suoi movimenti.
    Strinse il bastone con la mano destra: -Non vorrei farti male.- Ammise, guardando preoccupata l’uomo davanti a sé.
    Legolas rise, scrollando la testa: -Dubito che ne avresti la possibilità, Sillen.-
    Elessar, con tocco esperto, le mostrò la posizione di difesa: -Ora cercherò di attaccarti e, se manterrai questa posizione nella maniera corretta, non riuscirò a farti cadere.-
    Lei si sistemò attentamente ed ebbe subito la sensazione di aver già visto qualcuno in quella stessa posa.
    Dunque, Elessar avanzò per attaccare ma, in un attimo,  lei non era più davanti a lui. Prima che potesse accorgersene, il Re si trovò con la stella alle spalle, il braccio sinistro ritorto e il rozzo bastone di lei puntato sul petto, all’altezza del cuore.
    Legolas balzò in piedi con un’espressione sconcertata.
    Sillen espirò, salda nella sua posizione, e cercò di ripetere mentalmente le mosse che aveva appena compiuto, ancora sorpresa dal fatto che avessero funzionato.
    L’elfo si avvicinò con gli occhi sgranai: –Questo attacco… tu hai-
    -Si, l’ho visto eseguire dalla guardia elfica di Bosco Atro.- Lo interruppe lei, stringendo i denti.
    I movimenti di Thranduil si erano impressi nella sua memoria come un marchio incandescente. Lasciò Elessar e lui si voltò, massaggiandosi un braccio: -Sei più forte di quanto avessi immaginato. Mi hai colto di sorpresa.- Commentò.
    Lei gli rivolse uno sguardo di scuse ma Alatar, rimasto tranquillamente seduto a fumare la sua pipa, sollevò un sopracciglio: -Cosa vi aspettavate? Che i Valar avessero mandato fin qui una debole ragazzina incapace? Qualcuno che non sapesse combattere? Siete proprio stupidi.-
    I due lo squadrarono con occhi astiosi: -Se eri così sicuro di questo, perché non l’hai detto subito?-
    L’altro ridacchiò: -È stato molto più divertente vedere le vostre facce, credetemi.- Sillen, suo malgrado, sorrise.
    Legolas, scrollando la testa, si rivolse nuovamente verso di lei.
    -Quindi ti è bastato vedere quest’azione una sola volta per impararla e riprodurla perfettamente?-
    Lei annuì: -Ho praticamente appreso tutto in questo modo. Parlare, muovermi, persino pettinare i capelli, sono azioni che ho perfezionato adattandomi a ciò che vedevo.-
    Elessar si avvicinò all’amico, entusiasta: -Affrontiamoci, allora. Sarà più semplice se le mostriamo le mosse, piuttosto che sprecare tempo a spiegargliele.-
    L’altro non se lo fece ripetere due volte e, afferrate le vere e proprie spade, lui e il Re cominciarono a duellare.
    La stella si concentrò sulle loro mosse, veloci, precise e sicure: i due si conoscevano bene ed erano perfettamente a loro agio, abituati da molti anni a sfidarsi negli allenamenti.
    La stella notò che erano più bravi degli elfi della guardia: era chiaro che Legolas fosse stato addestrato da Thranduil in persona e che Elessar fosse stato a sua volta addestrato da Legolas.
    Dopo un po’, i due si fermarono per riprendere fiato, soddisfatti.
    Sillen legò i capelli alla bell’è meglio e si avvicinò cautamente, allungando una mano per chiedere cortesemente la spada a Elessar, che la fissò titubante.
    –Non mi farò del male ma devo abituarmi a maneggiare un’arma, mio signore.-
    Il Re si arrese all’evidenza, passandole Andùril con un sospiro:
-Fa’ con calma, Sillen.- Lanciò uno sguardo eloquente anche a Legolas e si fece da parte, massaggiandosi la spalla destra.
    La stella, a discapito degli ammonimenti del Re, non esitò un secondo e attaccò l’elfo, che schivò il colpo più prontamente di Elessar. Legolas dovette concentrarsi molto più del solito per tenere testa alla stella.
    -Sta riproducendo le nostre mosse quasi meglio di noi.- Lo informò Elessar, che assisteva allo spettacolo con un sorriso sul volto.
    L’elfo parò un affondo con il fiato corto: -Me ne sono accorto.-
    Sillen sentì l’adrenalina correrle lungo il corpo: era dunque questo ciò per cui era nata? Combattere?
    Per un secondo, sentì di avere stretta tra le mani la propria vita, allo stesso modo in cui stringeva la spada, e sorrise.
    Nonostante la forza e la velocità che impiegavano nei loro colpi, per lunghi minuti nessuno dei due riuscì a toccare l’altro e l’unico rumore che si udiva era il cozzare violento delle lame scintillanti.
    Finalmente, Legolas trovò una pecca nella posa d’attacco della stella e fece leva sul piede destro, roteando su sé stesso per spazzare il terreno con quello sinistro.
    Sillen cadde all’indietro e, quando cercò di tirarsi di nuovo in piedi, si ritrovò la punta della spada dell’elfo ad un soffio dal petto. Alzò lo sguardo su di lui, ansimante.
    –Colpita.- Sorrise Legolas, riprendendo fiato e tendendole una mano per aiutarla ad alzarsi.
    Alatar applaudì: -Bene! Molto bene! Ora tocca a me, giusto?- Tutti e tre lo guardarono senza capire, mentre egli si alzava e raggiungeva la stella, che già si era preparata in posizione di difesa. Lui non tirò fuori la spada ma attese che fosse la ragazza a decidere come e quando colpirlo: -Avanti, stellina.- La provocò.
    Lei sollevò appena la spada che un’innaturale corrente d’aria scaturì dal bastone dello stregone, colpendola allo stomaco come un pugno. Sillen sentì chiaramente l’onda d’urto vibrarle nella cassa toracica e ripercuotersi violentemente su tutte le costole, spingendola all’indietro. Finì con la schiena contro la parete rocciosa e boccheggiò in cerca d’aria, cadendo poi a carponi.
    Tossì forte e Elessar corse al suo fianco: -Alatar, sei impazzito?- Urlò, puntando lo sguardo incredulo e rabbioso verso l’Istar.
    Questi guardò la stella con rammarico ma a lei non sfuggì la malcelata ombra di delusione nei suoi occhi grigi.
    -Basta con questi spettacolini, non c’è tempo per giocare. Non sappiamo chi sarà il nostro nemico e grazie a questi insulsi duelli potrai anche uccidere qualche orco, ma la verità è che non sarai in grado di proteggere nessuno. Nemmeno te stessa.-
    Elessar si parò difronte alla stella, tendendo un braccio come a difenderla: -Sei stato tu a darci degli stupidi quando dubitavamo di lei. Non stai forse facendo la stessa cosa?-
    L’altro strinse gli occhi a due fessure: -No. Lei lo sta facendo. È ora che riconosca di cosa è capace.- E così concluse definitivamente la discussione, tornando a sedersi accanto al fuoco.
    Elessar cercò di aiutare la stella ma lei scosse la testa con decisione, tossicchiando e alzandosi in piedi da sola, il braccio destro disarmato e piegato sullo stomaco.
    Legolas e il Re la guadarono avvicinarsi al fuoco e sedersi malamente al fianco dello stregone con una smorfia dolorante.
    Lei non osò parlare e non versò nemmeno una lacrima, certa che a farle provare quel senso di nausea non fosse il mero dolore fisico ma la crudele consapevolezza di averli delusi.


 


[1] Lembas (conosciuto in Ovestron come Pan di via): cibo elfico, simile ad una galletta a lunga conservazione ed estremamente sostanziosa -un solo morso può sfamare un uomo adulto, cit Legolas, a discapito di quei golosoni di Merry e Pipino XD-


N.D.A


Non vedevo l’ora di pubblicare questo capitolo! Adoro raccontare di viaggi e mi è piaciuto far interagire i personaggi in questo contesto, spero sia piaciuto anche a voi lettori :D Aspetto con ansia le vostre opinioni <3
Ci vediamo al prossimo capitolo,
Aleera

P.S. Saluto tanto Chiara, che legge e recensisce in adorabili audio ogni capitolo (e non solo perché è mia amica XD): fangirliamo insieme per sempre, ti voglio bene.
 

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Capitolo 13
*** Il Nido delle Aquile ***


 
-Il Nido delle Aquile-

 

    Ormai erano giorni che i quattro viaggiatori s’inerpicavano sullo stretto sentiero che serpeggiava sul fianco ripido della montagna e l’aria si faceva sempre più fredda e rarefatta man a mano che loro salivano di quota. La nebbia era talmente fitta che pareva appoggiarsi sulla pelle come una mano umida e le rocce aguzze erano rese scivolose dalle macchie verdi di muschi e licheni.
    Sillen si strinse il mantello addosso, rabbrividendo e Alatar le tirò in testa il cappuccio, sorridendole con il fiato corto.
    -Siamo quasi arrivati, stellina.-
    Lei annuì. Non era stanca a causa della continua scalata ma perché da qualche tempo aveva cominciato a provare uno strano senso di angoscia, che le impediva di dormire.
    Non chiudeva occhio da quando erano saliti sulla montagna.
    Prima aveva incolpato la sua preoccupazione, poi il dolore alle costole che pian piano si affievoliva, ma infondo sapeva che non era niente di tutto ciò.
    Qualcosa non andava, su quella montagna e doveva capire cosa, alla svelta. Guardò lo stregone al suo fianco, tesa, cercando sul suo volto una traccia della sua stessa angoscia, senza però vedere nient’altro che stanchezza.
    Elessar gettò la propria bisaccia su uno spiazzo abbastanza largo da accoglierli tutti e si accasciò contro la parete rocciosa, prendendo fiato.
    Legolas, più riposato degli altri, lanciò uno sguardo in alto.
    -Queste nubi non sembrano cariche di pioggia, eppure sono le più scure e pesanti che abbia mai visto.-
    Alatar seguì il suo sguardo e schioccò la lingua: -Non sono nuvole! Quella che vedi è una barriera, un nascondiglio ben progettato. Diciamo che alle Aquile non piace ricevere visite.-
    Grosse nubi scure si condensavano in un’unica parete turbolenta e lattiginosa, celando la vetta a chiunque guardasse dal basso: il Nido delle Aquile poteva essere scorto solo dall’alto e, ovviamente, nessuno sarebbe stato in grado di volare fin lassù.
    –Non fate quelle facce! Il mio potere può diradare la barriera quanto basta per permetterci di passare. Sono uno degli Istari accidenti, li abbiamo creati noi questi incantesimi.- Ridacchiò Alatar, divertito dalle espressioni scoraggiate dei compagni.
    Sillen sorrise, sollevata e fece per seguirlo, quando si voltò di scatto con i muscoli tesi. Scrutò febbrilmente il sentiero che aveva appena percorso, cercando con lo sguardo nella nebbia, ma non vide nient’altro che la nuda roccia.
    Ecco perché avvertiva la persistente sensazione di angoscia: qualcuno, o qualcosa, li stava seguendo.
    Un brivido le scosse il corpo, lasciando dietro di sé uno sgradevole formicolio che si condensò sulla sua nuca esposta.
    Guardò i tre compagni, seduti a terra per riposare e concedersi un pezzo di lembas, i visi stanchi: Sillen non voleva dare loro altre preoccupazioni, non adesso. Per questo motivo decise di non dire niente e, senza farsi notare, lanciò un flebile fischio a Lelya, appollaiata su una roccia poco lontana. Il falchetto le lanciò uno sguardo interrogativo e andò a posarsi sul suo braccio.
    -Ho bisogno della tua discrezione.- Le sussurrò Sillen.
    Quella inclinò la testa con aria contrariata ma, fissando la stella negli occhi ametistini, parve accorgersi della sua preoccupazione.
    Con un battito d’ali scocciato, Lelya si alzò in volo, sparendo in fretta nella nebbia bianchissima.
    Sillen inspirò a fondo, stringendo l’elsa della spada elfica che Legolas le aveva donato dopo il loro allenamento.
    Chiunque li stesse seguendo, avrebbe avuto a che fare con la sua lama e i suoi compagni sarebbero rimasti al sicuro.

    Alatar sollevò il bastone con entrambe le mani, poi ne sbatté a terra l’estremità appuntita, formulando un incantesimo con la sua voce baritonale.
    Sul terreno roccioso si creò una crepa profonda, che corse verso l’alto, finché da essa non scaturì una raffica di vento che squarciò violentemente le dense nubi sopra di loro.
    Sillen fu la prima ad addentrarsi oltre la barriera, correndo agilmente sulle rocce. Legolas le tenne dietro, la freccia incoccata. Giunsero in fretta all’esterno e quasi vennero accecati dalla luce del sole, brillante e caldo sopra le montagne.
    Lo spettacolo che si parò di fronte a loro era il più bello che Sillen avesse mai visto: il cielo terso si incontrava all’orizzonte con le rosse fronde di Bosco Atro e il fiume Anduin si snodava tra le mille tonalità di verde della valle, al pari di un nastro scintillante.
    Legolas sorrise alla compagna, rallegrato da quella vista.
    -Benvenuta sulle alte vette degli Hithaeglir[1], Stella dei Valar.-
    Lei inspirò a fondo l’aria fresca, quasi commossa.
    In breve, anche Elessar e Alatar li raggiunsero, tra esclamazioni soddisfatte e sollevate.
    Sporgendosi oltre la cima, si poteva vedere chiaramente la barriera di nubi circondare i fianchi dell’intera montagna.
    Era davvero un nascondiglio magnifico.
    In quel momento, Lelya apparve con un veloce frullo d’ali e lo stregone alzò il braccio per accoglierla. Questa, invece, si andò a posare docilmente sulla spalla di Sillen, che sospirò sollevata: se il falchetto era tranquillo, voleva dire che non aveva individuato niente di insolito nelle vicinanze. Forse si era semplicemente suggestionata e la vicinanza con la barriera le aveva giocato un brutto scherzo, pensò la stella.
    Alatar sibilò, indispettito: -Piccola gallina ingrata.-
    Lelya gli lanciò uno sguardo falsamente innocente e Sillen rise, accarezzando con un dito il petto piumato del falchetto.
    Doveva essere da poco passato mezzodì e il sole batteva sulle loro teste, scaldandoli nonostante l’aria fredda di montagna che tirava da Nord.
    Improvvisamente, Lelya volò verso il basso, lanciando una vasta serie di versi allarmati e una grossa ombra si proiettò sopra di loro, spostandosi velocemente in circolo. In breve se ne aggiunsero altre, della stessa forma.
    I quattro viaggiatori sollevarono la testa e indietreggiarono, rapiti da quell’apparizione tempestiva: le Aquile li avevano circondati.
    Erano enormi, con un’apertura alare che superava i cinquanta piedi[2] e con lunghi becchi dall’aspetto poco rassicurante.
    Una di queste atterrò davanti ai viaggiatori con un forte tonfo delle zampe artigliate e li osservò con i grossi occhi rapaci.
    Studiò dapprima la stella, poi si voltò verso lo stregone: -È passato molto tempo, Morinehtar.- Il suo becco non si mosse ma la sua voce risuonò alta e chiara, sovrastando ogni altro rumore.
    Alatar s’inchinò profondamente: -Più di un Era, Landroval, mio vecchio amico.-
    L’aquila scrollò le piume: -Amico? Non ricordavo ci fossimo salutati con questi termini.-
    Alatar si schiarì la voce, a disagio ma Landroval si voltò svelto verso gli altri ospiti, drizzando la testa bruna: -Perché il dimenticato Stregone Blu, il Re degli Uomini, il Principe degli Elfi e una stella sono qui?-
    Elessar e Legolas si inchinarono davanti al suo cospetto come aveva fatto Alatar, mentre Sillen avanzò di qualche passo, con sguardo ammirato: -Come hai capito che sono una stella, Signore delle Aquile?-
    Lui fissò apertamente quegli insoliti occhi viola: -Ti ho vista cadere dal cielo. E il tuo aspetto non lascia molto spazio al dubbio.- Chiarì, abbassando la testa per trovarsi alla stessa altezza di lei. –Qual è il tuo nome?-
    -Mi chiamano Sillen. Sono stati i Valar a mandarmi qui.-
    A quella risposta, Landroval sembrò accigliarsi, per quanto fosse possibile dedurre dalla sua fisionomia di rapace: -Un po’ pretenziosa come storia. Io vedo molte cose da qui e so bene che i Valar non mettono becco nei nostri affari da molto tempo. Quindi, perché dovrei crederti?-
    Sillen strinse le labbra: si era preparata a lungo per quell’incontro e sapeva bene che la possibilità che le Aquile le credessero sulla parola era davvero remota.
    –I Valar mi hanno creata e lasciata cadere su questa terra perché un nuovo nemico tenterà di distruggerla. Il mio compito è riunire più forze possibili per scendere in guerra. Se non credi alle mie parole, cerca tu stesso i gruppi di orchi che si stanno organizzando ad Est.-
    Landroval schioccò il becco in un suono secco e spaventosamente minaccioso: -So bene di quei maledetti, Sillen la stella. Ma tu non osare parlare con quel tono con me o userò i miei artigli per rispedirti dai Valar che con tanta presunzione sostieni ti abbiano affidato il destino del mondo.-
    Lei indietreggiò di un passo e nessuno dei suoi compagni osò parlare, tanta era la selvaggia ferocia negli occhi dell’antico Maiar di fronte a loro.
    La stella deglutì ma non demorse: -Ho avuto una visione del futuro che ci attende se non agiremo contro questo nemico, mio signore Landroval e sarà solo morte e distruzione. Ti prego di credermi!-
    -Se gli orchi attaccheranno, li cacceremo via come abbiamo sempre fatto. Non ho bisogno di una stella per sapere qual è il mio compito.-
    Sillen scosse la testa: -Non riuscirete a combattere da soli, il vero nemico è colui che sta radunando queste maligne creature, non un semplice orco. Un essere in grado di controllare intere schiere è una minaccia che non possiamo sottovalutare!-
    Landroval si mosse fulmineo, arrivando con il grosso becco a pochi centimetri dal viso della stella:   -Se quello che stai chiedendo è di metterci docilmente al tuo servizio, non ti lascerò in vita abbastanza a lungo da sentire la mia risposta.-
    Lei sostenne il suo sguardo d’acciaio, sollevando il mento: -Sei saggio, mio signore Landroval. Sai che non ti chiederei mai di sottometterti a qualcuno, tantomeno a me, poiché rispetto il popolo delle Aquile e il suo potere. Ma non posso arrendermi, ho bisogno del vostro aiuto. La Terra di Mezzo ne ha bisogno.-
    Strinse i pugni: -Se potessi, combatterei da sola questa guerra, devi credermi…- I suoi occhi si riempirono di lacrime, suo malgrado. Era vero, quel pensiero le faceva male: il suo compito prevedeva di radunare interi popoli di fronte alla possibilità di perire, combattendo una battaglia che li avrebbe potuti distruggere dal primo all’ultimo.
    Un compito ingrato, crudele. Necessario.
    Landroval si zittì per qualche secondo, soppesando le parole della stella. Stava per rispondere quando, improvvisamente, un boato giunse dalla terra sotto di loro e Sillen spalancò gli occhi: quella sensazione di angoscia e paura provata sul fianco della montagna la avvolse di nuovo, stordendola.
    Aveva abbassato la guardia.
    Qualsiasi cosa li avesse seguiti fino a lassù era passata sottoterra, lontano dagli occhi vigili delle Aquile e dell’acuta Lelya.
    La stella rimase pietrificata e dentro di sé si maledisse per non aver detto niente ai suoi compagni di viaggio.
    Adesso, erano tutti in pericolo, impreparati ed era solo colpa sua.
    Elessar, Legolas e lo stregone si affiancarono, impugnando le armi e una parte di terreno cedette velocemente, aprendo un varco nella dura roccia ad un centinaio di metri da loro.
    Landroval si sollevò in volo, richiamando le altre aquile già pronte ad attaccare per difendere il proprio nido.
    Elessar spinse Sillen dietro di sé e la stella sentì le sue mani forti tremare violentemente.
    Per lunghissimi attimi, ci fu solo silenzio.
    Poi, il varco nella roccia cominciò a vomitare fuori delle creature orrende. Era la prima volta che Sillen li vedeva ma le parve di riconoscere i goblin e gli orchi di cui Thranduil le aveva parlato a lungo, e tremò dalla paura.
    Questi si riversavano all’esterno con i pesanti elmi calati sugli orrendi ghigni deformi e stringevano tra le mani scure ogni tipo di arma possibile.
    –Perché gli orchi escono al sole? Non dovrebbero esserne spaventati?- Urlò la stella, terrorizzata.
    Riscuotendosi dalle proprie emozioni, Legolas cominciò a bersagliare i goblin, man a mano che questi fuoriuscivano dal buco, abbattendone intere fila con le sue rapide frecce.
    -Non lo so, è così strano!-
    Le creature emanavano un forte odore di fango e putridume ma la cosa che più sconcertò i viaggiatori fu il loro più assoluto silenzio: niente ringhi, urla, sbraiti o ululati, solo un innaturale e gelido silenzio.
    Alatar sfoderò la sua spada e, seguito a ruota da Re Elessar, avanzò per occuparsi dei nemici che sfuggivano ai dardi dell’elfo.
    –Elessar, dov’è il loro capo?- Gridò lo stregone, per sovrastare il metallico rumore provocato dalle armi che cozzavano tra loro.
Il Re si guardò intorno, confuso: -C’è qualcosa di strano, si muovono come se fossero un’unica entità.-
    Sillen strinse i denti: non era possibile, gli orchi possedevano un’indole confusionaria e irascibile, non si potevano muovere in modo tanto ordinato senza ricevere ordini precisi.
    Sfoderò la propria spada ma Legolas si parò di fronte a lei, continuando a coprire i compagni con le proprie frecce: -Tu ci servi viva. Resta indietro, ce la possiamo cavare da soli.-
    La stella gli rivolse un’occhiataccia: -Le tue frecce finiranno presto e quegli esseri non sembrano voler diminuire.-
    Alatar spazzò via una decina di goblin con una folata di vento del suo divino bastone ma subito ne apparvero altri venti, uscendo dalla voragine come tante formiche composte e ordinate.
    Come se non bastasse, gli esseri abbattuti si stavano rialzando, come se i dardi di Legolas non avessero infilzato la loro carne da parte a parte.
    L’elfo fece per prendere altre frecce ma la sua faretra era quasi vuota. Lanciò uno sguardo contrariato alla stella ma, con un sospiro, sfoderò anche la propria spada: -Va bene, andiamo. Ma stammi vicina.- Lei annuì, seguendolo nella mischia.
    Landroval seguì la stella con lo sguardo, poi fece segno alle sue aquile ed esse si precipitarono in picchiata a difendere il loro nido. I grandi Maiar fendettero i gruppi di goblin con le loro grosse zampe artigliate, tentando di disgregarli e disperderli sulla montagna assolata.
    In breve però, le schiere si riordinarono nuovamente, come mosse da fili invisibili. Parevano inarrestabili.
    Sillen combatteva con precisione letale, senza sprecare energie, seguendo i movimenti dell’elfo al suo fianco.
    Poco più avanti, Alatar ed Elessar non accennavano a rallentare il ritmo. Dopotutto, non potevano fare altro che continuare.
    Poi, dalla voragine vennero fuori creature diverse, più grosse e, senz’ombra di dubbio, più letali dei goblin. Essi si disposero velocemente l’uno accanto all’altro, con gli scudi sollevati e le lance in resta, in modo che le aquile non riuscissero ad avvicinarsi.
    Alatar spalancò gli occhi, arretrando: -Uruk-hai!-
    A quell’urlo, a Legolas gelò il sangue nelle vene e il Re degli Uomini sentì il proprio cuore mancare un battito.
    Non di nuovo, non di nuovo.
    I suoi occhi grigi scrutarono tra gli scudi neri e sudici e individuarono le possenti figure degli Uruk-hai, seppure il loro orrendo volto fosse celato dagli elmi neri. Anch’essi erano muti, immobili come statue e perfettamente coordinati.
    Nella confusione, un goblin con una grossa mazza colpì violentemente il costato dello stregone, che volò all’indietro, vicino a Legolas e la stella.
    Il Sindar cercò di coprire i compagni al suo fianco come meglio poteva, affidandosi alle ultime frecce rimaste: -Aragorn, tira ten’ rashwe! (stai attento)-  
    Lo sguardo di Sillen corse velocemente ad Elessar, rimasto solo di fronte agli Uruk-hai e vide le aquile avvicinarsi in sua protezione.
    Un bagliore catturò la sua attenzione e scorse con orrore diverse file di Uruk-hai abbassare gli scudi e puntare le balestre verso di loro.
    Il tempo, per lei, parve fermarsi.
    Elessar e le aquile sarebbero stati bersagliati da una pioggia di frecce e non avrebbero trovato scampo.
    Nella mente della stella rimbombò chiara la voce dello stregone: “tu potrai anche uccidere qualche orco ma la verità è che non sarai in grado di proteggere nessuno.”
    Era tutta colpa sua.
    Lasciò cadere la spada e si lanciò in avanti.
    Si parò dinanzi al Re nell’esatto momento in cui gli Uruk-hai scoccarono le loro mortali frecce nere e, con un gesto deciso, la stella alzò un braccio di fronte a sé.
    I suoi occhi brillarono di pura luce bianca, com’era accaduto nella Sala delle Udienze, e una luce altrettanto forte scaturì dal ciondolo che da sempre portava al collo.
    Una violenta corrente fece cadere Elessar a terra e scosse ogni cosa attorno a loro, ostacolando il volo delle aquile e costringendo tutti a coprirsi gli occhi.
    Poi, le frecce si fermarono a mezz’aria e il mondo parve immobilizzarsi con esse. Un’altissima barriera violetta s’innalzava verso il cielo come un solido muro di pietra e le aquile, protette da essa, ne approfittarono per ritirarsi velocemente, stridendo sconvolte.
    Un attimo dopo, la stella caricò con forza tutta la sua energia nel braccio destro e con un rapido movimento rispedì le frecce al mittente, abbattendo in un secondo tutti gli Uruk-hai balestrieri.
    Elessar tenne gli occhi spalancati fissi sulla stella, incapace di muoversi o parlare.
    Poco più indietro, Alatar si tirò a sedere, con il volto tanto raggiante da sembrare delirante: -Eccolo! È questo il vero potere della Stella dei Valar!- Legolas si voltò verso la giovane, deglutendo. Era un potere spaventoso.
    Landroval guardò la stella con gli occhi gialli fissi e seri, mentre questa avanzava lentamente verso i nemici.
Sillen, con il volto imperturbabile, puntò lo sguardo di luce sugli Uruk-hai, che non accennavano comunque a indietreggiare. Sembravano incuranti di qualsiasi cosa, rigidi e silenziosi come orrende statue. Con un unico, violento gesto del braccio, la stella fendette l’aria e le creature oscure cozzarono a terra, squarciate, dalla prima all’ultima.
    Uno strano bagliore bluastro si sollevò da uno degli Uruk-hai a terra e scomparve nel nulla, con un lieve sibilo.
    E nessuno parve accorgersene.
    Quando finalmente tutto tacque, Sillen volse lentamente verso i suoi compagni, che indietreggiarono involontariamente.
    La collana smise di brillare, tornando del suo solito colore e la stella barcollò, come un ramoscello al vento.
    Chiuse gli occhi e sentì le forze abbandonarle il corpo bruciante, poi cadde a terra priva di sensi.
    In tutta la montagna tornò a regnare la tranquillità e un flebile vento fresco tornò ad accarezzare le rocce grigie.
    Elessar si alzò velocemente e corse al fianco della stella, tastandole il polso: il battito era forte e regolare.
    Sillen, per fortuna, era solo svenuta.
    Alatar lo raggiunse, camminando storto per via della contusione al torace e sospirò di sollievo quando la vide respirare. Superò il Re e la stella e raggiunse le orride creature riverse a terra.
    Si chinò su di loro, tastando e osservando. Poi calciò uno degli elmi per vedere l’Uruk in viso e subito fece un passo indietro.
    Legolas lo raggiunse a sua volta e, a quella vista, aggrottò le sopracciglia: -Aragorn, tula sinome, en! (vieni qui, guarda)-
    L’altro lanciò uno sguardo oltre le spalle dell’elfo. L’Uruk aveva l’orrendo volto completamente putrefatto, tanto che le ossa fuoriuscivano vistosamente dalla carne, e i bulbi oculari erano già decomposti e spariti da tempo.
    –Cosa significa?- Chiese, cercando una risposta dallo stregone.
Alatar scosse la testa: -Non ne ho idea. Ma tutto questo è strano, molto strano. Non promette nulla di buono.-
    Legolas si avvicinò ad un’aquila poco più avanti, poi si voltò verso di loro: -Dicono che la galleria è enorme e percorre tutta l’altezza della montagna. L’apertura è sul fianco a Est, all’altezza di Dol Guldur.-
    -Dol Guldur? È impossibile, fa parte delle terre bonificate dagli elfi del Reame Boscoso! Come possono averla sfruttata i nemici?-
Legolas strinse le labbra fino a farle sbiancare: -Forse usano il sottosuolo per spostarsi senza essere notati. In questo modo, possono arrivare ovunque.-
    Alatar batté il bastone a terra, nervosamente: -Ma perché qui? Come potevano sapere che ci saremmo diretti al Nido delle Aquile? Non possono aver scavato la montagna nello stesso tempo che noi impiegavamo a scalarla!-
    -Non lo so! Sto solo riportando quello che hanno detto le aquile!-
    Elessar alzò una mano per placarli: -Calma, Legolas. Non possiamo questionare ora, dobbiamo portare Sillen in un posto più sicuro.-
    Lo sguardo di tutti si posò sulla giovane stella stesa al suolo.
    Elessar tornò da lei e la sollevò tra le braccia.
    Sennonché, Landroval gli sbarrò la strada prima che potesse imboccare il ripido sentiero lungo la montagna: -Dove credi di andare, Re degli Uomini?-
    Elessar gli rivolse uno sguardo duro e regale, chinando appena la testa per congedarsi: -Porto la stella a Gondor.-
    L’aquila, per nulla colpita, non si spostò di un singolo passo.
    -Non vi ho ancora concesso di lasciare il mio dominio.-
    Il Re si spazientì e strinse la presa sulla stella: -Con il tuo permesso, Signore delle Aquile, ma non m’importa. Abbiamo dei problemi più urgenti da risolvere. Sillen è venuta sino a qui per chiedervi aiuto e voi glielo avete negato, chiusa la faccenda.-
    Landroval gonfiò le penne con fare minaccioso e Legolas affiancò velocemente l’amico, temendo che fosse in pericolo.
    Tuttavia, invece che attaccarli, la grossa aquila rilassò le ali frementi e abbassò la testa alla loro altezza.
    Parve quasi sorridere: -Non andrete via da qui. Non senza di noi.- Le altre aquile lanciarono grida di assenso, planando in circolo sopra di loro. Elessar vide gli occhi gialli del Signore delle Aquile addolcirsi. -Sono in debito con lei e, a dirla tutta, è stata piuttosto convincente: ella è davvero la Stella dei Valar e, considerate le stranezze che sono appena successe, le concederò la mia fiducia e il mio aiuto. Almeno per ora.-
    Legolas sorrise ad Elessar, posandogli una mano sulla spalla con una smorfia di sollievo stampata sul viso affilato.
    -Suppongo ci offrirete un passaggio allora.- Commentò Alatar invece, con fare baldanzoso. Landroval gli riservò un’occhiataccia: -Non mi fido ancora di te, Morinehtar. Dunque non pensare che ti perderò di vista.- Lo stregone si grattò la nuca, distogliendo lo sguardo con un sorriso forzato e attirando quello interrogativo dei due compagni.
Poi l’aquila si chinò fino a toccare terra con il petto piumato: -Ma date le circostanze, è il minimo che possiamo fare per la stella. E per chi la sta coraggiosamente aiutando.-
    Il Re s’inchinò, grato per quell’onore che in rarissime occasioni un’aquila aveva concesso a un uomo e si issò sul dorso piumato di Landroval, stringendo Sillen in modo da non farla cadere.
    Legolas e Alatar salirono su altre aquile e altre ancora si apprestarono a planare giù dalla montagna, rialzandosi in volo con i tre cavalli spaventati stretti tra le zampe artigliate.
    Alatar sbatté le palpebre con fare stranito, poi sussultò nel vedere Lelya comodamente posata sulla sua spalla.
    Si guardò attorno, costernato: -E tu quando diamine sei tornata?-


 
 
[1] Hithaeglir è il nome Sindarin delle Montagne Nebbiose.
 
[2] Cinquanta piedi corrispondono a circa quindici metri.
 


N.D.A

Ciao e ben ritrovati! Grazie a tutti quelli che sono arrivati fino a qui :) Le cose si fanno più movimentate, vero? XD Fatemi sapere se questo capitolo “d’azione” vi è piaciuto! Alla prossima,

Aleera

 

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Capitolo 14
*** Minas Tirith ***


 
-Minas Tirith-


 
    Sillen si trovava in un luogo che conosceva bene: le fronde rosse, la corteccia scura, la luce dorata.  Accarezzò distrattamente la terra bruna su cui era seduta, ricoperta di brillanti gemme di luce stellare, tanto candide quanto la delicata veste bianca che stava indossando.
    Lasciò vagare lo sguardo nella radura e, quando lo vide, le mancò un battito. Thranduil uscì dall’ombra del bosco per offrirsi ai caldi raggi del sole: -La Stella dei Valar è nei guai.- Ghignò, una volta giunto a pochi passi da lei.
    La stella strinse le labbra:-Non è affar tuo, Thranduil.-
    L’elfo le tese la mano e lei si alzò in piedi, trovandosi inaspettatamente avvolta in un abbraccio. –No, tu non sei un problema mio… allora perché non riesco a smettere di pensarti?-
Sillen deglutì a vuoto, premuta contro il petto del Re.
    -Thranduil, io...-
    -Non hai idea del male che mi hai fatto.- La interruppe con tono duro.
    –Il male passerà. Infondo, non sono altro che una stella passeggera e sono certa che mi dimenticherai, un giorno.-
    Lui strinse la presa su di lei: -Credi sia così? Allora ti sbagli Sillen, per me non è così. Ma cosa puoi saperne tu, crudele come solo una lontana stella può essere.-
    In assoluto contrasto con le sue parole, le dita dell’elfo le accarezzavano i capelli, le spalle, le braccia. Il suo tono si fece distaccato: -Quando ci rivedremo davvero, sempre che tu non muoia prima, te la farò pagare.- La stella aggrottò le sopracciglia e sollevò la testa, cercando il suo sguardo. L’elfo le accarezzò il viso, posando la sua fronte su quella di lei: -Adesso devi svegliarti, Sillen.- Come provocata da quelle parole, una violenta raffica di vento li avvolse. La terrà tremò sotto di loro e la luce si fece sempre meno intensa, fino a che una forza misteriosa prese a strattonare la stella da ogni lato.
    Sillen si aggrappò alle spalle del Re elfico: -No, aspetta! Non voglio, ho sbagliato ad andarmene, ho sbagliato tutto!- Urlò.
    Thranduil la fissava con espressione grave: -Non hai detto che questo è il tuo prezioso compito? Hai dimenticato la voce che ti chiama, laggiù a Ovest? Svegliati!- Sillen scosse la testa, stringendo convulsamente la stoffa dei vestiti del Re: -Ti prego, fammi restare! Ho paura, Thranduil.- Ma venne trascinata via con sempre più forza, fino a perdere la presa.
    La voce dell’elfo divenne un lamento e di lui rimase solo una sagoma lontana, sempre più lontana. Sillen finì in un vortice scuro, buio e desolato, dove il silenzio era scosso solo dai singhiozzi del suo pianto. Scese giù, sempre più giù.


    Un raggio di luce le batteva insistentemente sugli occhi. Si rigirò nel letto più volte ma sapeva che, una volta sveglia, non sarebbe più riuscita ad addormentarsi. Anche se ne avrebbe avuto davvero bisogno.
    Sollevò piano le palpebre, richiudendole subito dopo con un sibilo dolorante. Improvvisamente, la luce si attenuò e dei passi risuonarono poco lontano.
    Sillen si fece forza e aprì di nuovo gli occhi, voltandosi verso la fonte del rumore: in piedi, vicino alla finestra, vi era Elessar, intento a tirare una pesante tenda rossa a schermare la luce del sole. –Dovresti riposare ancora un po’.- Le sorrise. Lei si tirò a sedere, scostandosi indietro i capelli con una mano.
    Un’improvvisa vertigine le attanagliò lo stomaco e dovette rimanere immobile a lungo prima di essere certa di riuscire a muoversi senza rimettere: le sembrava di continuare a vorticare verso il basso, nelle viscere della terra.
    Il Re sedette sul bordo del letto, posandole una mano sulla spalla: -Sillen, devi dormire ancora un po’ se vuoi riprenderti. Sei qui solo da qualche ora e questa volta hai seriamente rischiato di morire...- Lei gli rivolse uno sguardo stranito: -Qui dove?-
    Elessar cerò di trattenerla ma la stella si affaccendò per scostare le coperte. Sporse le gambe oltre il bordo del letto e cercò di mettersi in piedi, lentamente, tirando giù la veste bianca che si era arrotolata attorno ai suoi fianchi: qualcuno si era premurato di lavarla e vestirla, mentre era incosciente.
    Si trovavano in una stanza regale, dalle pareti di legno e con un grosso tappeto rosso che copriva il centro del pavimento di marmo bianco. Di sicuro non si trovava nel Reame Boscoso e di Thranduil non vi era traccia.
    Il Re di Gondor e di Arnor la afferrò poco prima che le sue gambe cedessero ma lei riuscì a scorgere il paesaggio fuori dalla finestra. La bianca torre di Ecthelion svettava sopra il cortile della Cittadella come un guardiano silenzioso: Minas Tirith.
    –Come è possibile? Mi avete trasportato per tutta la Terra di Mezzo mentre ero incosciente? Non posso aver dormito per settimane!- Elessar la fece nuovamente sedere sul letto: -No, infatti. Le Aquile di Landroval hanno impiegato solo due giorni per raggiungere Minas Tirith.- Sillen sussultò: -Quindi le Aquile si sono unite a noi?- Il Re annuì e la stella gli gettò inaspettatamente le braccia al collo, esultando. –Non posso credere di avercela fatta!-
    Lui la strinse a sua volta, felice di vederla recuperare le forze.
    -Stanno pattugliando gli orchi al confine, sono veloci ed efficienti. Dopo quanto è successo sulle montagne, non dovresti sorprenderti del fatto che si stiano impegnando per aiutarti.-
    La stella ricordò gli ultimi momenti in cui era stata cosciente come se stesse rivivendo un sogno sfocato, ben più sfocato e lontano di quello in cui aveva incontrato il Re degli Elfi. Guardò la collana che dondolava sul suo petto, pensierosa. Alatar aveva cercato di dirglielo ma lei non era stata in grado di utilizzare il suo potere fino a quando non era stato davvero necessario.
    Si morse le labbra, accarezzando distrattamente il ciondolo di pietra viola: ora aveva davvero qualcosa su cui allenarsi e non con una spada.
    Elessar le fece cenno verso la porta di legno: -Ti aspetto qui fuori, vestiti. Dato che ti sei ripresa, sarebbe saggio mettersi al lavoro.- Lei annuì e lo guardò uscire. Il Re le aveva fatto preparare una bacinella d’acqua di rose e, su una sedia, era stato adagiato un vestito rosso scuro. Sillen si perse ad ammirare il tessuto leggero, decorato con preziosi fili argentati. Stretta in vita da una fascia chiara, la veste aveva larghe maniche pendenti e vantava un delicato scollo quadrato, molto lontano dal tipico stile semplice e severo cui era abituata, al Reame Boscoso.
    Si apprestò a vestirsi, con movimenti misurati e lanciò uno sguardo allo specchio alla sua sinistra. Faticò a riconoscersi e strinse i pugni: il vestito aderiva al suo corpo come un soffice guanto, sottolineando ogni curva morbida più di quanto avrebbe voluto.
    Avrebbe preferito indossare nuovamente le brache di pelle e la grossa camicia di flanella, oppure i semplici abiti della guardia elfica, mostrandosi come un soldato, non certo come una dama. Infilò il ciondolo nel corpetto dell’abito e prese un oggetto lungo e appuntito dalla specchiera: era uno spillone fermacapelli, Emlinel ne aveva molti simili e questo, sulla sommità, finiva in un intricato nodo di fili argentati. Fermò i capelli in alto, sulla nuca, liberando il collo sottile. Almeno a quelli, avrebbe cercato di dare un aspetto più severo.
    Quando Elessar la vide uscire dalla stanza, trattenne il fiato per lo stupore. Era la prima volta che la stella indossava un abito pregiato ma esso non era comunque in grado di rendere giustizia alla sua singolare ed esotica bellezza.
    Sillen si fermò davanti a lui con aria lievemente contrariata e il Re sorrise con fare rassicurante: -Non ti piace quest’abito?-
    La stella volse lo sguardo altrove: -È molto bello.- Tagliò corto. Poi notò che, alle loro spalle, stavano compostamente sull’attenti quattro guardie ben armate, in attesa di ordini da parte del Re.
    Dal canto suo, Sillen comprendeva che, dopo quanto era accaduto sulle montagne, i suoi compagni fossero ancora scossi ma di certo non fu felice di sapere che fossero diffidenti al punto da non lasciare Elessar da solo in sua compagnia.
    Cercò di ignorare il più possibile le quattro guardie e seguì il Re nella Sala dal Trono. Nella grande sala di marmo faceva freddo e Sillen si strinse le braccia al petto: -Dove sono Legolas e Alatar?- Il viso di Elessar si tese in una strana espressione, che la stella non riuscì a decifrare.
    -Per quanto riguarda Alatar…- Ma prima che finisse di parlare, nella sala avanzarono due figure.
    La stella si voltò con un sorriso quando scorse Legolas ma lui, per qualche motivo, non ricambiò: si fermò dall’altro lato della sala, gli occhi verdi e terribilmente seri puntati su di lei.
    Accanto a lui, una figura minuta si fermò a sua volta, volgendo lo sguardo verso di loro: -Padre.- Sorrise, rivolta al Re. Poi sembrò accorgersi della stella e il suo viso s’illuminò. Si fece avanti, quasi saltellando: -Tu sei Sillen, vero? La tua pelle è davvero color dell’oro come dicevano!-
    La stella spalancò gli occhi: quella giovanissima dama somigliava incredibilmente al Re e le sue orecchie leggermente a punta tradivano il suo sangue elfico. Era certamente sua figlia.
    –Io sono Miniel, è un piacere conoscerti.- Esclamò questa, afferrandole le mani. Sillen ammirò i suoi capelli bruni, molto diversi da quelli biondi di Legolas o da quelli color rame degli elfi silvani di Bosco Atro. –Sono lieta di conoscerti, Principessa.- Sorrise a sua volta, stringendole le mani con gioia.
    Elessar posò amorevolmente una mano sulla testa della figlia.
-Non vedeva l’ora di conoscerti.- Miniel annuì, indicando Legolas con il mento: -Legolas mi ha raccontato tutto quello che è successo. Sei davvero così forte da uccidere cento nemici con un solo gesto?- Legolas ed Elessar s’irrigidirono e lanciarono sguardi di rimprovero alla Principessa: -Miniel!- Quella non si scompose, continuando a tenere le mani della stella fra le proprie.
    Sillen lanciò nuovamente uno sguardo serio al Sindar: -Si, è quello che ho fatto. Ma vedi- Parlò più ai due compagni che alla Principessa e lo fece con voce dura: -è stato un gesto estremo che non ho potuto prevedere. Ho avuto paura di perdere i miei amici e non me lo sarei mai perdonato.-
    Il viso di Legolas si distese e la stella lo guardò con un’espressione di duro rimprovero. Elessar annuì, sospirando: -Te ne siamo davvero grati, Sillen. È stato solo… inaspettato.-
    Lei strinse le labbra e Legolas si decise ad avvicinarsi: -Ed è stato spaventoso. Non avevo mai visto nulla del genere…-
    Miniel alzò le spalle: -Non è detto che qualcosa di incomprensibile sia per forza malvagio. Giusto?- Come sempre, la Principessa aveva saputo esattamente cogliere il problema e aveva voluto chiarire subito la situazione tesa che si era creata tra i compagni.
    Legolas posò una mano sulla spalla della stella e sorrise:
    -Perdonami, se ho avuto paura. Ci hai salvato la vita e mi fiderò di te, Stella dei Valar, fino alla morte.- Poi storse la bocca: -Tu di sicuro non hai nulla da nascondere, non come lui. Di lui sembra proprio non sia saggio fidarsi.-
    Sillen aggrottò le sopracciglia: -Lui?-
    Elessar si intromise nel discorso: -Era quello che cercavo di dirti.- La stella avvertì l’incertezza nella sua voce.
    -Alatar al momento si trova nelle prigioni.-
    Lei spalancò gli occhi viola: -Cosa? Perché?- Legolas guardò Miniel e la Principessa annuì, correndo fuori dalla sala.
    –Ora ti spiegheremo ogni cosa ma tu non devi agitarti.-
    L’altra strinse gli occhi a due fessure: -Perché, hai paura che ti fulmini sul posto, mio Re?- Quello s’irrigidì, rimanendo però zitto. –Vi lascio da soli per due giorni e vi fate la guerra a vicenda.- Sibilò lei.
    Miniel riapparve nella sala, seguita da un elfo femmina: se Sillen non fosse stata tanto arrabbiata, sarebbe di certo rimasta colpita dalla bellezza eterea della Regina Arwen, sinuosa e regale.
    –Im gelir le mae, Sillen (sono felice che tu stia bene). Grazie di aver protetto il mio sposo.- Si inchinò con compostezza, la Regina. La stella fece altrettanto, senza staccare gli occhi da quelli azzurri di lei, curiosa di sapere cosa avesse da dirle.
    –Quando sei arrivata da noi, mi sono presa cura di te personalmente. Eri incosciente e ho dovuto svegliarti con la poca magia a me rimasta. In quel momento, ti confesso, ho avuto una visione. Mio padre ha condiviso con me la sua preveggenza, affinché io ti avvertissi.-
    L’espressione della Regina era grave e Sillen strinse gli occhi a due fessure, sospettosa: -Avvertirmi riguardo a cosa?-
    L’altra piegò la testa: -Il futuro ci è stato svelato e mostra il Falco blu che artiglia la Stella.- Legolas, allora, strinse i pugni: -Il Falco blu è Alatar. Non può essere più chiaro di così. Ti tradirà o forse è già contro di te, un nemico che ha agito inducendoci a crederlo un amico.- Elessar continuò: -Abbiamo questo presentimento da sempre, dal primo giorno. Ci seguiva come un cacciatore in cerca della preda. Per non parlare di quello che ti ha fatto durante l’allenamento: i lividi ricoprono ancora il tuo corpo.-
    Sillen si sentiva attaccata, come se le dure parole che i due rivolgevano allo stregone fossero indirizzate a lei: -Voglio vederlo.-
    -Anche Landroval non si fida di lui. Ci ha riferito di ciò che si racconta da quando Alatar è sparito ad Est con il suo compagno Pallando. Dicono che sia stato circuito dall’Oscurità e che si sia messo al servizio di Sauron.-
    La stella si allontanò dai due, tesa: -Dicono, dicono! Vaneggiamenti! Quello che vi ha dimostrato fino ad ora non conta niente?- Arwen cercò di calmarla, sollevando le mani delicate tra lei e i compagni: -Certo che conta, Stella dei Valar. Tuttavia, non possiamo permetterci di dubitare dei nostri stessi alleati quando la priorità è tenerti al sicuro.-
    -Voglio vederlo, ho detto. Osate negarmelo?- Insistette, la stella.
    Non voleva prendersela con la regina ma, inconsciamente, attribuiva a lei la colpa di averla svegliata proprio quando era riuscita a rincontrare Thranduil, anche se solo in sogno.
    Elessar non rispose e lei sentì la rabbia ribollirle nel petto:
    -Alatar non mi farebbe mai del male.- E si voltò con fare caparbio, sollevando il mento.
    Miniel la guardò uscire dalla sala, dispiaciuta e la seguì nel corridoio buio, ignorando i richiami del padre. Trovò la stella nella sua camera, seduta sul letto con le gambe tirate al petto.
    Questa sollevò gli occhi arrossati e la Principessa salì sul letto a sua volta, sedendosi davanti a lei.
    –Alatar non mi ferirebbe mai.- Sentenziò Sillen, volgendo lo sguardo verso la finestra. Miniel le accarezzò un ginocchio con fare protettivo: -Io ti credo, Stella dei Valar. Tu e lo stregone avete un rapporto speciale e non sarebbe così se lui non fosse un uomo giusto e buono.- Sillen annuì: -Lo è. Io ne sono certa.-
    Miniel si morse le labbra: -Forse conosco un modo per permetterti di vederlo.- L’altra sollevò la testa di scatto.
    –Però dovremo essere veloci se non vogliamo essere fermate. Mio padre è sveglio, quando vuole: se non ci vedrà tornare, non impiegherà molto a capire che siamo andate dallo Stregone.-
    Sillen abbracciò con forza la giovane dama: -Grazie Miniel!-
    Anche la Principessa la strinse, sorridendo.

**


    Alatar si voltò di scatto quando sentì un sasso rimbalzargli sul fondoschiena: -Dannazione, ma chi è?- Si alzò di malavoglia dal lettino e si avvicinò alle sbarre con passo strascicato. Anche Lelya guardò con curiosità nell’ombra davanti a loro, con la catenina che la teneva legata al suo trespolo che tintinnava attorno alle zampette. Da una botola sul terreno sporgeva la stella, sorridente e piena di polvere e terriccio.
    Alatar sollevò un sopracciglio quando la vide uscire per metà busto, ancora agghindata con l’abito rosso e con i capelli raccolti: -Una stella molto ben vestita che spunta dalla terra nel bel mezzo delle segrete della Cittadella.-
    -Insieme alla Principessa.- Aggiunse lei, facendo leva sulle braccia per tirarsi fuori dalla botola e voltandosi per aiutare Miniel, altrettanto sporca.
    –Già. Sembra l’inizio di una barzelletta oscena.- Sorrise lui.
    Sillen corse alle sbarre, posando una mano su quella dello stregone, stretta al duro ferro della cella: -Mi dispiace, Alatar. Ti farò uscire da qui, non ti preoccupare.-
    -Non c’è male.- Scrollò le spalle, lui. Miniel si appostò nel corridoio per controllare che nessuno li vedesse.
    –Come stai?- Chiese lo stregone alla stella, alludendo al suo svenimento. –La Regina si è presa cura di me. Sto bene.-
    Lui si fregò una mano sul viso stanco, ormai coperto dalla folta barba brizzolata: -Accidenti, non abbiamo tempo da perdere adesso, dovrei essere lì ad aiutarti.-
    Lei lo guardò senza capire e lui le passò le dita sotto il mento con fare preoccupato: -Hai perso conoscenza a causata dell’uso spropositato e fuori controllo che hai fatto dei tuoi poteri, stellina. So che è difficile da comprendere ma quando si tratta di questo tipo di energia bisogna essere molto forti e allenati. Non si rischia solo di svenire, se capisci cosa intendo.-
    Sillen rimase a bocca aperta e prese la mano di Alatar tra le sue: -Vuoi dire che usare il mio potere potrebbe uccidermi?-
    L’altro annuì: -Per questo devi imparare ad usarlo, per evitare di esaurire tutte le tue energie e morire inutilmente, capisci? Ma per farlo devi allenarti ed io non posso aiutarti da qui.-
    Lei si morse il labbro inferiore: -Lo hai detto agli altri?- Lui scosse la testa: -Ci ho provato. A quanto pare non sono stato abbastanza convincente.-
    -Sono molto preoccupati. Pensano che tu sia dalla parte del Male. Artefice o alleato del pericolo che incombe contro di noi.- Gli rivelò, con trasparente sincerità. Lui sospirò, avvicinandosi alle sbarre: -La mia non è stata una vita facile, Sillen. Un giorno racconterò la mia storia e molte cose ti saranno più chiare. Ma adesso fidati di me quando ti dico che voglio aiutarti: ti insegnerò ad usare il tuo potere, ad essere più forte.-
    La stella annuì, chiedendosi, in un recondito angolo della propria mente, se davvero non avesse dovuto fidarsi delle parole dei suoi compagni. Eppure, guardando lo stregone negli occhi scuri, le sembrò solo di vedere un'estrema dolcezza. Come potevano essere vere, quelle orribili accuse? La Regina e Re Elrond potevano credere nelle loro fantomatiche visioni ma lei era la Stella dei Valar, solo le sue contavano davvero.
    Miniel si voltò improvvisamente verso di loro: -Arriva qualcuno!-
    Sillen si sporse quanto le sbarre le permettevano per stringere frettolosamente lo stregone: -Giuro che ti farò uscire da qui il prima possibile.-
    -A presto, stellina.-
    Sillen si lasciò cadere nella botola per prima, atterrando senza problemi pochi metri più in basso. Miniel fece altrettanto, aiutata dalle mani sicure e forti della stella e, insieme, si incamminarono velocemente nel passaggio buio e pieno di ragnatele. Sbucarono nelle armerie e, silenziose come ombre, sgusciarono di nuovo fino alle stanze della stella. –Ora che sappiamo qual è la verità, non abbiamo un minuto da perdere.- Sentenziò quest’ultima.
    Miniel la guardò, spolverandosi la gonna dell’abito verde con gesti secchi: -Quello che ha detto Alatar è logico e plausibile. Sei talmente forte che il tuo involucro fatica a sopportare il tuo potere. Perché non gli hanno creduto?- L’altra non seppe rispondere. Era come se gli altri non volessero credere alle parole dello stregone. L’influenza del Maia Landroval su di loro era forse più forte della sua, di quella della Stella dei Valar?
    In quel momento, il suono acuto di un corno si propagò nella Cittadella e Miniel corse alla finestra: -Abbiamo visite, Sillen!-
    La stella la raggiunse e seguì il suo sguardo all’orizzonte, verso il Nord Ithilien: un immenso corteo stava avanzando verso Minas Tirith. A vederlo da lontano, sembrava un fiume scuro e lucente, che si muoveva velocemente in mezzo alla valle.
    Sillen spalancò gli occhi: erano Nani, un esercito di Nani.
    La Principessa aguzzò la vista e saltellò allegramente:
    -Potrebbe essere Gimli! Sono anni che non viene a farci visita.- Poi si fermò, incrociando le braccia: -Anche se credo proprio non sia qui per una visita di cortesia.-
    La stella non credeva ai propri occhi. -Saranno qui in meno di quattro ore.- Esclamò, spazzandosi il vestito e sistemando i capelli. –Troviamo il Re.- Miniel le pulì velocemente il viso e la prese per mano, guidandola nei corridoi freddi.
    In breve, raggiunsero gli appartamenti reali e quasi corsero nello studio di Elessar. Legolas le intercettò sulla porta, sollevando le sopracciglia con espressione sorpresa.
    –Da quanto sapevate dell’arrivo dei Nani? Perché non sono stata messa al corrente della cosa?- Lo aggredì la stella, spazientita. Lui cercò di calmarla, posandole le mani sulle spalle:
 -I Nani sono amici degli Uomini, da quando Elessar è il Re, e non hanno esitato a raggiungerci. Sono stati avvertiti quando siamo arrivati a Rohan, due settimane orsono.- Miniel, con un saltello gioioso, guardò il Principe degli Elfi con occhi scintillanti: -Viaggia con loro anche Gimli?- Legolas distolse lo sguardo e Sillen poté giurare di aver scorto una traccia di rossore sul suo viso.
    –Lui… Ad ogni modo, il Re stava per mandarti a chiamare.- Concluse, frettolosamente. La stella lo superò senza commentare oltre: -Bene.-
    I tre raggiunsero Elessar nello studio e lui alzò la testa dalle carte che aveva di fronte. Alle sue spalle, due uomini e un ragazzo si drizzarono velocemente: uno dei due uomini, di bell’aspetto e sulla cinquantina, fissò gli occhi sgranati sulla stella: -è lei?-
    Elessar annuì e l’uomo avanzò con sguardo stupito. Si inchinò al cospetto della stella e lei accettò quella formalità con compostezza. –Io sono Re Éomer, Signore del Mark e Re di Rohan. Il mio regno e al tuo servizio, Stella dei Valar.- I suoi occhi castani erano limpidi e sinceri e Sillen sorrise istintivamente: -Ti ringrazio di cuore, Re Éomer.-
    L’altro uomo, coetaneo del primo, fu meno impetuoso e si limitò ad abbassare la testa con riverenza: -Anche i miei uomini ti serviranno. Sono Faramir, Sovrintendente di Gondor e Principe dell’Ithilien. E lui è mio figlio, Elboron.- Un giovane allampanato, all’apparenza poco più che adolescente, s’inchinò con eleganza e la stella, cercando di apparire tranquilla, chinò il capo di rimando: -Per me è un vero onore trovare così tanti valorosi signori disposti ad aiutarci in questa disastrosa battaglia.-
    Elessar si alzò con espressione grave: -Purtroppo, non ci sono buone notizie. Altri gruppi di orchi sono stati avvistati ai confini con le vecchie terre di Mordor.-
    Éomer consegnò alla stella la mappa che i presenti stavano studiando e indicò dei segni in inchiostro scuro, che costellavano gli Ered Lithui: -Ad oggi, i nostri informatori ne hanno contati più di centomila ma ogni giorno il numero cresce a dismisura. Sbucano da sotto terra e nello stesso modo spariscono. Le Aquile non possono seguirli fino laggiù, perciò ignoriamo la loro effettiva ubicazione. E il loro numero. Sappiamo che per la maggior parte sono Uruk-hai: hanno attaccato vari paesi nell’ultima settimana, distaccandosi dal grosso esercito in gruppi di poche centinaia.-
    Poi si passò una mano sulla folta barba, pensieroso. -Si comportano in modo insolito. In un modo o nell’altro si riuniscono più velocemente che mai e, una volta insieme, diventano implacabili. Non ho mai visto dei goblin così organizzati e silenziosi.-
    Faticando ad elaborare tutte quelle terribili informazioni, Sillen impallidì: -Centomila… A quanto ammonta il nostro numero?- Faramir si appoggiò alla scrivania del Re con un sospiro:
    -Diecimila uomini dall’Ithilien, poco più di quindicimila Rohirrim dal Mark e ventimila soldati addestrati da Gondor e Arnor. Certo, dalla nostra abbiamo le Aquile.-
    -Gli Elfi dell’Ithilien sono circa cinquemila, purtroppo, non di più. Ma i Nani in arrivo contano almeno ventimila sodati.- Aggiunse Legolas. La stella si morse il labbro inferiore ma non perse il suo temperamento sicuro: -Uno solo di noi vale quanto cinque di quelle maledette creature. Siamo già in vantaggio.-
    Lo sguardo di Éomer si fece fiducioso e annuì: -Siamo ai tuoi ordini, mia signora.-
    Lei guardò Elessar, poi la mappa: -Avete un piano?- Elessar cercò Legolas con lo sguardo teso: -Speravamo ne avessi uno tu.-
Stizzita, Sillen puntò le mani sui fianchi: -Quindi il mio pensiero conta, adesso?- I due si zittirono e gli altri presenti, esclusa la giovane Miniel, sua complice, non capirono quelle parole.
    –Liberate Alatar.-
    Quelli fecero per ribattere ma la Stella dei Valar fu irremovibile. Sembrò diventare più alta e imponente e una luce innaturale scaturì per un attimo dai suoi occhi violetti: fu solo un secondo, ma ricordò ai due quello che era accaduto sulle montagne.
    –Non è un consiglio, Re Elessar. Questo è un ordine.- Avanzò di un passo, sibilando: -O vorresti dirmi che le opinioni di Landroval contano più di quelle della Stella dei Valar?-
    Elessar strinse i denti, colto sul fatto. Sostenne lo sguardo della stella ma annuì, richiamando le guardie: -Liberate lo stregone. Da questo momento sarà sotto custodia vigilata.- La stella non ribatté, consapevole che litigare non li avrebbe portati da nessuna parte e si accontentò del fatto che, perlomeno, Alatar sarebbe stato fuori dalla prigione.
    Si rivolse anche all’elfo biondo, che alzò il mento. -Legolas, hai detto che ti saresti fidato di me. Fallo fino in fondo. Non dovete dubitare di Alatar, mai.- Il tono con cui parlò, i suoi occhi d’acciaio e la sua espressione regale, ricordarono all’elfo il Re del Reame Boscoso e non poté fare a meno di sottostare a quell'ordine: -Be iest lin, Sillen. (come desideri)-
    Miniel sorrise alla stella e lei si calmò: –Per quanto tempo siamo in grado di accogliere gli eserciti a Minas Tirith?-
    Faramir le consegnò un plico di documenti, dov’erano alacremente segnati i viveri reperibili nei dintorni. -Per ora, siamo in grado di far fronte a poco più di due mesi ma altri rifornimenti sono in arrivo dalle terre di Arnor.-
    -E se non contassimo gli altri abitanti?-
    Lui tentennò, senza capire: -Allora… sei mesi almeno.-
    Lei rifletté un secondo, poi sollevò il mento: -Allora il piano, per ora, è attendere.- Tutti le puntarono gli occhi addosso. –Evacuate i piccoli villaggi e conducete la popolazione il più lontano possibile. Tutto l’Ithilien e Gondor stessa verranno invasi a breve e non possiamo permetterci distrazioni: che i nemici trovino solo paesi vuoti.- Nessuno dei presenti credeva alle proprie orecchie.
    -Stai dicendo di lasciare che il nemico entri così nelle nostre terre, senza combattere?- Esclamò, éomer.
    La stella ragionava velocemente e giustificò in fretta la propria decisione: -Il nemico, con ogni probabilità, è già nelle nostre terre, sotto le nostre terre. In qualche modo, sanno dove mi trovo. Erano sulle Montagne Nebbiose ancor prima del mio arrivo… Se saremo noi a mobilitarci, ci indeboliremo e perderemo la capacità difensiva della città: ci seguirebbero, seguirebbero me. Allora, dobbiamo lasciare che vengano da noi. In mia presenza la testa del serpente verrà fuori.-
    Éomer si accigliò: -Così facendo, rimarrebbero comunque migliaia di orchi nel nostro territorio.- La stella scosse la testa, posando le mani sulla scrivania per chinarsi sulle mappe: -Quello che ha detto il Sovrintendente Faramir mi ha fatto riflettere. Non ho mai visto dei goblin così organizzati e silenziosi. È la stessa cosa che ho pensato quando ho visto gli orchi fuoriuscire dal terreno e uscire alla luce del sole, al Nido delle Aquile: non l’avrebbero mai fatto se qualcuno non li stesse manovrando.-
    Legolas spalancò gli occhi, capendo al volo cosa la stella intendesse dire: -Sono controllati come burattini, non hanno coscienza di quello che accade. Sono come… cadaveri usati come armi.- Lei annuì. Ma Eomer non sembrò convinto: -Come facciamo ad esserne sicuri? Potrebbero solo essere più forti e meno sensibili alla luce.-
    Sillen strinse il ciondolo viola tra le dita, risoluta: -Sono certa che dietro a tutto questo ci sia un nemico peggiore addirittura di Sauron stesso, qualcuno in grado di controllare queste creature ormai prive di ogni coscienza. Prive di vita, oserei dire. Tagliando la testa al serpente, rimarrebbero solo gusci vuoti, una distesa di cadaveri senza il loro necromante.-
    Tutti, senza parole, la fissarono con il terrore negli occhi.
    –Ebbene sì. Meno male che c’è qualcuno che sa usare il cervello, qui dentro.- Sentenziò Alatar, apparso sulla porta reggendosi al suo bastone, mentre due guardie lo seguivano con il fiato corto.
    Sillen gli andò incontro: -Sono felice che tu sia qui.- Sorrise, rassicurata. Lui le rivolse un sorriso sghembo: -Per fortuna hai me. Questi qui sono svegli come pennuti.- Lelya gli gracchiò in un orecchio e lui alzò le mani: -Quando dico pennuti mi riferisco a qualcosa come polli e tacchini, non ti scaldare!-



 


N.D.A

Seppur un po’ in ritardo, ecco il nuovo capitolo. Sentore di battaglia! Avete già delle teorie su questi misteriosi avvenimenti? Fatemi sapere cosa ne pensate,

la vostra
Aleera.

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Capitolo 15
*** Candela ***



 
-Candela-


    Tutti i principali comandanti degli eserciti alleati si riunirono alle porte di Minas Tirith, mentre i Nani avanzavano a ritmo sostenuto, disposti in fila strette e ordinate. Infine, l’imponente esercito si arrestò di fronte alla città con un assordante cozzare metallico.
    Sillen si era cambiata in fretta, felice di poter indossare i pantaloni scuri della guardia e la bianchissima camicia dai delicati alamari argentati, sopra la quale aveva stretto un rinforzo addominale di placche in cuoio scuro. Allacciata in vita, portava la spada elfica donatale da Legolas.
    Il suo aspetto rispecchiava finalmente il suo ruolo di guerriera.
    La sua realtà stava cambiando, più velocemente di quanto si sarebbe mai aspettata. Ricordò sé stessa nuda e indifesa, nella radura di Bosco Atro, e mai come adesso percepì quell’immagine come estranea: sentiva l’antico potere donatole dai Valar scorrerle nelle vene e i suoi occhi dallo sguardo duro e penetrante non lasciavano spazio al dubbio o alla debolezza.
    In piedi di fronte a tutti, con Alatar alla sua destra e Re Elessar a sinistra, Sillen sollevò il mento, sorridendo ai nuovi arrivati:
-Benvenuti, nobili signori della pietra!-
    La sua voce alta e cristallina fendette l’aria e subito due nani a cavallo di grossi montoni scuri si distaccarono dall’esercito e si diressero verso di lei.
    Legolas e Aragorn sorrisero quando notarono il loro vecchio amico affrettarsi per incontrarli: -Che mi venga un colpo! Non siete cambiati nemmeno un po’ dall’ultima volta.- Esordì Gimli, smontando con un balzo goffo dalla propria cavalcatura.
    I due amici lo circondarono, assestando amichevoli pacche sulle sue spalle solide, sino a quando lui non lanciò uno sguardo divertito al Re, adocchiando il suo sguardo stanco: -Anche se quella barba si sta ingrigendo, vero, Signore degli Uomini?-
    Elessar sollevò un sopracciglio: -Pensa alla tua, amico mio. Governare sulle Caverne di Aglarond ti sta facendo invecchiare così in fretta?- Al che, il nano guardò con una risatina sul proprio petto, spolverandosi la lunga barba rossiccia appena striata di grigio. Puntò poi lo sguardo sull’elfo biondo di fronte a lui e scosse una mano, sbuffando: -Con te è inutile, elfo dei miei stivali. Sei forse più fastidiosamente perfetto di quanto ricordassi.- Lo canzonò. Legolas rispose al commento con un sorriso ma un timido rossore imporporò le sue guance, forse troppo lieve perché qualcuno potesse notarlo.
    Intanto, Gimli si era voltato verso la stella, mentre l’altro nano smontava a sua volta per avvicinarsi a lei con espressione fiera.
    -Io sono Thorin III Elminpietra, figlio di Dain Piediferro. Re sotto la Montagna, Signore di Erebor e dei Colli Ferrosi. Tu devi essere la Stella dei Valar di cui tutti parlano.- Tolse il pesante elmo, rivelando una folta chioma bruna che andava a mescolarsi con la lunghissima barba, intrecciata con anelli di ferro e pietre preziose. Guardò la stella dal basso verso l’altro, ammirato.
    Sillen s’inchinò profondamente: -Sì, mio signore Thorin, il mio nome è Sillen. Ti ringrazio per essere venuto.- Lui sbatté il manico della lunga ascia per terra, con una sonora risata: -Dove c’è qualche orco da fare a pezzi, di certo ci siamo noi!-
    L’esercito di nani alle sue spalle sollevò grida di entusiasmo e Sillen li fissò ad occhi spalancati.
    Alatar fece un passo avanti, attirando l’attenzione su di sé: -Il viaggio è stato difficoltoso, mio signore?- Thorin alzò lo sguardo in alto, con le folte sopracciglia aggrottate: -Per niente, stregone.- Gimli gli tirò un pugno secco sul petto, contraddicendolo senza remora alcuna: -Come no! Siamo stati attaccati ben sei volte, ai confini con i Monti di Cenere. Abbiamo fatto un massacro di quei dannati goblin.- Thorin, di ben altro avviso, lo spinse con un gesto stizzito: -E quello lo chiami massacro? Ho rischiato di più dal barbiere!- Poi si rivolse alla stella, prendendole una mano e attirandola il più possibile verso di sé, tanto che Sillen fu costretta a piegarsi per arrivare all’altezza del suo viso: -Per te, mia bellissima dama, combatteremo fino all’ultimo respiro.- Le disse, solenne, poi si voltò verso i suoi, senza attendere una risposta: -Accamparsi!-
    E il grosso esercito si mosse rumorosamente verso la vallata, laddove ancora vi era spazio tra i grandi accampamenti di Rohan e dell’Ithilien. Thorin Elminpietra posò un bacio audace sulla mano della giovane e si apprestò a rimontare sulla sua cavalcatura: -Se dovessi annoiarti con tutti questi spilungoni, vieni a cercarmi. Sarò lieto di raccontarti del mio valoroso popolo.- Sillen annuì, seria, ignorando le risatine attorno a lei: non le pareva proprio che ci fossero dei motivi per non prenderlo sul serio. Gimli le lanciò un’occhiata divertita e grata, affiancando il suo Re per tornare in testa al possente esercito.
    I compagni li guardarono allontanarsi e Legolas sospirò: -I Nani sono testardi e rozzi ma sono un popolo fiero e leale.- A Sillen non sfuggì l’inflessione dolce che tinse la sua voce ma non commentò, limitandosi a scambiare uno sguardo eloquente con Elessar, che invece già conosceva i reali sentimenti dell’amico.
    Alatar, interrompendo quel momento di quiete, si voltò verso la stella, scuro in volto: –Andiamo Sillen. Hai molte cose di cui occuparti.- Lei lo seguì senza indugio, trepidante d’attesa.
    Era impaziente di allenarsi e voleva a tutti i costi riuscire a controllare il proprio potere al meglio.
    Sapeva di non avere tempo da perdere.

    Alatar, sempre seguito dalle due guardie della Cittadella, la condusse al quinto livello della città, dove una strada di pietra sospesa conduceva sul fianco del monte Mondolluin. Passarono sotto numerosi archi di pietra, fino a giungere in una piazza spoglia e fredda. Molti edifici la costeggiavano, alti e squadrati.
    Le guardie si fermarono all’ingresso, lasciandoli avanzare da soli. -A nessuno sarebbe permesso di entrare qui ma il Re ci concede questo privilegio, date le circostanze.- La informò Alatar, attraversando la piazza silenziosa e Sillen scrutò la dritta facciata di pietra grigia dell’edificio in cui stavano per entrare.
    Deglutì, stringendo l’elsa della spada elfica come a cercare conforto: -Che posto è questo?-
    Lo stregone si fermò sulla soglia, guardandola da sopra la spalla. -La strada che abbiamo appena percorso è Rath Dínen, la Strada Silente e queste sono le Tombe dei Re, il luogo sacro della città.- La stella sgranò gli occhi, scossa da un brivido: ora si spiegava il sentore tetro che aleggiava in quel luogo.
    Alatar le fece segno di entrare nell’edificio e, una volta dentro, la stella capì perché l’avesse condotta fin lì: era una grande stanza vuota e buia, dal pavimento e dalle mura di spessa pietra, adatta a sopportare il suo addestramento.
    Pronunciando alcune parole nella lingua antica, lo stregone accese i bracieri scuri e sedette a gambe incrociate in mezzo alla stanza, invitando la stella a fare lo stesso: -Come avrai capito, il tuo potere attinge dalla tua stessa forza fisica. Hai una resistenza fuori dal comune ma non ti servirà se sprecherai tutto il tuo potere in un solo colpo, poiché rischieresti solo di ucciderti. Devi avere pieno controllo delle tue azioni per decidere quanta forza sarà coinvolta in ogni attacco.- Lei strinse i pugni, determinata. –Ricorda però, che userai il tuo potere solo se strettamente necessario.- Le intimò Alatar, squadrandola da sotto le sopracciglia folte. Poi tirò fuori dal mantello una candela bianca e la pose ritta di fronte alla stella.
    –I Maiar come me e Landroval hanno poteri diversi gli uni dagli altri: per esempio, il mio potere risiede per la maggior parte nel mio bastone; il tuo, molto probabilmente risiede nel ciondolo che porti al collo. Se imparerai a controllare il tuo potere, non sarà difficile sfruttare il ciondolo e non consumare la tua energia vitale: per questo ti è stato donato dai Valar.- Sillen rinchiuse istintivamente il ciondolo nel pugno, mordendosi il labbro inferiore. -In ogni caso, cerca di non ammazzarti stellina.- Sorrise lui, accrescendo la tensione che già appesantiva l’aria.
    Indicò la candela di fronte a loro con un gesto deciso: -Spegni la fiamma con il tuo potere senza toccare la candela. Non si deve muovere nemmeno lo stoppino, sono stato chiaro?-
    Mentre si apprestava ad accendere la suddetta candela, la stella sgranò gli occhi, nel panico. -Alatar, è impossibile! Spazzerò via tutto quello che si trova in questa stanza!-
    L’altro sollevò un sopracciglio: -Beh, cosa credevi? Che ti svelassi qualche trucco segreto?- Sillen incrociò le braccia al petto, lanciandogli un’occhiata eloquente, ma lui scosse la testa, irremovibile: –Questo è l’allenamento, che ti piaccia o no.-
    -Morirò inutilmente in questo posto.-
    -No, se riuscirai a fare quello che ti ho chiesto.-
    -Non so nemmeno da dove iniziare!- Esclamò lei, stizzita.
    Alatar s’innervosì: -Sillen, solo tu sai come fare, non puoi aspettarti che qualcun altro risolva i tuoi problemi. Io ti ho dato un obbiettivo, quindi silenzio e concentrati!- Si alzò bruscamente e la lasciò sola nella stanza. Sillen stette ad ascoltare il suono dei suoi passi che si allontanavano sulla Strada Silente fino a che non ci fu solo silenzio e sbuffò, fissando la candela in cagnesco.
    –Bene, a dire il vero non mi dispiace nemmeno far saltare in aria questo lugubre posto!- Gridò, voltandosi verso la porta, anche se sapeva che nessuno l’avrebbe sentita.
    Tornò a fissare la fiamma, sconsolata. Cercò di concentrarsi, di rievocare le sensazioni provate al Nido delle Aquile. Si accorse di esserci riuscita solo quando sentì il suo corpo vibrare, le sue forze venir meno. Si arrestò all’istante, riprendendo fiato.
    –Dannazione…-
    Si concentrò nuovamente, sortendo lo stesso effetto e imponendosi di andare fino in fondo.
    Superato il momento critico, credette di farcela ma, poco prima che dal suo corpo scaturisse l’energia che sentiva scorrere sottopelle, una forte corrente la circondò, come sulla montagna.
    Un fragore di oggetti sbattuti la riscosse.
    Spalancò gli occhi, nel panico e tutto cessò.
    Si prese il viso tra le mani, ricacciando indietro le lacrime. La candela si era effettivamente spenta ma giaceva a metri di distanza, riversa a terra come tutto ciò che era presente nella stanza. Nonostante lo sconforto, Sillen provò ancora e ancora.
    Le ombre si allungavano, il sole sembrava calare troppo in fretta, inesorabilmente. Continuò per ore, fino a che non prese la candela tra le mani e la gettò lontano da sé.
    Rimase immobile, sfinita, le braccia abbandonate tra le gambe incrociate, osservando la luce del sole farsi sempre più debole per lasciare spazio al buio.
    –A quanto pare, non avete fatto un buon lavoro con me, Valar.- Sussurrò. Suo malgrado, si alzò lentamente e andò a recuperare la candela, accendendola poi con la fiamma del braciere, ormai quasi estinta del tutto.

 
**


    I giorni successivi furono un susseguirsi di allenamenti sfiancanti. Sillen non avrebbe saputo distinguere un giorno da un altro, troppo uguali e troppo confusi.
    Lo stregone non le disse più nulla riguardo i suoi allenamenti ma la stella non si diede un attimo di tregua, trovandosi talmente sfinita da riuscire a malapena a rimanere sveglia durante le riunioni. Per fortuna, il suo piano era stato approvato e l’Ithilien e la parte Est di Gondor erano state evacuate: tutti i cittadini stavano compiendo un lento esodo verso Dol Amroth, dove sarebbero stati accolti dalle forze di Belfalas e dai cavalieri azzurri di Imrahil, padre di dama Lothíriel.[1]
    Dopo di che, la voce che la stella non riuscisse a controllare il suo potere si era sparsa tra i suoi alleati e persino éomer e Faramir, adesso, le lanciavano occhiate perplesse. La sua parola, durante le riunioni, era sempre meno presa in considerazione e non poteva biasimarli per quello.
    Nemmeno lei digeriva facilmente tutti quei fallimenti.
    Quindi si allenava, senza tregua, resa sempre più furiosa da quegli allenamenti sfiancanti.
    La Stella dei Valar vantava una resistenza fuori dal comune ma lei ne sfruttò ogni secondo, svegliandosi ben prima dell’alba per allenarsi anche con le armi, sotto il vigile ed esperto occhio di Legolas. E se la candela era una continua delusione, in campo la stella non era seconda a nessuno. Apprese in fretta l’uso di ogni tipo di arma, dal veloce arco alla lunga lancia, senza tralasciare nemmeno asce e pugnali. Sfogava in quel modo tutta la frustrazione accumulata nelle settimane.

    Una mattina, il corno della città risuonò, proprio durante uno dei suoi allenamenti. La stella, suo malgrado, non interruppe il duello intrapreso con l’elfo di Bosco Atro, decisa a concludere la sequenza d’allenamento che le risultava più difficile.
    In ogni caso, non aspettava altri alleati in arrivo.
    Legolas approfittò del suo attimo di distrazione e la colpì alla mascella con il pomo della spada. Sillen rovinò a terra ma si affrettò a rotolare su sé stessa, per evitare il pesante affondo dell’elfo, che andò a colpire l’erba smeraldina sotto di lei. Con una mossa fulminea, la stella ruotò il corpo e si tirò il piedi, cercando di attaccare il fianco scoperto dell’avversario. Legolas fu più rapido e le bloccò il braccio armato con una mano.
    Poco prima di ricevere il colpo finale, Sillen gli lanciò uno sguardo soddisfatto. Lui sollevò un sopracciglio, confuso, poi abbassò lo sguardo a sua volta: la mano libera della stella stringeva un sottile pugnale, delicatamente appoggiato all’inguine dell’elfo.
    Legolas la lasciò di scatto, colto alla sprovvista.
    In quel momento, un bagliore catturò l’attenzione della stella: Elessar era in piedi di fronte al campo, seguito da un gruppo di persone mai viste prima, intente a fissare il duello.
    -Stella dei Valar, sono giunti amici pronti ad unirsi a noi. Sono qui per conoscerti.- Alzò la voce, il Re.
    Sillen parò un affondo di Legolas e lanciò un’occhiata nella loro direzione. Costretta a concludere definitivamente l’allenamento, la stella disarmò l’elfo con un gesto preciso e veloce.
    –Avresti potuto farlo in qualsiasi momento?- Esclamò lui, infastidito. Lei scosse le spalle con noncuranza: -Si ma volevo allenarmi più a lungo.- Legolas scosse la testa, arrendendosi ad un sorriso orgoglioso, e la seguì verso i nuovi arrivati.
    Questi erano tre elfi, che Sillen non conosceva. I due più discosti si somigliavano come gocce d’acqua, gli stessi capelli scuri, gli occhi grigi seri e profondi, mentre l’elfo accanto al Re pareva brillare di luce propria, emanando bagliori luminosi con la sua armatura impeccabile, dorata quanto i lunghi capelli sciolti.
    –Loro sono i Principi di Gran Burrone, Elladan e Elrohir, i fratelli di Dama Arwen. E lui è Glorfindel, giunto anch'egli da Imladris.- Li presentò Elessar. Sillen s’inchinò brevemente e loro fecero altrettanto. Glorfindel la squadrò con gli occhi dorati: -Imladris combatterà per te, Stella dei Valar. Cinquemila elfi stanno marciando per unirsi al tuo esercito.- La sua voce era cristallina e musicale e Sillen ne rimase incantata per qualche istante: -Sono onorata di poter combattere al vostro fianco.-
    -Noi siamo di certo rassicurati. Non avevamo mai visto nessuno…- Cominciò Elladan. -…disarmare Legolas.- Concluse Elrohir, sollevando un angolo delle labbra. Il Principe degli Elfi, tirato così ineducatamente in causa, posò una mano sulla spalla di Sillen: -La Stella dei Valar non conta, lei è ultraterrena.-
    Glorfindel, inaspettatamente, rise di gusto, la voce alta e irriverente tinta di un calore accorato: -A me sembra una scusa bella e buona, principino.- Legolas lo fulminò con lo sguardo: -Ti ricordo che ho battuto anche te. E sei tanto ultraterreno quanto lei.- L’altro ghignò, facendosi pungente: -Già, solo perché ti ho lasciato vincere.-
    Sillen fissò l’elfo dorato, stupita: tanto ultraterreno quanto lei.
    Cosa voleva dire Legolas, con quelle parole?
    Glorfindel si rivolse nuovamente a lei, posando una mano sul cuore e chinandosi leggermente: -Non volevamo interrompere il tuo allenamento. Prego, continua pure.- Lo sguardo dell’elfo si fece per un attimo più pungente, insistente, non abbastanza perché gli altri se ne accorgessero ma quel tanto che bastava per turbare la stella.
    Quell’elfo dorato era diverso da qualsiasi altro essere vivente Sillen avesse mai visto. E non era certa fosse un bene.
    Lo ringraziò con un cenno e li osservò allontanarsi. Solo Elessar rimase al suo fianco: -Pare tu ce l’abbia fatta. La tua storia viaggia più veloce del vento, in ogni angolo della Terra di Mezzo. Solo la tua presenza poteva riunire tutti qui.- Le sorrise.
    –No, mio signore. Tutti loro sono stati spinti dall’affetto e dalla fiducia nei vostri confronti, non lo vedete?- Afferrò le mani del Re e dell’elfo: -Sarei ancora rinchiusa a Bosco Atro, se non fosse stato per voi. Vi ringrazio. Siete gli unici a credere in me, ora come ora.- I due la guardarono con apprensione ma sorrisero, alle sue parole.
    Alatar li raggiunse in quel momento, di gran corsa, quasi seminando le due guardie di scorta: -Che bel quadretto! Sono desolato di interrompere un così bel momento ma ci sono delle novità che richiedono la nostra attenzione.- Scambiò un paio di occhiate frettolose con il Re, che lo squadrava con fare ostile e fece strada nel Cortile dell’Albero Bianco.
    All’estremità più acuminata del cortile, Landroval li aspettava impaziente. Quando furono abbastanza vicini, la sua voce tagliente li raggiunse con un tono carico d’urgenza: -L’esercito degli orchi si sta muovendo. Sono veloci, più veloci di quanto siano mai stati.-
    -A quanti giorni da qui?- Spalancò gli occhi, la stella.
    Landroval squadrò lo stregone davanti a lui e batté il becco con uno schiocco sordo, contrariato: -Attraverseranno l’Ithilien in non più di due settimane, forse meno.-
    Tra i quattro calò un gelido silenzio. Sillen soppesò la notizia e rivolse uno sguardo teso allo stregone, che annuì.
    La stella prese dunque un profondo respiro: -Prepararsi all’assedio.- Elessar e Legolas non persero tempo, correndo spediti ad organizzare i propri uomini.
    Sillen, invece, si avvicinò al Signore delle Aquile: -Ho bisogno che tu sia dalla mia parte, mio signore. Io ho scelto di avere Alatar al mio fianco e mi assumo tutta la responsabilità delle mie azioni.- Quello la scrutò con gli occhi rapaci, raschiando il marmo con le lunghe zampe artigliate. -Come vuoi, Stella dei Valar, ma ti consiglio di tenere gli occhi aperti: il mio intuito non si è mai smentito.- E spiccò il volo, in un turbinio violento di correnti.
    Sillen si voltò verso lo stregone, seria: -Quanto a te.- Alatar sollevò il folto sopracciglio. –Devo riuscire a controllare il mio potere. Adesso.-
 


 
[1] Belfalas, provincia di Gondor affacciata sul mare; Dol Amroth ne è capoluogo.


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Capitolo 16
*** Un Destino Scritto ***



 
 
-Un Destino Scritto-


    Seduti davanti alla candela, nella penombra delle Tombe dei Re, Alatar e Sillen si fissavano intensamente.
    –Concentrati. La fiamma è il tuo nemico, la candela è la tua energia vitale: impara a combattere senza ferirti.-
    La stella provava eccome a controllare quella massa di energia che le ribolliva dentro ma, per quanto facesse attenzione, il tutto si esauriva in un totale fallimento, come ogni volta.
    Visualizzava l’energia dentro di lei, dai confini ben delineati e stabili, poi allungava una mano per afferrarne un piccolo lembo e tutto sembrava agitarsi senza controllo. 
    Ogni volta, era costretta a fermarsi subito, stremata, cercando di evitare di buttare all’aria tutto ciò che era presente nella stanza. Per fortuna, quel maldestro allenamento non le aveva procurato altro che una gran stanchezza, lasciando intatta tutta l’energia, al sicuro, dentro i suoi solidi confini. In quello, per lo meno, era stata brava.
    -Non sta funzionando, Alatar.- Ringhiò lei, all’ennesimo tentativo andato a vuoto. Lo stregone, dal canto suo, non si scompose.
    -Non ti stai concentrando.- Punta sul vivo, la stella strinse i pugni: -Sono due settimane che non faccio altro che concentrarmi!-
    Come al solito, i due non riuscivano a comunicare. Sillen sapeva che riversare sullo stregone la propria frustrazione era sbagliato ma egli era anche l’unico a poterla capire, in quel momento. L’unico che non l’avrebbe abbandonata a sé stessa in quella lotta impari che lei aveva ingaggiato contro il suo stesso potere.
    Prima che i due ricominciassero a discutere, però, sulla porta apparve qualcuno, silenzioso e discreto come un’ombra. Glorfindel si appoggiò allo stipite a braccia conserte, sollevando un sopracciglio elegante con fare curioso. Sillen lo fissò a sua volta, sorpresa dalla sua visita inaspettata, e lui le sorrise.
    Un sorriso felino, un ghigno saputo: -Perdonate la mia intrusione. Il tuo potere in subbuglio mi stava facendo venire il mal di testa, Stella dei Valar.- Spiegò, come avesse appena detto un’ovvietà. La stella sgranò gli occhi, le labbra serrate dalla sorpresa.
    Era proprio come pensava, quell’elfo era strano.
    C’era qualcosa di diverso, in lui.
    Fu Alatar a trarla d’impiccio, alzandosi velocemente in piedi e attirando la loro attenzione su di sé: -Glorfindel di Gondolin! Quale onore poterti rincontrare!-
    L’elfo raggiunse lo stregone, scostando i lunghi capelli luminosi dietro la schiena ampia: -È passato tanto tempo, Morinehtar.- Poi piegò la testa, alludendo alla stella. –Se posso intromettermi…-
    Alatar annuì, quasi sollevato. –Il tuo aiuto sarebbe una benedizione! Vi lascio soli, dunque.-
    Sillen non vide lo stregone uscire: la sua attenzione era completamente rivolta all’elfo dorato davanti a lei.
Si sentiva minacciata? Cercò di calmare il respiro, scrutando con diffidenza la figura imponente che troneggiava su di lei.
    Glorfindel, intanto, indicò la candela con fare supponente, sollevando il mento: -Ti stai concentrando troppo, Stella dei Valar. Così non ci riuscirai mai. Non lo stai facendo nel modo giusto.- Lei storse la bocca, irritata. Lui nemmeno aveva idea delle fatiche che aveva dovuto sopportare solo per vedere ogni proprio tentativo fallire miseramente.
    Come osava deriderla in quel modo?
    -E quale dovrebbe essere il modo giusto, mio signore?-
    Lui le rivolse uno sguardo affilato, che la scosse violentemente dalla testa ai piedi: all’elfo non era piaciuto il suo tono.
    Sillen deglutì, sentendo i propri muscoli tendersi nervosamente. Con il suo modo di muoversi, con la sua presenza psichica e fisica che invadeva la stanza, con quello sguardo che la opprimeva e la attraeva allo stesso tempo, Glorfindel le ricordava terribilmente il Re di Bosco Atro. Ciò nonostante, i due elfi erano completamente diversi: c’era qualcosa che trascendeva i limiti della sua comprensione, in quell’elfo dorato davanti a lei.
    Qualcosa che in Thranduil, per quanto antico e potente, non aveva scorto.
    Qualcosa di pericoloso.
    –Vedi, Sillen- l’elfo calcò in modo suadente la S, lisciandosi la lucente chioma dorata –io non sono molto diverso da te.-
    Lei socchiuse gli occhi: ultraterreno. Mai come in quel momento una parola le sembrò più azzeccata.
    -Per questo sapresti come aiutarmi, mio signore? Perché siamo simili?- Lo apostrofò lei, seguendolo con lo sguardo. Quello non si scompose, ignorando il tono piccato della stella.
    Pareva davvero deciso a darle una mano, dopotutto.
    –Sono stato un elfo come tanti, un tempo. Un Vanyar[1] potente, un elfo nobile, valoroso oserei dire, ma pur sempre un elfo.-
    Sillen, suo malgrado, registrò quelle informazioni rapidamente, senza lasciarsi sfuggire una singola parola. Lo vide sorridere deliziato, quasi avesse intuito con quanta attenzione lei stesse ascoltando; quasi come la cosa gli fosse estremamente gradita.
    –Non sono più quell’elfo, da ben due Ere. Ma lascia che ti racconti, in poche parole, la mia storia.-
    Prese a passeggiare nella stanza spoglia, rifulgendo come una fiamma viva tra le rocce, completamente a suo agio nel ruolo di protagonista. Quando cominciò a raccontare sembrò perdersi totalmente nei ricordi e Sillen, inevitabilmente, finì ben presto per entrare in essi insieme a lui.
    -In passato, durante la Prima Era, il nome con cui ero conosciuto non era Glorfindel di Imladris, bensì Glorfindel di Gondolin, Signore della Casa del Fiore d'Oro. Ero un Principe, un valoroso guerriero delle Dodici Case di Gondolin e di Re Turgon. Combattei per lui talmente tante battaglie da aver perso il conto, sai? In una battaglia però, capitò qualcosa per la quale non ero affatto preparato: finii per morire.-
    Sillen rimase pietrificata ma Glorfindel, dopo una breve pausa per dare enfasi alle sue parole, continuò: -Non che non fossi già da tempo sceso a patti con la morte, intendiamoci, né fu una morte disdicevole. Perii valorosamente per mano del peggior nemico che avessi mai affrontato, un Balrog di Morgoth.-
    I suoi occhi tradivano le forti emozioni che attraversavano la sua mente a quei ricordi e la stella non riuscì a proferire parola.
    –Non me ne andai senza compiere la mia missione: lo uccisi, trapassai il suo disgustoso corpo di fuoco e malvagità da parte a parte. Tuttavia, finii per vagare nelle Sale di Mandos senza nemmeno il tempo di accorgermi che fossi morto.-
    Chinò appena il busto verso di lei e Sillen, rimasta seduta a terra, si tese all’indietro, sgranando ancora di più i grandi occhi violetti.
    -Io sono nato a Valinor, sai? Lo so per certo, eppure non ricordo niente di Valinor. Non ricordo nulla di come questa fosse prima del mio arrivo sulla Terra di Mezzo e non ricordo nemmeno le Sale di Mandos. So solo che, dopo avermi restituito il mio corpo immortale, i Valar mi hanno ritenuto degno di tornare qui, ero necessario: il mio destino non era ancora compiuto.- I suoi magnetici occhi dorati si tinsero di una sfumatura malinconica.
    -Ovviamente, nessuno chiese il mio parere. Il fatto che io fossi stanco, che non intendessi prendere nuovamente parte ai problemi di questo mondo, non interessò a nessuno. Comunque, anche se fosse stato, non avrei detto nulla, allora, non mi sarei opposto. A che scopo? I Valar vedono scritto il mio destino da sempre, è tutt'ora scritto, chi sono io per contraddirli, chi ero a quel tempo?-
    Lo capiva la stella, quello che l’elfo stava dicendo. E le dispiaceva quasi, per quella costrizione che Glorfindel aveva dovuto subire. Tuttavia -Perché lo stai raccontando a me?- chiese, la voce improvvisamente debole.
    -Non desideravi sapere perché io sono l’unico in grado di aiutarti, Sillen?- Rispose lui, lapidario. -Ciò che ti sto raccontando non ti suona forse familiare?-
    Sillen si toccò distrattamente il viso e sobbalzò: nemmeno si era accorta delle lacrime che scendevano silenziose sulle sue guance.
    L’elfo strinse gli occhi, fissando quelle lacrime inopportune: -A causa dei divini Valar sono tornato qui, più forte, più potente. Altre due Ere sono trascorse e altre battaglie ho combattuto. Ho visto sorgere e cadere maestosi regni e grandi sovrani e ancora mi appresto a combattere l’ennesima battaglia. In vero, potevo non rispondere alla tua chiamata, potevo riposare. Invece sono qui. Sai perché, Sillen?- Lei si coprì il viso con le mani, realizzando frammentariamente ciò che l’elfo le stava dicendo. Si ritrovò con il fiato mozzato, a piangere come una bambina.
    Sì, quello che le stava raccontando le era familiare.
    Dannazione, lo era.
    Glorfindel si accucciò di fronte a lei, carezzandole la testa con la stessa delicatezza che avrebbe riservato al più fragile dei fiori.
    -Sono qui perché, dal primo momento che ho udito la tua storia, ho capito che sei esattamente come me. Perché so come ti senti. Perché so cosa vuol dire essere sbattuti su questa terra con un destino scritto. Perché, dalla prima volta che ti ho vista, riesco a sentire dentro di te lo stesso potere maledetto che scorre dentro di me. Ma soprattutto- Sollevò il mento della stella con le dita, catturando il suo sguardo disperato -sono qui perché so quanto desideri soddisfare questo destino, quanto non riesci a sottrarti da esso. Siamo qui perché entrambi eravamo destinati a esserci. Siamo identici, Stella dei Valar.-
    Lei scosse la testa ma ogni sua convinzione rotolò su sé stessa senza freni, scivolandole via dalle mani.
    Fu come scoprire che la realtà, sino a quel momento, fosse stata solo una porta chiusa.
    E Glorfindel aveva prepotentemente distrutto i suoi cardini.
    La stella non riuscì a controllare la propria violenta reazione e, se il Vanyar non l’avesse stretta tra le braccia, era certa che sarebbe crollata in pezzi. Contro il petto dell’elfo, Sillen gridò e pianse senza ritegno per lunghi e strazianti minuti.
    Ecco ciò che aveva dentro da sempre, dal momento in cui era caduta su quella meravigliosa terra: vi erano ribellione e sottomissione, collera e amore, disperazione e speranza.
    I Valar l’avevano creata, le avevano donato vita e pensiero e ora la incatenavano a un destino che non voleva, ma al quale non riusciva a voltare le spalle.
    Aveva lasciato il Reame Boscoso, Emlinel… Thranduil.
    Tutto pur di perseguire una sorte che non aveva scelto.
    -Io non lo sapevo, non avevo capito niente, niente-
    Glorfindel la prese per le spalle, guardandola fermamente negli occhi: -Ora, Sillen, devi ascoltarmi.- Lei fissò i suoi occhi dorati, cercando di fermare le lacrime. –L’unico modo che abbiamo per controllare un potere come il nostro è renderlo parte di noi. Esso non è altro rispetto a te, sei stata creata nella tua interezza per poterlo dominare. Rendilo parte di te, Sillen, o esso ti schiaccerà.-
    La stella s’immobilizzò, la testa che si svuotava velocemente: quell’energia indomita, bruciante e complessa era davvero parte di lei? Poteva davvero contenere in sé tanta forza?
    La risposta era più che evidente e, nel momento in cui realizzò, il suo viso sconvolto si distese lievemente.
    Glorfindel le sorrise, cogliendo i suoi pensieri. Quell’elfo spaventoso, arrogante e sfacciato le aveva infine aperto gli occhi.
    Lui la lasciò, poi prese la candela accesa e sedette di fronte a lei, tendendola all’altezza del cuore: -Ora, spegni la fiamma, Sillen.-
    La stella deglutì, torcendosi le dita per l’apprensione.
    Come se riuscisse a leggerle nel pensiero, l’elfo sorrise con fare rassicurante: -Adesso sai cosa devi fare. Avanti, non mi alzerò da qui finché non spegnerai questa fiammella.-
    Sillen incrociò le gambe, allontanandosi un po’ di più dall’elfo e chiudendo gli occhi. Rivide la massa di energia muoversi turbolenta dentro di lei e allungò la mano. La sentì invaderle il corpo. Questa volta però, sapeva che ci sarebbe riuscita.
    Lo sapeva perché, dopotutto, quello era il suo destino. Ne era capace perché era stata creata per farlo. E l’evidenza di ciò era tanto crudele quanto innegabile.
    Fissò l’elfo dai capelli d’oro, afferrò con forza l’energia dentro di sé e i suoi occhi divennero pura luce. Strinse i denti e, invece che sprigionare il suo potere, immaginò di inserirlo a forza dentro la pietra viola che portava al collo. Come se ciò stesse accadendo davvero, questa s’illuminò e prese a sollevarsi dal suo petto, levitando quasi parallelamente al suolo.
    Glorfindel strinse gli occhi, compiaciuto, e la stella mosse appena la testa: la fiamma fu spenta di netto.
    Quando nella stanza piombò il buio, Glorfindel le consegnò la candela intatta, alzandosi in piedi. –La Stella dei Valar ha davvero un potere fuori dal comune.-
    Questa, sorpresa, si rigirò la candela tra le mani.
    Ora tutto era chiaro: si era sempre concentrata sul perché dovesse realizzare il suo destino, senza capire che avrebbe dovuto solo pensare al come.
    Il destino non necessitava motivazioni, né compromessi.
    Allo stesso modo, il suo potere era parte di lei, non uno strumento a sé stante che doveva imparare a mettere al servizio di una qualche causa. Poteva sfruttarlo al pari di una mano o una gamba, perché non poteva fare altro.
    Il suo fine, non il suo mezzo.
    Legata alla sua criptica profezia, la Stella dei Valar adesso sapeva che il suo unico compito era combattere per gli abitanti della Terra di Mezzo. Non vi era spazio per i desideri, per le emozioni, per i dubbi, per la rabbia. Doveva solo combattere.
    E tanto sarebbe bastato, fino al compimento del suo destino.
    Suo malgrado, sorrise, improvvisamente sollevata.
    -Compirò il mio destino. Poi, potrò cominciare a vivere.-
    A quelle parole, tuttavia, il Vanyar non osò rispondere.

    Qualche ora dopo, Sillen entrò nella Sala delle Riunioni a testa alta e prese posto a capo del lungo tavolo di legno massello al centro della stanza. Gli alleati stavano animatamente parlando tra loro, tesi e preoccupati e a malapena la notarono.
    Sillen, dunque, spostò rumorosamente la sedia, attirando l’attenzione su di sé. Sedette con grazia e lasciò vagare il suo sguardo su occhi dubbiosi ed espressioni corrucciate, prima di parlare: -Tra quanto saranno ultimati i preparativi per l’assedio?-
Faramir le passò con un lieve inchino il resoconto dell’organizzazione e la stella si prese tutto il tempo per leggerlo, con minuzia estrema.
    Fuori dalla finestra regnava il caos: tendoni adibiti a mo’ di fucina costeggiavano le mura, invadendo la città di fumo e di assordante clangore metallico; Uomini, Elfi e Nani gridavano ordini nelle più disparate lingue e i cavalli nitrivano e scalpitavano senza sosta.
    La stella non aveva mai avuto a che fare con un impegno del genere ma adesso le parve facile comprendere e ragionare e sentiva come se da sempre fosse stata in grado di fronteggiare il peso del suo incarico.
    Attorno a lei, i generali alleati la fissavano impazienti. Alatar, Re Elessar, Re Thorin Elminpietra, éomer, persino il giovane Elboron, tutti aspettavano una sua presa di posizione.
    –Tutti gli abitanti sono giunti al sicuro.- Le fece Legolas, fedelmente seduto al suo fianco. Sillen annuì, posando il plico di fogli: -L’ultima volta abbiamo chiarito la disposizione dell’esercito, la preparazione dei fossati e quella delle mura.- Si alzò improvvisamente in piedi e nella stanza cadde il silenzio.
    -Ma c’è altro da chiarire. Ho rimandato questa parte del mio piano perché non ero sicura di me stessa. Vi chiedo scusa per questo.- Tutti la fissarono sbigottiti, perché i suoi occhi adesso rilucevano di pura luce bianca. Lei respirò a fondo e sorrise.
    -Ora vi dirò come distruggeremo il nemico.-

 
 
[1] Glorfindel è un Vanyar per mia iniziativa XD Non è specificato dal Professore -che io ricordi- ma in teoria dovrebbe essere un Noldor (che solitamente hanno i capelli scuri, i biondi sono delle eccezioni, come Galadriel e Glorfindel appunto, dipende dalla discendenza). Nulla togliere ai Noldor, sono più che potenti, hanno una magnifica storia e vantano personaggi incredibili, lo so bene ahaha Silmarillion perdonami ^-^
Semplicemente, volevo rendere Glorfindel molto “mio”, e sono affascinata dalla superiorità assoluta di questi Vanyar, che più di tutti conservano la luce di Valinor. Per questo il mio personale Glorfindel contiene un tipo di potere molto primordiale, che lo rende tanto diverso dagli altri elfi descritti dal professor Tolkien. E per questo è unico, perché i Vanyar non si trovano sulla Terra di Mezzo da dopo la Guerra d’Ira u.u
Ho fuso uno dei personaggi che mi hanno incuriosita di più con un mio personaggio inedito, ecco XD  So che non era necessario definirlo come Vanyar, però volevo vederlo così, gratuitamente proprio. Fatemi sapere se avevate colto la modifica, se vi ha intrigati o infastiditi (nuooo, che cosa hai fatto, profanatrice, che bestemmia, meretrice!!) e accetterò ogni commento eheheh
 
 


N.D.A

Ecco, oggi pubblico due capitoli, per farmi perdonare! La lunga assenza è stata necessaria ma sono felice di potermi finalmente dedicare alla storia. Spero che questi due capitoli vi piacciano ;) 
Fatemi sapere cosa ne pensate,
la vostra Aleera.
 
 

 

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Capitolo 17
*** Vulcano ***


 
 
-Vulcano-


    Galion attraversò il corridoio velocemente, corrucciato. Era tutta la notte che correva da una parte all’altra del Palazzo, per risolvere assurdi problemi di cui prima ignorava l’esistenza.
    Il Re era davvero efficiente e ora più che mai, suo malgrado, il silvano se ne rendeva conto.
    Aveva sempre considerato il Reame Boscoso un luogo tranquillo, ordinato, incorruttibile, dove ognuno occupava un posto ed un compito ben preciso. Tutto scorreva con minuzia estrema, come un complesso ingranaggio ben oleato. E Galion sapeva di essere una pedina importante, in quell’ingranaggio: era il consigliere del Re. Tutto doveva passare attraverso la sua sorveglianza ed era certo che ogni cosa fosse ben gestita proprio perché era lui in persona a occuparsene.
    Thranduil, dal canto suo, non doveva fare altro che starsene sul suo Trono e leggere qualche rapporto, pensava.
    Eppure, era bastato che il Re si assentasse per qualche giorno per fare in modo che l’intero sistema crollasse su sé stesso. A discapito di quanto Galion potesse sproloquiare in proposito, Thranduil era la colonna portante di quel luogo, dove vigevano le sue regole e la sua assoluta autorità.
    Lui, che come nessun altro conosceva ogni dettaglio e sfaccettatura del Bosco, era da sempre il perno su cui tutto il loro mondo si costruiva e Galion, il consigliere, di certo non poteva competere.
    In ogni momento si presentava un nuovo problema, ogni ora arrivava nuova documentazione, e l’elfo si era trovato solo e responsabile di ogni faccenda senza essere minimamente preparato. I capi della guardia non lo rispettavano, i saggi lo ignoravano, i più influenti lo criticavano.
    Non avrebbe resistito a lungo.
    In un moto di stizza, Galion accartocciò i documenti che teneva tra le mani: era tutta colpa di quella donna, la stella. Quanto la odiava, era la causa di tutti i loro mali. Il Re non era più tornato ai suoi doveri, per colpa sua. Se solo non fosse mai entrata nella sua vita…
    Immerso nella sua cinica elucubrazione, l’elfo raggiunse l’armeria: -Dunque? Qual è il problema?- Sbottò arcigno, squadrando l’elfo dai capelli castani davanti a lui.
    Questo, appoggiato al muro con fare annoiato, indicò con un gesto del capo l’enorme librone sul tavolo: -All’inventario mancano molte cose.- Galion, che non aveva tempo da perdere, sollevò il mento: -Cosa manca di preciso?-
    L’altro scrollò le spalle: -Molte cose.-
    -Sono cose importanti?-
    -Non sta a me dirlo. Io mi limito a fare gli inventari.-
    Galion si trattenne dal pestare i piedi per terra e liquidò la faccenda sbrigativamente: -Bene. Più tardi me ne occuperò.- Non si sarebbe sorpreso nel venire a scoprire che anche quella segnalazione era solo un grosso scherzo: ultimamente, capitava spesso. Capitava persino prima, seppur per faccende di poca importanza, perciò sapeva bene di non godere di grande simpatia negli altri subordinati del Reame.
    Diede le spalle all’elfo annoiato e uscì nuovamente nel corridoio, questa volta diretto alla biblioteca principale. Questa si trovava svariati metri più in superfice e altrettanti più a Sud dell’armeria e per arrivarvi era necessario aggirare le caverne centrali e uscire all’aperto. Galion superò le guardie della ronda notturna e imboccò la strada in salita, massaggiandosi le tempie.
    Proprio quando l’aria notturna stava riuscendo ad alleviare il suo mal di testa, un elfo minuto sbucò da un portoncino laterale e gli corse dietro, trafelato: -Mio signore Galion, c’è una cosa che devi assolutamente sapere!- La vocetta fastidiosa del giovane elfo dilaniò i nervi di Galion, già a fior di pelle da ore: -No, ti prego! Non ho tempo, qualsiasi cosa sia può aspettare!-
    Erano ore che tentava di sfuggire a quell’elfo invadente ma questo aveva preso molto seriamente il suo nuovo incarico d’intendente del consiglio reale: -Ma mio signore, è importante. Il capitano ha detto a Ciriel di riferire a Sòren di venire da me per riferirti che il capitano ha scoperto che la guardia-
    -Ho detto che non è il momento!- Sbottò Galion, esasperato.
    L’altro si risentì, stringendo i taccuini al petto ossuto: -Questo non è un comportamento degno di un consigliere, se permetti.-
    Era davvero troppo. Galion si voltò di scatto e gli puntò il dito contro, perdendo infine il suo regale contegno: -Bada a come parli, Ladir! Sei solo un intendente, cosa vuoi saperne tu! Io ho tra le mani l’intero Reame, hai capito? Il Re l’ha affidato a me! Voi tutti siete dei buoni a nulla che hanno solo bisogno di attenzioni, non sapete fare niente senza il mio aiuto!- L’altro alzò un sopracciglio, perplesso: -Come vuoi. Comunque volevo solo dirti che Felon ha lasciato il suo posto di guardia. È sparito.-
    Galion rimase immobile, la bocca ancora aperta e il dito fermo a mezz’aria: –N-ne siete certi?- Ladir annuì e Galion sentì il peso di tutto quel lavoro schiacciarlo definitivamente al suolo.
    -Da quanto è sparito?- L’elfo si lisciò una ciocca ramata tra le dita, riflettendo: -Il fatto è che al momento del cambio della guardia, un’ora fa, lui non si è presentato e ancora non lo abbiamo trovato da nessuna parte. Abbiamo cercato persino nelle cucine. Dunque non è facile dire quando sia sparito di preciso, potrebbero essere passate ore e ore o magari è successo qualcosa solo una manciata di minuti prima del cambio della guardia.- Galion respirò profondamente. Per quanto lo disprezzasse per il suo carattere docile e gentile, Felon era un elfo diligente, dei più seri e fedeli che conoscesse, non si sarebbe mai allontanato dalla postazione di guardia.
    Non senza un valido motivo, almeno.
    L’ipotesi più probabile era una sola: -Dai l’allarme, Ladir. Felon è stato catturato, oppure attirato fuori dai nostri perimetri.-
    Per la prima volta, Ladir sembrò prenderlo sul serio: -Un attacco adesso? Non potrebbe essere solo-
    -Non discutere i miei ordini, vai!- Ordinò Galion, alzando la voce e Ladir corse via senza farselo ripetere ancora. Un remoto angolo della mente di Galion gioì dell’accaduto: forse, con un allarme a notte fonda, il Re si sarebbe riscosso dal suo torpore per riprendere in mano la situazione e lui sarebbe finalmente tornato a dirigere i turni di guardia, consegnare i documenti e battibeccare con i messaggeri.
    Corse verso la Sala dei Capi della guardia, deciso a mobilitare tutte le forze necessarie a rendere la faccenda ancor più drammatica. Subito, nel palazzo si diffuse la notizia: gli abitanti si riunirono nelle Sale del Mercato per dirigersi compostamente ai livelli più bassi, al sicuro dall’ipotetica minaccia esterna, mentre le guardie monitoravano ogni angolo e strada del Reame, vigili.
    Galion sorrise, finalmente libero dalla tediosa burocrazia di poco prima. Una volta che tutti furono sistemati al proprio posto, l’elfo si diresse verso la Sala del Trono, impaziente di mettere al corrente il Re del suo meticoloso operato.
    Immerso nei suoi pensieri, passò distrattamente davanti ad una stanza vuota, la cui finestra dava sulle fronde ondeggianti degli alberi del bosco.
    Chiunque altro avrebbe tirato dritto ma non Galion.
    Per quanto non fosse cosa risaputa, l’elfo vantava una vista fuori dal comune, persino per la sua razza. Era stata quella vista a salvare il Re da una freccia potenzialmente letale, durante una rappresaglia di molti decenni prima, ed era stato proprio quell’episodio a renderlo il consigliere reale.
    E fu quella stessa vista che, adesso, gli permise di individuare a colpo d’occhio la figura scura appollaiata nel buio, dietro i rami spessi dell’albero.
    Si fermò, con i muscoli tesi: la minaccia era reale, allora.
    Forse quello era il rapitore, o peggio, l’assassino di Felon.
    Con passo felpato, Galion entrò nella stanza buia e si avvicinò alla finestra, facendo scivolare una mano nella casacca. Sapeva che era una mossa rischiosa ma se fosse corso a chiamare rinforzi, era certo che quell’individuo sarebbe scomparso: doveva agire subito e da solo. Strinse il pugnale nella mano destra e, con un respiro profondo, balzò oltre il davanzale, dritto sulla figura scura. Questa, colta di sorpresa, si sbilanciò all’indietro ed entrambi piombarono verso il basso, colpendo i rami sottostanti per poi atterrare malamente sull’erba umida.
    Tentoni, Galion afferrò il mantello della figura e la spinse a terra, violentemente. Dopo una breve lotta, riuscì a immobilizzare l’avversario, salendo cavalcioni su di lui e premendogli il coltello affilato sulla gola scoperta: -Dimmi chi sei, maledetto!- Sibilò, avvicinando il viso a quello celato dell’altro.
    Con un gesto secco, strattonò il cappuccio.
    Per un secondo, pensò di aver preso un abbaglio, un’allucinazione davvero esilarante.
    Poi sbatté le palpebre, una, due volte.
    Sotto di lui, premuto contro la terra fredda, c’era Felon.

    -Galion, lasciami.- Si divincolò Felon, ignorando le due guardie che li seguivano con gli archi in pugno. L’altro continuò ad avanzare imperterrito, strattonandolo per un braccio.
    –Galion, tu non capisci!- Felon cercò nuovamente di allentare le corde che gli stringevano i polsi dietro la schiena ma Galion le aveva legate ben strette. L’elfo gentile sentì la rabbia per il suo fallimento attanagliargli le viscere e scorgere i profili tetri della Sala del Trono non fece altro che accrescere la sua disperazione.
    Galion lo tirò dietro di sé, lungo le scale a chiocciola attorno all’immenso tronco, senza che un fremito turbasse la sua espressione glaciale.
    La Sala del Trono del Reame Boscoso era avvolta dalla penombra: non un rumore, non un alito di vento aveva alterato l’immobilità di quei luoghi per giorni. Forse fu per questo motivo che i loro passi e i loro respiri pesanti risuonarono nel vuoto in echi quasi assordanti.
    Come pietrificato sul maestoso trono, il Re degli Elfi assisteva alla corta processione. Nonostante la posa scomposta e il viso rilassato, dietro gli occhi socchiusi di Thranduil si agitava un fuoco spaventoso e nessuno in quei lunghi giorni aveva trovato il coraggio di disturbare la sua apparente quiete.
    Fino a quel momento.
    Galion avanzò verso di lui e costrinse Felon in ginocchio, ai suoi piedi: -Mio signore Thranduil.- Iniziò il silvano, senza alcuna esitazione. La sua voce era dura e fredda come roccia: -Costui, Felon, capitano della guardia del Reame Boscoso, si è macchiato di alto tradimento verso di te, la tua corona e il tuo regno.- Felon sollevò la testa, digrignando i denti ma Galion lo costrinse ad abbassarla con una violenta pressione della mano.
    Thranduil si mosse appena, spostando lo sguardo tagliente prima sul suo consigliere poi su Felon. Tornò a guardare Galion poco dopo, il viso simile a una maschera di pietra: -Che accusa altisonante, Galion.- Sussurrò, con voce tanto roca da far rabbrividire i presenti. L’altro mantenne salda la sua determinazione: -è un traditore. Stava tentando di fuggire.-
    Thranduil contrasse la mascella: quel discorso lo turbava. E lui non voleva essere turbato, non voleva pensare a niente. Perché quei due lo importunavano con quei miseri, fastidiosi teatrini?
    –Fuggire? Da cosa?- Il suo nervosismo si estese intorno a lui, avvolgendo i due elfi al suo cospetto. Galion sentì i peli rizzarsi sulla nuca ma strinse i pugni, cercando di non farsi intimorire.
    -Mio signore, tentava di fuggire dai suoi doveri, di nascosto, rubando nelle armerie.- Gettò ai piedi del Trono tutte le armi requisite a Felon, le stesse che risultavano scomparse dall’inventario di poche ore prima. Thranduil le guardò, poi fissò Felon, questa volta con più insistenza.
    L’aria nella Sala stava diventando sempre più irrespirabile e il turbamento psichico dell’immenso e immobile Re li stava schiacciando inesorabilmente. Ecco, la reazione che Galion aspettava da tempo: il ribollire di un vulcano di braci ardenti che aspettava solo un buon pretesto per eruttare.
    –Avrebbe rubato un cavallo e sarebbe uscito dai nostri confini senza il tuo consenso, mio Re.- Continuò.
    –Allora gettalo nelle caverne sotto la collina, com’è giusto che avvenga.- Alzò la voce, l’altro. Ormai, nella sua mente si era insinuato il dubbio e la domanda aleggiava tra loro: perché Felon aveva cercato di andarsene?
    Thranduil non voleva ascoltare. Temeva la risposta e temeva la reazione del sé stesso che l’avesse sentita.
    Galion invece, sollevò il viso di Felon tirandolo per i capelli, annientando le speranze del Re elfico: -Prima lui vi deve dire perché.- Felon fremette, guardandolo con odio.
    –Dillo.- Ordinò Galion.
    Thranduil, ancor prima di ascoltare le parole dell’imputato, cominciò a tremare. Rivide dolorosamente quelle scene passate che tanto odiava e una più di tutte irruppe prepotentemente nella sua mente: il sorriso sul viso adorante di Felon alla vista di… di lei. Felon stava fuggendo, armato, solo per un motivo.
    Gli occhi taglienti del Re incatenarono lo sguardo dell’elfo in ginocchio e questo non ebbe vergogna nell’ammettere le proprie colpe con veemenza: -Sarei fuggito, sì. Avrei affrontato miglia e miglia, da solo, per combattere al suo fianco. Ti avrei tradito mio Re. Avrei tradito il mio amore e la mia devozione verso di te per andare da lei.- Galion sorrise soddisfatto, lasciando cadere a terra i foglietti sgualciti che teneva in tasca: -Ecco le prove. Ha tenuto tutti i resoconti dei corvi dell’Ovest che tu ordinasti di bruciare. Vi sono segnati i nomi degli alleati di quella donna, i loro eserciti, i loro movimenti, le loro intenzioni. Pianificava di tradirci da settimane.-
    -Dal momento stesso in cui lei è partita per la battaglia senza di noi!- Gridò Felon, furioso. –Leggi i nomi, mio signore Thranduil. Nani, Uomini, Aquile! Guarda cosa Sillen sta facendo per salvare il nostro mondo, per salvare noi!- La lama elfica di Thranduil fendette l’aria con un sibilo terribile e si fermò a un soffio dalla gola di Felon, che si zittì, sudando freddo.
    –Non dire quel nome.- Sussurrò Thranduil, talmente piano che i due quasi non lo udirono. Il Re degli Elfi tremava, il viso adombrato e nascosto dai lunghi capelli argentei.
    Sembrò sul punto di parlare di nuovo ma non lo fece.
    Galion attese, rigido e spaventato, eppure esaltato dalla furia del suo Re. Sapeva bene che quello era un momento di estremo pericolo anche per lui: in occasioni simili, Thranduil non faceva differenze, non risparmiava nessuno. Mai.
    Arretrò silenziosamente, ringraziando gli dèi di non essere al posto di quel traditore che, con un solo, folle atto, aveva commesso gli unici due crimini che Thranduil non poteva tollerare: tradire il suo prezioso Reame e nominare lei.
    No, forse aveva appena inventato il crimine peggiore di tutti, quello che nessun elfo silvano avrebbe mai potuto compiere contro Re Thranduil: tradire il suo Regno per lei.
    Quale immane bestemmia.
    –Galion.- L’elfo sobbalzò quando udì la voce del Re pronunciare il suo nome: -Mio signore?-
    -Vattene.-
    Felon gli lanciò uno sguardo impotente ma Galion lo ignorò, inchinandosi profondamente e girando i tacchi: -Sì, mio signore.-
    Quando i passi del consigliere e delle due guardie furono solo un lontano ticchettio, Felon si mosse lentamente, cercando di allontanarsi dalla lama elfica del Re. Thranduil rimase immobile, stringendo l’elsa tanto da far sbiancare le nocche.
    Cercava di combattere contro il desiderio di affondare quella spada nel cuore dell’elfo davanti a lui. Vedeva le proprie mani imbrattarsi di sangue brillante mentre spingeva l’arma nel suo cuore, fino in fondo: dopotutto, perché non farlo? Poteva giustiziarlo, aveva le prove che testimoniavano il suo tradimento, persino la sua confessione servita sul piatto d’argento.
    L’aveva fatto altre volte, senza esitare.
    Sollevò lentamente il viso, incontrando gli occhi castani di Felon. Appena il silvano lo vide in faccia spalancò gli occhi e boccheggiò impaurito, cadendo all’indietro. Lo spavento fu tale da strappargli un breve grido di terrore: il viso di Thranduil era orribilmente sfigurato. A fatica, Felon si ritrovò a fissare l’occhio sinistro del Re degli Elfi, pallido e vitreo e rabbrividì nel vedere da così vicino le profonde ferite che scavavano solchi scheletrici nella sua guancia pallida.
    Thranduil non si curò di quegli sguardi disgustati. Felon sarebbe morto, la sua opinione non aveva mai contato nulla e non avrebbe di certo incominciato a contare adesso.
    Sollevò la spada senza distogliere lo sguardo: voleva guardare negli occhi quel traditore, mentre lo squartava. Con forza, calò il braccio ma Felon si protese tenacemente verso di lui: -Cosa penserebbe Sillen di questo?!- Urlò. Thranduil bloccò il suo gesto mortale, soffiando furiosamente: -Stai zitto.-
    Felon non demorse, tremando di puro terrore: -Io non posso immaginare cosa provi, mio signore. Non so che cosa sia successo tra voi. Ma so che lei ha cambiato tutti noi, non è vero?-
    Thranduil fremette ma non riuscì di nuovo a muoversi. –Tu sei troppo saggio per non averlo capito. Lei è una creatura divina ed è qui per un volere più grande del nostro. Non poteva restare e ignorare il proprio destino.- Continuò Felon, le lacrime che cominciavano a rigargli le guance affilate. I suoi capelli bruni e scompigliati gli incorniciarono il viso sporco: -Sai che non seguirla è stato un errore, che potrebbe costare caro alla nostra gente. Lei ha bisogno di noi. Potrebbe…- Le sue labbra morbide tremarono e Thranduil le fissò, come ipnotizzato: -Potrebbe morire.- Singhiozzò Felon.
    L’altro strinse gli occhi a due fessure e un’espressione indignata gli deformò il viso sfigurato: -Tu la ami.- Non era una domanda, era una sentenza. Felon scosse la testa con forza: -Non oserei tanto, mio signore. Solo, da quando ho capito chi è, le sono stato devoto. Me l’hai insegnato tu, mio Re. Mi hai insegnato a combattere per il bene del mio popolo.- Thranduil nemmeno si accorse che dal suo occhio senza vita stavano scendendo pesanti lacrime salate, che s’inseguivano dentro le profonde cicatrici.
    –E credo che lei sia quel bene. Per questo non posso restare qui ad aspettare con le mani in mano.- Poi, per un secondo, la paura lasciò spazio alla frustrazione: -Per così tante volte ti ho chiesto udienza ma tu non mi hai mai permesso di parlare! Sarai la rovina del tuo stesso regno! Perché almeno non ammetti che anche tu vuoi rivederla ancora una volta!?- Un solo ringhio profondo spezzò il respiro del Re, poi calò con violenza la spada argentea sull’elfo ai suoi piedi.


 


N.D.A
Ciao a tutti! Spero tanto stiate tutti passando questo terribile momento nel miglior modo possibile. Nel mio paesino vige il silenzio in questi giorni e ho colto la triste occasione per concentrarmi sulla fan fiction e volare nella Terra di Mezzo. Non che in questo momento se la stiano passando meglio XD
Okay, è vero, dalla scorsa volta non ho mai più aggiornato, faccio mea culpa. Ma ora che sono costretta a rimanere a casa, non ho più scusanti valide! Quindi eccomi qui, di nuovo, un po’ più motivata e un po’ più cupa hihi.
Spero di farvi compagnia con questi primi capitoli (e con quelli che verranno, questa volta non mento :3)
Che dire, facciamoci forza.
Alla prossima!
Aleera <3

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Capitolo 18
*** Mithril ***


-Mithril- 



    Sillen strinse le braccia al corpo, rabbrividendo: per un secondo, un’orribile sensazione le aveva attanagliato lo stomaco, al pari di un cattivo presagio. Glorfindel, al suo fianco, si accorse del suo turbamento e –Tutto bene?- chiese, sorridendo.
    Lei annuì, respirando a fondo: -Sì. Solo una strana sensazione.-
    L’altro la fissò per un istante con i suoi magnetici occhi dorati, come a scandagliare i suoi pensieri: -Riguarda la battaglia?- La stella scosse la testa e Glorfindel le strinse appena una spalla, poi la lasciò continuare con ciò che stava facendo.
    Con la mappa dispiegata sul tavolo, Sillen tornò a illustrare il suo piano, concentrata. Senza fiatare, i generali si erano alzati a loro volta, per seguire più attentamente gli spostamenti delle pedine che la stella teneva tra le dita.
    Quando la sua spiegazione fu terminata, Sillen incontrò le facce perplesse dei suoi compagni: era consapevole che il suo piano non fosse proprio quello che loro si aspettavano.
    -Ma mia signora, come possiamo trarli in inganno? Se ne accorgeranno, non c’è speranza di riuscita.-
    L’affermazione di éomer non turbò la stella: -Potranno anche capire che c’è qualcosa di strano ma in nessun modo riusciranno a trovarvi e questo è l’obbiettivo. Non avranno altra scelta che concentrarsi su di me.-
    Elessar guardò a lungo le pedine opache prima di parlare ma, quando lo fece, i suoi occhi erano accesi da un bagliore carico di aspettativa e catturarono quelli d’ametista della stella: -Questo piano è folle ma potrebbe funzionare. Le Aquile sono efficienti e nessuna spia nemica è ancora riuscita a entrare a Gondor. E, soprattutto, loro non si aspettano questa mossa, non da noi.-
    Éomer e Faramir non ribatterono, sicuri che Elessar avrebbe preso la decisione giusta per tutti loro.
    Intanto Alatar, che accarezzava distrattamente il petto piumato di Lelya, fissava la mappa con le sopracciglia aggrottate, per nulla convinto. Sillen, che aspettava solo una sua reazione, lo interrogò con lo sguardo e lui sospirò: -Mi fido di te, Sillen. Se sei certa che il piano funzioni, farò come hai chiesto.-
    Lei serrò la mascella: avrebbe funzionato, doveva funzionare.
    –Bene, se avete altre domande, è il momento di parlare. Legolas lanciò uno sguardo dubbioso al Re di Gondor: –Aragorn?-
    -Lo so, Legolas. Speravo anch’io di evitare un’azione simile, ma non abbiamo tempo per l’indecisione, adesso.- L’elfo annuì, posandogli una mano sulla spalla. –Se per te è la cosa giusta, ti seguirò.- Elessar sorrise battendogli una mano sulla spalla a sua volta: -Hannon le, Legolas (grazie).- Lasciò l’elfo ai suoi pensieri e raggiunse gli alleati, che ancora discutevano animatamente davanti alle carte.
    -Quello che più mi dà sui nervi è non sapere contro chi stiamo combattendo!- Esclamò Éomer, quando il Re fu vicino.
    Sillen allargò le braccia: -Che possiamo fare? L’unica cosa certa è che ci sta sguinzagliando contro un’orda di orrende creature non morte.- Elessar tornò con la mente al primo scontro contro il nemico, al Nido delle Aquile: -Inoltre, fino a che Sillen non ha scatenato il suo potere, non siamo stati in grado di abbatterli.-
    -Sono non morti, come possiamo uccidere con spade e frecce qualcosa che è già morto?- Infierì Faramir, dando voce ai timori di tutti. I due signori di Imladris, Elrohir e suo fratello Elladan, intervennero con voce pacata: -Potrebbe non servire. Non subito, almeno.- Cominciò Elladan -Basterà renderli incapaci di muoversi.- Concluse Elrohir.
    -So che mozzare gli arti di centomila orchi, Uruk-hai e chissà cos’altro è impossibile ma ho bisogno di tempo per trovare l’origine di tutto e distruggerla, nient’altro.- Sentenziò Sillen.
    Alatar le puntò addosso i severi occhi grigi, scocciato: -Un gioco da ragazzi, no?- Lei sostenne il suo sguardo per un po’, caparbia, poi scosse la testa: -Che scelta abbiamo?-

    Intanto Glorfindel, con fare disinvolto, raggiunse l’elfo di Bosco Atro, rimasto solo davanti alla finestra di pietra: -Avo bresto, mellonamin (non preoccuparti, amico mio). Sillen sa quello che fa, non essere così pensieroso.- Legolas sollevò gli occhi al cielo.
    -Mani uma lle merna, Glorfindel? (che cosa vuoi?)-
    L’altro scosse le spalle, girandogli attorno: -So che Sillen è stata ospite di tuo padre per più di un mese, nel Reame Boscoso. Perciò, perdonami, ma mi sorge spontanea una domanda: dov’è l’esercito di Thranduil?-
    Il Principe degli elfi s’irrigidì e Glorfindel non si lasciò sfuggire il suo sguardo cupo: -Oh capisco, sai? Non verrà. Troppi rischi che il saggio Thranduil non vuole affrontare.-
    Legolas afferrò malamente il colletto dell’elfo dorato, tirandolo ad un soffio dal suo viso: -Non sono affari che ti riguardano, Glorfindel di Imladris.- Sibilò, facendo attenzione a scandire bene quell’appellativo che tanto sminuiva il passato dell’elfo.
    Questo sorrise sornione, senza lasciarsi intimorire: -Giusto… Sì, tuo padre si tiene ben lontano dagli affari altrui. Ma per una stella…- I suoi occhi corsero a Sillen, intenta a discutere con Elessar e Alatar, e Legolas seguì il suo sguardo –Dopo aver trascorso un mese insieme a lei, ha avuto il coraggio di cacciarla via così?- Legolas, suo malgrado, allentò la presa su Glorfindel.
    Era una domanda che si era posto spesso, doveva ammetterlo, e la stella non aveva mai dato loro una spiegazione agli eventi che le avevano permesso di lasciare il Reame. Adesso, Sillen aveva un’espressione tesa e preoccupata sul bel viso, ben più tirato e stanco di quando l’aveva conosciuta.
    Era una creatura pura e gentile e rischiava la vita insieme a loro, per loro, senza esitare: come poteva suo padre averla respinta così freddamente?
    Glorfindel tornò a guardare Legolas: -Qualsiasi cosa sia successa tra loro, deve averlo persuaso ad allontanarla. Voglio sapere cosa, la curiosità mi divora, sai? È così frustrante…-
    Legolas lo spinse via con espressione scocciata: -Ti ho detto che non sono affari tuoi. Sei inquietante.-
    L’elfo dorato si sistemò il colletto, sorridendo: -Tranquillo mio Principe…- Seguì con lo sguardo la stella che si allontanava in compagnia di Alatar: -Aiuterò Sillen, lei mi piace. E vinceremo la guerra, ne sono certo.- Legolas lo guardò, disgustato e furioso ma l’altro lo ignorò. –Alla prossima chiacchierata, mellonamin.-
    Gli lanciò un ultimo sguardo divertito, poi si allontanò dalla sala senza farsi notare.

 
    Sillen sospirò, appoggiandosi al parapetto del Cortile della Cittadella. Davanti ai suoi occhi si estendevano gli accampamenti degli eserciti alleati, ognuno contraddistinto dal proprio vessillo.
    Alatar le indicò l’accampamento di Thorin e dei i suoi nani: -Vedi quelle tende grigie?- Sillen aguzzò la vista: -Le fucine?-
    Lui annuì: -I Nani stanno forgiando armi ed armature da giorni. Sono abili in questo e possiedono ottimi materiali.- La sua bocca si curvò in un’espressione amara: -Credo dovresti chiederne una su misura. Ti servirà stellina. Eccome se ti servirà.-
    Lei si voltò verso di lui con un mezzo sorriso: -Hai detto di fidarti di me, Alatar.- Lui le lanciò uno sguardo indecifrabile, poi tornò a scrutare l’orizzonte. –Il tuo piano potrebbe funzionare. Dico davvero. Ma i rischi sono tanti.-
    Sillen strinse i pugni, determinata: –Posso farcela. So che non sono stata all’altezza, fino ad ora ma-
    -Non ho detto questo. Hai fatto del tuo meglio.- La interruppe, lo stregone. –E inoltre, ora potrai combattere davvero con i tuoi poteri, sarai una risorsa preziosa.- Lei si scostò i lunghi capelli scuri dietro la schiena. Chissà se anche lo stregone aveva affrontato la stessa, dolorosa consapevolezza con cui lei si era ritrovata a convivere: -Devo ringraziare Glorfindel per questo. Mi ha fatto capire… molte cose.-
    Alatar non fece domande ma la mente di entrambi era volata alla sera del primo duello della stella, durante il loro viaggio. Lo stregone aveva capito da subito il suo potenziale e lo scontro al Nido delle Aquile era stato la prova definitiva che i suoi sospetti fossero fondati.
    Per lo meno, adesso era libera di combattere con tutta sé stessa.
    Sillen si accarezzò la collana distrattamente, mordicchiandosi il labbro inferiore: -Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo, riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia.- Rifletté, cercando di scacciare dalla mente l’immagine della Sala delle Udienze del Reame Boscoso, dove aveva annunciato la profezia e dove…
    -Sono sulla strada giusta, vero Alatar?-
    Lo stregone sorrise, rassicurante: -Sì, direi di sì.-
    -Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male. Una prova… Ma quale? Più difficile che imparare a usare il mio potere, immagino.- Scosse la testa lei, esausta.
    Spesso si ripeteva quell’ermetica profezia nella mente sperando che, prima o dopo, un’illuminazione improvvisa la rendesse in grado di comprenderla: -La Stella di Valar porterà la pace. A caro prezzo. Questa è certamente la parte che mi terrorizza di più. Se io dovessi morire non- Non riuscì a finire la frase che Alatar sussultò vistosamente e, girandosi verso di lei, la abbracciò con forza. Sillen spalancò gli occhi ametistini, premuta goffamente contro il petto dello stregone. –Alatar?-
    -Dannazione, non dirlo mai più!- Esclamò lui. –Che i Valar mi fumino se io ti permettessi di morire.- La strinse per qualche secondo, poi la lasciò andare. Sistemò i vestiti già sgualciti, lisciò la corta barba brizzolata, poi si schiarì la voce, cercando di mascherare la sua preoccupazione.
    Sillen lo guardò senza dire niente, gli occhi ancora spalancati per la sorpresa. Quel gesto l’aveva commossa ma vedere lo stregone in imbarazzo le fece scappare un risolino quasi isterico.
Alatar si voltò verso di lei, grattandosi la testa: -Che cos’hai da ridere?- Lei premette forte le mani sul viso, per cercare di attutire la sottile risata.
    –Sì, prendi in giro lo stregone.- A quel punto Sillen scoppiò a ridere davvero, incapace di trattenersi oltre e Alatar finì per essere contagiato dalla sua risata.
    –Grazie, Alatar.- Sospirò lei, una volta sfogata tutta la tensione.
Lui le scompigliò i capelli amorevolmente: -Non sono forse qui per questo?-
    -Mhm, non credo che causarmi attacchi di risa isteriche rientri nelle tue mansioni.-
    -E chi può dirlo?- Lo stregone sorrise, alzando un braccio per accogliere Lelya. Per un po’, guardò assorto le Aquile che planavano nel cielo, spingendosi oltre l’orizzonte per controllare gli spostamenti del nemico, poi si voltò e Sillen seguì il suo sguardo. Non troppo lontano, due guardie compostamente sull’attenti non perdevano di vista Alatar nemmeno un secondo.
    La stella si era quasi dimenticata di quel dettaglio.
    Quasi.
    -Non si fidano ancora di me.- Disse lui, più a sé stesso che alla stella. Ma ella lo vedeva bene da sé, negli occhi di Elessar, di Legolas, persino del fiducioso éomer, che pure ignorava le loro passate vicende: -Sono molto preoccupati, Alatar. È difficile vedere oltre le proprie convinzioni, in momenti bui come questi. E poi, io mi fido di te, come tu di me.- Cercò di rassicurarlo lei, sorridendo premurosamente.
    Lui storse la bocca in un’espressione cupa, che la stella non comprese. Le diede le spalle, incamminandosi verso il Palazzo, seguito dalle due guardie: -Vai dai Nani, chiedi un’armatura. La battaglia è alle porte.-

 
**

    Sillen attraversò velocemente i Campi del Pelennor,[1] in sella ad un palafreno baio. I soldati dei cinque eserciti alleati si scostarono con deferenza al suo passaggio e la stella poté vedere in prima persona i loro immensi accampamenti.
    Non aveva mai visto tante persone riunite in un unico luogo: Elfi, Uomini e Nani convivevano come un sol esercito, dividendosi provviste e armi e sedendo insieme attorno al fuco. I regni di Elessar e dei suoi alleati erano stati uniti e pacifici per trent’anni e quel clima di fratellanza si respirava ora più che mai.
    Sillen tirò le redini proprio di fronte alle fucine grigie, nella cerchia più interna dell’accampamento nanico. Fu subito investita dal clangore metallico e dal calore intenso delle fornaci e tossì quasi alle lacrime, tanto l’aria era satura di fumo.
    Un nano dai favoriti bianchi sporchi di fuliggine le andò incontro, spolverandosi gli abiti scuri: -Saluti mia signora ehm, Stella.- Lei smontò da cavallo con grazia: -Il mio nome è Sillen, mastro nano.- L’altro scrollò le spalle, per nulla interessato.
    -Dovrei mandare a chiamare Re Thorin, stella Sillen?-
    Lei legò l’animale a un palo, sorridendo divertita dai modi del fabbro: -Vorrei commissionare un’armatura.-
    Il nano la squadrò dalla testa ai piedi: -E per chi?-
    Sillen si guardò a sua volta, spazzolandosi i pantaloni scuri innocentemente: -Per me, in realtà. Non ne possiedo una e vi sarei molto grata se voi esperti Nani me la fabbricaste.-
    -Beh, innanzitutto le armature si forgiano, non si fabbricano.- Puntualizzò il nano. In quel momento Gimli, poco lontano, notò la stella e si affrettò a raggiungerla: -Sillen! Che cosa ci fai qui?-
    L’altro nano dalla barba bianca rispose per lei: -Vuole un’armatura. Per sé.- La stella annuì e altri nani si avvicinarono per assistere alla scena. –Bene, allora le faremo un’armatura.- Concluse Gimli, sorridendole.
    -Beh, il Re non lo sa.-
    -E perché non lo hai ancora avvertito?-
    -Stavo per farlo ma la stella Sillen è una gran chiacchierona.-
    Lei sollevò le sopracciglia ma i due nani parevano essersi scordati della sua effettiva presenza: -Sei tu il chiacchierone, tanto stupido quanto basso.-
    -Fagliela tu l’armatura allora, zuccone!-
    Gli altri nani commentarono animatamente, chi in favore di Gimli, chi in favore del fabbro e in breve la discussione si accese al punto che Sillen fu costretta a indietreggiare per non beccarsi una scudisciata su un piede: -Non intendevo mancare di rispetto a nessuno mastri nani, io-
    -Shazara! (silenzio)- La prorompente voce di Re Thorin III Elminpietra zittì i presenti e fece sussultare la stella. –La Stella dei Valar vi onora della sua nobile presenza e voi vi azzuffate come rozzi tagliapietre!- Li riprese lui, avanzando compostamente in mezzo a loro. La sua corporatura robusta ricordava senz’ombra di dubbio suo padre, Dain Piediferro, il precedente Re dei Nani ma, a differenza di quest’ultimo, Thorin vantava modi più regali e un portamento decisamente più altero.
    Si fermò di fronte a Sillen, sollevando il capo per guardarla in viso: -Ti prego di perdonarli, bellissima dama.-
    Lei scosse la testa: -Non c’è niente da perdonare, mio signore. I tuoi uomini sono gentili e peraltro molto saggi e diffidenti e si stavano giusto domandando perché sono qui.- Sorrise, cercando di trarre d’impiccio i presenti. Gimli tirò una gomitata al fabbro che, sbuffando, le rivolse un cenno di ringraziamento.
    Thorin Elminpietra le prestò tutta la sua attenzione: -Sei qui per godere della mia compagnia, ovviamente! Sapevo che ti saresti presto stancata di quei noiosi damerini di corte.-
    Lei lanciò uno sguardo a Gimli che mimò goffamente verso di lei il gesto di indossare l’armatura. -Si, certo mio signore! Per quello sono qui, e per commissionare ai mastri fabbri un’armatura.- Sorrise lei, cordiale.
    Thorin aggrottò le sopracciglia: -Un’armatura? E per chi?-
    Il nano dalla lunga barba bianca incrociò le braccia: -La vuole per lei. Se la vuole mettere addosso. Lei.-
    Il Re guardò prima lui, poi la stella, che iniziava a trovare la situazione a dir poco surreale. Poi Thorin batté amichevole una mano sulla spalla dell’armaiolo: -Vuole un’armatura? Noi le daremo un’armatura! Questo è quanto.- Concluse.
    L’altro nano allargò le braccia: -Ma è una femmina e per giunta alta. Non ho mai forgiato armature per femmine alte!- Commentò, rivelando finalmente a Sillen quale fosse il suo problema. –Hai forgiato armature più complesse, Ibûn.- Provò a incoraggiarlo, Gimli. L’altro si grattò la testa contrariato ma si arrese, sbuffando: -Va bene! Farò del mio meglio.-
    Thorin sorrise alla stella mentre si rivolgeva un’ultima volta al fabbro: -Sarà un dono, da parte mia. Voglio che forgi la sua armatura utilizzando tutte le scorte di mithril[2] che possiedi qui.-
    Tutti i nani si voltarono simultaneamente verso di lui, sconcertati.
    Nemmeno Ibûn, questa volta, riuscì a proferire parola.
    Il Re baciò la mano della stella: -è stato un vero piacere rivederti, Sillen. Confido che, a battaglia finita, verrà il tempo per noi di parlare di ben più lieti affari.- Sillen annuì confusa e lo osservò allontanarsi a passo sicuro. Si voltò verso Gimli ma trovò gli occhi di tutti i nani puntati addosso.
    Deglutì: -Dunque… cosa devo fare?-
    Ibûn le fece segno di seguirlo dentro la tenda, scacciando con spintoni indelicati gli altri nani intorno a loro: -Via, via adesso! Ho da fare!- La stella entrò dopo di lui e subito le si seccò la gola per il calore proveniente dalla fornace accesa.
    Il nano richiuse la tenda e si affaccendò su un tavolaccio, dandole le spalle: -Togliti i vestiti più ingombranti. Devo prendere delle misure.- Le ordinò, schietto. Sillen ubbidì e piegò accanto a sé la spessa placca addominale, gli stivali e i pantaloni scuri.
    Ibûn afferrò uno sgabellino e si sistemò alla sua destra: -Tira su tutti questi cosi.- Brontolò, riferendosi ai lunghi boccoli neri della stella. Lei li avvolse in uno chignon alto, fermandoli con lo spillone.
    In quel momento, l’armaiolo notò il ciondolo che lei portava al collo: -Una collana in mithril. E che pietra è quella?-
    Sillen prese istintivamente tra le mani il ciondolo viola: -Non lo so, l’ho sempre avuta al collo. So solo che è un dono dei Valar e che, dentro esso, vi è racchiusa gran parte del mio potere.- Lui infilò un paio di occhialetti tondi sul grosso naso arcuato, rigirandosi delicatamente la pietra tra le dita e studiandola per qualche secondo: -Mhm… Beh, non ho idea di che pietra sia, e le conosco pressappoco tutte. Deve essere molto rara.-
    -O molto antica.- Suppose lei. L’altro non rispose, srotolando una sottile corda di cuoio scandita da nodini equidistanti.
    Iniziò prendendo le misure dall’alto, con mani esperte: la circonferenza del collo, la distanza tra la spalla e il gomito, la larghezza delle spalle e del torace. Segnava velocemente i numeri su un foglio ingiallito, borbottando tra sé e sé.
    -Il mithril è un materiale prezioso.- Sbottò, dopo un po’.
    Sillen annuì: -L’avevo inteso.- L’altro scosse la testa, scendendo dallo sgabello per prenderle la misura dei fianchi: -No, non credo.- La stella non capì a cosa lui stesse alludendo.
    Allora, vedendo che la giovane non rispondeva, Ibûn sospirò, stizzito: -Un’armatura in metallo mithril è difficilissima da forgiare. Non ne abbiamo nemmeno molto, ora come ora.-
    -Magari possiamo convincere il Re a cambiare idea, per me non è un problema.- L’altro la guardò negli occhi: -Cerca di capire. Un’armatura in mithril non è un dono da tutti. Un oggetto così prezioso e unico non viene donato a cuor leggero.- Si passò una mano sul volto sudato: -Quello è il dono di un Re. Un dono che sugella un tacito patto.-
    Sillen cominciò a capire e si morse il labbro inferiore: -Per il Re, questo potrebbe essere un regalo fatto in onore della nostra alleanza. Gliene sarei profondamente grata.-
    -Beh, non credo che sia la tua gratitudine quello che Thorin vuole.- La stella scosse la testa: -I nani non forgiarono nuovamente i cancelli di Minas Tirith in mithril, quando la città venne ricostruita?-
    A quella verità, Ibûn stropicciò la cordicella di cuoio tra le dita, pensieroso: -Quelli erano altri tempi, il mithril non scarseggiava, le battaglie si vincevano e i regni si stabilizzavano.-
    -In ogni caso, non vedo perché dobbiamo trarre conclusioni tanto affrettate.- Sentenziò la stella. Ibûn le lanciò uno sguardo perplesso: -Ma tu le persone le ascolti, quando parlano?-
    -No, se vaneggiano a proposito di doni di nozze e presunti corteggiamenti.-
    Dopo qualche secondo di silenzio, sia la stella che Ibûn risero della situazione.
    -Beh, per quello che vale, non mi dispiaceresti come regina.-
    Sillen fece per protestare ma lui tornò in fretta al tavolo da lavoro: -Vestiti. Ho finito.-



 
 
[1]campi del Pelennor: luogo dove, al tempo della guerra dell’Anello, infuriò l’omonima decisiva battaglia contro le forze di Sauron. Nel corso della nostra storia, la vasta pianura coltivata ed abitata è stata evacuata e, in prossimità delle mura di Minas Tirith, ospita gli accampamenti degli eserciti alleati.
 
[2] Mithril (anche detto Argento di Moria): metallo della Terra di Mezzo, un tempo estratto in grandi quantità nelle Miniere di Moria. Viene descritto come leggerissimo ma infinitamente resistente,  “come le scaglie di drago” e, benché sia ritenuto un metallo elfico, i massimi esperti nella sua lavorazione sono i Nani. Attualmente il suo valore è divenuto inestimabile poiché, non potendo estrarne altro, i manufatti creati in passato rimangono le uniche risorse di esso sulla Terra di Mezzo.


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Capitolo 19
*** La quiete prima della tempesta ***



 
-La quiete prima della tempesta-


    Il sole batteva insistentemente su Gondor, incurante della battaglia che si sarebbe consumata sotto di lui da lì a pochi giorni. Le aquile volavano in alto, sparendo a tratti oltre la cresta delle montagne.
    Il rumore delle fucine e il vociare degli uomini si erano fatti meno intensi da quando la Stella dei Valar aveva rivelato il proprio piano e gli eserciti avevano iniziato a spostarsi, sgomberando l’area Est dei vasti campi del Pelennor.
    Ora, il vociare dei soldati si era ridotto a un teso brusio e la Cittadella pareva immersa nel più cupo dei silenzi.
    Lassù, scompostamente seduta sul davanzale della grande finestra della Torre di Ecthelion, Sillen cercava di riposare. Lasciò che il vento le scompigliasse i capelli senza muovere un solo muscolo, la pelle incredibilmente dorata sotto i raggi di mezzodì.
    Glorfindel, seduto dall’altro angolo della finestra, respirava profondamente ad occhi chiusi, la testa appoggiata al marmo bianco. Aveva momentaneamente abbandonato l’armatura, felice di potersi rilassare comodamente anche solo per qualche ora. Solo il lento alzarsi e abbassarsi dei loro petti lasciava intendere che i due fossero creature vive.
    La quiete prima della tempesta.
    Nonostante l’estate fosse ormai alle porte, l’aria era insolitamente fredda e un presentimento sinistro aleggiava sulla terra bruna di Gondor, sollevandosi da essa come un miasma velenoso.
    Un brivido d’inquietudine attraversò Sillen, che spostò lo sguardo dal cielo per posarlo sull’elfo dorato davanti a lei: -Man mathach, mellonamin? (Hai sentito, amico mio?)-
    Lui schiuse appena gli occhi in due fessure lucenti, un accenno di sorriso sulle labbra: -Gerim ad lû, Sillen. (c’è ancora tempo, Sillen)- Lei si raddrizzò lentamente: -Lo so.-
    Glorfindel alzò un sopracciglio: -Allora perché sei così irrequieta? Sei pronta adesso. A noi non resta che aspettare, sai?- La stella si tirò in piedi, stiracchiandosi: -Non è solo la battaglia, ho uno strano presentimento… Presto accadrà qualcosa. Solo, non so ancora cosa.-
    -Cosa intendi dire?-
    -Le voci dei Valar sono scomparse dalla mia mente, da quando sono partita dal Reame Boscoso. Eppure, c’è qualcosa a Ovest, che sembra voler attirare l’attenzione.- Confessò, puntando lo sguardo verso l’Eriador, quasi come potesse vedere davvero quelle terre così lontane. L’eco fastidiosa continuava a punzecchiarle la mente, senza sosta e non aveva idea di ciò che questa volesse comunicarle.
    Era pronta per la battaglia: che altro doveva fare?
    -A guerra conclusa, dovrò indagare.- Mormorò, dopo un lungo sospiro: -Sempre se vinceremo.-
    Il Vanyar annuì, senza contraddirla.
    Dopo poco, egli puntò nuovamente lo sguardo dorato sulla stella. Tormentava le sue dita sottili, le labbra erano martoriate e pallide, vittime dei suoi morsi ansiosi. Doveva calmarsi o sarebbe arrivata alla battaglia già priva di forze.
    Bene, constatò l’elfo: era giusto il caso di cambiare discorso.
    -Posso farti una domanda, senza essere indiscreto?- Lei inclinò la testa curiosa e lo lasciò continuare.
    -Cos’è successo tra te e Thranduil?-
    Gli occhi ametistini di Sillen si fecero duri come gemme.
    -Sei indiscreto.- Sentenziò, stringendo le labbra e alzando il mento imperiosamente. Lui si abbandonò ulteriormente contro il muro, le braccia conserte e l’espressione serafica: -Re Thranduil è un vecchio amico. Preoccuparsi per un amico non è più lecito?-
    La stella distolse lo sguardo e scosse la testa, lasciando che i lunghi capelli le adombrassero il viso.
    -Non ho voglia di parlare di lui.-
    -Io credo di sì, invece.-
    -Ho chiesto il suo aiuto e lui me l’ha negato, mi pareva fosse chiaro.- Glorfindel respirò profondamente, lasciando correre lo sguardo su di lei: -Ti fai pungente quando si tratta di lui.- Azzardò, conscio di tastare un confine che forse non avrebbe dovuto nemmeno raggiungere.
    Lei tornò a fissarlo e lui sentì l’aria caricarsi di elettricità: -Basta così, Glorfindel.- L’elfo dorato chinò la testa, rispettosamente.
    -Perdonami, Stella dei Valar.-
    Sillen si passò una mano sul viso, tirando indietro i capelli. Non voleva litigare con Glorfindel, non era giusto: non se il motivo era il suo inutile e patetico tentativo di nascondere le proprie emozioni. -Non è colpa tua. Sono solo un po’ tesa.- Liquidò la faccenda. Lui sorrise, per nulla turbato: semplicemente, se l’era cercata, come suo solito.
    Sillen si massaggiò il collo, sorpresa di trovarlo dolorante:
    -Credo di aver bisogno di un vero letto.-
    -Tenna’ tul’re, san’. (a domani, dunque.) Buon riposo.-
    Al tono condiscendente dell’elfo, Sillen stropicciò i lembi della propria camicia bianca, trattenendosi sulla soglia della stanza.
    -Glorfindel?-
    Lui si voltò verso di lei e, nel vedere la sua espressione dispiaciuta, si trattenne dal sorridere.
    -Scusami. Non dovevo trattarti in quel modo.-
    Ecco, si stava scusando con lui. Assurdo.
    L’elfo scosse la testa, rinunciando definitivamente a qualsiasi strana aspettativa si fosse fatto su di lei. Sillen, dopotutto -e nonostante il suo terribile destino macchiato dal sangue-, era una giovane creatura come tante: emotiva, insicura, gentile e piena di dubbi. Non poteva esserne più felice.
    -Se non mi fosse piaciuto il tuo tono, Sillen, lo avresti capito.-
    Si alzò a sua volta e le arrivò accanto, con un sorrisetto sardonico stampato sul viso. -Ho un debole per le donne forti. E poi alzare la voce con me è un privilegio per pochi, sai?- C’era ilarità nel suo sguardo e Sillen gli lanciò un’occhiataccia scocciata.
    Il Vanyar la salutò con un buffetto sulla guancia e si avviò per primo giù per le scale a chiocciola. Sillen alzò gli occhi al cielo ma dentro di sé era sollevata. Da quando Glorfindel l’aveva aiutata, tre giorni prima, i due raramente si separavano. Sillen stessa lo cercava quando non c’era, anche se odiava ammetterlo: ogni volta l’elfo le dava prova di quanto potesse essere arrogante, malizioso ed irritante ma era anche l’unico che potesse capire il suo gravoso peso. Per questo il bisogno di stare con lui superava tutti i suoi fastidiosi difetti. Era lo stesso sentimento che, dopotutto, la legava ad Alatar.
    Dopo aver lanciato un ultimo sguardo al paesaggio davanti a sé, anche Sillen scese dalla torre. L’unica cosa di cui era certa in quel momento, era che aveva bisogno di dormire.

    Nel cortile, poco prima di raggiungere la sua stanza, s’imbatté in Legolas. Era dall’ultima riunione che non lo vedeva e dal modo in cui incedeva, con la testa bassa e il cipiglio corrucciato, Sillen intuì che era notevolmente arrabbiato.
    Quasi le finì addosso: -Sillen.- Non era sorpreso o felice di vederla, solo scocciato. –Legolas, sut naa umien? (come stai?)-
    Lui le lanciò un’occhiata distratta: -Molto bene, Stella dei Valar. Ti ringrazio.- Sillen aggrottò le sopracciglia, confusa. Non di rado Legolas rimaneva assorto nei suoi pensieri ma di certo quel tono formale non era da lui. -Perdonami ma c’è qualcosa che non va?-
    Lui la superò senza tanti convenevoli: -Nulla davvero.-
    La stella sospirò, seguendolo nel cortile. L’elfo brandì il proprio pugnale lucente e se lo rigirò nella mano destra, lanciandolo e riprendendolo come un giocoliere, con tutta l’intenzione di ignorare la stella che gli correva dietro. Sennonché Sillen alzò la voce, tentando di fermarlo: -Se stai cercando di punirmi per la mia assenza, ci stai riuscendo!- L’elfo si arrestò in mezzo al cortile e una lieve contrazione del suo viso confermò a Sillen che era proprio quello il problema.
    –Sono stata indelicata, hai ragione. Non dovevo sparire così e non mi sono presentata agli allenamenti senza alcuna giustificazione. Ma cerca di capire, Legolas: stiamo per affrontare una battaglia e, per quel che ne sappiamo, potremmo perderla e morire senza la possibilità di vederne altre. Non mi rende certo le cose facili, sai?- Lo interrogò con lo sguardo, incrociando le braccia. Legolas distolse lo sguardo ma il pugnale, incredibilmente, quasi gli cadde di mano.
    Per un po’ stette in silenzio, poi storse la bocca: -Ora parli come lui, sai?- Calcò l’ultima parola, così tipica di Glorfindel e Sillen alzò un sopracciglio: -Non l’ho certo fatto apposta.-
    -Allora è anche peggio, vuol dire che stai troppo tempo insieme a lui. Quello lì fa sempre come vuole. È da quando sono piccolo che si diverte a irritarmi. Inoltre, è davvero una compagnia discutibile, Sillen.-
    Non era né e il momento né il luogo per affrontare un argomento simile ma la stella, suo malgrado, sorrise.
    –Non credevo che il Principe Legolas potesse essere così geloso.- Lui abbandonò il gioco con il pugnale per voltarsi velocemente verso di lei, irritato: -Geloso? Credimi, non sono arrabbiato con te perché preferisci la sua compagnia alla mia, non sei il centro del mio mondo. Sono di mal umore per ben altri motivi.- Il suo tono era quasi meno credibile della sua espressione ferita e lo sguardo della stella si fece dolce. –Sono felice che tu tenga tanto a me, amico mio. Anch’io tengo a te, scusami se non sono stata molto brava a dimostrarlo.-
    Lui sospirò, riprendendo a far volteggiare il pugnale: -Non importa. Non è una novità che i miei sentimenti non vengano ricambiati.-
    Solo in quel momento Sillen capì di aver completamente sbagliato strada. Non era stata solo la sua assenza a incupire Legolas, semmai era stata la goccia che aveva fatto traboccare un vaso già pieno: -Che sia successo qualcosa con Gimli?-
    Legolas schiuse le labbra in un moto di sorpresa. La guardò a lungo, senza sapere come affrontare un argomento simile.
    –Cosa accade, non vuoi parlarne?- Si preoccupò, la stella.
    Lui strinse le labbra: -Non… Non è una cosa semplice, Sillen.-
    L’altra scrollò le spalle, inconsapevole del significato che quelle parole esprimevano davvero: -Con le faccende di cuore non è mai semplice, questo l’ho imparato, credo.-
    Lui sollevò le sopracciglia, poi sorrise, scuotendo la testa: -A volte dimentico che sei nata solo poche settimane orsono. Sei una delle persone più ingenue che io abbia mai incontrato. E solo per questo ti perdono per avermi ignorato per ben tre giorni.- Lei sorrise, ma lo lasciò continuare: -Per quanto riguarda il resto, non intendo discutere oltre, mi dispiace. Tu non dovresti nemmeno saperlo! Nessuno dovrebbe saperlo… Ma grazie per essertene preoccupata.-
    A Sillen bastò e Legolas la guardò con più dolcezza: -Mi prometti che terrai Glorfindel alla larga un po’ più spesso?-
    Lei alzò le spalle, con fare distratto. -Mi capisce. Tutto qui. La sua presenza mi aiuta a ricordare perché sono qui e qual è il mio compito.- Legolas le posò una mano sulla spalla sottile, invitandola a guardarlo negli occhi: -Puoi provare a parlarmene. Ti ascolterei con il cuore, Sillen.- La stella annuì grata, stringendo la mano dell’elfo. Rimasero fermi nel cortile, felici di essersi riappacificati e fu Legolas a interrompere il silenzio, qualche minuto dopo: -Sillen, quando parlavi di… cuore, cosa intendevi quando hai detto che “hai imparato”?-
    Lei non si scompose: -Beh, che mi sono innamorata anche io.-
    Lui la guardò di sottecchi, giocando con la lama del pugnale.
    -Posso sapere…- Lei si scostò i capelli neri dal viso, sospirando rumorosamente. Il fantasma di Thranduil proprio non voleva lasciarla andare. -Ma si può sapere che cosa avete tutti, oggi? E se non volessi proprio parlarne?-
    Legolas non capì a cosa lei si stesse riferendo, ovviamente, ma dal suo sguardo Sillen colse che si aspettava una risposta.
    Era giusto dargliela?
    Certo, l’elfo davanti a lei era forse la persona più affidabile che avesse mai conosciuto e, inoltre, la faccenda lo coinvolgeva dal principio. La stella si perse a contemplare il cielo, arrendendosi.
    -Di tuo padre. Credo di essermi innamorata di tuo padre.- Non aggiunse altro ma, a quelle parole, il pugnale di Legolas finì a terra. L’elfo si chinò in fretta a raccoglierlo e sentì le parole di Glorfindel rimbombare nella propria testa: “Qualsiasi cosa sia successa tra loro, deve averlo persuaso ad allontanarla.”
    Dunque era successo questo.
    Legolas conosceva suo padre meglio di chiunque altro e subito sentì un groppo in gola al pensiero di quale trattamento doveva aver riservato ai puri sentimenti della stella. Forse lei si era dichiarata e lui l’aveva cacciata senza troppe remore.
    Mentre l’elfo si crucciava, lo sguardo di Sillen si velò di tristezza e lei ripensò agli ultimi attimi con il Re degli Elfi.
    Da tempo si era arresa all’idea di provare qualcosa nei confronti di Thranduil, così come aveva già fatto i conti con i propri terribili errori e con il fatto che lui non avrebbe mai più voluto sapere nulla di lei.
    Meglio così: qualsiasi cosa fosse successa fino al compiersi del suo destino, Sillen doveva rimanere concentrata, non poteva permettersi una distrazione come l’amore. Che fosse amore o meno poi, non poteva saperlo con certezza: cos’erano i sentimenti per lei, stella del firmamento, se non un illogico scontrarsi di pensieri ed emozioni? Era chiaro solo il fatto che essi fossero sempre, costantemente rivolti a lui.
    Era frustrante.
    Legolas, dal canto suo, non fece altre domande. Nonostante avesse conosciuto la sua storia e avesse avuto il tempo di apprezzare la sua compagnia, la stella rimaneva un mistero per lui: già all’apparenza era diversa da qualsiasi cosa avesse mai visto, e a questo si era abituato, ma era soprattutto il suo modo di fare a essere del tutto incomprensibile. Dapprima, Sillen sembrava innocente e ingenua come una bambina, poi forte e caparbia come un’antica dama del suo popolo. Certe volte lo stizziva, altre lo intimoriva. Era da sempre stato certo solo del fatto che tra suo padre e quella donna vi fosse un rapporto profondo e solo ora ne aveva compreso la natura.
    –Credo che andrò a dormire.- Annunciò lei, dopo un po’.
    Legolas annuì, rifuggendo discretamente il suo sguardo violetto. Dopo quelle parole, Sillen sapeva che Legolas l’avrebbe guardata con occhi diversi. Chissà cosa stava pensando, quali domande si stava ponendo. Era felice? Disgustato?
    Non ebbe il coraggio di chiederglielo, non adesso.
    Così lo salutò e arrivò di fretta in camera sua, finalmente da sola. Chiuse la porta e tirò le tende, lasciando che la penombra riposasse i suoi occhi stanchi. Scalciò via gli stivali e tolse il corsetto di cuoio, rannicchiandosi sul materasso morbido. Aveva così sonno, eppure faticava sempre molto ad addormentarsi.
    Si rigirò per un po’, fino a quando l’immagine di Bosco Atro non s’impose prepotentemente sulle sue preoccupazioni, rilassandola all’istante. Finì per addormentarsi, cadendo in un sonno profondo come non lo era da molto tempo.


    -Sillen…- La stella digrignò i denti, furiosa per essere stata svegliata, e aprì gli occhi. Si guardò brevemente attorno e non impiegò molto a individuare l’artefice di quell’indesiderato risveglio: Miniel la fissava dall’angolo più buio della stanza, con lo sguardo terrorizzato e il viso bagnato di lacrime.
    Subito, la rabbia lasciò spazio alla preoccupazione.
    -Cosa succede, Miniel?- La Principessa tremava e sembrava sul punto di urlare: -Aiutaci… Aiutami!- Farfugliò.
    -Che sta succedendo?- Sillen si tirò a sedere velocemente e solo allora si accorse che i piedi di Miniel non toccavano il suolo.
    Non era sola.
    Dietro di lei, una figura indefinita la teneva appesa per i capelli e le puntava un coltello nella schiena minuta.
    Il sangue si ghiacciò nelle vene della stella: -Lasciala.- Sentì la propria voce squarciare il buio, calma e perentoria, ma non era sicura di aver pronunciato davvero quelle parole.
    La figura scura non parlò, semplicemente si mosse: la lama argentea fendette l’ombra, tanto veloce che Sillen quasi non la vide. Fu questione di un momento.
    Gli occhi di Miniel si spalancarono e la sua bocca si aprì e si chiuse senza emettere alcun suono, prima di sputare un fiotto di liquido rosso cremisi. Sul bianco collo della principessa si era aperto un taglio netto e sottile, da cui ora zampillava prepotentemente troppo sangue.
    La sagoma scura lanciò via Miniel come una bambola di pezza, la stella sentì così chiaramente lo schianto del corpo senza vita contro il muro che temette di svenire. Sentiva lo stomaco rivoltarsi, le mani tremare, la testa ronzare.
    Il corpo di Miniel non finì sul pavimento ma cadde su un ammasso scomposto e maleodorante.
    Sillen si avvicinò, scossa da spasmi incontrollati e cadde in ginocchio: erano corpi, sventrati e mutilati, derubati degli occhi.
    La stella cercò di urlare ma non aveva respiro a sufficienza. Elessar, Legolas, Glorfindel, Thranduil, Arwen, Emlinel, erano tutti loro. Tendevano le mani rigide e fredde verso di lei.
    In alto, appollaiato su un nero trespolo, un falco dalla testa scura osservava pacatamente la scena e la stella si specchiò nei suoi occhi brillanti. Una voce dentro di lei, lontana come un ricordo, recitò: -Il futuro ci è stato svelato e mostra il Falco blu che artiglia la Stella.- Non era possibile, non era reale.
    La figura nera, artefice di quel massacro, s’inginocchiò accanto alla stella e tese una mano su di lei, incombendo minacciosamente. Sillen sentì la propria disperazione divenire rabbia violenta, cocente, atroce e si voltò verso quel mostro avvolta dal proprio potere fiammeggiante, lucente e distruttivo come non era mai stato.
    Vendetta, esigeva vendetta.
    Ma le sue mani si fermarono a mezz’aria quando, infine, incontrò il volto del mostro. Era Alatar.
    No, non poteva essere lui.
    Lo stregone la guardava con aria tranquilla, serena e Sillen sentì il proprio corpo accartocciarsi, schiacciato da un profondo ed insopportabile dolore. No, non lui. Non era vero, non era reale.
    Lui allungò le dita verso il suo volto e le carezzò una guancia.
    Prese una lacrima della stella sul polpastrello e la guardò con dolcezza. Poi, Sillen espirò sconvolta quando, dal nulla, il collo dello stregone si piegò con uno schiocco secco. Gli occhi grigi di Alatar presero improvvisamente a muoversi, svincolati l’uno dall’altro, roteando senza freno, mentre il rumore delle ossa del viso che si spezzavano per cambiare forma e dimensione le dava la nausea.
    La stella cadde all’indietro e cercò di strisciare lontano da lui facendo leva sui piedi e sui gomiti.
    Le labbra di Alatar si deformavano, i suoi capelli si allungavano e cambiavano colore.
    Ora, quell’essere non somigliava più ad Alatar e Sillen riuscì per un attimo a vedere la metamorfosi compiuta.
    –Stella dei Valar… che piacere conoscerti.-
    Nell’arrancare, sbatté la testa contro il muro dietro di lei e tutto si fece nero.



   
 

N.D.A

I problemi si moltiplicano e i personaggi acquistano nuove sfaccettature tutte da approfondire *-* Sono contenta di essere arrivata fino a qui ma c’è tanto ancora da raccontare. Che dite, siete curiosi di sapere cosa succederà adesso? Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ai prossimi capitoli,
Aleera
 


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Capitolo 20
*** Illusione ***


 
 -Illusione-




    Un manipolo di orchi strisciò lungo le pendici degli Ered Lithui,[1] celato dal favore delle perpetue tenebre di Mordor.
    Anche dopo la distruzione dell’Unico Anello, il Monte Fato non aveva smesso di innalzare la sua alta colonna di cenere e lapilli e continui incendi devastavano quel poco di sterile vegetazione che ancora resisteva nella vasta pianura del Gorgoroth.
    L’orco a capo del gruppo fermò bruscamente i compagni, poco più di una disordinata mezza dozzina: -Fermi, stupida feccia. C’è qualcuno.- Si appiattirono contro la pietra gelida.
    Per molti giorni avevano seguito gli spostamenti dell’immenso esercito nero che aveva preso vita in quelle montagne e con i loro occhi avevano visto le carcasse putride delle passate legioni di Sauron alzarsi in piedi e radunarsi come diligenti formiche silenziose. Quando l’esercito aveva infine preso a marciare verso Ovest, il piccolo gruppo aveva colto l’occasione per scoprire chi dimorasse ora in quei luoghi maledetti.
    L’orco in testa all’improvvisata compagnia si sporse verso la piana sotto di loro, grugnando: -Ci sono guardie. Guardie non morte.- Gli altri ringhiarono rumorosamente e lui fu costretto a zittirli a suon di spintoni: -Aggiriamoli, cani schifosi! Non dobbiamo farci vedere. Ricordate cosa è successo a quegli stupidi che sono arrivati fino a qui?-
    Uno degli orchi dietro di lui, piccolo e deforme, lanciò un’esclamazione con voce rauca: -Nessuno è tornato indietro!-
    Il capo gli tirò un violento pugno sul grugno, stizzito: -Sta zitto, verme! Non urlare o ci sentiranno.-
    Prima che potessero azzuffarsi nuovamente, un rumore improvviso alle loro spalle li fece sobbalzare. Ovviamente, le guardie non morte scorte poco prima aveva avuto tutto il tempo di accorgersi di loro, spostarsi e raggiungerli.
    Gli orchi brandirono le loro armi arrugginite con più ferocia che mai ma, dentro di loro, sapevano bene che, contro i due enormi moruruk[2] non morti, potevano fare ben poco. Questi parevano fissarli dall’oscurità dietro i loro elmi neri e, nel corpo fetido, la carne marcita lasciava intravedere le ossa grigie. Gli orchi si lanciarono all’attacco, urlando come ossessi.
    In breve, il capo dello sfortunato gruppo si ritrovò a guardare i compagni squartati cadere a terra, attorno a lui.
    L’uruk più grosso gli afferrò la testa, sollevandolo come se non avesse peso e l’orco ebbe solo il tempo di constatare che dietro l’elmo nero di quella creatura non vi fosse altro che un teschio coperto di melma, prima che questo gli spezzasse l’osso del collo con un violento schiocco.
    Impassibili, i moruruk legarono metodicamente le caviglie dei cadaveri e li trascinarono lungo lo stretto sentiero che conduceva alla vallata, sul fianco della montagna. Qui, svariate miglia sopra la valle del Gorgoroth, immense rovine nere si stagliavano contro l’orizzonte nebbioso. Guglie e bastioni un tempo di dimensioni mastodontiche, ora giacevano a terra come giganti addormentati, avvolti da una nebbia perenne e densa di gelida inquietudine. Era il lascito di un regno caduto trent’anni prima, ma il ricordo era ancora vivido nella mente degli Uomini dell’Ovest: Barad-dûr, la Torre Oscura.
    I due moruruk attraversarono l’ammasso di rovine velocemente, giungendo dinanzi ad una grossa spaccatura nel muro di pietra nera, sorvegliata da altri orchi non morti. Questi li lasciarono entrare, silenziosi e rigidi come statue.
    All’interno, le gigantesche rovine buie avevano l’aspetto di un intricato labirinto, che scendeva svariate miglia sotto terra.
    Quando la discesa sembrò diventare infinita, una luce tremolante illuminò le pareti di un corridoio largo e spoglio. I due uruk si diressero diligentemente verso essa e sbucarono in un’ampia sala dalle pareti nere, dove molte delle colonne portanti erano adesso spezzate e crollate sul pavimento di pietra.
    -Altri volontari pronti ad unirsi a noi, che piacere.- Commentò sarcasticamente una voce profonda, che riecheggiò nelle volte del soffitto. Un grosso candelabro faceva luce su una scrivania lucida, alla quale sedeva una singolare figura curva, avvolta in un mantello dall’ampio cappuccio scuro.
    Questa si alzò quasi a fatica, sorreggendosi su un bastone dalla cima nodosa. Arrivò lentamente vicino ai due moruruk, che non mossero un passo, nemmeno quando si chinò sui cadaveri, prendendo a esaminarli.
    Dopo una breve ispezione, la figura afferrò uno dei tanti sacchettini dall’aria consunta che pendevano dalla sua cinta e, con le dita secche e sottili, tirò fuori un minuscolo sassolino traslucido. Con metodo, lo schiacciò nella carne dell’orco più grosso, in profondità: subito, questo spalancò gli occhi vitrei, imitato all’istante da tutti gli altri cadaveri.
    -Alzatevi ora.- Ordinò la voce profonda dell’uomo incappucciato.
    Questi si tirarono in piedi come marionette e l’altro batté loro una pacca sulla spalla, amichevole: -Bene, bene! Andrete a guardia di questo luogo. Sono desolato, ma ormai gli altri sono partiti senza di voi. Suppongo lo sappiate già comunque, o non vi sareste azzardati ad avvicinarvi tanto.-
    Gli orchi non risposero.
    Certo non potevano rispondere, essendo morti.
    Eppure, ogni volta lui si prestava a quel futile giochetto, aspettandosi davvero una qualche battuta di spirito da parte loro. La figura curva dell’uomo fece segno ai non morti di andarsene e questi scattarono come un sol uomo, lasciandolo solo nella grande sala: -Che noia.- Commentò, laconico.
    Prese il candelabro e si avviò lentamente oltre le spesse colonne, seguendo un corridoio dalla volta pericolosamente frastagliata.
    Bussò a una porta di legno tarlato, posta proprio in fondo al corridoio, e una voce limpida gli giunse alle orecchie: -Avanti.-
    Una volta entrato, l’uomo con il bastone dovette aspettare che i propri occhi si abituassero alla luce degli ampi lampadari, prima di individuare i vari oggetti nella stanza. Tre enormi scaffali strabordavano di libri consunti e cianfrusaglie varie, la scrivania era sommersa da pietre e cristalli di forme e dimensioni improbabili e le pareti di pietra umida erano letteralmente tappezzate di disegni, scarabocchi e pagine ingiallite, strappate da chissà quale antico e dimenticato grimorio.
    La figura riuscì a farsi largo verso destra e a sporsi oltre le altissime pile di libri davanti a sé, individuando infine il proprietario della stanza: -Salute, Maestro!-
    Il grazioso elfo cui si era rivolto, sdraiato scompostamente sull’improvvisato letto di stoffa sdrucita, si voltò appena. -Salute, stregone.- Questo sedette sulla sedia di legno accanto al letto, sospirando, come colto da una grande fatica.
    -Che occhiaie indecenti. Sei forse stanco?- Chiese l’elfo, apparentemente poco interessato. L’altro annuì: -Muovere un migliaio di unità per così tanto tempo è faticoso.-
    -Oh, ma non mi dire.- Commentò l’elfo, sardonico. -Come se io non provassi la tua medesima fatica.- Il colorito dell’elfo, in effetti, era pallido, i suoi lunghissimi capelli neri sfibrati e spenti.
    Lo stregone gli posò una mano sulla fronte, premuroso: -Starai meglio. Ti permetterò di riposare a dovere non appena Maestro Saedor sarà giunto ai confini di Gondor.-
    L’altro parve rilassarsi sotto il suo tocco, socchiudendo i grandi occhi blu: -è giusto così. Ora è lui ad aver bisogno della nostra forza.-
    Stettero un po’ in silenzio, a riflettere ognuno sui propri crucci.
    Poi, entrambi furono distratti da un sussurro nell’aria.
    Era una voce femminile, flebile come un alito di vento, lontana e vicina allo stesso tempo. L’elfo dai capelli scuri non si scompose e si limitò a rivolgere un’occhiata allo stregone. Infatti, egli sapeva bene da dove provenisse quella voce e infilò velocemente una mano nella manica della veste blu. Estrasse con delicatezza un grosso pezzo di quello che poteva sembrare vetro scuro, dai bordi frastagliati, e guardò attentamente dentro ad esso: -La stella si è ritirata nel Palazzo, da sola. Riesco a vederla, attraverso le tende della sua stanza.- Sorrise.
    L’elfo dai capelli neri sollevò le sopracciglia arcuate, curioso:
    -La nostra efficiente spia non perde tempo.- Commentò.
    -Come sempre...- Lo apostrofò l’altro, concentrandosi sulle immagini che si muovevano veloci sotto la superficie traslucida del vetro: -Mhm, credi di avere abbastanza energie da permettermi di fare una cosa davvero divertente, Lhospen? Devo ancora sistemare alcuni dettagli del mio piano e questo mi sembra il momento perfetto.- Chiese allora lo stregone, allargando il proprio ghigno. L’elfo ricambiò il sorriso, intuendo al volo i pensieri dello stregone: -Quello che desideri.-
    Sedette sul letto e incrociò le gambe affusolate, respirando profondamente. Prima, scrutò nel vetro scuro, come a imprimersi nella mente ogni dettaglio della scena che vi era riflessa; poi chiuse gli occhi blu e, dopo poco, lo stregone si trovò immerso nella penombra di una stanza da letto. Qui, la stella dormiva, l’espressione serena. -Chissà cosa sta sognando.- Sussurrò.
    Lhospen gli lanciò un’occhiataccia, continuando ad arricchire l’illusione attorno a loro. Portare le loro proiezioni astrali fino a Minas Tirith era un esercizio difficile, soprattutto se l’unico riferimento che aveva era un’immagine sfocata, dentro una pietra traslucida. Si concentrò e la sua illusione si fece sempre più macabra. Aggiunse una pila di cadaveri mutilati, qualche fiotto di sangue qua e là. Poi si concentrò sui suoni, gli odori, le sensazioni: non vedeva l’ora di vedere la faccia spaventata della stella. Volle esagerare e la giovane Principessa Miniel era di certo perfetta per quella parte del suo piano.
    Lo stregone, una volta conclusasi l’opera, fissò la scena davanti a sé e squadrò la propria figura gemella, come l’elfo l’aveva creata: -Io non sono così alto, Lhospen.- Puntualizzò.
    L’altro scosse una mano: -Dettagli, dettagli. Tu pensa al tuo discorso, io penso all’illusione. Questi sono i patti.- Lo stregone rise, posando il proprio bastone e concentrandosi totalmente sul suo compito. Sapeva bene cosa fare.
    La falsa Miniel svegliò la stella con la sua petulante voce e il falso stregone, puntualmente, la uccise. Quello vero, comodamente seduto sulla sedia di legno, alzò gli occhi al cielo per l’esagerata teatralità del Maestro delle Illusioni, che invece sorrideva, sadico.
    La scena si protrasse per un po’, tragica.
    Poi la stella reagì con improvvisa violenza.
    Quando la luce bianca del suo potere si stagliò nella scena, Lhospen sobbalzò, preso in contropiede. -Presto, mostrale il volto di Alatar!- Impose velocemente lo stregone.
    L’elfo fece quanto gli era stato detto, cercando di rimanere più fedele possibile alla realtà. Ed ecco apparire il viso dell’altro stregone, più dettagliato di quanto Lhospen volesse ammettere.
    A quella visione, la stella si spense all’istante e Pallando allargò il proprio ghigno: -Come sospettavo. Alatar ha fatto un gran bel lavoro. Ora mostrale il mio volto.- Sibilò.
    Quando fu certo di aver catturato a dovere l’attenzione di Sillen, sorrise: -Stella dei Valar… che piacere conoscerti.-

 
**

    Sillen aprì gli occhi, frastornata.
    Era buio, doveva essere calata la notte. Sdraiata sul morbido letto, cercò di muoversi ma, con sua grande sorpresa, trovò qualcosa a trattenerla. Strattonò gambe e braccia ma queste erano strette da spessi anelli di ferro: era incatenata ai quattro angoli del letto.
    Improvvisamente, le immagini di poco prima le invasero la mente con prepotenza. I cadaveri, Alatar, Miniel e quell’individuo...
    Si agitò, furiosa e spaventata, urlando: -Dannazione, dove sei maledetto?!- Una luce si accese improvvisamente al suo fianco e lei sobbalzò. Era la luce di una candela, la cui fiammella zampillò sul comodino, viva e tremolante, illuminando la figura seduta sul bordo del letto. Sillen strattonò più forte le catene, non aspettandosi di trovarlo così vicino.
    -Non temere, Stella dei Valar. Se avessi voluto ucciderti, lo avrei già fatto.- Sorrise lo stregone davanti a lei.
    La stella approfittò della fioca luce per guardarsi febbrilmente intorno ma si pentì ben presto di averlo fatto. I corpi dei suoi compagni non erano più ammassati in un angolo: i loro cadaveri ciondolavano dal soffitto, appesi per i polsi, le orbite nere e vuote scavate nei volti pallidi.
    La stella serrò gli occhi, stringendo i pugni.
    Non riusciva a guardare, non riusciva nemmeno a pensare.
    Sentì l’uomo al suo fianco muoversi e gli puntò gli occhi ametistini addosso, cercando di concentrarsi su di lui.
    Era tutto perduto. I suoi compagni erano tutti morti.
    -Dimmi, Sillen. Che cosa stai provando, in questo momento?-
    -Ti ucciderò!- Urlò lei, fuori di sé. Voleva strappargli quel sorrisetto dalla faccia, a mani nude. -Capisco.-
    Lo stregone si passò una mano sul viso, tirando in dietro i lunghi capelli brizzolati. Un gesto quasi… familiare.  
    -Chi sei, maledetto?- Sibilò la stella, fissandolo.
    Quegli occhi grigi, quell’abito blu e sbiadito…
    Lui ricambiò il suo sguardo, accennando un sorriso: -Il mio nome è Pallando.- Rispose, candidamente. Per un attimo, la stella non fu in grado di elaborare l’informazione.
    Dentro di sé, urlava. 
    Pallando, lo Stregone Blu. Il compagno di Alatar.
    Sì, di Alatar, del suo Alatar. Com’era arrivato sino a lì?
    Non era possibile, le Aquile lo avrebbero di certo visto, le guardie lo avrebbero fermato.
    Sillen soppresse un conato. Era sconvolta, disgustata e spaventata. Sentiva il battito frenetico del suo cuore nei polsi, premuti contro gli anelli di ferro.
    -Presto dovrò andarmene, Stella dei Valar. Non ho molto tempo.-
    Catturò di nuovo la sua attenzione, Pallando. Lo stregone blu non somigliava molto ad Alatar, a dire il vero: al contrario di quest’ultimo, Pallando sembrava più vecchio e debole, i polsi sottili e il volto scavato. I lunghi capelli erano ormai quasi del tutto grigi, screziati di un bianco sporco e gli occhi piccoli erano cerchiati da profonde occhiaie scure.
    Ad un tratto, la stella ridusse gli occhi arrossati a due fessure e il suo respiro affannoso si bloccò improvvisamente: per un secondo, solo per un secondo, la veste lurida dello stregone parve tremolare, come uno specchio d’acqua increspato dal vento. La stella tornò a concentrarsi sul suo interlocutore.
    -Hai ucciso tutti.- Ringhiò, strattonando le catene tanto da incrinare lo spesso legno del letto. Pallando si guardò attorno, come se vedesse quei cadaveri per la prima volta: -Che macabro spettacolo, eh?- Le chiese. Con un gesto, lo stregone oscurò tutto ciò che stava intorno a loro, persino il letto e a Sillen parve di essere incatenata al buio stesso.
    Solo lei, Pallando e la candela che nient’altro illuminava, sospesi nel nulla.
    -Sono qui per proporti un accordo. Arrenditi e io risparmierò la città di Minas Tirith, dove con tanta presunzione credi di resistermi.- Sorrise lui. Sillen serrò la mascella, senza credere ad una singola parola: -Tu sei pazzo! Come puoi pensare che io accetti un accordo con te?-
    Lui parve rifletterci su, guardando altrove.
    Poi incrociò le braccia e sorrise, un ghigno tirato a scoprire i canini innaturalmente appuntiti: -Dunque sei sveglia come credevo che tu fossi, Stella dei Valar! Hai intuito che tutto questo è solo un sogno.-
    Dannazione. Se ne era già accorto.
    Lei imprecò e si mosse velocemente, distruggendo le catene con un solo, violento strattone del braccio. Afferrò il bavero dello stregone: -Che tu sia maledetto.- Sibilò, spezzando con gesti secchi le altre catene, come fossero di vetro sottile. Si tirò alla stessa altezza dello stregone, incenerendolo con lo sguardo.
    -Le illusioni perdono di efficacia, quando vengono smascherate.- Disse lui, senza che un fremito turbasse la sua espressione divertita. -Codardo! Se tu non fossi solo una dannata allucinazione, ti avrei già ucciso.- Ringhiò la stella, a un soffio dal viso magro dell’uomo. Lui ricambiò lo sguardo di quei magnetici occhi viola, che mandavano bagliori cristallini: -Mhm, Alatar ne soffrirebbe.- Le labbra di Sillen tremarono impercettibilmente.
    Non doveva credere a quel maledetto ingannatore, non voleva.
    Pallando approfittò del suo silenzio per infierire: -Andiamo, Stella dei Valar. Chi pensi mi abbia comunicato la tua posizione?- Sussurrò lui: -Chi se non lui poteva sapere in anticipo dove ti avrei trovata, ogni volta? Al Nido delle Aquile, a Gondor… Faresti meglio ad aprire gli occhi, mia cara.-
    Sillen scosse con forza la testa, alzando un pugno: -Stai zitto!-
    Lhospen, concentrato come da tempo non era, strinse la mascella e si affrettò a cambiare scenario, per paura che lei riuscisse a scalfire il suo meticoloso lavoro.
    Come fumo, il mantello blu si smaterializzò nel buio, e lo stregone con lui, sfuggendo dalla presa d’acciaio della stella.
    Sillen si guardò attorno, in posizione di difesa.
    -Sei una creatura interessante, Stella dei Valar. Ci rincontreremo presto. Un vero peccato che quell’occasione sarà la tua fine.- La voce dello stregone rimbombò nel buio, da tutte le direzioni.
    -Fatti vedere!- Urlò lei, furente e tesa come un predatore pronto a balzare all’attacco. Invece che ricevere una risposta, un forte vento avvolse la stella, sbattendola da una parte all’altra delle tenebre come se non avesse peso.
    La risata sadica dello stregone proruppe violentemente intorno a lei e Sillen sentì il suo corpo tremare senza controllo. Tutta la disperazione e la rabbia si riversarono fuori dal suo petto e i suoi occhi si riempirono di luce, fendendo il buio come saette bianche. Con violenza, il suo potere esplose attorno a lei, spazzando via l’innaturale vento e, con lui, l’illusione stessa.

    La mente stanca di Lhospen tornò improvvisamente nella spoglia stanza di Barad-dûr e il suo corpo fu sbalzato via dal letto dalla forza disarmante della stella. Rovinò a terra e andò a sbattere violentemente contro uno degli stracolmi scaffali, finendo sommerso dai libri. Rimase a fissare il soffitto con sgomento, gemendo dal dolore.
    Pallando si alzò di scatto dalla sedia di legno, ridendo forsennatamente: -Incredibile!-
    Scocciato, il Maestro dell’Illusione si tirò a sedere, pulendosi il sangue che colava copiosamente dal naso: -Che potere tremendo.- Sibilò, stringendo le braccia sul costato, ancora profondamente scosso.
    -Ti ha dato il ben servito, eh?- Lo canzonò lo stregone, accucciandosi al suo fianco e carezzandogli i capelli neri, scostandoli per valutare la gravità delle ferite.
    -Ero già debole! E per colpa tua, ora non ho nemmeno le forze per dartele di santa ragione, maledetto.- Sorrise l’altro, ma il suo colorito grigiastro non prometteva nulla di buono.
    Pallando lo sollevò senza troppe cerimonie e lo riportò a letto: -Quante storie, di certo non morirai. Tuttavia, ti sei meritato una bella dormita, Maestro.- Gli rimboccò le coperte con gentilezza, tamponandogli il viso con una pezza umida.
    Prima che potesse uscire dalla stanza, l’elfo lo trattenne debolmente, afferrandogli la mano: -Pallando…- L’altro la strinse tra le sue, tornando al suo capezzale. -Farò del mio meglio. Per te.- Sussurrò Lhospen, sorridendo stremato e addormentandosi subito dopo. Lo stregone annuì, gli carezzò la mano sottile e uscì silenziosamente dalla stanza, più che soddisfatto di quello che aveva appena vissuto.
    Si appoggiò con la schiena alla porta di legno: -Finalmente un po’ d’azione, da quanto tempo!-
    E tornò a fissare il pezzo di vetro scuro, allargando il proprio sorriso ferino.

 
**

    -Sillen? Sillen!- La stella si tirò a sedere urlando, allontanandosi e quasi cadendo dall’altro lato del letto. Miniel, fresca e in salute, la guardò sorpresa: -Scusami! Non volevo spaventarti! Credo tu stessi avendo un incubo, piangevi e ti dimenavi nel sonno.-
    Sillen guardò la stanza, ordinata e vuota com’era sempre stata e sospirò, tremando per il sollievo.
    Abbracciò con forza la principessa: -Non era un incubo.-
    Prese il viso di Miniel tra le mani, guardandola negli occhi.
    Stava bene, stavano bene.
    –Il nemico. So chi è il nemico. Corri da tuo padre, riunite i capi degli eserciti e aspettatemi nella Sala del Trono. Vi dò quindici minuti.- Si rivestì in fretta, tentando di fermare il tremore del suo corpo. La principessa, spaventata dallo stato della stella, corse a fare ciò che le era stato ordinato senza obbiettare.
    Rimasta sola, Sillen crollò in ginocchio, imprecando. Fece appena in tempo ad afferrare la bacinella sulla specchiera che fu scossa da violenti conati. Si buttò l’acqua fresca della brocca sul viso, incurante di bagnare le vesti e i capelli.
    Doveva riprendersi, non aveva tempo per la debolezza.
    Si appoggiò al fodero della spada e si rialzò in piedi, una mano premuta sullo stomaco. Corse lungo i corridoi vuoti, illuminati dai primi raggi dell’alba: nella cittadella non c’era più nessuno.
    Tutti gli abitanti erano stati evacuati, tutti i soldati si erano riuniti altrove, come previsto dal piano. Il silenzio che avvolgeva Minas Tirith sembrava rivestire la pietra grigia a cui Sillen s’appoggiava, disorientandola. Ma le sue gambe sapevano bene dove condurla.
    Svoltò in un corridoio silenzioso, aumentando il passo.
    Con un cenno, allontanò i quattro soldati a guardia della porta scura davanti a lei, che spalancò, fiondandosi senza esitazione sull’unica persona presente all’interno della stanza.
    Con forza, prese Alatar per il colletto e lo sbatté contro la parete dietro di lui, sollevandolo da terra: -Dimmi quello che sai! Parla, dannato traditore! Mi fidavo di te!- Urlava sul volto atterrito dello stregone, che incassò la testa nelle spalle. Gli occhi della stella brillavano con la stessa intensità del sole e lui non riuscì a reggere il suo sguardo: -Sillen, non so di cosa parli! Che sta succedendo?- Lei strinse la presa e Alatar annaspò, in cerca d’aria: -Non mentire, NON MENTIRMI! Ti ucciderò, ti ucciderò con le mie mani!-
    -Ti prego Sillen…- Boccheggiò lui. I suoi occhi stavano diventando sempre più rossi a causa dei capillari che si rompevano con violenza: -Ascoltami! Qualsiasi cosa tu abbia sentito, lascia che ti spieghi.-
    Per un attimo, Sillen tornò in sé. Sulla terrazza, solo pochi giorni prima, quell’uomo l'aveva stretta tra le braccia.
    Solo pochi giorni prima, lei aveva trovato lo spazio tra quelle braccia il luogo più sicuro e accogliente del mondo.
    Lo lasciò cadere a terra, indietreggiando velocemente.
    Alatar tossì a lungo, massaggiandosi il collo: -G-grazie.-
    Lei respirò a fondo e i suoi occhi riacquistarono il loro solito colore. Per un secondo, aveva temuto di ucciderlo davvero.
    Lo stregone cercò il suo sguardo: –Ti senti bene?-
    -Stai zitto. Fa silenzio!- Ringhiò lei.
    Doveva calmarsi, respirare.
    Gli fece cenno di alzarsi: -Non starò ad ascoltarti, adesso. Non qui e non da soli. Non mi fido di te, non permetterò che la mia mente venga manipolata.- Lui strinse i pugni, concitato.
    -Dannazione, io non so cosa sia successo ma di certo non ti ho mai manipolato. Sillen, io- Lei lo spinse con poca gentilezza oltre la porta, senza dargli la possibilità di impugnare il suo bastone.
    -Ho detto che devi fare silenzio.-
    Lelya, il piccolo falco dello stregone, non si era spostata dal suo trespolo, limitandosi a osservare la scena senza intervenire.
    Sillen la fissò negli occhi solo per pochi attimi, poi passò oltre.
    –Portate lo stregone nella Sala del Trono. Incatenato.- Ordinò alle guardie, con voce dura.

    Alatar e le guardie entrarono per primi nella sala, seguiti da Sillen, temibile come mai gli alleati l’avevano vista.
    L’aria attorno a lei pareva tramare e la sua pelle dorata attirava su di sé tutta la luce della stanza.
    I presenti fecero largo al suo passaggio, fissando sconvolti lo stregone con le mani incatenate dietro la schiena. Le guardie lo fecero inginocchiare ai piedi della stella senza tante cerimonie e lo stregone piegò le labbra in una smorfia di dolore, tanto le spalle gli dolevano a causa delle braccia strette troppo duramente dietro di sé.
    Elessar e Legolas furono presto accanto a Sillen ma questa non permise loro di parlare: -Ora io parlerò e voi ascolterete.-
La sua espressione glaciale li ammutolì.
    Glorfindel, discosto dal resto del gruppo, osservava la scena con cipiglio grave, poco lontano da Faramir, éomer e tutti gli altri capi degli eserciti.
    Sillen, accertandosi che l’attenzione di tutti fosse rivolta a lei, alzò il mento e parlò: -Al mio arrivo, la Regina Arwen ebbe una visione. Ricordo bene le parole che mi rivolse. Disse che il futuro era stato svelato e mostrava il Falco blu che artigliava la Stella.-
    L’aria si fece pesante a quelle parole, come se un’ombra oscura si fosse posata sui presenti, rabbuiando ancor di più la sala.
    Gli occhi di Sillen corsero a cercare quelli di Elessar e Legolas.
    -Non avrei dovuto sottovalutare un simile ammonimento.-
    Legolas strinse gli occhi a due fessure, puntandoli sullo stregone curvo su sé stesso, e il Re degli Uomini posò istintivamente una mano su Andúril.
    -Stanotte, il Falco blu è venuto da me. Ho visto in faccia il nostro nemico ed egli, ovviamente, ha minacciato di distruggerci, finendo però per esporsi.- I due compagni fecero per avvicinarsi allo stregone, pronti ad intervenire ma Sillen allungò un braccio, bloccando loro il passaggio: -No, non si tratta di lui.- Sibilò, fissando Alatar dall’alto: -O almeno, non del tutto.-
    Prima che la confusione negli sguardi dei presenti si trasformasse in parole, Sillen si affrettò a terminare il discorso:
-Si tratta di Pallando, l’altro Stregone Blu.- A quelle dure parole, Alatar sgranò gli occhi, fissi a terra e Sillen sentì la propria mascella serrarsi: o lui davvero non sapeva nulla o stava recitando molto bene la sua parte.
    Nella sala, le voci degli alleati si sollevarono, oltraggiate.
    -Dovrebbe essere morto!-
    -Alatar disse che Pallando perì a Est, anni fa.-
    -Non è possibile, è un tradimento! Alatar è una spia!-
    -Lo stregone ci ha traditi!-
    -Silenzio.- Li interruppe Sillen e tutti tacquero all’istante.
    Alatar non si mosse, nemmeno quando la stella si avvicinò, troneggiando su di lui. Teneva gli occhi sgranati fissi nel vuoto, la stella poteva quasi vedere i suoi pensieri rincorrersi a un ritmo vertiginoso attraverso essi. -Parla. Davanti a tutti.- Ringhiò lei, stringendo i pugni. Vederlo in ginocchio davanti a lei, le lacerava l’anima. Continuava a combattere contro il desiderio di rannicchiarsi a terra e piangere senza ritegno.
    Alatar sollevò lo sguardo su di lei: -Io ero certo che lui fosse morto.- Farfugliò. -Io non c’entro nulla con questo Sillen, devi credermi.-
    -Mi hai chiesto di lasciarti spiegare. Bene, spiegati.- Concluse questa, soffiando l’ultima parola tra i denti.
    Lo stregone respirò a fondo: -Pallando e io operavamo ad Est, in terre lontane e dimenticate, le dimore degli Esterlings. Durante la guerra dell’Anello, abbiamo tentato di strappare più comunità possibili all’influenza di Sauron. E per un po’, ci siamo riusciti.- Ammise, tenendo gli occhi grigi fissi in quelli viola della stella.
    -Ma il nemico si era accorto di noi, così finimmo nelle mani di un’unità di uruk di Mordor. Io riuscii a scappare…- Deglutì, come se parlare di tali ricordi gli costasse molte energie: -ma non vidi mai più Pallando. Ero certo che lui fosse morto.- Scandì.
    A quelle parole, Sillen voltò il viso, gettando il suo freddo sguardo lontano da lui. -Non hai prove, tantomeno dei testimoni che possano confermare la tua storia. Inoltre, Landroval per primo diffidava delle tue intenzioni.- Esordì.
    Alatar non rispose e la stella sentì l’angoscia stringerle lo stomaco. -Allora rispondi a questo: come poteva sapere Pallando dove trovarmi?-
    Lui scosse il capo: -Non lo so. Io non sono una spia.-
    La stella esitò, sentendosi bruciare dalla rabbia e dall’impotenza. Lo stregone era stato suo amico, suo confidente, il suo punto fermo ed ora lei non riusciva più sopportare il suono della sua voce. Era la voce di chi l’aveva confortata, protetta, poi ingannata e tradita.
    Alatar riconobbe quelle emozioni sul volto della stella, un volto che aveva imparato a leggere bene: -Sillen. Non potrei farti questo.- La sua voce era profonda e seria e la stella sentì i battiti del proprio cuore accelerare: -Perché? Cosa t’impedirebbe di farlo?- Tornò con gli occhi su di lui, senza riuscire a dissimulare il tremito della sua voce: -Dammi solo un motivo per cui dovrei crederti.-
    Lo stregone ricambiò a lungo il suo sguardo duro e ferito: la sua intera essenza gli urlava di parlare, di confessare tutto quello che non era mai stato in grado di ammettere nemmeno a sé stesso.
    Tuttavia, sapeva che la stella non gli avrebbe creduto.
    E avrebbe avuto tutte le buone ragioni per non farlo.
    Strinse le labbra e, ignorando il fastidioso dolore alle spalle, si tirò in piedi, scrollandosi di dosso le mani pesanti delle guardie. Con un passo, si ritrovò quasi a sfiorare la stella.
    Sillen non lo guardò, non ne era più capace.
    Sentì l’odore familiare dello stregone, il suo respiro sui capelli ma non si mosse. -Perdonami.- Fu tutto quello che lui le disse.
    Sillen sentì il sangue gelarsi nelle vene: quella era una confessione. Per tutto il tempo aveva sperato, pregato che lo stregone le desse una valida spiegazione.
    Quella, invece, era solo una maledetta confessione.
    Alzò il viso per affondare nuovamente i propri, freddi occhi d’ametista in quelli dello stregone: -Portatelo via.-
    Alatar ricambiò il suo sguardo con intensità, poi le guardie lo costrinsero a voltarsi e lo spinsero lontano da lei. Nessuno osò parlare e la stella lasciò la Sala del Trono poco dopo, senza che alcuno tentasse di fermarla.
    Legolas si portò una mano al cuore, sofferente: quel giorno, per Sillen così come per tutti loro, era un giorno di lutto. Elessar gli strinse una spalla ed entrambi stettero in silenzio, consci più che mai che il male era sceso nuovamente su di loro.

    Nel frattempo, a miglia e miglia di distanza, nelle viscere della terra, una figura curva osservava il suo pezzo di vetro nero, ridendo di gusto: -Splendido. Adesso la guerra può finalmente cominciare.-


 
 
[1] Ered Lithui: (nome sindarin delle Montagne di cenere) è la catena montuosa che forma la barriera settentrionale del regno di Mordor. Su una cima interna, protetta dalla catena montuosa, sorge la Torre di Barad-dûr. Deve il nome al suo singolare colore grigiastro e per il cielo coperto dalla cenere fitta dovuta alla continua attività del vicino Monte Fato.
 
[2] Moruruk: (o semplicemente Uruk Neri) sono una razza di orchi creata da Sauron a Mordor, alla fine della Seconda Era. Sono un’evoluzione degli orchi creati da Morgoth, più forti e più alti degli altri orchi. Durante la Terza Era diventano parte integrante e fondamentale delle armate dell'Oscuro Signore.



N.D.A

Ciao a tutti! Bentornati ad un nuovo capitolo: allora, chi è confuso? XD Spero di aver saputo creare la giusta atmosfera per questo evento “a sorpresa”!
-Ahah illusa, lo avevano capito tutti che Pallando caro era l’antagonista principale.- ^-^
-Ah. Grazie voce nella mia testa per avermelo ricordato.- <3
Almeno si sono presentati due nuovi personaggi, no? Se siete curiosi di conoscere il seguito
-Mitomane.-
-Shhh taci-
seguitemi nel prossimo capitolo! Vi aspetto *-* Intanto, fatemi sapere cosa ne pensate ;)

Mille abbracci,
Aleera

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Capitolo 21
*** In bilico ***


-In bilico-

 
     Miniel si affaccendò contro il proprio cavallo, assicurando i grossi fagotti alla sella con gesti secchi e meccanici. Un folto manipolo di soldati a cavallo la aspettava compostamente vicino a tre grossi carri, sotto il sole di mezzogiorno, e il silenzio della città le pesava sul petto come un macigno.
    Pestò un piede a terra, la fronte premuta contro il collo grigio dell’animale: sapeva che quel momento sarebbe presto arrivato ma lo odiava, lo odiava con tutta sé stessa.
    -Miniel, avanti. Dobbiamo andare.- La incoraggiò con dolcezza la madre, avvolta dal suo mantello argenteo. La Principessa si girò lentamente, per nulla pronta ad affrontare ciò che si sarebbe trovata di fronte: alle porte di Minas Tirith, la sua famiglia e i suoi amici assistevano alla sua imminente partenza, sorridendo come fosse il più lieto degli eventi.
    Un’immagine che, anche dall’immaturità dei suoi quattordici anni, le parve forzata e fuori luogo.
    Prese un respiro profondo, tentando di ricacciare indietro le lacrime e avvicinandosi a Legolas, i pugni serrati: -Non sorridere così. Non c’è niente per cui sorridere.- Lui non diede peso al suo tono offeso e le aggiustò i lacci del mantello, premuroso: -Sono solo sollevato. Sarai al sicuro ed è tutto ciò che conta.-
    -Avevi promesso che mi avresti insegnato a tirare con l’arco.-
Lo accusò comunque lei, sentendo le guance bruciare per lo sforzo di non urlare come una bambina capricciosa. L’elfo le accarezzò la testa con dolcezza: -Lo farò, Miniel.-
    Già, come poteva esserne così sicuro?
    Lei scosse con forza il capo, lanciandogli le braccia sottili al collo: -Promettimelo, per favore!- Legolas la strinse a sé e, nonostante lo sguardo velato dall’apprensione, promise.
    Miniel lo lasciò solo per chinarsi ad abbracciare con altrettanta forza Gimli, lì accanto. Il nano tirò su con il naso, battendole pacche amorevoli sulla schiena: -Su, su, principessina, questo non è un addio! È un arrivederci.- La rassicurò: -Faremo una bella pulizia di quella feccia, non temere!-
    Miniel, che aveva ascoltato le storie delle loro valorose gesta per tutta la vita, sapeva bene che i due erano ottimi combattenti ma la stretta al cuore che provava nel lasciarli indietro, pronti per la guerra, l’atterriva. Asciugò di nascosto una lacrima e si raddrizzò, liberando il nano dall’abbraccio.
    Quando incontrò gli occhi viola della stella, dovette fare appello a tutte le sue forze per non ribellarsi nuovamente a quell’assurda situazione. Sillen aveva il volto scavato, Miniel sapeva che non mangiava abbastanza: ora chi si sarebbe premurato di ricordarglielo? -Fai buon viaggio, Miniel.- Le sorrise, lei. Era un sorriso bellissimo nonostante tutto, pensò la Principessa.
    Prese le mani della stella tra le sue, le labbra tremanti: -Sappi che sono io la più vecchia delle due, dunque la più saggia! Se ti dico che puoi farcela, di sicuro è vero.- La rimbeccò.
    Sillen si morse forte il labbro inferiore e la strinse di slancio, riuscendo a malapena ad articolare le parole: -Grazie, Miniel.- E la giovane ricambiò la stretta, affondando il viso nei setosi capelli neri dell’amica. Non ebbe bisogno di dirle quanto le volesse bene, quanto sarebbe rimasta con lei per aiutarla a curare le ferite del suo animo: era certa che Sillen sapesse già ogni cosa.
    Con reverenza, Miniel si allontanò da lei e si rivolse agli altri alleati, inchinandosi leggermente: -Namarië, amici miei (addio). Vi affido la mia casa.- Questi si inchinarono a loro volta, una mano sul cuore. La giovane li guardò uno ad uno, imprimendosi nella mente i loro visi così familiari.
    Non solo stava lasciando la sua meravigliosa città, le pigre albe dorate di Gondor, le persone che amava da sempre: stava abbandonando tutto quello che conosceva.
    L’ignoto che si prospettava davanti a lei le dava i brividi e più si soffermava a pensare al futuro, più temeva di sprofondare nell’angoscia e nell’incertezza.
    Si chiese come la sua gentile madre fosse riuscita ad affrontare quelle emozioni senza cedere alla disperazione, anni prima. Quanta forza aveva dimostrato, nell’attendere il suo amato, perché quella le pareva la tortura peggiore che qualcuno potesse subire.
    Infine, con quei tormentati pensieri nella mente, Miniel volse verso suo padre. Elessar, composto e regale com’era sempre stato, non si chinò per asciugarle le pesanti lacrime. Una parte di lui avrebbe voluto stringere quella piccina a sé, per non lasciarla andare mai più, ma quei sentimentalismi non avrebbero trovato spazio, non quel giorno. Sua figlia aveva bisogno della sua forza ora più che mai ed Elessar doveva dimostrarle di essere un Re, non solo il suo amato padre.
    Per quanto fosse difficile, le parlò duramente: -Figlia mia, mia unica erede, tu sei il futuro del Regno degli Uomini. Non mostrarti debole dinanzi a tale onore. Da questo momento, ti affido tua madre e tutto il tuo popolo, che ti sta aspettando a Dol Amroth.- Lei chiuse gli occhi con forza per ricacciare indietro le lacrime e sollevò il mento, con solennità.
    -Non ti deluderò padre.- Esclamò, la voce arrochita dall’emozione. Il Re degli Uomini le posò una mano ruvida sulla spalla: -No, Principessa. Sono io che non voglio deluderti. Ad ogni costo, ti renderò il tuo regno salvo e libero dal male.-
    Lei annuì, le labbra serrate, pronta a raggiungere sua madre. Passò affianco al padre, gli occhi puntati altrove per non incontrare il suo sguardo.
    Elessar la lasciò passare ma, poco prima di allontanarsi, un suono terribile giunse alle sue orecchie e gli straziò il cuore: Miniel stava singhiozzando sommessamente, cercando di tenere il mento tremante in alto per non darlo a vedere. Istintivamente, il Re la trattenne per un braccio, costringendosi però a non guardarla, a non comunicarle il suo dolore attraverso i propri occhi. Prima che potesse ricomporsi, le parole gli sfuggirono dalle labbra come un soffio: -Ti amo più della mia stessa vita, Miniel.-
    La Principessa s’irrigidì all’istante, tremando per la paura. 
    Più della sua stessa vita. 
    Prima che lei potesse voltarsi nuovamente verso di lui, Elessar la spinse con sicurezza verso lo stallone grigio e lei si affrettò a montare, conscia che se non fosse partita all’istante non ci sarebbe mai più riuscita.
    Arwen la imitò, guardando un'ultima volta l’amato, che le fece cenno di incamminarsi senza indugiare oltre. Le due dame di Minas Tirith volsero le cavalcature verso Sud, precedendo i carri che custodivano gli ultimi beni di valore della città, e i soldati si disposero con efficienza dietro di loro.  
    Sotto il fulgido sole d’inizio estate, Miniel strinse le redini tra le dita: -Che i Valar ti proteggano, amato padre mio.- Sussurrò, puntando con decisione lo sguardo dritto davanti a sé.
 
**
 

    Poco dopo, senza nemmeno concedersi il tempo di assimilare la penosa situazione, gli alleati si riunirono nello studio del Re di Gondor e di Arnor.
    Faramir incrociò le braccia al petto ampio, scrutando attentamente la mappa davanti a sé: -Sei certa che Pallando non sappia di questa parte del nostro piano?-
    La stella storse la bocca, scocciata: -Non ho detto questo, ho solo riportato quello che ho sentito nell’illusione. “Arrenditi ed io risparmierò la città di Minas Tirith, dove con tanta presunzione credi di resistermi”- Ripeté lei, ricordando con estrema precisione le parole dello stregone.
    Elessar scosse la testa, preoccupato: -Se Alatar ha comunicato a Pallando i nostri piani, allora egli saprà per certo quello che vogliamo fare.- Sillen aveva riflettuto molto su quel dettaglio: -Sì, Pallando ha sempre saputo il momento e il luogo esatto dove io mi sarei trovata, non possiamo rischiare. E comunque, senza Alatar il piano è infattibile.-
    Il Re degli Uomini sbatté con forza una mano sul tavolo di legno, furente: -Maledizione, quello stregone traditore!- Sibilò.
    Sillen tentò con tutta sé stessa di non lasciarsi sopraffare dalle emozioni e scavò nella propria mente, in cerca di una soluzione.
    Pallando era un abile manipolatore, non avrebbe mai pronunciato una parola semplicemente per caso: -Pallando sa che modificheremo il nostro piano.- Sussurrò. -È inutile cercare di ingannarlo.- Gli uomini la fissarono abbattuti, seguendo in silenzio il suo ragionamento.
    Passarono diversi minuti prima che la muta tensione nella stanza fosse infranta, scuotendo i presenti. -Dannazione, cosa possiamo fare dunque?- Esclamò Éomer, stizzito.
    -Sillen aveva elaborato forse l’unico piano in grado di darci una possibilità. Dobbiamo essere cauti, adesso.- Cercò di placarlo Glorfindel, affiancando la stella: -Per lo meno siamo certi che, se mai riuscissimo a studiare un piano alternativo, questa volta Alatar non ne saprebbe niente.-
    -Giusto! Dobbiamo cambiare strategia ora che Alatar non può sentirci!- Si riprese Faramir, anche se non colse altrettanto entusiasmo nei compagni, che si limitarono a guardarlo, mesti.
Glorfindel si batté un dito contro la guancia affilata, pensieroso.
    -Tuttavia, come abbiamo precisato, modificare il piano è proprio ciò che Pallando si aspetta che noi facciamo.-
    Lo sforzo per districarsi in tutto ciò lasciò Éomer sconvolto:
    -Arrivate al punto!- Ma Elessar lo zittì con un gesto, infastidito.
    -Non c’è un punto, Éomer! Glorfindel ha ragione, non esistono una scelta migliore e una peggiore. Pallando si premunirà di prendere in considerazione qualsiasi nostra azione, che decidiamo di modificare il piano o no.- 
    Oh. Ora che il discorso gli era più chiaro, Éomer si pentì di aver preteso una spiegazione: -Ottimo. Questo vuol dire che siamo fregati. Belli che morti!-
    Sillen posò entrambe le mani sulla scrivania, ragionando più velocemente possibile: -Ripetiamo il nostro piano, un’ultima volta. C’è di sicuro un modo per non rendere tutto vano.-
    Glorfindel mosse velocemente le pedine sulla mappa, concentrato: -Il tuo piano prevedeva che tu rimanessi nella città con gli uomini di Minas Tirith. Nel frattempo, la cavalleria di Rohan, i Nani, gli Elfi e il resto della fanteria, si sarebbero appostati dietro i colli del Pelennor a Nord, nascosti dalle nebbie evocate da Alatar. Quando l’esercito nemico fosse giunto alla città, tentando di assediarla per arrivare a te, l’avreste lasciato entrare e le nostre forze avrebbero attuato l’attacco a sorpresa da Nord, circondandolo e chiudendolo in una morsa. Così facendo, sarebbe stato costretto nella città e allora ci saremmo presi tutto il tempo per decimarlo, fino all’annientamento.-
    Era davvero un buon piano, doveva ammetterlo.
    La città svuotata, le nebbie, l’attacco a sorpresa, la trappola.
    Sillen osservò le numerose pedine: -Le Aquile non hanno riportato nulla di rilevante dalle ronde, per ora. L’esercito di non morti continua l’avanzata nell’Ithilien come ci aspettavamo e, di questo passo, si troverà dritto davanti alla città, non a Nord per intercettare i nostri. Questo potrebbe significare che Pallando non si aspetta più il nostro attacco a sorpresa, avendo perso la magia di Alatar, ed è convinto che abbiamo già modificato il piano.-
    -Ciò non esclude che i nemici possano virare all’ultimo e allora sarebbe difficile spostare in fretta il nostro esercito e le infermerie.- Sospirò Elessar, scuotendo la testa: -Non possiamo fare niente, Sillen. O manteniamo il piano o ci prepariamo a uno scontro frontale. Il nemico sarà qui tra poco, comunque noi decidiamo di agire.-
    La stella strinse i pugni.
    Che cosa doveva fare, cosa le sfuggiva?
    Dove avrebbe potuto nascondere l’esercito per evitare lo scontro diretto e aggirare il problema dell’inferiorità numerica?
    Poi, un dettaglio catturò il suo sguardo. -Osgiliath.[1]-
    Elessar, subito, non capì, poi seguì lo sguardo della stella, sulla mappa ingiallita e sgranò gli occhi. -Credi che…-
    Anche Glorfindel annuì, curioso: -Potrebbe funzionare. La cavalleria però è difficile da nascondere, senza le nebbie.-
    -Allora qui si nasconderanno fanti e arcieri.-
    Esclamò Sillen, rinvigorita. -Sì, è questo il modo migliore! Disgreghiamo l’esercito, non servirà la nebbia. La cavalleria attaccherà da Nord, gli Uomini e i Nani da Sud-Ovest, dalla città. E gli Elfi da Osgiliath. Ognuno con le priorie risorse. Spingeremo l’esercito nemico a dividersi, per combattere su ogni fronte!-
    -In questo modo copriremmo più direzioni possibili. E, disponendo la cavalleria a Nord, siamo sicuri che questa riuscirà a spostarsi velocemente, nel caso il nemico virasse all’ultimo.-
    Elessar sorrise, stringendo la stella per le spalle, con un braccio: -Non tutto è perduto! Godremo ancora dell’effetto a sorpresa.- Sillen rise, tesa ma rinvigorita.
    L’elfo dorato, accanto a loro, si passò le dita affusolate tra i capelli, guardandoli attraversi le ciglia folte: -Legolas, Elladan ed Elrohir guideranno gli elfi da Osgiliath. Faramir ed Elessar, voi rimarrete alle porte di Minas Tirith, Thorin vi appoggerà poco più a Sud. Éomer, tu e i Rohirrim vi nasconderete dietro ai colli del Pelennor, a Nord.- Piantò gli occhi in quelli ametista della stella, serio: -Io verrò con te. Non sappiamo ancora quanto puoi resistere usando il tuo potere e, in questo caso, temo dovrai farne largo uso. In caso di necessità, io sarei l’unico a poter tentare un’azione contro Pallando.-
    Sillen strinse i pugni e annuì, risoluta: lo scontro che aspettava, la sfida risolutiva tra lei e lo stregone.
    -Seguiremo la battaglia insieme alle aquile. Così sarà più facile individuare e raggiungere Pallando.- Aggiunse Glorfindel.
    Tutti annuirono, approvando il piano, e il Re degli Uomini si diresse velocemente alla porta: -Dobbiamo dirlo a tutti, adesso. Mandate a chiamare gli altri capi dell’esercito, ci riuniremo immediatamente nella Sala del Trono.- Gli altri lo seguirono in fretta, ben più speranzosi di quanto non fossero quella mattina.

 
**
 

    Nel frattempo Legolas, dall’alto del Cortile della Cittadella, aveva osservato il corteo reale delle Signore di Minas Tirith sparire dietro l’orizzonte, i capelli biondi sferzati dal vento tiepido.
    Gimli, rimasto per tutto il tempo accanto a lui, tirò un’altra boccata dalla sua lunga pipa: -Avessi avuto qualche anno in meno, le avrei promesso di rivederla con più fervore. Ora non so nemmeno se supererò la battaglia.- Borbottò, pensieroso. -Temo di essermi arrugginito, in questi anni di pace.-
    L’elfo sorrise appena, senza voltarsi: -Senz’ombra di dubbio sei invecchiato. Ciononostante, non credo combatterai con meno foga.- Il nano rise, accondiscendente: -No, certo che no. Non se ancora devo darmi da fare per dimostrarti chi è il migliore tra noi, orecchie a punta.- Legolas sentì il calore invadergli le guance ma era comunque troppo orgoglioso perché potesse lasciar cadere la provocazione: -Vorrei ricordarti che ho sempre vinto io.-
    L’altro, incredibilmente, non rispose a tono e il giovane Sindar si girò verso di lui incuriosito, un sopracciglio alzato. Incontrò lo sguardo serio di Gimli, già fisso nel suo, e trattenne istintivamente il respiro.
    Il nano lo studiò per qualche secondo, quasi tentasse di risolvere il più intricato degli indovinelli, scritto da qualche parte sul suo viso affilato: -Già, hai sempre vinto tu.- Concluse, la voce tanto bassa che l’elfo quasi non sentì.
    Quasi.
    La gola di Legolas si seccò improvvisamente e, per quanto lui provasse a riacquistare un minimo di contegno, rimase a fissare il nano con le labbra schiuse, in silenzio.
    Gimli distolse rapidamente lo sguardo, sospirando: -Smettila di fare quella faccia sorpresa, stupido elfo. Quando ieri te ne sei andato, io non avevo ancora finito di parlare.-
    Legolas deglutì: giusto, il loro litigio. -Non volevo più ascoltare. Oh certo, me ne farò una colpa, se vuoi, ma non mi piace quando parli di andartene.- Lo accusò con voce secca e l’altro strinse i pugni: -Se tu mi avessi lasciato finire, avresti capito cosa stavo cercando di dire!- A quelle parole, l’elfo arricciò il naso fine e si voltò, offrendo al nano il proprio profilo contrariato: -Non esiste un modo per alleggerire tale notizia. Ma ho già detto che non m’interessa se vuoi andartene. Combatteremo e vinceremo questa guerra, poi potrai fare quello che ti pare.-
    Gimli gli afferrò prepotentemente il polso e l’elfo si voltò verso di lui, furioso. Rimasero parecchio a fissarsi negli occhi, i respiri accelerati e le espressioni dure.
    Prima che uno dei due potesse fare qualsiasi cosa, però, Thorin III Elminpietra si schiarì la voce, facendoli sussultare vistosamente.
    Stava ritto in piedi, poco lontano da loro: -Spero di non aver interrotto niente.- Commentò, squadrando prima le guance arrossate dell’elfo, poi la mano del nano, ancora chiusa sul suo polso sottile. -Per la mia barba, che cosa diamine c’è?- Gli abbaiò contro Gimli, forse con un po’ troppa enfasi, lasciando andare velocemente Legolas.
    Il Re nanico, con le sopracciglia aggrottate, decise saggiamente di far finta di non aver visto nulla e indicò un più che basito Ibûn, rimasto poco indietro: -Sono venuto a consegnare un dono alla Stella dei Valar. Lei dov’è?-
    Legolas si lisciò la casacca verde, facendo un passo avanti per evadere da quell’assurdo stato di confusione in cui era precipitato: -Ti farò strada, mio signore. Sillen si trova nello studio di Re Elessar.- L’altro annuì e l’elfo lo superò, lasciò Gimli accanto al parapetto, senza voltarsi indietro.
    Guidò Thorin e il fabbro dentro il Palazzo reale e subito intercettò Sillen e gli alleati, diretti verso la Sala del Trono.
    -Legolas! Devi venire con noi.- Lo affiancò Elessar quando lo vide, sorridendo: -Abbiamo ottime notizie! Anche tu devi assistere alla riunione, mio signore Thorin.-
    Il nano alzò una mano per interromperlo, deciso a concludere prima la faccenda per cui era giunto lì di persona: -Solo un momento, Re di Gondor. Devo consegnare questo dono alla magnifica stella.-
    Sentendo quelle parole, Sillen si avvicinò velocemente ma tenne lo sguardo basso, ricordando molto bene la sua illuminante conversazione con il mastro fabbro a proposito di corteggiamenti e assurde supposizioni di quel genere. Si sforzò di non guardare Thorin negli occhi, arrossendo leggermente: -Mio signore, Ibûn ha fatto davvero in fretta! Ti sono grata per il tuo aiuto ma ti prego di accettare un pagamento equo per-
    -Mia adorata Sillen, ho già chiarito che questo è un dono, pertanto non voglio nulla in cambio.- Lui le prese la mano con una rude gentilezza che la fece sobbalzare: -Mi basta che tu sia al sicuro durante la battaglia. Dobbiamo uccidere un bel po’ di mostri, non è così?- Esclamò.
    La stella gli sorrise grata, e solo allora l’altro si rivolse a Elessar:
-Non mi tratterrò oltre. Andiamo, Re degli Uomini!- Questi annuì e, prima di procedere, lanciò uno sguardo complice alla stella, adocchiando l’altro nano giunto lì insieme a Thorin: -Vai pure, Sillen. Qui ci penso io, adesso.-
    -Vi raggiungo appena posso.- Gli assicurò lei avvicinandosi a Ibûn, che l’aspettava pazientemente poco più avanti. Non appena lei incontrò il suo sguardo, il nano dalla barba bianca le fece l’occhiolino: -Felice di rivederti, Stella dei Valar.- Si sistemò meglio sulle spalle il grosso sacco che, a giudicare dalla sua posa dolorante, doveva pesare molto.
    Sillen si morse il labbro inferiore, trepidante: non vedeva l’ora di saggiare tra le dita quell’armatura portentosa che l’abile nano aveva forgiato su misura per lei. -Seguimi, così posso provarla!- Lo incitò, allungando il passo e allontanandosi dagli alleati, che si dirigevano alla Sala del Trono dalla parte opposta.
    Solo Glorfindel rimase indietro, senza seguire né il Re, né la stella. Osservò il corteo sparire velocemente e respirò a fondo. Come un’ombra leggera, si ritirò nel piccolo corridoio che sbucava poco più in là.

 
**

    L’elfo dorato di Imladris scese velocemente le scale, inoltrandosi negli stretti corridoi che conducevano alle segrete di Minas Tirith.
    Giunse all’ingresso, e le quattro guardie di turno lo squadrarono brevemente, stringendo appena le lunghe lance grigie: -Il Re ha ordinato di non far passare nessuno, mio signore.-
    Il Vanyar piantò gli occhi taglienti in quelli dell’uomo, che arretrò automaticamente di un passo: -Sono qui per conto della Stella dei Valar. Fatemi passare.- Ordinò imperioso, i pugni stretti.
    Per quanto i quattro uomini sapevano, quella poteva benissimo essere una menzogna ma si scostarono comunque, obbedienti: nessuno di loro aveva intenzione di tirarsi addosso le ire del nobile elfo, che pareva infuocato sotto alle luci tremolanti delle torce. Inoltre, giacché egli aveva addirittura tirato in causa la Stella, doveva di certo avere un buon motivo per trovarsi lì.
    Glorfindel li superò di gran lena, piantandosi infine davanti alle sbarre della cella più buia e isolata della città.
    Alatar, scompostamente seduto sulla dura branda di legno, nemmeno sollevò lo sguardo ma sentì chiaramente l’energia dell’elfo scuotere l’aria pesante della prigione: -Non mi aspettavo questa piacevole visita.- Commentò e la piccola Lelya trotterellò pigramente sul trespolo accanto, incatenata.
    Non che la situazione fosse nuova, per i due compagni: si erano trovati nella medesima cella poco tempo addietro, giunti per la prima volta a Gondor. Alatar si stava giusto chiedendo se non sarebbe stato meglio rimanerci sin da quel momento, in cella.
    -Piacevole visita? Fosse stato per me, saresti infilzato come un maiale. Sei vivo solo grazie al buon cuore di Sillen.- Ringhiò Glorfindel: -Un cuore che hai fatto sanguinare, Morinehtar. Non la passerai liscia.- Alatar non si scompose e questo irritò ancora di più l’elfo. -Sei sempre stato impulsivo, Glorfindel di Gondolin. Insolito, per uno della tua razza.-
    -Già, penso mi appellerò alla mia impulsività quando ti troveranno morto, stasera. Grazie per il consiglio.-
    Lo stregone scrollò le spalle, curvo su sé stesso come se a malapena riuscisse a sostenere il proprio peso: -Suppongo sia giusto così.- L’elfo lo squadrò a lungo, pensieroso.
    Come sospettava, lo stregone sembrava davvero arreso al suo destino. -È proprio a causa di questo tuo contradditorio modo di fare che mi son sovvenuti dei dubbi, sai?- Lo apostrofò, dopo un po’. Alatar si voltò finalmente verso di lui, le sopracciglia aggrottate: -Dubbi? A proposito di cosa?-
    -A proposito del tuo tradimento.-
    -Sii ragionevole. Io ho tradito Sillen.-
    -No, non credo.- Tagliò corto Glorfindel, piccato. -Almeno, non volontariamente.-
    Lo stregone scosse la testa, ridacchiando sommessamente: -Tu non sai niente, Glorfindel. Se credi di conoscermi perché un tempo viaggiammo insieme, ti sbagli. Non puoi nemmeno immaginare chi io sia e che cosa io abbia fatto da allora.-
    L’elfo si avvicinò alle sbarre, gli occhi dorati stretti in due fessure: -Il mondo non è solo bianco o nero, per quel che mi riguarda.-
    -Dunque tu credi che, se anche non avessi tradito Sillen, sarebbe giusto perdonare tutti i crimini del mio passato? Non funziona così.- Alzò la voce, lo stregone. -E per la cronaca, io ho tradito Sillen. Forse non saranno state le mie labbra a rivelare i vostri segreti a Pallando ma è più che evidente che lui agisce attraverso me. Credimi, se io fossi stato onorevole, non avrei mai nemmeno cercato la stella. E, invece, eccomi qui. Ad aspettare di vedervi cadere uno dopo l’altro.-
    Glorfindel non seppe cosa rispondere, questa volta.
    Quel dannato stregone, gli rendeva le cose difficili: -Dovresti vergognarti. Sillen-
    -Sillen starà molto meglio senza di me.- Abbaiò l’uomo, interrompendolo. Glorfindel vide i suoi occhi brillare, lucidi.
    Ecco i veri sentimenti dello stregone, le sue paure.
    E l’elfo fu infastidito dalla sua arrendevolezza, dai suoi sensi di colpa del tutto fuori luogo.
    Sbatté violentemente un pugno contro le sbarre e Lelya prese ad agitare le ali, spaventata: -Allora marcisci qui. A battaglia conclusa, tornerò a ucciderti con le mie stesse mani.- Lo minacciò, girando poi sui tacchi e lasciandolo solo nel buio.
    Alatar lo guardò andare via, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Sarebbe stata una morte fin troppo giusta, quella, per uno come lui.
    Sussurrò qualche parola per tranquillizzare il piccolo falco, poi si sdraiò sulla rigida brandina, dando le spalle alle sbarre della sua cella.
 

 
**

    A parecchie miglia a Est, Landroval osservava l’orizzonte, planando sulle verdi distese e sui boschi frondosi ai confini del Nord Ithilien. La quiete e il silenzio regnavano sovrani, spettatori della placida discesa del sole estivo oltre la cresta degli Ered Nimrais.
    In testa al gruppo di ricognizione, il grande Re delle Aquile si alzò di quota, sfruttando le correnti. Non appena riuscì a stabilizzarsi nuovamente, tornò a scrutare le terre davanti a sé e fu solo allora che notò del movimento. Aguzzò la vista, mantenendosi il più immobile possibile per non lasciarsi sfuggire nessun dettaglio.
    Subito dopo, spalancò gli enormi occhi gialli, richiamando le altre Aquile al suo fianco.
    Tra una macchia boschiva e l’altra, una lunga striscia nera inspessiva l’orizzonte come una maldestra pennellata di inchiostro, troppo spessa e netta perché appartenesse a quel paesaggio ameno. Landroval sentì l’agitazione scuotergli le penne brune: infine, il nemico era giunto a Gondor.
    Con decisione, il Re delle Aquile si lanciò in quella direzione, e più si avvicinava all’esercito di non morti, più il peso di quell’imminente battaglia gravava inesorabilmente su di lui: i boschi adesso, invece che stagliarsi sulle distese di erba smeraldina, parevano galleggiare su un cupo mare silente, nero come la pece.
    Erano schiere infinite.
    L’esercito nemico inghiottiva il verde come una macchia di liquido putrescente e l’aria diveniva sempre più pregna del suo fetore, fino a renderla insopportabile.
    Le pupille acute del Maia[2] fissarono con attenzione l’avanguardia di quel lento fiume di cadaveri, finché la sua attenzione non venne catturata da una strana figura, che stonava con tutto il resto. Questa cavalcava un enorme mannaro scheletrico, le gambe scompostamente incrociate sull’arcione; il capo e le spalle erano coperti da una mantellina color prugna, che lasciava intravedere lunghe ciocce nere come la notte.
    Nonostante gli sforzi, Landroval non riuscì a mettere a fuoco nessun altro dettaglio. Ciò nonostante, aveva tutta l’impressione che quell’essere fosse… vivo.
    Non ebbe nemmeno il tempo di formulare quell’inquietante pensiero che la figura a cavallo del mannaro voltò il viso pallido verso di loro. L’aquila sentì il suo sguardo penetrargli la carne, come un dardo incandescente.
    Per un secondo, temette di perdere quota.
    Poi, un rombo innaturale riscosse le altre Aquile, che urlarono sconcertate e, dopo un attimo di smarrimento, Landroval riuscì a individuare cosa lo avesse provocato: a diversi passi dall’essere incappucciato, semi nascosto dalle fronde degli alberi e dal sottobosco, era riverso a terra un oggetto di legno e metallo, da cui fuoriusciva un fumo violaceo, denso e bollente.
    Il Re delle Aquile schioccò il becco, seccato: doveva averlo gettato quell’individuo, mentre era distratto.
    Uno dopo l’altro, altri oggetti simili furono lanciati tra gli alberi, per tutta la lunghezza dell’esercito, detonando subito dopo con boati metallici. Ben presto, il fumo viola cominciò a sollevarsi dalle fila nemiche e Landroval, intuendo il loro piano, gridò la propria rabbia all’essere incappucciato in testa alla legione nemica. Prima che il fumo lo nascondesse alla sua vista, all’aquila parve di vedere quell’individuo sorridere.
    Certo, doveva essere un ingenuo se credeva di nascondersi agli occhi acuti delle aquile con banale fumo.
    Landroval raccolse una mezza dozzina dei suoi più veloci compagni e si lanciò in picchiata, deciso a disperdere quella dannata nebbia violacea a suon di colpi d’ala.
    Una delle Aquile, la più veloce, superò i compagni, determinata: non appena questa entrò in contatto con il fumo, però, dal suo becco chiaro si levarono urla terribili. Le altre si arrestarono violentemente, fissando con sgomento il compagno che li aveva preceduti: questo si dimenò nell’aria, gridando e scuotendo la testa, come se tutto il suo corpo avesse preso fuoco.
    Dopo pochi terribili secondi, l’aquila piombò di peso tra quei fumi innaturali. Si udì un tonfo sordo e le sue grida cessarono con un gorgoglio sinistro.
    -Non avvicinatevi! State lontani!- Urlò Landroval, impedendo il passaggio alle altre Aquile che, rabbiose, cercavano di abbattersi come furie sull’esercito al di là del fumo velenoso.
    -Voi due, volate a Minas Tirith! Il nemico è qui!- Impartì, severo.
    Con un colpo d’ali, si alzò nuovamente di quota, mettendo quanta più distanza possibile tra loro e le nebbie mortali.
    Qualcosa lo insospettiva: l’esercito nemico pareva essersi fermato sotto quei miasmi, senza marciare oltre.
    Il sole scomparve e la notte si trascinò all’infinito: le Aquile erano stanche, costrette in volo da ore e sfiancate dalle folate di vento che trasportavano troppo vicino a loro il fumo velenoso.
    L’esercito non pareva essersi più mosso e per parecchio tempo, dall’alto della sua postazione, Landroval non udì nessun rumore.
    Era come se il fumo celasse ciò che aveva al di sotto non solo alla vista ma anche a tutti gli altri sensi.
    Frustrato, il Maia fece il giro intorno all’immenso esercito per molte volte, cercando tracce e sperando di captare suoni che, però, non si presentarono mai.
    Alle prime luci dell’alba, finalmente, il fumo cominciò a diradarsi, rianimando il gruppo di ricognizione.
    Nell’attimo in cui le nebbie violacee lasciarono spazio alle lussureggianti fronde del bosco sottostante, tuttavia, la determinazione abbandonò definitivamente le Aquile: l’enorme, immenso esercito nemico era scomparso, senza lasciare traccia.
 


[1] Osgiliath: (in Sindarin Fortezza della Moltitudine di Stelle) Cittadina fortificata posta sul fiume Anduin.
 
[2] Maia: singolare di Maiar, spiriti divini (in questo caso, sotto forma di animale). Sono Ainur, seppur di grado minore rispetto ai Valar . Moltissimi di loro scelsero di camminare sulle terre di Arda, dopo la sua creazione.

 



N.D.A

Ciao a tutti! Bentrovati :D


Che dire, questa volta la mia assenza è stata del tutto non voluta! E sono anche parecchio contrariata T-T” Sono stata colta di sorpresa (cosa che mi potevo evitare, dati i precedenti) dalla fantastica organizzazione della mia università e ho dovuto mollare qualsiasi cosa per mettermi in pari con gli esami che ci hanno prontamente buttato lì, a distanza di poche settimane dall’avviso. In questo meraviglioso momento poi, dove già tutti abbiamo a che fare con affari ben poco piacevoli :(
Ma torniamo al capitolo! Ci ho rimuginato sopra un bel po’, lo ammetto. Mi sembra sempre di rimandare questa fatidica battaglia -lo so che è così, non fatemelo notare sennò piango- ma proprio non potevo tagliare via queste parti. Sì, è una specie di collage di situazioni ma presto troveranno ognuna la propria strada, fidatevi di meee!
Okay, ho parlato fin troppo in queste note XD Ringrazio sempre tantissimo chi è arrivato sin qui, chi ha recensito (vi adoroo) e chi ha seguito la storia! Siete fantastici! Vi aspetto nel prossimo capitolo,


Mille abbracci -e visto che sono virtuali ignoriamo il metro e mezzo di distanza <3-
Aleera


P.S Comunque fatemi sapere cosa ne pensate! Bacii

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Capitolo 22
*** Alla Battaglia, parte I ***


 
-Alla Battaglia, Parte I-
 
 
    Il sole picchiava senza pietà sulle armature argentee degli Uomini dell’Ovest, disposti in file serrate. Elessar posò istintivamente una mano sull’elsa di Andúril, concentrato a osservare l’orizzonte.
    -Sono tutti in posizione?- L’aquila al suo fianco spostò il peso da una zampa artigliata all’altra, annuendo.
    Faramir affiancò il Re degli Uomini, respirando affannosamente nell’elmo: -Non mi piace questa situazione. Un esercito di quasi centomila individui non può scomparire nel giro di una notte.-
    Aggrottò le sopracciglia in un’espressione preoccupata e gocce di sudore gli solcarono la fronte. Elessar strinse la mascella, teso e altrettanto infastidito dal caldo.
    Non appena le Aquile avevano riportato la notizia che il nemico era giunto a Gondor, gli eserciti si erano meticolosamente preparati, allestendo in fretta e furia le infermerie.
    Dalla sua posizione, alle porte della città vuota, Elessar non riusciva a scorgere nient’altro che le distese del Pelennor, che stava per diventare di nuovo un campo di battaglia, dopo trent’anni.
    Poi, quella mattina, Landroval era rientrato dalla ronda più sconvolto che mai, annunciando che, inspiegabilmente, il nemico era scomparso nel nulla, all’ombra delle fronde del Nord Ithilien.
    E, per un attimo, c’era stato solo il panico.
    Solo la Stella dei Valar riuscì in qualche modo a placare gli animi spaventati degli alleati, prendendo in mano le redini della situazione. Aveva incoraggiato tutti quanti a mantenere fede al piano e aveva riprogrammato le ronde delle Aquile, rendendole più brevi ma più numerose, in modo che non si stancassero troppo prima dello scontro.
    E, ora, attendevano.
    Perché qualcosa sarebbe dovuto accadere a momenti, Elessar lo percepiva nelle dita tremanti delle sue mani di Dúnadan.
    Se non fosse stato per Sillen, lo sconforto lo avrebbe piegato, ne era certo. Invece era pronto, forse più di quanto non fosse mai stato in vita sua.
    Con un gesto secco, si portò una mano al petto, all’altezza del cuore. Piantò gli occhi grigi in quelli bruni dell’aquila al suo fianco, allungando la mano: sul suo palmo ruvido, brillava una spilla. -Siamo pronti allo scontro. Ti chiedo solo un favore. Da' questo a Sillen da parte mia.- L’aquila squadrò il Re degli Uomini, poi prese con delicatezza l’oggetto, chiudendolo nel becco duro.
    Spiccò il volo, tra i nitriti contrariati dei cavalli e gli sguardi tesi dei soldati di Gondor.


 
**

Sillen, dall’alto delle mura della Cittadella, riusciva ad abbracciare con lo sguardo tutto il campo di battaglia, ancora vuoto e silenzioso. Con un gesto meccanico, sistemò per l’ennesima volta l’alta coda di cavallo che le tratteneva i capelli neri, testando la tenuta del fermaglio elfico che Miniel le aveva regalato.
    L’armatura in mithril, sottile ed elegante come l’aveva sempre immaginata, le donava un aspetto fiero e potente, fasciandole le forme come una seconda pelle, più dura delle scaglie di drago.
    Ibûn aveva ragione: era un dono degno di un Re.
    Su ogni placca lucente erano state lavorate delle leggere filigrane, tanto sottili quanto manieriste; i gambali erano slanciati, per permetterle piena libertà di movimento e, a destra, lo spallaccio[1] si delineava ampio e regale. Sul corpo, le placche verticali le stringevano il busto come le stecche del più resistente dei corsetti, eppure parevano quasi flessibili sotto i suoi movimenti; erano di una pesantezza rassicurante e andavano unendosi infine in un intreccio di ferro e lacci di cuoio, lungo la linea della spina dorsale.
    Sillen passò una mano sull’avambraccio destro, dove le placche dell’armatura si facevano più spesse per proteggerle il braccio armato e sospirò. Nonostante detestasse ammetterlo, si sentiva perfettamente a suo agio in quelle vesti, in quell’intera situazione.
    Dopotutto, era nata per vivere quel momento.
    Sistemò malamente le placche che le ricoprivano il petto, in modo che non ostacolassero i suoi movimenti ma, probabilmente, aveva stretto male i lacci sulla schiena e queste si spostarono nuovamente. Cercò di capire dove avesse sbagliato, scocciata: Ibûn aveva impiegato pochi minuti a infilargliela correttamente, mentre lei a malapena era riuscita a capire quale fosse il fronte e quale il retro. Morse il labbro inferiore, concentrata, tastando i laccetti di cuoio.
    Proprio in quel momento, Glorfindel la raggiunse, smontando dal dorso piumato di una delle aquile: -Gli Elfi sono schierati e pronti.- La informò, serio. Si arrestò proprio dietro di lei, le braccia incrociate e il sopracciglio sottile alzato.
    Non l’avrebbe mai rivelato a nessuno ma, per un attimo, sentì il cuore mancare un battito alla vista della Stella dei Valar fasciata in quell’armatura lucente. Il nano che l’aveva forgiata meritava onore e gloria, indubbiamente.
    Lei incontrò il suo sguardo e tentò di sorridere ma ne uscì solo una sorta di smorfia tesa, che intenerì l’elfo.
    Si fece più vicino: -Sono lacci difficili da stringere da sola.- Commentò, con voce profonda. Le sue dita sicure sciolsero i lacci con gesti secchi, per poi apprestarsi a stringerli nel modo corretto. Sillen non protestò quando Glorfindel strinse con forza i nodi all’altezza della vita e cercò di rimanere il più immobile possibile mentre sentiva finalmente il mithril adeguarsi in modo impeccabile alle sue forme.
    Quando si voltò verso l’elfo, si stupì della sua espressione seria.
    -Sei perfetta.- Concluse lui. Lo disse come se quell’affermazione fosse tutt’altro che un complimento e lei percepì la sua preoccupazione piombarle addosso come un macigno.
    Appoggiò una mano sul suo braccio, coperto dall’armatura dorata: -Andrà tutto bene, Glorfindel. Siamo qui per combattere, non possiamo farci assalire dalla paura. Non oggi.- Disse, incitandolo con lo sguardo a mantenere saldo il suo spirito. Glorfindel abbandonò il solito atteggiamento scostante, osservando a lungo quegli occhi terribilmente grandi e viola.
    Era poco più che una bambina e si preoccupava di tranquillizzarlo?
    Inaspettatamente, non senza un respiro scocciato, il Vanyar si avvicinò di un passo e la circondò delicatamente con un braccio. Maledisse mentalmente quelle armature che gli impedivano di stringerla come avrebbe voluto, ora che la sua apprensione era tale da mozzargli il respiro.
    -Tu cerca solo di non farti uccidere, Sillen. Per favore.- Lei sgranò gli occhi, ritrovandosi con la fronte poggiata al metallo freddo.
    In quel momento, un’altra aquila atterrò pesantemente al loro fianco, facendo cozzare le zampe artigliare al suolo di pietra, e i due si voltarono subito verso di lei.
    Il Maia si sporse, aprendo piano il becco e Sillen tese le mani a coppa, intuendo le sue azioni. La spilla di Elessar le ricadde sui palmi: era una pietra verde smeraldo, grossa come una noce, incastonata nella sagoma d’argento di un rapace dalle ali distese.
    -Elessar ti ha chiesto di darmela?- Sussurrò, Sillen. L’aquila annuì seccamente, poi si rialzò in volo, tornando da dov’era venuta.
    -è molto bella.- La contemplò lei, mostrandola a Glorfindel.
    L’elfo sgranò gli occhi: -La Gemma di Eärendil[2]! Elessar deve avertela ceduta in custodia, nel caso dovesse accadergli qualcosa durante la battaglia. Questa pietra è legata al legittimo sovrano di Gondor ed è uno dei massimi simboli del suo potere.- Sillen deglutì, rendendosi conto del vero valore di quella spilla: -Allora sarà per me un onore custodirla, anche se non sono certo all’altezza di indossarla.-
    Scostò i capelli neri e la appuntò velocemente alla casacca, sopra al cuore, in modo che fosse protetta dall’armatura. Si premurò di nascondere sotto la veste anche la collana in mithril dalla pietra viola, fonte del suo potere.
    Ora era davvero pronta per la battaglia.
    Con una dozzina di Aquile e Glorfindel al suo fianco, la Stella dei Valar si sporse nuovamente dal parapetto delle mura, il fodero scuro della spada elfica che le picchiettava sul fianco.
    Oramai, il nemico sarebbe dovuto essere lì, alle porte della città.
    Invece, v’era solo quiete, calma, silenzio, in tutta la valle.
    Sennonché… Un momento.
    Sillen s’immobilizzò violentemente, sentendo la bocca dello stomaco contorcersi. Conosceva quella sensazione, l’aveva già provata al Nido delle Aquile, quel giorno: l’impressione che qualcosa li stesse seguendo.
    Con un balzo, fu in piedi sul parapetto, sporta verso Sud.
    Cos’era quel rumore? Un tuono?
    Concentrò il suo sguardo laddove il suo istinto le suggeriva: qui vi era l’esercito di Thorin III, pronto alla guerra. I Nani brandivano asce, scuri e martelli, ignari di tutto.
    La Stella dei Valar la sentì di nuovo, nella punta dei piedi, ben piantati sulla roccia fredda: una vibrazione, netta, che le scuoteva la spina dorsale. Poi un’altra.
    Sembravano davvero echi di tuoni lontani, il rumore era quasi impercettibile. La vibrazione che le trasmetteva la pietra aumentò via via d’intensità, a una vertiginosa velocità.
    E, d’un tratto, Sillen capì.
    Ricordò il Nido delle Aquile e tutto fu chiaro nella sua mente.
    Quello che era solo timore si tramutò in realtà.
    L’orrore le deformò i tratti quando urlò, in direzione dei nani:
-SOTTO DI VOI!- E uno schianto sordo, terribile, come di gigantesche ossa che si spezzano, si levò dai campi del Pelennor.
    Sillen vide le fila dei Nani perdere l’equilibrio, destabilizzate dall’improvviso movimento della terra, che finì divelta in grosse zolle frastagliate. Glorfindel trattene il fiato: -Non è possibile. Quelli sono… sono… I Mangia Terra[3]!-
    Con gli occhi offuscati dalla rabbia, Sillen assistette impotente alla scena: due immense e mostruose bocche circolari stavano fuoriuscendo dalle viscere della terra. Erano bocche deformi, irte di zanne in grado di frantumare la pietra, talmente ampie da inghiottire tutto ciò che si trovava sopra di loro.
    Il caos dilagò tra le schiere degli alleati e in un attimo le urla si levarono terribili dalle fila disordinate.
    Elessar assistette a quell’incubo, indifeso, gli occhi spalancati. Vide con orrore decine di Nani rotolare senza scampo dentro le profonde voragini, dritti nelle fauci dei Mangiatori di Terra.
    La terra tremava ininterrottamente, terrorizzando i soldati e le loro cavalcature. Re Éomer, da dietro i colli del Pelennor, udì chiaramente il frastuono da Sud e scorse le Aquile volare impazzite intorno alla città. Allertato, spronò Lampoargenteo sulla cresta del colle e si trovò dinanzi a quell’orrendo spettacolo.
    Il suo cuore cessò quasi di battere nell’assistere all’improvviso attacco delle mostruose creature, che adesso decimavano il valoroso esercito dei Nani.
    Dalle voragini create dai Mangia Terra poi, come nel peggiore degli incubi, presero a fuoriuscire i non morti, tanti da non riuscire a vederne la fine.
    Quel momento, tragicamente, segnò il principio della battaglia.
    Éomer sapeva di non aver tempo da perdere. Incitò la propria éored[4] a seguirlo, furioso: -Rohirrim! Alla battaglia!- E le altre si disposero ai suoi fianchi.
    Sillen corse lungo il parapetto, adocchiando sotto di sé: le profonde voragini nel terreno non si fermavano, bensì seguivano il perimetro della città di Minas Tirith come saette di tenebra, vomitando all’esterno l’esercito di non morti.
    Il piano era saltato, ormai non le importava più.
    Saltò in groppa all’aquila al suo fianco, sguainando la spada.
    -Gurth gothrim lye! (Morte cali sul nostro nemico)- E con uno stridio possente si gettarono in picchiata.
    Glorfindel si sporse verso la Stella dei Valar, tentando di afferrarla: -Aspetta, Sillen!- Ma questa era già lontana.
 

 
**

    Legolas saltò giù dalle mura di Osgiliath, l’arco in pugno.
    Era troppo lontano, dannatamente lontano dall’esercito dei Nani. Scrollò con forza la testa per rimanere lucido, mentre raggiungeva i due Principi di Imladris: -Elladan, Elrohir! I Mangia Terra attaccano a Sud, dobbiamo sbrigarci!-
    I due si guardarono, seri, poi Elladan posò una mano guantata sulla spalla del Principe di Bosco Atro: -Non è saggio abbandonare la postazione, amico mio. Il piano della stella è chiaro, dobbiamo aspettare che il nemico si avvicini, per impegnarlo in uno scontro qui a Est. Se ci riuniamo, vanificheremo tutti i nostri sforzi.- Legolas sapeva che l’elfo dai capelli corvini aveva ragione e in un’altra situazione avrebbe seguito il suo saggio consiglio senza indugio.
    Ma in quel momento, ad affrontare quella battaglia erano Aragorn, Faramir… Gimli.
    Quando puntò gli occhi chiari in quelli di Elladan, aveva già deciso. Li superò senza tanti convenevoli, l’espressione grave.
    -Io vado.- Concluse. Saltò in groppa a una delle aquile rimaste con loro e questa si voltò appena, per incontrare il suo sguardo:
-Elfo, i tuoi compagni hanno ragione. Ne sei consapevole?- Gli comunicò, schioccando il becco. Lui strinse i pugni: -Andrò di corsa, se non intendi aiutarmi.-
    L’aquila lanciò un grido acuto, alzandosi in volo con due possenti colpi d’ala: -Volevo solo togliermi di dosso la responsabilità di quello che ti accadrà da ora in avanti. Ma è mio desiderio andare: quei maledetti hanno ucciso il mio compagno, io non chiedo altro che morte!- E Legolas le strinse le piume rossicce, lo sguardo fisso sull’esercito di Thorin III Elminpietra.
    Laggiù, era un massacro.
 
**

    Sillen atterrò poco lontano da Elessar, intento a gridare ordini ai suoi uomini: stava cercando di avanzare, i picchieri in prima linea e gli arcieri subito dietro.
    Quando lui vide la stella smontare dal Maia e dirigersi a tutta velocità verso quell’inferno, si precipitò su di lei. Le sbarrò la strada, in sella al proprio stallone: -Che cosa ci fai qui, Sillen? Vattene via!- Lei s’arrestò violentemente, la spada stretta nel pugno: -Spostati, Elessar! Li ucciderò tutti, dovesse un fulmine colpirmi adesso!- Urlò, furiosa.
    Il Re degli Uomini lanciò uno sguardo alle voragini poco distanti: i Mangiatori di Terra affioravano e scomparivano senza tregua, mentre i non morti impegnavano i nani in violenti scontri diretti.
    -Devi cercare Pallando! Non è stando qui che li aiuterai.- Tornò a fissare i propri, severi occhi grigi in quelli di lei, che parve placarsi.
    Giusto, Pallando. Dove si nascondeva quel dannato?
    Glorfindel planò accanto a loro, trafelato: -Sillen, i Rohirrim si avvicinano.- La stella puntò lo sguardo sui colli del Pelennor, illuminati dal sole: Éomer guidava i suoi al galoppo, dritti verso lo scontro, lance in resta.
    Doveva avere fiducia in loro. Gli uomini dell’Ovest avrebbero tirato fuori i nani da quella situazione e lei doveva rimanere concentrata per non vanificare i loro sforzi.
    Sì, il piano avrebbe funzionato.
    Glorfindel tese una mano e la aiutò ad issarsi sull’aquila: -La voragine è più ampia laggiù.- Indicò l’elfo, verso Nord. -Sta per uscire qualcosa di grosso. Pallando potrebbe trovarsi lì.-
    Presero quota, osservando la battaglia dall’alto. Faramir e i suoi erano già arrivati al centro dello scontro e Sillen vide Thorin raggiungerlo, serrando i ranghi.
    Il suo cuore tornò a battere più o meno regolarmente e respirò a fondo. Si strinse istintivamente all’elfo davanti a sé, tremando per la tensione: -Hai visto quanti morti già coprono il suolo? Questa non è una battaglia, è una carneficina.-
    Guardò con apprensione la éored del Re del Mark impattare con violenza contro un nuovo gruppo di non morti che, fuoriuscendo come formiche dai loro buchi, si erano prontamente frapposti tra i soldati e i Mangia Terra.
    Il Vanyar le strinse una mano: -Tutte le battaglie sono orribili. Rimani concentrata, presto dovremo intervenire.-
    Landroval, intanto, stava guidando un gruppo dei suoi verso i nani, falciando con gli artigli affilati più orchi possibili. Subito, i cadaveri si rialzavano, come se niente fosse accaduto, e tornavano all’attacco.
    Elessar trapassò la testa di uno degli orchi, poi gli tranciò il busto, dividendolo quasi in due. Questo cadde, iniziando a strisciare a terra per raggiungere un nuovo obiettivo da uccidere.
    Il Re degli Uomini lo disarmò, ringhiando in direzione di Thorin e Faramir: -è esattamente come al Nido delle Aquile, non riusciamo a ucciderli!- Thorin piantò la scure nelle ginocchia dell’Uruk che si trovò davanti, mandandolo lungo disteso a terra a mulinare pateticamente le braccia putride e scheletriche.
    -Disgustosi bastardi, marciranno a terra con le gambe rotte!-
    La tecnica stava funzionando, per lo meno: i soldati puntavano alle giunture e alle estremità, mozzando mani, piedi e arti. I non morti, così facendo, rimanevano a terra, inoffensivi come disgustose bambole di pezza.
 

 
**

    Legolas fu presto sopra l’epicentro dello scontro, rabbrividendo ogni qual volta le enormi fauci dei Vermi di Terra facevano capolino dalle voragini frastagliate del terreno.
    Con la sua acuta vista di elfo, impiegò poco a individuare Elessar e gli altri e, almeno per il momento, sospirò di sollievo.
    Tuttavia, di Gimli non vi era traccia. -Abbassiamoci, non riesco a vedere bene!- Urlò all’aquila, indicando sotto di loro.
    -Non posso, ancora qualche piede e sarò sotto il tiro dei balestrieri.- Lo avvertì lei, planando in circolo. Legolas mise l’arco sulle spalle e sfoderò la spada: -Dunque, ci separiamo. Hannon le, mellon (Ti ringrazio, amica). Possa tu sopravvivere alla battaglia.-
    L’aquila gli lanciò uno sguardo penetrante, capendo le sue intenzioni, poi l’elfo si lasciò cadere, dritto sulla voragine da cui continuavano a fuoriuscire le legioni nemiche.
    Atterrò senza difficoltà sulle teste marce degli orchi, affondando con precisione la lama affilata laddove i malconci tendini ancora tenevano insieme le loro membra.
    Si guardò intorno, mentre le sue mani pallide si macchiavano velocemente di melma nera: -Gimli!- Urlò. -Gimli, puoi sentirmi?-
    Diversi nani si lanciavano sui nemici, poco distanti da lui, e molti altri lottavano come furie tutto attorno ma di Gimli nemmeno l’ombra. Legolas si rifiutava di credere che proprio lui, quel testardo nano, fosse finito inghiottito dai Mangiatori di Terra.
    Roteò su sé stesso per decapitare un altro uruk, sfogando la propria tensione in ogni colpo.
    Vivo o… o morto, l’avrebbe trovato.
    Elledan ed Elrohir guidarono l’attacco da Osgiliath, ora che i nemici erano giunti nei loro pressi. Gli Elfi erano efficienti e non appena presero parte alla battaglia, il nemico sembrò rientrare sotto il controllo degli alleati. Guidavano loro il ritmo degli attacchi, arrivando sempre più vicini alle voragini da cui i nemici fuoriuscivano.
    Mantenendo le fila salde, sarebbero riusciti a non essere sopraffatti dal numero, man a mano che i non morti si presentavano.
    Elessar, seppur sfiancato dal caldo e dalla fatica, sentì la propria forza aumentare, rincuorato dai risultati: avrebbero dimostrato che, sulla Terra di Mezzo, non c’era più spazio per il male.
 
**


Sillen individuò una strana macchia di colore, in mezzo al marasma nero dei non morti che stavano fuoriuscendo dalla grossa voragine a Nord. Una nota stonata, quasi beffarda.
    Era un’insolita e inaspettata mantellina color prugna.
    Apparteneva a un individuo alto e slanciato, che se ne stava stravaccato in sella a un mannaro non morto, le braccia mollemente incrociate sul grembo. Dietro di lui, uno scarno gruppo di uruk scheletrici trasportava degli strani oggetti cubici, di legno e metallo.
    Sillen indicò a Glorfindel la strana figura e lui aguzzò la vista.
    -Credi sia Pallando?- Lei strinse la presa sulla lama elfica: -C’è solo un modo per scoprirlo.- Si avvicinarono velocemente, scendendo in picchiata. Tuttavia, poco prima di riuscire a raggiungerla, la figura dalla mantellina color prugna parve accorgersi di loro e, subito, uno degli uruk lanciò in aria la scatola di ferro e metallo che portava sulla schiena.
    L’aquila, riconoscendo all’improvviso quel diabolico marchingegno, si bloccò di colpo, tentando di tornare indietro.
    L’uruk fu più veloce: l’oggetto esplose in aria, poco distante da loro, e i tre compagni finirono dritti in mezzo al fumo velenoso.
    Sillen si sentì sbalzare via dal dorso del Maia e rotolò malamente a terra, per parecchi piedi. Si tirò su, cercando tentoni la spada elfica: -Glorfindel!- Gli occhi le bruciavano terribilmente e si sforzò di tenerli aperti, seppur avesse già notato che non riusciva a vedere quasi nulla. Si mosse tra le ombre sfumate e distorte, carponi: -Glorfindel!- Ripeté, sbattendo le palpebre nella speranza di tornare a vedere. Sentiva gli stridii di dolore dell’aquila, poco lontano da dove si trovava, ma non riusciva a raggiungerla.
    Era stato quel fumo viola e bollente a ferirli: l’aquila aveva fatto da scudo con il suo corpo, per proteggerla.
    Sillen cercò di riprendere il controllo, respirando a fondo.
    In lontananza, sentiva il clangore metallico delle armi e le grida dei soldati ma attorno a lei c’era un innaturale silenzio.
    E quel dettaglio non era per nulla rassicurante.
    Sapeva di trovarsi esattamente in mezzo alle schiere di non morti, quei silenziosi cadaveri in decomposizione che popolavano i suoi incubi. Intanto, la terra tremava violentemente sotto di lei, segno che i Mangia Terra erano ancora all’opera.
    Portò le mani dorate al viso e strinse i denti, cercando dentro di sé la calma che le serviva per agire. In breve, una leggera brezza s’innalzò dal suo corpo e lei rimase con il fiato sospeso: ci stava riuscendo, il suo potere fluiva in lei, nelle sue mani premute sul volto ferito, come una corrente pura e luminosa. Aprì di nuovo gli occhi, che brillarono della luce bianca della Stella dei Valar e, improvvisamente, tornò a vedere.
    Fu questione di un attimo.
    Vide la terra sotto le proprie ginocchia, la spada a pochi passi da lei, poi un potente pugno le piombò sullo zigomo sinistro.
    Lei si ritrovò a terra, la testa frastornata.
    Una voce rauca e gorgogliante le giunse alle orecchie, sovrastando il ronzio causato dalla violenza del colpo: -Eccoti, Stella dei Valar. Sei arrivata.-
    Sillen si tirò su velocemente, saltando all’indietro e afferrando la spada. Puntò lo sguardo sul suo aggressore, individuando subito la strana mantellina violacea scorta poco prima.
    Era un… elfo. O meglio, doveva esserlo stato, un tempo.
    Era alto e snello, con lunghissimi capelli corvini, dritti e sottili; indossava una stretta tunica scura, lunga fin quasi alle ginocchia. Alla cintura teneva appese boccette e fiale di ogni colore e dimensione e una cinghia scura attraversava il suo petto magro, armata di pugnali e stiletti. Le lunghe gambe erano fasciate da stretti calzoni rattoppati ed era scalzo.
    Laddove i suoi arti erano visibili, era assurdamente coperto da spesse bende bianche. Gli avambracci, i polsi, le mani, le caviglie, il collo, ogni centimetro della sua pelle era coperto da quelle bende candide come la neve. Solo la bocca e una parte del viso, per lasciare liberi gli occhi, spuntavano da sotto il cappuccio violaceo. Quando, da sotto il cappuccio, Sillen riuscì a vederlo in faccia, rabbrividì involontariamente.
    -Non mi devi fissare.- Le intimò lui, con quella voce rotta e disincarnata. Ma la stella non riusciva a distogliere lo sguardo: la pelle attorno ai suoi occhi era scura e orribilmente piagata, solcata da macchie irregolari e profonde cicatrici.
    Sembrava ustionato. E poi, erano i suoi occhi ad atterrirla: il destro vantava un’iride color ambra che, seppur la sclera si fosse ormai ingiallita del tutto, ancora conservava il bagliore di un’antica bellezza; l’occhio sinistro, invece, era enorme, quasi il doppio dell’altro e totalmente, completamente nero come la pece.
    Sillen deglutì, tirandosi in piedi. Era circondata dai non morti, che ora avevano creato un ampio cerchio attorno a lei e a quell’inquietante individuo, che la fissava senza ritegno: in trappola. Si sforzò di tenere la voce alta e sicura ma non riuscì a mascherare del tutto il suo tremore: -Chi sei? Dov’è Pallando?-
    L’elfo oscuro rimase immobile, senza espressione: -Pallando non è qui. Il tuo avversario sono io.- Le gracchiò, indicandosi il petto bendato.
    Come poteva essere possibile?
    Pallando, colui che era causa di tutto, non era presente?
    -Che assurdo scherzo è mai questo!?- Urlò la stella, sentendo la rabbia montarle nuovamente nel petto e puntando la lama elfica verso di lui.
    L’altro non rispose ma, da dietro la sua schiena, trasse una lunga frusta incrostata di sangue e Sillen capì che non aveva altra scelta. Si mise in posizione e, con uno slancio, attaccò con un affondo rapido.
    Sapeva di essere veloce, oramai batteva senza difficoltà Legolas stesso, ma dovette ricredersi quando vide l’elfo oscuro saettare di lato e assestarle con violenza un pugno allo stomaco.
    Il mithril la protesse dal peggio ma l’urto le mozzò il respiro e fu spinta indietro. Si tenne in equilibrio, rimanendo in piedi e, non senza un mugolio dolorante, partì nuovamente all’attacco.
    Ogni suo affondo veniva prontamente evitato dall’elfo, che non sembrava nemmeno affaticato dal ritmo vertiginoso dello scontro; intanto, sferzate secche e taglienti si abbattevano su di lei, aprendole tagli profondi e brucianti laddove il mithril non la proteggeva. L’ultima che l’elfo le assestò disegnò una curva rossa e sanguinolenta sul tessuto scuro delle sue brache, all’altezza della coscia e Sillen sibilò dal dolore.
    D’un tratto lui si allontanò con un balzo e si fermò a guardarla, prendendo velocemente dalla propria cinta una delle svariate boccette: -Ne ho abbastanza di te. Debole, lenta e stupida.-
    Poi i suoi occhi si dilatarono in modo sinistro e la sua bocca disegnò una curva inquietante, simile ad un perverso sorriso:
    -Sei così fortunata. Assaggerai le mie amate creazioni.- Ruppe la boccetta di vetro sulla frusta e il liquido giallastro che ne uscì prese a sfrigolare su di essa.
    La stella, trafelata, premette una mano sulla ferita, digrignando i denti: -Dannato, dimmi chi sei!- L’elfo sferzò l’aria con la frusta impregnata di liquido, mandando gocce a corrodere il terreno: -Io sono Saedor, il Maestro dei Veleni.- Le sibilò, rauco e avanzò minaccioso.
    Sillen aveva il fiato corto e di Glorfindel non vi era traccia.
    Aveva paura, paura da non reggere.
    E si sentiva tremendamente sola.
    In un secondo, i suoi occhi violetti si fecero di nuovo luminosi come le stelle.
 

 
**

    Alatar, seduto sulla sua brandina di legno, si teneva la testa tra le mani. A ogni scossone del terreno, polvere e detriti si staccavano dal soffitto della cella, piovendogli attorno.
    Doveva aspettarsi una trovata del genere: dopotutto, era dal Nido delle Aquile che Pallando ostentava la sua passione per il sottosuolo. Prevedibile.
    Con un profondo respiro, si abbandonò contro la parete fredda dietro di sé. Peccato, forse Glorfindel non sarebbe sopravvissuto per mantener fede alle sue parole: doveva trovare un altro modo per sparire, se non fosse riuscito a farsi uccidere da lui.
    Non voleva più rimanere lì, vicino alla stella.
    Non voleva nemmeno sapere se fosse sopravvissuta alla battaglia. Meglio crederla morta che avere la possibilità di avvicinarsi di nuovo a lei, pensò.
    Lelya mosse le ali, agitata e saltellò sul trespolo: -Che cosa c’è, stupida cornacchia? Non vedi che sto cercando di morire di depressione?- La rimbeccò e seguì il suo sguardo rapace.
    Appoggiato alla parete, come se fosse spuntato da essa proprio in quel momento, se ne stava appoggiato un elfo, con le braccia incrociate sul petto, gli occhi chiusi e un sorrisetto di derisione piantato sul viso sottile. Alatar rimase a fissarlo, mentre il soffitto perdeva pezzi intorno a loro.
    Dopo un po’, distolse lo sguardo, grattandosi la zazzera di capelli brizzolati: -Quanto tempo, Lhospen.-
    L’altro scostò i lunghi capelli corvini con una mano, sollevando le folte ciglia per piantare i grandi occhi blu sull’Istar. -Vederti dietro le sbarre, credimi, mi riempie di grande tristezza, mio amato Alatar.- Trascinò le parole con fare provocatorio, avvicinandosi alle sbarre: -Per quanto ancora vuoi farmi soffrire, crudele stregone? Esci, avanti. So che puoi farlo.-
    Alatar si costrinse a non guardarlo: la sola vista dell’elfo lo gettava nel passato. Un passato che aveva cercato di seppellire per troppo tempo. -Perché sei qui? Non c’è un’epica battaglia da combattere, lassù?- Chiese, con fare annoiato.
    Il Maestro delle Illusioni si accucciò dietro le sbarre, allungando una mano come per tentare di toccarlo: -Ma come, non l’hai capito? Sono qui per riportarti a casa.- Alatar si voltò all’istante, stringendo gli occhi a due fessure: -Tu menti.-
    Incontrò lo sguardo del giovane e splendido elfo che, scocciato, si rialzò, sbattendo una mano sulla tunica per togliere la polvere caduta. Gli assestò un’occhiataccia tutt’altro che smielata, alla faccia del suo atteggiamento di poco prima: -Non ho voglia di fare a cornate con te. Ti porto via, questo è quanto. Pallando ti reclama.- Ad Alatar mancò un battito e sentì lo stomaco contorcersi dal dolore e dal rimorso: -Pallando, per me, era morto e sepolto e tale vorrei rimanesse. Ora sparisci!-
    Lhospen sputò ai suoi piedi: -Dannazione! Non è una tua scelta. Quanto a Pallando, spero voglia scuoiarti vivo. Né io né Saedor ti rivogliamo indietro, se è questo che vuoi sapere.- Alatar si alzò di scatto, avvicinandosi alle sbarre: -Il passato è passato, perché tornare su queste vecchie storie?-
    -Facile a dirsi quando non hai sopportato le sofferenze e le torture del male più assoluto!- Gli urlò in faccia Lhospen, stringendo i pugni. -Ora decidiamo noi, del tuo destino. La ruota gira, i nodi vengono al pettine.- Sussurrò poi, avvicinando il viso pallido a quello dello stregone.
    Nella sua mano, era apparso il bastone di Alatar.
    Lo allungò nella cella, attraverso le sbarre e l’altro indietreggiò bruscamente. -Per una volta nella tua misera, meschina vita di traditore, assumiti le tue responsabilità.- Gli intimò l’elfo, una smorfia di disprezzo a deformargli i lineamenti angelici.
    Alatar lo fissò con l’angoscia nel cuore.
    Dopo un tempo che gli parve infinito, nel quale lasciò che la propria mente vagasse in ricordi lontani, lo stregone fece un passo avanti. Afferrò un’estremità del bastone e, con una tremenda folata di vento, i due scomparvero dalle segrete. 
    Persino Lelya era scomparsa, lasciando dietro di sé una catenina spezzata e una splendida piuma dorata delle sue ali sottili.
 
**

    Legolas piantò una freccia nella spalla dell’uruk, che stava per abbattere il proprio grosso martello sul soldato sotto di lui.
    La battaglia andava avanti da ore e ormai era pomeriggio inoltrato. Il sole faceva risplendere il rosso del sangue degli alleati e il nero dei putridi fluidi nemici.
    L’elfo, nervoso, scoccò altre frecce, tutte precise e letali.
    Non aveva tempo da perdere, dannazione.
    Elessar lo raggiunse, correndo tra i non morti che si dimenavano a terra: -Legolas, sei qui!- L’elfo gli strinse una spalla, felice di vederlo. Però -Hai visto Gimli? È tanto che lo cerco.- Chiese, seppur poco speranzoso.
    Elessar, infatti, scosse la testa: -Mi dispiace. Ho anche perso di vista Faramir, credo sia andato verso Nord.-
    Legolas gli indicò con un cenno le voragini, che ancora sputavano orchi: -Lo hai notato? Stanno uscendo sempre meno non morti e a intervalli sempre più lunghi.- Elessar annuì, aggrottando le sopracciglia: -E per adesso, da quello che vedo, non hanno sfoderato nemmeno la metà del loro numero.-
    Si separarono velocemente, in tempo per schivare l’affondo di un orco munito di mazza chiodata. Legolas saltò indietro e lanciò uno sguardo all’amico, che piantò Andúril nel ginocchio dell’orco.
    -Ci ritroviamo qui alla prima stella della sera! La seconda parte del piano inizierà allora.- Lo informò Elessar. Lui annuì e tornò sui suoi passi.
    Passò a fil di spada decine di non morti, teso e preoccupato.
    Fece per allontanarsi da quella zona, quando colse distrattamente una voce in lontananza.
    -Cinquantuno. Cinquantadue!-
    Il cuore dell’elfo accelerò all’istante e si voltò più rapido che mai per seguire quella voce.
    -Avanti canaglie, dritti sulla mia ascia! Cinquantatré!- In mezzo ad un folto gruppo di non morti c’era qualcuno, seppure fosse troppo basso perché riuscisse a vederlo.
    Ad ogni modo, a Legolas non servì vederlo, per riconoscerlo.
    Il ferro dell’ascia del nano catturava i raggi del sole, tanto che pareva combattesse con la luce stessa tra le mani.
    Legolas quasi svenne dal sollievo e corse verso di lui: -Gimli!-
    L’altro si girò, assestando una scudisciata sul gomito dell’uruk a terra. -Eccoti, elfo! Sono già a ben cinquantatré! Questa volta credo proprio di avere buone possibilità di vincere, eheh!-
    Il biondo sorrise, raggiante: -Puoi ben dirlo.- Il nano aveva un sopracciglio spaccato ma pareva stare bene.
    Ogni preoccupazione era improvvisamente svanita dal petto dell’elfo, che si sentiva rinascere. Avrebbe spiccato il volo o distrutto un muro di pietra a mani nude, tale era la contentezza.
    Si voltò velocemente verso il nano, indicandogli la voragine che si apriva a nemmeno cento piedi da loro: -Andiamo, mellonamin! Come ai vecchi tempi.- Il nano rise, una risata forte e sguaiata che fece arrossire l’elfo, ormai del tutto dimentico del caos che dilagava attorno.
    Con quel testardo e orgoglioso nano di nuovo al suo fianco, sentiva di poter fare qualsiasi cosa.
    -Che vinca il migliore!- Lo sfidò Gimli, saltando nella voragine.
    Lottarono insieme in una coreografia complessa, quasi l’avessero provata; spalla contro spalla, persino la paura era secondaria.
    Dietro di loro, nascosto dal bordo frastagliato della voragine, un orco piccolo, alto forse meno di un metro e mezzo, li osservava. I due non lo notarono, poiché questo non prese parte allo scontro, rimanendo accucciato nell’ombra.
    -Sai una cosa, Gimli?- Parlò l’elfo, emozionato. -Sapevo che non potevi essere morto.- Quello estrasse l’ascia dalla carne molle dell’uruk, lanciandogli un’occhiata complice: -E non morirò! Dopotutto, noi due abbiamo un discorsetto in sospeso!-
    Uno dei Mangia Terra emerse con violenza poco lontano, facendo tremare il terreno e rotolare via il nano, che strisciò nel fango con un’esclamazione sorpresa. Legolas sollevò lo sguardo sull’enorme corpo del verme: con agilità, corse verso di lui, la spada stretta in pugno.
    Saltò su quella mostruosità e storse il naso, disgustato, quando sentì la consistenza ruvida della sua pelle grigiastra. Piantò con forza la spada in un punto imprecisato di quell’essere e si lasciò cadere, trascinando la lama con sé, verso il basso. Uno squarcio profondo si aprì sulla pelle coriacea del Verme di Terra, che emise un verso acuto e strozzato, prima di scomparire rapidamente nei cunicoli che lui stesso aveva creato.
    L’elfo biondo si pulì le mani sulla casacca verde e Gimli, coperto di terriccio e melma nera, gli fu vicino, un’espressione sconvolta e ammirata sul viso. Quando incontrò il sorrisetto soddisfatto di Legolas, si riscosse: -Oh, non aveva nemmeno le braccia, è inutile che gongoli!-
    E solo allora vide il piccolo orco correre via, uscendo dalla voragine ormai priva di protezione. I due amici si scambiarono uno sguardo e si lanciarono al suo inseguimento.
    L’orco, per quanto cadaverico e imputridito, pareva cosciente: come poteva essere possibile? Nessun orco correva via, cercava di difendersi o pareva avere altro pensiero che colpire ripetutamente chi si trovava di fronte.
    Una freccia di Legolas si piantò fino alla scocca nella gamba dell’orco, che cadde rovinosamente a terra. Quando la scure lucente di Gimli gli fu sopra, ai due parve di vedere l’insulso orco tendere le braccia come per difendersi: poi la testa gli fu recisa di netto.
    All’istante, un bagliore bluastro si alzò dal corpo esamine dell’orco. Solo Legolas e Gimli lo videro.
    Poi, videro un centinaio di altri orchi attorno a loro irrigidirsi e cozzare a terra, lasciando i soldati alleati sconvolti, le armi ancora in pugno. Per un attimo, attorno a loro ci fu solo il suono sordo di corpi che crollano al suolo come sacchi vuoti: i nemici avevano definitivamente smesso di muoversi.
    Questa volta, quei cadaveri erano davvero solo cadaveri.
 
 
 

[1] Spallaccio: elemento dell’armatura a piastre medievale. Copre la spalla e la parte superiore del braccio, lasciando però libero movimento al guerriero.
 
[2] Gemma di Eärendil (detta anche Elessar o Gemma Elfica): gioiello antico, proveniente da Valinor. Ha lo splendido potere di sanare e preservare i luoghi più puri. La sua storia è affascinante ed enigmatica. Una versione narra che il gioiello fu creato (forse da Celebrimbor) per catturare la luce del sole tra gli alberi di Gondolin e partì da Valinor nelle mani di Eärendil perdendosi per sempre, fatto che portò Celebrimbor a crearne un altro da donare a Dama Galadriel, come pegno del suo amore (non corrisposto). La teoria più nota (quella a cui mi attengo io) presume invece che il gioiello sia uno solo, portato a Galadriel da Gandalf stesso, quando egli lasciò Valinor. Questo passò poi ad Aragorn per mano della Dama, poiché ella era tenuta a consegnarlo a colui che i Valar ritenessero degno di governare sugli Uomini di Numenor. Aragorn sale al trono, appunto, con il nome di Elessar.
 
[3] Mangia Terra: chiamati were-worms da Gandalf, nel film de Lo Hobbit. Tolkien non ha mai nominato direttamente queste creature o almeno non con questo nome. Esistono alcune note però che hanno spinto Peter Jackson a presupporre la loro esistenza nell’universo tolkieniano (tanto da notare che forse il nostro amato scrittore li intendesse parenti dei Draghi!). A mio parere sono bestie incredibili, voi che dite?
 
[4] éored: in poche parole, è un singolo corpo della cavalleria dell’esercito di Rohan. Nell’esercito sono presenti più éored (formate da non meno di 120 uomini) e solitamente sono guidate da capitani che rispondono ai cosiddetti Marescialli. La cavalleria al completo veniva chiamata éoherë. Giusto perché non ci deve mancare nulla, l’organizzazione militare dei Rohirrim è complessa e dettagliata. Non mi soffermerò a descriverla tutta, per quanto mi appassioni l’argomento XD
 



N.D.A

​Ciao a tutti ragazzi!
Innanzitutto, grazie a chi è arrivato sino a qui e a chi ha speso tante belle parole per questa fanfic!
Grazie di cuore *-*

E ora, DUNQUE dunque. Ci siamo arrivati alla fine: la battaglia. Non voglio piangere adesso, quindi sarò breve XD Dopo una ventina buona di capitoli, ecco quello che tutti -mania di protagonismo momentanea- stavamo aspettando e spero davvero di aver saputo comunicare tutta la frenesia, tutto il caos che i personaggi stessi stanno vivendo. So che è un capitolo lungo e pieno di COSE ma deve essere così, quindi spero vi sia piaciuto ahaha. Fatemi sapere ragazzi! T^T. E ovviamente, non è finitaaaah.
Per oggi è tutto, ci vediamo nella prossima puntata!
Mille baci,
Aleera

 
 

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Capitolo 23
*** Alla Battaglia, parte II ***


 
-Alla Battaglia, Parte II-

    Legolas s’inginocchiò accanto al cadavere del piccolo e disgustoso orco e Gimli s’apprestò a coprirgli le spalle.
    Sì, l’orco era morto davvero, e con lui un centinaio di altri nemici, eppure la battaglia ancora infuriava attorno a loro.
    Che diamine era appena successo?
    -Muoviti orecchie a punta, si avvicinano.- Lo incalzò il nano, stringendo l’ascia in posizione di difesa e puntando gli occhi infuocati verso i non morti poco lontano. Legolas tastò velocemente la lurida cotta di maglia del cadavere, senza trovare alcunché di strano. Con ribrezzò, si ritrovò a voltare malamente l’orco e subito i suoi acuti occhi d’immortale individuarono un insolito dettaglio: -Forse ho trovato qualcosa.-
    -Ti conviene, elfo!- Legolas sollevò brevemente gli occhi al cielo, poi studiò il retro del collo dell’insulso orco: proprio alla base della nuca si apriva un buco, stretto e non molto profondo. Non sembrava una ferita recente e di simili Legolas non ne aveva mai viste: pareva ricoperta da una patina bluastra.
    Sopprimendo il desiderio di rimettere, l’elfo fece pressione su quel punto con le dita: c’era qualcosa sotto. Incise il collo dell’orco con la spada e un piccolo oggetto rotolò a terra, davanti alle sue ginocchia appuntite. Storcendo il naso, se lo rigirò tra le dita, studiandolo attentamente: era una scheggia di vetro scuro, traslucido e innaturalmente gelido.
    Aggrottò le sopracciglia, sorpreso, ma non ebbe il tempo per farsi domande. Gimli lo spinse con forza verso destra, parando il colpo di una pesante mazza chiodata che si stava velocemente abbattendo su di lui: -Spero tu abbia finito, qua c’è del lavoro da sbrigare!- Legolas infilò quel pezzetto di vetro nella casacca, pronto ad aiutare l’amico. -Gimli tieni gli occhi aperti! Dobbiamo raggiungere gli altri, per avvertirli della scoperta. Questo potrebbe non essere un caso isolato.- Il nano grugnì un assenso e i due ripresero a combattere con determinazione.
    Legolas non riusciva a levarsi dalla testa quel frammento traslucido: perché aveva la sensazione di averlo già visto?
    Ad ogni modo, doveva trovare Sillen e mostrarglielo, subito.
 
**

    La sfortunata aquila aveva smesso di gridare e dimenarsi da svariati minuti, oramai. Sarebbe stato straziante assistere alla sua morte ma Glorfindel aveva ripreso conoscenza solo allora, quando il silenzio era disceso nuovamente intorno a lui.
    Il corpo freddo e pesante del Maia lo schiacciava al suolo, intrappolandogli le gambe. -Sillen?- Mormorò lui, la voce arrochita dalla polvere e dal fumo che aveva respirato nell’esplosione.
    Si guardò attorno quanto la sua posizione gli permetteva ma della stella non c’era traccia. Tuttavia, ai suoi fianchi stavano silenziosamente marciando alcuni non morti, diretti verso il cuore della battaglia, più a Sud. Nessuno di loro parve notare il malcapitato, seminascosto dalle piume brune dell’aquila.
    Con un gemito dolorante, l’elfo dorato tentò di spostare l’animale quanto bastava per far scivolare fuori le gambe ma questo era pesante e lui era ancora stordito dalla violenta caduta. Sperò con tutto sé stesso di non avere niente di rotto, là sotto: sarebbe stato un problema sprecare tante energie per curare delle ossa frantumate.
    -Mi dispiace, mellon.- Sussurrò al Maia, affondando le dita affusolate tra le sue piume soffici.
    Un moto di rabbia lo invase: c’era sempre troppa morte, intorno a lui. Da millenni, nient’altro che morte. Detestava vederla allungare le membra fredde e indifferenti sui soldati, per affogare le loro anime nel buio e nella disperazione, tutte uguali, come se in vita non avessero mai avuto alcuna importanza.
    Eppure, lui era stato riportato in vita proprio per combattere ancora. E ancora e ancora. Era la sua natura.
    Dannati i Valar e dannato il suo misero destino.
    Gli avevano rubato tutto: i suoi desideri, la speranza, la libertà.
    Non avrebbe permesso loro di prendersi anche Sillen.
    Mosso da quel sentimento prorompente, il Vanyar premette con forza i palmi contro il corpo del Maia e una scarica di energia dorata e pulsante sbalzò quest’ultimo lontano.
    Glorfindel vide nero per un secondo ma si riprese in fretta, respirando profondamente per regolare il battito impazzito del suo cuore: erano secoli che sapeva come gestire la sua energia, al contrario della stella.
    -Sillen, dove sei maledizione!- Ringhiò, tirandosi lentamente in piedi. I non morti lo avevano già circondato e ora calavano senza sosta le loro pesanti armi su di lui. Esse, però, s’infrangevano contro una cupola invisibile attorno all’elfo, senza toccarlo.
    Lui si sentiva decisamente meglio e le gambe, contro ogni previsione, erano tutte intere e in grado di sostenere il suo peso. Ritto in piedi, sguainò la spada brillante e con un solo, rapido fendente, divise in due i corpi putridi dei non morti intorno a lui.
    Con la visuale libera, impiegò poco a localizzare la stella: una corrente innaturale danzava come una piccola tromba d’aria, qualche miglio più a Nord. -Perché hai scatenato il tuo potere, Stella dei Valar?- S’irrigidì, una morsa di preoccupazione a chiudergli lo stomaco.
    Prima che potesse fare un passo in quella direzione, le sagome di tre giganteschi e cadaverici troll oscurarono la luce del sole, come materializzandosi dal nulla.
    -Oh, fantastico.- Commentò Glorfindel, scostandosi i capelli dorati dal viso e stringendo l’elsa della spada elfica.
    Contro esseri del genere, nemmeno la sua barriera sarebbe stata efficace. Alla vecchia maniera, dunque.
    Piegò le gambe, le sopracciglia aggrottate dalla concentrazione.
    -Non ho tempo da perdere, dannati. Siete fastidiosi!- E balzò verso l’enorme creatura più vicina a lui.
 

 
**

    Il Maestro dei Veleni si schiantò a terra, a svariati piedi dalla stella. Si puntellò sui gomiti, pulendo il sangue che colava copiosamente dalla bocca, sporcando le bende bianche.
    La stella dei Valar doveva avergli rotto qualche costola, con quel colpo dell’elsa. Fu una cosa che costatò con noncuranza, senza darci troppo peso. Lui non avvertiva il dolore, non come gli altri: quello era niente in confronto a ciò cui era abituato.
    Sillen stava ritta in piedi, avvolta dalla corrente innaturale che scaturiva dal suo stesso corpo. Fissava l’elfo oscuro con occhi di pura luce bianca, il volto impassibile e la spada stretta tra le dita sporche di sangue.
    Questa volta, il Maestro dei Veleni non era stato in grado di colpirla e la cosa lo aveva irritato non poco, tanto da turbare l’immobilità di quell’orrido occhio nero.
    La stella avanzò verso di lui, i passi lunghi e decisi e Saedor si tirò in piedi con un colpo di reni. Tornò all’attacco per primo, velocissimo ma la stella era mossa da un potere che trascendeva i limiti fisici e lui si ritrovò di nuovo a rotolare a terra, incapace di mandare a segno un solo colpo.
    -Ti nascondi dietro i tuoi stupidi poteri.- La accusò, sibilando come un rettile. Sillen non rispose. Aveva sentito la voce dell’elfo ma non riusciva a rispondere, si sentiva incatenata dentro il suo stesso corpo, governato totalmente da quel temibile potere divino. Era successa la stessa cosa al Nido delle Aquile e sapeva che non era affatto un bene.
    Se si trovava in quella situazione, voleva dire che il potere attingeva dalla sua stessa forza vitale, non dalla collana.
    La paura aveva preso il sopravvento e l’energia dentro di lei era affiorata per combattere al posto suo, irruenta. Tuttavia, come le aveva detto Alatar -forse l’unica cosa vera che le avesse mai detto- il potere della Stella dei Valar doveva essere la sua ultima risorsa. E lei poteva batterlo da sé, quell’elfo inquietante e presuntuoso.
    Doveva riprendere il controllo del proprio corpo o sarebbe morta comunque, prosciugata dal suo stesso potere.
    Respirò a fondo, combattendo contro sé stessa: -Stai zitto, non hai il diritto di parlare in questo modo alla Stella dei Valar.- Riuscì a pronunciare e sentì di nuovo le membra rispondere ai suoi comandi. Espirò forte, più lucida e sicura, mentre sentiva la collana canalizzare il suo potere e lasciarle il controllo.
    Nonostante i suoi occhi brillassero e la corrente la circondasse ancora, l’elfo doveva aver intuito il cambiamento in lei e non perse l’occasione per tornare all’attacco. Sillen lo vide muoversi veloce, brandendo quella dannata frusta velenosa come se non fosse mai stato ferito: quel Saedor era tremendamente forte, nonostante il fisico secco. 
    Ma non doveva avere paura di lui.
    Sillen scartò di lato, le gambe che bruciavano dallo sforzo: ora che il potere era tornato al sicuro, dentro di lei, sentiva di nuovo ogni muscolo dolere oltre il sopportabile. Non aveva mai sostenuto uno scontro a quella velocità e stava decisamente rallentando il ritmo a causa della ferita sulla coscia, che sanguinava ancora.
    -Perderai, Stella. Lo sappiamo entrambi.- La provocò lui, cercando di colpirla ancora alle gambe. Lei saltò per evitare il colpo, poi avanzo con un affondo rapido, la collana che brillava intensamente sotto l’armatura in mithril.
    Il sorriso perverso dell’elfo le dava il voltastomaco, voleva solo cancellarglielo dalla faccia.
    Caricò con tutto il suo potere, tanto che la terra si incrinò sotto ai loro piedi a causa del peso tremendo che aveva inferto all’attacco. Inaspettatamente, sentì la lama incontrare la resistenza del corpo dell’elfo oscuro: lo aveva finalmente colpito.
    Spinse con tutte le sue forze e alzò il viso trionfante, per incontrare quello bendato dell’altro.
    Sapeva che sarebbe riuscita a batterlo, prima o dopo.
    Lei era nata per questo. I Valar l’aveva guidata sino a quel preciso istante perché lei potesse dimostrare il suo vero valore.
    Eppure, Saedor sorrideva ancora.
    Sillen, deglutendo a vuoto, abbassò nuovamente lo sguardo sulla lama e vide con orrore che essa era effettivamente penetrata nel costato dell’elfo, ma egli la teneva stretta dentro di sé, ignorando totalmente il sangue che sgorgava dalla ferita e dalla mano, laddove questa premeva sul ferro.
    La stella sussultò dallo sgomento e prese a strattonare la spada, per liberarla. Ma il Maestro dei Veleni aveva altri piani e le sferrò un pugno tanto forte da farle voltare la testa e perdere la presa sull’arma. Gli occhi di Sillen tornarono del colore delle ametiste mentre perdeva l’equilibrio.
    Lui le fu alle spalle e, con un colpo secco, la fece cadere in ginocchio. Prima ancora che lei potesse pensare di rialzarsi, la lunga frusta sfrigolante saettò nell’aria e si strinse con violenza attorno al suo collo dorato.
    Sillen boccheggiò, completamente stordita da quel dolore lancinante, soffrendo come mai aveva sofferto nella sua breve vita di stella caduta.
    Non l’aveva nemmeno visto arrivare.
    E dentro di sé ebbe la lucidità per darsi della stupida.
    Si era sopravvalutata, come sempre aveva fatto da quando aveva preteso di guidare una battaglia. Il potere che con tanta presunzione aveva tentato di governare, in realtà stava cercando di avvertirla, di proteggerla, perché sapeva che quello era un nemico troppo forte da combattere da sola.
    E lei non era stata in grado di comprenderlo.
    Sentiva chiaramente ogni centimetro di pelle a contatto con il cuoio bruciare e gridò dal dolore: il veleno sulla frusta le avrebbe corroso la carne nel giro di pochi minuti. -Non ho mai conosciuto nessuno di più stupido.- Le rinfacciò Saedor, sfilandosi la lama dal corpo e gettandola a terra senza battere ciglio, con quell’occhio nero come la notte fisso sul viso paonazzo di lei. L’aria non le arrivava più nei polmoni, il suo potere non rispondeva più: certo, era troppo debole oramai.
    Si dannò da sola ma ancor di più sentì il proprio orgoglio bruciarle nel petto, tanto quanto bruciavano le carni del suo collo sottile: Thranduil aveva ragione, lei nemmeno sapeva cosa fosse una guerra, figurarsi affrontarla.
    Vide il cielo sopra di lei farsi scuro, i suoni divenire ovattati.
    Saedor si godeva ogni singulto della stella, aspettando di vederla esalare l’ultimo respiro… o di vedere la sua testa staccarsi dalle spalle e rotolare nel fango. Era deliziato, persino eccitato da quella scena. Poi sentì una leggera brezza scompigliargli i lunghi capelli corvini e la sua espressione soddisfatta fu turbata da un lieve spasmo. Tentò di ignorare quella presenza il più a lungo possibile, perché sapeva bene di chi si trattasse.
    -Saedor.- Lo richiamò infine una voce flautata e lui, soffiando infastidito, si costrinse a voltarsi. Lhospen, o meglio, la figura sbiadita e tremolante di Lhospen era al suo fianco, lo sguardo cupo: -Devi tornare indietro, fratello. Ormai lui è in mano nostra. Lascia la stella. Pallando ha detto che non è ancora il momento. Inoltre, abbiamo già sprecato troppi cadaveri e abbiamo addirittura perso un frammento.- Saedor parve grandemente infastidito da quelle notizie, benché infondo se lo aspettasse.
    -Pallando sferrerà l’ultima offensiva tra un’ora esatta. Vieni via.- Concluse Lhospen. Saedor tornò a guardare la stella, digrignando i denti e sentì l’illusione del fratello svanire. Dopotutto, egli si fidava ciecamente di lui e sapeva che avrebbe eseguito gli ordini senza fiatare: infatti, la frusta di Saedor sferzò nuovamente l’aria, liberando il collo della stella.
    Sillen cadde carponi, tossendo. Sputò sangue sul terreno scuro e non osò portare le mani al collo gravemente ferito. Sentì i passi del Maestro dei Veleni sul terreno dissestato, poi la sua mano stringerle i capelli.
    Quello la sollevò per la coda e lei urlò dal dolore, portando le mani sul polso sottile dell’elfo: -Voglio ucciderti. Lo desidero.- Sussurrò lui, a un soffio dal suo viso.
    Il suo corpo emanava un fortissimo odore di oli e unguenti curativi ed era freddo come la morte.
    Sillen ringhiò in risposta, scalciando debolmente con le gambe a mezz’aria, ormai stremata.
    Saedor la lasciò cadere di nuovo a terra, respirando a fondo per ritrovare un contegno. Si voltò svelto e iniziò ad allontanarsi, riavvolgendo la micidiale frusta senza preoccuparsi di evitare le zone grondanti veleno: -Ci rivedremo, inutile essere.- La minacciò, con voce piatta, poi la mantellina color prugna sparì oltre la folla dei non morti, come se non fosse mai esistita.
    Sillen tremava a causa del dolore lancinante e dovette fare appello a tutte le sue ultime forze per curarsi quanto bastava per fermare l’emorragia. I suoi occhi brillarono per qualche secondo e lei tornò a respirare decentemente, nonostante fosse ancora piegata in due. Come se non bastasse, i non morti si stavano muovendo: pareva quasi che a trattenerli sino a quel momento fosse stata la presenza dell’elfo oscuro.
    La Stella dei Valar cercò di distanziarli, trascinandosi con la sola forza delle braccia, ma non andò molto lontano. Da quanto aveva capito, Pallando e i suoi la volevano viva ma Saedor l’aveva lasciata esattamente al centro di una legione di non morti.
    Da sola.
    Sentì le lacrime salate bruciare come il fuoco, a contatto con la ferita fresca del collo. Non ne poteva più, faceva troppo male.
    Avvertì un rombo familiare nel terreno, contro il corpo, segno che i Rohirrim non erano lontani, e si fece forza: doveva almeno riuscire ad avvertirli, uno dei due elfi aveva parlato di un’ultima offensiva. Si tirò in piedi e afferrò malamente la spada macchiata dal sangue dell’elfo oscuro, gemendo dal dolore.
    Si trascinò verso Nord, laddove sentiva l’eco del cozzare metallico delle armi. I non morti ormai le erano addosso.
    Il terreno tremava così forte che pensò fosse frutto della sua immaginazione. I Mangia Terra? Altri ancora? Come se in quelle condizioni avesse potuto fare qualcosa in merito.
    Si voltò per affrontare i non morti, sollevando a fatica la spada.
    -Allora avanti, che aspettate! Sono qui!- Gracchiò. L’odore del suo stesso sangue e della carne bruciata la nauseava.
    Nel cielo invece, ignaro di tutto, il sole brillava, compiendo la sua dolce e lenta discesa verso Ovest, alle spalle della Bianca Torre di Ecthelion. La stella sentì il tepore dei suoi raggi sulla pelle e si disse che, forse, quello era un buon giorno per morire.
    Si abbatté di nuovo in ginocchio, colta da un violento capogiro. Le si stava appannando persino la vista, aveva perso troppo sangue.
    No, non poteva, doveva avvertirli!
    Non volle chiudere gli occhi, fissi al cielo turchese, e cadde supina al suolo, il respiro mozzato. Era finita dunque.
    Quelli erano i suoi ultimi istanti sulla Terra di Mezzo.
     Devo proprio essere una gran delusione per tutti, non è così Valar?, si ritrovò a pensare. Le forze l’abbandonavano.
    Poi, una grande ombra calò inaspettatamente su di lei, coprendo la luce dorata del sole. Sillen vide solo i suoi contorni sfocati e udì chiamare il suo nome con un lontano grido denso di preoccupazione.
    Per un secondo solo, il suo cuore batté più forte: -T-Thranduil?-
    Non riuscì a combattere ancora contro il dolore e la stanchezza e sentì il buio sopraffarla inesorabilmente.
 
**

    -Aragorn!- La voce limpida di Legolas attirò l’attenzione del Re, che si voltò decapitando un avversario, in un unico fluido movimento. Premette istintivamente la mano sul taglio che gli attraversava la spalla, ma sapeva che non era grave: -Legolas, Gimli! Ma che ci fate voi due di nuovo qui?-
    I due amici lo raggiunsero, schivando i colpi dei non morti. Nel versante Sud dei Campi del Pelennor, la battaglia infuriava con meno ferocia e gli alleati iniziavano a temere che non fosse un buon segno. Il nemico stava tramando qualcosa.
    Intorno a loro, i soldati si riunivano per dirigersi a Nord, a dare man forte ai Rohirrim.
    -Aragorn, abbiamo trovato qualcosa che forse dovresti vedere.- Lo informò Legolas, serio in volto. Rapidamente, tirò fuori dalla casacca sporca il frammento nero, posandolo nel palmo aperto del Re degli Uomini.
    Elassar spalancò gli occhi, senza parole: com’era possibile una cosa del genere? Come poteva quel frammento essere lì?
    -Dove lo hai trovato?- Sussurrò all’elfo, che osservava la sua reazione con un cipiglio perplesso: -Nel corpo di un non morto, poco fa. Sai forse di che si tratta?-
    Certo che lo sapeva, come poteva dimenticare quell’angosciante sensazione, quel gelo: -Questo è un frammento del Palantir.-[1] Disse, con tono grave. A quelle parole, l’elfo rabbrividì, tornando a fissare quell’oggettino apparentemente insignificante.
    Ecco perché gli era parso così familiare.
    Anche Gimli si sporse per osservarlo, sospettoso: -Quella maledetta palla sarebbe ora ridotta in schegge? Che guaio. Se tutti quanti i pezzi non superassero queste dimensioni, potrebbero essere centinaia!-
    Improvvisamente, sotto gli occhi dei tre amici, il frammento prese a brillare leggermente, di una luce fioca e bluastra, che l’elfo e il nano avevano già visto.
    Legolas la indicò a Elessar, allarmato: -Questa luce! Io e Gimli l’abbiamo vista fuoriuscire dall’orco che portava il frammento, quando lo abbiamo ucciso.- L’altro mosse istintivamente la mano e notò che, voltandosi verso destra, la luce aumentava d’intensità. Lanciò uno sguardo d’intesa ai due compagni e i tre si fecero velocemente strada in quella precisa direzione.
    Più loro si addentravano tra le schiere nemiche, mettendo fuori gioco i non morti sul loro cammino, più la luce blu diveniva chiara e pulsante. Finché, poco dopo, intravidero quella stessa luce riecheggiare non molto lontano: un orco dall’elmo nero correva nella direzione opposta alla loro e, sul suo collo imputridito, si scorgeva chiaramente la stella luce bluastra che aveva catturato la loro attenzione.
    -Legolas, fermalo!- Urlò Elessar e il Principe degli Elfi scoccò rapidamente una freccia, che centrò con millimetrica precisione il retro del ginocchio destro dell’orco. Questo rotolò a terra per parecchi piedi e, subito, un gruppo di uruk non morti si schierò di fronte ai tre amici, schermando loro la visuale.
    -Dannazione. Teneteli occupati!- Ordinò il Re di Gondor, cominciando a correre in direzione degli uruk. Questi sollevarono le orrende armi, pronti a colpirlo, ma l’uomo si buttò a terra, scivolando sotto le loro gambe macilente. Prima che i nemici potessero voltarsi e caricarlo nuovamente, Legolas e Gimli attaccarono, distogliendo la loro attenzione dall’amico.
    Elessar corse a perdifiato verso l’orco dall’elmo nero, che strisciava sul suolo fangoso. Con il frammento luminoso stretto in un pugno e Andúril nell’altro, il Re balzò sull’orco e lo inchiodò a terra con il proprio peso. Questo prese a dimenarsi, il grugno premuto a terra, ma Elessar fu veloce: con il taglio della nobile spada, tranciò il retro del collo dell’orco, che si afflosciò definitivamente sotto di lui in un baluginare bluastro.
    Un secondo frammento balzò fuori dalla carne putrida dell’orco ed Elessar si affrettò a recuperarlo.
    Ora che i due frammenti erano vicini, brillavano intensamente, pulsando l’uno verso l’altro.
    -Aragorn?- Sentendo la voce dell’elfo, il Re degli Uomini si voltò, incredulo. -Era davvero un altro fram…- Ma non terminò la frase, le parole gli morirono in gola. Ai piedi dei suoi amici e tutto intorno a loro, i non morti si erano accasciati al suolo, immobili.
    Legolas li fissò con sgomento: era successo di nuovo.
    -Allora è davvero così. Non appena il frammento viene estratto, una parte della legione di non morti smette di muoversi!- Farfugliò l’elfo, incredulo.
    Elessar fece un passo verso di lui, gli occhi sgranati e il fiato corto: -Come, prego?!-
 

 
**

    Glorfindel affondò la spada nella testa glabra del troll senza un occhio, ansimando per la fatica. Ancora non era riuscito a sbarazzarsi di quei tre e aveva addirittura perso le tracce della stella. Provò nuovamente a mozzare via la mano del troll gobbo ma anche questa volta non riuscì a trapassarne l’osso.
    Anche se cadaveri, quei tre erano davvero giganteschi.
    Fu solo per caso che, nel pieno del combattimento, Glorfindel intravide una strana luce tra le grosse membra dei tre mostri. Sul secondo, anzi sul terzo troll, poco sotto l’ascella sinistra.
    Strano, non l’aveva notata sino a quel momento.
    Riusciva a vederla solo quando il bestione dalle zanne storte sollevava il braccio. Era una luce davvero flebile, eppure lui aveva l’inspiegabile impressione che fosse abbastanza importante.
    -Cosa nascondete lì, voi razza di idioti?- Esclamò l’elfo, con il fiato corto. Schivò il grosso piede di uno dei tre nemici, cercando di capire come arrivare a quell’insolito bagliore. Rotolò ancora di lato, per evitare la mano pesante del troll gobbo, e finì violentemente addosso a qualcosa di tozzo e duro come la roccia.
    -Glorfindel, accidenti!- Udì tuonare, sotto di sé.
    -Oh, mastro nano! Che sorpresa.- Salutò, spostando il regal deretano da sopra un furibondo e dolorante Gimli. -Legolas, Re Elessar, ci siete anche voi.- Sorrise poi il Vanyar, mimando un breve inchino ai due mentre trascinava via il nano, appena prima che una grossa mazza nodosa colpisse proprio quel punto.
    Legolas sollevò gli occhi al cielo: -Ti abbiamo cercato ovunque. E io che speravo fossi crepato sul serio, questa volta.-
    Glorfindel gli fece l’occhiolino, rimettendo in piedi il povero Gimli: -Non ti libererai di me così facilmente, Principino. Devo fare ancora un sacco di cose, sai?- E indicò il troll dalle zanne storte: -Per esempio, devo capire cos’è quella strana luce azzurrina sotto il suo grasso braccio.-
    Elessar si gettò a terra per evitare il taglio dell’abnorme ascia del troll senza un occhio: -Non sforzarti. Sappiamo cos’è e anche cosa fa! Probabilmente è apparsa solo quando ci siamo avvicinati noi. Non è forse vero?- E mostrò velocemente gli altri due frammenti a Glorfindel, che poté constatare con i suoi occhi quanto detto dall’uomo. Infatti, i due frammenti neri brillavano in risposta al terzo.
    L’elfo dorato assunse un’aria sorpresa, riconoscendoli: -Oh. Non me l’aspettavo. Pensavo che il Palantir fosse andato distrutto.-
    Gimli sbuffò, facendo ondeggiare le treccine della sua barba rossiccia: -Infatti non mi pare tutto intero.-
    L’altro si fece serio, dando voce alle preoccupazioni che gli soffocavano il petto: -Per caso, avete visto Sillen arrivando qua?-
    Legolas trafisse la fronte del troll gobbo con una freccia, non sortendo alcun effetto. Soffiò, scocciato ed estrasse la spada, scoccando uno sguardo teso a Glorfindel: -In realtà, pensavamo fosse con te. Per questo siamo qui.-
    L’elfo dorato scosse la testa: -L’ho persa poco meno di un’ora fa. Era a circa un miglio a Nord di qui e stavo per raggiungerla, quando questi tre mi hanno bloccato.-
    Elessar fu subito accanto a Legolas: -Sei il più veloce, vai tu a cercarla. Io, Gimli e Glorfindel ci occuperemo di questo frammento.- Legolas annuì, roteando la spada: -Ci rivedremo alla prima stella della sera, alle porte della città. Come stabilisce il piano.- E non poté fare a meno di scambiarsi uno sguardo con Gimli, già rivolto verso di lui.
 
**

    Sillen continuava a oscillare, come sospesa su un’amaca morbidissima, e si sentiva avvolta da un piacevole tepore.
    L’era parso di sentire la voce di Thranduil.
    No, anche se familiare, non sembrava più la sua voce, quella che continuava a chiamarla: -Sillen, svegliati. Avanti, cerca di riprenderti.- Lei aggrottò le sopracciglia, sussultando per le fitte che il collo continuava a mandarle: -Non… ce la faccio.- Mugolò, trattenendo a stento le lacrime.
    -Finalmente hai ripreso coscienza.-
    Una folata di ventò la colpì in pieno viso e, istintivamente, Sillen s’irrigidì, socchiudendo gli occhi. Intorno a lei c’era solo il cielo. -Cosa… Dove sono?- Sentì il vento scompigliarle i capelli corvini, sfuggiti alla coda ormai quasi completamente sfatta, e abbassò lo sguardo: -Landroval, sei tu?-
    Il Maia voltò appena la testa, squadrandola con il suo occhio rapace: -Sono io.- Poi la sua voce si fece più aspra: -Ti rendi conto del pericolo che hai appena corso? Stavi per morire.- La rimproverò, senza riuscire a celare totalmente la sua preoccupazione.
    Sillen deglutì: di Thranduil proprio non c’era traccia.
    Non si stupì di averlo immaginato.
    Dopotutto, nel momento del bisogno, chi altro avrebbe desiderato avere accanto se non lui?
    Si mosse lentamente, cercando di costatare quante forze avesse in corpo: -Quanto sono stata incosciente?- Chiese, concentrando le proprie energie sul collo, per medicarlo come meglio poteva.
    -Quasi un’ora. Non sono riuscito a portarti alle infermerie, i non morti hanno grosse balestre ai confini. Quegli strumenti infernali e gli esplosivi urticanti abbattono i miei come mosche.- Schioccò il becco minacciosamente, Landroval.
    La stella si tirò a sedere sul dorso dell’aquila, respirando a fondo. -Va bene così. Un’ora mi è bastata per recuperare le forze. Grazie per avermi tenuta lontana dalla battaglia per tutto questo tempo.-
    Accarezzò le piume brune del Maia con naturalezza: -Devi essere molto stanco.- L’altro non rispose ma la stella sentiva che il corpo dell’aquila tremava per lo sforzo. -Avrei dovuto darti ascolto, quella volta.- Aggiunse.
    Non disse altro ma il Maia capì a cosa lei si stesse realmente riferendo: -Sillen, basta così. Ti sei fidata di Alatar perché è nella tua natura, non c’è altro da dire.-
    Lei si morse il labbro inferiore: -Sono un’egoista. Volevo che lui fosse dalla mia parte solo perché ero io ad averne bisogno.-
    L’aquila scrollò appena la testa piumata, troppo pratico perché rimuginasse sul passato: -Hai imparato la lezione.-
    Per un poco, stettero in silenzio, poi la stella sobbalzò: -Un’ora! Aspetta, è passata un’ora?! Landroval, c’è una cosa che devi sapere!- Esclamò, ricordando l’accaduto: -Due elfi al servizio di Pallando erano qui! Uno di loro ha parlato di un’ultima offensiva, credo si riferisse a un assalto decisivo! Tra un’ora disse, quindi adesso! Dobbiamo avvertire gli altri.-
    Il Maia lanciò uno sguardo sotto di sé, acuendo quanto possibile la sua eccelsa vista: -Riesco a vedere Faramir da qui, si dirige verso Nord. Ecco, c’è anche Éomer con lui.-
Sillen strinse i pugni, decisa: -Allora portami su di loro. Cerca di scendere il più possibile, salterò.-
    -No, sei ferita e disarmata. Richiamerò un’altra aquila e andrò io a consegnare il messaggio.- La stella si sporse verso la sua testa scura, seria in viso. -Se atterri ti colpiranno di sicuro. Non ho intenzione di metterti in pericolo.- Cercò di apparire convincente: -Ce la faccio, Landroval. Devi fidarti di me.- Anche se, sentendo la sua voce gracchiante pronunciare quelle affermazioni, non era sicura di crederci nemmeno lei.
    L’aquila soppesò le sue parole poi prese a scendere di quota:
-Ti terrò d’occhio. Se sarai di nuovo in difficoltà, ti porterò via e questa volta ti terrò quassù finché non mi si seccheranno le piume, hai capito bene?- Sillen annuì, strappando rapidamente un pezzo della sua camicia e arrotolandolo attorno al collo, per impedire alla ferita di riaprirsi.
    Landroval si spinse il più possibile vicino a terra e Sillen si lasciò cadere, adocchiando rapidamente i due alleati che doveva raggiungere. Rotolò a terra, frenandosi poi contro il cadavere di un rohirrim. Si tirò su velocemente, stringendo i pugni e ignorando il groppo in gola: -Éomer! Faramir! Éomer!- Gridò, correndo nella loro direzione con il fiato corto.
    Aveva ripreso le forze, certo ma non aveva idea di quanto avrebbe retto senza una vera e propria medicazione.
    Si arrestò accanto a Faramir, sorpreso di vederla: -Sillen, cosa ci fai tu qui? Hai ucciso Pallando?-
    Lei scosse la testa: -Temo sia complicato da spiegare, rimanderemo questa conversazione a dopo.-
    Il Re del Mark si guardò attorno, sentendo la voce della stella e la intercettò. -Stella dei Valar!- Non smontò da cavallo ma anche da lì poté chiaramente scorgere le sue ferite. Corrugò la fronte, squadrandola con apprensione.
    Lei non gli diede il tempo di domandarle cosa fosse successo e si rivolse ai due, perentoria: -Dobbiamo ripiegare sulla città e anticipare la seconda parte del piano! A breve, i nemici sferreranno un attacco più potente e credetemi, saranno in molti! È il momento.-
    Il Signore di Rohan sgranò gli occhi e Faramir riservò alla stella uno sguardo perplesso, disarmando un uruk troppo vicino a loro: -Ma stanno diminuendo! Sei sicura di quello che dici?-
    Quella lo fulminò con lo sguardo: -Se ci attaccano adesso sarà la fine!- Tese un braccio, indicando i rohirrim a cavallo lì attorno:
-Éomer, manda i tuoi uomini più veloci e fai girare il messaggio, dobbiamo accendere le micce! Elessar e gli altri devono essere avvertiti o non si ritireranno in tempo.-
    Due orchi si avventarono su di lei ma Sillen fu più veloce.
    Sotto lo sguardo scosso dei due compagi, raccolse una lancia da terra e si voltò con un unico movimento secco, decapitando entrambi gli orchi. Si rivolse nuovamente a Éomer, fissando gli occhi implacabili nei suoi: -Avvertili!-
 

 
**

    Glorfindel, grazie al diversivo studiato da Elessar, riuscì finalmente ad arrampicarsi sulla schiena del troll dalle zanne ritorte: -Finalmente sei mio.- La sua spada dorata si conficcò con forza sotto il braccio sinistro del troll e, con un potente fendente, riuscì a lacerare la sua carne putrida.
    L’elfo dorato riluceva di un bagliore sovrannaturale mentre affondava il polso nella ferita, senza esitazione. Quando lo ritirò violentemente fuori, il corpo del grosso troll crollò al suolo come un sacco di pietre.
    -Ce l’ha fatta!- Esclamò Gimli. Subito, anche gli altri due troll si afflosciarono a terra, immobili.
    Elessar raggiunse in fretta l’elfo, sollevato: -Ha funzionato. Il frammento li animava tutti e tre.- Il Vanyar scosse la mano piena di melma maleodorante, porgendogli il pezzetto di vetro nero che aveva estratto dalla ferita: -Che schifo.-
    In quel momento, un rohirrim a cavallo li intercettò, sudato e visibilmente agitato. -Miei signori!- Tirò le redini di fronte a loro, ansimando per la folle cavalcata: -La Stella dei Valar comanda di ritirarsi verso le mura, per accendere le micce.-
    Elessar sgranò gli occhi: -Adesso? I nemici sono troppo pochi, non avrebbe senso! Sprecheremmo solo delle risorse preziose.-
    Il giovane soldato di Rohan si asciugò la fronte, scostando l’elmo bronzeo: -Io ho solo riferito, mio signore. Non so rispondere alle vostre domande.-
    Glorfindel avanzò di un passo, visibilmente sollevato: -Dunque hai visto la stella? Dov’è ora?-
    -Poco più a Nord di qui, verso i colli. Combatte al fianco del mio signore, si dirigeranno anche loro alle mura. Affrettatevi!- E voltò la sua cavalcatura, sparendo nella battaglia.
    Glorfindel avrebbe voluto correre immediatamente da Sillen ma si costrinse a voltarsi verso Elessar. Lei stava bene, solo questo gli importava. -Cosa proponi di fare, Re degli Uomini?-
    L’altro, turbato, scosse le spalle: -Faremo quello che Sillen ha ordinato. Non abbiamo altra scelta.-
    L’elfo annuì: -Verrò con te, allora. E teniamo un frammento a testa. Magari ne incontriamo qualcun altro sul cammino.-
    Gimli annuì stancamente, appoggiato all’ascia: -Per una volta sono d’accordo con l’elfo, dammi quel vetrino.-
    Elessar distribuì i tre frammenti e richiamò i soldati attorno a loro: -A tutti voi! Ripiegare alle mura della città, presto! Chi rimarrà qui morirà, muovetevi!- E i soldati presero a correre verso Minas Tirith, allertando i compagni.
    Nella ressa, i tre amici si separarono, cercando di guidare i soldati al luogo stabilito.
    Non senza fatica, Elessar raggiunse le mura esterne della città.
    Superò la retroguardia dei soldati di Gondor e trovò la scala di corda a destra delle grandi porte in mithril.
    Rinfoderò Andúril e si affaccendò contro la scala improvvisata: la salita fu lunga e faticosa, fino in cima.
    -Mio signore, siamo stati avvertiti. I barili sono pronti e attendiamo l’ordine.- Lo informò un soldato, una volta che Elessar fu sulle mura.
    -Sillen non è ancora arrivata?- Chiese lui, lanciando uno sguardo al mare di corpi sotto di loro. -No, ma ci hanno riferito che sta per avvenire un attacco più potente da parte dei nemici. La Stella dei Valar accenderà la grande miccia sul crinale, per dare il via alla controffensiva. Così facendo, riusciranno a vederla anche da Osgiliath.- Elessar annuì, lasciando che il vento lo rigenerasse dalla calura: -Molto bene, disponete i barili e state all’erta.-
    Si voltò per osservare i profili muti e rigidi della sua magnifica città e lo sguardo penetrante dei suoi occhi grigi catturò i bagliori vivaci del sole che tramontava.
 
**

    Un uruk particolarmente rapido affrontò la stella, ormai stanca e ansimante. Fu costretta a indietreggiare di colpo per evitare la pesante lancia insanguinata: -Maledizione! Fatemi passare!- Urlò, schivando un altro affondo.
    Doveva raggiungere il crinale prima che la temuta offensiva avesse luogo ma, di questo passo, non ci sarebbe mai riuscita.
    I suoi occhi s’illuminarono brevemente mentre parava il colpo della lancia, talmente violento da spostarla all’indietro, mentre i suoi piedi creavano solchi profondi nel terreno.
    Purtroppo, non fu più altrettanto rapida.
    L’attimo successivo, infatti, il grosso uruk la colpì con forza disumana, con un brutale calcio all’addome.
    Sillen fu sbalzata indietro per parecchi piedi e cadde violentemente sul terreno brullo, rotolando fino al frastagliato bordo dell’ennesimo crepaccio, dal quale fuoriuscivano i non morti e ancora si agitavano i Mangia Terra.
    La stella sentì tutte le ossa scricchiolare minacciosamente ma ignorò le fitte prepotenti che mandavano e, con un grosso sforzo, cominciò a strisciare il più lontano possibile da lì. Digrignò i denti e si mise carponi, cercando con lo sguardo l’enorme uruk con la lancia: questo, poco lontano, avanzava verso di lei con passi pesanti e cadenzati, il grugno putrefatto coperto dall’elmo nero.
    Sillen ringhiò, terrorizzata, cercando tentoni la propria spada, quando un fragore improvviso scosse la terra.
    Altre voragini volevano dire altri non morti.
    Attorno a lei, sempre più soldati cadevano per mano degli inarrestabili e silenziosi orchi: essi stavano aumentando, l’assalto finale era appena iniziato.
    Sillen cercò di erigere una barriera tra lei e l’uruk ma non riuscì a controllare il proprio potere, reso instabile dalle sue pietose condizioni fisiche.
    Imprecò, il torace che doleva ad ogni respiro.
    Dannazione, cosa poteva fare?
    L’uruk si arrestò davanti a lei e sollevò la lancia, preparandosi a trafiggerla con la sua forza bestiale.
    La stella arrancò indietro, furente, urlando la sua rabbia in direzione del non morto. Questo, silenzioso come una statua, alzò fino allo spasimo l’enorme braccio e Sillen si preparò a incassare il colpo, sperando che l’armatura in mithril fosse abbastanza spessa da resistere ad una tale forza.
    L’uruk abbassò di colpo il braccio ma la stella non fu mai colpita: una freccia si conficcò con forza nella fessura dell’elmo nero del non morto, dritta in mezzo alla fronte.
    Subito, un’altra freccia si piantò nei legamenti del suo braccio armato, che perse forza e si afflosciò lungo il corpo.
    Una figura alta e veloce superò la stella agilmente e le si parò davanti, l’arco teso tra le mani: dardeggiò l’uruk più volte, colpendo con letale precisione tutte le sue giunture.
    Come previsto, il non morto cadde a terra come un sacco vuoto, incapace di muovere gli arti.
    Fu in quel momento che, da Nord, un corno dal suono acuto fendette il clangore della battaglia e tutti gli alleati si guardarono tra loro, sconcertati.
    Non era il corno dei Rohirrim, né quello dei soldati di Gondor.
Sillen non aveva mai sentito il suono di quel preciso corno ma, in qualche modo, capì all’istante a chi apparteneva.
    Il suo cuore perse un battito, mentre la sua mente processava a fatica l’informazione. Fissò la schiena della figura davanti a lei, solo un’ombra che si stagliava nel tramonto, in controluce: la sagoma di un’armatura elegante, un elmo bronzeo affusolato, lunghi capelli mossi dal vento.
    La sua voce si bloccò in gola e, istintivamente, allungò una mano tremante verso quella figura. Questa si voltò nella sua direzione e le andò in contro, svelta: le afferrò la mano con forza e la attirò a sé, stringendole la vita con un braccio, per sostenerla.
    Sillen sentì il cuore battere più forte, lo stomaco contorcersi: sollevò il viso accaldato e, con le labbra ancora tremanti, alzò lo sguardo per incontrare gli agognati e magnifici occhi di-
    -Galion?!- Urlò, quando si trovò faccia a faccia con l’elfo castano. -Che razza di fastidiosa situazione.- Si lamentò lui, trascinandola con sé lontano dall’uruk riverso a terra.
    Sillen si aggrappò alla sua spalla, sconvolta.
    Era confusa, felice, arrabbiata, stanca, felice. No, non riusciva proprio a dare un senso a quel subbuglio interiore.
    Se Galion era lì, anche Thranduil doveva essere arrivato.
    Aveva preso parte alla battaglia? Perché?
    -Sei ferita?- Chiese il silvano, anche se dal tono pareva non gli importasse poi granché.
    La stella volse lo sguardo dietro di sé e vide l’esercito degli elfi di Bosco Atro sopraggiungere dai crinali a Nord, compatto e ordinato, le lance che sfavillavano verso il cielo rosso.
    -Sto bene, devo solo recuperare le forze.- Disse, quando l’elfo la fece sedere dietro i corpi immobili di tre enormi troll.
    -Sanguini dal fianco destro, dalla coscia e dal collo.- Le fece notare lui, scocciato. Sillen premette forte la mano sulla nuova ferita al fianco e sibilò tra i denti, reprimendo un lamento: -Lo so. Il collo e la coscia le ho già guarite il più possibile e questa non è una ferita profonda. Si rimarginerà completamente nel giro di poche ore.- Galion, con una smorfia, estrasse un sacchetto da dietro il mantello rossastro e tirò fuori una manciata di erbacce dalle lunghe foglie scure. Le masticò metodicamente mentre allentava i lacci del corpetto in mithril della stella, per scoprirle la ferita sul fianco. -Athelas.[2]- Disse solamente, mentre la medicava. Sillen sentì all’istante la freschezza della pianta alleviare quell’intenso bruciore, che s’irradiava lungo tutto il ventre e nelle gambe. L’elfo fece altrettanto con le restanti due ferite, infine le fasciò con delle bende pulite. Dovevano sbrigarsi prima che qualche non morto riuscisse a trovarli.
    -Hannon le, Galion. (grazie)- Sussurrò lei, guardando il viso familiare dell’elfo. Lui premette forse un po’ troppo forte sulla ferita alla coscia e lei sobbalzò dal dolore: -Non ringraziarmi, Sillen la Stella. Se fosse dipeso da me, ti avrei più che volentieri lasciata in balia dell’uruk.-
    Nonostante il bruciore intenso, lei sorrise, mesta.
    Come biasimarlo.
    In quel momento Legolas, che per tutto quel tempo aveva cercato la stella, riapparve dal tumulto della battaglia. Si trovò di nuovo davanti ai tre troll abbattuti da Glorfindel, Gimli ed Elessar ma di loro non vi era più traccia.
    Dovevano essersi spostati alla ricerca di nuovi frammenti.
    Poi, contro ogni aspettativa, individuò la stella, a pochi passi di distanza: -Sillen! Eccoti finalmente, ti ho cercata ovunque.- Corse verso di lei, colpendo alle ginocchia gli orchi che intralciavano la sua strada.
    Galion si scostò rispettosamente quando lo vide arrivare e Legolas tastò preoccupato le bende che coprivano le ferite della stella: -Stai bene?- Lei annuì e quello parve accorgersi solo in quel momento dell’altro elfo, ancora accucciato al loro fianco.
    -Galion! Dov’è mio padre?- L’altro chinò rispettosamente la testa, difronte al Principe: -Guida l’avanguardia dell’esercito, mio signore.- Udendo quelle parole, a Sillen si mozzò il respiro: l’idea di Thranduil in uno scontro frontale la mandava nel panico e dovette fare appello a tutta la sua buona volontà per non andare in iperventilazione seduta stante.
    -I capi della guardia sono schierati a Sud-Est e a Nord-Est.- Continuò Galion, diligente. Legolas sorrise, tornando a guardare la stella: -Saranno più di quindicimila soldati e circondano gli orchi. La situazione sta girando a nostro favore, finalmente.-
    Sillen gli strinse un braccio: -Aspetta! Dobbiamo fermarli, ho anticipato la seconda parte del piano. Qui sarà un inferno tra poco!- L’elfo spalancò gli occhi: -Per questo i non morti hanno aperto nuove gallerie.- Lei annuì: -Si riverseranno qui a breve, devo raggiungere il crinale. Tu avverti tuo padre, deve tenere i suoi vicino alla città.- Strinse con decisione i lacci del corpetto, mettendosi in piedi.
    L’elfo biondo si fece avanti per aiutarla ma lei alzò le mani: -Ce la faccio! L’athelas ha funzionato, posso combattere. Vai, ti prego!- Legolas annuì, lanciando uno sguardo serio all’elfo castano, e si precipitò verso l’esercito della sua gente.
    Galion si alzò a sua volta, libero di esprimersi di nuovo a suo piacimento: -Magari questa volta ci resti secca.-
    Sillen stese il braccio destro con una smorfia di dolore, accertandosi che non ci fosse nulla di rotto: -Non devi preoccuparti per me Galion.- Lo informò. Galion scrollò le spalle, onestamente disinteressato: -Lungi da me preoccuparmi. Fai come vuoi.-
    Sillen nemmeno sapeva quantificare la gioia che provava nel vedere quell’elfo dispotico e la forza era tornata a scorrere vigorosa nelle sue membra: voleva porre fine a quella battaglia il più velocemente possibile, poi avrebbe potuto incontrare lui.
    La stella si avvicinò pericolosamente a Galion, con lo sguardo serio e penetrante fisso nel suo e, improvvisamente, lo abbracciò con slancio.
    Quello, preso in contropiede, barcollò un attimo, sgranando gli occhi: -S-Sillen, ma che-
    La stella si staccò subito dopo e, allontanandosi con un sorriso, sfilò abilmente le due spade dai foderi sulla schiena dell’elfo, appropriandosene: -Raggiungi i tuoi, ci vediamo a fine battaglia. E Galion: non morire, d’accordo?- Con quel sorriso raggiante, prese a correre verso il crinale.
    L’elfo castano la guardò allontanarsi, gli occhi ridotti a due fessure e la mascella dolorosamente contratta: -Amin delotha lle. (quanto ti odio.)-



 
[1] Palantìri: (o Pietre Veggenti) Sono gemme sferiche, create dagli Elfi con l’aiuto di Melkor (Morgoth), in Aman. Il loro nome elfico significa letteralmente “coloro che sorvegliano da lontano” ed esse possiedono la straordinaria capacità di comunicare tra loro, mostrando visioni e mettendo in contatto chi le possiede. Sette furono i Palantìri portati nella Terra di Mezzo e finirono per la maggior parte distrutti, perduti o semplicemente custoditi in luoghi sicuri. In passato (per esempio, durante la Guerra dell’Anello) essi vennero usati persino da Saruman e da Sauron stesso, rispettivamente alla Torre di Orthanc e alla fortezza di Barad-dûr. Quest’ultimo Palantir, infatti, si perse nel crollo della fortezza di Mordor, andando distrutto. O almeno, così credevano tutti.
 
[2] Athelas: (anche detta Foglia di Re) è una pianta curativa molto antica, portata sulla Terra di Mezzo dagli uomini di Numenor (i Dunedain). Se utilizzata da mani abili e capaci, l’athelas è in grado di curare la maggior parte delle ferite e quasi tutte le malattie conosciute. Ha foglie verdi e allungate ed è ornata da fiorellini bianchi.


 



N.D.A

Ciao a tutti!

Wow, ben ritrovati amici, dopo ben due settimane! Spero che il capitolo risulti scorrevole, nonostante la lunghezza e la quantità di cose che accadono XD Cooooomunque, cosa ne pensate? Fatemi sapere cari e care, sono sempre pronta alle critiche ;) Grazie a tutti quelli che sono arrivati sino a qui nonostante la mia vergognosa lentezza eheh T-T"

Un Bacio!
la vostra Aleera. 



 

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Capitolo 24
*** Colpe ***




 
-Colpe-




    Thranduil divise perfettamente a metà un orco, con un unico fendente mortale. Era furente, infervorato da un fuoco antico e senza freni, che gli dilaniava il petto. 
    Quella dannata stella.
    Maledetta lei e le complicazioni che s’era portata appresso.
    Si gettò senza indugio contro i non morti, deciso a sfogare su di loro tutta la rabbia e la tensione accumulate in quelle lunghe settimane. Come se il risentimento verso di lei non bastasse, adesso Thranduil doveva persino ammettere che, per tutto quel tempo, aveva ostinatamente, volontariamente e gratuitamente sottovalutato la potenza del nemico.
    Appurare con i propri occhi che quell’esercito maledetto era composto solo da disgustosi cadaveri, lo scioccava e lo irritava oltre ogni misura. Da quando poi aveva ricevuto le ultime informazioni dai suoi corvi, non riusciva a non provare un cocente odio nei confronti dello stregone Pallando.
    Anzi, degli stregoni in generale: dopotutto, non era certo la prima volta che uno degli Istari faceva tanto danno.
    Sentiva la testa vorticare per la miriade di pensieri che vi si affollavano, senza sosta. 
    Non sarebbe dovuto giungere sino a Minas Tirith.
    Certo, quella era l’unica certezza che lo accompagnava, giorno e notte, dal momento in cui aveva messo piede fuori da Bosco Atro. Eppure, aveva marciato con il suo esercito senza mai rallentare e aveva diretto lui stesso l’attacco, senza il minimo indugio. Coerente.
    Ed era inutile cercare di negare il perché: voleva vederla.
    Sì, voleva guardarla negli occhi e sputarle in faccia il proprio, profondo disprezzo: non sarebbe riuscito a lasciarsi quella storia alle spalle, non prima di aver pareggiato i conti con lei.
    Era servito quel disgraziato di Felon per farglielo capire.
    Però, quel silvano traditore aveva avuto torto su una cosa fondamentale: lei non l’aveva cambiato; aveva solo contribuito a ricordargli di non fidarsi di nessuno al di fuori di sé stesso.
    Quando si conquista qualcosa, si deve fare di tutto per tenersela ben stretta, ecco tutto. E lui aveva permesso a quella ragazzina di scappare: non avrebbe ripetuto lo stesso errore due volte.
    Decapitò quattro orridi orchi con un colpo secco, incurante degli schizzi di melma nerastra che volarono a macchiargli l’armatura argentea. Infine, Thranduil era di nuovo sceso in battaglia, nonostante tutti gli sforzi che aveva fatto per restarne fuori e per risparmiare altre sofferenze al suo popolo.
    Per lo meno, non lo avrebbe fatto invano: non vedeva l’ora di vedere le facce degli alleati, quando li avrebbe costretti a omaggiarlo per la sua sola presenza.
    Senza di lui, erano persi.
    Improvvisamente, dalla ressa intorno a lui, una voce familiare attirò la sua attenzione. -Adar! (padre)-
    Thranduil puntò gli occhi di ghiaccio su suo figlio, ignorando cocciutamente la sensazione di sollievo che provò nel vederlo.
    Contrasse la mascella, seccato: -Mangia Terra, cadaveri che combattono, ordigni esplosivi. Sono sorpreso di trovare qualche inutile umano ancora in vita.- Commentò sprezzante, non senza lanciare una rapida e discreta occhiata a valutare lo stato di salute del figlio.
    Legolas giunse in fretta al suo fianco, stringendo d’istinto i pugni: come poteva lui, giunto solo adesso, parlare in quel modo?
    Gli alleati avevano perso molte vite e altrettante sarebbero state spezzate se non avessero portato a termine il piano in tempo.
    Solo per quel motivo decise di non curarsi delle dure parole di suo padre, controllando le proprie emozioni: -Non avanzate oltre, non servirà.- Lo avvertì. Thranduil spostò lo sguardo sui propri soldati, che stavano ricacciando i non morti verso Sud a suon di legnate. -Li stiamo contrastando, mi pare.-
    Legolas scosse con forza la testa, stizzito: -Stanno per aumentare ancora di più il loro numero, non vedi che i Mangiatori di Terra continuano ad aprire varchi?-
    Poi indicò con un gesto deciso i segni scuri che percorrevano il terreno davanti a loro, sparendo a tratti nell’erba alta e secca: -I Campi del Pelennor stanno per diventare una distesa di fuoco. Abbiamo creato una rete di materiale altamente infiammabile per carbonizzarli: è l’unico modo che abbiamo per distruggere definitivamente i non morti.-
    -E i vostri caduti? Bruceranno con loro?-
    Legolas sollevò il mento, deglutendo a vuoto. Fedele a sé stesso, Thranduil aveva pensato ai loro morti, al popolo: al loro posto, suo padre non avrebbe mai permesso che il corpo di un singolo soldato del Reame Boscoso rimanesse indietro.
    -Erano consapevoli di questa possibilità, dal momento in cui hanno accettato il piano.- Tagliò corto, con voce bassa.
    Thranduil lo fissò, stringendo gli occhi a due fessure lucenti ma non si oppose: -Bene allora. Vorrà dire che ci limiteremo a spingerli nei Campi.- Si voltò con uno svolazzo del mantello rosso sangue, impartendo ordini secchi ai capi della guardia elfica.
    Legolas abbassò la testa, respirando a fondo: doveva ammettere che una parte di sé, quella più nostalgica e antica, gioiva della presenza forte e rassicurante di suo padre.
    Era improvvisamente tornato un giovane elfo alle prime armi, terrorizzato all’idea di dover affrontare la pericolosa battaglia ma ispirato dal coraggio e dalla destrezza del padre: l’unica differenza era che, adesso, Legolas si sarebbe sotterrato di buon grado pur di evitare la vergogna che stava provando nel desiderare l’aiuto del Re.
    Ad ogni modo, gli elfi di Bosco Atro erano rapidi ed efficienti e, dando man forte agli alleati, circondarono il nemico in brevissimo tempo. Ora, Uomini, Elfi e Nani contenevano i non morti, che si abbattevano come onde nere contro il cerchio formato dalle loro armature e dalle loro armi impietose.
    Per quanto forti fossero però, gli alleati cominciarono quasi subito a dare segni di cedimento: i nemici stavano aumentando a dismisura, presto sarebbe stato impossibile trattenerli.
    Legolas scrutò il crinale con la sua acuta vista, mentre affiancava suo padre: -Avanti Sillen, fai in fretta...- Sussurrò, ansiosamente.
    Non riusciva ad individuarla e gli elfi, per quanto resistenti, cominciavano ad arretrare: non poteva permettere che tutti gli sforzi della stella venissero vanificati proprio all’ultimo.
    Estrasse la spada con fare risoluto: -Adar, vorrei unirmi all’avanguardia.- Thranduil non si oppose, una maschera di indifferenza sul viso affilato: -Come se tu avessi bisogno di chiedere il mio permesso. Fai come desideri.- L’altro si inchinò brevemente, sparendo poco dopo tra le file composte dei soldati, senza guardarsi indietro.
    Thranduil chiuse per un attimo gli occhi, respirando a fondo.
    Perché si comportava sempre in quel modo?
    Quanto poteva essere difficile complimentarsi, esprimere la sua preoccupazione o la sua ammirazione verso il suo stesso figlio? “Ottimo lavoro, Legolas. Stai attento, figlio mio.”
    Ogni padre era in grado di farlo.
    I suoi cupi pensieri furono interrotti dall’arrivo di Galion, che si sistemò rumorosamente la già impeccabile armatura, giusto per far notare al Re la propria presenza.
    Thranduil, regale e immobile come una statua di marmo e argento, si sforzò di non guardarlo, tenendo gli occhi di ghiaccio incollati sulla battaglia. -L’hai trovata?- Chiese solamente, con falsa noncuranza. -Sì mio signore. Ovviamente, non ha accettato il mio aiuto, perciò continuerà da sola. Da quanto ho inteso, appiccherà lei stessa il tanto atteso “fuoco risolutore”. Comunque, è ferita e anche in modo grave. Non so per quanto l’athelas riuscirà a frenare le emorragie ma le conviene fare in fretta o ci lascerà le penne.- Fece l’altro, guardandosi le unghie.
    Thranduil, suo malgrado, rabbrividì a quelle parole ma scacciò in fretta tutte le emozioni che stavano minacciando di invadergli il petto. Dunque quella donna era in pericolo.
    Tanto meglio, voleva dire che non era ancora irrimediabilmente morta. Non gli sarebbe piaciuto venire a sapere che fosse già morta o chissà cos’altro: non poteva vendicarsi su un cadavere.
    L’aria si fece più pungente, ora che il sole stava sparendo oltre la città di Minas Tirith e il Re volse istintivamente lo sguardo sul suo unico figlio, che combatteva poco lontano.
    Somigliava davvero tanto a sua madre ma forse non glielo aveva mai detto. Anche adesso, mentre cercava di far avanzare l’esercito del Reame Boscoso per spingere i non morti dentro la rete di pece e olio scuro, Legolas aveva la stessa espressione risoluta della Regina.
    L’immagine dei capelli d’oro di lei, sparsi sul terreno tinto di cremisi, invase prepotente la mente dell’antico Sindar, che si ritrovò a stringere nuovamente la spada.
    Avanzò verso suo figlio, respirando a fondo, per mantenere più salda che mai la sua maschera di ghiaccio.
    Roteò la lama elfica velocemente, con fare annoiato: -Bene, Galion. Allora non stiamo qui con le mani in mano. Qualcuno dovrà pur dare a quella donna il tempo che le serve. E vediamo di risolvere questa scomoda faccenda prima che faccia buio: odio combattere di notte, lo sai.-
 

 
**

    Sillen arrancò sulla ripida salita, ansimando.
    Strinse nuovamente la fasciatura sul fianco, soffiando tra i denti: -Dannazione, sanguina di nuovo.- Tirò malamente giù la casacca e annodò più stretta l’armatura, per cercare di contenere l’emorragia.
    Era uscita dal campo di battaglia senza ulteriori intoppi e aveva superato velocemente la retroguardia dei Rohirrim, riuscendo finalmente a raggiungere il crinale.
    Gli elfi di Bosco Atro erano arrivati proprio al momento più opportuno, un’apparizione provvidenziale. I non morti si erano ovviamente lanciati laddove erano ammassati più soldati, creando così un vero e proprio diversivo, che le aveva permesso di muoversi indisturbata.
    La stella si arrestò sulla cresta più alta del crinale e il suo sguardo poté abbracciare tutta la distesa dei Campi del Pelennor. L’anello composto dai soldati alleati riluceva come un fiume d’argento, e i non morti, come silenziose formiche, vi si ammassavano contro.
    Le voragini da cui fuoriuscivano, tuttavia, erano innumerevoli.
    Sillen strinse i denti, inginocchiandosi accanto alla grossa corda che spuntava dal terreno, fissata a un paletto: la miccia.
    Dipendeva tutto da lei, adesso.
    Frugò nelle tasche interne della casacca ed estrasse due pietre focaie, concentrata.
    Due colpi secchi, come le aveva insegnato Elessar, e le scintille caddero con grazia sulla corda impregnata di pece nera.
    In un secondo, la corda prese fuoco e le fiamme corsero su di essa inarrestabili, divorandola velocemente.
    Sillen scattò in piedi, gli occhi ametistini fissi sulla traiettoria del fuoco: -Ti prego, funziona!- E le fiammelle incontrarono il primo barile, pieno di pece densa e nera: dopo un attimo di silenzio assoluto, un’esplosione violenta la costrinse a tapparsi le orecchie e a rannicchiarsi, per evitare che le schegge la ferissero in viso.
    Subito, le scintille provocate dall’esplosione appiccarono altri fuochi e la rete mortale iniziò a diradarsi. Funzionava!
    Il vento sembrò favorirli e sospinse rapidamente le fiamme verso Sud. Ora era il turno di Minas Tirith.
    Elessar, dall’alto delle mura della città, sorrise trionfante.
    -Tirare!- E le catapulte furono efficientemente azionate. Decine di grossi barili volarono oltre le linee degli alleati, dritti sul campo già disseminato di scie infuocate.
    Altre esplosioni, altro fuoco. Era il turno di Osgiliath.
    Gli elfi di Imladris furono rapidi e precisi e, in pochi minuti, l’intera valle di sterpaglie secche divenne un lago di fuoco.
    Un anello di fiamme, spesso quasi trenta piedi, intrappolò gli orchi, poco distanti dall’avanguardia dell’esercito alleato: dove poco prima sorgevano gli accampamenti del glorioso esercito dei Popoli Liberi, ora bruciavano le legioni nemiche.
    I Mangia Terra si rintanarono vigliaccamente nelle loro oscure voragini e i non morti, incapaci di pensare, continuarono a gettarsi nelle fiamme, avanzando fino a quando del loro corpo morto non rimaneva che un nugolo di cenere e ossa annerite.
    Subito, come lo scroscio violento di un temporale estivo, un coro di voci esultanti superò il crepitio delle fiamme e il tuonare delle ultime esplosioni, giungendo sino alla stella.
    Lei vide i soldati lanciare gli elmi in aria, abbracciarsi, stringersi le mani gli uni con gli altri. 
    Era finita, avevano vinto.
    Sillen saltò, ridendo dalla gioia, ignorando il dolore provocato dalle numerose ferite: Pallando era ancora vivo, gli elfi oscuri ancora in circolazione ma oggi avevano vinto loro.
    E, senza dubbio, avevano inflitto al nemico perdite indicibili.
    Si affrettò lungo il crinale, impaziente di ricongiungersi ai suoi amici. Voleva festeggiare con loro, ringraziarli per aver creduto in lei. Sentì lo stomaco contorcersi al pensiero che, questa volta, anche Thranduil fosse con loro ad attenderla.
    Sibilò dalla fatica: vicino all’incendio faceva un caldo infernale e il fumo scuro cominciò ad avvolgere la valle, facendola tossire.
    Si tenne il fianco con una mano, facendosi  coraggio: un ultimo sforzo, poi avrebbe riposato.
    Tuttavia, come nelle più avvincenti e tragiche storie, quelle di cui lei stessa aveva avidamente letto nei bei libri del Reame Boscoso, il fato non poteva aver esaurito le sue mosse, non ancora.
    Ad un tratto, infatti, la stella arrestò bruscamente la sua corsa, il ghiaccio nelle vene.
    Forse non aveva visto bene.
    Forse i suoi occhi, svelti sulle fiamme e sul fumo nero, avevano soltanto preso uno spiacevole abbaglio.
    Sentì il cuore accelerare i propri battiti e brividi di freddo le corsero lungo la schiena, mentre si voltava: a tratti nascosto dietro le alte lingue di fuoco divorante, il volto di Pallando la osservava, sornione.
    Per un attimo, Sillen e il volto nel fuoco si fissarono, in silenzio, immobili.
    Poi la voce dello stregone, calma e terribilmente reale, fendette il crepitio delle fiamme, ferendole l’anima: -Bene bene, Stella dei Valar. Guarda che bel guaio hai combinato.-
    Sillen deglutì, stringendo i pugni.
    Era un’illusione, lui non era davvero lì, avvolto dalle fiamme.
    -Codardo.- Sibilò, gli occhi viola che baluginavano luce bianca e bruciante quanto il fuoco tutt’attorno a loro.
    -Saggio, direi. Non codardo, no. Decisamente più furbo di te.- Sorrise lui, con i suoi canini innaturalmente appuntiti, come quelli di una belva.
    Sillen avanzò nel caldo torrido con passo mal fermo, sempre più vicina all’incendio, i pugni serrati. Parlò con convinzione, nonostante la voce tremante: -Abbiamo vinto, non vedi? I tuoi mostri saranno carbonizzati, dal primo all’ultimo.-
    Lui finse di guardarsi attorno con espressione allarmata.
    -Davvero? Oh quale sciagura! Che immane tragedia.- Ridacchiò, tornando a guardarla. -Ammetto di essere rimasto colpito. Non mi aspettavo questo intrigante stratagemma. Ma sai, Sillen- Strascicò il suo nome in modo tanto viscido da darle il voltastomaco -non credo che tu abbia ancora compreso chi io sia e cosa io possa fare.- La rimproverò, dolcemente.
    -Credi che la mia forza fossero questi stupidi cadaveri? Utili, certo. Obbedienti, sicuro. Ma non sono niente.-
    Sollevò una mano e Sillen strinse istintivamente l’elsa di una delle due spade gemelle di Galion.
    Quello che prima era solo un viso fluttuante divenne un’intera figura scura e Pallando portò la mano al petto. Fece per estrarre qualcosa dalla veste, lambita dalle fiamme. Poi allungò una mano oltre la cortina di fuoco, per mostrare alla stella l’oggetto che stringeva tra le dita.
    Sillen ridusse gli occhi a due fessure, per vedere attraverso il fumo denso: quello era solo un dannatissimo pezzo di vetro nero, cosa cercava di dimostrarle?
    -Sai cos’è questo, mia cara Stella dei Valar? Si chiama Palantir. Non è il più grande, né il più potente tra i Palantiri, purtroppo. Tuttavia, si sta rivelando davvero utile. Guarda tu stessa.-
    E strinse leggermente la presa sul vetro traslucido.
    Una lieve luce bluastra lo attraversò. Poco dopo, dal cerchio di fuoco, rotolarono fuori decine e decine di non morti. Spensero le fiamme accese sulle loro vesti luride, dimenandosi sul terreno.
    Piccole e flebili luci bluastre brillavano dentro i loro orrendi corpi neri, mezzi carbonizzati ma ancora in grado di muoversi: dovevano essersi tenuti distanti dall’anello di fuoco… ma perché?
    Sillen non capiva, non riusciva a spiegarsi quell’improvvisa presa di coscienza da parte di quei non morti.
    Decise di continuare ad aggredire lo stregone, pregando che decidesse di tornarsene da dov’era venuto: -Ebbene? Questa manciata di cadaveri non può niente contro i nostri eserciti!-
    Lui annuì, soddisfatto: -Esattamente. Sono proprio inutili. Tuttavia non lo sono i loro frammenti. Non ti dispiacerà se me li riprendo.- Come mosse da fili invisibili, piccole schegge nere lacerarono la pelle carbonizzata dei non morti, fuoriuscendone con un movimento violento. I corpi caddero a terra, come sacchi vuoti e i frammenti continuarono su una traiettoria invisibile.
    Sillen li vide conficcarsi a terra e sparire in un baluginare bluastro, persi per sempre nelle viscere del sottosuolo.
    Sussultò quando, voltandosi nuovamente verso Pallando, lo trovò a una spanna dal proprio viso, chino su di lei come un rapace, curvo e secco.
    Deglutì, impedendosi di piangere, ripetendosi che quella era solo una dannata illusione.
    -Lascia che ti spieghi, mia ingenua stella. Io sono uno Stregone Blu, come ben sai. Tra i due però, non mi vergogno ad ammetterlo, è sempre stato Alatar il più forte. Non che dessi peso alla cosa, beninteso, era il mio adorato fratello.-
    Sorrise, avvicinando ulteriormente il suo ghigno al viso della stella, inchiodandola al suolo con la pressione del suo sguardo allucinato. -Eppure, le cose sono cambiate. Quando mi ritrovai solo, molti anni fa, decisi di non arrendermi ad un destino di dolore e solitudine. Ho studiato, ho imparato il possibile laddove ero… ospite, estorcendo magie antiche da esseri ben più potenti di me.-
    Sillen tremava, scossa dalla paura e dalla tensione, consapevole di essere sola, ferita e incapace di utilizzare il proprio potere.
    Era ancora viva, solo perché lo stregone era solamente una terrificante quanto impalpabile illusione.
    Quello, divertito dalla sua reazione, continuò: -Mi sono impegnato a fondo e ho costruito un nuovo potere, tutto mio, lontano dalla divina influenza dei Valar. Il Palantir si è rivelato lo strumento perfetto, un ritrovamento accidentale che ha fatto di me l’essere più potente mai esistito. E sai perché, Stella dei Valar?- Lei scosse impercettibilmente la testa, assorbita dalle sue parole. -Perché adesso non mi serve nessuno. Io posso agire a mio piacimento senza che nessuno possa tradirmi, abbandonarmi o rivoltarsi contro di me. Questi frammenti- Sollevò piano una mano dalle dita secche e adunche, mostrandole il grosso pezzo di vetro scuro -sono tutto ciò di cui ho bisogno. E attraverso essi, posso controllare qualsiasi cosa. Cadaveri, uomini, piante, animali o pietre, non è importante. Avrò sempre il coltello dalla parte del manico.-
    Senza distogliere lo sguardo, allungò una mano verso il fuoco, che intanto andava lentamente avvicinandosi, divorando l’erba secca: -Aver distrutto questi cadaveri, non è una vittoria. Ne troverò altri. Non mi avete scalfito. Imprimitelo bene nella testa, Stella dei Valar: non puoi battermi.-
    Una sola lacrima d’impotenza solcò la guancia della giovane, che cadde in ginocchio.
    Pallando, o meglio, l’immagine di Pallando, troneggiò su di lei, l’espressione tranquilla: -Ora che i frammenti sono di nuovo in mano mia, non ho altro da fare qui. Tenetevi pure questi simpatici cadaveri, non li avrei comunque ricondotti da me. Come ho detto, non sono importanti.-
    Si chinò, portando una mano fumosa sotto il mento della stella.
    Le sue dita fredde, nonostante la loro inquietante consistenza, sembravano più che mai reali mentre sollevavano il suo bel viso per incontrare nuovamente i suoi occhi color ametista: -Hai fallito e tutti i tuoi compagni lo verranno a sapere. Con quanta vergogna tornerai da loro per chiedere scusa? Chi ti seguirà, dopo aver causato tutte queste morti?-
    I tratti della stella si accartocciarono sotto il peso di quelle parole, dure ma terribilmente vere.
    -Mi ritengo un uomo misericordioso, Sillen. Perciò te lo chiederò un’ultima volta: unisciti a me e aiutami. Io non ti abbandonerò. Vieni via con me e aiutami.-
    Sillen tremò violentemente, stringendo le labbra tanto da farle sbiancare. Poi le schiuse in un sospiro sfinito, sconfitto: -A fare cosa? Che cosa vuoi Pallando?- Sussurrò.
    Gli occhi dello stregone si strinsero appena, come se quelle parole lo avessero sorpreso.
    Invece, parlò con voce ferma: -Uccidere tutto.-
    Lei non capì: -Tutti?- Lo vide scuotere la testa pazientemente e sorridere. -No mia cara. Tutto. Deve morire tutto.-
    Sillen alzò una mano tremante e la posò lentamente sulla spalla dello stregone, concentrata. Lui non si scostò, in attesa della prossima mossa della stella.
    Quello che avrebbe fatto da quel momento in avanti, avrebbe segnato le sorti della Terra di Mezzo.
    Tornare indietro dai suoi compagni comportava confessare il suo fallimento, assumersi il peso di tutti i loro morti… guardare in faccia i suoi amici per essere infine giudicata. Sillen chiuse gli occhi, respirando a fondo: non era quello che voleva. Lei era la Stella dei Valar e non voleva che qualcuno osasse giudicarla, non dopo che tutta la sua breve esistenza era stata messa al loro servizio, senza possibilità di sottrarsi al suo triste destino.
    Aprì gli occhi, furiosa, decisa a far valere la propria volontà almeno per una volta.
    Con un movimento secco e fluido, conficcò la spada destra di Galion nel ventre di Pallando.
    Sapeva che non poteva ferirlo davvero ma sperò con tutta se stessa di avergli spiegato il suo punto di vista nel modo più esaustivo possibile.
    Lei non voleva essere giudicata ma non per questo poteva privare i suoi compagni del diritto di farlo. La loro rabbia, la loro delusione, erano legittime. Si sarebbe fatta valere con loro e per loro, non avrebbe gettato la spugna proprio quando era tempo di dimostrare di essere in grado di sopportare le sue colpe e rimediare ai suoi fallimenti.
    Pallando, deformando il proprio viso in un’espressione tra la delusione e il disappunto, guardò la lama elfica trapassare il suo corpo astrale.
    Sillen lo fulminò con lo sguardo, sibilando: -Antolle ulua sulrim, Nadorhuan! Amin feuya ten’ lle! (Sai solo dar aria alla bocca, vile cane! Mi disgusti!)-
    Lui si allontanò bruscamente, irritato.
    Finalmente, pensò Sillen, era riuscita ad incrinare quella maschera di presunzione e sarcasmo che lo stregone amava tanto esibire.
    Pallando lanciò via la spada elfica e osservò Sillen a lungo, soppesando la situazione. La stella, caparbiamente, riprese nel proprio pugno la spada lucente e si rialzò in piedi, premendo forte sulla ferita al fianco.
    Stettero a scrutarsi, immobili, fino a che, con un sonoro sospiro, lo stregone si passò una mano sul viso: -Non mi lasci altra scelta, Stella dei Valar. Faremo come vuoi tu.- E prese ad osservare il cielo, come in attesa.
    Non capendo, Sillen seguì il suo sguardo, aguzzando la vista.
    Qualcosa si avvicinava a grande velocità, riusciva a percepirne i contorni nel fumo nero.
    Era un’aquila? Sì, senza dubbio, era un figlio di Landroval.
    Allora perché non si fermava ai richiami dei suoi compagni? Pallando rise forte, iniziando a svanire, come fosse fatto dello stesso fumo che si levava dall’incendio: -Arrivederci, Stella dei Valar! E goditi lo spettacolo. Questa volta, concedimelo, mi sono davvero superato…-
    Sillen, attonita, seguì la traiettoria dell’aquila, che guadagnava sempre più velocità e, improvvisamente, capì: il Maia si stava dirigendo su Minas Tirith.
    Le parole di Pallando, ormai scomparso, le risuonarono nella mente, cupe: -Questi frammenti sono tutto ciò di cui ho bisogno. E attraverso essi, posso controllare qualsiasi cosa.- Sussurrò lei, ricordando. Cominciò a correre, nonostante sapesse di non avere abbastanza tempo, di non essere abbastanza veloce.
    -Allontanatevi! L’aquila! L’aquila è morta!- Gridava, ma i soldati erano lontani, nessuno poteva sentirla.
    Con orrore, vide il corpo senza vita del possente Maiar sfrecciare sopra di lei, diretto verso la città. Gli alleati nemmeno alzarono lo sguardo al suo passaggio, ignari di ogni cosa.
    Le aquile invece gridarono, sconcertate, riconoscendo infine il loro compagno caduto.
    Un attimo dopo, nella valle riecheggiò uno schianto secco e tra le fila alleate scese un silenzio sconvolto, inorridito.
    Sillen sentì la testa vorticare quando udì il corpo del Maiar collidere con l’alta Torre di Ecthelion e cadde carponi a terra, senza nemmeno rendersi conto di quanto sangue stesse perdendo.
    I suoi occhi erano incollati sulla Torre: era una scena già vista, qualcosa di fin troppo familiare.
    Vide il corpo senza vita del Maiar scivolare lungo il muro bianco della sottile Torre, un muro che adesso era crepato, rotto.
    Per un secondo, ci fu solo silenzio.
    L’intera valle smise di respirare, in attesa.
    Poi, un rumore sordo, violento scaturì da dentro la torre e Sillen gridò. La Torre di Ecthelion, incrinata e instabile, cominciò a cedere, una pietra dopo l’altra. In pochi secondi, la parte più alta e sottile di questa crollò rovinosamente in basso, falciando con una pioggia di blocchi di pietra candida le mura esterne.
    E, con esse, i soldati di Minas Tirith e le loro catapulte che, fino ad un attimo prima, parevano aver deciso la schiacciante vittoria degli alleati.
    Era proprio come nella sua visione: tutto bruciava e la torre bianca crollava. Non aveva impedito che ciò accadesse, non aveva salvato nessuno, non era stata in grado di fare niente.
    Tutti i morti di quel giorno erano colpa sua, il crollo della Torre era colpa sua, la vittoria di Pallando era colpa sua.
    Singhiozzò senza ritegno mentre guardava la città bianca, impotente. -Elessar…- Sussurrò, tremando di terrore all’idea che potesse essere rimasto coinvolto nel crollo.
    La Gemma di Eärendil, appuntata alla sua camicia, le pungeva il petto e ricordò le commosse parole di Glorfindel come una stilettata al cuore: “Elessar deve avertela ceduta in custodia, nel caso dovesse accadergli qualcosa durante la battaglia.”
    No. Si tirò su a fatica, spinta solo dalla paura e dalla preoccupazione: -Vi prego Valar. Non questo, non questo!-
    Ripeté, trascinandosi lungo il crinale per aggirare le fiamme.
    Raggiunse le retrovie dell’esercito dei Rohirrim, muovendosi scompostamente: -Un cavallo… datemi un cavallo.- Rantolò, cercando di attirare l’attenzione degli uomini, caduti nella più totale confusione.
    -Sillen!- La stella non si voltò, perché non udiva la voce che la chiamava insistentemente. -Sillen, sei ferita, fermati!-
    Ignorò la mano che la trattenne per un braccio e se la scrollò di dosso, talmente confusa da non capire niente: -Elessar… Elessar era là…- Ringhiò, le lacrime che non accennavano a fermarsi.
    Tra il vorticare dei manti bruni dei cavalli, dei mantelli verdi dei soldati, delle bende bianche dei feriti, i suoi occhi furono catturati dall’oro intenso e sfavillante di un’armatura. Glorfindel le aveva sbarrato la strada, tenendola per le spalle.
    -Fermati! Sono certo che stanno già soccorrendo i feriti. E comunque non è detto che il Re degli Uomini sia tra loro, sai?- La rassicurò lui, con voce calma, senza capire che la stella lo fissava senza vederlo davvero. Anzi, si guardava attorno, senza capire da dove fosse spuntato l’elfo. -Adesso devi stenderti Sillen, perdi davvero troppo sangue.-
    Quando si sentì spinta a sedere, lei singhiozzò e spinse via il Vanyar, piantando gli occhi viola su di lui, sconvolta: -Non voglio! Aiutami a raggiungere Elessar!- Urlò, in preda al panico.
    L’elfo, nonostante il sollievo che aveva provato nel ritrovarla, sentì una stretta meschina arpionargli il cuore.
    La guardò con apprensione: il suo volto era sporco di sangue, terra e cenere, i suoi capelli scomposti e incollati al collo ferito.
    Era in uno stato orribile, febbricitante.
    Lui si scostò i capelli dorati dalla fronte, valutando il da farsi:
-Va bene, va bene. Vieni con me: prima troviamo Elessar, prima potrai essere medicata.- Cercò la sua mano per guidarla nella ressa ma la stella era debole e quasi non riusciva a camminare sulle proprie gambe.
    Con un sospiro, l’elfo dorato la sollevò da terra, senza tanti complimenti. La issò su un giovane cavallo roano rimasto senza cavaliere e salì a sua volta, spronandolo verso la città.
    Mentre si avvicinavano, Glorfindel premette una mano sulla ferita della stella, sul fianco sinistro, cercando di curarla con il proprio potere. In pochi secondi sentì il suo respiro tornare regolare e la sua pelle riacquistare colore ma, prima che potesse fermare l’emorragia, Sillen gli spinse via la mano pallida: -No, non voglio.- Lui espirò, sorpreso: -La ferita è grave, lasciami fare il possibile per-
    Lei scosse con forza la testa, le lacrime che scendevano copiose, nascoste dalla cortina di capelli neri: -Non voglio!-
    Glorfindel era senza parole. Cosa le era successo?
    Perché non voleva il suo aiuto?
    Ai piedi delle mura, intanto, Uomini e Nani erano precipitati nel caos più totale. Tutto intorno a loro si udivano urla di dolore, richieste di aiuto, pietre che venivano spostate e altre che continuavano a franare, ancora instabili.
    -Sillen!- Faramir li intercettò, tossendo a causa del fumo e della polvere. La stella scivolò giù dall’animale, di nuovo capace di reggersi in piedi con un discreto successo. Glorfindel la vide raddrizzarsi, soffocando ogni traccia di dolore.
    -Faramir, dov’è Elessar?- Lui la prese per le spalle e lei lesse nei suoi occhi la sua stessa paura: -Che cosa è successo? Perché quell’aquila ha causato il crollo? Non abbiamo battuto il nemico?- La investì, con voce carica di ansia.
    Sillen scosse la testa, cercando di non mostrarsi debole ma Glorfindel vide le sue spalle tremare violentemente: -Ascoltami, Faramir. Adesso dobbiamo trovare il Re. Troviamo Elessar.-
    L’altro annuì, ricomponendosi quanto possibile: -S-sì, Aragorn. Era sulle mura, proprio sopra le porte della città, i soldati della retroguardia lo stanno cercando.-
    Sillen respirò a fondo, analizzando la situazione con più lucidità possibile: all’altezza delle porte in mithril, le mura non avevano ceduto, tuttavia erano state colpite comunque in modo massiccio. Dovevano cominciare a cercare dall’alto.
    Glorfindel e Faramir la seguirono, interrogando i soldati della retroguardia e quelli che si aggiravano tra i feriti, ma di Elessar non vi era traccia.
    -Vado a cercarlo sulle mura.- Dichiarò lei, il viso rivolto verso l’alto. Glorfindel lanciò uno sguardo ai blocchi di pietra pericolanti che coprivano i camminamenti delle mura, a svariati piedi da terra: non era una buona idea lasciarla andare fin lassù, ancora sanguinante, ma sapeva che non sarebbe comunque riuscito a fermarla.
    -Stai dove posso vederti.- La ammonì, aiutandola ad arrampicarsi sulle rocce cadute. Lei annuì, affaccendandosi contro il muro: era pieno di crepe profonde, poteva scalarlo senza troppi problemi.
    Raggiunse il camminamento, il fiato corto e si voltò a cercare gli occhi dorati di Glorfindel, più in basso.
    Lo sguardo di lui si fece eloquente, senza ammissione di replica: “sta’ attenta, non fare nulla di pericoloso o insensato”.
    Non che lei avesse intenzione di dargli ascolto.
    Faceva caldo, troppo caldo e i colori del tramonto avevano lasciato spazio al blu intenso del cielo notturno, offuscato dal fumo e dalla luce prepotente del fuoco, che ancora ardeva nei Campi del Pelennor, senza controllo. Non si vedevano nemmeno le stelle più luminose.
    Sillen si riscosse quando un soldato la scontrò e la superò velocemente, reggendo una torcia accesa. Lei lo seguì d’istinto, arrancando verso sinistra.
    Un gruppo di soldati stava accalcato attorno ad un ammasso di blocchi di pietra bianca e la stella si fece largo tra loro: -Sto cercando il Re. Qualcuno l’ha visto?- Li apostrofò, cercando i loro sguardi. Questi tenevano gli occhi puntati sulle pietre cadute dalla Torre e un giovane dal viso sporco di sangue le indicò, lentamente: -Lui era lì. Proprio lì.- Sussurrò.
    Sillen fissò a sua volta i blocchi bianchi, sentendo il calore abbandonarle le membra.
    Nonostante il fuoco rendesse l’aria della valle bollente, sentì improvvisamente freddo.
    Si avvicinò alle pietre franate, il volto serio e concentrato. D’impulso, afferrò un blocco con entrambe le mani e cominciò a tirare. Era pesantissimo, troppo pesante ma non si sarebbe fermata. Il sangue sgorgò dalle sue ferite, colando e gocciolando ai suoi piedi in una pozza scura e brillante e i soldati intorno a lei lanciarono grida inorridite: -Mia signora fermati! Serviranno almeno due cavalli per spostarlo! Ti ucciderai così!-
    Lei li ignorò, continuando a tirare, sempre più forte, tendendo tutti i suoi muscoli allo spasimo.
    Perdendo sempre più sangue.
Incredibilmente, il blocco prese a spostarsi.
    -Impossibile…- Sussurrò il giovane soldato, fissandola sconcertato e quasi spaventato da tanta potenza. Sillen gemette per lo sforzo e gli altri soldati spintonarono il compagno rimasto pietrificato, imprecando: -Aiutiamola! Forza!- Molte mani si aggiunsero a quelle della stella e il blocco prese a muoversi, finalmente.
    Sillen nemmeno aspettò che questo fosse messo in sicurezza e si precipitò a cercare sotto le macerie. Scostò con le mani la calce e la polvere, lanciando via pietre e assi di legno, finché le sue dita non incontrarono una consistenza diversa. Si mosse alla cieca, febbrilmente, riconoscendo però la forma di una mano.
    Si alzò di colpo, strappando la torcia dalla mano rigida del giovane soldato, e tornò tra la polvere, illuminando ciò che si trovava davanti a lei. E il suo cuore si fermò bruscamente.
    -Elessar!- Gridò, inginocchiandosi al suo fianco. Cosparso di detriti e sangue, il Re degli Uomini giaceva supino a terra, gli occhi chiusi. Immobile.
    Sillen gli tastò il corpo, levandogli velocemente l’armatura.
    -Elessar, apri gli occhi, ti prego!- Lo scrollò, in preda al panico.
    Ma lui rimaneva immobile, il viso disteso.
    La stella accostò l’orecchio alla sua bocca: respirava, seppur troppo debolmente. Doveva aver sbattuto la testa, il sangue gocciolava dalla nuca e dalla tempia destra e la posizione del suo braccio sinistro era del tutto innaturale.
    Stava morendo.
    Lei si voltò verso i soldati, rimasti a guardarla con il terrore negli occhi: -è ancora vivo ma servono dei curatori, subito!- Ordinò e questi scattarono come molle, lasciandosi andare a esclamazioni speranzose.
    Poi, Sillen tolse a sua volta l’armatura e posò le due spade gemelle di Galion a terra.
    Per quello che stava per fare, doveva essere il più libera e leggera possibile, priva di ogni peso o distrazione.
    Posò le mani sul corpo del Re, respirando a fondo e i suoi occhi di stella brillarono intensamente, luminosi come il sole.
    Le lacrime che sgorgavano da questi parevano gocce di pura luce stellare e le bruciavano le guance.
    Sapeva che i guaritori non sarebbero arrivati abbastanza in fretta, doveva sbrigarsela da sola.
    Lo avrebbe salvato, a qualsiasi costo.
    -Hai capito? Io ti salverò. Ti renderò la Gemma di Eärendil, rivedrai Miniel e la Regina e regnerai per tanti anni ancora, mi hai sentito!?- Singhiozzò, cominciando a trasferire il proprio potere in lui. La collana viola ciondolava sul suo petto, vuota, senza luce ma a Sillen non importava.
    Che la prosciugassero pure della sua energia vitale, Elessar sarebbe sopravvissuto.
    Non fece caso al tremito delle sue mani e continuò l’operazione, imperterrita. Quando sentì le forze abbandonarla e la vista oscurarsi, si tirò un violento schiaffo sul viso.
    -No, no! Non osare!- Urlò, fuori di sé. -Salvalo!- Parlò come se il suo potere avesse coscienza di sé e potesse sentirla: -Non m’interessa di quello stupido destino! Io non ti voglio e mai più ti vorrò, uccidimi pure ma salvalo! Se non lo salvi sarò io ad ucciderti, lo giuro!-
    Continuò anche quando il suo sangue finì per tingere le macerie e la polvere attorno a lei, prosciugandola goccia dopo goccia.
    D’un tratto, Elessar spalancò gli occhi, espirando forte. Lei lo vide sbattere le palpebre e contrarre i muscoli del viso, gemendo dal dolore. Incontrò il suo sguardo limpido, grigio come il mare d’inverno e, per un secondo, scorse in lui la sua stessa luce bianca: -Elessar…- Sussurrò.
    Aveva funzionato, era vivo.
    Era al sicuro.
    Lui sgranò gli occhi, notando lo stato critico in cui la stella versava e si fece forza per tirarsi a sedere. Sillen sorrise, tremando per il sollievo e sentì il mondo vorticarle attorno:
-Scusami, Elessar... è colpa mia, tutta colpa mia...- Gemette. Con un ultimo gesto stanco, la stella chiuse la propria mano su quella del Re, rendendogli la sua preziosa spilla.
    -è stata solo colpa mia…-
    -Sillen!-
    Lei non sentì più nient’altro e crollò su di lui, completamente svuotata.




   



N.d.A

Ebbene sì, sono passati tipo due mesi dall’ultimo aggiornamento. Purtroppo è andata così, mi dispiace davvero! T-T” Non ha senso tediarvi con il perché e il percome non sono più andata avanti per così tanto tempo ma voglio dirvi che adesso va tutto bene e che ho ripreso con grande entusiasmo. Spero possiate perdonarmi per aver lasciato i puntini di sospensione così a caso, senza nemmeno una spiegazione e vi ringrazio già solo per aver aperto il nuovo capitolo, invece che spedirmi direttamente a quel paese (reazione comprensibile: sì Chiara, lo so che volevi insultarmi ma sei troppo un tesssoro XD) :’)
Detto questo, grazie di cuore a tutti coloro che hanno letto, seguito, recensito e aggiunto alle proprie liste questa fanfic e grazie a chi avrà voglia di ri-intraprendere questo percorso insieme a me! <3

Con affetto
e con tanta voglia di andare avanti

Mille baci

Aleera



 

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Capitolo 25
*** Fratelli ***


 
-Fratelli-



    Alatar non riusciva ad aprire gli occhi, eppure sentiva chiaramente tutto ciò che accadeva intorno a lui: lo scricchiolare di rami spezzati, calpestati da molti piedi; il grido di un falco, lontano e familiare; il cozzare metallico del ferro pieno e spesso.
    Allo stesso modo, si accorse immediatamente che qualcosa lo stava trasportando, quasi cullando, con un ritmo cadenzato.
    Sentiva male dappertutto, ogni scrollone era una stilettata nelle ossa: un uomo della sua età andrebbe trattato con più riguardo, pensò. Inoltre, un forte odore di erbe curative gli penetrava nelle narici, dandogli il voltastomaco. Comunque, nemmeno quell’odore pungente era sufficientemente forte da coprire quello più prepotente della carne in putrefazione: era con i non morti, questo era chiaro.
    Provò a schiudere le labbra ma non riuscì ad emettere nemmeno un suono. Le sue braccia e le sue gambe, strettamente legate da corde ruvide, non rispondevano ai suoi comandi.
    Come se non bastasse, era stato avvelenato: riusciva a sentire il sapore del veleno sulla lingua, insolitamente sconosciuto anche a un esperto stregone come lui.
    Ricordò i suoi ultimi secondi di coscienza, rivivendo il suo incontro con Lhospen. Già, Lhospen…
    Ora, non era solo il corpo a dolergli oltre il sopportabile.
    Solo che di Lhospen non vi era traccia, al momento. Forse, l’elfo oscuro lo aveva consegnato a una retroguardia, diretta verso Mordor. Imprecò mentalmente, senza riuscire a trovare una possibile via di fuga da quella terrificante possibilità: Mordor era l’ultimo posto che avrebbe voluto rivedere in vita sua.
    Lo stregone rimase in quello stato d’immobilità per parecchio tempo, cercando di tenersi sveglio, concentrato sui suoni e sugli odori attorno a lui.
    Nonostante il suo impegno però, ben presto la sua mente cominciò a scivolare via, tra il dormiveglia e il sonno profondo, scombussolando i suoi pensieri.
    Per un attimo credette persino di riuscire ad aprire gli occhi ma ciò che vide intorno a sé lo spaventò a morte: una cella nera, sbarre di ferro e una mano scheletrica a stringere la sua.
    Fu in quel momento che Alatar capì innegabilmente di aver perso il controllo: quello che vedeva non era reale.
    O almeno, era reale, ma di certo non stava accadendo in quel momento. Erano ricordi.
    La sua mente agitata lo stava intrappolando nell’incoscienza, i ricordi si mischiavano ai sogni e molte visioni di tempi passati ma ancora terribilmente presenti, vivide più che mai, presto lo inghiottirono completamente.
    E per la prima volta dopo decenni, Alatar ricordò.

Mordor; Novembre, anno 3016 T.E.[1]

    Puzza di zolfo, di marcio, di escrementi, di cenere, di legna bruciata e di fumi velenosi. Intorno ad Alatar era tutto nero e caldo, troppo caldo.
    Il clangore delle fucine gli torturava i timpani e l’aria bollente gli ustionava la pelle secca e disidratata. Ed era buio, un buio fuligginoso, tanto che Alatar temeva di aver perso l’abilità di vedere i colori. Non riusciva nemmeno a ricordare quali fossero le tonalità del cielo e dell’erba fresca. Faceva fatica persino a tenere gli occhi aperti, fissi nell’oscurità densa della cella.


    Alatar voleva urlare, svegliarsi. Combatteva per riprendere conoscenza ma persino il suo spirito non aveva più forze. Urlò dentro di sé, terrorizzato: lui non voleva ricordare ma qualcuno lo stava deliberatamente costringendo.

    Rannicchiato sulla pietra nera delle segrete di Barad-dûr, lo stregone poteva solo continuare a respirare, niente di più.
    Sentiva il suono del suo respiro sovrapporsi a quello affaticato di suo fratello, poco distante da lui: a volte riusciva a concentrarsi su quel suono, ignorando tutto il resto e allontanandosi da quella terribile realtà. Provava a estraniarsi, a immergersi nei ricordi dei loro lunghi viaggi, delle loro avventure, dei loro amici tra gli Esterling e gli Haradrim, lontani da quei luoghi maledetti.


    -Pallando, fratello mio, non voglio ricordare! Svegliami ti prego!- Ma le visioni erano troppo chiare e la mente dello stregone coglieva sempre più dettagli, impedendogli di distrarsi.
    Come uno spettatore sospeso nel vuoto e nel buio, Alatar assisteva impotente allo svolgersi della sua storia passata e, questa volta, senza la possibilità di fuggire.

    Poi le urla ricominciavano, come ogni volta.
Alatar si tappò le orecchie, muovendosi a fatica, cercando di richiudersi su sé stesso. Torturavano i prigionieri in continuazione. Sentire tutte quelle urla, quelle richieste di soccorso, giorno dopo giorno per anni, lo stava logorando dentro.
    Avvertì distrattamente le mani scheletriche di Pallando premere sulle sue, a cercare di isolare quel terribile suono.
    Caro Pallando, il suo amato fratello maggiore, la sua luce in quel luogo di sofferenza e morte.
    Se Alatar era più forte fisicamente, Pallando era un’ancora per lo spirito: determinato, gentile e altruista come nessun altro. E come Alatar era impulsività, vigore e destrezza, Pallando era saggezza, compassione e temperanza. I due fratelli erano nati per completarsi a vicenda e solo il fatto che fossero insieme li aveva tenuti in vita in quegli anni di prigionia.
    Dopo un tempo allo stesso modo infinito e breve, le urla cessarono, lasciando nuovamente spazio allo stridio del ferro e ai versi orrendi dei moruruk.
    Alatar cercò tentoni il volto di suo fratello, posando la fronte sulla sua. Sapevano entrambi che, prima o dopo, gli orchi sarebbero tornati a torturare anche loro, era solo questione di tempo: quelle urla atroci sarebbero state le loro, prima ancora che le vecchie ferite fossero guarite del tutto.
    Pallando tremò ma si fece forza per entrambi, drizzando la schiena ossuta. Prese le grandi mani di Alatar tra le sue, fissandolo nella penombra: -G-guarda fratello mio, ho aggiunto un nuovo pezzo al disegno.-
    Alatar a malapena posò lo sguardo sui fogli macilenti sparsi sul pavimento: erano giorni che suo fratello si prodigava a disegnare con quel piccolo carboncino, nonostante gli occhi gli dolessero per l’assenza di luce.
    Alatar era abituato. Decenni prima, Pallando aveva disegnato persino loro, in quella cella.
    Come se avessero potuto evitarlo.
    -Non so ancora cosa verrà fuori.- Continuò il fratello più anziano, tossicchiando per schiarire la voce ormai arrochita: -Però credo di riconoscere una forma umana… Pensi che siano davvero i Valar a mandarmi queste visioni?[2]- Sussurrò, tentando di distogliere l’attenzione del fratello dal ricordo delle urla dei prigionieri.
    L’altro quasi rise: -I Valar? Se proprio vogliono fare qualcosa di utile, che ci mostrino come uscire da questo inferno, vecchio mio.-
Pallando sospirò, lanciandogli un’occhiata di rimprovero: -Sai che non funzionano così. Il futuro che prevedo è sempre lontano. Lontano decenni.-
    Alatar annuì, chiudendo gli occhi e sfregandosi una mano sulla folta barba brizzolata, incolta come i suoi lunghi capelli: -Già. Allora sarà qualcosa che ci riguarderà tra molto tempo, non me ne preoccuperei.- Pallando sorrise, lievemente, ma non rispose e di nuovo il silenzio invase la cella.
    Alatar si massaggiò le tempie, notando all’istante lo sguardo distante e terribilmente preoccupato del fratello. -Dai, fammi vedere quei disegni.- Lo accontentò, con un sospiro.
    D’un tratto, un vociare rozzo e gracchiante li raggiunse, accompagnato da uno sferragliare metallico fin troppo familiare.
    Due individui stavano salendo le scale, avvicinandosi sempre di più alla cella, discutendo nell’oscura lingua morgul: la ronda degli orchi. La luce della loro torcia illuminò la cella, permettendo ad Alatar di scorgere chiaramente le mani nodose di Pallando stringere convulsamente la sua logora tunica blu.
    I due orchi adesso erano abbastanza vicini da consentire ad Alatar di discernere alcuni vocaboli del loro concitato discorso.
    -…e Grishnákh ha scoperto proprio ieri il nome della feccia che possiede l’Unico! Da non credere, dopo tutti questi anni…- Udite quelle parole, Alatar smise per un secondo di respirare e sentì suo fratello irrigidirsi al suo fianco.
    Se l’Unico Anello fosse stato davvero ritrovato, le loro azioni di rivolta contro Sauron, nell’Est e giù nel Sud, sarebbero state completamente vane: le popolazioni che erano riusciti ad allontanare dall’influenza dell’Oscuro Signore sarebbero state nuovamente assoggettate e loro non avrebbero più potuto fare nulla per impedirlo.
    L’orco continuò, ghignando con voce stridula: -Hanno torturato quel piccolo verme strisciante delle montagne per mesi e mesi ma alla fine ha confessato!
[3] Dice che l’Unico è stato rubato da un tale della Contea. Dove sia questo maledetto posto, io proprio non lo so, non ne ho mai sentito parlare.-
    -Voglio sapere il nome! Che nome ha detto, eh!?-
    -Tsk! Biggins, o Baggin, ha detto. Che vuoi che ne sappia io!?-
    -E manderanno noi a cercarlo? Potremmo finalmente gustare della carne umana, eh Drolg?!-
    -Non sbavarmi addosso, idiota! E poi dicono sia un mezz’uomo, non proprio un umano. Beh, non male, non ho mai assaggiato un mezz’uomo.-
    -Non ci spero nemmeno! Di sicuro partiranno i più veloci fra noi. Noi non partiremo mai, vero Drolg?!-
    -Toglimi quelle luride manacce dal braccio, maledetto! L’Occhio comanderà ai Nove di recuperare l’Unico, non è ovvio?!-


    Mentre ricordava, Alatar si sentiva sempre più afflitto.
    A quel tempo non poteva saperlo ma persino lui e suo fratello, udendo quella stramba conversazione, erano stati inconsapevolmente proiettati dentro la storia del Signore di tutti gli Anelli.
    Anche se, con il senno di poi, Alatar ammise a sé stesso che non erano stati utili proprio a niente: stregoni senza un posto o un ruolo nell’epico destino della Terra di Mezzo, soli nel Regno del nemico, impotenti.
    Non c’era da stupirsi se, in tutto questo tempo, nessuno li aveva ricordati. Nessuno li aveva cercati.
    Nessuno li aveva pianti.

    I due orchi si fermarono davanti alla cella e Alatar coprì in propri occhi per non essere accecato dal fuoco della torcia.
    Scorse appena le tre figure scure: una era sottile e alta, curva su sé stessa e tenuta in disparte; le altre due erano più basse e tozze e appartenevano ai due orchi che avevano parlato. Alatar notò che stavano trascinando qualcosa dietro di loro.
    L’orco più grosso indicò i due stregoni all’orco dalla voce stridula, quasi sorpreso: -Ah! Mi ero dimenticato di questi due. Forse Grishnákh ci darà il permesso di mangiarli, c’è sempre meno spazio per i prigionieri, eh Drolg?!-
    L’altro, più piccolo ma decisamente più sveglio, lo colpì sulla spalla, spingendolo di lato: -Stai zitto, idiota! Non possiamo ucciderli, ci servono per gli esperimenti dell’Occhio!- E si rivolse ai due stregoni, ghignando: -Li tortureremo, sì. Li faremo soffrire. Come abbiamo torturato questo elfo bastardo, poco fa!- E risero sguaiatamente, spalancando la porta della cella. -Immerso nell’acido, immerso nel veleno!-
    Infatti, ciò che stavano trascinando dietro di loro non era altro che un elfo. O meglio, quello che restava di lui.
    I due orchi lo avevano trasportato in quel modo, tirandolo per un braccio sottile come un sacco vuoto, salendo gradini e attraversando lunghi corridoi di roccia appuntita e rovente.
    A quella vista, Alatar sentì lo stomaco vuoto rivoltarsi e cadde carponi, scosso da violenti spasmi e sterili conati. Questo provocò ulteriormente le risate dei due orchi, che lanciarono il corpo esamine dell’elfo dentro la cella. Era un corpo talmente martoriato e ustionato da essere irriconoscibile, gli stregoni nemmeno intuirono dove si trovasse la testa. Le vesti corrose si erano fuse alla pelle ustionata, sprigionando sinistri vapori maleodoranti. 
    Gli orchi spinsero dentro anche la seconda figura sottile, sbattendo la porta della cella alle sue spalle: -Buon soggiorno, feccia!- Risero e si allontanarono, parlottando e sghignazzando tra loro.


    Alatar sentì il proprio corpo tremare persino nella realtà, nonostante l’effetto del veleno: -NO! Voglio svegliarmi! Non voglio vederli! Li avevo dimenticati, lo giuro!-

    La figura ancora in piedi attese che la luce della torcia fosse scomparsa in fondo ai corridoi, nel silenzio più assoluto.
    I due stregoni la fissarono, senza sapere cosa dire o cosa fare, quasi spaventati da quella rigidità innaturale.
    Poi, la figura si scostò il cappuccio lercio dal capo, tendendo le mani dai polsi piagati da numerose catene. Si chinò sull’elfo a terra, senza azzardarsi a toccarlo, per paura che si sbriciolasse tra le sue mani come un cumulo di cenere: -Saedor? Saedor?!-
    Anche la figura sottile, dunque, si rivelò essere un elfo, dai lunghi capelli scuri e dalla pelle pallidissima.
    Pallando, con le lacrime agli occhi, strisciò sulle ginocchia fino a raggiungere Alatar, cercando di tirarlo vicino a sé: -Fratello, stai bene?- Sussurrò, sfregando le mani sulla sua schiena ampia per confortarlo.
    Alatar respirò a fondo, incapace di tirarsi nuovamente a sedere ma si pulì il viso come meglio poté.
    Era stanco, tanto stanco. Voleva solo dormire.
    -V-voi chi siete?- Domandò l’elfo pallido, scorgendo le loro ombre muoversi nella penombra della cella.
    Pallando sentì una stretta al petto nell’udire la sua voce flebile e tesa e cercò di non fare movimenti bruschi, abbandonando il fianco di Alatar per avvicinarsi agli elfi: -Noi siamo gli Stregoni Blu. Pallando è il mio nome e lui è Alatar.-
    L’elfo scrutò nell’oscurità, gli occhi spalancati: -I-io sono Lhospen e questo è mio fratello, Saedor.-
    Con uno slancio della mano bianca, cercò Pallando nel buio, afferrandogli la veste: -Ti prego, aiutalo!-


    Era andata così? Ah. Sì, giusto: si erano conosciuti proprio così.
    Due stregoni e due elfi lasciati in balìa degli eventi, prigionieri a lungo torturati nel corpo e nell’animo.
    Avevano così tanto in comune.
    Le immagini si fecero più veloci, Alatar non distingueva più un momento dall’altro, tutti troppo uguali, troppo silenziosi e bui.
    Avevano passato molto tempo in quella cella malsana, insieme, come una cosa sola, questo lo sapeva bene.
    Le immagini dei suoi ricordi rallentarono, fino a soffermarsi su una nuova visione, nitida, che Alatar si arrese ad osservare.

    Alatar bagnò nuovamente la pezza, immergendola nello sporco rimasuglio della loro saltuaria dose di acqua. Sentì il fastidio tormentargli la nuca: l’acqua era sempre stata a malapena sufficiente per lui e suo fratello e ora dovevano condividerla con Lhospen e addirittura sprecarla per ripulire le piaghe dell’elfo avvelenato.
    Con gesti spazientiti allungò la pezza a Pallando, che si affrettò a tamponare con delicatezza estrema il viso dell’elfo a terra:
    -Incredibile! Le ustioni si stanno già cicatrizzando, Saedor. Presto anche il dolore diminuirà.- Lo sentì sussurrare.
    -Mio fratello è molto forte.- Gli fece eco Lhospen. Pallando sorrise, annuendo: -Lo siete entrambi, miei cari.-
    Fastidio. Alatar provava fastidio nel vedere suo fratello prodigarsi per quel moribondo. E odiava vedere la cieca adorazione che i due elfi provavano verso di lui. Verso di loro, in realtà. Anche se Alatar non aveva mai ricambiato un solo sguardo dei due stranieri.
    Inoltre, da parecchio tempo gli orchi parevano essersi dimenticati della loro presenza. Lasciavano quella ciotola d’acqua forse una volta al giorno, forse una volta alla settimana, i prigionieri non avrebbero saputo dirlo: avevano smarrito ogni cognizione di tempo e spazio. Tuttavia, non una volta i carcerieri si erano fermati a schernirli, minacciarli o anche solo guardarli.
    Questo aveva permesso a Pallando di riposare, di utilizzare la sua poca energia per curare le piaghe dell’elfo ferito e continuare i suoi frammentari disegni, diligentemente.
    Alatar non si dava pace, poiché sapeva che quella quiete non prometteva nulla di buono: presto l’Occhio li avrebbe reclamati per nuovi e singolari giochetti e se Pallando non avesse tenuto per sé le energie, non sarebbe sopravvissuto alle innumerevoli torture.
    -Alatar, aiutami a farlo sedere. Devo finire di bendarlo.- Sussurrò Pallando, tendendo una mano nella sua direzione.
    Alatar strisciò fino a loro, ingoiando il boccone amaro. Subito, Saedor puntò i grandi e magnifici occhi color ambra verso di lui, adorante: -Grazie, Alatar.-
    Lo stregone, come al solito, distolse immediatamente lo sguardo, serrando la mascella: -Non c’è problema.-


    Si vide così meschino, ricordando. Che immagine poco lusinghiera di Morinehtar, l’Assassino dell’Oscurità.
    Meschino e debole e non poteva scappare da quella passata ma reale versione di sé stesso.
    E nelle visioni i mesi scorrevano come un fiume d’immagini senza fino, fino a intrappolare un nuovo, atroce dettaglio.

    Lhospen, accanto alla porta della cella, si voltò improvvisamente verso i compagni: -Arriva qualcuno!- Sulle scale, infatti, presto si udì l’inconfondibile sferragliare delle armature dei moruruk.
    I quattro si rannicchiarono contro la parete più distante dalle sbarre, affannosamente.
    Un grosso orco si piantò di fronte a loro, armeggiando con la serratura: -Prendi uno stregone e un elfo, scegli chi vuoi.- Ringhiò, rivolto all’altro orco che era con lui. Questo entrò, puntando la torcia contro i prigionieri e studiandoli con fare critico.
    -Prendo l’elfo ferito e il vecchio.- Dichiarò poco dopo, gracchiando con voce nasale.
    Alatar sbarrò gli occhi, gettandosi in avanti a coprire il corpo di suo fratello con il proprio: -No! Prendi me! Io sono più forte, posso sopportare le torture, tante torture!- Urlò, disperato, cercando di alzarsi in piedi.
    L’orco lo spinse via, come scacciando un insetto: -Nessuno ha detto che deve sopravvivere, stregone bastardo!-
    Pallando strinse piano Saedor a sé, risoluto. -Alatar, spostati. Non cambieranno idea. E io non ti lascerei andare al mio posto, fratello.- Quella scena accese una rabbia sconosciuta dentro Alatar, che prese a strattonare Pallando verso di sé, lontano da Saedor: -Lascialo! Lascialo! Che se lo prendano!-
    Lhospen piangeva in un angolo, irritando ulteriormente Alatar.
Pallando fissò il compagno con gli occhi seri colmi di lacrime e parlò con un tono carico di disappunto: -Ripensa alle tue parole, fratello. E torna in te, non ti riconosco.-
    Così dicendo, fu trascinato fuori dalla cella senza che opponesse alcuna resistenza.


    Di nuovo, le immagini si mossero velocemente: altro tempo era passato nel silenzio della cella, nel buio, un tempo reso ancora più pesante dalla fastidiosa presenza di Lhospen.
    Questo era sempre più bisognoso di stabilire un qualsiasi contatto con Alatar… che diveniva invece sempre più insofferente e scostante.

    Lhospen appoggiò il capo sul suo grembo magro, stringendo la sua veste blu stracciata. Alatar posò istintivamente la mano ruvida sui capelli neri dell’elfo, chiudendo gli occhi.
    Stavano morendo di fame e di stenti e probabilmente anche i loro rispettivi fratelli erano andati incontro allo stesso destino: era tanto tempo che non avevano loro notizie.
    Lhospen tossì, i muscoli contratti e il corpo scosso da tremiti violenti. -Shh, shh…- Ripeteva Alatar, sfinito quanto lui.
    -Caro Alatar, vorrei donarti le mie ultime forze, per non farti soffrire.- Piagnucolò l’elfo, premendosi la mano fredda dello stregone sulla fronte e sugli occhi.
    L’altro non rispose ma a Lhospen questo non importava: Alatar non parlava quasi mai con lui.
    D’un tratto, l’Istar spalancò gli occhi: davanti a loro, nel buio torrido della cella, volteggiava una piccola farfalla variopinta, luminosa e sottile come carta velina. Lo stregone boccheggiò, confuso ma sentì la mano di Lhospen trattenerlo: -Q-questa è solo un’illusione. Ti piace, Alatar?- Respirava a fatica.
    -è opera tua?- Esclamò l’uomo, incredulo.
    -Mhm… Ero molto piccolo, quando ho scoperto di esserne capace. È a causa di questi poteri che siamo stati catturati… Per gli esperimenti…- A quelle parole, la farfalla luminosa prese ad accartocciarsi su sé stessa, scurendosi e tingendosi di un terribile rosso cremisi. Ora sembrava più un gigantesco insetto infernale.
    -Siamo contaminati… dalla malvagità di questo luogo.-
    Alatar deglutì, sentendo più che mai di non aver per nulla compreso la reale essenza di quell’elfo.
    -Anche Saedor sa farlo?- Chiese, cercando di dissimulare il proprio disagio. Lhospen scosse la testa, ancora posata sulle sue gambe, come un bambino con la propria madre: -Lui ha altre capacità… Lui proteggerà Pallando, non devi temere…-


    Quella frase… La voce di Lhospen aveva perseguitato Alatar negli anni a venire. Era stato cieco ed egoista e mai aveva chiesto ai due elfi di parlare della loro storia. Se solo avesse saputo…
    I ricordi scorrevano di nuovo veloci, poi lenti, infiniti, poi nuovamente veloci. Un altro ricordo di quel tempo oscuro irruppe prepotentemente nella mente dello stregone, stordendolo al pari di un colpo d’ascia.

    Pallando fu gettato dentro la cella. Dopo di lui, vi fu spinto dentro anche Saedor. L’orco di scorta richiuse la porta, lasciandoli nuovamente al buio.
    Alatar si avvicinò ai due compagni, finalmente ritornati da loro.
    -Fratello?- Sussurrò. Pallando aveva perso conoscenza ma respirava ancora. Il sollievo distese i lineamenti dello stregone, che si apprestò a valutare il suo stato. Le sue mani erano insanguinate, alcune dita spezzate e mancavano tutte e dieci le unghie. Alatar sentì le lacrime scivolare sulle sue guance ma continuò la sua ispezione sul corpo smagrito del fratello.
    Gli orchi gli avevano strappato alcuni denti e il torace era pieno di lividi ed ematomi. Non lo avevano ferito con armi da taglio, sapevano che in quel caso sarebbe morto dissanguato o per una qualche infezione e, checché ne dicessero, non era certo il loro obbiettivo.
    Nonostante il suo stato pietoso, Alatar sapeva che la parte di Pallando ad aver subito più lesioni fosse la sua mente: nemmeno osò chiedersi come sarebbe stato una volta sveglio.
    Lhospen, intanto, tirò su Saedor, stordito ma cosciente.
    -Pallando è stato portato dall’Occhio…- Tremò questo, parlando con una spaventosa voce metallica.
    Gli altri due lo fissarono con sgomento. Era la prima volta che uno di loro vedeva Sauron in… persona.
    Alatar scosse la mano, scacciando quello spettro dalle loro menti. -Ora pensiamo a farlo rinvenire.-
    Saedor era stato nuovamente avvelenato e Lhospen gli afferrò il viso coperto di cicatrici tra le mani, preoccupato: -Il tuo occhio, fratello…- Saedor sollevò a fatica le spalle, con un gesto di stanca noncuranza, e si schiarì la voce ormai alterata: -Questa volta hanno preferito agire dall’interno, senza infierire sulla mia pelle. Adesso c’è troppo veleno nel mio corpo…- Sbatté velocemente le ciglia, tentando di nascondere l’occhio destro, che iniziava a tingersi di nero: -Ma io sono sempre io fratello, non temere.-
    Lhospen trattenne le lacrime, sorridendo: -Lo so. Lo so, Saedor. Ora ti benderò di nuovo.- I due si rannicchiarono insieme, sollevati dal trovarsi nuovamente vicini.
    Alatar strinse i denti: -Dobbiamo andarcene da qui… Dobbiamo scappare.- Annunciò.
    I due lo guardarono, senza capire: -Scappare è impossibile. Come possiamo superare le guardie? Siamo nelle viscere di Barad-dûr e siamo feriti, stanchi e senza armi.-
    L’Istar scosse la testa con fermezza, percependo un folle piano profilarsi chiaramente nella sua mente.
    -Non senza armi.- Sussurrò.
    In quel momento Pallando tossì, sputo sangue e aprì gli occhi, interrompendo la discussione. Alatar corse ad aiutarlo, tirandolo a sedere. Il suo cuore perse un battito quando vide un grande sorriso dipingersi sul volto tumefatto del fratello.
    -Ho visto Lui… Ho visto L’Oscuro Signore…- Delirava, forse.
    Alatar, ancora tremante, lo prese per le spalle, scrollandolo con delicatezza: -Va tutto bene, ora sei con me!- Ma Pallando non era spaventato, era quasi… euforico. Alatar rabbrividì quando incontrò il suo sguardo allucinato. -Non capisci! Lui ha scoperto molte cose su di me ma non sa che ho fatto altrettanto con Lui! Non sa che cosa ho capito, che cosa ho imparato!-
    Alatar avvertì un rivolo di sudore freddo attraversargli la schiena. -C-cosa intendi, Pallando?-
    L’altro gli afferrò i polsi, stringendolo con le mani insanguinate e senza unghie, tirandolo più vicino a sé. Gli sussurrò all’orecchio: -La magia, Alatar. Magia potente! Mi serve solo tempo. Tempo per imparare! Farò scomparire il dolore, la paura, la sofferenza. Farò scomparire tutto, tutto!-
    Fu allora che Alatar reagì.
    Gli assestò un violento schiaffo sul viso.
    Lo schiocco secco riecheggiò nella cella e i due elfi lì accanto espirarono sconvolti, fissando Alatar e Pallando con apprensione.
    Quest’ultimo, rimasto con la testa voltata a causa della violenza del colpo, si raddrizzò lentamente, massaggiandosi la guancia: -Che male, fratello! Perché mai mi hai tirato un ceffone?- I suoi occhi chiari erano tornati limpidi e sinceri e Alatar sospirò, sollevato. Per un secondo, aveva temuto di averlo perso per sempre: -Scusami, Pallando. Ora stenditi, devi riposare.-

    Altro tempo era passato, da quel giorno. Più volte gli orchi tornarono a prendere Saedor, che veniva restituito ai compagni sempre più piagato, avvelenato, ustionato, irriconoscibile nel corpo e nella mente.
    Ogni volta, i tre compagni fasciavano il suo corpo distrutto; il suo occhio destro, sempre più nero, li fissava con crescente indifferenza, pregno del miasma malvagio di quel luogo.
    Allo stesso tempo, succedeva spesso che Pallando si rannicchiasse in un angolo, ripetendo litanie incomprensibili o scarabocchiando simboli sulla polvere. Non appena Alatar si avvicinava però, l’altro tornava in sé, allontanandosi dall’angolo come fosse rovente, guardandosi le mani come se ne fosse profondamente disgustato. Altre volte, egli piangeva, e chiedeva aiuto. Solo le grandi mani ruvide di Alatar erano in grado di rassicurarlo.
    Ogni tanto, un orco tornava a prendere anche lui e per quanto Alatar combattesse, urlasse o tirasse, riuscivano a portarlo via, rigettandolo poi nella cella dopo un tempo che sembrava infinito.
    E Pallando non voleva mai parlarne, divenendo sempre di più l’ombra di sé stesso.
    Alatar sapeva che lo portavano dall’Occhio e quella consapevolezza gli toglieva il sonno.
    Si rafforzava in lui l’idea di fuggire: Lhospen aveva il dono dell’Illusione! Potevano scappare, divenire invisibili.
    Dovevano solo trovare il modo di aprire quella maledetta porta al momento giusto.
    Intanto, lo stregone più giovane lasciava sempre una parte più abbondante di acqua e di cibo per Lhospen: abbastanza poco perché lui non lo notasse ma sufficiente a fargli riprendere colore e forza. Il momento di agire era vicino più che mai.


    Alatar sentì un forte scossone e tentò di svegliarsi.
    Non aveva ancora idea di dove effettivamente si trovasse o con chi viaggiasse, ma aveva un brutto presentimento.
    Era davvero stanco di quella situazione.
    Non avere il controllo sul proprio corpo lo irritava ma era più preoccupato per il modo innaturale e forzato con cui la sua mente lo teneva saldamente ancorato ai ricordi del passato.
    La sola vista di Lhospen lo aveva sconvolto a tal punto da spedirlo a piè pari in un vortice di angoscia e rimorso tanto profondo da fargli perdere conoscenza? Per quanto vividi e violenti potessero essere i suoi ricordi, non era certo possibile.
    Qualcosa o qualcuno lo stava decisamente imprigionando a forza in quello stato, magari attraverso lo stesso veleno che gli immobilizzava gli arti.
    E forse lo meritava davvero, quel trattamento, perché il peggio doveva ancora arrivare.

Mordor; Febbraio, anno 3019, T.E.[4]

    Alatar si appoggiò alla porta della cella, l’orecchio premuto contro le sbarre: non percepì nessuna vibrazione, nessun movimento. Probabilmente, tutta la zona era sgombera.
    In effetti, erano giorni che non passava di lì anima viva.
    Per parecchio tempo c’era stato un gran fermento in tutta la fortezza, tanto da mobilitare anche i più insignificanti orchi di guardia nelle prigioni. Per Alatar, fu chiaro che doveva essere accaduto qualcosa di veramente grosso là fuori.
    Forse anche l’Anello era implicato.
    Ad ogni modo, nessuno sarebbe andato a raccontarlo proprio a loro quattro.
    Tornò a sedere con gli altri: -C’è sempre silenzio.-
    Lhospen si avvinghiò al suo braccio, com’era solito fare:
    -Sembrerebbe quasi che tutti gli orchi di Barad-dûr se ne siano andati…-
    Pallando, rannicchiato in un angolo, rise piano: -L’Oscurità si muove per sopprimere la fioca luce ad Ovest. Dovremmo esserne meravigliati? Quando gli uomini capiranno che non c’è motivo di ostinarsi a vivere in un mondo così fragile? Ci sono solo morte e sofferenza là fuori, per tutti noi.-
    Lhospen distolse lo sguardo, deglutendo, colpito da quelle dure parole, così insolite se pronunciate dalla morbida voce di Pallando. Ma per dieci lunghi anni l’Istar era stato brutalmente torturato e tre di questi li aveva spesi faccia a faccia con l’Oscuro Signore, come nessun’altro tra loro: chiunque avrebbe perso la speranza.
    Alatar, ben conscio di tutto ciò, fissò il fratello senza rispondere. Doveva portarlo via da lì o la sua mente si sarebbe smarrita nel buio per sempre.
    Si alzò in piedi, per quanto il basso soffitto della cella lo permettesse: -Scappiamo, adesso.- Ordinò, lapidario.
    Gli occhi dei tre compagni saettarono su di lui, il respiro sospeso.
    Pallando, dal canto suo, non si mosse: -Come?-
    Alatar sorrise: aspettava quel momento da tempo, ormai.
    Frugò nella casacca ed estrasse un chiodo, ripetutamente piegato con minuzia estrema: -Ho fatto delle prove, riuscirò ad aprire la porta della cella, datemi solo qualche minuto.- Lhospen cadde nel panico, tirandosi in piedi a sua volta: -C-cosa? No! Fermo, ci troveranno, ci vedranno! Non possiamo rischiare, ti prego Alatar-
    -Cosa?- Lo zittì il più giovane degli stregoni: -Preferisci morire qui senza nemmeno tentare? Beh io no! E non sarà la sorte di mio fratello!- Avanzò di un passo, gli occhi lucenti che fendevano il buio: -Sei con me, Lhospen?-
    L’elfo ricambiò lo sguardo con gli occhi blu sgranati. Poi schiuse le labbra, respirando a fondo: -Sarò sempre con te, lo sai.- Alatar sorrise, tendendo poi la mano a Pallando. -Andiamo, fratello.-L’altro si alzò a fatica, l’espressione carica di sofferenza: -Finché staremo insieme, andrà bene. Finché moriremo insieme…-
    Alatar non si fece abbattere dallo spirito ferito del fratello, dirigendosi con decisione alla porta della cella. Armeggiò con il vecchio chiodo arrugginito, sentendolo scivolare tra le mani umide: un movimento preciso, poi un altro. Alatar sudava, concentrato. Gli altri tre rimasero immobili e in silenzio, mentre i secondi passavano, inesorabili, e la paura che qualcuno li scoprisse attanagliava le loro viscere sempre di più.
    Poi lo scatto secco della serratura riecheggiò nella cella: la porta cigolò e si aprì.
    Dovettero fare appello a tutte le loro forze per riuscire a compiere il primo passo fuori dalla piccola prigione. Quel pavimento era stato la loro casa per così tanto tempo che ora distaccarsene era diventato quasi impossibile e le loro gambe erano deboli e atrofizzate. -Forza, su per queste scale c’è la libertà.- Sussurrò Alatar, stringendo i pugni.
    Con passo malfermo, i quattro s’incamminarono lungo il corridoio buio, senza osare un fiato. Girarono a vuoto per chissà quanto tempo, senza incontrare mai nessuno.
    Barad-dûr era davvero deserta!
    Alatar acquistava fiducia ad ogni passo e la speranza cominciò a pungergli nel petto, rendendolo incauto.
    Trovarono la stanza ove erano rimasti incustoditi i loro effetti. Alatar afferrò il proprio bastone, sentendo l’energia fluire dentro di sé come un fiume in piena: -Pallando, afferra il tuo bastone!- Rise. Pallando non rispose al sorriso caldo del fratello, bensì rimase in disparte, come se la sola vista dei due bastoni gli ferisse gli occhi e la mente: -Non lo voglio.-
    A quelle parole ostinate, l’altro quasi perse le staffe: respirò a fondo e tese il bastone al legittimo proprietario. -Prendi il bastone e torna in te, ti sentirai più forte.- Disse, deciso.
    Pallando, di tutta risposta, colpì la mano del fratello, facendo cadere a terra il proprio, prezioso bastone: -Ho detto che non lo voglio!- Gridò.
    L’urlo spaventò Lhospen, che corse alla porta: -Gli orchi potrebbero essere vicini! Vi prego, non litigate adesso!-
    Alatar calmò il suo tremore, arrendendosi in fretta: non avevano tempo per queste sceneggiate. -Bene.- Disse soltanto, prendendo il bastone del fratello per lui: -Lo terrò fino a quando non lo vorrai.-
    Saedor, rimasto per tutto il tempo in silenzio a fissarli con il suo occhio nero, s’interpose tra i due stregoni, cercando di dissimulare il gesto porgendo loro alcune spade. Alatar assottigliò lo sguardo: stava difendendo Pallando, era chiaro.
    Eppure, andarsene non era forse l’obiettivo di tutti?
    Perché i due non capivano gli immensi sforzi che Alatar aveva compiuto per loro?
    Carichi di tensione, i quattro compagni continuarono la salita.

    Sbucarono infine in una grande sala dalle colonne di pietra scura e, con sgomento, scorsero la pallida luce del giorno entrare da una porta poco distante.
    Un’uscita? Poteva davvero essere così semplice?
    Alatar sentì il sollievo alleggerire le membra stanche e afferrò la mano del fratello, al suo fianco: -Ci siamo! Guarda Pallando, la luce dell’esterno!- Quello non lo stava nemmeno guardando. Egli fissava un punto lontano, troppo lontano perché Alatar potesse raggiungerlo. -Voglio restare qui.- Decretò, infatti, Pallando.
    L’altro non diede di nuovo peso alle sue parole e lo tirò verso la fioca luce delle terre di Mordor.
    Giunsero fino alla porta e Alatar per primo spiò attraverso lo spiraglio luminoso. La luce, per quanto pallida, gli ferì gli occhi arrossati, e impiegò diversi secondi prima di riuscire a mettere a fuoco: rocce a perdita d’occhio circondavano la fortezza, in un paesaggio secco e desolato.
    Poi, un movimento fece sobbalzare lo stregone, che si appiattì nell’ombra. Un orco passò proprio di fronte alla porta socchiusa, gelando il sangue dei presenti.
    Se solo l’orco avesse aperto quella porta un pollice di più, avrebbe scorto i quattro fuggiaschi, dando l’allarme.
    Uscire così scoperti era indubbiamente troppo pericoloso.
    Alatar si rivolse allora a Lhospen, cercando di apparire rassicurante: -Tu puoi celare le nostre figure ai loro occhi. Devi creare l’illusione giusta, una che ci permetta di mimetizzarci con la roccia.- L’elfo spalancò gli occhi blu, terrorizzato: -Ma io non ne sono capace! Non ho mai fatto una cosa del genere!-
    Alatar sentì il panico chiudergli la gola ma non osò cedere:
-Fidati di me! So che puoi farcela. Devi fidarti di me, Lhospen.-
    Saedor, dal canto suo, non disse niente, limitandosi a tenere Pallando per un braccio, sorreggendolo.
    La scelta apparteneva solo a Lhospen.
    L’elfo sottile strinse i pugni, sforzandosi di non piangere: -C-ci proverò, mio caro Alatar… Per voi.- Superò lo stregone e respirò a fondo. Aprì la porta con movimenti lentissimi e azzardò un mezzo passo verso l’esterno. Subito, un grosso moruruk di guardia venne verso di loro, a passo spedito, quasi avesse intuito la loro presenza. Era il momento della verità.
    Lhospen trattenne il fiato, concentrato come non mai: contro ogni aspettativa, l’orco tirò dritto, ignaro della loro presenza.
    L’illusione funzionava! Erano diventati invisibili.
    L’elfo corvino sorrise, incredulo: -Andiamo, veloci! Non so quanto riuscirò a resistere.- Alatar non se lo fece ripetere e trascinò Pallando dietro all’elfo dagli occhi blu.
    Stretti l’uno all’altro, i quattro corsero a perdifiato tra le rocce, allontanandosi passo dopo passo dalla loro terribile prigione.
    Pallando incespicava, senza forze e Saedor, al suo fianco, cominciò ben presto a perdere terreno, piegato dalle profonde ferite. -Forza, non cedere adesso! Ci siamo quasi!- Sussurrò Alatar, stringendo più forte il braccio del fratello.
    -S-Saedor sta male.- Ansimò l’altro, cercando di fermare la folle corsa di Alatar: -Se lo lasciamo indietro non sarà protetto dall’illusione di Lhospen… Non ce la faremo mai…- A quelle parole, Lhospen si voltò di scatto, cercando suo fratello con lo sguardo.
    Alatar imprecò mentalmente: spingeva Lhospen davanti a sé e trascinava Pallando quasi di peso, mentre questo reggeva a sua volta Saedor, sempre più rigido.
    Non sarebbero andati molto lontano, in quelle condizioni.
    Il panico cominciò ad attanagliargli lo stomaco e, come se non bastasse, una ronda fin troppo numerosa di uruk neri era appena apparsa dietro il piccolo crinale brullo alla loro destra.
    Erano in pericolo, dannazione.
    Lhospen tremava per lo sforzo e Alatar intuì che la sua illusione sarebbe durata ancora poco, troppo poco.
    Si guardò intorno febbrilmente, senza rallentare, trascinando tutti quanti come un bue con il carro.
    -Dobbiamo arrivare a quelle rocce! Saremo nascosti, poi potrete tutti riposare.- Sussurrò concitato.
    Non riuscì nemmeno a finire la frase che le sue speranze vennero repentinamente infrante: Saedor cadde prono sulla roccia polverosa, con un tonfo sordo. Pallando fu trascinato a terra a sua volta e l’illusione di Lhospen si lacerò violentemente in due, perdendo la sua efficacia.
    I quattro compagni rimasero immobili come statue di sale per alcuni secondi. Alatar smise persino di respirare, girandosi di scatto verso la ronda degli uruk.
    Forse non li avrebbero notati.
    Forse le rocce erano abbastanza alte da schermarli.
    Purtroppo, il destino era troppo infausto e nemmeno la paura sorda e le mani tremanti riuscirono a impedire a Lhospen di correre verso il fratello caduto.
    Bastò quel movimento, il suono di quei pochi, brevi passi e gli occhi di tutti gli uruk furono su di loro. Il ringhio dei maledetti carcerieri ferì le orecchie dei quattro sventurati compagni e Alatar si affrettò: aveva ancora un po’ di forza in corpo, poteva portare suo fratello sulle spalle. Tirò con violenza Pallando, cercando di farlo alzare: -ANDIAMO VIA!- Urlò, terrorizzato.
    L’altro lo strattonò malamente, tornando a scrollare il corpo sottile di Saedor. L’elfo bendato stava vomitando sangue. -Avanti, alzati fratello, ce la possiamo fare!- Lo incitava Lhospen, tirandolo debolmente per un braccio. Pallando guardò negli occhi i due elfi, il volto contratto dal dolore: -Se stiamo insieme, andrà tutto bene.-
    Alatar era incredulo e spaventato: erano così vicini alla libertà, perché nessuno lo stava ascoltando!?
    Spinse il fratello lontano dagli elfi, trascinandolo quasi di peso.
    -Ormai è finito, dobbiamo lasciarlo qui!- Gridò, fissando gli uruk correre come belve verso di loro.
    Pallando, invece, era di tutt’altro avviso: -Se deve morire, moriremo con lui!- Ringhiò, lasciandosi andare a peso morto, di nuovo a terra. Lhospen arrancava pietosamente verso di loro, reggendo Saedor al suo fianco.
    I due elfi erano un peso.
    Erano solo un dannatissimo peso.
    Li avrebbero catturati di nuovo e Alatar non poteva permetterlo. Guardò con odio crescente quegli elfi inutili serrare le loro dita attorno alla veste lurida di suo fratello, intrappolandolo insieme a loro. Notò il patetico e scheletrico vecchio che Pallando era diventato e sentì il proprio petto lacerarsi quando quello sguardo opaco si posò sui due elfi, lontano da lui.
    Perché in quel momento guardava loro e non lui, il suo unico fratello!? In un ultimo, folle gesto, Alatar sguainò la spada e avanzò con decisione.
    In un battito di ciglia, la lama trafisse il ventre di Saedor come fosse burro, uscendo dalla sua schiena con un violento fiotto di sangue. Era stato così dannatamente facile.
    Per un secondo ci fu silenzio.
    Lhospen continuava a fissare la mano di Alatar, stretta sull’elsa, come se non riuscisse a comprendere del tutto cosa stesse davvero accadendo. Purtroppo, Alatar sapeva bene cosa stava facendo, e non era affatto pentito.
    Aspettò di vedere il corpo bendato dell’elfo cadere al suolo, lasciando libera la veste di Pallando.
    Poi sarebbe toccato a Lhospen.

    Tuttavia, ciò non avvenne mai.
    Anzi, fu proprio Saedor a parlare per primo e la cosa sconvolse Alatar oltre ogni misura.
    Con una mano bendata, l’elfo saggiò il ferro della spada conficcata dentro di sé, con un’espressione indecifrabile: -Lhospen crea illusioni. Questo è il suo talento. Non mi hai mai chiesto quale fosse il mio, Alatar, perciò te lo dirò adesso. Sai perché proprio io subivo le peggiori torture?-
    Nella sua voce non c’era più gentilezza, né comprensione. Saedor sputava quelle parole con un tono rauco, disincarnato, metallico e carico d’indifferenza: -Perché io non posso morire.-
    E Alatar incontrò lo sguardo di quell’inquietante occhio nero come la notte. Sentì la terra mancargli da sotto i piedi, finendo dentro l’incubo peggiore che potesse immaginare.
    Pallando, riscuotendosi, lo spinse via con rabbia, riappropriandosi del proprio bastone di stregone solo per schermare il corpo dell’elfo bendato con il proprio: -Che cosa hai fatto!? CHE COSA HAI FATTO?!-
    Alatar indietreggiò: -I-io volevo…-
    Ma l’altro non lo stava già più ascoltando. Aiutato da un tremante Lhospen, Pallando si affaccendò a sorreggere Saedor, tentando di trascinarlo lontano. Nonostante arrancassero lontano da lui, Lhospen si voltò verso Alatar, cercando ancora il suo sguardo con una fiducia cieca che lo Stregone Blu sapeva di non meritare: -Aiutaci, Alatar!-
    E quella fiducia, il più giovane degli stregoni non l’avrebbe meritata mai, perché in quel momento, quando udì i passi pesanti dei moruruk ormai dietro di loro, egli si voltò di scatto e cominciò a correre.

    Di quello che avvenne in seguito, Alatar ricordò ben poco.
    Vedeva i visi dei tre compagni distendersi per la sorpresa, nel vederlo indietreggiare.
    Poi, dietro di sé, sentiva le loro voci chiamarlo, urlare il suo nome, mentre gli uruk li raggiungevano con le pesanti catene che cozzavano sulla roccia.
    Ma lui aveva corso veloce, lontano, sempre più lontano, finché le voci non erano sparite, riecheggiando solo nella sua mente in subbuglio. Dovettero passare molti giorni prima che i suoi piedi martoriati varcassero il confine di Mordor e lo conducessero attraverso le abbandonate terre dell’Ithilien.
    A quel tempo una grande battaglia si era consumata nei Campi del Pelennor, a Gondor, ma ad Alatar non era importato.
    Vagò per giorni, sempre più lontano, delirando per la forte febbre. Giorni, forse settimane dopo venne a sapere della caduta di Sauron, della distruzione dell’Anello, della disfatta di Barad-dûr. E ancora una volta non gli importò affatto.
    Voleva solo dimenticare; voleva solo cancellare i ricordi e i visi di quelle persone.
    Per anni camminò nell’Ovest, tra genti che non ricordavano più il suo nome, e curò le proprie ferite giorno dopo giorno, ricostruendosi.
    Forse fu per sopprimere il suo enorme e angosciante senso di colpa che s’impegnò ad aiutare il prossimo, non seppe spiegarselo in altro modo.
    Non raccontò mai a nessuno la sua storia. Inventò piuttosto delle utili e credibili bugie, che gli permisero di vivere indisturbato. Smise persino di avere incubi, dopo un po’.
    Trent’anni dopo, quando infine vide la stella cadere, lo stregone si era incamminato verso Nord, deciso a mentire ancora e ancora, per tornare ad essere solo l’Istar Alatar, Morinehtar, l’Assassino dell’Oscurità… L’Unico Stregone Blu.


    Se il suo corpo fosse stato in grado di muoversi, Alatar si sarebbe trafitto il corpo con un pugnale.
    Aveva rivissuto il passato, aveva provato nuovamente tutti i sentimenti che lo avevano piegato allora, ed era stato atroce.
    Si augurò con tutto il cuore che la tortura fosse giunta al termine. L’unica cosa che voleva sapere adesso era come quei tre fossero sopravvissuti sino a quel momento.
    Non avrebbe aspettato ancora molto, scommise tra sé e sé: chiunque avesse creato quella tremenda magia, aveva ormai raggiunto il suo scopo.
    Infatti, ben presto la mente dello stregone tornò a percepire la realtà, e i suoni che aveva udito in principio tornarono a pizzicargli le orecchie. Una ad una, le maglie del suo inconscio si sbrogliarono, concedendogli di aprire gli occhi.
    La prima cosa che vide fu la terra brulla che scorreva lentamente sotto di sé. Era a pancia in giù, sopra un cadavere di qualche genere. Forse un… mannaro?
    Girò poi il viso da una parte all’altra, lentamente, ancora spiacevolmente stordito. Attorno al mannaro marciavano i non morti, silenziosi e diligenti. Erano poco più di due dozzine, forse sarebbe riuscito a scappare.
    Si mosse velocemente, tentando di saltare giù dalla bestia non morta, ma qualcosa lo trattenne. Di nuovo, un inteso odore di erbe curative lo investì ma questa volta non ebbe dubbi in merito.
    Non riuscì a sopprimere un brivido di puro terrore quando chi cavalcava il mannaro tirò violentemente il suo braccio verso di sé, incatenando il suo sguardo nel baratro assoluto di un occhio nero come la notte. -Saedor…-

 


 
[1] Anno 3016 della Terza Era: secondo la cronologia della Terra di Mezzo (le cui date sono tratte dalle appendici A, B e C del Signore degli Anelli), in questo periodo Sauron si stava riorganizzando nella sua fortezza, a Mordor, dispiegando ricerche per ritrovare il suo prezioso Anello. Pressappoco dieci anni prima, Gandalf veniva a conoscenza che quest’ultimo era in possesso di Bilbo Baggins e spediva Aragorn alla ricerca di Gollum, l’unica altra creatura a conoscenza di quel fatale segreto.
 
[2] Le visioni di Pallando: ogni Istar (ovvero i 5 Maiar che facevano parte dell’Heren Istarion, l’ordine degli Stregoni) fu inviato nella Terra di Mezzo come “protetto” di uno specifico Valar. Saruman fu scelto da Aulë, patrono della conoscenza e avido di potere; Gandalf invece fu preferito dal signore di tutti i Valar, Manwë, colui che si fida della bontà dell’uomo ed è il più saggio tra i saggi; Radagast il Bruno fu inviato da Yavanna, protettrice della natura e dei suoi abitanti; Alatar fu scelto= =personalmente da Oromë, il possente cavaliere temuto persino da Melkor stesso. Insomma, sembrerebbe proprio che lo stregone, in parte, rispecchi il Valar di riferimento. Per Pallando la storia è diversa, poiché non è affatto specificato quale tra i Valar fosse il suo protettore. Viene anzi accennato che fu Alatar stesso ad insistere per essere accompagnato da lui e che non fosse stato proprio un Valar in particolare a sceglierlo. Approfittando di questi enigmi, ho scelto io: ad inviarlo fu il Valar Mandos, colui che conosce tutte le cose che sono state che sono e che saranno. Tutto secondo i fini della trama, ovviamente XD Perciò, le sue visioni, seppur deboli e lontane, sono un retaggio del suo legame con il Valar.
 
[3]  L’essere strisciante cui il simpatico orco si riferisce è proprio Gollum. Dopo essere stato derubato da Bilbo, Gollum esce dalle caverne e comincia a cercare il suo tesoro. Più di trent’anni dopo, attratto dall’oscurità di Mordor, fu sorpreso dagli orchi, catturato e torturato, a Barad-dûr. Qui, dopo diversi mesi di agonia, nel 3016, egli confessò: “Contea! Baggins!” e Sauron inviò i Nazgul alla ricerca di Frodo. Ed è così che cominciò l’avventura!
 
[4] Anno 3019 della Terza Era: l’anno in cui ebbe luogo la Guerra dell’Anello e quasi tutti i fatti che vediamo nella trilogia. In questo momento, Barad-dûr si svuotò, poiché la maggior parte degli orchi di Mordor era impegnata nella battaglia dei Campi del Pelennor, dove Theoden di Rohan perse la vita. Solo due mesi dopo, Aragorn fu incoronato Re.



N.D.A

Ciao! Scusatemi per la lunga assenza ma sto scrivendo la Tesi T-T che parto, spero vada tutto bene XD Intanto, come state? Di nuovo in allerta, di nuovo nell’ansia, questo 2020 deve finire! Intanto, seppur a rilento (mooooolto a rilento) continuo a scrivere, spero vorrete perdonare l’attesa! Che ne pensate di questa allegra ripresa, eh? Capitolo difficilissimo ma spero di avervi regalato qualche emozione, dopo tanto tempo. Ringrazio chiunque sia tornato a leggere nonostante le continue sparizioni <3 E grazie infinite a chi ha recensito, seguito e preferito la storia! Vi mando mille baci!
Con affetto,
Aleerah

P.S Dopo questo lungo capitolo, come vedete il nostro Alatar? I vostri sentimenti nei suoi confronti sono cambiati? O eravate sospettosi dal principio? Cosa pensate delle sue scelte? Sono davvero curiosa! Bacii

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Capitolo 26
*** Occhio per occhio ***


 
-Occhio per occhio-




    Sillen sentì qualcosa di umido sfiorarle la fronte e aggrottò le sopracciglia. Qualsiasi cosa l’avesse svegliata dal suo sonno, non era la benvenuta: si sentiva come se un’intera montagna le fosse crollata addosso, frantumandole tutte le ossa. Il bisogno di riposare era tale che di certo non avrebbe mosso un dito per almeno un secolo.
    Sbatté le palpebre velocemente, tentando di mettere a fuoco ciò che aveva davanti e subito la sensazione di umido si dissolse.
    Le girava la testa, tanto da non riuscire a coordinare le estremità del suo corpo. Con non poca fatica, la stella lasciò vagare lo sguardo ottenebrato e riconobbe la sua stanza, immersa in una penombra morbida e accogliente.
    Il letto era caldo e decine di coperte la avvolgevano piacevolmente, alleviando il dolore sordo che le percorreva le membra. Sulla specchiera, un paio di candele erano state evidentemente accese da poco, poiché la cera non aveva ancora avuto il tempo di gocciolare lungo la loro forma affusolata.
    Lentamente, Sillen si portò una mano al viso, sfregandosi gli occhi affaticati. Subito, la stessa mano ricadde a peso morto sul materasso e la stella ansimò, sfiancata da quel semplice gesto.
    Nonostante le numerose coperte, sentiva piuttosto freddo e il suo intero corpo era gelido come la neve.
    Sospirò profondamente, ricordando i suoi ultimi momenti di coscienza: Elessar stava bene, questo era l’importante. Lei poteva di certo sopportare, anzi, era il minimo che potesse fare dopo ciò che aveva causato.
    Non ebbe il cuore di guardare oltre la finestra, dove i suoi occhi stanchi, invece dello svettare fiero della Torre di Ecthelion, avrebbero incontrato solo il cielo stellato. Chiuse i pugni debolmente, ricacciando indietro le lacrime: sarebbe stato quello il prezzo da pagare per riportare la pace nella Terra di Mezzo?
    Poteva il suo destino condurla su un sentiero ancora più tortuoso? Più doloroso?
    Si accorse di non essere sola soltanto quando, con la coda dell’occhio, notò del movimento alla sua sinistra. Un movimento quasi impercettibile, tuttavia Sillen era sicura che ci fosse qualcuno in piedi accanto al letto, ne percepiva chiaramente la presenza. Chiunque fosse, possedeva un’energia potente, che invadeva la stanza come un piccolo incendio. La stella si stupì di non averla avvertita prima. Forse era davvero troppo stanca.
    Per quanto tentasse però, Sillen non riusciva proprio a voltare la testa in quella direzione e si arrese sui cuscini, stringendo le labbra in un’espressione di disappunto.
    Deglutì, sforzandosi di parlare: -Chi c’è?- La voce, invece che perentoria come sperava, le uscì arrochita e debole, a metà tra il lamento e il rantolio di un moribondo. Tossicchiò, stringendo gli occhi che ricominciavano a lacrimare per il dolore. La gola le bruciava da impazzire, come se qualcuno vi avesse spinto un ferro incandescente a forza.
    La presenza alla sua sinistra si mosse di nuovo, questa volta avvicinandosi leggermente: -Non parlare, il veleno ti ha lesionato la gola in profondità.- All’istante, Sillen sentì i battiti del proprio cuore accelerare violentemente e lo stomaco si serrò in una morsa terribilmente familiare.
    Quella voce.
    Il respiro si fece improvvisamente affannoso.
    Conosceva bene quella voce, troppo bene: -Thranduil?-Bisbigliò, senza fiato. L’elfo apparve finalmente nel campo della sua visuale, facendola sussultare vistosamente.
    Sillen fu subito sopraffatta dalla sua presenza fisica e psichica, più imponente di quanto ricordasse, e si sentì minuscola in quel grande letto sfatto.
    I sottili capelli d’argento del Re degli Elfi, liberi da ogni orpello, le piovvero attorno come una cascata di metallo liquido mentre lui si chinava su di lei.
    Sillen tossì ancora, tentando di sollevare la mano per toccarlo, ma l’elfo, immediatamente, le trattenne il polso tra le dita, tenendolo incollato al materasso in un gesto gratuitamente rude.
La sua pelle pareva incandescente in contrasto con quella fredda di lei: -Stai ferma.- Ordinò, con un tono che non ammetteva repliche. -Thranduil?- Ripeté lei, come ad accertarsi che lui fosse davvero lì. Quello le portò l’altra mano alla fronte, premendovi un panno bagnato: -No.- Rispose, monocorde.
    Sillen ignorò i suoi modi e tenne gli occhi ancora appannati dal sonno fissi sul viso dell’elfo, incredula. Studiò avidamente i suoi lineamenti affilati, il bagliore freddo dei suoi occhi di ghiaccio, la linea severa delle sue sopracciglia, le curve virili ma delicate delle sue labbra. -Sto sognando vero?-
    L’altro si alzò, impassibile, lasciandole velocemente il polso e tornando a bagnare la pezza: -Sì, è un sogno.- La stella ascoltò il suono dell’acqua nel catino, immaginando le mani dell’elfo come se le avesse dinanzi agli occhi. -Sapevo che non poteva essere reale. Galion ha detto che anche tu stavi marciando sul campo di battaglia. E forse sei davvero qui a Gondor… Ma di certo non saresti mai venuto da me.- Una lacrima le scappò dalle ciglia, scivolando verso il cuscino candido.
    -Esattamente.- Confermò Thranduil, immergendo la pezza nel catino con uno scatto nervoso.
    Sillen chiuse gli occhi, ferita. -Però sono stanca di sognarti ogni volta che riesco ad addormentarmi.- Si lamentò, arrabbiata più con sé stessa che con lui: -Riesci ad essere… irragionevole e scortese persino nei miei sogni.-
    Il rumore dell’acqua mossa nel catino si arrestò e, dopo pochi attimi, la voce di Thranduil le arrivò alle orecchie, carica di tagliente sarcasmo: -Irragionevole? Io sarei irragionevole? Ti sei vista, Stella dei Valar?- Anche senza guardarlo, Sillen sapeva che la stava fissando con quella solita espressione di sufficienza stampata sul viso affilato.
    -Fatti un esame di coscienza se non ti sembra vero, Heru en amin (mio signore, formale).- Lo riprese lei, nonostante ogni parola pronunciata le facesse dolere la gola oltre il sopportabile.
L’elfo si piegò nuovamente sulla stella, il viso ancora più freddo e contratto di prima: -Dînna (sta’zitta). Ho detto che non devi parlare.- Sillen si zittì controvoglia, decisa comunque a non staccare gli occhi da quel bellissimo viso per nulla al mondo.
    Ogni volta che l’elfo si avvicinava in quel modo, il suo cuore impazziva come a volerle sbriciolare il petto.
    Era certa che anche lui lo sentisse.
    Inoltre, in quegli attimi, il calore che il corpo dell’elfo emanava pareva sciogliere un po’ il ghiaccio che la stella sentiva addosso, liberandola momentaneamente da quell’innaturale rigidità.
    Nonostante tutto, Sillen arrossì, inspirando il profumo di sole e rugiada che Thranduil portava con sé e si rilassò gradualmente, lasciando che l’acqua tiepida le donasse un po’ di sollievo.
    In quel sogno, l’irritante elfo era insolitamente disadorno: mai Sillen lo aveva immaginato senza la sua corona, senza i suoi anelli, senza i suoi abiti riccamente decorati. Eppure, adesso lui si presentava con un anonimo camice bianco e un mantello bruno come la terra appena smossa.
    -Perché mi fissi così?- Chiese Thranduil, incrociando casualmente lo sguardo violetto della stella.
    -Perché è un sogno strano…- Sussurrò lei, senza imbarazzo.
    -Ma sei bello. Sei sempre bello.- Ammise. Alla fine era un sogno, pensò: quanto poteva importare ciò che diceva o non diceva?
    Thranduil scosse la testa, tornando a tamponarle i polsi e gli avambracci: -Questo me l’hai già detto. Poco originale. Commentò, riferendosi al loro primo incontro.
    Le sue mani, intanto, erano insolitamente delicate.
    Tutto di lui era oltremodo insolito, in quell’assurdo e meraviglioso sogno, si rallegrò lei. Le era mancato in un modo che non era in grado di esprimere a parole.
    Sorrise appena, addolcendo lo sguardo: -Senti Thranduil…- Con le dita fredde riuscì a stringere un lembo della manica candida dell’elfo, tirandolo debolmente. Lui non sembrò darvi peso, limitandosi a continuare quell’operazione: -Mhm.-
    -Perché nei sogni mi aiuti sempre?- Tossicchiò lei. Le parve di vedere una strana ombra passare sul viso del Re degli Elfi, come un brutto ricordo tornato a punzecchiargli la memoria. Poi lui inclinò appena la testa, scostandole i capelli dal collo per sistemare lo stretto bendaggio: -Non lo so. Forse perché il Thranduil nei tuoi sogni è un povero idiota, per nulla in grado di tenere a mente chi è. E che cosa ha promesso di farti, una volta ritrovata.- Le confessò, a denti stretti.
    Sillen deglutì a fatica, sia per il dolore sia per le dure parole dell’elfo argenteo. Quella frase non le suonava nuova, dopotutto: già in un precedente sogno, Thranduil aveva sottolineato che ben presto le avrebbe fatto pagare lo scotto delle sue azioni.
    Tuttavia quello era il suo dannatissimo sogno e lei non aveva intenzione di fargli prendere la piega dell’incubo proprio adesso.
La vista si stava lentamente schiarendo e Sillen poté finalmente distinguere più dettagli del suo onirico visitatore. Nonostante l’abbigliamento spartano, Thranduil non aveva rinunciato a una bella spilla argentata, tempestata di smeraldi scintillanti. Il solo scorgere quel piccolo seppur pomposo dettaglio, donò nuovamente allegria alla stella. -Thranduil?-
    -Cosa?- Sospirò lui, chiaramente infastidito: -Guarda che ti ho già detto di stare zitta. Se poi le ferite peggiorano, saranno problemi tuoi.- Chiarì, anche se dal suo tono non traspariva alcuna reale preoccupazione in merito. Sillen non se ne curò, perseguendo i suoi buoni propositi: -Scusami, hai ragione. Sono ridotta male, eh? Mi trovi brutta adesso?- Chiese, scrutando divertita la sua reazione. Thranduil, per tutta risposta, si fermò all’istante, la pezza bagnata a mezz’aria.
    No, lui non era affatto divertito.
    L’atmosfera nella stanza si caricò immediatamente di un’elettricità pulsante, tanto potente da dilatare i secondi.
    Sillen vide gli occhi adamantini di lui correrle sul viso, socchiudendosi leggermente. Erano diventati improvvisamente più liquidi, caldi e la stella ricordò con fin troppa chiarezza quegli attimi brucianti vissuti nella Sala delle Udienze, nel Reame Boscoso. Proprio come allora, Sillen non riuscì più a respirare, tanto era intenso lo sguardo del Re elfico.
    Si sentì avvampare, dandosi della stupida per aver fatto una domanda tanto sciocca e infantile proprio a lui.
    Aspettò che accadesse qualcosa, che lui le inveisse contro, magari. Invece, dopo qualche secondo, Thranduil le staccò delicatamente le dita dalla propria camicia, chiuse gli occhi e respirò a fondo, la fronte impercettibilmente contratta.
    Quando li riaprì, il suo sguardo era tornato freddo e distante.
    -Sì, sei decisamente ridotta male.- Le fece, con voce bassa e incolore. -Se stessi zitta sarebbe meglio. Quest’acqua contiene un’antica medicina del mio popolo, molto potente. Le ferite sono già migliorate rispetto alle scorse notti.- Commentò poi, parlando più tra sé e sé, per distogliere la propria attenzione dalla stella.
    -Dovresti solo ringraziarmi. Se avessi lasciato fare a quegli incapaci dei tuoi- Sussultò e si zittì immediatamente, conscio di ciò che aveva appena fatto. Si voltò di scatto verso la stella, lo sguardo colpevole. Sillen, infatti, aveva cominciato a boccheggiare, incredula e agitata: -V-vuol dire che tu sei qui, che sei davvero qui. Eri qui anche ieri notte e-
    Tentò di sollevarsi dal letto ma Thranduil tornò su di lei, tenendola ferma sul materasso facendo pressione sui suoi polsi doloranti: -No, ferma. Ho detto che è un sogno.-
    Le ricordò a denti stretti, cercando di rimediare al proprio errore. -Stai mentendo!- Esclamò lei, fuori di sé dalla gioia.
    L’altro serrò i pugni, facendole quasi male: -Basta, smettila! Non voglio aiutarti, non lo meriti.- Le sibilò a pochi centimetri dal viso.
    Lei rimase a fissarlo con gli occhi sgranati, oltremodo confusa da quelle parole velenose: -C-cosa?-
    Il Sindar contrasse la mascella, senza nemmeno accorgersi di aver rovesciato la bacinella d’acqua dietro di sé. -Pensi che io sia qui perché colto dall’altruistica voglia di curare le tue ferite?- Le domandò, tagliente. -Sono venuto fino a qui solo per ricordarti che con me non puoi fare ciò che vuoi senza aspettarti delle conseguenze.-­­­­
    -Conseguenze?- Ripeté lei, cominciando, suo malgrado, a capire. L’altro non diede segno di volersi calmare: -Dannazione, chi credi che io sia? È vero, sei riuscita a scappare dal mio Reame, ma non per questo ti lascerò andare come se niente fosse.-
    Lei sgranò ancora di più gli occhi viola, intuendo finalmente cosa quelle parole volessero dire realmente. La sua bocca si piegò in una smorfia oltraggiata: –Oh ma tu mi hai lasciata andare, Thranduil. Non è per me che ti sei disturbato ad abbandonare il tuo prezioso Trono, non è così? Sei qui perché non accetti che sia io a guidare questa gente, non mi ritieni all’altezza! Che cosa vorresti fare, adesso? Rivendicarmi come tua prigioniera?-
    Lui strinse gli occhi a due fessure, i denti serrati dolorosamente: -Rivendicare? Io non ho mai rinunciato al mio possesso su di te, per quanto tu sia stata tanto impudente da cercare di usarmi. Io ti ho trovata, in quella radura, non darti tante arie!-
    Sillen cercò di sottrarsi a quella presa ferrea, nonostante il dolore che provava in tutto il corpo le mozzasse il fiato. Tanto, era troppo furiosa per darvi peso: -Usarti!? È questo che credi?-
    Lui s’incupì ancora di più, se possibile: -Te ne sei andata non appena hai capito che non saresti riuscita a usarmi, questa è la verità. E non mentire più, non ne hai bisogno.- La voce dell’elfo era carica d’odio, un odio velenoso: -Volevi il mio esercito? Ebbene, lo hai ottenuto. Ma a me cosa spetta adesso?- Il suo sguardo vagò sul viso della stella, implacabile: -Sono stanco di rimpiangere le mie azioni. Questa volta non ho intenzione di lasciare che le cose sfuggano dal mio controllo!-
    Lei quasi non riusciva a respirare: percepiva la sua rabbia, forse riusciva anche a comprendere il suo cuore ferito. Ma come poteva Thranduil anche solo imputarle delle azioni così meschine? Sentì tutto il suo corpo fremere e un profondo senso di nausea invaderla. -So che in passato ho fatto qualcosa che ti ha ferito e ti chiedo scusa. Ma non ti permetterò di parlare in questo modo di me, la Stella dei Valar.-
    Thranduil, in un battito di ciglia, chinò la testa, piegandosi verso di lei. La stella, nonostante non lo temesse ormai da tempo, tremò a quel gesto improvviso: ma il Sindar, semplicemente, stava affondando il viso nei suoi capelli, fino a posare la fronte sulla sua spalla dorata.
    Non accennò a muoversi per diversi secondi e Sillen, tesa come una corda di violino, a malapena riuscì a tornare a respirare.
    Poi, il Re degli Elfi rise, una risata profonda e incolore che le fece vibrare il petto: -Tu chiedi scusa? Mi hai deliberatamente riempito la testa con le tue belle parole, con la tua presenza... No, non bastano le tue scuse. Non le voglio. Non dopo che hai ottenuto ciò che volevi, riducendomi a… questo.- Sputò l’ultima parola a denti stretti, alludendo a sé stesso.
    Sillen soffocò un singhiozzo, tentando di allontanarsi: -Bene, se le cose stanno così, non mi opporrò. Prenditi i tuoi meriti e vattene, Re degli Elfi. A guerra conclusa tornerò nel tuo Regno e potrai sbattermi nelle caverne per l’eternità, non m’importa! Ma ora devo adempiere il mio destino e non sarai di certo tu a fermarmi. Tornartene nel tuo dannato Palazzo, non avvicinarti mai più a me! Kéla! (vattene)- Soffiò, con le lacrime agli occhi.
    Thranduil, suo malgrado, rimase spiazzato dalla reazione così realistica e intensa della stella ma non si fece intenerire.
    Molte volte aveva ceduto sotto quello sguardo, adesso sapeva come combatterlo e bramava la sua vendetta ora più che mai.
    -Non ti renderò le cose così facili, Sillen. Ora sono qui e voglio tutta la mia parte. Pensi che m’interessi il tuo “valoroso destino”, forse? Credimi, nemmeno gli déi riuscirebbero a strapparti al mio volere.- Ringhiò, stanco di essere contrastato da tanto inutile orgoglio. -La vittoria non è tua, è mia. I meriti di questa battaglia sono miei, tanto quanto lo sei tu, non esiste discussione in merito. D’ora in avanti, deciderò io cosa farai o non farai, così come sarebbe dovuto essere dal principio. La storia ricorderà che fu il Re degli Elfi a guidare il più grande esercito della Terra di Mezzo. Poiché sarà lui a vincere questa guerra e a lui sarà consegnata ogni ricchezza conquistata!-
    Lei si divincolò, ignorando il dolore lancinante che il suo corpo stava soffrendo. Non voleva più ascoltare. 
    Maledetto egoista, quel dannato elfo non era altro che questo.
    -Ho detto vattene!- Gridò.
    Thanduil le tappò la bocca con una mano e tornò a fissarla negli occhi, l’espressione tesa, decisa, arrabbiata e al contempo stanca, allucinata. La immobilizzò facilmente, ignorando le sue proteste. -Perché ti agiti tanto?- Le strinse la spalla destra con le dita, scostando leggermente la stoffa della veste.
    -Lo hai detto tu stessa… Questo è solo un sogno.-
    Le fece notare, prima di premere forte un punto della stessa spalla, con letale precisione.
    Sillen sussultò per il pizzicotto e cercò di urlare, prima di sentire le forze abbandonarla inesorabilmente, intrappolandola nel buio.
 

 
**

    Elessar si passò una mano sul viso, sospirando. Il sole stava sorgendo e i suoi raggi caldi penetravano dalla finestra di pietra della camera, tingendo il marmo di tenui lingue dorate. Luglio era alle porte e stava portando con sé il caldo umido e soffocante delle placide estati dell’Ovest.
    Per l’ennesima volta però, il Re si ritrovò a sistemare con cura le pesanti coperte del grande letto dove Sillen giaceva da ormai cinque notti. Nonostante le alte temperature, il corpo della stella era freddo, impossibile da scaldare. Inoltre, dopo aver perso i sensi sulle mura, Sillen non aveva più aperto gli occhi, né aveva accennato un movimento. L’apprensione aveva avvolto gli alleati che, con grande fatica, si erano duramente impegnati per estinguere il tremendo incendio appiccato durante la battaglia.
    Elessar fissò nuovamente il viso dorato della giovane, ancora deturpato da grandi ematomi violacei. -Sillen…?- Sussurrò, come aveva fatto decine di volte da quando l’aveva portata lì.
    E come ogni volta, non ricevette alcuna risposta.
    Glorfindel lo raggiunse in quel momento, appoggiandosi pigramente allo stipite della porta della stanza: -Credo dovresti andare a riposare, mellonamin (amico mio).-
    Elessar scosse la testa, sollevando appena le spalle della stella per sistemarle meglio i cuscini: -Vorrei essere qui, al suo risveglio.- Dichiarò, trasparente.
    L’elfo dorato rise e si avvicinò al letto, facendo ondeggiare i lunghi capelli sulla camicia bianchissima: -Se non si è svegliata in tutto questo tempo, di certo potrà anche aspettare che tu ti faccia una bella dormita.- Commentò, cercando di smorzare la tensione. -Sono ore che non mangi niente. Vai, resto io con lei.- Lo incoraggiò, stringendogli brevemente la spalla.
    Elessar ricambiò il suo sguardo, accennando un sorriso. Istintivamente, portò una mano alla Gemma di Eärendil, di nuovo appuntata sulla sua camicia scura: -D’accordo. Grazie Glorfindel.-
    L’altro prese il suo posto, sedendosi sul bordo del grande letto. Osservò il Re allontanarsi con passo pesante: continuava a vederla, l’energia di Sillen; permeava il corpo di Elessar come un’aura benevola, nonostante né lui, né nessun altro ne fosse conscio. Il problema era che, adesso, Glorfindel non percepiva più quest’ultima attorno alla stessa stella e la cosa lo atterriva.
    -Che cosa hai combinato, avventata ragazzina…- Le fece, quando il Re fu lontano. Frugò nelle tasche delle brache di pelle, tirando poi fuori i pochi frammenti del Palantir che erano riusciti a recuperare. Erano cinque, in totale.
    -Senza di te non riesco a distruggere questi frammenti, sai? Farai meglio a svegliarti in fretta. Sperando che le cose non siano come sembrano…- Spostò lo sguardo sulla stella, accorgendosi solo in quel momento di quanto l’avessero sepolta sotto le coperte.
    Alzò gli occhi al cielo e si tirò nuovamente in piedi, afferrando le lenzuola per i lembi candidi. -Me ne vado un attimo e guarda come ti tratta il Re degli Uomini.-
    Tirò via la maggior parte dei pesanti strati, accatastandoli ai piedi del letto, poi osservò il risultato con le mani sui fianchi: un lenzuolo solo bastava e avanzava, non era certo il freddo, il vero problema di Sillen.
    Con un sospiro, cercò le sue mani, stringendole leggermente tra le proprie. Subito, l’energia del Vanyar scivolò dal suo petto per correre lungo le sue braccia, poi nelle dita.
    Quando infine essa incontrò la pelle della stella, l’elfo rabbrividì: Sillen era così… vuota. Le donò quanta più energia possibile, come ogni giorno, fiducioso.
    E a dire il vero, la stella stava migliorando velocemente.
    Troppo velocemente, anzi.
    Glorfindel non si spiegava come fosse possibile.
    Certo, si erano prodigati nelle cure con tutte le loro forze, lui stesso le aveva donato molta energia, ma la velocità con cui le sue ferite s’erano rimarginate superava di gran lunga il loro impegno. Superava addirittura la stessa, miracolosa capacità rigenerativa della stella.
    Sospirò, osservando quelle piccole mani dorate tra le sue. All’istante, aggrottò le sopracciglia, cogliendo un odore insolito provenire da esse. Non ci aveva fatto caso ma, avvicinando le mani della stella al viso, la presenza di quella fragranza era più evidente. In modo forse un po’ ridicolo, le annusò i polsi: -Dove ho già sentito questo profumo…?-
    Proprio in quel momento però, Sillen spalancò gli occhi, spaventandolo a morte.
    -Thranduil!- Gridò lei, tirandosi a sedere. I capelli le piovvero attorno alle spalle, scomposti, mentre realizzava dove si trovasse. Si voltò di scatto e incontrò lo sguardo sconcertato di Glorfindel, seduto su una sedia, affianco al letto.
    -Glorfindel…- Sussurrò lei, scostandosi i capelli dal viso.
    L’altro si riscosse, sospirando per riprendersi dallo spavento appena subito. Le sorrise brevemente, avvicinandosi.
    -Finalmente ti sei svegliata.-
    Non fece domande in merito al nome che lei aveva appena evocato e si premurò di controllare le sue ferite: -Come ti senti? Riesci a muoverti?- La stella mosse le articolazioni, controllando il loro stato: stava insolitamente bene. Il dolore era costante ma sopportabile e la gola era solo un po’ secca.
    -Credo… credo di sì.- Rispose, tastandosi il costato.
    L’elfo dorato la aiutò a sedere dritta: -Le ferite fisiche sono guarite quasi del tutto. Per il resto… Beh, speravo me lo dicessi tu.- La stella lo fissò con espressione tirata e lui ricambiò lo sguardo, aspettando che dicesse qualcosa.
    Guardando dentro di sé, Sillen percepì una profonda, innaturale quiete. Si concentrò meglio, tentando di visualizzare la propria energia, senza sortire alcun risultato.
    Scosse la testa: -Sto bene, credo di essere ancora un po’ stanca. Quanto ho dormito?-
    -Quattro giorni e cinque notti.- La informò l’elfo, serenamente.
    L’altra, con un cipiglio confuso, tornò a riflettersi nei suoi occhi dorati: -Chi… Chi è venuto qua, in questi giorni?- Chiese, a bruciapelo. Se l’elfo sapeva qualcosa, di sicuro non avrebbe resistito a prenderla in giro.
    Invece, Glorfindel piegò le labbra in un lieve sorriso, per nulla ironico: -Tutti quanti, Sillen. Elessar è stato qui praticamente sempre, sai? Poi sono venuti Legolas, Thorin, Gimli, persino Éomer è passato a trovarti.-
    Lei si morse il labbro inferiore e mugolò contrariata, stringendosi le ginocchia al petto: -Dunque, tutti quanti mi hanno vista in questo stato.- Concluse, senza riproporre la domanda come davvero avrebbe voluto farla. Non era sua intenzione chiedere di Thranduil, non dopo quanto era successo.
    Se Glorfindel non ne sapeva niente, pazienza.
    Dopotutto, era quasi ovvio che il Re degli Elfi l’avesse raggiunta di nascosto… sempre che l’avesse fatto davvero e la mente non le stesse solo giocando un brutto scherzo. Anzi, forse sperava fosse così, anche se in cuor suo già aveva inteso che ciò che era successo quella notte era terribilmente reale.
    -Potresti passarmi da bere, per favore?- Chiese al compagno, alzando lo sguardo. L’altro la servì, contento che lei stesse abbastanza bene da muoversi con facilità. Sillen bevve avidamente, sentendo l’acqua fresca scenderle lungo la gola dolorante. Respirò a fondo, colpita dal violento reagire del proprio stomaco: -Ho una fame tremenda.- Ammise, sorridendo mesta. Glorfindel batté le mani sulle gambe, soddisfatto: -Bene! Questo è bene! Vado subito a cercare qualcosa di sostanzioso. Vestiti, gli altri saranno felici di vederti sveglia.-
    Lei si alzò a sua volta, saggiando la resistenza delle proprie gambe. Era stabile ma ancora decisamente troppo debole per i suoi standard. Aggrottò le sopracciglia, concentrandosi ma ancora una volta non riuscì a focalizzare il proprio potere: -Che strano…- Sussurrò, sovrappensiero. Voltandosi, trovò Glorfindel ancora fermo sulla soglia, intento a osservarla con un’espressione apertamente preoccupata sul viso chiaro.
   Sillen ricambiò lo sguardo, alzando un sopracciglio con fare interrogativo: -Va tutto bene?-
    L’altro si riscosse e scrollò la testa, indossando nuovamente un sorriso rassicurante: -Oh sì. Perdonami.- E si allontanò nel corridoio spoglio, senza aggiungere altro. La stella si frizionò le braccia gelide, ancora confusa.
    Perché l’elfo la stava fissando in quel modo?
    Aveva qualcosa di strano sul viso?
    Si diresse a passi strascicati verso la specchiera, dove trovò due grandi candele bianche, quasi del tutto consumate. Le ignorò cocciutamente, tentando di non far volare i proprio pensieri verso il Re degli Elfi.
    Avrebbe avuto tempo per cercarlo e discutere con lui, era inutile crogiolarsi nel rancore.
    Il suo viso si rifletté senza pietà nello specchio e Sillen ne fu disgustata: un enorme livido violaceo le deturpava lo zigomo sinistro; la mandibola, a destra, riportava un taglio netto e arrossato, che iniziò ben presto a pruderle con insistenza; le labbra erano gonfie e secche e gli occhi, lucidi per via del lungo sonno, le parvero spenti e senza vita.
    Sospirò, sfiorando la collana in mithril.
    Dopotutto, era già fortunata ad essere ancora viva.
    Si avvicinò ancora un po’ alla superficie riflettente, osservando le iridi viola dei propri occhi. Strano.
    Li ricordava più chiari. Più… luminosi.
    Un rumore improvviso alla sua destra la fece voltare di scatto, il cuore in gola. Era rimasta sola in camera, giusto?
    Scrutò la stanza, vuota come doveva essere e deglutì.
    Un rumore tintinnante, poi, le fece abbassare lo sguardo e si trovò a reprimere un brivido quando, sul pavimento, vide rotolare verso di lei il bicchiere di vetro spesso, proprio quello che aveva usato per bere solo pochi minuti prima. Chiuse gli occhi, dandosi della stupida: forse lo aveva solo posato male, per questo era caduto.
    Si rivolse nuovamente allo specchio e, improvvisamente, lanciò un urlo agghiacciante, terrorizzata da ciò che vi trovò riflesso. D’istinto, tirò un rapido pugno contro lo specchio, che si crepò all’istante in mille schegge aguzze.
    Sillen si girò di scatto, cercando febbrilmente quella presenza nella stanza ma ancora una volta non vide niente. Scivolò a terra, ansimante, tremando come una foglia e nascondendo il viso tra le mani. -...non è reale, non è reale, non è reale...- Ripeteva, come se quel mantra potesse allontanare ciò che la sua mente si rifiutava di elaborare.
    Nello specchio, dietro di lei, aveva visto sé stessa.
    Ma non come appariva nel momento corrente: il riflesso dietro di lei indossava ancora l’armatura in mithril, ricoperta di sangue e melma nera, i capelli malamente raccolti nella coda sfatta, il viso sfregiato e sporco di cenere grigiastra.
    E gli occhi erano innaturalmente spalancati, di pura luce bianca. Quella, l’altra, l’aveva fissata come se fosse pronta ad ucciderla con un solo, crudele gesto. E lei aveva avuto paura, una paura sorda, viscerale, primordiale.
    Quando fu certa di avere ancora un barlume di controllo sulle proprie facoltà mentali, Sillen si alzò lentamente, respirando a fondo. Era solo stanca, l’immaginazione le giocava brutti scherzi, si disse. Diede volutamente le spalle alla specchiera, ignorando il tremore che le scuoteva le spalle. Con gesti misurati, tolse la veste bianca. Si lavò, indossò le brache di pelle scura e la camicia candida, rinunciando alle placche addominali che, altrimenti, le avrebbero compresso il costato ancora dolorante. Infilò gli stivali, scavalcò il bicchiere ancora a terra e s’incamminò lungo il corridoio, senza guardarsi indietro.

 
**

    La Stella dei Valar non riusciva quasi a deglutire e le pareva di essere sveglia da innumerevoli anni, mentre si trovava nelle cucine da meno di un’ora.
    Glorfindel, servendole da mangiare, le aveva raccontato della sparizione di Alatar, sicuro che lei volesse esserne informata prima possibile. La cosa non aveva fatto altro che trascinare la stella un po’ più a fondo, nel baratro dei propri, cupi pensieri.
    Alatar se n’era andato di sua iniziativa?
    Era tornato da suo fratello?
    Era stato catturato?
    Nessuno aveva potuto dirlo con sicurezza, data la scarsità di prove. L’unica cosa certa era che non si trovava più a Minas Tirith. E che, forse, non l’avrebbero mai più rivisto.
    Dei passi frettolosi risuonarono nelle cucine. -Sillen!-
    Apparso dal corridoio davanti a loro, Re Elessar corse incontro alla stella, senza badare alla decenza.
    Questa si riscosse, sbalzata fuori dalla trance inquieta nella quale era caduta, e il suo viso riacquistò un poco di colore. Si alzò dal tavolo, sollevata nel vedere il Re degli Uomini in piena salute.
L’uomo la abbracciò di slancio, assestandole pacche vigorose sulla schiena: -Non hai idea di quanto io sia felice di vederti in piedi. Devi smetterla di finire in coma.-
    Lei tossì, dolorante: -G-grazie Elessar, anch’io sono felice di vederti.- Lui la prese per le spalle, fissandola negli occhi con uno sguardo di tenero rimprovero: -Hai idea del rischio che hai corso, comportandoti in quel modo? Glorfindel ha detto che se ti fossi fermata un solo secondo dopo, saresti morta!-
    La stella abbassò istantaneamente lo sguardo, stringendo i pugni per soffocare l’angoscia che le attanagliò il petto. -Di certo non potevo lasciarti morire a causa dei miei terribili sbagli…-
    Il Re di Gondor e di Arnor sentì il sorriso morire sulle proprie labbra e si zittì, aggrottando le sopracciglia: -Sbagli? Di cosa parli, Sillen? Abbiamo vinto la battaglia!-
    La giovane si scostò, massaggiandosi la fronte.
    Era giunto il momento, dunque. Avrebbe dovuto confessare.
    -Ci sono alcune cose di cui devo parlarvi e vorrei che foste tutti quanti presenti, quando lo farò.- Spiegò. -Quindi, convoca gli alleati nella Sala del Trono.- Gli fece, seria.
    Preoccupato dal tono freddo della stella, Elessar fece quanto gli era stato detto ma solo dopo averla abbracciata un’altra volta ancora: -Ma certo, tu non agitarti. Ci penso io. Abbiamo tanto di cui parlare.- La rassicurò, ripensando anche alla faccenda dei frammenti del Palantir. Era meglio raccontarle tutto subito, si disse, scambiandosi uno sguardo d’intesa con l’elfo dorato.
    Sillen sorrise, guardandolo uscire, poi tornò accanto a Glorfindel, per costringersi a mangiare ancora un po’.
    Lo sorprese nuovamente intento a fissarla con quell’aria mortalmente seria e preoccupata: -Che cosa c’è?- Lo apostrofò, scoccandogli un’occhiataccia e infilandosi un pezzo di pane in bocca. L’elfo dorato non rispose, limitandosi a distogliere lo sguardo e questo sorprese la stella, che invece si aspettava una qualche sardonica risposta nel suo stile.
    Prima che potesse dire altro, però, fu il turno di Legolas di irrompere nella stanza, guardandosi attorno. Quando Sillen incontrò il suo sguardo, lo vide accendersi di gioia: -La Stella dei Valar è viva!- Esclamò lui, ridendo.
    Contagiata dal suo buonumore, l’altra lo strinse con sincero affetto: -Per fortuna anche tu, amico mio.- Nell’abbraccio, Legolas abbassò il tono della voce, in modo che solo lei potesse sentirlo: -Ti ringrazio per quello che hai fatto per Aragorn. La tua generosità non ha limiti. Siamo tutti estremamente ammirati.- Era commosso e felice e a Sillen parve di morire dentro, a causa del senso di colpa che quelle parole le ricordarono.
    Si morse il labbro, a disagio: -Ti prego, non ringraziarmi, Legolas.- Cambiò subito discorso, guardando entrambi gli elfi.
-Piuttosto, dove sono i soldati del Reame Boscoso?-
    Glorfindel storse la bocca, a quella domanda: -Thranduil si è appropriato della Cittadella, rifiutandosi di accamparsi nei Campi come tutti gli altri. Poco male, per fortuna le mura sono abbastanza spesse da non sentire gli schiamazzi di quei rozzi elfi silvani.- Legolas lo fulminò con un’occhiata tagliente:-Ti ricordo che sono stati loro a permetterci di vincere la battaglia.-
    L’altro ignorò il suo malumore, alzando teatralmente gli occhi al cielo. -Già, tuo padre non va forse ripetendolo all’infinito?-
    Prima che Legolas potesse assestare un ben poco giocoso pugno in faccia all’elfo dorato, Sillen s’interpose tra i due, alzando le mani: -Va bene, va bene! Avremo tempo per parlare anche di questo. Ho convocato un’assemblea d’urgenza, Legolas. Ormai Elessar avrà avvertito gli altri, dovremmo andare.-
    L’elfo biondo annuì, ignorando finalmente il sorridente Glorifindel, ancora divertito dalle sue spontanee reazioni.
    Così, i tre compagni raggiunsero la Sala del Trono, rallentati dall’andatura stabile ma ancora irrigidita della stella.
    Ancor prima di aprire la pesante porta di legno, un vociare concitato travolse i presenti, che si scambiarono occhiate confuse. Che stava succedendo lì dentro?
    Una volta spinta la porta, Sillen fu investita da esclamazioni e urla di giubilo e si guardò attorno, sorpresa. L’atmosfera nella stanza era festosa e allegra e gli alleati si battevano amichevoli pacche sulle spalle, abbracciandosi e bevendo da grossi boccali stracolmi di alcolici. La accolsero con urla assordanti: -Evviva la Stella dei Valar! Vittoria agli Alleati!-
    Éomer, visibilmente alticcio nonostante fosse ancora mattina, le barcollò davanti, circondandole le spalle con il pesante braccio: -Ecco la nostra signora! Appena abbiamo saputo del tuo risveglio, abbiamo ordinato di stappare il vino migliore!-
    Faramir, da qualche parte tra la folla, gli diede man forte:
-Discorso! Vogliamo sentire il discorso della Stella dei Valar!-
    Sillen era incredula. -M-ma la Torre di Ecthelion-
    Elessar allargò le braccia, ridendo: -Se era questo a preoccuparti, non è importante! Le torri si possono ricostruire, le mura riparare. Ciò che importa è che abbiamo vinto e le perdite subìte sono inferiori a quanto mai avremmo potuto sperare!-
    -Ed è solo grazie a te, Sillen!- Rincarò la dose Re Thorin III Elminpietra, raggiungendoli: -I Valar non avrebbero potuto regalarci una benedizione più splendente di te.- Le fece, galante.
    La stella sentì la gola serrarsi per l’imbarazzo: stavano tutti festeggiando, con che coraggio avrebbe potuto guastare la loro allegria?
    Si schiarì la voce, cercando di raggiungere il Trono rialzato. Si fece debolmente largo, tra pacche amichevoli e abbracci improvvisi, stordita dallo schiamazzo generale. Salì qualche gradino, in modo che tutti potessero vederla: -Silenzio, silenzio!- Esclamò, nonostante la sua voce a malapena riuscisse a raggiungerli.
    Gimli salì a sua volta qualche gradino, urlando: -SILEEEENZIO- con voce tanto potente da far traballare i lampadari di ferro battuto.
    Tutti quanti sussultarono, voltandosi verso di loro.
    -Grazie Gimli.- Sorrise Sillen, riconoscente.
    L’altro ghignò soddisfatto: -Questo ed altro, mia signora!- E zompettò di nuovo tra la folla improvvisamente silenziosa.
    Con gli occhi di tutti addosso, Sillen si schiarì la voce, assumendo un’espressione grave: -Abbiamo vinto la battaglia, questo è innegabile.- Un coro di consensi allegri si sollevò nuovamente ma, questa volta, quando la stella sollevò le mani per chiedere silenzio, tutti la assecondarono. -Tuttavia, ci sono delle cose che devo confessare. Ho commesso dei grossi errori di valutazione, cercando di fronteggiare un nemico che a malapena conoscevo. Ho sottovalutato la situazione e per questo vi chiedo scusa. Minas Tirith e i nostri compagni caduti hanno pagato, a causa della mia inettitudine.- Ammise, con tono carico di sofferenza.
    -Temo che questa battaglia, in vero, sia stata una prova da parte del nemico, per studiare la nostra forza. Pallando e i suoi servi non si sono esposti, hanno solo voluto tastare il terreno. Un prossimo scontro di certo ci annienterebbe, ora come ora.-
    Il silenzio rispettoso degli alleati si era nel frattempo tramutato in un brusio confuso e a tratti irritato.
    -Che cosa stai cercando di dirci, Stella dei Valar?- Esclamavano.
    -Sii chiara, cosa avremmo sottovalutato noi, eh?-
    Lei fece segno a Glorfindel, che si avvicinò: -Tu sai dei frammenti del Palantir, non è vero? Li avevi con te in camera, poco fa.-
    L’altro strabuzzò gli occhi: -Come sai dei frammenti? Eri ancora incosciente o sbaglio?-
    La stella sospirò e gli fece segno di sbrigarsi: -Mi hai svegliata, con il tuo chiacchiericcio. Ti ho sentito. Forza dammeli!-
    L’elfo, sorpreso e quasi divertito, ubbidì, e lei sollevò il bottino davanti ai presenti: -Vedete questi piccoli pezzi di vetro? Ebbene, Pallando controllava il suo esercito attraverso essi. Uno solo bastava per muovere più di cento non morti.-
    Thorin sollevò il pugno: -Bene! Ora sono in mano nostra!-
    Ma Sillen scosse la testa e i capelli corvini le oscurarono il viso tumefatto: -Ne possiede a dozzine.- Quella sola frase bastò per far calare il gelo sulla folla.
    Elessar, Legolas, Gimli e Glorfindel si scambiarono sguardi confusi: nessuno di loro aveva parlato con la stella, come poteva lei esserne a conoscenza?
    In ogni caso, questa stava per rispondere alle loro domande, in un modo che proprio non si aspettavano: -Pallando è apparso come illusione davanti a me, durante la battaglia. Si è riappropriato dei frammenti dei non morti e, oltre a questi pochi rimasti in mano nostra, non ha subìto alcuna effettiva perdita. Può controllare altre nuove pedine a suo piacimento, i non morti non gli erano cari. I suoi servi, elfi oscuri di cui non ero a conoscenza, sono esseri potenti e imprevedibili.-
    Le sue parole correvano tra i presenti come fumi velenosi, che cominciarono a irretire gli uomini uno dopo l’altro.
    Sillen percepiva i loro sguardi farsi più pungenti ma era decisa a continuare: -Uno di loro è padrone delle illusioni mentre l’altro, colui che ho affrontato sul campo di battaglia, maneggia i veleni e pare essere invulnerabile ad ogni attacco. È stato lui a ridurmi in questo stato.-
    Elessar, in prima fila, la osservava con il terrore negli occhi e lei si sentì sempre più affranta: -L’aquila che si è precipitata sulla Torre di Ecthelion non era cosciente, era già morta. Se quanto Pallando dice è il vero, non ci sono limiti a ciò che i frammenti possono controllare. E noi non abbiamo il potere di fermarli.-
    A quel punto, Glorfindel si fece avanti, speranzoso: -Io non sono riuscito a distruggerli ma forse, se proviamo insieme, c’è una possibilità!- La raggiunse, salendo alla sua altezza. Chiuse le mani intorno a quella di Sillen, che ancora stringeva i frammenti.
-Concentrati, usa il tuo potere.-
    Sillen lo guardò negli occhi, dispiaciuta: -Sai che non ci riesco.-
    L’altro si fece incoraggiante, nonostante la preoccupazione gli avesse già velato lo sguardo: -Devi provarci…- Ma Sillen tolse la mano, ammettendo anche a sé stessa quella terribile realtà.
    -Non percepisco più il mio potere.- Dichiarò, con voce alta e chiara, mentre il petto le doleva e le lacrime le offuscavano la vista.
    Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
    I presenti cominciarono a urlare, sconvolti e infervorati dall’alcool. Tutto precipitò nel caos.
    Glorfindel non distolse lo sguardo dalla stella, consapevole che, infine, i suoi timori erano fondati: Sillen aveva rinnegato il suo potere in favore della salvezza di Elessar. Adesso, quel potere si era esaurito, come equo scambio per la vita dell’uomo.
    Svanito per sempre.
    In quel momento però, le porte della Sala del Trono si spalancarono, lasciando entrare una ventata d’aria calda e soffocante, che zittì i presenti.
    La folla si divise in due ali, con riverenza, mentre la figura imponente di Thranduil si stagliava contro il cielo terso di Gondor. Avanzò nella sala, il lungo strascico dell’abito rosso scuro che ondeggiava sul pavimento di marmo. Galion, dietro di lui, reggeva una scatola di spesso metallo, foderata di tessuto nero e fissava con evidente disprezzo gli uomini lì accanto.
    Il Re degli Elfi calamitò l’attenzione di tutti, splendente e solido come se fosse scolpito nel più prezioso dei metalli.
Sillen riacquistò un minimo di contegno, sollevando il mento.
-Thranduil.-
    Il viso spigoloso dell’elfo si contrasse lievemente, anche se nessuno parve accorgersene. Sentir pronunciare il suo nome da quella voce morbida era una tortura ma s’impose di rimanere calmo: nulla doveva trasparire dalla sua immagine austera e degna di rispetto. Nemmeno una volta osò ricordare ciò che era avvenuto quella stessa notte, solo poche ore prima.
    La stella teneva i grandi occhi viola fissi nei suoi, senza ritegno: sembravano enormi sul suo viso tirato, pensò lui. Ne fu sconvolto, così come la prima volta che l’aveva rivista su quel letto pieno di coperte.
    E ancora una volta, le sue considerazioni furono le stesse di allora. Lei era cambiata, non era la stessa stella che aveva raccolto a Bosco Atro: aveva perso peso, la pelle dorata, segnata e ferita, era tesa sulla muscolatura asciutta; i capelli neri erano scompigliati e opachi, le labbra piene erano strette e rigide.
    In quegli occhi viola, l’elfo riusciva a leggere la sua preoccupazione, i suoi pensieri cupi ma non vi trovava più un singolo barlume dell’ardore di un tempo. Qualcosa pareva essersi spento in lei, come se adesso, dinanzi a lui, ci fosse solamente una semplice ed inutile umana.
    E lui non aveva fatto niente per impedire quella trasformazione, non aveva nemmeno assistito a essa: si sentiva in qualche modo derubato.
    -Stella dei Valar.- Le fece, immobile e inespressivo come una statua.
    Sillen detestava ammetterlo ma si era aspettata un incontro diverso, con il Re degli Elfi. Molto diverso.
    Come nella sua stanza, di nuovo il suo cuore batteva all’impazzata ma l’aria attorno a lei era tesa e fredda come il ghiaccio, che sembrava riversarsi direttamente fuori dagli occhi seri di lui. Non vi era più traccia di quel calore vivo che l’aveva avvolta nella notte, prima che lui le sputasse in faccia la verità.
    Invece lei, maledizione, si sentiva rinascere. Per quanto i suoi pugni fossero serrati, avrebbe voluto gettargli le braccia al collo; per quanto le sue labbra fossero immobili, avrebbe voluto confessargli a voce alta tutti i suoi sentimenti.
    Ma non avrebbe fatto niente, perché lui era lì solo per il potere. Che strano capovolgimento degli eventi.
    Semplicemente, Thranduil le aveva promesso che le avrebbe fatto rimpiangere le sue azioni avventate e adesso manteneva fede alla sua promessa.
    Il Re degli Elfi, conscio di aver tutta l’attenzione dei presenti su di sé, alzò la voce: -Mettete i frammenti in questo scrigno. Non vorrete che lo Stregone senta tutto ciò che dite.- L’evidenza della loro superficialità fece chinare la testa a tutti e Sillen stessa si maledisse da sola: come diamine avevano fatto a non pensarci?
    In fretta, un elfo della guardia di Bosco Atro recuperò i frammenti, riponendoli con cura nella scatola che Galion reggeva tra le mani pallide. Una volta isolati questi, Thranduil continuò.
    -Da quanto ho compreso, Sillen, oltre ad aver agito imprudentemente ti ritrovi priva dei tuoi poteri.-
    Come se ci fosse bisogno di sottolinearlo.
    Gli alleati annuivano, concordi con il suo disappunto ed Elessar aggrottò le sopracciglia, interrogando Legolas con lo sguardo. Questo scosse il capo: nemmeno il figlio aveva idea di cosa suo padre stesse escogitando.
    Sillen strinse gli occhi a due fessure: -Sì, è esatto. Ebbene? Il saggio Re del Reame Boscoso ha forse qualche prezioso consiglio da darmi?- Il suo tono irriverente non passò inosservato e tutti i presenti si agitarono, aspettandosi chissà quale scontro verbale tra i due. Invece, Thranduil lasciò cadere la provocazione, dando mostra di una grande padronanza di sé.
    -Il Palantir è un oggetto potente ma non per questo impossibile da neutralizzare.-
    Thorin avanzò di un passo, schierandosi davanti alla stella come se potesse proteggerla da tutto l’astio che aleggiava nella sala: -E si dia il caso che tu sappia come fare, non è vero? Parla chiaro, Re elfo.- Alzò la voce.
    L’altro nemmeno lo guardò, rivolgendosi invece alla folla: -Per l’appunto, io conosco un modo per renderlo inutilizzabile.- Disse, semplicemente. Elessar affiancò il Re sotto la Montagna, lo sguardo severo. Non gli piaceva come Thranduil s’imponeva in quel modo nel suo Regno, nella sua casa, e già aveva dovuto ingoiare il boccone amaro quando quello aveva autonomamente deciso di insediarsi nella Cittadella: -Allora ti prego di rivelarcelo.-
    Thranduil si voltò finalmente verso di loro, tra i commenti ammirati e fiduciosi dei generali e dei soldati alleati. Persino Éomer, che non provava simpatia per gli elfi del Nord, esultò verso il più pensieroso Faramir.
    A Sillen fu subito chiaro quale fosse l’intento dell’elfo davanti a lei: ignorandola, stava cercando di oscurarla, emarginarla, escluderla, per sottrarle l’influenza che esercitava sugli alleati.
    Beh, ci stava riuscendo, grazie a meriti reali e tangibili che, per quanto le costasse ammetterlo, lei di certo non aveva.
    Forse, lasciare le cose nelle sue mani era la scelta migliore.
    La stella abbassò lo sguardo, stanca: era diventata davvero inutile, alla fine. Il ciondolo donatole dai Valar le pesava sul petto come un macigno inanimato, sterile e freddo.
    Tutto di lei era diventato freddo e rigido.
    Thranduil non la guardò più, neppure una volta, mentre si apprestava a spiegare ciò che sapeva: -Esiste uno dei Palantiri ancora intatto, ma assolutamente inservibile, proprio sepolto qui a Minas Tirith. Spero che qualcuno di voi ancora ricordi la sua storia. Esso non era diverso da quello ora usato da Rómestámo [1] e svolgeva le identiche funzioni. Perse del tutto efficacia quando quell’inetto del sovrintendente Denethor[2] si arse vivo, stringendolo tra le mani.-
    Legolas vide il volto di Elessar sbiancare e corse al suo fianco:
-Aragorn…- Ma l’altro scosse la testa, vacillando appena. Aveva compreso ciò che l’elfo stava per dire e la cosa lo disgustava.
    Sentì i brividi attraversargli la schiena quando la voce di Thranduil concluse la terribile rivelazione: -Lo stregone lo usa per animare i morti. Perché? Non potrebbe forse animare anche i vivi? Certo che sì. Ma questi corrono il rischio di essere uccisi in battaglia, durante il contatto con il frammento, dico bene? Questo è il motivo per cui li usa solo su esseri già morti: l’unico modo per annullare le capacità del Palantir è legarlo a una morte diretta. Dopodiché, la pietra mostrerà solo gli ultimi secondi di vita del disgraziato, niente di più.-
    Gli alleati confabularono tra loro, confusi, ma solo Elladan, il Principe di Gran Burrone, osò parlare: -Dunque, per annullare il suo potere, stai consigliando di usare il frammento su qualcuno di vivo per poi ucciderlo?-
    Thranduil lo guardò con una serietà tale da gelargli il sangue.
    -Esattamente.-
    Sillen strinse i pugni, sentendo la rabbia montare irrefrenabile nel petto: -Quello che dici non ha senso. Sarà sufficiente custodirli in un luogo isolato, proprio come tu stesso hai fatto ora.- Ma Thranduil era preparato a contrastare quelle deboli obiezioni. -Sì, per qualche tempo si possono custodire. Poi, chi può assicurarci che nessuno tenterà di sottrarli e utilizzarli nuovamente? Se lo stregone ha appreso questa magia oscura, non credi che anche altri potrebbero?-
    Nella sala si levò un brusio di assenso, a quelle parole. -Non sono certo di quanti frammenti possa sopportare una sola persona perché l’operazione abbia effetto. Se siamo fortunati, si sacrificheranno in pochi. Dovremmo fare delle prove con i frammenti che abbiamo.- Dichiarò, nonostante l’opzione che stava proponendo fosse a dir poco crudele.
    Sillen sentì la testa vorticare, lo stomaco contorcersi e si piegò su sé stessa, nauseata.
    Quello non poteva essere Thranduil, il suo Thranduil.
    In un breve attimo, incontrò il suo sguardo di ghiaccio e il dolore e la terribile furia che vi lesse le mozzarono il fiato.
    Ancora una volta, sentì che era solo colpa sua: aveva incautamente risvegliato il lato più oscuro e selvaggio dell’elfo che amava.



 
[1] Rómestámo: è il nome in lingua Quenya dello stregone Pallando. Significa letteralmente "Salvatore dell'Est". A proposito di nomi: Saedor vuol dire “veleno/veleni” (saew, pl. invariato) e Lhospen significa “sussurro” (lhoss, pl. lhyss), in lingua Sindarin.
 
[2] Sovrintendente Denethor: tutti ricordiamo l’esito della follia del padre di Faramir e Boromir, morto bruciando tra le fiamme da lui stesso appiccate. In quel momento stringeva tra le mani il Palantir di Minas Tirith, dove Sauron gli aveva mostrato il proprio terribile potere per così tante volte da fargli perdere il senno. Da quel momento in avanti, chiunque scruti nella pietra veggente vedrà solo due mani arse dal fuoco.

 


N.D.A

​Ciao a tutti, bentrovati!

Che pesantezza questi capitoli T^T Non odiatemi, la storia andrà avanti, vedrete! Sono molto provata dalle vicende che stanno accadendo ai protagonisti ma nella mia mente è tutto sensato, prima o poi la trama verrà degnamente spiegata, lo prometto L
Fatemi sapere cosa ne pensate e anche se vorrete essere severi, critici o contrariati, sarò felicissima di leggere le vostre parole :3
E niente, per questa settimana la mia dose di tristezza è qui XD

Spero di rivedervi nel prossimo capitolo!

Con tanto affetto,
Aleera
 

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Capitolo 27
*** L'entanotizia ***


 
-L'entanotizia-


    Gli alleati discutevano ormai da diverse ore, mediati da Re Elessar, visibilmente stanco.
    La supposizione di Thranduil, per quanto terribile, era stata accolta da tutti come una scomoda verità, che giungeva a loro in tempi di crisi. Proprio per questo era credibile, persino accettabile: nessuno, infatti, si sarebbe aspettato un risvolto allegro, né di semplice esecuzione.
    E mentre i suoi compagni tentavano di sedare la foga dei soldati, Sillen non aveva potuto far altro che rimanere a guardare, divorata dal sentimento d’impotenza che la imprigionava in quella scomoda situazione.
    Litigare su chi si sarebbe dovuto sacrificare era assurdo e non avrebbe portato a nulla.
    Thranduil, dopo aver detto la propria, aveva ignorato il fastidioso teatrino e si era comodamente sistemato nella zona rialzata, sul Trono più basso: era abbastanza arrogante da prendere il posto che un tempo apparteneva ai Sovrintendenti, ma di certo non era tanto irrispettoso da occupare il Trono del Re degli Uomini. 
    Per ora, pensò Sillen, fissandolo di sbieco attraverso la sala gremita di uomini urlanti.
    Più rifletteva su come trovare una via d’uscita da quel disastro, più si convinceva che sarebbero andati incontro alla sconfitta: forse, seguendo il piano di Thranduil sarebbero riusciti a sottrarre e distruggere tutti i frammenti del Palantir, uno alla volta.
    Ma quante vite avrebbero dovuto sacrificato nel frattempo?
    Quanta distruzione avrebbe portato lo stregone Blu?
    Non potevano vincere con archi e spade, avevano bisogno di un piano, di una soluzione efficace. Ovunque si trovasse in quel momento, Pallando sapeva di essere in vantaggio e loro non potevano permettersi di perdere tempo.
    In quel momento, un clangore metallico risuonò nella sala, attirando l’attenzione di tutti. Si formò un ampio spazio vuoto nella stanza, attorno ad alcune figure. Sillen sgomitò per controllare cosa fosse successo e, quando raggiunse le prime file, sentì la gola serrarsi per la tensione.
    Elessar aveva sguainato Andùril e stava trattenendo un più che furioso Thorin, deciso a fare a pezzi qualcuno.
    -Calmati amico mio! Non è in questo modo che migliorerai la situazione!- Ordinò Elessar, le braccia che tremavano nello sforzo di respingere la lama della pesantissima ascia del Re nanico.
    Questo teneva lo sguardo fisso oltre le spalle del Re, i muscoli tesi e gli occhi arrossati dall’ira: -No, certo! Ma che io sia dannato se non sarà il modo di far rimpiangere a quell’elfo d’aver osato tanto!- Urlò, rivolto nientemeno che a Elladan, il Principe di Imladris. L’elfo dalla chioma nera rimase composto e silenzioso, lo sguardo rivolto altrove, mentre il fratello tentava di prendere le sue difese: -Nobile Re dei Nani, cerca di capire le parole del mio congiunto. Noi siamo-
    -Non m’importa un accidenti di cosa siete! Che ripeta quelle stesse parole alla Stella dei Valar, se ha il coraggio!- Lo interruppe Thorin, facendo finalmente scivolare la propria ascia verso il basso. Essa strisciò sul pavimento di marmo, producendo minacciose scintille e Re Elessar fece un passo indietro, respirando a fondo per il sollievo e la fatica.
    Sillen guardò prima loro, poi i due elfi, che si erano avvicinati con fare dispiaciuto. Nel silenzio, la voce di Elladan risuonò fin troppo chiara: -Ho osato supporre che la Stella Sillen non sia stata affatto mandata dagli onorevoli Valar.- ammise.
    -Avendo ella perso il suo potere con tanta facilità.- Concluse Elrohir, per lui.
    Thorin sputò ai loro piedi, allontanandosi con passi pesanti, l’ascia malamente posata sulla spalla: -Non starò qui ad ascoltare i discorsi di questi maledetti folletti.- Ringhiò, superando la stella.
    Sillen lo lasciò passare con un cenno di gratitudine ma sostenne gli sguardi grigi dei due elfi, assorbendo l’ennesima riprova del suo fallimento.
    Non alzò la voce, non sollevò il mento, quando rispose: -I Principi di Gran Burrone sono saggi. In effetti, anche a me piacerebbe credere in questo, piuttosto che ammettere di aver fallito nella mia missione e aver deluso i Valar.-
    Attorno a lei, alcune voci sussurravano assensi: la stella non si era rivelata all’altezza ma forse era colpa di un errore di valutazione da parte dei Valar stessi.
    Povera giovane, povera ragazzina, non era tutta colpa sua.
    Quelle voci le fecero più male degli insulti.
    Solo in quel momento, Elessar prese nuovamente la parola.
    Camminava lentamente nello spazio vuoto in mezzo alla sala, la testa bassa: -Con tanta facilità…- Sussurrò, rigirandosi la spada tra le mani. L’attimo dopo, Andùril venne conficcata con violenza nel pavimento di marmo, producendo uno schianto spaventoso.
    Le prime file saltarono all’indietro, incredule, mentre il Re degli Uomini ansimava per lo scatto. Si risollevò lentamente, puntando gli occhi carichi di disprezzo verso ognuno dei presenti: -Con tanta facilità dite. Sillen ha perso i suoi poteri combattendo come tutti voi! E che motivo aveva per farlo!? Era forse costretta?- Tirò via la spada dal pavimento e la sollevò, puntandola verso i due elfi gemelli: -Volete sapere la verità, razza d’ingrati? Sillen ha perso i poteri per colpa mia. Ha rinunciato a essi per salvare me. Che cosa avete da dire adesso!?- Li riprese, severo.
    Sillen sollevò una mano: -Lascia stare, Elessar. Niente di tutto questo ha importanza.- Elessar abbassò la spada con sguardo minaccioso ma le si avvicinò, allontanandosi dagli elfi: -Già, ma ciò non toglie che io stia dicendo la verità. E sono terribilmente dispiaciuto per quello che ti ho fatto, Sillen. Ti chiedo perdono… Avrei dovuto farlo prima.- E dette quelle parole, si lasciò cadere in ginocchio dinanzi a lei, chinando la testa.
    Lo sgomento pervase gli astanti, che fissarono il loro stesso Re compiere quell’umile gesto da semplice suddito.
    Sillen, a disagio, prese velocemente Elessar per un braccio, cercando di farlo alzare: -Ti prego, tirati su! Elessar?- Ma l’altro non le diede ascolto, assolutamente serio: -Stavo morendo, Sillen. Senza il tuo sacrificio, io non sarei qui. Non nascondo di esserne felice e anche per questo devo chiedere il tuo perdono.-
    La stella sbuffò, lasciandolo con stizza. -Ma sentilo… Bene, se le cose stanno così…- S’inginocchiò a sua volta, lo sguardo altrettanto serio: -Chiedo perdono anch’io, Re degli Uomini. Forse, per salvare te, ho condannato tutti noi. Ti fa sentire meglio?- Elessar si alzò in fretta per tirarla nuovamente in piedi.
Le sue labbra si erano lievemente piegate verso il basso, segno che le parole della stella avevano centrato il segno.
    Lei sospirò profondamente e spazzò i pantaloni, per nulla pentita di avergli ricordato quell’angosciante verità: -Vedi? Non è meglio parlare così?-
    Il Re annuì, incontrando il suo sguardo: -Certo che sei proprio crudele.- Le fece, tranquillizzandosi.
    Sillen gli strinse la spalla, accennando un sorriso: -Temo dovremmo abituarci. Il futuro non è dei più rosei.-
    Legolas sospirò dal sollievo, notando quanto i gesti dei due compagni avessero calmato il fermento degli alleati. Sfruttando il momento, sollevò le braccia, alzando la voce: -Tornate ai vostri accampamenti, tutti voi! Domani decideremo il da farsi.- E finalmente tutti si lasciarono convincere ad abbandonare la Sala del Trono, ancora frastornati e deplorevolmente ubriachi.
    Thranduil, che aveva ascoltato ogni singola parola dalla sua posizione rialzata, si alzò a sua volta, attardandosi solo qualche attimo: -Ammiro la tua sincerità, Re degli Uomini.- Si rivolse ad Elessar, freddamente: -Confido però che tu abbia il buon senso di lasciare la Stella fuori dalla questione, d’ora in avanti.-
    Sillen strinse i pugni, trovando insopportabile l’essere ignorata in quel modo da lui. Sapeva che non avrebbe dovuto togliere la parola al Re degli Uomini ma la voce le uscì prima che potesse realizzare ciò che stava dicendo: -Ho il diritto di partecipare, anche se i miei poteri sono andati perduti. E quello che faccio o non faccio non ti compete.-
    L’elfo tornò a dirigersi verso l’uscita, superandoli. Parlò da sopra la spalla, con noncuranza: -Non voglio un peso in battaglia. Per il resto, fa’ come vuoi. Ma non intralciarmi.-
    Galion lo seguì diligentemente, lanciando occhiate soddisfatte alla stella: -I frammenti del Palantir li terremo noi, ovviamente.- Aggiunse, prima di sparire a sua volta oltre il portone.
    Elessar e Sillen li guardarono allontanarsi, più scoraggiati che mai. Legolas li affiancò con sguardo affranto e Gimli, poco dietro di loro, si appoggiò alla sua ascia, sbuffando: -Risolveremo tutto anche questa volta, vedrete. Siamo abituati ad avere bassissime probabilità di successo, non è così?- Tentò di rassicurarli, ma il tono carico di apprensione che tinse la sua voce non riuscì a consolare proprio nessuno.
 

 
**

    Glorfindel superò il marasma di corpi elfici assembrati nelle Sale della Cittadella, tentando di raggiungere il cuore di esse.
    Thranduil aveva lasciato che i soldati del suo esercito si appropriassero delle stanze e degli ampi corridoi dei primi livelli, rendendoli un labirintico e rumoroso accampamento, impossibile da evitare.
    Glorfindel però sorrideva, divertito dalla reazione che il suo solo passaggio provocava in quegli elfi silvani che lui considerava tanto rozzi.
    Occhi intrisi di sospetto lo osservavano avventurarsi in quel territorio a lui ostile: ai Nandor non piacevano i Vanyar[1] e viceversa, era cosa ormai risaputa, e nessuna delle due parti avrebbe di certo fatto alcunché per celarlo. Infatti, come per sottolineare la sua appartenenza alla stirpe Vanyar, la luce delle torce si rifletté senza filtri sui capelli d’oro dell’elfo di Imladris, senza che lui facesse niente per impedirlo.
    Subì con soddisfazione le occhiate taglienti dei soldati di Bosco Atro e ignorò i loro commenti, resi ancora più fastidiosi dal duro accento Nandorin[2]. Con estrema calma, raggiunse l’ala est, dove Thranduil aveva fatto allestire le proprie stanze. Due elfi silvani gli sbarrarono la strada con le lunghe lance, lo sguardo duro:
-Mankoi naa lle sinome, Glorfindel Cala’quessir? (Perché sei venuto qui, Glorfindel l’Alto Elfo?)-
    Quello sorrise, irriverente: -Sono qui per vedere Thranduil. Mi aspetta.- I due si scambiarono un’occhiata perplessa, per nulla convinti che quella fosse la verità.
    Glorfindel incrociò le braccia e dentro di sé si domandò come mai dovesse giustificarsi con tutte le guardie che incontrava:
-Avete intenzione di farmi aspettare molto? Sapete chi sono, giusto? Non vedo perché dovrei accettare un comportamento tanto irrispettoso.- Alzò la voce, falsamente alterato.
    Adorava giocare sulla sua importanza con loro, gli ultimi a ricordare davvero chi fosse stato in passato. Infatti, i due sbiancarono all’istante.
    -Smettila di mettere a disagio le mie guardie, Glorfindel.- Lo apostrofò Thranduil, scostando la tenda che divideva l’ala Est dal resto dell’accampamento.
    Gli occhi dorati di Glorfindel cozzarono con violenza contro quelli di ghiaccio del Re degli Elfi e i due soldati si scostarono velocemente, sentendo un’improvvisa tensione caricare l’aria del corridoio. Di fronte a quei due potenti signori degli elfi, era meglio indietreggiare.
    Glorfindel, dopo qualche secondo, si aprì nuovamente in un sorriso, evidentemente falso: -Già, perdonami. Sai quanto mi diverte questo gioco.- Thranduil si spostò quanto bastava per lasciarlo entrare e non si stupì affatto quando sentì la spalla dell’altro scontrare con poca delicatezza la sua. I loro sguardi si fecero più duri mentre il Re lasciava ricadere la tenda al suo posto, isolandoli dal resto del mondo.
    Glorfindel seguì i movimenti dell’altro, mentre questo andava a sedersi sulla sua poltroncina dall’alto schienale, trascinando il lungo mantello cremisi. -So perché sei qui e la mia risposta è no.- Lo anticipò Thranduil, leggendo il suo sguardo.
    -Infatti non l’ho chiesto. Lo pretendo.- Sottolineò lui, le labbra irrigidite: -Nonostante abbia perso i suoi poteri, lei rimane la nostra guida. Togliti dalla testa di poterla scavalcare.-
    Thranduil parve profondamente annoiato da quel discorso:
-Anche se non mi approfittassi della situazione, sai bene che l’esercito tenderà a guardare al più forte. Che cosa pensi possa fare adesso, quell’inutile ragazzina?-
    Glorfindel strinse il pugno e Thranduil avvertì la sua potente energia riempire la stanza, tanto da farlo rabbrividire: -Ti consiglio di moderare i termini. Quella ragazzina è sotto la mia protezione.- Lo avvertì. L’altro ghignò, arrogantemente: -Sì, ho visto come le giri attorno. Se non conoscessi le tue tendenze direi che lei ti piace.- Glorfindel alzò il mento, sorridendo a sua volta:
-Vuol dire che non le conosci abbastanza. Lei mi piace davvero e molto. Quasi più di tuo figlio.- Lo provocò.
    Thranduil strinse gli occhi a due fessure ma non reagì, conscio che avrebbe solo fatto il suo gioco: -Così, quella manipolatrice ha soggiogato anche te. Increscioso che un Alto Elfo tanto rispettabile e antico si lasci tentare così facilmente da una debole donna.- Glorfindel meditò su quelle parole, dapprima contrariato, poi incuriosito.
    Ecco cos’era accaduto, dunque: Thranduil credeva davvero che Sillen, la creatura più innocente che avesse mai incontrato, avesse provato a manipolarlo.
    Sorrise, scrollando la testa: -Egocentrico bastardo.-
    -Che cosa hai detto?- Ringhiò il Re, stringendo i braccioli della poltroncina per trattenersi dallo sguainare la spada.
-Sei incredibile!- Infierì Glorfindel: -Come diamine puoi pensare una cosa simile?-
    -Di cosa stai parlando, adesso?-
    -Non gira tutto attorno a te, giovane Signore degli Elfi. Sillen ha un ruolo nel destino di questa Terra ed è inevitabile che lei lo segua. Invece che aprire gli occhi e metterti per una buona volta al servizio di una giusta causa, hai preferito credere che lei ti stesse usando.- Thranduil schiuse le labbra per ribattere ma Glorfindel non aveva ancora finito di sputargli in faccia la verità:
-Figurarsi, quando mai ti sei degnato di pensare a qualcun altro, oltre a te stesso! Non ti sei mai chiesto se anche lei stesse soffrendo? Le hai mai chiesto cosa provasse?-
    -Non m’interessa, non è rilevante! Se ti è così cara perché non lo fai tu?- Abbaiò l’altro. E raramente Thranduil alzava la voce in quel modo. -Proprio non puoi fare a meno di parlare di lei? Sei così ossessionato?- Lo prese in giro, stizzito, abbandonandosi contro lo schienale.
    Rimasero a fissarsi in cagnesco per un po’, cercando di mitigare quella tensione distruttiva. Poi, senza preavviso, Glorfindel si avvicinò, guardando Thranduil dal basso verso l’alto. Quando parlò, la sua voce si era fatta più sottile: -Senti da che pulpito vien la predica.- Appoggiò le mani su entrambi i braccioli della sedia e il Re degli Elfi si ritrovò imprigionato tra lui e lo schienale. -Non sono io quello che sgattaiola nella Cittadella di nascosto, di notte, per andare da lei.- Vide chiaramente un guizzo di irritazione attraversare le iridi fredde di Thranduil e ne fu profondamente soddisfatto. Si avvicinò al suo viso, tanto che i capelli d’argento sul petto del Re finirono con il mescolarsi all’oro dei suoi. Con un gesto delicato, Glorfindel scostò la veste rossa dell’altro, solo per tirarne fuori un sacchetto di velluto scuro. Se lo portò al naso, inspirandone il profumo, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di ghiaccio del Re: -Thynd en Anor[3]…-
    -Non so di cosa tu stia parlando.-
    Glorfindel si scostò, allargando le braccia con una risata tintinnante: -Suvvia, amico mio, perché nasconderlo? Grazie alle tue cure si è ripresa prima di quanto sperassimo. Non vuoi la nostra riconoscenza?-
    Thranduil, finalmente libero, si alzò, le mani incrociate metodicamente dietro la schiena. Cercò di frenare le proprie emozioni, fissando il vuoto: si rivedeva in quella stanza, inginocchiato sul pavimento come il più umile dei servi, ad asciugare tutta l’acqua medica che aveva rovesciato con i suoi movimenti bruschi e si sentì ridicolo.
    Guardò quell’impudente elfo dorato, le spalle tese. Chiunque altro avesse osato comportarsi in quel modo con il Re degli Elfi di Bosco Atro, si sarebbe ritrovato sventrato nel giro di qualche secondo. Ma non Glorfindel.
    Thranduil, nonostante lo trovasse una compagnia spiacevole, lo rispettava e lo temeva, come ogni saggio elfo avrebbe dovuto fare. E, dopotutto, c’era stato un tempo in cui l’aveva considerato un fratello.
Ma erano passati molti anni, da allora.
    -Non parlerò di questo con te.- Chiarì, rivolto al suo irritante ospite. L’altro annuì: -Vi somigliate in questo, sai? Cocciuti e orgogliosi. E siete vittime di un malinteso, a mio avviso.- Thranduil lo fulminò con lo sguardo: -Non osare parlare di cose che non sai, Glorfindel.- L’altro rise: -Non lo farò. Ma bada, ti avverto: troverà un modo per affrontare questa guerra. È caparbia, lo sai meglio di me. Si farebbe uccidere piuttosto che rimanerne fuori. Adempierà al suo destino, che ti piaccia o no.- Thranduil chiuse gli occhi, massaggiandosi la fronte con due dita: -Lo so.-
    Glorfindel osservò con attenzione i suoi tratti affilati, con un affetto che non ricordava di provare. Era l’unico a conoscerlo tanto profondamente da capire che ogni sua azione, ogni suo gesto estremamente infantile e scorretto era guidato dal bisogno di esercitare il controllo su ciò che più gli faceva paura.
    E Sillen lo terrorizzava, era evidente, proprio perché non riusciva ad accettare i suoi stessi sentimenti verso di lei.
Inoltre, la stava proteggendo, nonostante tutto. Era dai tempi del suo soggiorno al Reame Boscoso che Thranduil tentava di tenerla con sé, invano.
    Doveva essere difficile per lui, pensò Glorfindel. Gli fece tenerezza ma lo tenne per sé: il Re degli Elfi l’avrebbe infilzato se l’avesse saputo.
    Lo raggiunse alla finestra, la voce seria nonostante il sorriso gli increspasse ancora le labbra: -Se lo sai, farai meglio ad aiutarla. Un destino come il suo, come il mio, è impossibile da evitare, non importa quanto ci provi.-
    Thranduil sapeva che l’elfo dorato aveva ragione: però non voleva vederla morta. Gli aveva fatto male, quella notte, trattarla con tanta freddezza ma era l’unico modo che aveva per allontanarla. Ora era debole, indifesa e inutile. Non doveva combattere. Non avrebbe dovuto farlo dall’inizio.
    La tenda venne scostata improvvisamente e un elfo della guardia fece capolino nella sala, allertando i due: -Aran Thranduil! Qualcuno si avvicina alla città!-

 
**

    La vista, dall’alto del Cortile della Cittadella, era tristemente desolata: i Campi del Pelennor erano una landa di cenere scura e macerie e il fumo ancora si innalzava dalle grosse pile dov’erano stati arsi gli ultimi cadaveri ritrovati.
    Landroval, ritto al fianco di Sillen, acuì lo sguardo rivolto all’orizzonte, verso Nord: -Sono lenti, molto lenti. Di questo passo impiegheranno ore ad arrivare qui.- Le fece notare, dubbioso.
    La stella era confusa: -Sei certo che si tratti di Ent?- L’altro annuì con la sua testa rapace: -Senza dubbio. Anche se sono così lenti che per un po’ ho creduto si trattasse di un boschetto scampato alle fiamme.-
    Legolas ed Elessar si lanciarono uno sguardo perplesso, a quelle parole. -Da tempi immemori i Pastori di Alberi non si avventurano più a Sud della Foresta di Fangorn. Questo è di certo un evento di grande importanza.- Commentò l’elfo biondo. Sillen sentì lo stomaco contorcersi: -Appartengono ai sei Popoli Liberi. Forse sono venuti a prestarci il loro aiuto.- Sistemò la camicia e scostò i capelli dietro al collo, risoluta: -Ad ogni modo, è mio compito accoglierli.- Strinse istintivamente la collana dalla pietra viola, anche se ormai priva di luce: -Landroval, rimani di vedetta.-
    Il Re delle Aquile le rivolse uno sguardo carico di pietà: -Sì, Stella dei Valar.- Non volle rinunciare a quell’appellativo, nonostante sapesse perfettamente che lei non possedeva più alcun potere. Sillen gli sorrise, urtata dal suo sguardo ma comunque grata per le sue parole e l’osservò allontanarsi in volo, con un sospiro.
    Nonostante gli avvenimenti degli ultimi giorni, i suoi compagni non l’avevano abbandonata. Si sentì un’ingrata per aver dubitato della forza del loro legame.
    -Io vado.- Annunciò, dirigendosi velocemente alle mura.
    Superò i soldati della Cittadella, intenti a ripulire la zona presso le porte della Città dei Re dalle macerie e si sentì piccolissima. Il crollo della Torre aveva causato danni ingenti e non sarebbe stato facile rimediare, senza materia prima. Purtroppo, non potevano permettersi di impiegare uomini in quel frangente, con il pericolo imminente di una nuova battaglia.
    Minas Tirith sarebbe rimasta deturpata ancora per un po’.
    Intanto, le Aquile vigilavano i cieli e i nani di Thorin perlustravano il sottosuolo ai confini costantemente, per evitare nuove brutte sorprese.
    La stella raggiunse l’esterno e, con suo immenso disappunto, notò subito il possente cervo di Thranduil, poco più avanti.
   Il Re degli Elfi, dall’alto della sua cavalcatura, abbassò lo sguardo su di lei, altezzoso: -Sillen.- La seguì con lo sguardo mentre lei lo superava spedita, diretta verso i soldati di guardia per procurarsi un cavallo. -Perché ti ostini tanto?- L’apostrofò lui, non apprezzando la sua silenziosa arroganza. Lei nemmeno ricambiò lo sguardo, decisa a mettere più distanza possibile tra lei e l’elfo: se dovevano convivere, sarebbe stato meno doloroso.
    Che il Re elfico si prendesse pure il potere, lei avrebbe preservato la sua sanità mentale: -Pensavi di andare senza di me? Come ho già detto, non mi tirerò indietro, Re degli Elfi.- Afferrò le redini del cavallo baio che avevano preparato per lei e salì in sella, tenendo una mano premuta sul costato dolorante e sibilando per lo sforzo.
    Thranduil, seppur contrariato dalle sue parole, non poté fare a meno di accorgersene: -Se stai tanto male, perché non scendi e non torni saggiamente nel tuo letto?- Anche se il suo intento era di apparire velenoso e distaccato, il suo tono tradiva una sottile apprensione. Lei gli scoccò un’occhiata risentita: -Avrò anche perso i miei poteri ma non ho di certo dimenticato i miei doveri. E poi sono ancora in grado di presentarmi ai nuovi arrivati, non ho perso la capacità di parlare.- Commentò seccamente. L’altro, nonostante la sua insolenza, sorrise appena, senza che lei potesse vederlo: -No, certo. Questo è evidente.- E spronò il grande cervo verso Nord, superandola.
    Sillen storse la bocca con sdegno: quell’elfo arrogante le avrebbe reso la vita davvero difficile, persino nella sua quotidianità. Lo seguì controvoglia, eppure leggera come l’aria che le sferzava i capelli.
    E odiò quella sensazione per tutto il tempo.
    Tuttavia non le fu difficile dimenticarsene in fretta: ogni falcata del veloce stallone le mozzava il respiro. Doveva fare attenzione poiché, senza il suo potere, non poteva più contare sulla grande capacità rigenerativa che l’aveva sempre caratterizzata.
    Essere un’umana, pensò, sarebbe stato davvero difficile.
    E pensare che si era appena abituata ad essere una stella.
 
    Il gruppo di Ent era scarno e contava poco più di una mezza dozzina di individui, ma le loro fronde erano abbastanza ampie da farli sembrare un vero e proprio boschetto in movimento.
    Movimento, si faceva per dire. I loro lunghi passi erano talmente lenti che persino i piccoli volatili di Gondor erano in grado di posarsi sulle fronde e nidificare con calma, senza subire il minimo scossone. Erano appena giunti nei pressi dei crinali dei Campi del Pelennor e chissà da quanto tempo erano in marcia.
    Sillen tirò le redini seccamente, arrestandosi di fronte a loro:
-Pastori di Alberi! Cosa vi porta a Minas Tirith?-
    Questi, con le bizzarre facce dall’espressione quieta e gentile scolpite nel legno, non si sforzarono nemmeno di rivolgerle uno sguardo, continuando la loro lenta avanzata.
    Uno di essi, alto più di quattro metri ma visibilmente più basso dei compagni, parlò quasi a rallentatore, con voce baritonale e ruvida: -Buràrum giovane umana… permettici di passare… Stiamo… mhh cercando una stella caduta. Forse… mhh l’hai vista… Molto luminosa… Con un… mhh grande potere…-
    Sillen lo affiancò, stringendo le labbra: -La Stella che state cercando sono io, Pastore. Il mio nome è Sillen.-
    Quello girò gli occhi bruni verso di lei, con grande calma: -Ohh, no… Non sei tu…- Biascicò, privo d’intonazione, facendo ondeggiare la lunga barba muschiosa.
    Thranduil, rimasto poco distante, sollevò gli occhi al cielo: ne aveva già abbastanza. Fosse stato per lui, avrebbe dato loro fuoco uno ad uno, per dimostrargli che, se non volevano parlare velocemente, potevano per lo meno bruciare velocemente.
    Tuttavia non si sarebbe mai stancato di osservare quella ragazzina, anche mentre tentava di approcciarsi a quei grossi alberi ambulanti, così risoluta da prendere ogni piccola cosa con estrema serietà.
    La guardò mentre si mordicchiava le labbra piene, in evidente difficoltà e dentro di sé si sentì nuovamente ridicolo.
    Non poteva davvero fargli un tale effetto.
    Persino adesso, priva di ogni magia, si teneva dritta sulla sella per non mostrare il proprio dolore. Aveva tutto il diritto di ritirarsi, nessuno le avrebbe chiesto altro. Eppure era lì, e lui non riusciva a capacitarsi di quanta forza di volontà lei possedesse in quel piccolo corpo. Decise comunque di non intervenire, lasciando che fosse lei a parlare con gli snervanti Pastori di Alberi.
    Sillen avvicinò il suo cavallo baio all’Ent più basso: -Lo giuro sul mio onore, sono la Stella giunta qui per mano dei Valar. Guarda con i tuoi occhi, Pastore.- Si sollevò sulle staffe e allungò all’Ent la collana in mithril, la cui pietra viola catturava i bagliori del sole come un piccolo cristallo. L’altro rallentò l’andatura, osservando il ciondolo con gli occhi leggermente sgranati: -Mhh… Questo è… un problema…- Sollevò piano un braccio nodoso e gli Ent al suo fianco si fermarono in una sinfonia di scricchiolii legnosi, provocando il pigolare contrariato di qualche pulcino annidato chi sa dove. -La pietra è… mhh solo una pietra… ora… Che cosa è accaduto… mhh in questo luogo..?-
    Sillen smontò velocemente e Thranduil fece altrettanto, raggiungendola. Lasciarono che gli Ent li circondassero con le loro gambe ritorte, simili a tronchi. Le fronde fresche sulle loro teste arboree fecero ombra sui due compagni, che si avvicinarono istintivamente l’uno all’altra. -Mi dispiace, ho perduto il mio potere in battaglia. È una lunga storia. Ma ditemi, vi prego: siete qui per combattere?- Domandò Sillen, senza celare il suo tono speranzoso.
    Gli Ent si scambiarono sguardi eloquenti e molti sussurri si levarono dalle loro fronde ombrose. Uno di loro, dal lunghissimo naso ricoperto di germogli, dondolò sul posto, comunicando con il Pastore più basso per diversi minuti.
    Sillen aspettò pazientemente, ricordando le storie che Thranduil stesso le aveva raccontato riguardo a quel popolo così bizzarro. La loro famosa Entaconsulta poteva durare addirittura settimane.
    In seguito, l’Ent più basso tornò a guardarla: -Ruvidosso dice… mhh… che la giovane Stella… mhh parla frettolosamente…-
    Sillen sollevò un sopracciglio, confusa: -Dunque?-
    -Dunque… devo ripetere…. mhh tutto più… lentamente, giovane Stella…-
    L’elfo scostò il mantello rosso con un gesto impaziente: -Non abbiamo tutto questo tempo, Enyd[4]. Riassumerai ai tuoi compagni ciò che diremo più tardi.- L’Ent rivolse lo sguardo color del miele scuro su di lui ma, incredibilmente, fu interrotto da un altro Ent, più rapido nel parlare, seppur sempre risonante:
-Barbalbero voleva dire… che vogliamo combattere.- Concluse, con voce giovanile. L’altro lo guardò, annuendo piano: -Oh sì… mhh Sveltolampo… bravo…-
    Sillen sorrise, entusiasta: -Bene! Dovremo mettervi al corrente di tutto ciò che è successo. Confido sappiate già che Pallando è il nemico. Elessar sarà felice di vedervi! Vi siamo infinitamente grati. Dunque, la storia del Palantir è più complicata ma- Thranduil si schiarì la voce, zittendola e facendo cenno verso i Pastori di Alberi, rimasti muti a fissarla con sguardo assente: -Non credo abbiano compreso una singola parola. Salvo forse Sveltolampo, s’intende. Risparmia il fiato e lascia che se ne occupino i soldati, quando giungeranno alla città.- Commentò:
-Forse dopodomani.- Sillen lo ignorò ma, suo malgrado, dovette trattenersi dal ridere, dandogli le spalle.
    Fu allora che Sveltolampo riprese la parola: -Stella, c’è una cosa… una cosa che… devi sapere… Principalmente è… per questo che siamo qui… in verità.- E allungo una mano nodosa verso di lei. Sul palmo di legno v’era posato un vecchio foglio di carta spessa, inumidito e macchiato dalla muffa.
    Pareva essere lì da moltissimo tempo.
    Sillen sgranò gli occhi: -Che cos’è?- L’Ent scosse la testa: -Non lo so… Ma è importante.-
    Barbalbero parve risvegliarsi, alla vista del vecchio foglio:
-Buràrum… Quello fu… lasciato qui dal… giovane Mastro Gandalf… mhh molti anni fa…- Thranduil strinse gli occhi, osservando il cimelio: -Mithrandir ha lasciato un messaggio? E perché lo avete portato a noi?-
    L’altro inspirò profondamente e il suo tronco ruvido parve espandersi. Sembrò prepararsi a una lunga spiegazione e Sillen, per quanto fremesse di aspettativa, si arrese alla sua lentezza esasperante.
    -Mhh… anni fa… divenendo Bianco… ricordo che Gandalf… disse una cosa… Mhh dunque disse… che esisteva qualcosa di… mhh terribile… nascosto da qualche parte, qui… sulla Terra di Mezzo… Qualcosa che… mhh poteva portare grande male… Buràrum, non so cosa sia… ma disse che… noi Ent avremmo dovuto custodire il suo… mhh terribile segreto.-
    Thranduil incrociò le mani dietro la schiena, avvicinandosi al palmo di Sveltolampo per analizzare quel pezzo di carta, senza però toccarlo: -Bene, questo non è d’aiuto dunque. E poi, se è un segreto tanto pericoloso, perché rivelarcelo?- Sillen lo zittì con uno sbuffo esasperato: -Lascialo finire. Sennò verrà buio prima di aver cavato un ragno dal buco.-
    Barbalbero spostò lo sguardo prima su uno poi sull’altra, annuendo piano: -Perché rivelarvelo…? Mhhh non saprei... Lo Stregone Bianco disse… che il messaggio sarebbe… mhh giunto a chi portava… il più grande potere… nel momento del più grande… mhh bisogno.-
    Seguire il discorso del Pastore era difficile ma Sillen afferrò in fretta il concetto: -Se Gandalf ha agito in questo modo, significa che questa cosa, per quanto terribile, può aiutarmi.- Barbalbero la guardò negli occhi, risoluto: -Bùrarum, giovane stella! Noi… abbiamo udito… il terrore della battaglia… Il calore delle… fiamme. Il… mhh puzzo dei morti… Questo è di sicuro… il più terribile dei momenti, da tre decenni a questa parte.-
    Lei annuì con convinzione ma Thranduil troncò il suo entusiasmo sul nascere: -Sì, ma tu non sei più l’essere più potente. Quel potere lo hai barattato per la vita del tuo caro Re degli Uomini, lo hai dimenticato?- Sillen sollevò il mento, stringendo le labbra: -Lo so bene, credimi. Infatti, non ho intenzione di leggere il messaggio da me. Lo consegnerò a Glorfindel.- L’elfo sollevò un sopracciglio, sorpreso: -Glorfindel di Imladris?-
    -Glorfindel di Gondolin.- Sibilò lei, trafiggendolo con un’occhiata fredda come il ghiaccio. Thranduil percepì chiaramente un’emozione fin troppo simile alla gelosia attanagliargli le viscere ma la respinse con rabbia, scrollando la testa. -Credi che sia lui il portatore del più grande potere della Terra di Mezzo?- Lei si avvicinò a Sveltolampo, riflettendoci su:
-Non lo so. Forse no. Ma è il più potente dalla nostra parte, per il momento. Quindi poche storie, andiamo.- E prese il biglietto tra le dita sottili.
    Sveltolampo parve quasi sorriderle: -Lo affidiamo… a te, Stella. Mastro Gandalf avrebbe voluto così… Buona… fortuna…- Sillen gli strinse il grande dito, simile a un ramo: -Vi ringrazio, Pastori. Siete i benvenuti. Perdonateci per il paesaggio desolato.-
    Barbalbero contemplò i terreni bruciati, con un grande sospiro: -Ci… mhh occuperemo di questo… Nel frattempo…- E ricominciò a guidare i compagni verso la città.
    Thranduil seguì la stella, che si stava dirigendo a passo spedito nella direzione opposta, verso le loro cavalcature. Osservò i suoi lunghi capelli neri come la notte rimbalzarle sulla schiena, l’espressione forzatamente dura: -Sillen, ascoltami.-
    Lei non si fermò, limitandosi a prestargli ascolto: -Cosa c’è?-
    Thranduil contrasse la mascella. Non si era mai posto il problema prima, ma dopo ciò che era successo in quella lunghissima giornata, l’elfo non era più sicuro di ciò che aveva di fronte. Forse Sillen aveva avuto il tempo di crescere, lontana da lui. Non sarebbe stato affatto impossibile.
    L’immagine di Glorfindel, così sicuro di sé, gli si profilò difronte, irritandolo ulteriormente: -Lei mi piace davvero e molto- aveva detto. Che fosse così anche per lei?
    Si affrettò ad afferrarla per un braccio: -Sono serio, guardami.- La stella si divincolò, facendo un passo indietro: -Non toccarmi, Thranduil.- Lo avvertì. Quello serrò la mascella ma fece altrettanto, allontanandosi di un ulteriore passo da lei: -Se ciò che Mithrandir vuole rivelarci fosse qualcosa di pericoloso e potente, dovrai rinunciarvi. Ne sei consapevole?-
    Lei lo fissò negli occhi per qualche secondo, senza rispondere. Poi inclinò la testa, aggrottando le sopracciglia. Lui, indispettito da quello sguardo dubbioso, la interrogò: -Per grazia del cielo, posso sapere cosa stai facendo?- Sillen, per tutta risposta, sguainò la spada e gli si gettò contro.
    Thranduil, spiazzato da quel gesto, saltò all’indietro, notando con orrore una sottile ciocca dei propri capelli argentati passargli davanti agli occhi, recisa dal colpo rapido della stella. Sollevò il fodero della propria spada giusto in tempo per parare un altro attacco, dritto al fianco sinistro. Attacco che, nonostante la straordinaria rapidità, non fu particolarmente forte.
    Infatti, il Re degli Elfi riuscì facilmente a trattenere il polso della stella, tirandola verso di sé per farle perdere l’equilibrio. Lei rovinò a terra ma si aggrappò con tutte le sue forze alla veste rossa e argento dell’elfo, trascinandolo con sé.
    Rotolarono sul pendio per qualche metro, sotto lo sguardo attonito di qualche aquila di vedetta. Thranduil arrestò in fretta la rovinosa caduta, finendo per pesare addosso alla stella e immobilizzandola contro il terreno.
    Lanciò la spada di lei lontano e, come per rendere ancor più chiara la situazione, conficcò il fodero vicino al suo orecchio destro: -Cosa credevi di fare?!- Ringhiò, a pochi centimetri dal suo viso. Lei, stringendo i denti, ansimò per la fatica e per il dolore, sentendo il peso del Re comprimerle la cassa toracica:
-Volevo… dimostrarti una cosa!- Biascicò, con il fiato corto. Lui scosse la testa, confuso: -Cosa, di preciso? Che vuoi uccidermi?-
    Lei approfittò della sua distrazione per spingerlo via con un colpo di reni, ribaltando la situazione. Rotolando sopra di lui, estrasse rapidamente il sottile pugnale nascosto nello stivale e lo premette minacciosamente sul collo scoperto dell’elfo.
    Thranduil sentì i propri muscoli tendersi, pronti allo scontro ma Sillen, invece che agire, rimase immobile. Lo fissò negli occhi, riprendendo fiato. I suoi capelli corvini, liberi e scomposti, solleticarono la guancia dell’elfo ma neppure lui osò muoversi. Il Re degli Elfi rimase ad attendere una sua mossa, concentrato su ogni sensazione.
    Non riusciva a respirare altro che il suo profumo e sentiva distintamente il proprio calore cozzare contro il corpo innaturalmente freddo di lei.
    E, come temeva, non aveva alcuna intenzione di spostarsi da lì.
    Sillen, dopo infiniti secondi, tolse il pugnale dalla gola dell’elfo: -No, non voglio ucciderti. Ma avrei potuto. Non avrò più alcuna magia, dentro di me ma sono sempre Sillen, la Stella dei Valar.- Rinfoderò il pugnale nello stivale, seria: -E per quello che vale, sono perfettamente capace di badare a me stessa. Quindi smettila di trattarmi come una stupida.- Si alzò in fretta, lasciandolo sull’erba bruciata. -Non mi conosci, Re degli Elfi.- Aggiunse, allontanandosi.
    Thranduil non ebbe quasi le forze per muoversi e chiuse gli occhi, respirando a fondo. Sentì un freddo glaciale invadergli il petto, nonostante il sole riscaldasse la terra con i suoi raggi estivi.
    Non la conosceva affatto.

 
**

    Era ormai calata la sera quando Glorfindel, seduto sulla scrivania del Re di Gondor, si rigirò il foglietto ammuffito tra le mani. Sillen, impaziente, gli girava intorno, lanciandogli occhiate imploranti: -Avanti, leggilo.-
    Elessar, lisciandosi la barba curata, pareva sempre più dubbioso: -Gli Ent hanno proprio specificato che è stato Gandalf a lasciare questo messaggio?- Thranduil, in fondo alla stanza, sollevò gli occhi al cielo: -Sì, per l’ennesima volta sì. Aprite quel dannato biglietto.-
    La luce delle candele rischiarava l’ambiente attorno alla scrivania e Glorfindel pareva una fiamma dorata mandata dal cielo, mentre tutti pendevano dalle sue labbra. -Non saprei. Non può essere così semplice. Da un giorno all’altro spuntano un paio di Ent con un misterioso biglietto risolutore da parte dell’ormai lontano Mithrandir… impossibile, non ci credo.- Ripeté, scrollando la testa.
    Sillen non poteva dargli torto ma non aveva intenzione di lasciarsi abbattere. Si avvicinò alla scrivania, prendendo la mano dell’elfo dorato tra le sue: -Glorfindel, so di chiederti molto. È una grande responsabilità ma ti prego, mellon nin. Sei l’unico che ha il diritto di leggere il messaggio di Gandalf, in questa stanza.-
    Gimli annuì, concordando con lei ma vedendo il volto rosso di rabbia di Thorin III Elminpietra smise immediatamente. Quest’ultimo incrociò le braccia al possente petto, irritato:
-Vorrei proprio vedere le prove che attestano questa sua rinomata grande potenza.- Brontolò, fissando le mani della stella con crescente disappunto. L’unico a fissarle con altrettanto astio era Thranduil ma per lo meno lui non lo dava a vedere.
    Éomer, questa volta sobrio, diede una pacca amichevole sulla spalla del Re nanico, sorridendo: -Credo proprio che le sue azioni passate parlino da sole, mio signore Thorin.-
    Glorfindel li guardò divertito, poi spostò lo sguardo sulla stella: -Qualsiasi cosa sia Sillen, prenderemo una decisione insieme.- Lei annuì, trepidante d’attesa.
    Nella stanza, i generali degli Eserciti alleati trattennero il respiro. Persino all’esterno, negli accampamenti, non volava una mosca.
    Sillen si alzò sulla punta dei piedi, appoggiandosi alla spalla dell’elfo dorato per sbirciare mentre questo apriva il foglio consunto. Gli occhi chiari di Glorfindel viaggiarono sulla pagina, poi la sua espressione si fece indecifrabile. Per parecchi secondi non disse niente, né fece intuire nulla.
    Poi schiuse le labbra, aggrottando le sopracciglia: -Eh?-
    Sillen premette prepotentemente la guancia contro la sua, per cercare di leggere quel maledetto foglio. L’espressione che assunse fu la stessa dell’elfo dorato ma, questa volta, lei lesse a voce alta: -“Myrtle Bracegirdle da Mezzabottiglia: le miglior ricette della cucina Hobbit del Decumano Ovest”…?-



 
[1] ai Nandor non piacevano i Vanyar: questi sono i nomi di due razze elfiche. I Vanyar, detti anche Alti Elfi, fanno parte della stirpe degli Eldar, gli elfi che accettarono di intraprendere il viaggio verso Aman (Valinor). Vengono anche chiamati Calaquendi ("elfi luminosi") poiché riuscirono ad ammirare la luce dei Due Alberi di Valinor. I Nandor (“gente della valle”) invece, fanno parte del gruppo dei Teleri. Quelli che prendono il nome di “elfi silvani” scelsero di rimanere nelle foreste del Rhovanion (“le terre selvagge”, dove si trova anche Bosco Atro), senza oltrepassare le Montagne Nebbiose. Il fatto che i due gruppi non si sopportino è mia personale interpretazione, poiché ho sempre pensato ai Nandor come elfi più “umanizzati” e perciò più rozzi agli occhi degli Alti Elfi come Glorfindel. Allo stesso modo, ai nostri elfi silvani non fa piacere l’arroganza di questi altri XD
 
[2] Nandorinlingua parlata dai Nandor. Discende dal Sindarin e dal Quenya, costruendosi prendendo in prestito regole grammaticali e vocaboli da entrambe. Sempre per conto mio, ovviamente, ho supposto che i perfettissimi Alti Elfi, parlando l’elegante e musicale Vanyarin (o Quendya), non apprezzassero il “duro accento nordico del Nandorin”. Mi prendo un sacco di libertà, chiarisco subito! =w=
 
[3] Thynd en Anor: letteralmente “Radice del Sole” in lingua Sindarin. Pianta curativa coltivata nel sottobosco del Reame di Thranduil. Simile alla Foglia di Re (Athelas), una medicina bella tosta, insomma.
 
[4] Enyd: semplicemente, “Ent” in lingua elfica.


 



N.D.A

Ciao a tutti, bentrovati!
Eccoci: nuovo capitolo, nuovi misteri! E forse una svolta decisiva, voi che ne pensate? Che cosa vorrà dire questo bizzarro messaggio dello Stregone Bianco (quello che ci piace)? XD Fatemi sapere cosa ne pensate! Scusate se ogni tanto ci piazzo una mia invenzione o una mia interpretazione ma la mancanza di certi dettagli fa volare la fantasia e lascia spazio a mille nuove storie! Chissà, magari qualche spin off dei vari personaggi potrebbe anche uscirci!

Intanto vi mando un abbraccio e un grazie infinite a chi è arrivato sino a qui, ha seguito la storia, l’ha preferita o recensita: siete fantastici!

Alla prossima,
Aleera

P.S il titolo che avevo pensato all'inizio mi faceva troppo ridere, quindi l'ho lasciato XD Spero non sia eccessivo. Che simpatica eh? Vado a sotterrarmi, va beneee


 

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Capitolo 28
*** L'ultimo giorno ***


 
-L'ultimo giorno-



    -“Myrtle Bracegirdle da Mezzabottiglia: le miglior ricette della cucina Hobbit del Decumano Ovest”…?- L’unico suono che arrivò in risposta alla stella fu il violento tossire di Gimli, strozzato dal fumo inspirato dalla lunga pipa.
    Dopo diversi secondi di costernato silenzio, Sillen interrogò Elessar con sguardo esasperato, sperando in una sua reazione:
-Che cosa vorrebbe dire, è forse uno scherzo?- L’altro, la pipa ferma a mezz’aria, aprì e chiuse le labbra, troppo confuso per azzardare una qualsiasi ipotesi.
    Legolas si massaggiò le tempie, arrovellandosi per comprendere le reali intenzioni dello Stregone Bianco: -No, Gandalf non avrebbe mai agito in questo modo per un futile motivo. Di certo non è uno scherzo, garantisco per lui.-
    Thranduil, chiaramente spazientito, allungò una mano verso la stella, pretendendo il foglio: -Questi stregoni non hanno mai portato niente di buono. E ovviamente non mi aspettavo lo facessero ora. Tanto rumore, nulla di più.- Sillen storse la bocca ma lasciò che l’elfo prendesse il foglio, stando ben attenta a non sfiorare la sua mano.
    Il Re degli Elfi scrutò la carta e l’inchiostro bruno con estrema attenzione, piegando il biglietto in modo che la luce delle candele ne illuminasse ogni fibra. -Niente, non c’è altro. Né una runa nascosta, né un indizio che possa far intendere qualcosa. Tutto questo è ridicolo.-
    Faramir si grattò il mento, storcendo il naso: -Forse non è lì quello che stiamo cercando.- Tutti si voltarono verso di lui, sorpresi. Il Sovrintendente, colto alla sprovvista, si schiarì la voce: -Intendo dire che quello è un… indizio. Ecco, seguendo l’indizio forse troveremo le vere risposte.-
    Legolas prese malamente il foglio dalle mani del padre, senza degnarlo di uno sguardo. Thranduil lo lasciò fare, abbassando gli occhi: dopotutto, era dalla fine della battaglia che suo figlio non provava nemmeno a rivolgergli la parola.
    -Faramir potrebbe avere ragione. Forse Gandalf non si fidava a lasciare per iscritto tutte le informazioni su un semplice foglio…-
    Gimli incrociò le braccia sulla barba rossiccia, trattenendo un nostalgico sorriso: -Non mi stupirebbe, quello strano stregone ha sempre parlato per enigmi.- Poi alzò la voce ruvida, deciso: -Beh, da dove cominciare? Chiaramente questo titolo fa riferimento alla Contea, precisamente al Decumano Ovest. Credo proprio che dovremmo partire da lì.-
    A quelle parole, Sillen sentì i battiti del suo cuore accelerare per l’emozione ma un gelo che conosceva molto bene le scivolò lungo la schiena, facendola rabbrividire: -Ma possiamo davvero permetterci di lasciare la città? Proprio ora che siamo più deboli…- Non poteva fare a meno di avere paura. Aveva affrontato solo uno degli elfi oscuri, senza mai incontrare Pallando, e ne era uscita viva per miracolo.
    Senza il suo potere, cosa avrebbe potuto contro di loro?
    E i suoi compagni? Lasciare la sicurezza della città fortificata voleva dire essere vulnerabili.
    Una volta lontani, anche Gondor, ultima frontiera protetta dalle terre di Mordor, sarebbe rimasta scoperta.
    Glorfindel le sfiorò il braccio, comprensivo: -In realtà non sappiamo quando Pallando deciderà di attaccare nuovamente. Forse domani ma se fosse tra un anno? Potremmo lasciarci scappare l’occasione che Mithrandir ci ha donato barricandoci qui dentro?- Thorin gli fece eco, lanciandogli occhiate poco amichevoli: -Mi rode ammetterlo ma il folletto ha ragione. Troppe vite abbiamo perso e ora non abbiamo nemmeno un piano. Inutile dire che non ne usciremmo vivi, senza provare.- Sillen annuì, elaborando quella possibilità.
    Meglio un’azione avventata, piuttosto che la rassegnata attesa della fine.
    Elessar sorrise, guardando i compagni con rinnovato ottimismo: -C’è solo un posto, nel Decumano Ovest, dove Gandalf avrebbe voluto condurci. Se ci sono delle risposte, si trovano a Sottocolle.-
    Sillen sbatté le palpebre: -Sotto quale colle?- Elessar, Legolas e Gimli si scambiarono uno sguardo d’intesa. Coloro che avevano fatto parte della Compagnia dell’Anello conoscevano bene quel luogo, tanto ne avevano sentito parlare.
    Legolas le abbracciò le spalle, con l’espressione più felice che Sillen gli avesse visto indossare da molto tempo: -Casa Baggins, Sillen. Dove tutto è cominciato.- E l’immagine dei piccoli mezz’uomini protagonisti della Guerra dell’Anello si delineò come un bagliore nella mente della stella. Rise, quasi commossa: -L’ultimo popolo libero.- La profezia che la sua visione le aveva lasciato si stava rivelando nella sua interezza e finalmente, sulla scacchiera del suo destino, le pedine si stavano muovendo.
    Glorfindel srotolò la mappa sulla scrivania, attirando l’attenzione su di sé: -Passando dalla Breccia di Rohan e volgendo verso Isengard, saremo riparati dagli Ered Nimrais e viaggeremo sicuri.- Tracciò il percorso con l’indice, aiutando la stella ad orientarsi: -Da qui si procede nell’Eriador, verso Nord-Ovest, sempre dritti. Dovremmo raggiungere la Contea in tre settimane, forse poco di più.-
    Sillen si sporse sulla mappa, ripetendo il percorso nella mente. Nord-Ovest… era dal suo risveglio, dopo la battaglia, che non avvertiva più quell’eco lontana chiamarla, da laggiù. Scacciò in fretta il pensiero, mordendosi le labbra: -Tre settimane sono troppe, contandone ulteriori tre per il viaggio di ritorno.-
    Thranduil, con fare noncurante, si sporse a sua volta sulla scrivania, frapponendosi tra Sillen e l’elfo dorato. La stella, impegnata a memorizzare la dettagliata mappa, nemmeno se ne accorse ma il povero Glorifindel si ritrovò a sputacchiare i capelli d’argento del Re degli Elfi, dissimulando il sorriso che gli era sorto sulle labbra con un colpo di tosse. Fece due passi indietro, con l’intento di accendere qualche altra candela: -Hai ragione, Sillen. Ma sei l’unica che può chiedere alle Aquile di portarci sul posto. Ci hanno concesso questo onore solo in casi di estremo bisogno: ci staccherebbero la testa se osassimo pretendere di cavalcarle come ronzini.-
    La stella si voltò verso di lui per ribattere ma sbatté malamente contro la spalla solida del Re degli Elfi, colta di sorpresa. Si massaggiò il naso, lanciando all’elfo in questione un’occhiata oltremodo infastidita e lo superò velocemente: -Proverò a parlare con Landroval. Sono certa che capirà. Comunque si tratterà di mobilitare pochi di noi, la forza maggiore deve rimanere qui in città.- Precisò, rivolgendo un’occhiata tagliente in direzione del Re elfico.
    Ovviamente, quando se ne accorse, Thranduil non perse l’occasione di contrariarla, prendendo la parola per primo: -Qualsiasi cosa sia, non tollererò che qualcuno d’indegno tocchi un manufatto antico e molto probabilmente appartenente al mio popolo.- E lanciò uno sguardo indignato verso i Nani e gli Uomini presenti nello studio: -Dunque, accompagnerò personalmente Glorfindel in questa spedizione.-
    Elessar sollevò lo sguardo su di lui, alzando un sopracciglio: -Nessuno di noi lo aveva messo in dubbio, mio signore Thranduil.- Il suo tono al limite del rispettoso gli procurò un’occhiataccia da parte dell’elfo regale. E provocò anche qualche risatina, troppo bassa e dissimulata per intenderne gli artefici.
    Thorin III Elminpietra si batté orgogliosamente un pugno sul cuore, alzando la voce: -Ovunque la mia signora mi condurrà, io la seguirò senza indugio. -Sillen chinò il capo con gratitudine, ignorando l’ilarità che quelle parole avevano acceso negli uomini presenti: -Grazie, mio signore Thorin. Ne sono onorata.-
    E mentre il Re nanico si prodigava nel narrare le sue gesta in campo di spedizioni, Legolas posò una mano sulla spalla del Re degli Uomini, lo sguardo addolcito: -Aragorn, se vuoi andare- Ma l’altro scrollò la testa, ricambiando il suo gesto. Il suo volto si distese, allietato da vecchi ricordi: -Mi fido di Sillen, lascerò che sia lei a compiere questo viaggio. Il mio posto è qui, adesso. Visiterò i vecchi amici in tempi migliori.- L’elfo annuì e Gimli tirò due boccate dalla lunga pipa, concorde: -Allora resteremo con te, ragazzo. Proprio come in passato.-
    La compagnia era dunque così stabilita: Glorfindel, il Portatore del Messaggio, avrebbe guidato la spedizione, seguito dal Re degli Elfi, dalla Stella dei Valar e dal Re sotto la Montagna.
    La partenza venne saggiamente fissata per il dopodomani, all’alba. Avevano bisogno di prepararsi, riposarsi ma non un giorno in più sarebbe dovuto passare: il tempo correva contro di loro.

 
**

    Sillen si avviò nel corridoio buio, passandosi una mano tra i capelli, esausta. Come aveva sperato, Landroval si era dimostrato deciso a sostenere la misteriosa spedizione e per questo avrebbe ceduto loro i suoi figli più veloci. Era stato talmente facile convincerlo che un intervento divino, forse, stava favorendo lei e i suoi compagni, pensò la stella.
    Con un peso in meno sul cuore, Sillen aveva passato l’ora successiva in compagnia degli Ent che, sotto la luce della luna, piantavano metodicamente nuovi alberi e favorivano la ricrescita dall’erba, nei Campi del Pelennor. A nulla era servito il monito della stella, che già prevedeva un’altra imminente battaglia: tanta cura era sprecata, in quel momento.
    Nonostante i lenti e cocciuti Ent non si degnassero di ascoltarla, parlarono molto e la giovane apprese che il misterioso quanto strano biglietto di Gandalf era stato consegnato ai Pastori di Alberi in seguito alla sua rinascita come Stregone Bianco.
    Barbalbero lo incontrò proprio mentre era di ritorno dalle montagne che sovrastavano le immense Miniere di Moria, laddove era caduto come Grigio. In seguito, non appena scorsero la Stella dei Valar cadere dal firmamento, gli Ent si erano messi in marcia verso il vicino Regno degli Uomini, spinti da quell’avvenimento che, dopo tre decenni di pace, aveva scosso la terra. E per due lunghi mesi avevano camminato, finendo colpiti dai fumi dell’incendio e dal clangore della battaglia poco prima di raggiungere Minas Tirith. Barbalbero si era convinto di star agendo nel modo migliore solo in quel momento, “di estremo bisogno” come aveva detto lo Stregone.
    Rimuginando su quelle informazioni, Sillen raggiunse la propria stanza, bisognosa di un lungo sonno ristoratore. Una volta aperta la porta però, la stella s’immobilizzò, colta da una sorda angoscia.
    Nell’oscurità della stanza, vide lo specchio rotto riflettere la falce sottile della luna, il bicchiere ancora a terra e non poté fare a meno di indietreggiare.
    Serrò gli occhi e strinse i pugni, respirando a fondo: era stata la sua immaginazione, quella mattina, niente di più.
    Non doveva pensarci.
    Dopo qualche minuto, riuscì a convincersi ad entrare, a passi lenti e misurati. Si guardò attorno, dietro la porta, sotto il letto: era completamente sola.
    Non sapeva nemmeno se esserne sollevata o meno.
    Convenne solo che era davvero troppo tesa per dormire.
    Raggiunse le guardie infondo al corridoio e chiese dell’acqua calda: un bagno le avrebbe fatto decisamente bene, soprattutto ai suoi poveri capelli annodati. Inoltre, i suoi muscoli chiedevano pietà dallo scontro con il Re degli Elfi, nei Campi. Trattenne un sospiro, ripensandoci ma non provava alcuna sorta di pentimento: era sicura di aver agito nel modo giusto. Se non si fosse difesa, lui avrebbe continuato a crederla un peso e le avrebbe impedito di seguire la propria strada degnamente. Non aveva bisogno di una balia, tantomeno se la balia era lui.
    Accese qualche candela per rischiarare la stanza, mentre due uomini della Cittadella si affrettarono a portarle una vasca ovale, in legno e ferro. La riempirono d’acqua calda, efficientemente:
-Abbiamo aggiunto dei sali da bagno, speriamo ti siano graditi mia signora. Torneremo a prendere la vasca domani mattina.- Le assicurarono. Sillen li ringraziò con un cenno, notando i loro sguardi dubbiosi che si soffermavano sulla specchiera in frantumi.
    Aspettò con impazienza di rimanere sola, poi chiuse la porta con un tonfo. Con gesti secchi, slacciò gli stivali, calciò i pantaloni in un angolo e gettò la camicia sul letto. Faceva caldo, quella notte ma Sillen non riusciva a sentirlo. La sua pelle era ancora fredda come il ghiaccio.
    S’immerse nell’acqua con un sospiro liberatorio: l’ultima volta che si era concessa un bagno del genere era ancora nel Reame Boscoso, in compagnia della dolce Emlinel.
    Alcune lacrime solitarie le scivolarono sulle guance, cadendo poi nell’acqua profumata e tirò le ginocchia al petto, mordendosi il labbro inferiore. Il silenzio era quasi assordante e Sillen riusciva a sentire ogni increspatura dell’acqua morire contro le pareti di legno della vasca. Avrebbe voluto fare la stessa cosa, esaurendosi onda dopo onda dentro quella conca accogliente.
    Le fiammelle tremolanti delle candele si riflettevano nello specchio rotto, moltiplicandosi decine di volte, come un cielo pieno di stelle.
    Sillen chiuse gli occhi e regolò il respiro, concentrandosi sulle sensazioni che stava provando: era tesa, frustrata, i muscoli contratti. E per la prima volta dal suo risveglio, fu assalita dalla consapevolezza di essere completamente vuota: il suo potere non esisteva più, la sua luce e il suo calore erano perduti per sempre. Il suo corpo era diventato stranamente pesante, come fosse fatto di pietra e la collana ciondolava su di esso, altrettanto pesante.
    Era come se una parte di lei, le sue radici, la sua identità, l’avessero abbandonata a sé stessa, indifesa. Inconsciamente, Sillen aveva passato la giornata divorata da quella verità, ma aveva tentato di mantenersi salda e forte, davanti ai suoi compagni. Adesso, sola nell’intimità della sua stanza, desiderava soltanto di poter tornare indietro, di poter ricominciare da capo e correggere tutti gli errori che aveva commesso. Voleva svegliarsi e trovare Emlinel sulla porta; voleva passeggiare con Felon lungo i corridoi che la portavano alla Sala del Trono; voleva che Thranduil la guardasse in quel modo speciale, mentre le raccontava lunghe storie su guerre ormai passate; voleva che la baciasse come aveva fatto nella Sala delle Udienze e, questa volta, non voleva fuggire.
    Un singolo singhiozzo le sfuggì dalle labbra tremanti e s’immerse completamente nell’acqua, trattenendo il respiro. L’ovattato silenzio sotto la superficie placò per un attimo i suoi pensieri e si sentì quasi leggera.
Solo per un momento.
    Una sensazione di pericolo le attanagliò le viscere e spalancò gli occhi, fissando la superficie davanti a lei: attraverso le sottili increspature dell’acqua, due grandi occhi luminosi come stelle ricambiarono il suo sguardo.
    Sillen sentì il sangue gelarsi nelle vene e avvertì l’immediato bisogno di urlare ma, non appena aprì la bocca, un fiotto d’acqua la invase. Fece per riemergere e prendere fiato ma due mani le trattennero la testa, spingendola con violenza contro il fondo della vasca. Sillen sentì il panico invaderla.
    Era di nuovo lì, era quell’altra.
    E la stava annegando.
    L’acqua era bassa e solo una spanna la separava dall’aria: il bisogno di respirare le fece andare il sangue alla testa.
    Aveva paura, come mai prima di allora. Questa volta, nessun potere avrebbe preso il suo posto per combattere, per proteggerla, nessuno l’avrebbe salvata. Sentì il proprio urlo muto rimbombare nelle orecchie, ovattato, soffocato dall’acqua.
    Afferrò con forza i bordi della vasca, in un disperato tentativo di contrastare quella forza ma fu come spingere contro due colonne di granito.
    Dimenando le braccia e le gambe, Sillen non poté fare altro che fissare attraverso l’acqua agitata quegli spietati occhi di luce, incastonati nel suo stesso volto martoriato.
    Finché le mani non divennero improvvisamente quattro.
    Sillen si aggrappò con forza a quelle nuove mani, divincolandosi come un pesce nella rete. Finalmente, com’erano arrivate, le mani di quell’altra sparirono, permettendole di riemergere. Subito, l’aria calda della sera non riuscì ad arrivarle nei polmoni e dovette tossire a lungo per tirare su tutta l’acqua che aveva ingoiato. Il fatto che stesse urlando e piangendo poi, non migliorava certo le cose.
    Si passò una mano sugli occhi, ansimando per la paura e la fatica, stretta spasmodicamente all’individuo che l’aveva tirata fuori dalla vasca. -Sillen?!- La stava chiamando da un po’ ma lei ancora non aveva trovato le forze per rispondere.
    La stella si guardò attorno, a scatti, cercando quell’altra.
    Ma non c’era più, era di nuovo sparita.
    Allora sollevò gli occhi arrossati dall’acqua e dal pianto e incontrò quelli dorati di Glorfindel, che la fissavano con evidente preoccupazione. La stella singhiozzò, aggrappandosi alla sua camicia, senza riuscire ad articolare una parola. Lo sentì imprecare per parecchie volte, e in più di una lingua, mentre tentava di aiutarla a riprendersi.
    Le scostò i capelli bagnati dalla faccia, guardandosi attorno a sua volta: nemmeno lui aveva idea di cosa fosse appena successo ma ciò che aveva percepito entrando nella stanza lo aveva allarmato, e non poco. Le avvolse un grosso panno attorno alle spalle, sfregandole le braccia per asciugarla.
    -L’hai v-v-isto a-anche tu?- Batté i denti lei, tremando per il terrore, il freddo e la tensione muscolare. Glorfindel scrollò la testa ma si affretto a sollevarla, adagiandola sul letto. La ricoprì di coperte, cercando di riscaldarla, invano: -Cosa è successo? Ti sei sentita male?- Domandò, con un tono d’urgenza che lasciava trasparire lo spavento appena provato. Sillen scosse la testa, rifiutandosi però di allentare la presa delle sue dita sulla sua camicia.
    Glorfindel, ancora irrigidito da ciò che avevano appena vissuto, sedette sul bordo del letto, respirando a fondo: -Non posso allontanarmi un secondo che subito ti vai a cacciare nel guaio successivo. Ho perso mille anni di vita.- Commentò, sfinito.
    La stella si chiuse su sé stessa, tra le coperte, e posò la fronte sulla spalla dell’elfo, assorbendone involontariamente calore ed energia come un’assetata: -E-era lei. Era l-lei.- Biascicò, tremando. Glorfindel le sfregò la schiena con la mano calda e, fingendo di non accorgersene, lasciò che prendesse più energia possibile dal suo corpo: -Shh, è passato, Sillen. è tutto finito, va tutto bene.- E cercò di autoconvincersene allo stesso modo.
    -Davvero non hai visto niente?- Chiese lei, una volta stabilizzata la voce. Glorfindel strinse le labbra: non aveva visto niente nella stanza ma come spiegarle ciò che aveva provato? Era come se un’immensa energia oscura e antica si fosse raggrumata in quella stanza e avesse inghiottito tutti i pensieri felici, le emozioni positive e la luce del mondo.
    Scosse la testa, accarezzando i capelli fradici della stella. Il suo tremore stava via via diminuendo e l’elfo lanciò uno sguardo alla porta d’ingresso: aveva lasciato cadere il vassoio con la cena, che disastro.
    Decise d’impulso di non spaventarla ulteriormente, convinto che, se avesse voluto, sarebbe stata lei a parlarne per prima: -Ho visto soltanto te che annegavi nelle due spanne d’acqua della vasca, Sillen. Puoi spiegarti? Che cosa è successo esattamente?-
    La stella cercò le parole adatte per spiegare ciò che era davvero successo ma, ripensandoci, chiuse gli occhi, allontanandosi leggermente dall’elfo. Era certa che, se avesse raccontato una cosa simile, l’avrebbero presa per pazza e non le avrebbero permesso di partire: perché quella era una cosa folle e assurda, non esisteva nessun’altra lei.
    -Sono scivolata.- Mentì. E, ovviamente, l’elfo dorato non le credette nemmeno per un istante: -Mhm.- Non commentò oltre, temendo di farla innervosire nuovamente.
    Sillen tirò su con il naso, raddrizzandosi e riprendendo fiato:
-Devo vestirmi.- Convenne, passandosi una mano tra i capelli bagnati per scostarli dalle coperte pulite. Glorfindel sollevò le mani: -Aspetta, prima fammi uscire, è meglio. Non che ci sia qualcosa che io non abbia già visto, ormai.- Commentò, cercando di non rendere troppo evidente il tono malizioso che aveva spontaneamente tinto le sue parole.
    In realtà, ci teneva davvero a mantenere un certo contegno: ne aveva decisamente abbastanza di vedere la stella senza vestiti, per una sera.
    Lei annuì, senza cogliere il suo disagio: che differenza faceva averla vista o meno? Certe volte quell’elfo faceva commenti davvero strani.
    E lui non se ne sorprese affatto: era probabile che la Stella nemmeno avesse mai indagato su cosa volesse effettivamente dire essere maschio o femmina. Tantomeno le avrebbe sfiorato la mente l’ampio registro delle possibili relazioni tra i due.
    Thranduil aveva fatto un pessimo lavoro, pensò tra sé e sé.
    -Faccio presto.- Lo rassicurò. L’elfo, prima di muoversi, abbassò lo sguardo sulle mani di lei, ancora serrate sulla sua camicia: -Sì, se mi lasci andare.- L’altra seguì il suo sguardo e schiuse le labbra, mortificata. Staccò le dita intorpidite e rigide una ad una, liberandolo. Lui sorrise, strizzandosi i lembi delle maniche fradice: -Hannon le (grazie).-
    Si avviò fuori dalla stanza ma lei lo richiamò appena prima di vederlo varcare la porta: -Glorfindel?- Questo si voltò a guardarla e, tristemente, lesse ancora paura nei suoi occhi violetti. -Non ti allontanare, per favore.- Lui annuì, serio: -Resto qui davanti. Chiama, se hai bisogno.- E richiuse la porta dietro di sé.
    La stella respirò a fondo, sentendo il cuore martellarle nel petto. Azzardò, a bassa voce: -Sei ancora qui? Chi sei?-
    Nessun fiato, nessun rumore la raggiunse. Forse stava davvero diventando pazza: che fosse il caso di rinunciare al viaggio da sé?
    Scosse la testa, stringendo le lenzuola: no, non avrebbe osato.
    Si affrettò a infilare la veste da notte, strizzando l’acqua dai capelli: -Glorfindel, puoi entrare.- Alzò la voce, impaziente di annullare quell’opprimente solitudine.
    L’elfo spinse la porta con una mano, intento a raccogliere i cocci rotti da terra. Lo sguardo della stella vagò dispiaciuto sulla loro cena, sparsa sul marmo: -Mi dispiace tanto.- Lui scosse una mano, sorridendo: -Non importa, ho mandato le due guardie vicine a prendere qualcos’altro.- Posò il vassoio e ciò che aveva raccolto sulla panca e spolverò la camicia bianca, ancora bagnata. -Tu hai la faccia di chi deve dormire per una settimana di fila, sai?- Le fece, incontrando i suoi occhi violetti cerchiati da occhiaie profonde e lei sorrise, mesta: -In effetti, credo che crollerò.-
    -Non così in fretta. Prima devo cambiarti le medicazioni.- La avvertì, indicando una borsa di cuoio gettata con poca cura vicino al letto: -Di solito è Aragorn ad occuparsene ma non ti ha trovata, prima. Quindi mi ha chiesto di passare, mentre andava a riposare.-
    Sillen annuì, lasciando che l’elfo la sospingesse verso il letto. -Tieni su i capelli.- Chiese lui, arrotolando le maniche.
    S’inginocchiò davanti a lei e dispose metodicamente le boccette di medicinali affianco a sé. Con movimenti sicuri, cominciò a srotolare le bende candide del collo e Sillen sussultò quando l’ultimo strato di esse si distaccò dalla carne ancora tremendamente infiammata. Glorfindel strinse le labbra, dispiaciuto e cominciò a medicarla con delicatezza, estremamente concentrato.
    Per distrarsi dal crescente dolore, la stella osservò il viso familiare dell’elfo dorato, così spontaneamente vicino al suo. Non aveva mai fatto caso a quanta naturalezza riuscissero a interagire, sia nella mente che nel corpo. Ne gioì, tra sé e sé.
    -Non volevo caricarti di questa responsabilità, Glorfindel.- Sussurrò. Lui sorrise, senza distogliere l’attenzione dalle ferite:
-Non avevi scelta. So che trovi questa situazione insostenibile, sai? Nemmeno posso immaginare come dev’essere ritrovarsi privi del proprio potere.- E infierì: -Inoltre, comprendo la tua rabbia. Dopotutto, non poter guidare la spedizione e non essere più degna di scoprire il segreto di Mithrandir non è certo onorevole per la Stella dei Valar.- Il suo sorriso si allargò ulteriormente e la stella, ignorando il dolore al collo, lo colpì al petto con un debole pugno: -Fai silenzio, elfo fastidioso. Sono ancora perfettamente in grado di metterti al tappeto.- Lo avvertì, falsamente minacciosa, provocando la melodiosa risata dell’amico. -Chiedo scusa, che impudente.-
    Scherzarono a lungo, fino a che il dolore non divenne più sopportabile. La presenza dell’elfo dorato, come sempre, scacciò tutta la negatività che circondava la stella, rilassandola gradualmente più di quanto avrebbe potuto fare il bagno caldo.
    Quando Glorfindel cominciò a riporre le medicine, Sillen si stiracchiò con un grande sbadiglio poco aggraziato, sollevata. Incrociò le gambe sul materasso, innocentemente: -Dormi con me, Glorfindel.-
    Un considerevole numero di boccette caddero a terra, in uno scroscio tintinnante. L’elfo spostò lo sguardo da lei alle medicine sparse a terra e poi viceversa, le sopracciglia contratte e le labbra schiuse in un’espressione confusa. Sillen ricambiò lo sguardo, sorpresa e confusa quanto lui. -Io vado a vedere se arriva la cena.- Concluse questi, volgendosi verso la porta e allontanandosi a lunghi passi nel corridoio. La stella non fece in tempo a fermarlo e si guardò attorno, di nuovo angosciata: -Che cosa ho detto di male?-

 
**

    Glorfindel si passò una mano sul viso, cercando di trattenere le risate. Quella stella era davvero un pozzo di sorprese.
    Si scrollò la tensione di dosso, cercando di togliersi dalla testa qualsiasi pensiero poco consono gli fosse sorto spontaneo alle parole della stella: di solito non apprezzava così tanto il gentil sesso e non voleva fare eccezioni proprio ora.
    Dopotutto, aveva altri piani per lei.
    Come se non bastasse, finì quasi per sbattere contro il Re degli Elfi, che marciava a testa bassa verso di lui. -Parli del diavolo.- Commentò. Thranduil, colto di sorpresa, fissò prima l’elfo dorato, poi il corridoio alle sue spalle. E, evidentemente, quello che dedusse non lo rese per niente allegro.
    Glorfindel gli sorrise, intuendo al volo i suoi pensieri: -Cerchi qualcosa, heru en amin (mio signore)?- L’altro lo fulminò con uno sguardo, contraendo la mascella: -Che cosa ci fai tu qui?- Chiese, con falsa noncuranza.
    Glorfindel si passò una mano affusolata tra i capelli ancora umidi, senza smettere di sorridere: -Sillen aveva voglia di fare un bagno.-
    Per un secondo, Thranduil non riuscì né a dire, né a fare niente. Cercò di elaborare quell’informazione, come se gli fosse assolutamente incomprensibile. Glorfindel però, vide chiaramente la sua sorpresa tramutarsi in rabbia e ne fu segretamente compiaciuto.
    In un secondo, si trovò premuto contro il muro del corridoio semibuio, la temibile spada affilata del Re degli Elfi troppo vicino alla sua gola. Thranduil cercò di regolare il respiro, impedendo alla propria mano di sventrare l’elfo davanti a lui: -So che stai mentendo.- Ringhiò. Glorfindel strinse gli occhi a due fessure, serafico: -Allora perché ti scaldi tanto?-
    Stava giocando con lui come il gatto con il topo e solo allora Thranduil capì che non era affatto lui ad avere il coltello dalla parte del manico. Glorfindel continuava a provocarlo, a metterlo alla prova e ora aveva avuto modo di vedere i suoi sentimenti e le sue emozioni tanto chiaramente che pareva quasi li avesse urlati.
    Sì, perché anche se Thranduil aveva inteso da subito che il Vanyar stesse mentendo, il solo pensiero di lei in quella circostanza lo aveva destabilizzato oltre ogni razionale limite.
    E doveva ammetterlo prima di tutto a sé stesso, se voleva contrastare il gioco di Glorfindel.
    -Che tu sia dannato.- Lo lasciò con uno scatto nervoso, facendo sibilare la lama elfica. L’altro si massaggiò il collo, fissandolo negli occhi: -Non ti conviene metterti contro di me, giovane Re degli Elfi.- In quel momento, un giovane si avvicinò, reggendo un vassoio stracolmo di cibo. Glorfindel sorrise, facendogli segno di avvicinarsi.
    Thranduil seguì il vassoio con lo sguardo e lo vide passare dalle tozze mani dell’uomo a quelle grandi e affusolate dell’elfo dorato.
    Questo, prendendo tra le dita un chicco d’uva, si rivolse per l’ultima volta a lui, alzando leggermente la voce: -Se non ti decidi a impegnarti per avere ciò che desideri, mio signore- e piantò gli occhi dorati in quelli di ghiaccio dell’altro, senza velare la sottile minaccia -lo farò io.- E si avviò nel corridoio, voltandogli le spalle.
    Thranduil lo guardò, stringendo l’arma in pugno.
    Quello che lo aspettava, pensò, sarebbe stato davvero un lungo viaggio.

 
**

    Quella mattina, stranamente, cominciò a piovere all’alba. La luce entrò grigia e soffusa nella stanza della stella ma la Stella dei Valar mugolò, comunque infastidita. Nessuno aveva tirato le tende, la sera prima.
    Sospirò forte e mugolò ancora tutto il suo scontento. Aveva bisogno di dormire altre dieci ore, come minimo. E faceva di nuovo freddo.
    Freddo?
    Si rigirò velocemente nel letto, avvertendo subito il vuoto al suo fianco e capì: aveva freddo perché Glorfindel se n’era andato. Si tirò a sedere di scatto, agitata, guardandosi intorno con movimenti nervosi.
    Come aveva potuto lasciarla sola, quel traditore?
    Tuttavia, si ritrovò a fissare proprio il viso perplesso di Glorfindel, seduto comodamente sulla sedia ben sistemata affianco al letto. -Beh, ti svegli tutte le volte così tu?- Commentò lui.
    Lei sentì il peso che le era piombato sul petto svanire e i suoi occhi si riempirono di lacrime: -Oh Glorfindel…- Questi sollevò le sopracciglia, a disagio: -Non metterti a piangere, adesso.-
    Sillen rise, abbracciandolo con slancio: -Pensavo te ne fossi andato.- Singhiozzò, felice, commossa e spaventata allo stesso tempo. L’elfo si lasciò abbracciare, un sorrisetto divertito sul viso d’alabastro: -Che grande considerazione hai di me. Ti avevo promesso che sarei rimasto fino al tuo risveglio.- Certo, aveva saggiamente optato per la più distante, innocente e sicura sedia non appena lei aveva preso sonno, ma Glorfindel di Gondolin mantiene sempre le sue promesse.
    Lei si asciugò le lacrime di nascosto, dietro la sua spalla: -Lo so. Però, non so quanto tu sia affidabile, in realtà.-
-Ma pensa, prima mi obbliga a diventare capo della spedizione e poi mi dà dell’inaffidabile.- Lei si staccò, sorridendo.
    Gli prese la mano, piena di gratitudine: -Grazie, mellonamin.- Lui le accarezzò il dorso delle mani con il pollice, addolcendo lo sguardo. -Vedrai che andrà tutto bene.-
    Poi si alzò, invitandola a fare lo stesso: -Adesso andiamo, i preparativi ci aspettano.-

 
**

    Legolas rientrò nella Cittadella con discrezione, diretto alla propria stanza. Per fortuna, nessuno parve notarlo.
    Non sarebbe stato facile dare spiegazioni sul perché si fosse dileguato nella notte per far visita a quello che di certo non era il suo accampamento.
    Attraversò in fretta il Cortile ma dovette rallentare all’istante quando, sotto il grande portico, la sagoma imponente di suo padre avanzò verso di lui. Legolas strinse i pugni, scocciato e, per un secondo, l’idea di ignorarlo ancora s’impose prepotente nella sua mente.
    Tuttavia, forse era arrivato il tempo di chiarire alcune faccende: dopotutto, nessuno dei due sapeva se si sarebbero rivisti, dopo quel giorno.
    -Adar (padre).- Lo chiamò, con voce dura. Thranduil sollevò lo sguardo su di lui e, per un attimo, a Legolas parve di scorgere una strana espressione sul viso di suo padre.
Qualcosa che somigliava vagamente alla preoccupazione.
Scosse la testa, ignorando quegli assurdi pensieri.
    -Legolas. Dove sei stato? Ti ho cercato stanotte, devo conferire con te per la disposizione dell’esercito.- Lo riprese l’altro, arrestandosi di fronte a lui. Lo sovrastava di quasi una testa e l’elfo biondo si sentì oppresso dal suo sguardo freddo e severo:
-Certo.- Acconsentì, a denti stretti. Drizzò le spalle e, automaticamente, adattò i tratti del viso a quella che Aragorn chiamava “l’espressione del Principe di Bosco Atro”, che tanto lo rendeva simile a suo padre.
    Giunsero insieme nell’ala Est della Cittadella e Legolas fissò con evidente disappunto le sale che Thranduil aveva scelto come zona privata. Quello si diresse nella stanza adibita a studio, accompagnato da un frusciare delicato di vesti. -Qui troverai le informazioni necessarie: viveri, armi, materia prima, tutto ciò che può servire. I generali sono ai tuoi ordini, disponine come meglio credi.- Allungò sulla scrivania di legno scuro una pila di fogli, rilegata da una striscia di cuoio: -Sempre che scomodarti ad interpretare il ruolo di Principe del tuo Regno non ti infastidisca troppo.- Aggiunse il Re, storcendo le labbra in un’espressione d’ironico disprezzo.
    Legolas lo guardò a lungo, sentendo un groviglio di emozioni serrargli la gola: era ferito, arrabbiato, imbarazzato. Voleva allontanarsi dal suo stesso padre, da colui che lo aveva cresciuto con la freddezza del generale e la severità del Re; quello che nemmeno immaginava il dolore che le sue sole parole gli procuravano.
    Invece, Legolas non riuscì a muoversi e i suoi occhi cercarono quelli del padre come una muta necessità: -Perché non mi hai fermato, quando sono partito per ripopolare l’Ithilien? Perché mi hai dato il tuo consenso?- Chiese in un soffio.
    Sarebbe voluto sprofondare, girare i tacchi e correre il più lontano possibile da lì, ma si limitò a osservare la reazione del Re degli Elfi, dinanzi a lui.
    Thranduil si voltò lentamente, una maschera di freddo distacco sul viso. Dal canto suo, non aveva alcuna intenzione di affrontare una simile discussione: -Non era più mio compito prendere decisioni al posto tuo.- Sibilò, facendo ondeggiare le lunghe maniche della veste argentea con un gesto spazientito.
    Legolas strinse i pugni: -Credevo avessi capito. Volevo dimostrarti di essere in grado di costruire qualcosa di grande. Se solo avessi visitato l’Ithilien una singola volta-
    -Tu hai scelto di andartene per servire il Re degli Uomini. Ora, cosa vorresti che ti dicessi? Dovrei forse gioire per l’incredibile altruismo dimostrato dal mio unico figlio?- Finì per alzare la voce, il Sindar, ma si affrettò a chiudere gli occhi, respirando a fondo.
    Dopo un po’, ritrovato il contegno, sollevò il mento, cercando di moderare i toni: -Dovrei gioire del fatto che il sangue del mio sangue abbia volutamente abbandonato il suo regno?-
    Legolas non aveva intenzione di sentirsi in colpa ancora una volta: la sua causa era giusta, le sue azioni erano nobili e l’egoismo di suo padre non doveva macchiare oltre le sue intenzioni. -Dovresti. Perché mi è stato insegnato che combattere per i propri ideali è giusto e legittimo. Che aiutare i compagni è un dovere!- Esclamò, puntandogli il dito contro.
    -Aiutare la tua gente, invece? Oh, non è abbastanza nobilitante secondo il tuo alto parere?- Thranduil si era avvicinato al figlio con un bagliore sinistro negli occhi, oscurando la luce nella stanza, deciso a farlo indietreggiare una volta per tutte.
    Legolas sentì la tensione mozzargli il respiro: suo padre voleva che ricordasse chi aveva di fronte. Come se potesse dimenticarlo.
    Ma l’elfo biondo si rifiutò di abbassare la testa, sopportando la pressione psichica del Re e sostenendo il suo sguardo di ghiaccio: -Non ti sei mai chiesto perché!?- Lo accusò, la voce carica di risentimento. Il volto di Thranduil si contrasse, a una spanna dal suo. Sì, si era posto molte volte quella domanda.
    E conosceva già la risposta.
    Sentì una fitta al petto, tanto forte da fargli perdere le forze.
-Fuori di qui, Legolas.- Ordinò, la voce profonda. L’altro strinse i pugni, troppo infervorato per notare il suo cambiamento: -è colpa tua, padre. Volevo renderti orgoglioso e invece me ne sono andato, sono scappato da te. E mai più ti permetterò di accusarmi di aver tradito il mio popolo. Io ho portato qualcosa di buono, di giusto, su questa Terra. Tu invece, non hai fatto niente per secoli. Resterai solo sul tuo Trono e io-
    Le parole gli morirono in gola quando, inaspettatamente, si ritrovò con il volto premuto contro la spalla del Re degli Elfi. Sentì le braccia di suo padre stringergli le spalle con forza, quasi tentasse di assorbirlo tutto intero.
    Non si sarebbe mai aspettato quella reazione.
    Tornò bambino, quando ancora poteva accadere che Thranduil lo sorprendesse con un gesto gentile, a volte affettuoso ma, per quanto scavasse nella sua lunga memoria, Legolas non ricordava di aver mai ricevuto un abbraccio. Non così, almeno.
    Rimase immobile, incapace di reagire. Non riuscì nemmeno a ricambiare l’abbraccio, troppo imbarazzato e orgoglioso.
    La voce di Thranduil lo raggiunse da sopra la sua testa e poté sentire ogni parola del padre vibrargli nel petto: -Volevo fermarti. Volevo che restassi. E certo che sono orgoglioso di te.-
    Legolas trattenne il respiro: -Perché non me l’hai mai detto?- Thranduil chiuse gli occhi, sfinito: -Forse non ne sono capace.-
Ricordava chiaramente le parole che la stella gli aveva rivolto, quando Legolas si ripresentò al Reame Boscoso dopo la lunga assenza: “Non ti ho mai immaginato come un padre amorevole, Thranduil. Ma credo di conoscerti almeno un po’ oramai e posso intuire quello che hai provato nel rivederlo. E sono certa che anche a lui sarebbe piaciuto saperlo.”
    Non si era reso conto di quanto quella donna l’avesse cambiato.
    Né di quanto gli fosse mancata la presenza di suo figlio. Quel continuo evitarsi, ignorarsi, lo stava logorando dentro.
    -Sono geloso, arrabbiato e questo non puoi cambiarlo, Legolas. Non perdonerò facilmente il tuo interesse verso le faccende del Regno degli Uomini. Vorrei che il tuo impegno fosse rivolto solo alla nostra gente, al nostro Regno. Perché è questo che dovrebbe fare un buon Re. Certo, so bene cosa questo può implicare: rinunciare ai legami di amicizia, sacrificare i propri successi. Vorrei che la pensassi a modo mio, perché per me essere un buon Re è facile.- Riprese fiato, ancora incerto se continuare il suo discorso confusionario. Lo aveva pensato molte volte ma pronunciare quelle parole ad alta voce era più difficile di quanto si fosse aspettato: -Essere un buon padre, invece, è tutt’altra cosa.-
    Sotto le dita, sentiva la morbidezza dei capelli del figlio, dello stesso colore chiaro dei propri: -Hai ragione. Non meritavi la mia freddezza ma non conoscevo altro modo per crescerti.- Legolas strinse le labbra, a quelle parole, trattenendosi dal rispondere: era la prima volta che suo padre si apriva in quel modo con lui.
-Tuo nonno, Oropher, era molto diverso da me. Sia come Re, sia come padre… Mi ha cresciuto con il miele.- Sorrise appena, Thranduil, ricordando. -Tu gli somigli, davvero. Più di quanto mi piaccia ammettere.- I ricordi si fecero più dolorosi e il Re degli Elfi sospirò profondamente, prima di continuare: -Perché io, a causa dei suoi modi, crebbi sensibile, emotivo ed avventato. E quando dovemmo affrontare il terrore della distruzione e della guerra[1], io non fui all’altezza. Salii al Trono completamente impreparato e indegno. Ho dovuto lottare a lungo per imparare a governare.-
    Prese il figlio per le spalle, per guardarlo nuovamente in viso. Vedere i suoi occhi sgranati, così simili a quelli di sua madre, gli strinse il cuore: -Non volevo che tu provassi le stesse cose. Speravo che in questo modo, il tuo animo non soffrisse i miei stessi patimenti.- Legolas si raddrizzò, composto: -Questo lo so.- E distolse lo sguardo, guardandosi attorno ancora scosso:
-Perdonami, non dovevo alzare la voce.-
    Thranduil fece un passo indietro e andò a sedersi sulla poltroncina dall’alto schienale, esausto: -Non scusarti. Va bene così. Avrei dovuto dirti queste cose molto tempo fa, dunque ti ringrazio per avermene dato occasione. Forse non potranno essercene altre.-
    L’elfo biondo si trattenne nella stanza, per nulla intenzionato ad andarsene proprio adesso: -Infatti. Questa guerra potrebbe rivelarsi fatale per molti di noi. Ma sono felice che tu sia qui.- Poi aggrottò le sopracciglia sottili, riflettendo: -Perché hai scelto di unirti alla causa? Cosa ti ha fatto cambiare idea?- Thranduil si massaggiò le tempie con una mano: dannazione, come faceva a spiegare qualcosa che a malapena comprendeva?
    -Dopo molte ricerche, ho convenuto che fosse il caso di intervenire. Il nemico era più potente di quanto avessi voluto vedere.- Legolas si aggiustò la camicia verde bosco, lanciandogli un’occhiata da sotto le ciglia per non farsi notare: -Dunque Sillen non c’entra niente.- Thranduil si voltò di scatto verso di lui, schiudendo le labbra: -Cosa intendi dire?-
    L’elfo biondo dovette trattenersi dallo scrollare la testa, incredulo: -Da quanto ho intuito, lei ti ha dichiarato il suo amore e tu l’hai respinta. Pensavo fossi qui per rimediare ma, quando ho visto come l’hai trattata nella Sala del Trono, mi sono ricreduto. Ora mi è tutto chiaro.- Thranduil lo fermò, piccato: -Lei si è dichiarata?- L’altro piegò la testa di lato, confuso: -Ho interpretato male?-
    Come fosse stato appena insultato, il Re sollevò il mento, chiaramente infastidito: -Malissimo, oserei dire. Lei non ha dichiarato proprio niente, tantomeno io. Ha sempre fatto i suoi comodi e non le è mai importato degli altri.- Precisò, senza che ce ne fosse bisogno.
    L’altro, intanto, ancora non riusciva a venire a capo di quell’intricato rapporto tra i due ma era chiaro che suo padre avesse frainteso qualcosa. Ricordava chiaramente Sillen, nel Cortile, confessargli candidamente di essere innamorata di suo padre, prima della battaglia.
    -Ti consiglio di parlarle perché, da quanto so, lei pensa ben altro di te.- Chinò la testa, rispettosamente: -Comunque, grazie per avermi donato il tuo tempo, Adar. Farò del mio meglio per guidare il tuo esercito.- Thranduil ricambiò il cenno e lo guardò uscire, con un velo di nostalgia nello sguardo.
    Inaspettatamente, quell’ultima, lunga e vuota giornata nella bianca Città dei Re si era dimostrata di enorme importanza.
    E non l’avrebbe mai più dimenticata.



 
 
[1] In questo suo discorso, Thranduil ricorda gli avvenimenti della Prima e della Seconda Era, che caratterizzano il suo burrascoso passato. Anche se la sua data di nascita è sconosciuta, pare abbia combattuto e sia sopravvissuto alla Battaglia delle Mille Caverne, al Secondo Fraticidio e alla Rovina del Doriath (la sua terra natia). Forse prese parte anche alla Guerra d’Ira. Salì al trono nell’anno 3434 S.E, quando suo padre Oropher (primo Re di stirpe Sindar a governare sugli Elfi Silvani) perse la vita nella Battaglia di Dagorlad, al fianco dell’Ultima Alleanza contro gli eserciti di Sauron.


 


  N.D.A

Ciao a tutti!

Anche questa settimana sono riuscita ad aggiornare, sono molto contenta T-T
Chiedo scusa in anticipo, perché ancora per questa volta non ci siamo calati nel cuore dell’avventura XD
Questo capitolo è sicuramente un intermezzo, un focus su alcuni personaggi prima della loro partenza ma non ho avuto il cuore di tagliarlo via. Seppur siano di certo tutte situazioni “riassumibili”, non me la sono sentita e ho preferito rendervi partecipi di quanto avevo immaginato senza sottovalutare niente. Fatemi sapere se vi è parso un episodio pesante o noioso, oppure se avete trovato la lettura piacevole e ben inserita.

Spero di pubblicare presto il prossimo capitolo in modo da non spezzare troppo drasticamente il filo avventuroso della storia. Scusate, non volevo far scendere l’hype, in poche parole ahahah

Ringrazio tanto chi ha seguito la storia, l’ha preferita e/o recensita! E un grazie a chiunque sia arrivato fino a qui!

Un bacio grande e alla prossima!
Aleera

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Capitolo 29
*** Freddo, buio, fuoco ***


-Freddo, buio, fuoco-
 
 

    Il sole era ormai affiorato oltre le scure creste degli Ephel Dùath[1], annunciando la partenza della Nuova Compagnia con i suoi taglienti bagliori rossi.
    Gli alleati, sfilando come silenziose sagome nere in una lenta processione, si riunirono nel cortile della Cittadella. Qui, le tre grosse Aquile raspavano il pavimento di pietra con le possenti zampe artigliate, impazienti. I loro cipigli, inequivocabili anche sugli affilati volti rapaci, tradivano un irritato disappunto: sui loro dorsi spaziosi erano state caricate le provviste, le armature dei viaggiatori e una considerevole quantità di armi, costringendole a sopportarne le strette cinghie di fissaggio. Mai un Maiar della loro nobile specie si era abbassato ad accettare tanto. Inoltre, con quel peso non indifferente, avrebbero dovuto compiere più pause di quanto fosse saggio, esponendosi al pericolo della terra ferma.
    La Stella dei Valar le guardò con espressione colpevole, tentando di sorridere: -Vi siamo profondamente grati per ciò che fate.- L’aquila color bronzo al suo fianco fece schioccare il becco in un suono minaccioso ma si trattenne dal rispondere: dopotutto, era un sacrificio che erano disposte a fare, per il bene dei popoli liberi.
    Sempre in virtù di questo principio, l’aquila bronzea lasciò che Ibûn, il mastro fabbro nano, controllasse ancora una volta la sottile armatura in mithril della stella, ben fissata sul suo dorso. Il nano dai favoriti bianchi, scostando la stoffa, fece cenno alla giovane donna di avvicinarsi: -Ricordati di partire sempre dal laccio destro, quando la indossi.- Le ricordò: -E se l’armatura dovesse bagnarsi, asciugala subito. Rimarrebbero- La stella sorrise, intenerita dai suoi gesti apprensivi: -Rimarrebbero brutti aloni antiestetici. Lo so, Ibûn.- Il nano le diede un buffetto sul braccio, lanciandole un’occhiata eloquente: -Beh, ti ho detto tutto. Fa’ attenzione.-
    Glorfindel, una volta congedati i due Principi di Gran Burrone con un profondo inchino, si voltò verso la stella, indirizzandole un occhiolino sornione: -Andiamo, Sillen. è ora.- La stella, tuttavia, sentì lo stomaco contorcersi per l’agitazione e si costrinse a respirare a fondo. Il viaggio sarebbe stato breve: doveva solo raggiungere la Contea, risolvere il mistero e tornare dai suoi compagni con una soluzione.
    Niente di più facile, sarebbe andato tutto bene.
    Elessar l’affiancò, intuendo i suoi pensieri cupi, e le posò una mano sulla spalla: -Vedrai Sillen, la Contea ti piacerà. Non hai nulla da temere, laggiù non incontrerai nemici. E porta i miei saluti a Casa Baggins, mi raccomando.- Sorrise, cercando di apparire più tranquillo di quanto non fosse.
    L’altra gli strinse la mano, cercando istintivamente i suoi occhi gentili: -Non so come farò senza di te, Elessar. Siamo sempre stati insieme e adesso…- Sospirando, il Re degli Uomini le passò un braccio attorno alle spalle, stringendola a sé: -Stavo giusto cercando di non pensarci. Cerca di non fare niente di stupido o di avventato, questa volta.-
    Sillen seppellì il viso nel suo petto, che le scaldò la guancia fredda. La sua voce arrivò al Re soffocata, il tono scherzoso:
-Prometto di provarci ma non ti assicuro nulla. Voi non fatevi uccidere, mentre sono via.- Lui rise, scompigliandole i capelli con tenerezza: -Faremo del nostro meglio.- Poi, deciso, la sospinse con un vigoroso gesto d’incoraggiamento: -Al nostro prossimo incontro, Stella dei Valar!-
    Era doloroso guardarla partire, dopo tutto quello che avevano passato insieme ma aveva fiducia in lei. Era giusto che affrontasse quel viaggio, tanto quanto lo era per lui rimanere a difendere la propria casa.
    Cercò di scacciare i propri cupi presentimenti, mentre la osservava allontanarsi: -Buona fortuna.- Sussurrò, scrutando poi il cielo dorato con apprensione.
    La stella, con rinnovata sicurezza, raggiunse il centro del cortile e chinò la testa rispettosamente, salutando tutti i generali alleati: -Abbiate cura di voi, miei signori. Namárie, tenna’ ento lye omenta (addio, fino a quando ci rivedremo).- Ma, osservandoli bene, notò che qualcuno mancava all’appello.
    Perplessa, Sillen cercò Legolas con lo sguardo e si stupì non poco, quando lo trovò accanto al padre, vicino alle grandi aquile brune. Fece per raggiungerlo ma le espressioni sui visi dei due elfi le fecero cambiare idea: parlavano tra loro con grande calma, guardandosi negli occhi e scambiandosi lievi sorrisi.
    Fu una scena oltremodo inaspettata ma scaldò piacevolmente il cuore della stella: non li aveva mai visti così sereni, insieme.
    Thranduil, pur mantenendo il suo portamento innegabilmente regale, aveva messo da parte le sue preziose vesti per adottare una mise decisamente più spartana: una camicia candida, strette brache scure e un lungo mantello color terra. Senza i suoi abituali orpelli, somigliava ancora di più al suo giovane figlio.
    Legolas s’inchinò davanti a lui in segno di saluto e, quando si voltò verso la stella per incontrare il suo sguardo attento, parve arrossire. La raggiunse velocemente, facendo ondeggiare i sottili capelli biondi: -Perché mi stai fissando con quell’espressione ebete sulla faccia?- Sussurrò, quasi imbarazzato.
    Lei rise, divertita: -Sono solo molto felice. Pare che voi altri vi siate riappacificati.- Commentò. L’elfo sollevò leggermente le spalle: -Abbiamo parlato, tutto qui. Non credo che questa tregua durerà a lungo.-
    Sillen non osò dubitare delle sue parole sarcastiche ma non poteva che essere contenta per lui.
    Era evidente la sua gioia e persino la sua pelle pallida era illuminata da un’aura di energia positiva.
    Il suo sguardo si addolcì, nostalgico: -Mi mancherai, amico mio.- Si abbracciarono forte, cercando di non soffermarsi sul terribile pensiero che quella potesse essere l’ultima volta: -Anche tu mi mancherai.-
    Quando si lasciarono, Legolas indietreggiò, affiancando un commosso Gimli: -Beh, buona fortuna, Sillen. Che i Valar ti proteggano.- La salutò, tirando su con il naso per mascherare la propria emotività.
    Thorin III Elminpietra, energico come sempre, sbatté il manico della sua ascia a terra, rivolgendosi al compagno con tono risoluto: -Se qualcuno deve proteggerla, quello sarò io. Non serve scomodare qualche entità sovrannaturale.- Precisò, lisciandosi la lunga barba intrecciata.
    Pur senza la sua armatura, il Re sotto la Montagna vantava un fisico massiccio, le spalle tanto ampie da tirare notevolmente il sottile tessuto della camicia scura: in effetti, nessuno con un minimo di buon senso avrebbe osato mettersi sulla sua strada.
    Sillen lo ringraziò con un cenno del capo, sorridendo. -Dunque, vado.- Annunciò, inchinandosi un’ultima volta e raggiungendo Glorfindel.
    L’elfo dorato, già pronto da un bel pezzo, le passò seccamente due grossi indumenti, pesantissimi: -Non sarà come volare in battaglia. Il viaggio è impegnativo e ad alta quota farà molto freddo. Mettili entrambi.- Lei cercò di intuire il verso di quegli informi pezzi di stoffa ma, spazientito, Glorfindel glieli tolse dalle mani dopo pochi secondi. Quei gesti veloci e secchi lasciavano intendere alla stella quanto anche quell’irritante e sprezzante elfo fosse agitato, minando la calma che era riuscita a mantenere fino ad allora. Lui le fece passare i due mantelli dalla testa e questi scivolarono lungo il corpo della stella, avvolgendola completamente come il bozzolo di una farfalla. Erano davvero caldissimi, seppur ruvidi e scomodi.
    Sovrappensiero, Sillen lanciò distrattamente uno sguardo verso il Re degli Elfi e, all’istante, il suo cuore perse un battito: si ritrovò violentemente incatenata agli occhi di ghiaccio di lui, già fissi su di lei, pungenti come schegge di vetro.
    Perché diamine la stava guardando?
    Notando il suo sussulto sorpreso, Thranduil s’irrigidì a sua volta, ma distolse rapidamente l’attenzione, come se niente fosse. La stella, libera dal contatto visivo, serrò la mascella e tornò a respirare, maledicendo sé stessa per quella reazione decisamente fuori luogo.
    Era inutile fingere, quell’elfo era in grado di destabilizzarla con un solo sguardo.
    Ma per tutti i Valar, odiava constatare ogni volta quanto potere lui esercitasse sulla sua mente. E sul suo corpo.
    Essersi innamorata di lui, pensò, era la cosa peggiore che potesse capitarle.
    Scrollò la testa, cercando di snebbiare la mente in subbuglio.
    Purtroppo, l’elfo dorato al suo fianco si era goduto tutto lo spettacolo con un allarmante ghigno stampato sul viso d’alabastro: non si sarebbe lasciato sfuggire l’occasione.
    Mentre aiutava un’infagottata Sillen a issarsi sull’aquila, si fece fastidiosamente malizioso, il tono compiaciuto: -Puoi anche fare finta di niente se vuoi, Stella dei Valar. Ma non ti stacca gli occhi di dosso nemmeno per sbaglio.- La stella, sussultando per la sorpresa, non poté fare altro che lanciargli un’occhiataccia di sbieco, arrossendo violentemente.
    Non intendeva subire le sue battutine a riguardo.
    Glorfindel si stupì quando, alla reazione della stella, il suo cuore accelerò lievemente il ritmo pacato dei suoi battiti. Si portò una mano al petto, pensieroso.
    Forse stava cominciando a farsi coinvolgere troppo, da quella storia. Non era già sceso a chiari patti con sé stesso, quando aveva compreso i sentimenti della stella?
    Fu la voce tagliente di quest’ultima a distoglierlo dai suoi pensieri turbati: -Certo, quello mi sta con il fiato sul collo. Deve controllare che l’inutile umana non sia d’intralcio.- Commentò, a denti stretti. L’elfo dorato scosse la testa, salendo davanti a lei con movimenti fluidi: -Se lo dici tu, inutile umana.-
    Quando tutti e quattro i viaggiatori furono saldamente sistemati sui dorsi caldi delle aquile, Re Elessar sollevò una mano, in un ultimo e solenne saluto: -Vanya sulie, mellyn. I venti vi siano favorevoli! Affidiamo a voi la nostra speranza.-
    E i grandi Maiar, rapidamente, si lanciarono oltre il bordo del cortile di pietra, dritte nel vuoto. Presero quota tanto velocemente da far girare la testa alla stella, dandole le vertigini. Per fortuna, Glorfindel era più che stabile e le bastò aggrapparsi al suo mantello grigio per ritrovare l’equilibrio. Abbassando lo sguardo, poté ammirare Minas Tirith nella sua interezza per un’ultima volta: era ancora vistosamente deturpata dalla passata battaglia ma lucente come un gioiello bianco tra le montagne rocciose.
    Lasciarla alle proprie spalle, fu tremendamente doloroso.


 
**

    Thranduil, arrendendosi al suo stesso istinto, si voltò per l’ennesima volta verso la stella, studiando le sue condizioni.
    Persino da venti piedi di distanza riusciva a vederla tremare di freddo[2] ma la giovane non aveva osato dire una parola: come al solito, stava mettendo la riuscita del viaggio prima di sé stessa, con un fastidioso altruismo assolutamente non richiesto.
    Volavano ormai da mezza giornata e si erano fermati solo per una breve sosta, trovando uno spiazzo sulle alture più vicine. Fino ad ora, i viaggiatori non erano mai scesi di quota, accompagnati solo dal fianco grigio degli Ered Nimrais, alla loro sinistra, e dalle grandi pianure rigogliose dell’Ovestfalda, al di sotto.
    E la stella sarebbe morta congelata prima di sera, se non si fossero decisi ad atterrare in fretta.
    Thranduil scrutò il paesaggio davanti a loro, riflettendo velocemente: quello era un luogo abbastanza tranquillo. Si rivolse a Glorfindel, perentorio, levando la sua voce oltre il persistente rombo del vento: -Fermiamoci qui per un po’.-
    L’elfo dorato si voltò a guardarlo, sorpreso. Sorrise tra sé e sé: da quanto aveva capito, sarebbe dovuto essere lui il capo della compagnia, non Thranduil. Quel giovane Re degli Elfi si prendeva sempre troppe libertà, forse era il caso di farglielo notare.
    Fece per ribattere, quando sentì la mano della stella stringergli il mantello con più vigore. La voce di lei uscì a scatti, interrotta dal battito frenetico dei suoi denti: -N-non ascoltarlo. And-d-diamo avanti.-
    Glorfindel aggrottò le sopracciglia, voltandosi verso di lei con aria interrogativa. La stella sollevò a fatica il viso dorato, scostando leggermente il cappuccio che le celava i lineamenti contratti: -P-pensa che io n-non s-sia in grado di continuare.- Tremò, stringendo i pugni: -C-ce la faccio.-
    In effetti, erano ore che i suoi tremori andavano intensificandosi, ammise l’elfo dorato. Pensava che il suo calore corporeo, superiore anche a quello degli esseri umani, potesse bastarle per resistere a quelle basse temperature ma i pesanti indumenti che le aveva fatto indossare li isolavano troppo.
    Non era stato abbastanza attento, abituato a non avvertire il freddo anche in quelle condizioni estremamente rigide.
    Strinse le labbra: -Sillen…-
    Thranduil sentì i muscoli contrarsi in uno spasmo nervoso, irritato dalla patetica scena. Anche se il vento gli impediva di sentire la sua voce, il Re degli Elfi sapeva che la stella aveva testardamente dato contro al suo ordine: -Le aquile devono riposare.- Dichiarò, cercando di far leva sulla seccante inclinazione che la portava a preoccuparsi per gli altri.
    I grandi Maiar, intanto, non si espressero in merito alle sue parole. Erano ben nutriti e riposati e potevano di certo volare ancora a lungo ma non avrebbero protestato all’ordine del Re degli Elfi: un’altra pausa era più che gradita, con tutto quel peso addosso.
    Sillen guardò Thranduil con bruciante disappunto e cercò di alzare la voce: -N-non decidi tu!- Ma Glorfindel, al quale invece la decisione spettava di diritto, aveva già ponderato la situazione:
-Atterriamo!-
    Sillen si morse il labbro inferiore, ferita. Non erano nemmeno a metà del viaggio e già lei si sentiva di troppo.
    Per contro, l’unico membro della compagnia a rallegrarsi della notizia fu il Re nanico. Poco dietro di loro, rispose all’ordine di Glorfindel con voce tonante, superando senza difficoltà il frastuono delle correnti: -ERA ORA DANNAZIONE, HO FAME.-

    Le tre grandi aquile atterrarono con tonfi leggeri tra l’erba alta, ai confini con Isengard, sotto il caldo sole di mezzogiorno.
    Glorfindel scese per primo, guardandosi attorno: non vi era anima viva in tutta la valle, a parte qualche piccolo volatile canterino di passaggio.
    L’aquila ramata scollò il piumaggio, voltando la possente testa rapace verso la stella: -Abbiamo volato troppo in alto. Sopra i diecimila piedi, l’acqua diventa ghiaccio.- Disse con voce profonda, senza che il suo becco accennasse un movimento. Sillen, scossa da violenti tremori, sorrise: -Va t-tutto bene. Mi riprenderò in un attimo.-
    Glorfindel tese le braccia, aiutandola a scendere. Era davvero gelida e rigida come un blocco di marmo e la lasciò sedere a terra, visibilmente sfinita. Il caldo sole di Luglio, però, cominciò ben presto a scioglierle le membra e Sillen poté trarre un profondo sospiro di sollievo.
    Nel frattempo, Thorin aveva già disposto a terra tutto il necessario per cucinare, fedele al suo senso pratico: -Ah, poche storie. Vedrai che la mia carne allo spiedo ti farà tornare come nuova.- Le fece segno di sedersi vicino al fuoco e le allungò la propria borraccia: -Sai perché noi nani non soffriamo il freddo? Perché mangiamo tanto e beviamo anche di più! Parola mia, ti farò mettere un po’ di sostanza su quelle ossa.-
    Sillen non riuscì a trattenere una risata, raggiungendolo lentamente. Sfilò velocemente i pesanti mantelli freddi e si beò del calore del sole e del fuoco, che colorò le sue guance gelide.
    Bevve un sorso dalla grande fiaschetta e si ritrovò a tossire forsennatamente, sconvolta: -Che cosa accidenti è questa bevanda?- Thorin ammiccò, bevendo un sorso a sua volta: -Birra, mia venerata signora. Bella fresca!-
    Tra un sorso e l’altro, inutile dire che Sillen divorò con piacere la calda pietanza che il nano aveva abilmente cucinato per lei: erano settimane che non era così soddisfatta di un pasto.
    -Mio signore, dico davvero: sei il miglior cuoco della Terra di Mezzo!- Gemette, a bocca piena. La testa le girava lievemente e una strana sensazione di benessere le ovattava i sensi, rendendole il corpo stanco ancora più pesante e difficile da manovrare. L’altro rise fragorosamente, assestandole una pacca d’approvazione sulla spalla e facendola così barcollare in avanti, priva di equilibrio: -Che ti avevo detto!?-
    Thranduil, compostamente appoggiato alla roccia della montagna, scrollò la testa e incrociò le braccia, osservandoli.
    Ignorò il subbuglio interiore che si scatenò nel suo petto, distogliendo lo sguardo dal viso allegro della stella. Non che non conoscesse i suoi sorrisi. Anzi, conosceva benissimo ogni espressione che quel viso dorato era in grado di assumere: semplicemente, era passato troppo tempo. Doveva imparare nuovamente a farci l’abitudine senza che le sue emozioni ne rispondessero con troppa avventatezza.
    Glorfindel, apparso al suo fianco come un fantasma, introdusse nel suo campo visivo una grossa e lucida mela, facendogli alzare gli occhi al cielo: -Tu non hai fame, amico mio?- L’altro sospirò, infastidito e gli allontanò il braccio: -No, per niente.-
    L’elfo dorato addentò la mela, per nulla sorpreso da quel fare sgarbato: -Sillen pensa che tu abbia dato l’ordine di atterrare per colpa sua. È così?- Chiese, a bruciapelo.
    Thranduil soppesò le parole, prima di rispondere: -Sì. Era evidentemente in condizioni pietose. Strano che tu non te ne sia reso conto.- Sorrise appena, lo sguardo tagliente: -Perdi colpi, Alto Elfo. O forse non t’importava affatto.- Glorfindel sorrise a sua volta, seppure la frecciata del Re l’avesse fastidiosamente colpito: -D’ora in avanti farò più attenzione.-
    Seguì lo sguardo del Re degli Elfi, diretto verso gli altri due compagni: Sillen si stava allegramente massaggiando lo stomaco, soddisfatta, infastidendo il povero Thorin, che invece era profondamente impegnato a pulire ogni stoviglia con grande cura. Ancora una volta, il Re nanico dovette sottrarle uno spiedo appuntito dalle mani curiose: -Suvvia, dammi quell’affare, ti caverai un occhio.- Lei si imbronciò lievemente, arrossendo: -Ma cosa dici, non sono mica una bambina.-
    Era davvero un peccato interrompere quel piacevole momento, pensò l’elfo dorato. -Meglio non attardarci troppo, amici miei.- Li richiamò, avvicinandosi.
    Thorin si alzò, rivolgendosi all’elfo con fare ironicamente servizievole: -“Come il Portatore del Messaggio comanda”.- E Sillen ridacchiò, lanciando poi a Glorfindel un’occhiata falsamente dispiaciuta.
    Questo la tirò su di peso, provocandole un’altra risata: -Oh, lo trovi divertente? Osi ridere del Portatore del Messaggio? Beh, senti quanto ti ha rimpinzata il Re sotto la Montagna. A malapena riesco a sollevarti, sai?- La stuzzicò, divertito.
    Ancora allegra a causa della forte birra nanica, Sillen si aggrappò al suo braccio per non cadere, tentando di tornare lucida: -Aspetta che mi riprenda e vedrai. Giusto il tempo di smaltire…- Glorfindel allargò il proprio sorriso in un ghigno saputo, l’espressione maliziosa: -Non che mi dispiaccia. Le fanciulle ubriache sono sempre piacevolmente disponibili, sai?-
    Lei sollevò un sopracciglio, cercando di immaginare per cosa potessero essere disponibili le suddette fanciulle ma si limitò ad agitare una mano in segno di diniego.
    Si avviarono verso l’aquila ramata, che li attendeva placidamente accoccolata nell’erba alta.
    Fu Thranduil a fermarli, con la voce talmente bassa e profonda da far rizzare loro i peli sulla nuca: -Sillen viene con me.-
    A quelle brevi, dure parole, i sorrisi rilassati della stella e dell’elfo dorato svanirono lentamente, lasciandoli impietriti.
    Sillen, nonostante il gelo del suo corpo vuoto, sentì una vampata di calore invaderla con irruenza, facendola inevitabilmente rabbrividire: -Cosa?-
    Il Re degli Elfi non si scompose, fronteggiando il suo sguardo violetto con estrema sicurezza: -Non farne una questione personale. Tu non puoi sostenere a lungo il viaggio, nelle condizioni attuali. Tuttavia, la Maia Gwain è la più veloce e può tenere il passo delle altre anche a quote notevolmente più basse.- Indicò con un cenno del capo l’aquila bruna alle sue spalle, la stessa che lo aveva trasportato fino a quel momento.
    Glorfindel fissò il Sindar con evidente interesse, un sorriso sghembo sul viso: -Ottima osservazione, mellonamin.-
    Sillen tentò di riflettere su quelle parole, impedendosi a stento di cadere nel panico. Come aveva sottolineato il Re degli Elfi, non era una questione personale, si trattava solamente di una soluzione saggia e pratica.
    Era addirittura una buona idea.
    Ciononostante, la distante freddezza del Re le procurò una cocente delusione, che riempì i suoi occhi ametistini di lacrime amare: aveva davvero sperato che Thranduil desiderasse averla accanto.
    Che stupida, stupida ragazzina. E per giunta quasi ubriaca.
    Si passò una mano sul viso, trattenendo un respiro tremante.
    Arresa a quello svolgersi degli eventi, fece per infilarsi i pesanti mantelli ma Thranduil interruppe il suo gesto: -Solo uno.- Ordinò, tagliente. Le diede le spalle, accompagnate dal morbido fruscio del mantello bruno che ne sottolineava la linea dritta e squadrata.
    Con le gambe improvvisamente molli, Sillen lo seguì, raggiungendo Gwain con una crescente tensione a punzecchiarle lo stomaco.
    Thranduil si girò verso di lei per aiutarla a salire ma, istintivamente, la stella fece un passo indietro. Fu un gesto improvviso, forse scortese ma lei non aveva la minima intenzione di scusarsi. Attese una reazione da parte del Re, pronta a rispondere a tono a qualsiasi accusa lui avesse avuto voglia di rivolgerle.
    Invece, dopo un brevissimo moto di sorpresa, il Re degli Elfi sollevò lo sguardo su di lei, riducendo gli occhi a due fessure. Si costrinse a respirare, moderando il tono della voce che sapeva sarebbe stato duro: -Come vuoi. Ma non farmi perdere tempo.-
    Lei deglutì, stringendo le labbra con un’espressione che sarebbe dovuta sembrare risoluta. Ovviamente, l’inutile umana doveva sbrigarsi, pensò.
    Superò il Re elfico a testa alta, salendo da sola sul dorso della paziente aquila bruna, che sopportò i suoi gesti resi goffi e incerti a causa dell’alcol. Thranduil, dal canto suo, rimase immobile e aspettò che ogni fibra del suo corpo fosse pronta per affrontare l’imminente tortura alla quale si stava volontariamente sottoponendo.
    Quando Sillen, non senza una nota di panico, sentì l’elfo salire dietro di lei, s’irrigidì all’istante, con un misto di stupore e protesta ad affollarle la mente. Cosa che non impedì affatto a Thranduil di stringerla con un gesto deciso, lasciando che il suo mantello la circondasse completamente.
    Glorfindel, spettatore impassibile di quella scena, si rivolse ai compagni con voce gentile: -Ci accamperemo per la notte una volta arrivati a Tharbad.[3] Fino ad allora, non ci fermeremo.- Decretò. Le aquile gli lanciarono occhiate d’assenso, preparandosi a riprendere quota.
    Sillen incontrò lo sguardo dorato di Glorfindel per un solo istante, prima che i Maiar si alzassero in volo e, questa volta, lui non stava sorridendo.

    Gwain pareva una freccia nel cielo, sicura e costante. Era davvero più abile dell’aquila ramata e riusciva a tagliare le rumorose correnti con più facilità, rendendo il volo estremamente stabile, quasi piacevole, anche per la fragile stella.
    Certo, a contribuire vi era il fatto che volassero svariati piedi al di sotto dei compagni, dove le temperature non erano così rigide; per non parlare dell’effetto dell’alcol, non ancora del tutto svanito, e il calore prepotente del corpo del Re, dietro di lei.
    Sillen, dopo qualche ora di ostinata rigidità, si era arresa alla promessa dell’invitante tepore dell’elfo, finendo per far aderire la schiena al suo petto millimetro dopo millimetro, tentando di non farsi notare.
    Beh, poco male se così non fosse stato: l’aveva voluto lui.
    Che fosse disgustato, irritato o chissà cos’alto, non le importava. E, in secondo luogo, era ormai troppo comoda e rilassata per curarsene.
    Per fortuna, Thranduil aveva avuto il buon senso di tenerla stretta davanti a sé perché, alla fine, la stella si addormentò, abbandonata contro di lui come uno scomodo fagotto.
    Non che la cosa gli rendesse più facile sopportarne la presenza, beninteso. Nonostante lei fosse fredda e vuota come una statua, ormai priva di ogni fascino o attrattiva, Thranduil non riusciva a frenare il suo soffocante desiderio nei suoi confronti. Percepiva ogni fibra del suo essere tendersi selvaggiamente verso di lei, senza che potesse in alcun modo evitarlo. Quella stella era stata l’unica entità in grado di provocare in lui sentimenti e sensazioni che pensava di aver dimenticato da secoli, e ora doveva fare i conti con ognuna di loro.
    Sapeva dall’inizio che quella situazione avrebbe potuto metterlo alla prova più di quanto non fosse saggio… Ma preferiva di gran lunga sopprimere le proprie emozioni, piuttosto che lasciarla un secondo di più con quel maledetto redivivo dorato.
    Strinse automaticamente la presa su di lei, a quel pensiero.
    Scoprire la gelosia lo aveva profondamente destabilizzato: gli Elfi non percepivano il bisogno di essere gelosi tra di loro, poiché nulla avrebbe potuto separare due anime legate dall’amore, nemmeno in tutta una lunga vita immortale.
     Con la Stella, invece, il Re degli Elfi aveva dovuto cambiare il suo punto di vista su tante cose. Persino sull’eventualità di potersi innamorare ancora una volta.
    Chiuse gli occhi, respirando a fondo: l’essere destinato alla guerra -e che l’aveva così costretto a combattere a sua volta- era davvero colei che amava?
    L’ipotesi era oltremodo ridicola ma nella sua mente riecheggiava solo una sorda risposta affermativa.
    Sillen si mosse nel sonno e il pesante cappuccio le scivolò dal capo, liberando le sue onde corvine. Mosse dal vento che spandeva il loro esotico profumo, queste solleticarono come nastri di seta la pelle del Re degli Elfi che, con un gesto secco e nervoso, ricacciò immediatamente il cappuccio sulla testa della stella.
    Disturbata dal gesto rude, questa si raddrizzò di colpo, svegliandosi: -Cosa diamine ti prende?- Ringhiò, allontanandosi un poco e incrociando le braccia sul petto.
    L’elfo, immobile e regale, nemmeno abbassò lo sguardo su di lei: -Se ti azzarderai a dormire addosso a me un’altra volta, ti lascerò cadere di sotto. Ricorda con chi hai a che fare.- Rispose con sufficienza, prima di sospirare lievemente.
 

 
**

    Nella fioca luce della sera, Tharbad si presentò dinanzi a loro come un enorme labirinto di ruderi e stradine di pietra chiara.
    Completamente disabitata da molti anni, la grande città pareva pervasa da un’inquietante aura sinistra, dentro la quale nemmeno un rumore s’azzardava a presentarsi.
    Al contrario di Minas Tirith, gli edifici non s’innalzavano su più livelli ma si perdevano nell’orizzonte come tanti megaliti, ricoperti di rampicanti rossastri.
    Sillen rabbrividì, sistemandosi meglio i bagagli sulle spalle.
    Le aquile sarebbero rimaste fuori dalla città, in modo da potersi muovere liberamente, mentre loro avrebbero cercato riparo dentro le mura, per sicurezza.
    I quattro membri della Compagnia camminarono per qualche tempo, addentrandosi nella prima cerchia fortificata.
    Solo Glorfindel pareva completamente a suo agio, in quel luogo abbandonato: -Tharbad era una città molto bella, durante la Seconda Era. Piena di vita, di colori. Ricordo i grandi mercati che si tenevano qui, famosi in tutta l’Eriador.- Sorrise, al ricordo: -Tra poco sentiremo il gorgoglio dell’Inondagrigio.-
    In effetti, non passò molto prima che i viaggiatori percepissero la presenza del grande fiume, davanti a loro.
    -Accampiamoci qui, non serve avanzare oltre. Comunque sia, all’alba dovremo ripartire e si sta già facendo buio. - Commentò Thranduil, osservando le grandi case fatiscenti attorno a loro tingersi dei colori del tramonto.
    Sillen posò le pesanti sacche, sfinita, ringraziando mentalmente il Re degli Elfi. Dato che, proprio a causa sua, non aveva potuto chiudere occhio durante il viaggio, si stava di certo facendo perdonare, anche se non intenzionalmente.
    Glorfindel, con un sorriso comprensivo, le passò le borracce vuote: -Ci pensiamo noi ad allestire il campo, tu vai a prendere l’acqua.- Le consigliò. La stella annuì, accondiscendente.
    Si lasciò alle spalle la voce ruvida del Re sotto la Montagna, intento a elencare le varie portate da lui sapientemente preparate per il viaggio, e che i due elfi dovevano assolutamente assaggiare.
    Con il sorriso sulle labbra, la stella seguì il tranquillo canto dell’acqua corrente, giungendo poco dopo sulle sponde di pietra squadrata, che fungevano da argini per il grande letto dell’Inondagrigio. Con un balzo, scese sulla sponda più bassa, ormai già avvolta dalla penombra.
    Solo quando fu ad un passo dall’acqua, esitò.
    Fissando il fiume scuro, sentì il panico soffocarle il respiro, improvviso come un fulmine a ciel sereno. Indietreggiò, cercando di riprendere fiato: aveva troppa paura per avvicinarsi ulteriormente. Le immagini frammentate e confuse del suo ultimo incontro con quell’altra la costrinsero a chiudere gli occhi, spaventata.
    Aveva paura dell’acqua. Aveva paura di affogare.
    Si lasciò scivolare sulla parete di pietra della strada rialzata, sedendosi a terra. Cercò di ragionare con un minimo di razionalità: era a miglia e miglia di distanza da Minas Tirith e, per quanto forte o veloce potesse essere quella cosa, non poteva di certo eguagliare il volo delle Aquile.
    Un po’ rincuorata da quell’evidenza, aprì di nuovo gli occhi, trattenendo il respiro. Tese le orecchie, in cerca di rumori sospetti ma le arrivò solo il quieto scorrere dell’acqua davanti a lei.
    Si tirò nuovamente in piedi, stringendo le borracce tanto da far sbiancare le nocche: -Avanti, va tutto bene.- Provò ad incoraggiare sé stessa, avanzando di qualche passo.
    Con uno scatto, si chinò sulla sponda e affondò il braccio nell’acqua, impaziente di riempire le borracce e tornare di corsa all’accampamento. Si guardò attorno, all’erta, pronta a balzare via al minimo segnale di pericolo.
    Frettolosamente, richiuse le fiasche, sudando freddo e si alzò con uno scatto rapido, ponendo quanta più distanza possibile tra lei e il fiume. Incredibilmente, non era accaduto niente.
    Si passò una mano tra i capelli con un sospiro, facendo per tornare sui suoi passi, quando, come nel più banale degli incubi, una sagoma attirò la sua attenzione, sull’altra sponda. La vide con la coda dell’occhio, appena prima di muovere il risolutivo passo verso i suoi compagni.
    Sillen sentì il proprio cuore congelarsi, avvolto da puro terrore.
    Ruotò il busto con movimenti misurati, già consapevole di cosa avrebbe visto dietro di sé: sulla sponda Ovest, quell’altra la fissava, una sagoma scura e indefinita cui spiccavano solo i grandi occhi, luminosi come stelle e terribilmente fissi su di lei.
    Sillen barcollò all’indietro, fino a toccare la parete di pietra con la schiena irrigidita. Provò a deglutire, colta da una violenta nausea: -C-chi sei? Cosa vuoi da me?!- Gridò, il tono acuto che tradiva la sua disperazione.
    L’altra rimase immobile, intenta a fissarla, come un silenzioso predatore che attende il momento opportuno per balzare sulla preda.
    Con una forza e un sangue freddo che non credeva di possedere, la stella si voltò di scatto, lasciando cadere le borracce a terra. S’issò rapidamente sulla strada, lanciandosi in una corsa disperata tra i ruderi della città.
    Sapeva che quell’altra la stava seguendo, aveva percepito nel terreno i potenti balzi che l’avevano portata dall’altra parte del fiume e ora correva sui tetti sopra di lei, come un felino.
    Era sovrumana, impossibile da seminare e l’avrebbe raggiunta.
    La stella deviò freneticamente tra una casa e l’altra, prima a destra poi a sinistra, tentando di disorientare il suo inseguitore ma finì invece per perdersi nelle vie labirintiche della città, come una stupida.
    Non aveva riflettuto sul fatto che, al contrario di quanto aveva fatto per raggiungere il fiume, non aveva alcun riferimento a indicarle il luogo dell’accampamento.
    Incespicò sui ciottoli sconnessi della strada, senza fiato.
    Quella l’avrebbe raggiunta, l’avrebbe uccisa.
    E, probabilmente, nessuno l’avrebbe mai più trovata in quell’infinito dedalo di strade.
    Si voltò con un nodo in gola, senza riuscire a capire dove fosse quell’altra. Spariva nell’oscurità della città come se ne facesse parte.
    Come una preda braccata, Sillen sterzò di lato un secondo prima che l’altra l’afferrasse, da destra. Lo schianto della pietra che si spezzava dietro di lei gelò il sangue della stella, che gridò per la paura. Sperò davvero che la sola adrenalina che le scorreva in corpo bastasse a tenerla lontana dalle mani mortali di quella cosa. Questa, come se niente fosse, tirò via il pugno dal muro in cui si era violentemente impiantato e tornò all’inseguimento, spietata.
    Improvvisamente, Sillen vide una calda luce provenire da una stradina laterale e si gettò con tutta sé stessa in quella direzione. Abbassò la testa, per evitare un nuovo pugno distruttivo di quell’altra, ormai sopra di lei.
    Un centimetro più in basso e le avrebbe sfracellato il cranio come una noce.
    Con un ultimo sforzo, Sillen sbucò nella strada illuminata, rovinando addosso all’individuo che reggeva la grande torcia. Caddero entrambi a terra, in una sinfonia di tonfi e gemiti doloranti.
    La stella si tirò su freneticamente, urlando: -Arriva! Arriva!-
    Thranduil, portandosi una mano alla testa dolorante, la fissò, senza parole. Era stravolta, gli occhi sgranati pieni di paura. Chiunque l’avesse spaventata in quel modo, non andava sottovalutato. Sguainò la spada, tirando la stella dietro di sé.
    Rimase immobile, teso, pronto a fronteggiare chiunque si fosse presentato. Ma non si presentò assolutamente nessuno.
    Per parecchi minuti, i due rimasero in ascolto, cercando altre presenze al di fuori delle loro. Attorno, solo il muto sguardo della città.
    Sillen crollò in ginocchio, tremando: -Se n’è andata.- Mormorò, stringendosi le braccia attorno al corpo. Thranduil rinfoderò la spada, raggiungendola rapidamente: -Sei ferita?- Le scostò le braccia con un gesto delicato, cercando tracce di sangue. -Sto bene.- Sussurrò lei, respirando a fondo.
    Era sopravvissuta, ancora una volta. Sarebbe stata altrettanto fortunata, in futuro?
    Il Re elfico le prese il viso tra le mani calde, costringendola a guardarlo negli occhi: -Chi ti ha attaccato?- Chiese, serio. Lei fissò i suoi occhi chiari, improvvisamente più tranquilla.
    Suo malgrado, strinse le labbra: -Nessuno.- Mentì, di nuovo.
    Thranduil, come colto da un terribile pensiero, contrasse la mascella, sollevandola di peso con un movimento fluido ma nervoso. Sillen spalancò gli occhi, tra le braccia dell’elfo: -T-Thranduil…-
    -Non prendermi in giro.- Ringhiò lui. -Se non vuoi dirlo a me, va bene. Ti porto da Glorfindel.- Il suo tono duro fece sobbalzare la stella, ancora scossa dall’inseguimento.
    Raggiunsero l’accampamento in breve tempo, segno che la corsa folle della stella l’aveva condotta più vicino di quanto pensasse.
    Sentendoli arrivare, Thorin sollevò lo sguardo, spalancando poi gli occhi in un’espressione allarmata: -Mia signora! Che cosa è successo?- Si avvicinò, mentre Thranduil riponeva la stella sul suo giaciglio improvvisato, accanto al fuoco.
    In quel momento, apparve anche Glorfindel, con le borracce piene in mano. Cercò subito la stella, ansimando, con i capelli dorati scompigliati. Doveva aver corso molto, per trovarsi in quello stato. -Per grazia del cielo, cosa diamine è successo?- Esclamò: -Ci stavi mettendo una vita, siamo venuti a cercarti!-
    Tuttavia, quando incontrò lo sguardo spaventato della giovane, sentì l’irritazione per l’ansia appena provata tramutarsi in preoccupazione: -è successo di nuovo.- Constatò.
    Thranduil gli rivolse un’occhiata tagliente come schegge di ghiaccio: il redivivo sapeva.
    Fantastico.
    Sillen annuì, seria e l’elfo dorato si abbandonò sulle coperte sottili, passandosi una mano sul viso pallido: -Speravo non fosse vero.- La stella si sporse verso di lui, gli occhi spalancati: -Sai cosa sta succedendo?! Sai cos’è quella cosa!?- Lui scrollò la testa, dispiaciuto: -No. Ma l’ho percepita. Un ammasso di energia oscura, rancore e rabbia. Era in camera tua, quando…-
    Lasciò la frase in sospeso, irritando ulteriormente il Re degli Elfi: -Parla chiaro, maledizione.- Glorfindel gli rivolse uno sguardo serio, concludendo laconicamente: -stavi per annegare nella stramaledetta vasca da bagno.-
    Nell’accampamento piombò un silenzio teso, interrotto solo dallo scoppiettare del fuoco.
    Thranduil si voltò verso la stella, sentendo i muscoli tremare per lo sforzo di trattenersi dallo sgozzare tutti i presenti: -Hai visto la stessa cosa di quella volta?- Chiese, a denti stretti. Lei annuì nuovamente: -Non posso sbagliarmi.-
    -Allora ti sta seguendo. Non puoi più rimanere da sola.- Decretò lui, con voce dura. -Non dovrebbe risultarti difficile, visto che non ti allontani da questo dannato nemmeno per fare il bagno.-
   Glorfindel fece per correggerlo ma la voce di Sillen lo anticipò. -Non azzardarti a parlare in questo modo di lui.- Ringhiò, alzando la voce.
    L’elfo dorato si batté la mano sulla fronte: ah, pessima mossa.
    Thranduil strinse i pugni, visibilmente alterato: -Mi permetto di fare quello che voglio.- Thorin cercò più volte di entrare nella conversazione ma, subito, fu trattenuto dallo stesso Glorfindel:
-Vieni amico mio. Andiamo a cercare altra legna per il fuoco.- Il Re sotto la Montagna non parve dello stesso avviso: -Amico tuo un accidente, pervertito. E poi quel folletto dei boschi sta alzando un po’ troppo la voce e- L’elfo dorato lo prese per le spalle, trascinandolo con sé: -Sono certo che sapranno cavarsela senza di noi.- E, dopo aver lanciato un ultimo, esitante sguardo verso la stella, si allontanò con il Re nanico nelle stradine della città.
    Sillen si era alzata in piedi, i pugni serrati: -Glorfindel c’era quando avevo bisogno di lui. Tu dov’eri?- Gridò, puntandogli il dito contro.
    Il Re degli Elfi sembrò diventare ancora più imponente, attirando su di sé l’oscurità attorno, tanto da consumare parte del fuoco accanto a loro. -Ero nel mio Regno, tradito come un povero idiota!- Sillen storse la bocca: -Smettila di comportarti come una vittima, non ti si addice. Sapevi sin dall’inizio che non sarei mai potuta rimanere nel Reame Boscoso!-
    Lui contrasse la mascella, i tendini del collo marmoreo che guizzavano sotto la pelle chiara: -All’inizio, forse. Ma non dopo tutto ciò che è accaduto in seguito.- Lei sentì le lacrime pungerle gli occhi ma le ricacciò indietro, spazientita: -Di cosa stai parlando, Thranduil? Ti sei divertito a portarmi a spasso per il tuo Palazzo come un animaletto, ecco cos’è accaduto. Io ho cercato di esserti amica, di comprenderti! E tu sei stato solo un cinico egoista, troppo preso da sé stesso per accorgersi di ciò che stava succedendo fuori dai suoi stupidi confini! Sono io quella tradita!-
    Thranduil fremette, minaccioso e incontenibile: -Tu fai finta di non capire. Non volevo questo. Sono sempre stato chiaro, con te.- Sillen gli assestò diversi flebili pugni sul petto, troppo arrabbiata per starlo a sentire: -Chiaro?! Prima mi minacci di portarmi via tutto, assicurandoti di scavalcarmi in ogni momento; poi te la prendi con Glorfindel, che non c’entra assolutamente niente! Vuoi potere? Ricchezza? Il mio pentimento? Cosa diamine vuoi, Thranduil?!-
    Lui le afferrò i polsi, frenando il suo debole attacco e lei abbassò la testa, senza riuscire a sottrarsi dalla presa ferrea del Re degli Elfi: -Basta, non voglio più parlare con te.- Singhiozzò, adirata. Crollò in ginocchio e lui la seguì, senza lasciarla.
    Vederla in quello stato lo mandava in confusione: perché adesso sembrava lui quello dalla parte del torto?
    Perché, dannazione, lo era.
    La consapevolezza che s’era fatta strada in lui dal suo arrivo a Minas Tirith, prese possesso dei suoi pensieri, suo malgrado.
    La verità era sempre stata una soltanto: Thranduil, con il suo dannato orgoglio ferito, non riusciva ad accettare che lei fosse riuscita a lasciarlo. Perché lui non ne sarebbe mai stato in grado, nemmeno per una nobile causa come salvare la Terra di Mezzo.
    Lei non lo amava come lui amava lei.
    Lei era migliore.
    E lui si era perso ogni suo cambiamento, ogni sua sfaccettatura. Correndo da lei, in battaglia, aveva solo seguito il suo bisogno di incontrarla ancora una volta, per ricominciare tutto daccapo. Per farsi perdonare, per accettare quel destino che l’aveva costretta a lasciarlo. Purtroppo, stava davvero fallendo miseramente.
    -Io ero sincero.- Scandì: -Ciò che provavo per te, era sincero.- Deglutì, conscio di aver rivelato nuovamente il suo lato più debole.
    Sillen s’irrigidì, sorpresa. Sollevò lo sguardo lentamente, in confusione e lui si costrinse a chiarirsi, ormai inevitabilmente esposto: -Credi che io permettessi a chiunque di parlarmi, guardarmi o toccarmi come facevi tu? Davvero non ti sei resa conto di ciò che stava succedendo?-
    Quella finì in iperventilazione seduta stante. Perché adesso quell’elfo egoista le diceva quelle cose?
    -Mi stai confondendo, Thranduil.- Balbettò, gli occhi violetti sgranati. Lui ricambiò per un attimo il suo sguardo, quasi esasperato: -Non è difficile- E, con un gesto secco, la tirò a sé, stringendola con irruenza.
    Sillen trattenne il respiro, trovandosi premuta contro il suo petto ampio. Il profumo di sole e terra del Re la avvolse, facendola precipitare nei ricordi. Il loro primo incontro, i racconti nella Sala del Trono, la notte di Mereth en Gilith… il loro addio nella Sala delle Udienze.
    -Per me non è stato un gioco.- Mormorò il Re degli Elfi, accorato: -Quando ti ho lasciata andare, ero spezzato. Perché tu hai scelto di partire, invece che restare al mio fianco. Solo dopo la battaglia, provando ad allontanarti, ho capito che non avresti potuto fare altrimenti. Non eri tu, a volermi ferire. Piuttosto, eri la prima a soffrire, a causa di questo infausto destino. Sono stato così cieco, Sillen.-
    La stella era sconvolta. Emozioni violente trascinavano un pensiero dopo l’altro ma i tasselli nella sua mente stavano cominciando a combaciare tra loro. Il comportamento di Thranduil, adesso, acquistava significati nuovi. Era stata ingenua, forse superficiale, e non aveva capito proprio niente. E comprendere la lasciò senza fiato.
    Lui l’amava. Allora, la sua rabbia verso quel destino infausto che li aveva separati, era identica alla sua.  
    Con il cuore che pareva volerle uscire dal petto, la stella si aggrappò con tutte le sue forze alla camicia candida di lui, stringendolo a sua volta. Affondò il viso nell’incavo della sua spalla, sentendosi fragile come vetro: -Io so che Bosco Atro è il mio posto.- Gli disse, con la voce spezzata attutita dalla sua pelle e Thranduil espirò, colpito da quella rivelazione: -Ma ti prego, permettimi di compiere il mio destino.-
    Il Re sentì un profondo rimorso bloccargli il respiro. Se solo fosse rimasto con lei, se solo l’avesse seguita, forse non avrebbero sprecato tutto quel tempo a scontrarsi. Quel fato, avrebbero dovuto affrontarlo insieme, sin dal primo giorno.
    Lei si scostò, facendo scivolare le mani fino al viso dell’elfo. Lo accarezzò con le dita fredde, cercando il suo sguardo adamantino: -Capisco che sei ferito e che hai sofferto, nel tuo lungo passato.- Sussurrò, le guance solcate da numerose lacrime: -Ma se non porto a termine il mio compito, non potrò stare con te, Thranduil. E devi credermi, io voglio farlo. Ho sempre desiderato solo questo, nella mia breve vita.-
    Lui schiuse le labbra, cercando di frenare le proprie, folli emozioni: -Lo so. Adesso lo so.- Lei non era fuggita come suo figlio. Non lo aveva abbandonato, aveva solo accettato il compito assegnatole.
    Perché lei, prima di ogni cosa, era la Stella dei Valar: doveva, anzi, voleva compiere il suo destino per poter essere libera di scegliere.
    Il Re impiegò qualche secondo a realizzare ma la stella era stata chiara. Una volta assolto il suo compito, sarebbe rimasta. Avrebbe scelto lui. E tanto bastò.
    Un’emozione violenta gli incendiò il petto, lasciandolo con il fiato corto. Senza attendere oltre, le sollevò il mento, chinandosi su di lei con un’impazienza divorante.
    La stella gli strinse le braccia al collo, ricambiando quel bacio che tanto aveva sognato di ricevere. Sentì le grandi mani affusolate del Re accarezzarla, accompagnate da un calore quasi doloroso, che si propagò dentro di lei, riscaldandola come un intimo incendio. Per la prima volta dopo la battaglia, non si sentì pesante, né fredda, né vuota. Era solo Sillen, esattamente dove doveva stare.
    Affondò le dita nei suoi capelli d’argento, sopraffatta dalle sensazioni. Quando il bacio della stella si fece istintivamente più esigente, Thranduil si costrinse a interrompere il suo assalto, il respiro accelerato. Meglio fermarsi quando lui era ancora in grado di intendere e volere, pensò.
    Pose la fronte su quella fresca della stella, respirando a fondo. Presto, si disse. Presto avrebbero potuto ricominciare, insieme.
    Sillen si schiarì la voce, cercando di frenare la folle corsa del suo povero cuore. Non era sicura di poter sopravvivere a tutto ciò.
    Si scostò leggermente dall’elfo, lisciando il tessuto della camicia stropicciata e, in quel momento, il suono distinto dei passi degli altri membri della compagnia li costrinse a separarsi velocemente. Thranduil si appoggiò con scioltezza alla parete grigia di un vecchio rudere, le braccia conserte, e Sillen, più che mai imbarazzata, tentò inutilmente di sistemare i capelli scompigliati.
    Glorfindel apparve per primo alla luce del debole fuoco, con una grossa e probabilmente inutile catasta di legno sulla spalla:
-Scusate, ci siamo fatti prendere la mano.- Finse, con un sorriso tirato, sedendo sul proprio giaciglio. Non poté fare a meno di soffermarsi sui boccoli selvaggi della stella, sulle sue labbra arrossate, ma non disse niente.
    In effetti, non era proprio in vena di fare battute.
    Thorin III Elminpietra, poco lontano, trascinava dietro di sé altrettanta legna, con cipiglio contrariato. Quando incontrò gli occhi violetti della stella, si fece altezzoso e pungente: -La prossima volta che dovete discutere, ve ne andate voi due.- Poi afferrò una coperta, deciso a mettersi finalmente a dormire.
 


 
[1] Ephel Dùath: (nome Sindarin delle Montagne d’Ombra) è la catena montuosa che circonda Mordor a Sud e a Ovest, fino al cancello del Morannon che la collega agli Ered Lithui. Si ergono come una muraglia rocciosa ad Est del regno di Gondor.
 
[2] Una normale aquila è davvero in grado di superare i 4000 metri di altitudine, sfruttando le correnti. In questo preciso caso, i Maiar stanno volando a più di diecimila piedi, che corrispondono ai nostri 3000 metri. A queste altezze, le temperature scendono anche sotto lo zero e la stella, ormai definibile una quasi-umana, non può davvero sopportarle a lungo.
 
[3] Tharbad: (segnata come Sarbad in alcune versioni italiane della Mappa della Terra di Mezzo) è una città fortificata dei Dùnedain, edificata nella Seconda Era. Al tempo della sua fondazione, fu forse la più importante città commerciale dell’Eriador e, come tutte le città di “gusto” numenoreano, è quasi interamente costruita in pietra. Al pari di Osgiliath, sorge su un grande fiume, in questo caso l’Inondagrigio (Gwathlò, in Sindarin) e probabilmente si estende su entrambe le due sponde. Decadde in seguito alla vittoria del Re Stregone di Angmar,= =all’inizio della Terza Era e successivamente fu del tutto abbandonata a causa alle scorrerie degli Orchi di Sauron. In realtà non si sa di preciso cosa accadde alla città dopo la riunificazione dei Regni di Gondor e di Arnor, da parte di Elessar. Essendo passati relativamente pochi anni, ho interpretato la zona come ancora disabitata.
 



 



N.D.A

Bentrovati carissimi,
sono felice di aver pubblicato anche questa settimana!
BEH, che dire XD Sono davvero ansiosa di sapere cosa ne pensate di questo nuovo capitolo ^_^” Succedono tante cose, è pressappoco infinito, quindi spero di essermi espressa in modo comprensibile e non troppo dispersivo T-T


Spero comunque che la lettura sia stata piacevole!
Un grande grazie a chi è arrivato sino a qui, sono felice di star volgendo al termine insieme a voi!

​alla prossima,
Aleera



 

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Capitolo 30
*** La Contea ***



-La Contea-


    Confusione. Incertezza. Gioia. Desiderio. Paura. Per secoli, Thranduil era rimasto impassibile ad osservare lo scorrere di quel tempo che non lo toccava e adesso non riusciva nemmeno a respirare con calma.
    Nonostante la fermezza, la saggezza e la cinica razionalità acquisite durante interi millenni passati su quella mutevole terra, il Re degli Elfi era, a tutti gli effetti, in balia di un’inaspettata e irrefrenabile tempesta interiore.
    L’unica cosa che ancora lo teneva incollato alla realtà era l’incredibile ed irresistibile concretezza del freddo corpo della stella, di nuovo dinnanzi al suo. Oltre ad esso, nemmeno la consapevolezza di essere tornato a diecimila piedi di altezza lo sfiorava e persino rimanere saldo sul dorso della Maia Gwain si stava rivelando un’operazione difficoltosa. 
    Cosa era accaduto, la sera prima? 
    Un bacio, certo, di quello era più che sicuro.
    Molto più che sicuro.
    Al solo pensiero, il Re degli Elfi chiuse gli occhi, costringendosi a respirare a fondo. Per la seconda volta, aveva mostrato alla Stella dei Valar la parte più vulnerabile e intima di sé, giungendo persino a quel contatto che mai avrebbe pensato di desiderare nuovamente.
    Ma prima di questo, cosa si erano detti davvero?
    In qualche modo, nel silenzio del volo dell’aquila, Thranduil riuscì a scrutare dentro sé stesso, in cerca di risposte. Dopo un comprensibile momento di incredulità e sollievo, nell’animo del Re erano subentrati turbinii di emozioni ben diverse e pensieri senza alcuna logica o razionalità.
    Per cercare di far chiarezza, Thranduil ripercorse per intero la discussione avvenuta con Sillen, a partire da ciò che l’aveva scatenata. Gelosia, innanzi tutto: la disorientante immagine della stella in compagnia dell’elfo dorato, durante un’intima situazione che ancora, al solo pensiero, gli faceva ribollire il sangue immortale nelle vene. 
    Avevano fatto il bagno insieme, dannazione.
    Ricordò fin troppo chiaramente i capelli umidi di Glorfindel, quando si era accidentalmente imbattuto in lui nei corridoi della Cittadella. Doveva essere accaduto allora. Oppure, quante altre volte era successo?
    Serrò la mascella, allentando la presa su di lei per evitare di attirare l’attenzione con la sua istintiva e rabbiosa reazione, che intanto aveva già teso i suoi muscoli nervosi. Come se non fossero abbastanza infiammati dallo sforzo di non uccidere l’altro maledetto elfo ogni qual volta lo guardava.
    Con ogni fibra del suo corpo, avrebbe voluto esternare tutta la sua violenta possessività, che ancora proiettava sulla stella come fosse di sua proprietà, per ricordare al Vanyar di rimanere al suo posto, lontano da loro.
    Sospirò, riprendendo pazientemente il controllo delle proprie emozioni. Le cose erano decisamente cambiate, da quanto ancora poteva rivendicare il suo diritto su di lei. Inutile negarlo, aveva già compreso che la stella fosse cresciuta, lontana da lui, come forse era giusto che avvenisse.
    Dunque, perché sorprendersi di quella relazione tra i due alleati? Aveva più volte allontanato Sillen da sé, senza permetterle di riacquistare quella dolce familiarità che avevano raggiunto al Reame Boscoso e lei, dopotutto, era pur sempre una giovane donna, come quell’intenso bacio gli avevano ricordato: cercare conforto tra le braccia di qualcuno era un comportamento normale, estremamente… umano. Thranduil poteva non comprenderlo appieno ma lo accettava.
    E conosceva bene le abitudini disinibite dell’antico Vanyar, che da secoli, anzi, millenni, si divertiva a sedurre fanciulle e giovani di qualsivoglia razza, solo per mero divertimento.
    No, non era sorpreso. Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso amaro, quando realizzò cosa stesse provando davvero: avrebbe voluto essere lui a farle conoscere quella parte di realtà che, al tempo della loro convivenza, ancora non era contemplata.
    Con tutta la pazienza e l’autocontrollo che possedeva, Thranduil dovette affrontare ancora la sua furiosa e irrazionale invidia, che lo spinse a lanciare l’ennesimo sguardo carico di odio verso l’elfo dorato.
    Questo, ignaro di tutto, volava tranquillamente sul dorso dell’aquila bruna, svariati piedi più in alto.
    Per fortuna, l’attenzione del Re degli Elfi fu attirata dai movimenti della stella, che si strinse nel mantello con un respiro profondo. Thranduil sapeva che era tesa, e non a causa sua ma di ciò che era accaduto al fiume, a Tharbad. A ben vedere, avrebbe dovuto concentrarsi anche lui su quegli avvenimenti, invece che lasciarsi trascinare dalle emozioni in quel deplorevole modo.
    Dopotutto, ancora non era certo di ciò che lei stesse provando e, come la loro storia gli aveva duramente insegnato, giungere a conclusioni da solo non era affatto saggio.
    Lui si era sempre comportato con freddezza, distacco e non poteva credere che un bacio, seppur disarmante come quello che avevano condiviso, potesse aggiustare un’intera relazione tanto burrascosa.
    E, infine, lui non la conosceva. Almeno, non più.
    Non conosceva ciò che le era accaduto in tutto quel tempo passato lontani l’uno dall’altra e sentiva di aver perso dei preziosi momenti che, indubbiamente, l’avevano profondamente segnata, nel bene e nel male.
    Lei non era più la ragazzina che aveva raccolto nel cuore del suo Regno, mesi prima. Almeno questo, pensò, lo aveva accettato completamente.
    Con un gesto attento, Thranduil aggiustò i lembi del proprio mantello attorno alle spalle della stella, evitando di toccarla. La Maia Gwain aveva preso improvvisamente velocità, seguendo le aquile compagne che planavano più in alto e l’aria fredda del mattino s’insinuava tagliente tra i vestiti dei viaggiatori.
    -Ciò che ha detto Glorfindel ieri sera m’impensierisce.- Stava dicendo la stella, preoccupata. Thranduil si riscosse, al suono della sua voce. Abbassò lo sguardo, abbastanza da scorgere il profilo teso della giovane. Lei tormentò il tessuto scuro del mantello, colta dall’improvviso desiderio di piangere: -Sono l’unica che può vedere quell’altra, a quanto pare. Sembra che a voi appaia solo come una… sensazione, mentre io vedo in lei il mio identico riflesso. Non riesco a spiegarmelo.-
    Thranduil stesso, nella sua lunga vita, non aveva mai sentito parlare di niente di simile: -Forse è un’illusione del servo di Pallando.- Suggerì, non troppo convinto. Sillen scosse la testa, ricordando fin troppo chiaramente la sua esperienza contro il Maestro delle Illusioni: -No, saprei riconoscerle bene, oramai. Questa cosa agisce sul piano fisico, non solo sulla mia mente. Ha sfondato un muro con un pugno.- Gli ricordò, laconica.
    Infatti, con il favore delle prime luci dell’alba, la compagnia aveva ripercorso le stradine di Tharbad con attenzione, cercando indizi risolutivi e, purtroppo, tutto ciò che trovarono allora fu una serie di muri distrutti, ciottoli sconnessi e tetti sfondati, segni evidenti della terribile forza di quell’altra.
    L’unica cosa certa, era il fatto che questa attaccasse solo ed esclusivamente Sillen. Svaniva non appena un’altra presenza si avvicinava troppo alla stella, come se non desiderasse uccidere altri tranne che lei. E ciò, in realtà, aveva tranquillizzato non poco tutti i presenti, che avevano momentaneamente convenuto con il Re degli Elfi: Sillen non poteva più restare sola, nemmeno per un momento.
    -Una volta scoperto ciò che Mithrandir ha nascosto, avremo più possibilità di venire a capo di questa storia.- La tranquillizzò Thranduil, la voce calda dal tono insolitamente paziente.
    La stella annuì, sperando con tutta sé stessa che fosse vero. Istintivamente, cercò la mano dell’elfo sotto al mantello ma, prima ancora di sfiorarla, rinunciò, serrando le labbra. Si erano scambiati un bacio ma, da quel momento, Thranduil non l’aveva sfiorata nemmeno per sbaglio. Era chiaro che non fosse sua intenzione lasciarla avvicinare ulteriormente.
    Sillen, nonostante la sua lontananza, aveva imparato a conoscerlo bene e sapeva che il Re degli Elfi non avrebbe più agito senza prima aver preteso delle conferme: lei, dal canto suo, non vedeva l’ora di dargliele tutte, per poi mettere da parte quell’indifferenza che le spezzava il respiro.
    D’improvviso, sopra di loro, la voce di Glorfindel risuonò alta e chiara, facendoli sussultare: -Ehi, voi due. Cominciamo ad abbassarci. Stiamo sorvolando la Vecchia Foresta, ci siamo quasi. Mancano poco più di cento miglia.-
    Anche le altre aquile erano dunque scese di quota, pronte ad atterrare.
    La stella, curiosa, lanciò uno sguardo sotto di sé e i suoi occhi si persero tra le fronde scure degli alberi della foresta e l’ondeggiare dell’erba brillante delle numerose colline. Il Brandivino poi, come una lontana pennellata di luce, li accompagnò nel silenzioso atterraggio nel Decumano Ovest: finalmente, erano giunti nella Contea.

    Le Aquile attraversarono con attenzione gli sporadici alberi al confine con i boschetti di castagni, che costeggiavano la Grande Via Est, lasciando che le alte fronde e i rami spessi prendessero il posto del cielo. Si posarono sull’erba tenera con un tonfo ovattato, scuotendo le ali stanche.
    Visto da laggiù, quel luogo pareva ancora più incantato: il vento leggero si attardava a mormorare tra le foglie affusolate, accompagnando il canto di rondini e fringuelli, mentre il gorgogliare placido di qualche torrente vicino faceva a gara con il frinire instancabile delle cicale. Sillen non era mai stata in un posto tanto rumoroso in vita sua. Sorrise, guardando le lepri rincorrersi nel campo vicino: -Dunque è questa la Contea.- Sollevò una mano, schermando il sole che illuminava la radura smeraldina.
    -Siamo alle porte di Hobbiville, la città dove Gandalf pare ci abbia guidati.- Ammiccò Glorfindel con fare poco convinto, cominciando a raccogliere i bagagli: -Faremo meglio a tenere le armi e tutto il corredo ben nascosti. Non vogliamo certo spaventare questa brava gente.-  Ridacchiò e scambiò uno sguardo d’intesa con i saggi Maiar. Essi si spostarono lentamente nella pacifica foresta, al riparo da occhi indiscreti.
    -Dicono che gli Hobbit siano molto curiosi.- Bofonchiò Thorin, grattandosi la barba intrecciata: -Sarà un bene farsi vedere per le strade in pieno giorno?- Con un pizzico d’incoscienza, Sillen sollevò le spalle, inevitabilmente contagiata dall’allegria di quella radura affollata: -Non sanno di certo chi siamo, mio signore. Lasciamo credere loro di essersi imbattuti negli ennesimi raminghi del Nord e non incontreremo ostacoli.- Si incamminò nell’erba alta, diretta verso il sentiero che serpeggiava poco più avanti.
    Era impaziente di incontrare i mezz’uomini, protagonisti della grande avventura conclusasi solo trent’anni prima e, quando cominciò ad udire un caotico chiacchiericcio oltre la collina davanti a sé, non poté fare a meno di aumentare il passo.
    Fu la passeggiata più bella di tutta la sua breve vita e poté ammirare più varietà di piante, animali e insetti di quante ne avesse viste altrove.
    Giunta sul basso crinale, trattenne il respiro, sorpresa: l’intera valle dai profili ondulati, ricca di campi d’orzo e frutteti, era gremita di piccoli ometti e piccole donnine, intenti nei più disparati lavori. C’era chi mungeva grandi mucche, chi raccoglieva pomodori, chi conciava la lana, chi intagliava buffissimi sgabelli e ci beveva grandi boccali di birra chiara. Ognuno vestiva abiti dai colori allegri, tra bretelle, panciotti e grandi gonne piene di nastri.
    Glorfindel chiuse la bocca della stella, sollevandole il mento con un dito, e le tirò il cappuccio in testa: -Muoviti, prima che faccia notte. Avrai tempo per contemplare la cittadina a guerra conclusa, sai? Promesso.- Commentò, ironico. Lei annuì, ancora troppo stregata ed emozionata per ribattere.
    Quel luogo pareva risiedere fuori dal tempo e dallo spazio e i suoi abitanti, paffuti e rubicondi, si affaccendavano tra una chiacchierata e l’altra, ignari di ogni pericolo esterno.
    Quando i quattro compagni incontrarono le prime case, dovettero fare i conti con le occhiatacce torve dei mezz’uomini, per niente felici di averli lì.
    Sillen si avvicinò prudentemente a un lato del sentiero, catturata dall’aspetto caratteristico delle case hobbit: alcune erano casette di legno e pietra, a ridosso delle collinette erbose, mentre altre, le più sorprendenti, erano state ricavate nei colli stessi, con tanto di finestre, giardini e orticelli.
    La stella sorrise, salutando una coppia di anziani hobbit intenti a lavorare nel loro orto stracolmo di verdure dall’aspetto invitante: -Salve gentili signori, dove posso trovare Casa Baggins?- Erano davvero bassi e lei dovette accucciarsi per parlare faccia a faccia con loro.
    La vecchina, turbata, tirò la giacca al marito, fissando la stella con cipiglio infastidito: -Pimberli? Ehi Pimberli! Questa ce l’ha con noi.- Il mezz’uomo, ancora chino a strappare le erbacce, sventolò una mano, infastidito: -Non rompere, non rompere. Ho da fare.- Ma l’altra non demorse: -Sei sordo come un serpente, cieco come una talpa e scemo come un allocco. Guarda, guarda qui!-
    Sillen si portò una mano alle labbra, tentando di non ridere.
    -Beh, che cosa diamine c’è, acida di una donnaccia?- Esclamò Pimberli allora, con il viso paffuto corrucciato. La moglie gli indicò teatralmente la stella, con fare allusivo.
    Lo hobbit, grattandosi la testa, finalmente si accorse della straniera incappucciata e, senza tanti convenevoli, si rivolse nuovamente alla moglie: -Per tutti gli zucchini di zio Saccoccia, chi è?- L’altra alzò le spalle, in un rimbalzare di stoffa colorata e boccoli bianchi e grigi. -Che ne so, dice che cerca qualcuno.- E scoccò un’occhiataccia alla stella: -Chi è che cercavi, tu?-
    Sillen si sporse leggermente in avanti, per evitare di sembrare scortese: -Baggins, signori. Casa Baggins.- Pimberli la indicò, irritato: -E chi accidentaccio potevano cercare. Sì che i Baggins non ci sono più… ma nemmeno i nuovi proprietari sono- La moglie gli colpì il braccio con un buffetto di rimprovero: -Non parlare male del Sindaco, Pimberli! Lui si che è un rispettabilissimo hobbit, anzi, dovresti imparare!-
    -Oh certo, dopo tutte le assurde scorribande che lui e quei suoi amici svalvolati hanno fatto in giro per tutta la Terra di Mezzo? Baggianate, dico io. Calzano qui come il primo venerdì del mese![1]
    Sillen si schiarì la voce, attirando nuovamente l’attenzione su di sé. Questa volta, la donnina cercò di essere più gentile: -Se cerchi Casa Baggins, vai in fondo a questa strada, attraversa il centro del paese, sali la prima collina a destra dopo il pozzo e segui le indicazioni per via Saccoforino. Non puoi sbagliare.-
    La stella sorrise, chinando la testa educatamente: -Vi ringrazio immensamente.- Pimberli scrutò con fare indagatorio gli altri membri della strana compagnia, sondando prima il nano, poi i due elfi: -Sì, prego.- Grugnì.
    Sillen, divertita, tornò dai compagni, seguita dagli occhietti pungenti dei due coniugi. I loro mormorii erano tanto concitati da raggiungere senza alcun filtro le orecchie dei quattro viaggiatori: -C’era un nano, hai visto Pimberli? Siamo alle solite. E quello alto?! Secondo te chi è?-
    -Ma che ne so! E poi ce ne sono due alti, quale intendi?-
    -Quello bello dico, non quello con la faccia da funerale!- Al commento dell’anziana, Sillen e Glorfindel si voltarono simultaneamente verso Thranduil, che li freddò con un’occhiataccia: -Se vi azzardate a dire qualcosa, vi sotterro personalmente.-

    Sillen fece strada, seguendo le indicazioni dei due simpatici hobbit, ma attraversare il centro del paese fu più difficile di quanto avesse immaginato. Il sentiero serpeggiava tra le colline abitate, costeggiato da campi, locande, recinti, pascoli e orti, e gli hobbit spuntavano da ogni dove, carichi di sacchi, guidando carriole o trascinandosi dietro pecore e buoi.
    L’unico a sentirsi abbastanza a proprio agio, anche grazie alla maggior familiarità tra le due razze, era Thorin Elminpietra, che addirittura si attardò ad acquistare un sacchetto di focaccine di ceci: -Questo posto non è per niente male. Il cibo è ottimo!- Commentò, allungandone un pezzo alla stella con un gesto complice.
    Era davvero così: il piccolo mondo della Contea era estremamente semplice, tranquillo e le preoccupazioni di quella gente si fermavano a quale formaggio della bancarella lì accanto fosse il più buono.
    Glorfindel strinse brevemente a sé la distratta stella, tirandola a destra poco prima che un carretto pieno di angurie la investisse: -Attenta, non stare con il naso per aria.- Ridacchiò, divertito dalle espressioni confuse e fanciullesche della Stella dei Valar. Lei rise a sua volta, per nulla disturbata dalla loro vicinanza: -Non posso farne a meno, è tutto così bello!-
    Glorfindel la osservò con attenzione, indeciso se parlarle o meno di ciò che da tempo gli torturava la mente. Lanciò uno sguardo rapido dietro di loro: avevano distanziato giusto un poco gli altri due compagni, forse era la sua occasione. Deglutì quando, per un solo istante, incontrò lo sguardo di ghiaccio di Thranduil.
    Lentamente, lasciò la stella, limitandosi a camminarle accanto: -Da quanto ho capito, tu e il Re degli Elfi vi siete chiariti, ieri sera.- Iniziò, sforzandosi di piegare le labbra nel suo tipico sorrisetto sardonico.
    Sillen inclinò la testa di lato, aggrottando le sopracciglia delicate: -A dire il vero, non ne ho idea. Non mi parla se non sono io a interpellarlo e non si avvicina nemmeno per caso.- Commentò, sincera.
    L’elfo dorato scrutò il suo profilo delicato, le labbra tese: -Vi siete baciati.- Suonava più come un’affermazione, che una domanda. Sillen sgranò gli occhi, sussultando: -T-tu hai visto?-
    L’altro soffocò una risatina, sorta spontanea d’innanzi all’ingenuità della stella: -No. Ma sono troppo saggio ed esperto per non notare certe cose, sai?- Sussurrò, malizioso, sfiorandole una guancia con il dito affusolato. -Guardati, sei arrossita come una piccola hobbit.- Ignorò il formicolio leggero che sentì percorrergli il braccio e, con tono provocatorio, continuò.
    -Dovresti essere felice. Finalmente quel giovane elfo si è deciso ad aver ragione di sé. Anche se mi aspettavo questa resistenza da parte sua.- E il suo ghigno si allargò: -Soprattutto perché immagino quanto strenuamente devi esserti impegnata, per convincerlo che non ho davvero fatto il bagno con te.-
    A quelle parole, Sillen si voltò a guardarlo, confusa: -Cosa intendi dire?- Per poco, il divino Glorfindel non inciampò nei suoi stessi piedi: -Beh, mi era parso contrariato da quel piccolo fraintendimento. Senz’altro lo avrai rassicurato.- Ma fissando quegli occhi ametistini, capì che la storia era ben più imbarazzante e splendidamente divertente di quanto si fosse aspettato.
    Mascherò un’altra risata, con un colpo di tosse: -Sillen, lascia che ti chieda una cosa. Tu sai cosa succede quando due persone condividono il letto, giusto?-
    Lei sollevò le sopracciglia: -Vuoi dire come abbiamo fatto io e te?- Glorfindel imprecò, sbattendo il piede contro una pala lasciata disordinatamente a terra e si affrettò a ricomporsi, elegante come sempre: -No, non come noi. Intendo un uomo e una donna, o comunque due individui, che sono attratti l’uno dall’altra. Una coppia, ecco. Come Elessar e la Regina Arwen.-
    Sillen ci pensò su per un po’. Poi, come per una sorta di strano incantesimo, la sua pelle dorata si arrossò al punto da sembrare incandescente e i suoi occhi d’ametista cercarono sconvolti quelli dell’elfo dorato: -Oh. OH! Oh Glorfindel, io… Scusami! Che stupida, ma perché mai non me lo hai detto? Quindi lui ha pensato che noi… che io e te… nella vasca?!- Si prese il viso stranamente bollente tra le mani fredde, imbarazzata più che mai.
    Ma certo che sapeva cosa poteva accadere, lo sapeva bene!
    Aveva conosciuto quella parte istintiva e naturale degli esseri viventi in svariati modi, dal comportamento animale alle ovvie domande che si era posta sulla riproduzione. Per questo era imperdonabile! Non le era minimamente passato per l’anticamera del cervello che quella legge naturale valesse anche per lei.
    Glorfindel le scostò le mani, sorridendo dolcemente. -Non hai fatto niente per cui tu debba vergognarti, Stella dei Valar.- Poi, strinse gli occhi a due fessure luminose, malizioso: -Però il Re degli Elfi conosce un’altra storia, dove tu fai il bagno con me e tutto il resto. Meglio avvertirlo dell’errore, no?-
    E non riuscì a non rivelarle quel pensiero che un po’ lo allettava, nonostante la sua maschera irriverente: -Anche se non mi dispiace vederlo in balìa della gelosia, così impegnato a invidiare me e tutto quello che ho potenzialmente combinato, in quella vasca da bagno.- Ghignò, sfiorandole l’orecchio con la sua voce bassa e melodiosa.
    Sillen gli assestò un pugno sulla spalla, più che sconvolta:
    -Smettila! Non voglio nemmeno pensare a che razza di figuraccia ho appena fatto!- Fissò il terreno, stringendo le labbra piene: -Abbi pietà di me e uccidimi.- Gemette, terribilmente dispiaciuta.
    Glorfindel scoppiò a ridere, senza dar peso alla tenerezza che aveva prepotentemente invaso il suo petto a quella visione: -Non preoccuparti, Sillen. Sono certo che, una volta risolto questo vostro malinteso, potrete comprendervi meglio.-
    Lei annuì, un po’ rincuorata. Poi allungò una mano, stringendo il mantello grigio dell’elfo al suo fianco: -Come… Come sapevi dei miei sentimenti? Ho sempre eluso le tue domande e ho tenuto nascosta gran parte del mio passato al Reame Boscoso.- Sussurrò, tenendo lo sguardo sulla strada che stavano percorrendo.
    L’elfo dorato, invece, studiò il suo viso chino, sentendo tutta la spavalderia soccombere gradualmente a un sentimento decisamente meno opportuno: -Sono nato prima ancora che le razze libere calcassero queste terre, Stella dei Valar. Conosco i sentimenti meglio di quanto tu creda. Inoltre, non sei l’unica a cui ho posto le mie domande.- E il suo capo ammiccò in direzione del Re degli Elfi, dietro di loro. -Thranduil è stato come un fratello per me, tempo fa. Può anche non crederci ma riesco a leggerlo meglio di chiunque altro. È innamorato di te… ed è giusto che entrambi ve ne rendiate conto.- Mormorò infine, guardando davanti a sé.
    Sillen respirò profondamente, cercando di calmare i battiti impazziti del suo cuore. Fece per ribattere ma Glorfindel le afferrò una mano, accelerando la sua andatura: -Guarda, Saccoforino. Dobbiamo salire per di qua.- Esclamò, indicandole un cartello di legno chiaro.
    Parve voler troncare lì la conversazione e lei non osò continuare, poiché l’espressione dell’elfo dorato si era fatta nuovamente più seria, in quel modo insolito che lei non si spiegava. Gli sorrise comunque, ricambiando la stretta della sua mano gentile.
    Era davvero fortunata ad avere al suo fianco un confidente così saggio.
    Thranduil, che per tutto il tempo aveva fissato i due alleati ridere e conversare davanti a lui senza poter ascoltare una parola, era oltremodo innervosito e, con modi piuttosto rudi, passò in mezzo a loro, costringendoli a separarsi di colpo: -Prima ci allontaniamo da questa bolgia, meglio è. Non perdiamo tempo.- Commentò, seccamente.
    Glorfindel scrollò la testa, sospirando, senza però voltarsi verso la stella che, invece, cercava il suo sguardo con fare agitato. 
    Meglio così, pensò l’elfo dorato, meglio che il Re degli Elfi cercasse di intralciarlo in ogni modo possibile.

   Poco dopo, la compagnia si fermò di fronte ad una casa hobbit dalla grande porta tonda, di un bel color verde bottiglia. Sulla cassettina della posta, sbiadita dalle intemperie, si poteva ancora leggere l’elegante scritta “Baggins”, confermando ai quattro che erano finalmente giunti a destinazione.
    Sillen fece un passo indietro, mordendosi il labbro inferiore: da quel momento in avanti, sarebbe toccato a Glorfindel parlare con coloro che lì abitavano e lei doveva farsi da parte.
    Infatti, l’elfo dorato tolse il cappuccio, liberando la lunga chioma e avanzando con eleganza. Divorata dalla curiosità, la stella gli tenne comunque dietro, incollata al suo mantello grigio.
    Persino da dietro la porta chiusa, i compagni riuscivano ad udire un discreto numero di voci e rumori molesti provenire dalla casa e si scambiarono sguardi interdetti.
    Finché Glorfindel non bussò alla porta, senza esitazione: per un secondo, i rumori nella casa cessarono, accompagnando la grande sorpresa dei suoi abitanti. Poi ci fu un movimento frenetico e numerosi passi si rincorsero verso la porta d’ingresso.
    Una considerevole quantità di “ahia”, “vado io” e “oggi tocca a me” si susseguirono, prima di vedere la porta verde aprirsi di colpo. Sillen e Glorfindel abbassarono automaticamente lo sguardo, ricambiando quelli limpidi e curiosi di ben cinque bambini hobbit, ammucchiati sulla soglia come topolini.
    Assurdo che riuscissero a fare tanto rumore solo in cinque!
    Quella che pareva essere la sorellina più grande sbarrò gli occhi e corse nuovamente dentro la casa, urlando a squarciagola:
    -Mamma, papà, c’è qualcuno di stranissimo alla porta!-
    Intanto, gli altri piccoletti erano rimasti pietrificati sul posto, intenti a fissare gli stranieri. Un biondino con i calzoni rattoppati indicò Glorfindel con un ditino: -Caspita, questo sì che è alto!- Per venir poi zittito da un’eloquente gomitata del fratello vicino.
    In effetti, quei bimbi erano talmente bassi da non arrivare al ginocchio dell’elfo davanti a loro. Una donnina dal grembiule infarinato fece capolino alla porta, raccogliendo i lunghi ricci color miele sulla testa: -Oh cielo bambini, non state tutti sulla porta! Ma cosa c’è? Su, spostatevi, fatemi passare!- E si affacciò.
    Quando si rese conto della presenza dei quattro viaggiatori, aprì la bocca rosa in una piccola O sorpresa: -B-buongiorno. Come posso esservi utile?- Sorrise, titubante.
    Glorfindel s’inchinò con deferenza, facendo arrossare ulteriormente le guance paffute dell’adorabile hobbit: -Il mio nome è Glorfindel, mia signora. Sono qui per conto dell’Alleanza riunitasi a Minas Tirith. Mi duole turbare la vostra quiete ma dobbiamo parlare con il padrone di casa.-
    Lei sgranò gli occhi verdi: -Ma certo! Prego, entrate, entrate!- E si scostò, aggiustando il vestito spiegazzato: -Perdonatemi per il disordine.- Sorrise e sospinse con gesti secchi i bambini, ancora attaccati alle sue gonne: -Via bambini, andate a giocare fuori. Gli adulti devono parlare di cose importanti.-
    Recalcitranti, i cinque piccoli hobbit si apprestarono ad uscire in giardino, lanciando occhiate poco rassicuranti ai nuovi arrivati. La madre, che li conosceva benissimo, li fulminò con lo sguardo: stavano tramando di nuovo qualcosa, era evidente. -Guai-a-voi- Sillabò silenziosamente, chiudendo la porta dietro di sé.
    Sillen si guardò attorno, sbalordita: la casa era più grande di quanto si fosse aspettata ma, naturalmente, era a misura di hobbit. Come Thranduil e Glorfindel, dovette procedere piegata in avanti, per evitare di sbattere la testa contro le volte tonde del soffitto.
    -Prego, di qui. Accomodatevi.- Indicò la donnina, affrettandosi a sistemare le sedie. Thorin si mosse comodamente nella saletta, quasi perfetta per lui: -Posso sapere il tuo nome, gentile signora?- Chiese, con un affascinante sorriso sul volto regale. La hobbit arrossì nuovamente: -Rosa. Rosa Cotton. Ma i gentili signori possono chiamarmi Rosie.- Sorrise, chinando la testa.
    -I vostri bambini sono davvero adorabili.- Aggiunse Sillen, cercando di farla sentire a suo agio nonostante la loro invadente presenza.
    Rosie agitò una mano: -Oh, grazie! Beh, fossero educati come i loro otto fratelli maggiori…- La Stella dei Valar spalancò nuovamente la bocca nell’udire quella notizia e Glorfindel soffocò una risata, divertito. -Dunque… Vado a preparare del tè freddo.- Sorrise imbarazzata Rosie, poi si dileguò nel corridoio con una leggera riverenza, lasciandoli soli nella saletta.
    Thranduil si accomodò a fatica sullo sgabello accanto alla finestra, piegando le lunghissime gambe in una posa decisamente scomoda: -Questo posto è soffocante.- Commentò, posando i gomiti sulle ginocchia.
    Sillen, con le guance nuovamente in fiamme, si accomodò a terra con le gambe incrociate, attenta a non scontrare niente, soprattutto lui: -Sembra di essere entrati in un mondo in miniatura.- Nonostante l’insolito rossore sul suo viso, la stella pareva davvero raggiante e Thranduil non poté fare a meno di rilassarsi lievemente, vedendola così allegra.
    Poco dopo, Rosie apparve nuovamente, questa volta seguita da qualcuno. Quando questi entrò, Glorfindel si aprì in un sorriso, che parve illuminare la stanza: -Mastro Gamgee. Quanto tempo è passato!- Lo hobbit davanti a loro sgranò gli occhi, sconcertato:
-G-Glorfindel di Gran Burrone! Siete proprio voi?-[2]
    Il magnifico elfo dorato annuì, portandosi una mano al cuore:
-Temo di sì. E questi alle mie spalle sono La Stella dei Valar, Re Thorin III Elminpietra e Re Thranduil, del Reame Boscoso.- Si abbassò un poco, per guardare lo hobbit in viso: -Veniamo da Minas Tirith portando domande, che esigono con urgenza delle risposte. Ma sono felice di dirti che il Re degli Uomini e i tuoi vecchi compagni ti mandano i loro più affettuosi saluti. Sarebbero voluti venire personalmente. Tuttavia, come puoi immaginare dalla nostra visita, le cose a Gondor si sono fatte complicate.- Samvise Gamgee, aggiustandosi le bretelle sulla camicia chiara, espirò rumorosamente: -Già, immaginavo davvero. Anche se sono molto felice di ricevere ospiti tanto illustri e tanto graditi.- E volse lo sguardo sugli altri, incuriosito.
    Il Re dei Nani e il padre del coraggioso Legolas che visitano la sua casa, chi l’avrebbe mai detto! E chissà chi era quella strana fanciulla che Glorfindel aveva chiamato “Stella dei Valar”.
    Thorin si avvicinò di un passo, attirando l’attenzione su di sé:
-Abbiamo sentito che sei Sindaco della città. Congratulazioni! Tu e i tuoi compagni mezz’uomini siete famosi anche tra la mia gente. Sono felice di poterti conoscere, Samvise l’Impavido!- Sam arrossì, balbettando: -N-non c’è bisogno di tanta cortesia! Vi prego, fate come se foste a casa vostra.-
    Si rivolse alla moglie, tentando di apparire rassicurante:
    -Noialtri mangeremo nello studio. Ho il sospetto che ci saranno molte cose da dire e non voglio turbare i bambini.- Rosie annuì, lasciandogli un bacio affettuoso sulla guancia prima di dirigersi nuovamente in cucina, sollevata dall’affidare la situazione in mano al marito.
    I compagni si sistemarono allora nello studio spazioso, guidati dal loro anfitrione.
    -Vossignoria desidera dell’erba pipa?- Fece Sam, rivolto al Re dei Nani, ben consapevole di quanto anche questi ultimi amassero fumare. Thorin ammiccò: -Di Pianilungone? Hai proprio buon gusto, Impavido!-
    Subito, Thranduil intrecciò le mani dietro la schiena, rompendo la momentanea atmosfera rilassata con cui l’accogliente casa aveva avvolto i viaggiatori: -Glorfindel, sbrigati a parlare e non perdere tempo. Non siamo qui per godere della nostra reciproca compagnia.- Commentò, altezzoso.
    Sam annuì, mortificato: -Scusatemi Vossignoria, sono tutto orecchie. Dunque, cosa accade ad Aragorn e ai miei amici, in questi tempi di pace?- Glorfindel prese posto difronte a lui, serio e cercò di riassumere gli accadimenti degli ultimi mesi in modo semplice e comprensibile, per quanto fosse possibile.
    A racconto terminato, Sam era senza fiato: -Tutto questo è davvero gravissimo. Persino una stella ora è giunta su questa Terra…- E lanciò uno sguardo titubante verso Sillen, deglutendo:
-Se fosse ancora vivo, il vecchio Gaffiere stenterebbe a crederci.- Commentò infine, grattandosi la zazzera di capelli biondi ormai screziati d’argento.
    Glorfindel sorrise, comprensivo: -Non lo biasimerei. Ma ella è qui ed è reale quanto me e te.- Avvicinandosi ai due, Sillen chinò la testa, mestamente: -È  un grande onore conoscerti, eroe della Terza Era. Mi dispiace coinvolgerti, date le gravi circostanze.-
    Ma Sam scosse velocemente una mano, colpito da tanta sincerità: -Nessun disturbo! Sarei felice di esservi utile. Avete parlato di un biglietto di Gandalf, che riguarda la Contea, giusto?- Ragionò, tentando di mantenere la calma.
    Glorfindel annuì, allungando la mano: -Ti prego di dirci tutto ciò che sai.- E lo hobbit prese il foglietto tra le mani, aprendolo con delicatezza. Lesse con attenzione, una, due volte, poi tornò a fissarli: -Siete davvero certi che questo sia il biglietto giusto?-
    Thranduil sollevò un sopracciglio, lo sguardo tagliente: -Credi avremmo attraversato metà Terra di Mezzo come dannati raminghi con il biglietto sbagliato?-
    Sam bofonchiò, chinando la testa: -Beh, chiedevo.- Quanta arroganza! Certo, era un Re, ma il padre del gentile Legolas era decisamente diverso da qualsiasi altro elfo avesse mai incontrato!
    Si rivolse nuovamente a Glorfindel, di gran lunga più cortese:
-Questo è il titolo di un libro di cucina molto comune, da queste parti. Un ricettario per famiglie altolocate, tra gli hobbit del Decumano Ovest.- Si alzò sui grandi piedi scalzi, seguito a ruota dalla stella: -E tu ne possiedi uno?- Domandò questa, speranzosa.
    Lo hobbit scosse la testa, affaccendandosi contro la libreria a muro: -No, ma questa casa non è sempre stata mia, signora Stella dei Valar. Apparteneva a Padron Frodo. Era un Baggins, uno hobbit di buona famiglia, parola mia! Sono quasi certo che suo zio Padron Bilbo, ai suoi tempi, avesse uno di questi libri: anche solo per buon costume, deve di certo averlo acquistato dalla stessa Myrtle Bracegirdle.-
    Sillen fissò la montagna di libri davanti a loro e strinse i pugni, risoluta: -Va bene, cerchiamolo.-


 
**
 
    I cinque bambini rientrarono per cena, affamati e rumorosi come sempre. Subito, curiosarono per casa, cercando allegramente i nuovi arrivati. Quando li trovarono, circondati da centinaia di libri, rimasero decisamente sorpresi.
    -Credo che il piano di Ruby sia saltato: hanno già mangiato. Niente lumache nello stufato…- Sospirò Primrose, una mano a torturare i ricci biondo cenere. -Non fa niente, gli rovesciamo i vasetti di formiche nei mantelli.- La rassicurò Tolman, il più giovane dei fratelli.[3] A quelle parole dolci, Robyn e Bilbo tirarono fuori due grossi contenitori di vetro, ricolmi di formichine nere:
-Ottima idea!-
    Subito, i due discoli più vicini alla porta della cucina sussultarono, mentre un improvviso dolore attanagliava le loro orecchie appuntite. Alzando lo sguardo, incontrarono gli occhi severi di Rosie Cotton, che li aveva afferrati senza tante cerimonie: -Qualcuno vuole proprio saltare la cena!- Al che, i cinque giovani Gamgee cominciarono a correre qua e là, implorando perdono.
    Rosie tentò di riacciuffarli, finendo solo per rovesciare i soprammobili del corridoio: -Accidenti, ma da chi avete ereditato questo spirito ribelle, voialtri!?-
    Nella sala accanto, Sam deglutì: aveva superato orchi, goblin, creature oscure e quant’altro ma non si sarebbe mai abituato alle sfuriate della sua amata moglie. Tornò a concentrarsi, sfogliando l’ennesimo libro pescato dalle profonde mensole.
    Glorfindel intanto, seduto con grazia sulla scrivania, lanciò un altro tomo nella pila dei “già visti”: -Quanti libri può possedere un hobbit?- Sospirò, esausto. Sam non poteva biasimarlo ma sorrise, allietato dai ricordi che quei volumi rievocavano: -Di solito pochi, ma Padron Bilbo era un amante della lettura! Ho imparato a leggere e scrivere proprio qui, con lui e Padron Frodo.-
    Thorin si sgranchì la schiena, flettendosi all’indietro: -Sì, commovente. Però, sono due ore che cerchiamo, forse siamo davvero nel posto sbagliato.-
    Sillen scosse la testa, immersa tra decine di volumi colorati: non si sarebbe arresa finché l’ultimo libro non fosse stato controllato a dovere.
    Thranduil, con fare falsamente annoiato, lasciò vagare lo sguardo sulle mensole di legno massello, sforzando la sua vista di elfo: quella situazione di stallo lo stava innervosendo e dividere la stanza con Sillen senza poterle parlare liberamente lo infastidiva più di quanto volesse ammettere.
    Scostò un paio di volumi, seguendo l’istinto e, finalmente, intravide quello che pareva proprio essere un ricettario. Lo tirò fuori delicatamente, osservando la copertina verde dagli sbalzi leggeri e i bordi frastagliati adorni di linguette sporgenti, che segnavano ordinatamente le lettere dell’alfabeto.
    Senza indugio, controllò la prima pagina e sentì una vaga incredulità pungergli la mente quando si accorse che il frontespizio era stato strappato via.
    Velocemente, afferrò il biglietto di Mithrandir, posato con cura sulla scrivania e si fece spazio al fianco di Glorfindel. Questo lo seguì con lo sguardo e, quando intuì ciò che stava per accadere, s’illuminò: -Sillen!- La stella corse al suo fianco, il battito accelerato e incontrò lo sguardo serio del Re degli Elfi.
    Con un gesto misurato, Thranduil avvicinò la pagina al bordo del frontespizio mancante, facendo aderire i due lembi irregolari.
    Per qualche secondo, rimasero in silenzio, rapiti da quella scena: -Combaciano.- Sussurrò Sillen, stringendo inconsciamente il braccio del Re al suo fianco. Thranduil le passò il libro, allontanandosi leggermente da lei: -Controlla, dunque.- Sillen non se lo fece ripetere e, chiedendo conferma al Portatore del Messaggio, si rigirò il libro tra le mani.
    Al centro del volume, uno spazio evidente lasciava intuire che qualcosa fosse rimasto tra le pagine e, speranzosa, Sillen lo aprì proprio in quel punto.
    Un foglio ripiegato più volte cadde con un fruscio pesante sul tappeto dello studio e i presenti trattennero il respiro. Samvise Gamgee si appoggiò alla sedia intagliata, sconvolto: -Roba da non credere! Ed era qui, a Casa Baggins!-
    -Avanti Glorfindel, aprilo!- Lo spinse Sillen, scocciata dal fatto di non poter agire in prima persona, questa volta.
    Glorfindel si affrettò, aprendo velocemente il foglio con impazienza crescente: -È una mappa…- Sussurrò, dubbioso, studiandola a fondo. -E c’è un messaggio, sul bordo.-
    Girò il grande foglio, cercando di interpretare quella scrittura sregolata e quelle frasi sconnesse, leggendo ad alta voce.

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    Se questa mappa è stata trovata, i saggi Ent hanno dunque intrapreso la loro marcia nel tempo più oscuro ed infausto: il Male è vicino e una battaglia è già cominciata.
    Ignoto portatore del potere più grande del tuo tempo, non conosco il tuo nome e mai potrò conoscerlo in questa vita, e pertanto non sono certo di quanto tu possa meritare il mio aiuto, ma è mio dovere avvertirti, poiché c’è qualcosa di antico che aspetta di essere trovato: l’Alfiere del Cielo è nascosto nel cuore della Terra.
    Lontano dal firmamento, lontano dalla luce, giace ciò che tutto può distruggere e tutto può salvare. Solo un’anima benedetta che è un’anima maledetta sarà accolta e tutto ciò che il mondo conosce, non sarà più.
    Ti chiederai come possa io conoscere questo mistero e con poche parole risponderò: incontrai questo antico potere nel luogo che ancora è mia tomba e mia culla, laddove perì lo Stregone Grigio e nacque lo Stregone Bianco. Conobbi l’Alfiere del Cielo ma, ahimé, esso non mi rivelò che le parole da me prima riportate, geloso della sua solitudine. Allora, il mio fato mi condusse altrove, poiché non ero colui al quale il suo segreto è destinato, ma in cuor mio so di non poterlo celare al mondo che tanto amo e che, con tanta forza, necessita di protezione.
    Non esultare, ignoto potente del futuro: forse nemmeno tu, chiunque tu sia, sei destinato a incontrare questa forza antica, e come me verrai allontanato. Spetta a te affrontare questa prova, di più non so dire.
Sento dentro di me, nel mio animo di Istar, di poterti affidare questo indizio ma ricorda: Bene e Male convivono in ogni cosa, senza eccezioni, e ad ogni azione corrisponde un’equa conseguenza.

Con tutto il mio spirito, buona fortuna

Gandalf



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    Sam si mosse appena, quasi come avesse paura di respirare ancora: -Tutto misteri ed enigmi. È proprio una lettera di Gandalf!- Sillen crollò seduta sul tappeto, incredula: -L’A-Alfiere del Cielo?-
    Glorfindel scosse la testa, cercando di essere il più razionale possibile: -Credevo fosse una vecchia leggenda ma… Mithrandir parla chiaramente, lui l’ha trovato.- E girò la mappa davanti a sé, in modo che tutti potessero vederla: -E si trova nelle viscere delle Miniere di Moria. La mappa conduce molto in profondità, ben più al di sotto dell’antica Khazad-dûm.-
    Thorin III si passò una mano sul viso, meditabondo: -Quel luogo è ancora abbandonato e oscuro. Tornarci è rischioso, per non dire folle!- Ma l’elfo dorato, questa volta, parve più serio e risoluto, quasi emozionato: -Gli Ent sono antichi come questa Terra e non avrebbero consegnato il messaggio all’Alleanza con tanta leggerezza. L’ora è giunta, Pallando potrebbe divenire presto un nuovo Oscuro Signore. Non possiamo permettere che infuri un'altra infinita guerra! Finché siamo in tempo, finché Gondor può resistere e proteggere la Terra di Mezzo, dobbiamo agire.-
    Sillen strinse istintivamente il ciondolo violetto tra le mani, tesa come la corda di un arco.
    Moria si trovava ad Ovest: il luogo da cui proveniva quel richiamo sordo nella sua testa, si trovava ad Ovest.
    Non poteva essere una coincidenza.
    -Glorfindel ha ragione. Dobbiamo rischiare.-
    Thranduil, immerso nei suoi pensieri, sospirò pesantemente:
-Questo Alfiere, ha una storia singolare. Ma ora che la rammento, riguarda anche le stelle, Sillen. Non può essere un caso.- La stella sollevò lo sguardo, allibita, incontrando i suoi occhi adamantini.
    Il buon Sam, infervorato da tutte quelle scoperte, agitò le mani, balbettando ad alta voce: -Gandalf la raccontò una sera, alla festa del Giorno di Mezzo Anno!- E si tappò la bocca, conscio di aver appena interrotto il Re degli Elfi: -S-scusate Vossignoria, non mozzatemi la lingua. Giuro che la annoderò io stesso!-
    Ma Thranduil non parve infastidito, anzi, lo degnò persino di un cenno garbato, prima di tornare a guardare la stella: -Di questi tempi, rimangono in pochi a conoscere l’Alfiere del Cielo. La sua storia è legata alla creazione della Terra di Mezzo. Originariamente, Arda nacque come un singolo mondo piatto e i Valar crearono Due Lampade per illuminarlo, Illuin e Ormal.-
    Glorfindel continuò, immerso nel racconto: -Poi Melkor le distrusse e i Valar abbandonarono quelle terre oscure per migrare a Ovest, nella nuova Aman. Il luogo rimasto indietro, a Est, era proprio la Terra di Mezzo. Lontana dalla luce dei Due Alberi piantati a Valinor, la Terra di Mezzo rimase avvolta nell’oscurità, sotto un cielo popolato da distanti e fredde stelle.-
    Thranduil annuì, riprendendo la parola con trasporto: -Melkor distrusse anche i Due Alberi, lasciando ai Valar solo due dei loro frutti. Da essi, i Valar ricavarono prima l’astro della Luna, Tilion, protettore degli Elfi, e poi il Sole, Arien, simbolo degli Uomini.[4] Essi furono slegati da ogni vincolo terreno, liberi di seguire il loro percorso e illuminare i giorni e le notti della Terra di Mezzo. Nessuno poteva prevedere ciò che sarebbe accaduto in seguito.-
    Thorin III, rapito da quel racconto che nemmeno lui conosceva, sedette pesantemente accanto alla stella che, a bocca aperta, fissava i due elfi come una falena attirata dal fuoco.
    Glorfindel sorrise, rivolgendosi a Samvise L’Impavido: -Vai avanti, Sam.- E questo, colto di sorpresa, si raddrizzò velocemente, scandendo ogni parola con voce alta e solenne.
    -Perché Melkor, conosciute le nuove creazioni dei Valar, ne fu profondamente invidioso e volle a tutti i costi rapire Arien, il Sole. Non immaginava che Tilion, l’astro della Luna, fosse profondamente innamorato di Arien! Egli, infatti, furioso e disperato, chiese alle stelle di fabbricare per lui un artefatto potentissimo, in grado di liberare il suo amore dalle catene cui Melkor l’aveva costretto. Allora le stelle, proprio in quell’occasione, gli donarono l’Alfiere del Cielo. Nessuno sa per certo cosa fosse ma riuscì davvero a liberare Arien! Purtroppo, il suo potere era troppo grande perché Tilion riuscisse a governarlo a lungo, dunque l'astro tentò di restituirlo alle stelle, in modo che esse potessero distruggerlo, così come l’avevano creato.- Poi si grattò la testa, imbarazzato: -Io ricordo solo fino a qui, Vossignoria.-
    Glorfindel annuì, soddisfatto: -È ovvio, quest’ultima parte è rimasta segreta a molti, persino in passato. Ad ogni modo, le stelle non vollero sigillare il potere dell’Alfiere, troppo orgogliose della loro creazione ed esso, offeso dal rifiuto di Tilion e Arien, si lasciò cadere sulla Terra di Mezzo, conficcandosi nelle sue viscere e giurando al cielo che mai più avrebbe riportato alla luce il suo immenso potere.-
    Sillen affondò le mani tra i capelli, reggendosi la testa: -Tutto questo è davvero assurdo. Un artefatto leggendario… Come potremmo noi sfruttarlo?- Si chiese, mesta.
    Glorfindel sentì uno strano calore invaderlo e sorrise, involontariamente. Piegare un potere tanto immenso e antico era difficile, molto difficile, ma lui era nato durante gli Anni degli Alberi e, adesso, era l’unico essere in grado di farlo.
    L’unico che meritasse tale onore.
    E, come a conferma di ciò, riconobbe senza difficoltà il fuoco che si era acceso dentro di lui: il guerriero dorato avrebbe avuto la sua rivalsa.
    Thorin III Elminpietra strofinò le grandi mani, deciso: -Beh, tanto dobbiamo andare a vedere. Ormai siamo arrivati qui!-
    Lanciò uno sguardo ammiccante in direzione della stella: -Per fortuna sono venuto con voi! Chi meglio di un nano può guidare una spedizione sotto terra?!- E rise di gusto, allentando un poco la tensione che aveva assalito la compagnia.


 
**

    Sam indicò alla stella la sua sistemazione, sorridente: -Ecco, spero che questa stanza sia di vostro gradimento, signora Stella dei Valar.- Era una stanza piuttosto spoglia, con una panca, un letto dal materasso visibilmente alto e soffice e un treppiedi come appendiabiti, ma era davvero graziosa.
    Lei posò una mano sulla spalla del padrone di casa, intenerita:
-Ti ringrazio Sam. Chiamami Sillen, d’ora in avanti. Siamo compagni, giusto?- Lo hobbit gonfiò le guance tonde, solenne:
-Certo che lo siamo, signor- volevo dire, Sillen!- E, dopo un breve inchino, zompettò emozionato nel corridoio, i grandi piedi coperti di peli che quasi non toccavano terra.
    Per essere un simpatico hobbit di mezz’età, pensò Sillen, era davvero energico!
    Poi si passò una mano tra i capelli, tirando le onde scure dietro le spalle, con un gesto stanco. Quel viaggio si era rivelato di enorme portata, ancor più di quanto avrebbe mai immaginato la sua vivida fantasia. Persino il sospettoso Glorfindel si era dovuto ricredere, e ora pareva ancor più in fibrillazione di lei all’idea di trovare il tanto misterioso Alfiere del Cielo. Anche se, a rigor di logica, non era certa nemmeno l’esistenza di quest’ultimo.
    Tuttavia, le voci nella testa della stella -ora lontane, svanite- parevano indicare un’altra cosa: l’avevano attirata verso quel viaggio molto tempo prima della notizia di Gandalf il Grigio.
    Senz’ombra di dubbio, Alfiere o meno, laggiù c’era qualcosa che riguardava lei. Qualcosa che aspettava di essere trovato.
    E Sillen non aveva idea di quanto questo potesse essere un bene.
    Sospirando, la stella si apprestò a entrare nella piccola stanza quando, improvvisamente, si sentì afferrare e tirare indietro.
    L’urlo le morì in gola quando realizzò di essere sola, di nuovo, quando quella era la prima ed unica cosa che avrebbe dovuto evitare con cura.
    Bene, tanti saluti all’Alfiere, sarebbe morta prima.
    Invece, la stretta che l’aveva ghermita non le fece affatto male, e il corpo premuto contro la sua schiena non accennò alcun movimento pericoloso.
    La voce di Thranduil le arrivò dall’alto, sopra la sua testa, attutita dai suoi stessi capelli corvini: -Ti ho già detto che non devi stare da sola. Perché non ascolti mai? Sei davvero irritante.- Sussurrò lui, il tono tanto caldo da farle cedere le gambe.
    -Mhm, questa volta… hai ragione.- Biascicò Sillen, tentando di tenere a freno il suo cuore, che batteva a ritmi disumani contro il suo petto.
    Da quando Glorfindel si era divertito a prenderla in giro con le sue allusioni, ogni sguardo rubato al Re degli Elfi la faceva arrossire come una stupida, figurarsi questo!
    Quando sentì le mani dell’elfo scivolarle lungo le braccia in una carezza rilassata, si allontanò con un balzo, tutto fuorché discreto. Si voltò lentamente, sforzandosi di sostenere lo sguardo penetrante del Re.
    -Devo parlarti di una cosa.- Cominciò, facendosi forza. Lisciò meccanicamente la camicia chiara, passando una mano sul collo arrossato, ancora segnato da una vistosa cicatrice: -Temo di non aver chiarito alcuni dettagli, ieri.-
    Thranduil entrò a sua volta nella stanza, abbassando la fastidiosa luce delle lampade a olio attaccate alle pareti: -Mhm, ti ascolto.- Disse, incolore.
    Lei lo seguì con lo sguardo, tormentandosi la collana in mithril.
    Non che si aspettasse una situazione meno tesa, ovviamente.
    -Tu sai che ho visto quell’altra mentre stavo facendo il bagno.- Si schiarì la voce, davvero a disagio per la prima volta nella sua vita. Maledizione a Glorfindel e alle sue maliziose frecciatine: sembrava tutto così… eccessivamente intimo!
    Alle sue parole, il Re degli Elfi s’irrigidì leggermente ma non la interruppe. Così, Sillen si ritrovò a chiudere gli occhi, per cercare di concludere quell’assurdo discorso: -Non era nemmeno la prima volta che la scorgevo, a dire la verità, ma questa è un’altra storia. Quello che voglio dire è che, sì, c’era Glorfindel.- Respirò a fondo, tremando leggermente per lo sforzo di non arrossire di nuovo: -Ma non come credi tu, Thranduil. Lui era lì vicino per portare la cena, come tantissime altre volte ha fatto! Non stava… facendo il bagno con me.-
    Si fece più convinta, stringendo i pugni con fervore: -Mi ha solo salvata da un’innaturale annegamento, tutto qui! Non c’è stato niente tra di noi, niente di quello che puoi aver… erroneamente dedotto.- E si azzardò ad aprire gli occhi.
    Thranduil la stava guardando con una strana espressione, indecifrabile e incredibilmente nuova. Sillen, infatti, non l’aveva mai vista.
    -Hai capito?- Lo incalzò, sperando che dicesse qualcosa.
    Il Re degli Elfi la fissò per qualche secondo, assorbendo quelle maldestre parole una a una, fino ad imprimerle nel suo animo irrigidito dal tempo.
    Scocciata dal suo silenzio, Sillen si avvicinò, prendendogli il viso tra le mani e costringendolo più vicino: -Parla, avanti! Hai capito quello che ho detto? Non ho mai nemmeno pensato a certe cose, te lo posso giurare. Dì qualcosa, ti preg- E le parole le rimasero bloccate in gola quando sentì le labbra dell’elfo premere sulle sue.
    Questa volta, non fu un bacio irruento, passionale e distruttivo; fu un bacio dolce, tenero, quasi timido, che le fece istintivamente salire le lacrime agli occhi. Si strinse a Thranduil, abbracciandolo con la stessa dolcezza con cui lui la stava accarezzando.
    -Non m’importa.- Le confessò l’elfo, sulle labbra, senza curarsi di infrangere tutte le sue maschere fatte di orgoglio, possessività ed egoismo: -Non mi sarebbe importato ciò che hai fatto con lui. Avrebbe fatto male, dannatamente male, ma non avrebbe cambiato ciò che provo. Ti avrei voluta allo stesso modo.-
    Sillen sgranò gli occhi, sorpresa da quelle parole così sentite e, ancor di più, da quella voce calda dal tono irresistibilmente carezzevole. -Non volevo ferirti.- Rispose, sprofondando in quegli occhi chiari come specchi d’acqua trasparente.
    Thranduil annuì, accennando un sorriso; forse il primo vero sorriso dopo un’indefinita serie di pieghe infastidite e distanti. Era felice e non riusciva nemmeno a capacitarsene.
    Sillen si rilassò in quell’abbraccio, senza fretta o timore, godendo del calore dell’elfo che penetrava nella sua pelle fredda.
    -Partiamo prima di mezzodì. Dovresti dormire.- Le ricordò lui, dopo un po’. La stella si riscosse da quel piacevole torpore, sollevando lo sguardo: -Credo sia meglio, sì. Non voglio esservi di peso, durante il viaggio.- Lui, accennando un altro lieve sorriso, la squadrò con fare critico: -Sarai un peso, inutile umana. Ma andrà bene lo stesso.- E la sospinse verso il letto, irremovibile: -Ora dormi, avanti.-
    Lei guardò prima lui, poi il letto, infine di nuovo lui: -Non posso rimanere da sola. Quindi dormi qui anche tu, giusto?- Il Re degli Elfi si appoggiò alla parete dietro di sé, incrociando le braccia al petto ampio: -Io rimango ma non dormirò. Sai che noi Elfi non abbiamo bisogno di riposare allo stesso modo degli Uomini, no?-
    Sillen annuì, scalciando via gli stivali e le placche addominali per infilarsi sotto le coperte. Tanto era sicura di non riuscire minimamente ad addormentarsi, con lui a due passi di distanza.
    Lo guardò di sottecchi, mentre anche lui chiudeva gli occhi per rilassarsi. Era troppo bello per essere vero. Troppo irreale, magico, nostalgico, emozionante! E perché adesso voleva alzarsi e tornare a baciare quel dispotico e meraviglioso elfo che tanto le rendeva la vita complicata?
    Involontariamente, osservò quello spettacolo con gli occhi spalancati, rendendosi conto di quanto le frecciatine fastidiose dell’elfo dorato avessero attecchito nel suo animo: seguì la linea elegante del collo dell’elfo, fino alle clavicole squadrate, che sparivano nella camicia candida come la neve. Rimase impigliata con il pensiero tra quei fili argentati che gli incorniciavano selvaggiamente il volto affilato, liberi dalla rigida corona del Reame Boscoso. Desiderò essere di nuovo stretta tra quelle braccia forti, vicina al suo corpo slanciato ed elegante. Studiò avidamente le linee muscolose delle sue gambe lunghe, spudoratamente fasciate negli stretti pantaloni di pelle scura.
    Rossa come un pomodoro maturo, tirò automaticamente le coperte davanti al viso, tanto che rimasero fuori solo il suo naso dorato e i grandi occhi viola, sgranati nella loro muta contemplazione. Dopo qualche secondo di silenzio, notò un piccolo spasmo del sopracciglio definito del Re.
    -Smettila di fissarmi, Sillen.- La riprese lui, senza aprire gli occhi, con una nota divertita nella voce. Invece che difendersi o negare, Sillen parlò automaticamente, rimpiangendolo subito dopo: -Se voi elfi non avete bisogno di dormire come gli uomini, perché tu hai un letto così grande e spazioso, nella tua camera?-
    Si sarebbe schiaffeggiata da sola.
    Thranduil riaprì gli occhi chiari, che la trafissero come lingue di fuoco e alla stella non sfuggì il suo violento irrigidirsi. Deglutì, consapevole ancora una volta di quanto fosse immatura, ingenua e avventata.
    L’elfo si costrinse a rimanere immobile, sapendo bene dove i suoi gesti l’avrebbero portato se avesse osato muoversi: dopo tutto il disumano sforzo che aveva compiuto per permetterle di andare a dormire, quella donna osava domandare una cosa simile?
    La vide stringere le labbra e voltarsi rapidamente, dandogli le spalle: -Come non detto, buonanotte Thranduil!-
    Nonostante la spossatezza, quella notte Sillen impiegò più tempo del solito, per addormentarsi.
     


 
 
[1] Primo venerdì del mese: secondo il Calendario della Contea, nessun mese incomincia mai di venerdì. Tra gli Hobbit è quindi un'espressione scherzosa parlare di "venerdì primo del mese", riferendosi ad un qualcosa di assai improbabile o inesistente. L'espressione completa è "venerdì primo Trappolaio", dove il mese di "Trappolaio" è anch'esso inesistente. XD Grazie Tolkienpedia per queste perle, hannon le!
 
[2] Sam conosce l’aspetto di Glorfindel, poiché mi sono attenuta all’episodio del libro dove è lui in sella ad Asfaloth (e non Arwen Undomiel) a condurre Frodo oltre il Brùinen. Inoltre, Glorfindel ha assistito al Consiglio di Elrond ed era presente nella delegazione di Imladris, sia durante la cerimonia di incoronazione di Elessar che per il suo seguente matrimonio con Arwen: di sicuro, bello com’è, non è passato inosservato proprio per nessuno >w<
 
[3] I figli di Sam e Rosie: in tutto sono tredici! Ebbene sì, dalla primogenita Elanor la Bella (nata nel 3021 T.E) al piccolo Tolman (nato invece nell’anno 21 Q.E, dunque in questa storia ha appena 8 anni :3) Se vi fa piacere saperlo, tutti i loro nomi, dalla maggiore al minore, sono Elanor, Frodo, Rosa, Merry, Pipino, Cioccadoro, Hamfast, Daisy, Primrose, Bilbo, Ruby, Robin e Tolman. Sam, inoltre, viene eletto Sindaco della Contea per sette volte consecutive (il mandato singolo conta ben sette anni, quindi lo è stato per 49 anni!)
 
[4] La leggenda di Arien e Tilion si trova in un passo tratto dai lavori del Professor Tolkien, presente in parte anche nel Silmarillion.



 


N.D.A

Ciaoo! Da quanto tempo XD

Ben tre settimane sono passate, dall’ultimo capitolo! Spero che la lunghezza di questo nuovo passaggio sia un buon modo per chiedere scusa T^T
Che faticaccia tirare le fila della storia ma prego davvero che tutto stia continuando sulla giusta strada, con chiarezza e linearità. So che i “colpi di scena” possono confondere o infastidire, quindi non fatevi problemi a chiedere o criticare ciò che non vi è chiaro o non vi è piaciuto :D
Sono davvero felice di essere giunta fino a qui, quest’ultimo pezzo sarà intenso per me e spero anche per voi, ora che volgiamo agli avvenimenti risolutivi! Fatemi sapere cosa ne pensate ;)

Intanto ringrazio chiunque sia arrivato sino a qui, ha letto la storia, l’ha seguita, preferita o ricordata e un abbraccio a chi si è fermato a commentarla e recensirla!
Un grazie speciale a Kaiy-chan, che mi ispira con la sua meravigliosa storia e mi sprona a fare del mio meglio con le sue puntuali ed immancabili recensioni <3
E un bacio grandissimo a Chiara e ai suoi audio epici, che mi fanno morire dal ridere e mi riempiono di orgoglio ed entusiasmo. Condividere queste avventure con te è fantastico! <3

E per oggi è tutto, ci vediamo nel prossimo capitolo!

Con affetto,
Aleera

 
 

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Capitolo 31
*** Tumulti ***


 
-Tumulti-




    Elessar scrutò l’orizzonte, appena rischiarato dall’alba imminente. Non che si aspettasse di veder tornare i compagni, non ancora almeno, ma non poteva evitare di volgere lo sguardo a Ovest.
    Intanto, nessun movimento aveva attirato l’attenzione delle guarnigioni ai confini di Mordor, né sopra, né sotto terra: il nemico taceva, nascosto oltre le vette frastagliate delle Montagne d’Ombra.
    Le ricerche che avevano dispiegato in tutto il territorio poi, alla ricerca di Alatar, si erano rivelate un buco nell’acqua. Per giorni erano stati alle costole di un gruppo di non morti, diretti a Nord-Est, convinti che lo Stregone Blu si fosse unito al nemico per ricongiungersi a suo fratello Pallando. Ovviamente, il drappello in questione era svanito nel nulla, nel bel mezzo della notte, due giorni orsono. E di Alatar non si era mai più saputo niente.
    Una bella seccatura, dato che Elessar avrebbe di gran lunga preferito riaverlo sotto le proprie mani e sbatterlo ripetutamente su ogni pira innalzata per i loro morti.
    Invece, tutto era divenuto immobile.
    Un altro giorno vuoto, silenzioso e denso d’inquietudine si apprestava a cominciare e Aragorn non aveva davvero via d’uscita, questa volta: l’attesa era logorante, esasperante ma inevitabile.
    Poco dopo, Legolas apparve nel Cortile dell’Albero Bianco e abbassò il cappuccio scuro, raggiungendo il Re di Minas Tirith con un sospiro comprensivo. Accostandosi all’amico, si appoggiò a sua volta al parapetto di pietra, alzando lo sguardo verso le ultime stelle ancora visibili nel cielo blu: -Avo bresto, Estel. Sen i vad fael, im han mathon. Mellyn mìn cenitham. Esteliach nin? (Non preoccuparti, Estel. Questa è la strada giusta, io lo sento. Rivedremo i nostri amici. Ti fidi di me?)-
    L’altro gli sorrise, tristemente: -Ú manen i nauth lîn… (non è come credi…) Non sono preoccupato per loro.- Seguì con lo sguardo un gruppo di rohirrim, di ritorno dalle ronde a Nord:
-Sono solo stanco di sentirmi così impotente.-
    L’elfo annuì, posandogli una mano gentile sulla spalla nella speranza di confortarlo: -Il destino ci verrà incontro, alla fine. E forse rimpiangeremo persino quest’attesa.-
    Come dargli torto.
    Il loro futuro era incerto, buio e oscuro, come un tunnel tanto lungo da non riuscire a vederne la fine.
    Eppure, la voce del Principe del Reame Boscoso era calma, quieta e una nota di calore ne colorava l’inflessione. Elessar lo guardò di sottecchi, curioso, notando immediatamente l’aria distratta del suo amico più caro. Lo conosceva troppo a fondo, per non cogliere quei piccoli dettagli: -Ti trovo… insolitamente sereno.- Gli fece, scrutando la sua reazione.
    Legolas sorrise, chinando il capo in un moto quasi imbarazzato. -Mhm, forse.- A quel commento enigmatico, l’uomo sollevò un sopracciglio: -Forse? Di certo non sembri un elfo sull’orlo di una guerra probabilmente fatale. Posso sapere cosa è successo?-
    Vide le guance pallide del compagno tingersi lievemente, lo sguardo sfuggente: -Gimli mi ha chiesto di partire con lui, dopo la guerra.- Fu un sussurro ma il Re degli Uomini lo percepì chiaro come se l’altro l’avesse urlato. Ricordava bene il litigio tra i due compagni, risalente ormai a qualche giorno prima, e sapeva che l’elfo aveva frainteso il suddetto nano, in quell’occasione. Per questo fu più che felice di ricevere una tale notizia.
    -Era ora! Sono felice per te, Legolas. E dove andrete?- L’altro si affrettò ad alzare una mano, frenando il suo entusiasmo: -Non lo so ma è presto per pensarci. Sai che rimarrò qui fino a quando vorrai, Aragorn. Non partirò finché il tuo Regno non sarà al sicuro.- Elessar si finse oltraggiato, battendogli una mano sulla schiena con tanta forza da farlo sobbalzare: -Come no! E io dovrei impedire ai miei fratelli di vivere una nuova avventura? Finita la guerra sarò io a spedirvi fuori di qui, parola mia.- Risero entrambi, nonostante il peso che gravava su di loro fosse pressante come non mai.
    Avevano tanto da perdere, questa volta.
    In quel momento, un corvo dalle piume scomposte e rade si posò con poca grazia accanto a loro, gracchiando sgradevolmente e con insistenza. Elessar si affrettò a raggiungerlo, allargando il proprio sorriso: -È il corvo di Miniel!-
    Legolas guardò l’amico con tenerezza, mentre questi srotolava velocemente il biglietto, sfilato dalla zampa ruvida dell’animale:
-Si ostina a tenere con sé questo vecchio corvo, eh?- Elessar scrollò le spalle: -Sai com’è fatta. A modo loro sono tutti speciali, per lei.-
    Il Sindar si sporse oltre la sua spalla, curioso, e il Re sospirò: -Dice che stanno bene. Non si annoiano, con tutto il lavoro che c’è da fare per occuparsi dei bisogni della popolazione profuga. Ma Belfalas è una provincia florida e piena di vita, e ben organizzata aggiungerei. La città di Dol Amroth le piace molto, così come le piace il mare.- Un velo di nostalgia oscurò il suo sguardo grigio, mentre stringeva forte il biglietto dalla grafia fitta ed elegante.
    Nonostante si scrivessero spesso, la mancanza di Miniel e della Regina era un silenzio sordo, che riecheggiava nella fredda Minas Tirith. Elessar non ebbe bisogno di esternare il proprio dolore, preferì custodirlo nell’animo, conscio che anche l’amico accanto a lui stesse provando emozioni simili. Infatti, entrambi rivolsero lo sguardo a Sud, quasi come se riuscissero a scorgere la piccola Principessa, intenta a osservare la loro stessa alba.
    -Andiamo, dobbiamo riorganizzare le ronde. I soldati sono stanchi, darò loro il cambio.- Lo incoraggiò l’elfo, spostando l’attenzione sull’ordine del giorno. Elessar annuì, raddrizzandosi con decisione: -Porta con te una guarnigione del Reame Boscoso, dunque. Non possiamo fare granché ma non esisteranno confini meglio sorvegliati dei nostri!- E si allontanarono, mentre il vecchio corvo sbatacchiava le ali per raggiungere la sua vecchia piccionaia, gracchiando affamato.

 
**
 
 
    Nel frattempo, a Casa Baggins, il Vanyar dorato stava lanciando uno sguardo divertito a Thorin Elminpietra, che russava rumorosamente sul piccolo letto al centro della camera. Era davvero soddisfacente guardarlo dormire così profondamente, come se gli sconvolgenti avvenimenti del giorno prima e di quelli prima ancora non l’avessero riguardato affatto.
    Dopotutto era un nano, anzi, il Re dei Nani e questi erano soliti affrontare i problemi di petto, di certo non avrebbero rimuginato inutilmente per tutta la notte!
    Glorfindel ringraziò comunque i Valar per la propria natura di elfo: un pover’uomo bisognoso di una bella dormita non avrebbe chiuso occhio, con tutto quel fracasso!
    La camera che i due compagni avevano condiviso per la notte era ancora parzialmente nascosta nella penombra e gli abitanti della valle non si sarebbero ridestati prima del canto del gallo.
    Il Vanyar era certo che gli unici individui svegli nel raggio di venti miglia fossero lui e il Re degli Elfi, nella stanza accanto.
    Stanza in cui anche la stella, probabilmente, stava ancora dormendo.
    Al pensiero, l’elfo dorato abbandonò la testa contro il muro dietro di sé, con un sonoro sospiro. Non erano passate che due notti da quando era stato lui a farle compagnia e lo innervosiva sapere quanto questo cambiamento lo turbasse.
    E pensare che era stato proprio lui a spingerli l’una tra le braccia dell’altro, finendo per sperare davvero che la relazione tra il Re e la stella funzionasse, portando un po’ di calore nelle loro vite scombussolate dalla guerra e dalle incertezze.
    Voleva che la Stella dei Valar, ormai libera dal peso del proprio potere, vivesse al di là del proprio destino scritto, sfuggendo a quelle catene che lui stesso odiava immensamente.
    E a cui lui stesso non era riuscito ancora a sottrarsi.
    Anche se quella cocciuta ragazza si era intestardita ad accompagnarli nella risolutiva missione, l’elfo dorato voleva che in futuro nessuna scelta le fosse preclusa, fosse persino vivere al fianco del giovane Re del Reame Boscoso.
    Buffo, perché adesso Glorfindel non aveva neanche voglia di pensarci.
    Si alzò silenziosamente, uscendo nel basso corridoio buio. Istintivamente, lanciò uno sguardo alla porta accanto e si stupì di trovarla aperta. Suo malgrado, non poté fare a meno di avvicinarsi.
    La prima cosa che notò fu la stella, rannicchiata tra le coperte in quel suo tipico modo, tanto che l’unica parte visibile era l’aggrovigliata chioma nera, in netto contrasto con i lenzuoli candidi. Sorrise involontariamente, appoggiandosi allo stipite tondo.
    Poi indirizzò lo sguardo sull’altro individuo presente nella stanza, in piedi accanto alla finestra. Thranduil ricambiò lo sguardo, studiandolo in silenzio e, per il momento, nessuno dei due sentì il bisogno di parlare.
    Solo quando la natura si destò pigramente, tra il borbottio assonnato degli uccelli e il frinire delle cicale, Glorfindel si decise a indossare nuovamente il suo sorriso sghembo: -Mi aspettavo una scena diversa, Re degli Elfi. Cosa ti ha frenato? Hai paura di non ricordare come si fa?- Lo provocò, con uno sguardo obliquo e spudoratamente lascivo.
    Thranduil contrasse appena la mascella, un poco turbato. Non era stata la frecciatina dell’altro elfo a irritarlo, quanto il suo sguardo velatamente triste e arrendevole. Anche se non sapeva spiegarsi perché lo fosse: -Taci, Glorfindel. Non sei in grado di comportarti dignitosamente? Stavo quasi per ringraziarti.- L’elfo dorato, dal canto suo, sollevò un sopracciglio elegante, sorpreso: -Ringraziarmi? Mh, ti riferisci forse alle abilità che ho tramandato alla Stella dei Valar, mentre non c’eri? Prego, heru en amin. Ha imparato dal migliore.- Allargò il proprio ghigno felino, pungente:
-Dopotutto, saprei soddisfare anche il più esigente dei Re, sai?-
    Thranduil scrollò la testa, scacciando le immagini poco piacevoli che le parole dell’elfo avevano evocato nella sua mente:
    -Riesco a capire quando stai mentendo.-
    -Ci hai proprio creduto, invece. Almeno, fino a ieri sera.-
    Il Re degli Elfi non poteva ammetterlo così francamente ma nemmeno avrebbe negato, dunque preferì riservare a quell’irritante elfo un più diplomatico silenzio, accompagnato da un’occhiata eloquente.
    Il Vaniar rise, lasciando che le brillanti onde dorate dei suoi capelli gli accarezzassero il viso, mentre lo piegava da un lato con fare civettuolo: -Mi manca parlare con te, sai?-
    -A me no.- Mentì ancora l’altro, l’ombra di un sorriso sul viso affilato. -Crudele Re degli Elfi.- Ribatté allora Glorfindel, la voce deplorevolmente mielosa e cantilenante.
    Poi seguì lo sguardo del compagno, diretto verso l’ignara stella, che si stava rigirando nel letto.
    Thranduil abbassò automaticamente la voce, come a non volerla disturbare: -Sono stato ingannato dalle mie stesse paure, credendo che un essere puro come lei potesse farmi del male. O addirittura… usarmi.- Sussurrò, una nota di rammarico nella voce.
    L’elfo dorato puntò di nuovo lo sguardo su di lui, mordendosi l’interno della guancia: -Non fartene una colpa. Come avresti potuto fidarti senza temere le conseguenze? Hai violentato il tuo stesso animo per troppo tempo, amico mio. Il dolore gioca brutti scherzi anche alle menti più razionali.- Era una verità scomoda ma il Re degli Elfi la custodì dentro di sé, conscio di quanto, suo malgrado, la saggia presenza dell’elfo dorato gli fosse mancata.
    Con un sospiro rassegnato, confessò i suoi stessi pensieri, rimarcando ancora una volta come quell’esperienza l’avesse profondamente cambiato: -Ti ringrazio per esserti preso cura di lei.- Scandì, tornando a guardare l’amico e incontrando il suo sguardo: -E non sono così stolto da non capire che sei stato tu a schiarirle la mente, mentre io non ero in grado di gestire la situazione. Grazie, Glorfindel, perché non eri tenuto a farlo.- Continuò, la voce ridotta ad un sussurro, udibile solo dal Vanyar davanti a lui.
    Glorfindel, improvvisamente turbato, sentì le proprie difese crollare vertiginosamente, pesando sul suo petto come macigni.
    Fissò il Re degli Elfi intensamente, indeciso su come rispondere. Thranduil aveva compreso il suo obbiettivo, dunque: tutti i suoi sforzi erano vòlti al bene della loro storia d’amore.
    Avrebbe dovuto esserne felice.
    Allora perché stava sopprimendo un moto di rabbia, sorto nell’osservare quella singolare espressione sul viso di ghiaccio del Re? Cos’era, sollievo? Oh, ma certo: gli stava chiaramente dicendo che adesso poteva farsi da parte.
    Quell’indesiderata consapevolezza, unita all’espressione di serena tenerezza sul volto del Sindar, gli fece ribollire il sangue nelle vene. Serrò la mascella, per non lasciarsi ardere dal fuoco che era divampato dentro di lui.
    Una voce, la sua stessa voce, rimbombava nella sua testa, urlando rabbiosamente: “Non ero tenuto a farlo? Perché, cosa sai di me? Cosa sai di lei?! Non la conosci come la conosco io, non meritavi il mio maledetto aiuto! Oh, credi sia così facile, Re Thranduil?! Credi che lascerò la presa solo per farti felice?! La mia felicità non è contemplata?! A nessuno è mai importato ciò che penso IO!?”
    E spalancò gli occhi dorati, a quei pensieri violenti.
    Cercò di calmarsi, respirando a fondo ma Thranduil aveva già fatto un passo verso di lui, un’espressione confusa a turbare i suoi algidi lineamenti: -Glorfindel?-
    Questo sollevò una mano per tranquillizzarlo, fissando un punto indefinito sul pavimento: -Prego, Re degli Elfi. Dunque, vedi di non sprecare l’occasione come tuo solito.- Rispose, la voce meccanica e dal tono irriverente che lasciava le sue labbra sorridenti con uno sforzo considerevole.
    Senza attendere la risposta dell’altro, lanciò un ultimo sguardo al letto sfatto, maledicendo il cuore che gli martellava pesantemente nelle orecchie e si allontanò, uscendo da quella piccola e soffocante casa hobbit.
    Una volta giunto nel cortile, l’aria tiepida del mattino gli gonfiò la camicia bianca, asciugando il sudore che, con suo grande sconvolgimento, gli imperlava la pelle d’alabastro.
    Il suo corpo aveva cominciato a ribollire e ondate di energia divina lo scuotevano dall’interno: -Dannazione- Ringhiò, stringendo con forza lo steccato di legno con le lunghe dita pallide. Erano secoli che non accadeva.
    Imprecò di nuovo quando il legno si spezzò sotto la sua stretta.
    Avrebbe dovuto capirlo la sera prima, quando aveva avvertito chiaramente il proprio fuoco ridestarsi dal suo sonno.
    Tirò indietro i capelli dorati, tremando per lo sforzo di contenere la propria energia, prepotentemente risvegliata da quell’assurda situazione.
    Il suo animo di antico immortale si contorceva per il bisogno di manifestarsi, di imporsi ma Glorfindel non poteva permetterlo: non dopo tutto il tempo che aveva impiegato per imparare a controllarsi, dal suo ritorno dalla morte.
    Il tutto durò una manciata di minuti, poi, così com’era cominciato, si placò, lasciando l’elfo dorato esausto e stordito.
    Era troppo coinvolto: desiderava il potere dell’Alfiere del Cielo e la gloria che esso poteva conferirgli e, contro ogni sua aspettativa, desiderava la stella. Avido come solo un antico elfo poteva essere, bramava persino l’oggetto di quella stupida ed egoistica infatuazione, solo perché un avversario minacciava di portarlo irrimediabilmente lontano da lui.
    Si sentiva sfidato, in tutti i modi possibili.
    Non ci voleva, non adesso.
    Riacquistò a fatica il controllo su di sé ma quell’esperienza doveva essergli d’avvertimento: doveva rimanere concentrato o presto si sarebbe pentito delle sue stesse azioni.
    Sobbalzò quando, dietro di sé, udì una voce profonda richiamarlo: -Tutto bene, elfo pervertito?- Thorin lo stava squadrando con un cipiglio quasi preoccupato, fermo sulla porta di casa. Glorfindel annuì, sforzandosi di sorridere: -Avevo solo bisogno di prendere un po’ d’aria. La casa è troppo piccola.- Fece, fingendosi tranquillo, anche se sapeva bene che non avrebbe mai potuto ingannare l’acuto Re dei Nani, con quel suo patetico tono forzato.
    Thorin intrecciò le dita dietro la schiena, avvicinandosi allo steccato. Non commentò quando i suoi occhi scuri si posarono sul legno incrinato e si limitò a guardare la valle davanti a sé, pacatamente. -Sei preoccupato per il viaggio?-
    Glorfindel fissò il nano dall’alto, leggermente stranito: Thorin stava cercando di fare conversazione?
    Accortasi dello sguardo insistente dell’elfo, il Re sotto la Montagna aggrottò le folte sopracciglia, facendo ondeggiare la barba intrecciata sul petto ampio: -Sì, non mi sei simpatico e ti trovo oltremodo irritante. Ciononostante, siamo compagni, in questa spedizione. Quindi vedi di sputare il rospo e non darmi problemi, elfo!- Chiarì, con voce tonante.
    L’altro rise di gusto, a quelle parole. Non avrebbe confessato un bel niente a quel giovane nano arrogante ma si sentì quasi ammirato da tanto buon senso: -Devo ammetterlo. Sei il nano più saggio che io abbia mai incontrato, mio signore. E dare del saggio a un nano è già di per sé un controsenso.- Thorin gli lanciò un’occhiataccia, tirando la lunga pipa fuori dalla saccoccia: -Buon per te.- L’elfo osservò gli intricati rivoli di fumo sollevarsi al ritmo dei lunghi respiri del nano, tranquillizzandosi leggermente.
    Consapevole che il Re sotto la Montagna non l’avrebbe lasciato andare senza una valida spiegazione, Glorfindel rivelò una minima parte dei suoi cupi pensieri: -L’Alfiere del Cielo sarà arduo da trovare. E ancor più arduo sarà convincerlo a servire nuovamente qualcuno. Le ferite dell’orgoglio sono tra le più profonde e difficili da guarire, sai?- E, nel pronunciare l’ultima frase, cercò di non immedesimarsi troppo, scacciando via ogni pensiero non relativo al loro imminente viaggio.
    -Moria è già un’immensa tomba. Non voglio che altri periscano nelle sue profondità. Dovremo stare attenti.-
    Thorin tossicchiò, per nulla preoccupato: -Dimentichi che ci sono io, elfo. Stai pur certo che, se davvero c’è qualcosa là sotto, io la troverò.-
    Glorfindel sorrise, curioso: -Perché ti sei unito alla Compagnia, Thorin Elminpietra?- Quello picchiettò la pipa contro la staccionata in modo da svuotarla, raddrizzandosi con portamento fiero: -Figurati se vengo a dirlo a te.-
    Prima che Glorfindel riuscisse a ribattere, la voce della dolce Rosie Cotton li chiamò, timidamente: -Preparo la colazione. Prego, accomodatevi a tavola, prima che i bambini si sveglino.-

    Thranduil non aveva né i mezzi, né la pazienza per cercare di sondare i comportamenti di quell’elfo superbo. Aveva sentito la sua energia vacillare e scuotersi: era insolito ma non era di certo la prima volta. Congedò quindi quell’evento come irrilevante, come molte altre volta aveva fatto e, con un sospiro arrendevole, sedette pesantemente sul bordo del letto.
    Le sue orecchie sensibili avevano udito i padroni di casa svegliarsi e raggiungere la cucina e già una miriade di profumi aveva invaso la casa, annunciando una colazione più varia ed abbondante di quanto persino la sua mente immortale potesse concepire.
    Il suo sguardo adamantino corse sul viso della stella, che si era lasciata sfuggire un mugolio contrariato ai suoi movimenti sul morbido materasso. Osservò le sue lunghe ciglia nere tremare leggermente e le delicate sopracciglia incurvarsi in un’espressione infastidita. Quasi si sentì in colpa per aver turbato quei lineamenti altrimenti distesi: gli stessi che aveva osservato tutta la notte, cercando di convincersi che quanto stava accadendo tra di loro era reale.
    Con dolcezza, le scostò i capelli dal collo, ancora deturpato da grandi cicatrici, chiedendosi se svegliarla o meno. Certo, lei doveva nutrirsi o il suo corpo ormai umano non avrebbe sostenuto i ritmi del viaggio.
    Thranduil esitava solo perché non aveva idea di cosa dirle, una volta sveglia.
    Rise di sé stesso: quel maledetto Glorfindel aveva ragione, non ricordava niente di tutto ciò che comportava una relazione di quel genere. E lei era in grado di confonderlo persino da addormentata, così innocentemente abbandonata tra le coperte fredde. Si era fidata di lui, della sua presenza e il suo sonno rilassato ne era stata la riprova.
    Inconsciamente, il Re degli Elfi si avvicinò ancora, posando la fronte su quella di lei. Rabbrividì quando avvertì l’innaturale gelo della sua pelle dorata ma si sarebbe abituato anche a quello.
    Avrebbe accettato qualsiasi cosa, purché fosse parte di lei.
    Sillen, destata da quel contatto improvviso, aprì piano gli occhi, confusa. La luce del mattino filtrava tra i capelli d’argento del Re, chino su di lei. -Thranduil? Va tutto bene?- Sussurrò, la voce ancora impastata dal sonno.
    L’altro annuì contro di lei, gli occhi chiusi e il respiro regolare:
-Non muoverti.- Non che lei ne avesse intenzione. Sorrise, guardando quel viso marmoreo così vicino al suo con tenerezza.
-Che ore sono?-
-È tardi.- Rispose l’elfo, con tono asciutto: -Gli altri sono già in cucina.- Come in reazione a quelle parole, lo stomaco della stella si lamentò rumorosamente: -Mhm, credo sia il caso di raggiungerli, allora.- Ridacchiò, scalciando le coperte con le gambe.
    Ma Thranduil non pareva così propenso a spostarsi. Lasciò scivolare il viso sulla guancia della stella, affondando nell’incavo del suo collo, tra i suoi lunghissimi capelli scompigliati.
    Sillen si ritrovò a contorcersi a causa del solletico, causato dal lieve sfregamento sulla sua pelle sensibile: -Thranduil, che cosa stai facendo?-
-Ho detto non muoverti.- Le intimò il Re, con voce terribilmente morbida, in netto contrasto con la presa salda che intrappolò la stella contro il suo petto.
    -Dispotico.- Commentò lei, divertita, arrendendosi senza tanti complimenti e stringendogli le braccia attorno al collo. Per quanto tempo aveva sognato di poter condividere un momento così spensierato con quel glaciale Re degli Elfi?
    Persa nella sua gioia mal contenuta, si ritrovò a un tratto a rabbrividire vistosamente, mentre il solletico sul suo collo sottile si trasformava in una carezza a fior di pelle. Sentì le labbra dell’elfo sfiorarle la gola e non riuscì a spiegarsi la natura di quegli insoliti brividi lungo la schiena, che le intimavano di chiudere gli occhi e lasciarlo fare.
    Invece si schiarì la voce, deglutendo a vuoto: -D-dovremmo andare adesso.- Al tono incerto che tinse la voce della stella, Thranduil si scostò, liberandola dalla sua stretta.
    Fu solo per un momento, poi tornò con impeto travolgente su di lei, prendendo definitivamente possesso delle sue labbra schiuse dalla sorpresa. Era tutta la notte che aspettava, non le avrebbe concesso un secondo di più.
    Infatti, Sillen non ebbe nemmeno il tempo di realizzare ciò che stava succedendo che si ritrovò scompostamente avvinghiata all’elfo, come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. Un debole mugolio di protesta s’infranse sulle labbra dell’altro che, per tutta risposta, intensificò quel bacio vorace.
    Thranduil si impose di rimanere il più immobile possibile, costringendo le sue stesse mani contro il materasso morbido ma, ben presto, anche quell’accortezza diventò assolutamente inutile. Sentì i muscoli tendersi sotto il tocco leggero della stella che, con innocente curiosità, aveva lasciato scivolare le dita sottili sotto la sua camicia candida.
    Era decisamente il caso di fermarsi.
    Eppure, tutte le sue buone intenzioni cedettero come pareti di carta al respiro accelerato della giovane, che ricambiava ogni suo gesto con altrettanta, istintiva passione.
    Casa Baggins scomparve, così come tutti i suoi abitanti.
    Non esisteva più una battaglia da affrontare, né un artefatto da trovare o un nemico da sconfiggere: c’erano solo loro, l’una dell’altro.
    Almeno fino a quando la porta della stanza non sbatté con violenza contro il muro, rivelando la sagoma minacciosa di un piccolo hobbit in camicia da notte. -Trovati!- Urlò Tolman, indicandoli con un ditino paffuto.
    L’intima bolla attorno ai due scoppiò all’istante, tra il sobbalzo imbarazzato della stella e il sospiro rassegnato di Thranduil, che si passò una mano tra i capelli scompigliati.
    Tolman salì sul letto con movimenti scoordinati, finendo addosso alla stella, senza curarsi di aver impudentemente scansato il Re degli Elfi: -Senti, tu con la pelle dal colore strano.- L’apostrofò: -Il tuo amico nano si sta mangiando tutto. Meglio che vieni, meglio che corri! Finiranno le ciambelle, dico io.-
    A quelle parole, Sillen irruppe in una risata cristallina, le guance ancora tinte dall’imbarazzo e dalla foga del momento. L’elfo al suo fianco cercò di sistemare gli abiti, distaccato e freddo come sempre. Solo la stella riusciva ancora a scorgere la tensione del suo corpo, costretto ad abbandonare il letto, reso terribilmente accogliente dal suo stesso calore.
    Sillen accarezzò i ricci chiari del piccolo hobbit, con delicatezza: -Arriviamo. Dammi giusto qualche minuto.- Gli assicurò, con un sorriso. Questo annuì, soddisfatto, scendendo dal letto aggrappandosi alle coperte, come se niente fosse. Nemmeno degnò l’elfo di uno sguardo, troppo impegnato a correre nuovamente in cucina per accaparrarsi la propria razione.
    Sillen si affrettò ad abbandonare le coltri bianche, evitando di dar retta a tutte quelle sensazioni che invece la spingevano a tornare tra le braccia del Re. Di sottecchi, lo guardò alzarsi e ricomporsi, fino a tornare l’algido elfo d’argento che aveva incontrato la prima volta, a Bosco Atro.
    Sorrise tra sé e sé, finendo di legare i capelli in una treccia morbida: -La prossima volta che decidi di svegliarmi in questo modo, vedi di tenere quelle orecchie ben aperte. O ti piace essere interrotto dai piccoli e probabilmente impressionabili hobbit?-
    Thranduil le rivolse uno sguardo tagliente, fermo sulla soglia. Cercò di ignorare quelle labbra sfrontate, deliziosamente gonfie e arrossate a causa dei suoi stessi baci, e l’ombra di un sorriso distese il suo volto affilato: -Fa silenzio, inutile umana. Se mi provochi adesso, sarà peggio per te.- Ed entrambi, nonostante i dolci sorrisi, non sottovalutarono quelle parole apparentemente scherzose.


 
**

    Sam si fermò di fronte ai possenti Maiar, fuoriusciti dalla boscaglia con uno scrollare deciso delle ali maestose. Sbatté le palpebre, ammirato e sconvolto, lisciando gli abiti leggeri come ad apparire più formale: -Oh santo cielo. L’Alleanza deve essere davvero formidabile, la più potente della storia!- Esclamò, realizzando in quell’istante di non riuscire nemmeno a immaginare un tale esercito, formato dai grandi guerrieri dei popoli liberi.
    Sillen gli strinse la mano ruvida, sorridendo: -Grazie per l’aiuto e per l’ospitalità, Samvise L’Impavido. Avrai presto nostre notizie. Intanto, prenditi cura della tua famiglia.-
    Era stato triste lasciare i cinque bambini hobbit con i lacrimoni agli occhi, disperati per non poter prendere parte a un’incredibile avventura come aveva fatto il loro papà anni prima.
    Sam ricambiò la stretta, annuendo deciso ed emozionato: -Lo farò, Sillen. E voi sarete sempre i benvenuti nella mia casa.-
    Glorfindel gli assestò una leggera pacca sulla spalla, con fare amichevole: -Addio, mastro hobbit. Che il nostro prossimo incontro possa avvenire in circostanze più liete.-
    Thorin III, che si stava grattando con insistenza la schiena e il torso sotto il mantello, mimò un breve inchino: -Io tornerò senz’altro. Il cibo di tua moglie è ottimo, anche se credo mi abbia fatto allergia. Incredibile, che prurito!-
    Thranduil, al suo fianco, sollevò un sopracciglio: -Non è più probabile che sia colpa delle formiche?- Thorin sgranò gli occhi, senza trovare un senso a quella strana domanda: -F-formiche?!- E tolse velocemente il mantello, scrollandolo con decisione.
    In effetti, era assurdo che non avesse notato tutti quegli insettini neri, che adesso cadevano a terra a manciate.
    Inaspettatamente, scoppiò in una risata fragorosa, divertito:
-Quei bambini me l’hanno proprio fatta!- Si limitò a risolvere la situazione sbattendo il mantello, più soddisfatto che arrabbiato.
    Thranduil sollevò gli occhi al cielo e rivolse la sua attenzione verso la stella, che lo stava raggiungendo. Questa aggiustò il mantello, stringendo forte le labbra: -Adesso dobbiamo essere concentrati. Troveremo l’Alfiere e faremo ritorno a Minas Tirith, dai nostri amici. Non voglio che accada loro niente di male.- I suoi occhi violetti si persero nel vuoto e la sua voce si incrinò appena: -Pallando è troppo spietato, troppo forte. Potrebbe attaccare in qualsiasi momento. E Alatar…- Deglutì, sopprimendo il moto di tristezza che le attanagliò lo stomaco e il petto al solo pronunciare quel nome: -…mi auguro solo che non sia già tornato da suo fratello.-
    Il Re degli Elfi scrutò il suo viso e fu estremamente infastidito dalla sua espressione contrita.
    Contrasse la mascella, più arrabbiato che dispiaciuto.
    Quell’Istar traditore e fuggiasco l’aveva ferita abbastanza, non voleva che il pensiero di lui sfiorasse ancora la sua mente.
    Parlò con voce controllata, serio: -Per adesso, nulla ha turbato Gondor. In caso contrario, avremmo già ricevuto notizie.-
    Sollevata da quella realtà, la stella sorrise, ringraziandolo con lo sguardo. Glorfindel, poco lontano, si appestò a prendere posto sul dorso dell’aquila bruna.
    Ignorò con tutte le sue forze i due compagni, stretti sotto il mantello del Re degli Elfi, e deglutì il boccone amaro che gli bloccava il respiro: -Andiamo a Nord-Ovest, ai Cancelli di Moria.- Ordinò, imperioso.
    Così, accompagnata dai saluti sentiti di Sam, la Compagnia si alzò nuovamente in volo, per raggiungere l’ultima tappa della loro spedizione.




 





N.D.A

Ciao! Bentrovati <3

Ho accumulato altro ritardo e il capitolo è piuttosto breve e di passaggio. Spero vi sia piaciuto comunque, nonostante tutti i sentimentalismi XD
Insomma, avevo proprio bisogno di definire la situazione, prima di spedire tutti verso l’azione D:

Grazie a tutti quelli che sono arrivati sino a qui, siete pazienti più di quanto io meriti T-T

Per questa volta sarò breve,
ci vediamo al prossimo capitolo!

Un bacio

Aleera
 

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Capitolo 32
*** Le Miniere di Moria ***


 

-Le Miniere di Moria-
 


    -Per di qua, statemi dietro!- Esclamò Thorin Elminpietra, per quanto fosse possibile esclamare sussurrando. Nel silenzio assordante del sottosuolo però, la sua voce rotolò sulle pareti di pietra come un maldestro scrosciare di sassi, perdendosi in un bisbiglio lontano laddove la luce delle torce non riusciva a giungere: -So orientarmi in questi sentieri come un pipistrello nella sua grotta.- Continuò, facendo segno ai compagni con fare esperto.
    Glorfindel, intento a studiare la mappa di Gandalf con cipiglio irritato, sollevò gli occhi al cielo: -Fermati, Re sotto la Montagna. La mappa dice che dobbiamo andare a destra, non in quella direzione.- Thorin agitò una mano, ignorando i sussurri scocciati del Portatore del Messaggio: -Sciocchezze, so perfettamente come arrivare al centro delle Miniere anche da solo! Mettete i piedi dove li metto io e vedrete che OHH-
    Sillen allungò le braccia e strinse il nano con uno scatto repentino, sbilanciandosi all’indietro per tirarlo via dallo strapiombo oscuro apparso improvvisamente davanti a loro.
    Caddero a terra in una cacofonia di gemiti doloranti e polvere scura, mentre l’esclamazione di sorpresa del Re dei Nani ancora rimbombava nelle volte nere sopra e sotto di loro. A quella scena, Glorfindel si batté una mano sulla fronte, esasperato.
    -Va tutto bene, l’avevo assolutamente visto!- Affermò il nano, affrettandosi a rimettersi in piedi per aiutare la giovane, tesa e tremante a causa dello spavento appena provato.
    La stella si massaggiò il fondoschiena, sospirando sonoramente per l’ennesima volta. Erano ore che continuavano a scendere in quei corridoi fatiscenti, che un tempo avevano assistito alla gloria del più grande regno dei nani, Nanosterro.
    Sillen faticava a crederci: nemmeno la mente più fantasiosa avrebbe potuto ricostruire i fasti di un tempo, in luoghi tanto cupi e sinistri. La luce delle due torce a malapena bastava per rischiarare la pavimentazione, ormai sconnessa e ingombra di macerie, e la compagnia era stata costretta a tornare sui suoi passi molte volte, a causa di ponti crollati e strade bloccate.
    Alla fine, seguire la mappa di Gandalf si era rivelata un’impresa quasi impossibile.
    Come se non bastasse, l’udito sensibile dei due elfi aveva da tempo colto i movimenti furtivi di altre presenze, che ancora abitavano quelle profondità dimenticate. Non si erano rivelate ostili, almeno fino ad allora, ma nessuno aveva intenzione di sottovalutare un tale inconveniente, nemmeno per un istante. Le pause si erano ridotte quindi a pochi, vigili minuti di sosta sulla pietra fredda e fastidiosamente umida.
    Sillen, sempre più stanca e provata da quell’infinita discesa, avvertiva l’aria pregna d’inquietudine riempirle i polmoni a fatica, mentre l’ossigeno cominciava via via a diminuire. Finì per rimpiangere l’immensità delle oscure Sale di Khazad-dûm, stretta in quei vicoli soffocanti e pericolanti che parevano perforare le viscere della terra.
    Glorfindel, adesso poco davanti a loro, sollevò una mano per arrestare l’avanzata, allungando il braccio con la torcia davanti a sé: -C’è un bivio. Fermiamoci qui per un po’, devo ricostruire il percorso. Credo che questo cunicolo sia parallelo a quello che avremmo dovuto prendere circa due miglia fa.-
    Thranduil si sporse a sua volta, piantando gli occhi di ghiaccio nel buio: -Non riesco più ad orientarmi. Dobbiamo andare in avanscoperta.- Concluse, per nulla convinto che quella mappa ingiallita avesse ancora una qualche utilità.
    Ad ogni modo, una veloce ricognizione era necessaria se non volevano incappare in brutte sorprese: non avrebbero trovato comunque l’Alfiere, fuori dal preciso percorso disegnato da Mithrandir.
    Thorin si apprestò a tirar fuori le provviste, piazzando il regal deretano nel luogo più asciutto che riuscì a trovare: -Concordo! Qualcuno deve proprio andare in ricognizione, ottima idea!-
    Glorfindel li squadrò per un momento, poi sollevò gli occhi al cielo, piegando la mappa con una smorfia rassegnata: -Bene! Vado io, allora.- Gettò i bagagli più pesanti vicino al nano, liberandosi da quel fardello inutile. -Cercherò di ritrovare la strada giusta e tornerò a prendervi.-
    Sillen si strinse nel mantello per scacciare il freddo, troppo agitata perché potesse riposare: -Vengo con te, non è saggio allontanarsi da soli.- Thranduil si voltò di scatto, afferrandole istintivamente il braccio per trattenerla. Si pentì subito di quel gesto autoritario ma non osò lasciare la presa, sentendo l’agitazione attanagliargli il petto.
    La stella puntò gli occhi d’ametista nei suoi, severa ma incredibilmente tranquilla: -Lasciami. Abbiamo già affrontato questo discorso, ricordi?- Lo anticipò, senza dargli la possibilità di lamentarsi. Giorni prima, aveva dovuto premergli una lama al collo per convincerlo di essere in grado di badare a sé stessa.
    Il Re degli Elfi serrò la mascella, tentando comunque di dissuaderla: -Può andare il nano con lui, non serve che tu ti metta in pericolo.- Lei posò una mano sulla sua, che ancora le stringeva il braccio tanto da bloccarle la circolazione.
    Quando era così nervoso, Thranduil nemmeno si accorgeva di quanto potesse essere forte.
    Con un lieve sorriso, cercò di rassicurarlo: -Thorin è stanco, Thranduil. E io mi sentirò più sicura, sapendoti con lui.- L’elfo allentò la presa, ritrovandosi con stizza a concordare con le sue parole. Ovviamente, separandosi non avrebbe potuto fare niente per proteggerla e stava addirittura perdendo l’occasione di rimanere solo con lei.
    Però aveva ragione: a conti fatti, quella divisione della piccola compagnia era senza dubbio l’opzione migliore.
    Controvoglia, lasciò la stella, con un sibilo frustato: -Ho capito.-
    Glorfindel guardò la scena con apparente disinteresse, stringendo la mappa nel pugno serrato. Anche se aveva ben poca voglia di portarsi dietro la giovane, scrollò le spalle con noncuranza: -Non andremo troppo avanti, tranquilli. Torneremo tra meno di mezz’ora.-
    Il Sindar puntò gli occhi chiari nei suoi e l’elfo dorato storse la bocca, infastidito: non aveva bisogno di leggere tutte quelle richieste e quegli ammonimenti sottintesi. Non era certo nei suoi piani lasciare che le accadesse qualcosa.
    Si voltò senza aggiungere una parola, costringendo la stella a inseguire la luce della sua torcia nel corridoio buio.
    Dopo un paio di svolte, Sillen sbatté contro la schiena ampia dell’elfo, fermo contro la parete di roccia. Massaggiandosi la fronte, sollevò lo sguardo, seguendo il luccichio della lama del compagno: -Che stai facendo?- Sussurrò, anche se, prima di ogni cosa, si fidava ciecamente del Vanyar.
    Lui disegnò una croce sulla pietra, il volto concentrato tra le scintille provocate dal metallo: -Segno il cammino. Orientarsi diventa sempre più difficile e devo essere sicuro di ritrovare la strada.- Ricominciò ad avanzare, silenzioso e leggero come un’ombra: -E gli altri ci troverebbero con facilità, in questo modo. Qualsiasi cosa accada.-
    Sillen strinse le labbra, colpita dalla sua arguzia. Ogni volta imparava qualcosa di nuovo da quell’elfo strafottente, doveva concederglielo.
    Se grazie a Thranduil aveva imparato la sconvolgente intensità dei sentimenti, con Glorfindel plasmava la propria mente, attraverso la sua millenaria esperienza. Si sentiva come un libro dalle pagine bianche, in attesa che le sicure mani dell’elfo vi tracciassero nuove storie da cui trarre quel prezioso sapere che, per sua natura, lei tanto agognava.
    -Devi aver viaggiato molto, nelle tue vite. Chissà quante esperienze simili hai vissuto… Io non avrei mai pensato a questa accortezza.- Lui le sorrise da sopra la spalla, sardonico: -Mhm, imparerai. Sei su questa terra solo da qualche mese, non puoi già conoscere tutto. Nemmeno io, vecchio come il mondo, conosco tutto, sai?-
    La giovane scrollò la testa, i lineamenti addolciti: -No, non ci credo. Tu sai tutto e basta. Sei l’elfo più saggio e giusto che esista, io- Non riuscì a terminare la frase che inciampò in una spaccatura del sentiero, aggrappandosi al mantello grigio dell’amico con un sussulto sorpreso. Glorfindel si fermò, senza però voltarsi verso di lei.
    Era decisamente insopportabile trovarsela tanto vicino, era inevitabile. Desiderò con tutto sé stesso di ritornare nel passato, quando ancora riusciva a vedere in lei nient’altro che una sua alleata. Nient’altro che una cara amica da aiutare.
    Di sottecchi, la osservò raddrizzarsi e gettare la treccia sfatta dietro alle spalle. Doveva essere stanca, anche se cercava in tutti i modi di non darlo a vedere.
    Nonostante l’insofferenza che quella vicinanza forzata gli provocava, Glorfindel finse di guardare la mappa, lasciando alla ragazza il tempo di fermarsi e riprendere fiato: -Ho bisogno di qualche minuto. Andare avanti senza un piano non è saggio.- Le fece, con falsa innocenza.
    Sillen annuì, appoggiandosi alla parete fredda. Il suo sguardo vagava nel buio, stanco e spento e le terribili occhiaie viola le donavano un aspetto a dir poco cadaverico. Aveva freddo, tremava come un rametto al vento e, nonostante la stanchezza, teneva quegli occhi annebbiati fissi nell’oscurità.
    L’elfo, maledicendo sé stesso, non riuscì ad ignorarla che per un paio di minuti. Suo malgrado, si ritrovò al suo fianco, fingendo indifferenza. -Che cosa guardi?- Lei si voltò verso di lui, sorpresa: -C-come?- Era talmente sovrappensiero che persino una domanda semplice come quella l’aveva colta impreparata. -Cosa stai guardando, nel buio? Hai sentito dei rumori?-
    Lei strinse le labbra, l’espressione smarrita al pari di un animale braccato: -Non riesco a smettere di vederla.- Sussurrò, atona.
    L’elfo non ebbe bisogno di chiederle altro, il terrore che leggeva nei suoi occhi ametistini era una risposta più che sufficiente: quell’altra.
    -Vedo i suoi… i miei occhi, sento i suoi passi dietro di me. Non è mai andata via, ma in questo luogo le è talmente facile nascondersi che nemmeno si preoccupa d’essere scorta.- Rabbrividì, ignorando quella sensazione angosciante che le faceva tremare le gambe: -Mi osserva. Sta aspettando che io rimanga da sola, per uccidermi.-
    Scivolò con la schiena lungo la parete di pietra, tirando le ginocchia al petto: -Rivoglio il mio potere.- Concluse, con tono quasi irritato: -Non voglio essere debole. Odio temere per la mia vita e odio non essere in grado di proteggervi.- Glorfindel sospirò, piegando le ginocchia per arrivare alla sua altezza.
    Allora era proprio quello il motivo per cui la stella si era chiusa in sé stessa, dopo il loro ingresso nelle Miniere: -Lo so, Sillen. Ma non puoi farci niente, quindi smettila di preoccuparti. Inoltre, noi sappiamo difenderci da soli, sai?- Le sorrise, accarezzando quei lineamenti tesi con lo sguardo: -Andiamo avanti e troviamo l’Alfiere. Così, proteggeremo i nostri amici e spazzeremo via Pallando, quell’altra e chiunque abbia l’ardire di minacciarci.-
    Sillen strinse i pugni, fissando gli occhi dorati del compagno, che scintillavano sotto la luce tremolante della torcia. Aveva ragione, piangersi addosso non avrebbe portato a nulla di buono.
    Guardò l’elfo alzarsi e tenderle la mano e si fece forza: anche da umana, avrebbe portato a termine il suo compito.
    Fece per afferrare la mano del Vanyar con un sorriso ma, quando le loro dita si sfiorarono, una violenta scarica di energia li fece sobbalzare, lasciandoli sconvolti. Glorfindel si tirò indietro di scatto, come se si fosse bruciato e, imprecando sonoramente, cadde seduto davanti alla stella.
    Sillen lo vide irrigidirsi, il respiro corto. -Glorfindel, ti senti bene?- Si avvicinò nel tentativo di aiutarlo ma lui sollevò una mano, distogliendo lo sguardo: -Rimani dove sei. Non toccarmi.- Soffiò, cercando di sopprimere la propria energia nuovamente instabile.
    Era bastato un semplice tocco della stella, questa volta?
    Oppure era tutto quell’autocontrollo ad averlo soffocato oltre ogni limite?
    La stella sentì quelle parole taglienti ferirle l’animo e aggrottò le sopracciglia. Non era da lui parlare in quel modo: -Cosa sta succedendo?- L’elfo affondò le dita tra i capelli dorati, ignorandola.
    Doveva tornare in sé e in fretta.
    Erano da soli, non poteva allontanarsi da lei e, allo stesso tempo, non poteva seguire quel dannatissimo istinto che gli bruciava il sangue nelle vene. Chiuse gli occhi, dandole le spalle.
    Sarebbero bastati pochi minuti per riprendere il controllo ma lei non era intenzionata a lasciarlo in pace: -Glorfindel, parlami. Che cos’hai?-
    -Niente, sono stanco.- Tagliò corto, rivolto alla parete scura, il viso accarezzato dal calore della torcia riversa a terra.
    Sillen si accigliò ancora di più: -Non mentire. Tiro na nin! (guardami)- Ordinò, più spaventata che arrabbiata. Vederlo in quello stato la mandava in confusione e la preoccupazione le impediva di ragionare lucidamente.
    Lui respirò a fondo, pregando il cielo che quella folle situazione si esaurisse in fretta: -Sillen, ti prego. Stai zitta.- La stella trattenne il respiro, storcendo le labbra piene in un’espressione oltraggiata. Come osava dirle di stare zitta?
    Cosa diamine gli stava accadendo?
    Perché era così dannatamente strano?
    Colta dal panico, gli afferrò il mantello, tirandolo con forza verso di sé. Glorfindel non ebbe il tempo di realizzare ciò che lei stesse facendo che si ritrovò incatenato ai suoi occhi violetti.
    La stella affondò le dita nelle sue spalle irrigidite, impedendogli di allontanarsi. In quell’istante, l’energia violenta dell’elfo confluì proprio in quel punto, laddove le mani fredde di lei premevano sul suo corpo. Con una fitta dolorosa e il respiro mozzato, l’elfo si piegò in avanti, aggrappandosi alle rocce umide per non finire addosso al corpo debole della giovane. E, lentamente, la sua energia impetuosa cominciò ad abbandonarlo, entrando dentro di lei come un rivolo d’acqua limpida.
    Sillen sgranò gli occhi, sconvolta, incapace di staccarsi dall’elfo, che adesso riluceva di luce propria. Senza volerlo, stava assorbendo la sua energia dorata. Sentì il proprio corpo farsi più leggero, più forte e la stanchezza lasciò il posto a una quieta vitalità risanatrice.
    Aveva già provato quelle sensazioni: Glorfindel le aveva donato la sua energia in passato, senza che lei se ne rendesse conto. E lei l’aveva presa, assetata come un’esule nel deserto.
    Glorfindel rabbrividì, avvertendo il vuoto del corpo davanti al suo svuotarlo da quell’eccesso che lo soffocava, permettendogli di prendere fiato. Per un secondo, si sentì sollevato. Era dalla loro partenza che non aveva più avuto occasione di donare nuova energia alla stella e lei era davvero esausta, sia fisicamente sia mentalmente: perciò, non fu sorpreso nel sentire con quanta istintiva urgenza lei desiderasse quel contatto.
    Piuttosto, il Vanyar era colpito dalla facilità con cui la propria, divina energia si era abbandonata a lei, priva di ogni ragionevole resistenza: evidentemente, essa aveva compreso la sua intima volontà ancor prima di lui.
    Non passò che qualche minuto, poi i due si staccarono, allontanandosi di colpo.
    Si fissarono negli occhi a lungo, ansimanti. -Perché non me l’hai detto?- Sussurrò lei, stringendosi il mantello addosso, improvvisamente consapevole del tremore che le scuoteva il corpo. -Avresti accettato?- A quelle parole misurate, la stella sentì la rabbia montarle nel petto: -No.- Ringhiò, offesa. Tra un respiro e l’altro, l’elfo dorato sorrise, mesto: -Ovviamente.-
    -Smettila! Questo è scorretto! Non voglio derubarti così, non ho il diritto di farlo.- L’altro piegò la testa, inchiodandola al suolo con il suo sguardo dorato, liquido e carezzevole: -Il diritto… Tu non sai come funziona la nostra energia divina, vero?- L’espressione titubante della stella confermò i suoi dubbi.
    Scosse la testa, tirando indietro la chioma dorata: -Non è questione di esserne degni o meno. Io ho scelto di donarti un po’ del mio potere, perché è l’unico modo che possiedo per curarti. Le medicine non sarebbero bastate a salvarti, dopo la battaglia. Perché sei una stella, non potrai mai essere solo umana, non hai semplicemente bisogno di guarire da una ferita fisica. Il tuo corpo ora è come un guscio, vuoto e freddo ed è normale che cerchi energia per rinforzarsi.- Si massaggiò il petto, lievemente dolorante: -Certo, nessun potere può eguagliare quello che hai perso… ma il mio è il più simile esistente su questa terra. Perciò siamo così compatibili, sai?-
    Gli occhi della stella si riempirono di lacrime: -Ma io non voglio farti male.- Glorfindel si costrinse ad ignorare tutti quegli impulsi che minacciavano di farlo avvicinare a lei, mentre quel tono sofferente gli dilaniava i sensi: -Non fa male. Anzi, è piuttosto piacevole. Soprattutto quando io sono… in sovraccarico di energia.- Si raddrizzò, inquieto.
    Che cosa avrebbe dovuto dirle?
    Che era profondamente soddisfatto?
    Che ciò che avevano appena condiviso era forse la più intima e soverchiante dimostrazione d’affetto che una creatura come lui potesse sostenere? Non era certo una cosa semplice da spiegare, soprattutto perché, a conti fatti, suonava decisamente troppo ambigua per giustificarla con qualche stupida scusa.
    E lei non doveva assolutamente sapere ciò che il suo antico spirito immortale stava provando. -Ascoltami. Quello che è successo non è grave. Io sto benissimo, la mia energia si rigenera continuamente. Mi hai solo aiutato a stare meglio. E io ho aiutato te. Fine del discorso.-
    Sillen strinse le labbra piene, guardandosi le mani: -Tu…- Sollevò lo sguardo su di lui, tremante: -Una parte di te è dentro di me, mi permette di avere la forza per sostenere questo viaggio. Come posso accettarlo quando non ho più niente da donarti in cambio?- Glorfindel trattenne il respiro.
    Era vero, lei non aveva più nulla da dargli.
    Nulla che lui volesse. Quello che voleva non era mai stato suo, nemmeno per un istante, perché, tempo addietro, lei l’aveva ceduto a qualcun altro.
    Si alzò in piedi, prendendo nuovamente la torcia tra le mani:
-Troviamo l’Alfiere. Avremo tempo per discuterne, una volta usciti da qui.- Concluse, la voce improvvisamente fredda, il tono distaccato.
    Si avviò nel corridoio, il passo suo malgrado lento, per permettere alla stella di alzarsi a sua volta e stargli vicino. Nemmeno si rese conto di aver serrato i pugni, tanto da ferirsi il palmo con le unghie pallide.
    Voleva andarsene.
    Doveva trovare l’Alfiere e vincere la guerra, si disse.
    Doveva diventare più forte, più potente: solo allora sarebbe potuto scappare per sempre da quel grande, enorme, insostenibile problema.
    Poche svolte dopo, sollevò il braccio per fermare la stella, fissando davanti a sé. Un grande vuoto si apriva sopra e sotto di loro e, poco più in alto, un ponte sottile e spezzato si ergeva nel buio: il ponte di Durin.
    Con voce calma, fendette il silenzio assordante di quei reconditi luoghi: -Questo è il ponte che Gandalf il Grigio spezzò più di trent’anni fa.- Lo sguardo della stella corse in basso, laddove il terribile Blog aveva trascinato l’Istar in quella tragica occasione. Finalmente avevano raggiunto il camminamento indicato nella sua vecchia mappa. Infatti, alla loro destra, una piccola e ripida scala andava tuffandosi nell’oscurità, giù, nel cuore della Terra di Mezzo.
    Sillen sentì la nuca pizzicare lievemente, quasi una mano gelida l’avesse sfiorata: non sentiva le voci premonitrici che l’avevano accompagnata dopo la sua caduta, eppure comprese -senza alcun dubbio- cosa quella sensazione volesse dire.
    Laggiù, da qualche parte, dimorava chi l’aveva così insistentemente chiamata.
    L’Alfiere del Cielo era ormai vicino.

Thranduil osservò di nuovo la stella, che camminava davanti a lui.
    Sembrava meno stanca di prima, il suo viso dorato aveva ripreso colore. Eppure non aveva dormito, da quando erano entrati nelle Miniere. Era rimasta in silenzio per tutta la discesa, impassibile e criptica come un’antica statua.
    Con un veloce calcolo, il Re degli Elfi constatò che erano lì sotto da circa sedici ore. E per quelle sedici, lunghe ore, a malapena si erano rivolti la parola. Non era il posto migliore per recuperare tutto il tempo passato lontani, questo era innegabile. Ma voleva sentirla più vicina.
    Perché era così distante?
    Da quando non cercava il suo sguardo?
    Avvertì l’urgente necessità di toccarla, di sentire il suo cuore batterle nel petto freddo. Aveva bisogno di sentirla viva, al sicuro. Tuttavia, sapeva anche di dover pazientare: se voleva imparare a comprendere ogni suo pensiero, ogni sua nuova sfaccettatura, dovevano prima risolvere quella scomoda situazione. E vincere la guerra, ovviamente.
    -Poco più avanti c’è un’apertura. Credo sia un corridoio. Ci fermeremo e riposeremo un po’.- Li informò, Glorfindel, che faceva da apri fila. Thorin Elminpietra, dietro di lui, si sporse oltre il bordo della scaletta, pensieroso: -Mi chiedo quanto possa ancora scendere questa dannatissima scala. Non si vede altro che buio. Sopra, sotto, di lato, solo un grande, grosso mare di niente.- Brontolò, più tra sé e sé che rivolto ai silenziosi compagni. Per l’appunto, nessuno pareva aver voglia di commentare oltre.
    Per il nano, quella situazione si stava rivelando davvero una seccatura. Non amava passare così tanto tempo senza aver qualcuno con cui parlare, scherzare o anche solo scambiare due parole di incoraggiamento: quei tre erano noiosi come vecchi tronchi secchi.
    Era consapevole che il sottosuolo non giovasse all’umore dei compagni, mentre per lui non era certo un grosso problema. Ma accidenti, almeno un sorriso potevano farlo, ogni tanto.
    Forse era il caso di mangiare qualcosa.
    Girò la testa, lanciando un’occhiata alla giovane stella da sopra la spalla: -Senti, mia signora. Ho ancora un po’ di carne secca, qui in saccoccia. Vedrai che ti riempirà la pancia e starai subito meglio!- Lei sorrise, di quei sorrisi gentili ma tesi che il Re sotto la Montagna ormai conosceva bene: -Grazie, Thorin. Accetto molto volentieri.-
    -Anche un po’ di birra nanica?-
    -Assolutamente sì.- Ridacchiarono, complici. E, almeno per il momento, il nano si accontentò di quel veloce scambio di battute.
    Pochi metri dopo, giunsero all’apertura nella parete di pietra, che si rivelò essere davvero un lungo e ampio corridoio.
    Thranduil scrutò brevemente il buio, improvvisamente più interessato: -Sembra sicuro. Vado a cercare un po’ di legna per le nuove torce.- E drizzò le orecchie, attendendo qualche istante. Fu la mano della stella, ora stretta nella sua, a sciogliere tutta la tensione del suo corpo immortale. Incontrò il suo sguardo ametistino, lievemente divertito, come se lei già conoscesse tutte le sue intenzioni. Buone o cattive che fossero.
    Thranduil intrecciò le dita alle sue, gli angoli delle labbra incurvati in un impercettibile sorriso e la trascinò nel corridoio senza badare alla discrezione.
    Thorin Elminpietra intanto, seduto accanto all’elfo dorato, seguì i due compagni con sguardo attonito: -Elfo pervertito, si stanno per caso tenendo per mano?- Commentò, fissando l’oscurità anche dopo che i due compagni furono ormai scomparsi alla sua vista. Glorfindel gli lanciò un’occhiata distratta: -Mhm, non ci ho fatto caso ma può essere.-
    Mentiva.
    Certo che aveva visto quella adorabile, nauseante e appassionata dimostrazione d’amore. Thorin si grattò la testa, scompigliando le treccine color terra che l’adornavano: -E io che pensavo fossi tu quello da tenere d’occhio.-
    L’elfo dorato sollevò un sopracciglio: -Dunque è per la stella che ti sei unito alla Compagnia?-
    Lo sguardo fiero del nano si perse nel buio al loro fianco, mentre abbandonava la schiena possente contro la roccia: -No, affatto.- Gli fece, pensieroso. -Non fraintendere. Voglio aiutarla e morirei per proteggerla, senza il minimo indugio. Ma questo è perché la ammiro, la rispetto. E no, non sto dicendo che mi dispiacerebbe corteggiarla, cosa credi?- Glorfindel sorrise, lasciandolo continuare. -Però no, non è solo per lei che sono qui.-
    Si lisciò la lunga barba e gli occhi dell’elfo dorato seguirono quel gesto con malcelata curiosità: -Allora, perché?-
    Thorin sospirò: -Perché voglio essere ricordato.- Concluse, in una confessione quasi forzata. L’elfo non capì: -Sei un grande Re. Hai combattuto contro gli invasori dell’Est durante la Guerra dell’Anello e hai restaurato il regno di Erebor. Questo non ti pare forse abbastanza? Vorresti di più?-
    Il nano strinse i pugni, voltandosi verso di lui: -Non accusarmi di presunzione, io non cerco vanagloria!- E sospirò, abbassando il tono della voce tonante per non attirare attenzioni indesiderate nel buio: -Fu mio padre a guidare il mio popolo contro il nemico, trent’anni fa. E morì nel farlo! Io ho solo concluso ciò che aveva iniziato. Il resto vien da sé, in tempo di pace. No elfo, non è abbastanza: io non ho alle spalle gesta degne dei miei padri.- Tirò fuori la pipa, assorto: -Sconfiggere quel bastardo di Pallando sarà la prima della lunga lista delle mie grandi imprese. Parola mia!-
    Glorfindel guardò il terreno davanti ai loro piedi, rimuginando su quelle parole. Riusciva a immaginare il desiderio di grandezza del Re dei Nani e ammirava quella dedizione che lo spingeva a rendere onore alla sua nobile stirpe.
    Come immortale e antico elfo però, non poteva comprendere cosa lo rendesse tanto impaziente da arrivare persino a rischiare la propria vita in una missione quasi certamente fallimentare.
    Forse, era la paura di non aver abbastanza tempo a muoverlo.
    -Comunque- concluse, il nano -mi farò andare bene questo viaggio in ogni caso. Anche se finirà con una manciata di niente, avrò avuto l’opportunità di perlustrare le Miniere. Chissà, forse un giorno tornerò e darò il via a nuovi scavi.- Rivolse un occhiolino soddisfatto all’elfo: -Il mithril non è proprio male come investimento, no?-
    Glorfindel gli assestò una leggera gomitata, divertito: -Una cosa è certa. Il tuo ottimismo è incrollabile.- Il nano gli sbuffò in faccia il fumo, minacciandolo con la pipa: -Per forza! Voi siete una banda di mummie rinsecchite!-
    L’elfo allargò il sorriso, minaccioso: -D’ora in avanti potrai parlarmi di tutti i tuoi pensieri, non è vero Re sotto la Montagna?-
    L’altro agitò una mano, a disagio: -Non dire idiozie!-
    -Sì che lo farai, anche fosse aprirmi il tuo cuore sofferente alla vista dell’innocente stella ghermita da quell’elfo di ghiaccio.- Si sporse di più verso il nano, divertito e sollevato da tutte quelle sue trasparenti reazioni. -Ma chiudi il becco, folletto malefico!-
    -Se cerchi consolazione, puoi approfittarti di me, mio signore. Non opporrò resistenza, sai?- Concluse, calcando seducentemente le S.
    Thorin gli assestò un pungo violento sulla spalla, tanto forte da spostarlo di quasi un metro e Glorfindel si trattenne dal ridere nel vedere la sua chiara espressione esasperata: -Non osare mai più alitarmi sul collo, pervertito di un dannato! Ma chi me l’ha fatto fare di parlare con te.-


 
**
 
    La luce della torcia illuminò un’ampia sala, alta almeno tre metri. Era piena di cianfrusaglie, giare e sacchi, forse un vecchio deposito dei nani o la refurtiva di qualche goblin. Sul lato destro si aprivano due grandi porte ad arco, da cui giungeva un’aria piuttosto gelida.
    Sillen sollevò un paio di teli di stoffa dal pavimento, tossendo per via della polvere: -Qui è più asciutto. Troveremo di sicuro della legna adatta.- Commentò, guardandosi attorno con attenzione.
    Come se il Re degli Elfi fosse minimamente interessato al legno, in quel momento.
    La stella si ritrovò premuta contro il petto dell’altro, prima ancora che la torcia rimbalzasse sul pavimento a causa della negligenza del suo proprietario. -Hai capito che desideravo venissi con me.- Mormorò Thranduil, tra i suoi capelli.
    La stella sorrise, ricambiando l’abbraccio con il cuore che le rimbalzava nel petto a un ritmo vertiginoso: -Considerando tutto il tempo che hai passato a fissarmi, non è stato difficile.- Sussurrò, sfregando il viso su di lui quasi potesse fargli le fusa.
    L’elfo sorrise, soddisfatto e compiaciuto: -Allora lo hai notato.-
    Lei si allontanò quel tanto che bastava per sollevare il viso, piantando gli occhi nei suoi con fare eloquente: -Hai finalmente capito con chi hai a che fare? Non sono così ingenua e indifesa, sono una guerriera.- Thranduil si piegò per raggiungere le sue labbra, senza riuscire a rimandare oltre quel contatto che gli mancava come l’aria: -Lo sei.- Ammise, tra i baci.
    Sillen accarezzò i suoi capelli d’argento, grata per essere finalmente sola con lui: -Non voglio che ti preoccupi per me. Dimmi, c’è qualcosa che ti turba?- L’elfo respirò a fondo, tornando a guardarla negli occhi ametistini: -Sei spaventata.-
    Quella non era certo una domanda.
    Lei annuì. -Cosa posso fare?- Chiese allora il Re degli Elfi, risoluto. La stella sentì l’emozione serrarle la gola: tipico di quell’elfo regale e arrogante, agire senza troppi convenevoli.
    -Sei con me, non ho bisogno di altro. Avere paura è inevitabile. Va bene così.- Il suo sguardo si fece deciso, la voce più ferma e grave: -Pallando ha manipolato la mia mente e sono sopravvissuta. Ho combattuto contro i suoi servi, ho perso il mio potere e sono sopravvissuta.- Posò la mano su quella dell’elfo, che ora le sfiorava il viso con dolcezza: -Vivrò per vedere Gondor libera e vincitrice, te lo prometto.-
    Thranduil sfregò la fronte sulla sua, cercando di confortarla. Era davvero una guerriera, tuttavia lui era ancora il Re di tutti gli Elfi: non avrebbe permesso a nessuno di farle ancora del male.
    Sfiorò le sue labbra morbide con il pollice, in un gesto delicato e possessivo, che contrastava i suoi soliti modi bruschi. -Voglio riportarti nelle mie terre.- La informò, con quel tono autoritario velato di impazienza. Sentì la sua bocca piegarsi in un sorriso, poi schiudersi per ribattere: -E io voglio che tu lo faccia.-
    A quelle arrendevoli parole, il Re la attirò a sé, tornando a baciarla con improvviso e incontrollabile desiderio. Nonostante la delicatezza dei suoi gesti, la stella poté sentire tutta la tensione di quel corpo slanciato premere contro il suo e deglutì a fatica.
    Sentiva le guance in fiamme e sussultò nell'avvertire nuovamente quegli insoliti e piacevoli brividi percorrerla come piccole scariche elettriche, sotto le mani incandescenti del Re.
    L’aria si caricò di un sottilissimo velo di energia, come accade in quei silenziosi momenti che precedono un violento temporale.
    In quell’istante, Thranduil socchiuse gli occhi adamantini. Si staccò di colpo, senza però allontanare la mano dal viso arrossato della stella. Lei aggrottò le sopracciglia, confusa: -C-cosa c’è?- Sussurrò con il fiato corto, vedendolo così accigliato.
    L’elfo scrutò ancora nei suoi occhi violetti, poi la sua bocca si piegò in una linea contrariata: -Glorfindel. Questa è la sua luce.- Commentò, lapidario.
    Sillen strinse le labbra: avrebbe dovuto dirglielo subito. Non era mai stata sua intenzione nasconderglielo ma, ogni volta, il Re degli Elfi si rivelava stranamente impaziente quando si trattava di lei ed era difficile tenere a mente un discorso sensato.
    -Sì, mi ha donato un po’ di energia.- Anche se non seppe spiegarsi perché, sentì il bisogno di specificare: -Non è la prima volta, mi fa sentire meglio quando sono più debole. È normale.-
    Solo allora Thranduil lasciò scivolare la mano, facendo un passo indietro. Fissò un punto imprecisato nel vuoto, serrando la mascella.
    In un secondo, il comportamento dell’elfo dorato gli fu chiaro, limpido come un lago di montagna. E lui si sentì uno stupido per non averlo preso sul serio, in tutto quel tempo passato ad osservarlo. L’energia fuori controllo, i suoi modi sfuggenti, la sua improvvisa freddezza. Glorfindel si era spinto troppo oltre, persino per un impulsivo e arrogante Vanyar come lui.
    Moderò il tono, per non sembrare troppo turbato: -Sillen, da quanto tempo va avanti questa storia?- Lei inclinò la testa, senza comprendere la sua tensione: -Da quando ho perso il mio potere. È successo durante la convalescenza e, se ricordo bene, dopo l’incidente della… della vasca.- Sospirò: -Perché? Cosa ti preoccupa? Glorfindel è stato molto chiaro, ha detto che farà bene a entrambi. E io mi fido di lui.-
    Thranduil strinse i pugni, in un moto di pura rabbia ma si costrinse a tacere. Comprendere in quel modo il dolore dell’elfo dorato gli trafisse il cuore ma non era sufficiente a sopprimere la gelosia bruciante che provava in quel momento.
    E lui era un Re troppo orgoglioso perché permettesse una cosa simile. Chiuse gli occhi, facendo violenza a sé stesso per non tornare dal Vanyar e ucciderlo con le proprie mani.
    -Glorfindel non mi ha mai mentito.- Precisò la stella, incrociando le braccia al petto. Vedere il Re così rigido la metteva a disagio e, in qualche modo, sentiva come se dovesse vergognarsi di qualcosa. Era una sensazione terribile, per quanto nuova, e aveva bisogno di una spiegazione.
    Thranduil si costrinse a respirare con più calma, cercando di aver ragione di sé: -Forse non ha mentito ma di certo ha omesso qualche dettaglio piuttosto cruciale, credimi.- Si avvicinò nuovamente, prendendola per le spalle con misurata gentilezza.
    -Immagino tu sappia che donare la propria energia a qualcun altro è un gesto importante, per un elfo. Soprattutto per quelli potenti come i Vanyar.- Lei annuì e, con un immenso sforzo, il Re continuò: -Io non ho lo stesso tipo di luce, né posso separarmene in quel modo, ma so che per far sì che ciò accada, il donatore deve provare un sentimento estremamente profondo e reale, verso il ricevente.-
    Sillen si concentrò sulle sue parole, trovandole ovvie: -Certo che è così, non ho mai creduto che fosse un gesto compiuto con leggerezza. Glorfindel e io siamo amici e so che lui darebbe la vita per me quanto io per lui.- Thranduil si bloccò, incerto. Sembrava davvero convinta di ciò che stava dicendo.
    La guardò con dolcezza, conscio che, questa volta, aveva dinanzi a sé la stessa innocente e ingenua stella che aveva raccolto a Bosco Atro, mesi prima. Se le cose stavano così, non doveva turbarla.
    Si limitò ad annuire, accennando un sorriso più rilassato.
    No, non voleva darle altri pensieri. Inoltre, sapeva di non avere il diritto di esporre così l’animo del Vanyar, per quanto geloso o furioso potesse essere.
    La stella strinse le labbra e il Sindar si affrettò a tornarle vicino, cullandola per sopprimere quel fastidioso tormento interiore.
    Sillen aveva già scelto lui, questo era sufficiente a placarlo, per il momento.
    -Sei arrabbiato?- Sussurrò lei, contro il suo petto. -Sono geloso.- Ammise il Re, posandole il mento affilato sul capo. -Non devi.- Concluse lei, semplicemente.
    Passò qualche secondo, poi Thranduil le sollevò il mento con le dita, serio: -Non ti agitare ma dobbiamo tornare subito dagli altri.- Lei sollevò un sopracciglio, interrogandolo con lo sguardo.
    Vide gli occhi di ghiaccio del Sindar fendere il buio della seconda arcata, sulla parete di destra: -C’è qualcuno. Si avvicina velocemente.- Sillen sentì il sangue pulsarle nelle tempie, le dita gelide del panico stringerle le interiora: -Sa che siamo qui?-
    L’elfo si concentrò, tendendo le orecchie sensibili. -Sono molti. Non credo siano diretti qui di proposito ma siamo indubbiamente finiti vicino alla loro tana.- Commentò, in un basso mormorio.
    La stella espirò, indietreggiando: -Allora muoviamoci, dobbiamo avvertire Thorin e Glorfindel e continuare a scendere.- Thranduil la sentì sfuggire dalle proprie braccia e si voltò di scatto a guardarla. -Dobbiamo correre ti dico, potrebbero fiutarci e-
    L’elfo non riuscì a fermarla in tempo.
    La stella, nel suo indietreggiare verso il corridoio, scontrò una grossa mazza di legno, appoggiata al muro e rimasta pericolosamente in bilico.
    Per un secondo, essa si limitò a ondeggiare su sé stessa, in silenzio. Poi, come nel peggiore degli incubi, crollò a sinistra, scontrando proprio il macilento tavolino invaso da vecchi otri di terracotta. Questi, uno ad uno, si schiantarono sul pavimento di pietra, riversandovi una pioggia tintinnante di gioielli e monete di ferro.
    Nel silenzio denso delle Miniere, quel rumore parve assordante come il rombo di un tuono.
    Sillen e Thranduil rimasero immobili, il respiro sospeso, e non fecero in tempo a voltarsi che agghiaccianti urli si riversarono fuori dalle tenebre delle porte ad arco. Il rombo inconfondibile e inquietante dei tamburi fece cadere polvere e detriti dai soffitti.
    -Goblin.- Sibilò Thranduil, voltandosi di scatto. Doveva immaginarselo: -Ci hanno seguiti.- Afferrò il polso della stella, pietrificata sul posto e corse nella direzione opposta alle urla bestiali, verso i compagni. -Glorfindel!- Chiamò, nel buio.
    L’elfo dorato era già in piedi, la mano sull’elsa della spada: -Ho sentito.- Abbaiò, furioso. Non poteva lasciarli soli un secondo che subito si ritrovavano nel guaio successivo.
    Thorin si armò della propria ascia a doppia lama, con un ghigno: -Poco male! Mi manca fare un po’ di esercizio fisico, cominciavo ad annoiarmi!- Sillen sfoderò a sua volta la spada ma Thranduil sbarrò loro la via, perentorio: -Giù per la scala, avanti!-
    La stella boccheggiò. -Ma è stretta, non avremo spazio per combattere e- Glorfindel le fu accanto: -Esatto, li rallentiamo. Forza, niente storie! Corri!- E i quattro, afferrando al volo i pochi, sgualciti bagagli, si lanciarono nel buio, la torcia di Glorfindel come unica luce a rischiarare le scale pericolanti.
    Sillen si guardò indietro, udendo i gracchianti versi dei goblin farsi sempre più vicini, tanto che le pareva di sentire le loro mani scheletriche tirarle i lembi del mantello: -Quelli scalano direttamente le pareti, ci raggiungeranno!- Esclamò, inorridita.
    Thranduil roteò la spada: -Molto probabilmente.-
    Bene, rassicurante! Corsero senza fermarsi per chissà quanto tempo, giungendo in profondità inesplorate da secoli, senza nemmeno potersi accertare di trovarsi ancora sul percorso tracciato da Mithrandir.
    Thorin saltò alcuni gradini, voltandosi di scatto: -Li sento nel terreno, sono sopra di noi!- Urlò, mulinando l’ascia. Glorfindel sollevò la torcia, illuminando centinaia di occhi lattei e traslucidi, spalancati nell’oscurità: -Dannazione.- Ringhiò, stringendo la spada.
    Ad un tratto, la strada davanti a lui parve interrompersi. Ed era troppo tardi per avvertire gli altri. Riuscì a contrastare lo slancio del Re sotto la Montagna, che a sua volta fu investito dalla corsa della stella. Il Vanyar, in equilibrio precario, sorrise vittorioso; almeno fino a quando Thranduil non li raggiunse, assestandogli l’ultima e inesorabile spinta verso il vuoto.
    Rotolarono tutti e quattro sulla roccia per parecchi metri, tra tintinnii, tonfi e gemiti doloranti. Qualcosa di molto, molto grosso aveva scavato un ampio tunnel circolare, spezzando la discesa della stretta scalinata. Per raggiungerla nuovamente, dovevano scalare l’altra parete del tunnel.
    -Se questa è opera di un maledetto Mangia Terra, non promette nulla di buono.- Commentò Thorin, rialzandosi a fatica. In effetti, quella galleria era forse tre volte più ampia di quelle create dai Vermi di Pallando. Creature primordiali, temibili e antiche come il mondo popolavano quei luoghi e quella davanti a loro ne era solo la riprova.
    Sillen si mise carponi, tossendo terriccio: -Thranduil?- L’elfo si era già rialzato ed era accorso a recuperare la torcia, per non lasciar inumidire il legno: -Sono qui.- Glorfindel, intanto, li richiamò da destra: -Per di qua, presto!-
    Zoppicante, Sillen lo seguì, accettando la mano che Thorin le offriva: -Ricorda che mi devi una bevuta, niente scherzi!- Esclamò sornione, sebbene i suoi occhi acuti cercassero febbrilmente i nemici nel buio sopra di loro. Thranduil chiuse la fila, teso e concentrato. I Goblin li stavano circondando.
    Sperò che il Vanyar sapesse dove andare perché, in caso di vicolo cieco, dubitava fortemente che la loro compagnia avesse una qualche possibilità di salvezza.
    Glorfindel guardò ancora la mappa, deciso: sì, il varco poteva essere usato come scorciatoia. Almeno, così voleva sperare.
    Nell’incertezza più totale, guidò la Compagnia in una corsa spericolata, lungo quel singolare corridoio: -Ci siamo quasi, dovrebbe esserci un passaggio a destra e- Si arrestò, zittendosi. Il tunnel si gettava semplicemente nel vuoto. Nel più sconfinato, indefinito, assoluto vuoto.
    -Vicolo cieco.- Concluse Thranduil, raggiungendolo.
    Thorin, che non aveva intenzione di disperare, spinse Sillen dietro di sé: -Avanti allora! Ammazziamo questi bastardi e torniamo alla scala, cosa volete che sia!?- Come in risposta a quel commento sprezzante, i Goblin cominciarono a riversarsi fuori dall’enorme bocca della galleria, arrampicandosi sulle pareti e strisciando sul pavimento come schifosi insetti biancastri.
    Erano Goblin di piccola taglia, alti poco meno di un metro e mezzo e con le fattezze sottili e adunche, come mucchietti di ossa scattanti e appuntite. Stringevano armi rozze e indossavano pezzi di armature ancora più rozze e grottesche.
    Ed erano un’infinità.
    Thranduil strinse automaticamente il braccio della stella, come per assicurarsi che fosse ancora lì. Si voltò per incontrare i suoi occhi, i lineamenti tirati. Lei annuì appena, stringendo la spada elfica: -Combattiamo.- I Goblin erano ad un balzo da loro.
    Glorfindel, inaspettatamente, sorrise, superando i compagni con l’intercedere di un condottiero: -Diamo inizio alle danze, dunque.- E la sua luce proruppe nell’oscurità, accecando i piccoli Goblin gracchianti. Sicuro e implacabile come un dio, trapassò i corpi gracili di quelle creature, facendosi spazio.
    Con un grido di battaglia, Thorin III Elminpietra si gettò nella mischia, falciando i nemici ancora disorientati: -Dannati! Questo succede a prendersela con l’elfo pervertito!-
    Sillen si trovò nel bel mezzo dello scontro senza nemmeno capire come ci fosse arrivata. Le sue gambe e le sue braccia, sebbene prive del potere divino, ancora ricordavano i movimenti più veloci e letali e, con il fiato corto, si accorse ben presto di star sorridendo. Merito anche del potere di Glorfindel, stava reagendo con veemenza al pericolo.
    Era ancora lei, era sé stessa, nel suo elemento.
    Doveva apparire quasi brutale, nel suo corpo di giovane donna, perché ogni suo colpo tranciava ossa e carne come fossero burro.
    Ma quella era la sua essenza, l’ombra che dimora nella luce.
    La distruzione che dona spazio alla pace.
    Il caos che riporta l’ordine.
    Thranduil non la perdeva di vista, gravitandole attorno, così come il luminoso Glorfindel, ancora fiammeggiante come il sole di mezzogiorno. I nemici sembravano non finire mai, giungendo da ogni parte come termiti nel loro nido.
    Sillen decapitò due di quelle schifose creature dai denti acuminati, con una smorfia disgustata: non le importava della stanchezza, dovevano farcela, a costo di combattere per giorni.
    Lo scontro si protrasse a lungo, fino a che, con sgomento, i quattro non sentirono il sibilo di frecce nell’oscurità. -Arcieri, in alto!- Li avvertì Thranduil, agitando la spada per impedire ai dardi di colpirlo. Erano frecce rudimentali, troppo sottili per trapassare il ferro e il cuoio ma abbastanza appuntite da perforare la carne.
    Sillen schivò un paio di quelle frecce, tentando di seguirne la traiettoria. Si lanciò verso quel punto, facendosi largo a suon di fendenti. Non badò alle proteste del Re degli Elfi ed evitò la successiva raffica di dardi. Una freccia le graffiò l’avambraccio ma non ci fece nemmeno caso.
    Menò la spada con precisione, eliminando la prima fila di arcieri e balzando indietro poco prima che la seconda si apprestasse a colpire. Si scostò lievemente di lato e, sicura e imperturbabile, afferrò un dardo sibilante con la mano dorata, fermando la sua corsa. Con un gesto gratuitamente violento lo rimandò al mittente, ringhiando per il nervosismo.
    Non finivano mai quei dannatissimi demoni! Si accorse in quell’istante che, nel loro limitato campo visivo, erano apparse altre creature, ben più alte dei Goblin.
    Glorfindel allargò il proprio sorriso, socchiudendo gli occhi dorati: -Sono arrivati gli Orchi. Di bene in meglio.- Non erano certo Orchi di Mordor, tantomeno Uruk-hai, ma erano abbastanza grossi e feroci da gettarsi contro gli intrusi senza alcuna esitazione.
    Sillen parò un affondo, sentendo le braccia tremare per lo sforzo. Con un calcio, gettò l’orco giù dal precipizio dietro di sé:
-Sono troppi, non possiamo restare qui!- Gridò, per sovrastare il frastuono dello scontro. Per lo meno, quando abbatteva una di quelle creature, queste rimanevano a terra e morte, pensò.
    Glorfindel le lanciò un’occhiata eloquente: -Grazie per aver espresso il tuo parere ma non trovo una soluzione al problema.- E sventrò un grosso orco, mozzando gli arti di tre goblin in un unico movimento.
    Passò altro tempo, chissà quanto, e gestire sia i veloci Goblin che i grossi Orchi si faceva sempre più difficile. Sillen era stanca, quasi stremata e mai come in quel momento desiderò di riavere indietro il proprio potere.
    Glorfindel atterrò un’altra decina di Goblin con la propria energia dorata ma la sua luce si stava pian piano affievolendo. Anche lui cominciava a sentirsi provato, sebbene fisicamente non mostrasse alcun segno di cedimento.
    Sotto l’attacco di un orco munito di mazza, la stella arrancò indietro, trovandosi ad un passo dal vuoto. Schivò un maldestro fendente ma, nel parare quello successivo, fu sbalzata di lato, rotolando fino al bordo frastagliato. Si trovò a fissare il nulla sotto di sé, stretta alla roccia per non sbilanciarsi in avanti.
    C’era mancato poco.
    Thranduil la raggiunse subito dopo, tirandola in piedi: -Resta dietro di me.- Le fece, notando il tremore delle sue spalle. Lei negò, infilzando un goblin ed estraendo la spada con una smorfia sfinita: -Ce la faccio, non preoccuparti per me. Pensa a combattere!- L’elfo la fulminò con gli occhi di ghiaccio ma la stella non lo stava più guardando. Una nuova raffica di frecce si abbatté su di loro, colpendo gli stessi goblin in prima linea.
    Sillen schivò e schivò ma finì per trovarsi con il fiato corto, la vista appannata. -Ce la faccio.- Ripeté, fissando le sagome davanti a sé. Sollevò la spada e l’orco davanti a lei quasi le cadde addosso, trapassato da parte a parte. Lei si scostò, cercando di tirare fuori la lama ma questa era rimasta in qualche modo incastrata nel corpo della creatura.
    Sillen iniziò a imprecare debolmente. Le sue mani sull’elsa erano scivolose a causa del nero del sangue dei nemici e del rosso del proprio, che scendeva in piccoli rivoli dall’avambraccio ferito.
    Intenta a riappropriarsi dell’arma, nemmeno vide arrivare un altro orco, armato di lancia. Quando sollevò lo sguardo, la lama smussata già brillava verso di lei. Ma non arrivò mai.
    Sillen venne investita dal corpo del Re degli Elfi ed entrambi rotolarono nella polvere e nel sangue, fino al bordo del precipizio. Thranduil strinse la giovane a sé, arrestando la caduta.
    Una spanna più indietro e sarebbero volati giù.
    Sillen si tirò in ginocchio, cercando tentoni una spada o un’arma qualsiasi che potesse difenderli. Incontrò lo sguardo dell’elfo, sentendo gli occhi riempirsi di lacrime. Era così stanca.
    Fece per parlare ma vide gli occhi chiari del Re dilatarsi, fissando un punto imprecisato dietro le sue spalle. Prima che potesse voltarsi, lui la spinse via. Una lama le passò accanto, la punta di una lancia. E si conficcò nel ventre dell’elfo, con un sibilo agghiacciante.
    Thranduil sollevò la spada, abbattendo l’orco con un ringhio deciso ma, subito dopo, un colpo di tosse lo scosse e sputò sangue, che macchiò i suoi meravigliosi capelli d’argento. Si voltò appena verso la stella, cercando i suoi occhi. Poi il suo corpo parve accasciarsi e si sbilanciò all’indietro, verso il nulla.
    Sillen sentì il tempo fermarsi, il terreno farsi instabile.
    Con un ultimo slancio disperato, afferrò il braccio dell’elfo con entrambe le mani, sentendosi trascinare giù.
    Chiuse gli occhi, stringendo il Re con tutte le sue forze, aspettando di cadere. Invece, il suo corpo ancora premeva sulla terra ferma. Thranduil era pesante, pesantissimo e ciondolava inerme oltre lo strapiombo, il capo rivolto all’oscurità sotto di loro. Eppure, non la stava trascinando con sé.
    Sillen aprì gli occhi: non era l’unica ad averlo afferrato. Voltò la testa e, frastornata e terrorizzata, incontrò i suoi stessi occhi, rilucenti come stelle. Quell’altra ricambiò lo sguardo, le dita strette attorno al polso del Re degli Elfi.
    La stella fisso sé stessa, incapace di comprendere e la guardò rivolgersi al buio. Per un secondo, le parve di vederla aguzzare la vista, come se quegli occhi di pura luce bianca potessero vedere il fondo di quell’abisso.
    E infine lo sentì anche lei. Un richiamo lontano, dal basso, una voce urlata e sussurrata allo stesso tempo: - Una prova ti attende e dovrai affrontarla per vincere il Male. Perché la Stella dei Valar si è svegliata.- Scosse la testa, con forza.
    -La Stella di Valar porterà la pace.-

    -NO!-
    -A caro prezzo.- E quell’altra le afferrò le vesti, spingendosi in avanti con inarrestabile decisione. Sillen sentì la terra scivolarle da sotto il corpo e il peso dell’elfo che amava la trascinò giù.
    Con un unico, impotente grido di dolore, la stella precipitò.



 

 
N.D.A

Buonsaaalve amici!
Questa settimana sono riuscita a non arrivare in ritardo, sono super proud XD

Spero che questo luuungo e intenso capitolo vi sia piaciuto! Fatemi sapere se la lettura risulta scorrevole, ammetto di essermi dilungata molto in queste situazioni "interiori" e personali dei nostri protagonisti :3

Comunque, HELP, sono agitatissima per aver pubblicato questa parte AAAH T^T
Non so proprio cosa dire, lascio a voi l'ardua sentenza XD

Grazie come sempre a chi è arrivato fino a qui, ha aggiunto la storia nelle seguite, preferite e ricordate, a chi ha speso il suo tempo per commentare e recensire e a chi sta silenziosamente seguendo Sillen in questa avventura. Grazie di cuore!

Vi mando un grande abbraccio,
Aleera

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Capitolo 33
*** La fine del gioco ***


 
 
-La fine del gioco-


    Saedor strattonò le catene con impietosa violenza e Alatar cozzò nuovamente contro il suolo, con un gemito miserevole. Odio, rabbia, rancore e desiderio di vendetta s’inseguivano nelle profondità oscure dell’occhio sinistro dell’elfo e lo stregone li avvertiva senza filtri, sulla pelle, taglienti come schegge di ossidiana.
    Si trascinò in avanti, tentando di sollevarsi, ma le braccia non reggevano più il suo stesso peso. Crollò come una bambola di pezza, il respiro mozzato dal dolore al costato.
    -Alzati.- Sibilò l’elfo oscuro, con voce disincarnata e metallica.
    Per oltre una settimana, lo stregone, l’elfo e il gruppo di non morti avevano viaggiato sotto terra, nei cunicoli dei grandi Vermi, le cui uscite erano ben celate dalle solide illusioni di Lhospen.
    Giunti nella pianura del Gorgoroth erano riemersi, solo per attraversare i numerosi gruppi di cadaveri, zitti e rigidi come pennacchi piantati nel terreno, in file ordinate. Essi attendevano ordini, vuoti come orrendi vasi deformi. Erano la minaccia, no, la promessa di un nuovo imminente attacco.  
    Affamato e stanco in quelle terre che ricordava fin troppo bene, Alatar non aveva avuto una singola occasione per scappare. Saedor non lo perdeva mai di vista, quasi provasse un depravato piacere nel tormentarlo in quel modo.
    Adesso, gli immensi bastioni caduti della fortezza di Barad-dûr sfilavano attorno a loro come montagne aguzze, pronte a inghiottirli. Erano infine giunti nel Regno di Pallando.
    -Ti prego, ti prego- Lo stregone strinse debolmente le catene arrugginite con le dita, puntando i piedi nel terreno secco.
    Non voleva vederlo, non voleva incontrare suo fratello.
    Ne sarebbe morto.
    Ma Saedor non si curava delle sue parole, continuando a trascinarlo senza nemmeno troppo sforzo. Attraversarono un ingresso fatiscente, scendendo inesorabilmente nel buio della terra sterile di Mordor.
    Alatar strizzò gli occhi, cercando di individuare i contorni di quelle che parevano enormi sale e infiniti corridoi, ormai in balìa della sua più profonda paura: stava per affrontare definitivamente i fantasmi del suo passato e, questa volta, non si sarebbe semplicemente ridestato da scomodi ricordi.
    Alla fine del corridoio buio, una luce attirò la sua attenzione, mentre il sangue aveva preso a scorrere tanto veloce nelle sue orecchie da assordarlo.
    Saedor entrò per primo, socchiudendo gli occhi per la fastidiosa luce delle candele.
    La grande sala era quasi completamente vuota e il buio si ammucchiava negli angoli e nelle volte di granito, lasciando ai presenti la vaga sensazione di trovarsi in un luogo infinito, al di là di ogni confine fisico. E per Alatar il Blu, anche il tempo parve divenire labile come il battito d’ali di una farfalla.
    Solo una scrivania occupava lo spazio dinanzi a loro, lucida e scura come un altare sacrificale. La figura che quivi sedeva si alzò lentamente, attirando su di sé gli sguardi dei due ospiti.
    Alatar tremò nel profondo, attanagliato da un gelo nato dalle sue stesse viscere e, con sgomento, seguì i movimenti della figura, intenta ad abbassare il cappuccio blu. -Quanto tempo è passato, fratello mio.- Sorrise Pallando, offrendosi alla luce tremolante delle candele.
    L’altro crollò in ginocchio, la bocca deformata in un’espressione disperata e gli occhi offuscati dalle lacrime.
    Non riusciva a distogliere lo sguardo, tanto era il suo sconcerto.
    -Sì. Sono. Vivo.- Scandì il fratello, picchiettando con le unghie appuntite sul legno pieno. -Cosa provi, nel rivedermi? Descrivimelo.- Lo interrogò, sinceramente curioso.
    L’altro non riusciva a formulare pensieri o parole e tenne la bocca schiusa, respirando a fatica. Suo fratello. Pallando.
    -Non fraintendermi, anch’io mi sono chiesto spesso cosa avrei dovuto dirti, una volta che tu fossi giunto qui.- Il maggiore degli Stregoni Blu camminò piano, con passi strascicati, quasi fosse un povero e indifeso vecchio aggrappato al suo bastone ricurvo.
    -Avevo pensato di accoglierti seduto su un grande trono, circondato da creature mostruose. D’effetto, non ti pare?- Sorrise, mostrando appena i canini innaturalmente appuntiti. -Poi ho cambiato idea. No, non serve tanta scena, ora come ora.-
    Aveva ragione: la sorpresa, il disagio e la paura di Alatar erano tali da aleggiare nella stanza al pari di un’irritante nebbia, quasi tangibili. -E poi, non mi va più di giocare con te.- Concluse, quasi rammaricato. Si rivolse all’elfo oscuro, per la prima volta da quando i due ospiti erano entrati: -Come stai, Maestro dei Veleni? Hai riposato, durante il viaggio?-
    Saedor seguì Pallando con lo sguardo, gli occhi spaiati ricolmi di un sentimento puro e sconfinato: -Ho fatto tutto quello che mi hai chiesto, durante la battaglia.- La sua voce sgradevole gracchiò piano, tinta di una sfumatura docile e quasi infantile.
    -Lo so. Sei stato molto bravo!- Lo stregone si avvicinò per posargli una mano sulla spalla, in un gesto affettuoso: -Grazie, Saedor. So che desideravi tanto uccidere quella stella, mi dispiace aver rovinato il tuo momento.- L’elfo chinò il capo, sotto quel contatto.
    Alatar arretrò silenziosamente, cercando di tirarsi in piedi, ma gli occhi del fratello lo pietrificarono in un attimo, tornando su di lui: -Dunque, i tuoi amici ti hanno sbattuto in prigione.- Commentò, quasi divertito.
    Nonostante quell’atteggiamento distaccato e ironico, Alatar lesse tutte le emozioni del fratello maggiore come fossero proprie. Il suo viso familiare non era mai riuscito a celargli un segreto e, anche se ciò lo lasciava turbato e sconvolto, lo stregone constatò che non era affatto cambiato: una tempesta stava avendo luogo, dietro i suoi vecchi occhi grigi, più in profondità di quanto volesse far trasparire.
    Quella consapevolezza gli diede la forza per reagire.
    Chi aveva dinnanzi era suo fratello ed era vivo, reale, tangibile.
    -Come hai fatto a conoscere i nostri movimenti?- Sussurrò, cercando di controllare il tremito della propria voce. Pallando sollevò un sopracciglio, lo sguardo tagliente: -Tu eri la mia spia.-
    -Non è vero. Tu eri morto per me.- A quelle parole, il fratello maggiore sbatté violentemente una mano sul legno lucido della scrivania, cogliendo i presenti di sorpresa. Persino Saedor sussultò, fissando l’occhio ambrato sullo stregone. -Morto a causa tua.- Rispose questi, la voce terribilmente calma, in netto contrasto con il suo gesto rabbioso.
    Alatar distolse lo sguardo, sentendo il cuore martellare nel petto dolorosamente. -Sì. Sì, per causa mia.- Mormorò, la testa china.
    Pallando lo fissò per un po’, senza commentare. Poi, si decise a voltarsi, fischiando debolmente. A quel suono inaspettato, Alatar sollevò il capo, per poi vedere il suo fedele falco Lelya planare nella sala, con gli acuti occhi fissi su di loro. Quando Pallando sollevò un braccio, la graziosa volatile vi si posò con sicurezza, arruffando le penne.
    Alatar sgranò gli occhi, seguendo le carezze distratte del fratello, senza comprendere. Temette che le dita dell’altro si chiudessero attorno al collo della povera creaturina, cui era così affezionato. Invece, questa pareva perfettamente a suo agio, sotto le premurose attenzioni del vecchio.
-Non sei mai stato particolarmente sveglio, mio caro Alatar.- Sibilò Pallando, riscuotendolo dal suo stupore: -Sono sempre stato io il più intelligente.-
    Lelya ricambiò lo sguardo del suo compagno d’avventura, incredibilmente eloquente. -L-Lelya- Provò a chiamarla, ma l’altro parlò in fretta: -Non ti ascolterà. Ha un frammento sul dorso, dunque risponde solo a me. Io vedo ciò che i suoi occhi vedono.-
    Alatar sentì la gola seccarsi, le gambe nuovamente deboli.
    Cominciava a capire. 
    Dannazione, cominciava a realizzare: -F-Frammento?- Pallando estrasse con noncuranza un grosso pezzo di vetro nero dalla veste sdrucita, posandolo senza delicatezza sulla scrivania.
    Il Palantir di Sauron. La Pietra Veggente.
    Attraverso i frammenti, suo fratello poteva vedere e udire tutto, riflesso in quel grosso pezzo di vetro scuro. E Lelya era stata la sua spia per tutto il tempo, dall’incontro con il Re degli Uomini, al Nido delle Aquile, all’alleanza riunitasi a Minas Tirith.
    Anche Pallando guardò il Palantir per qualche secondo, ricordando il giorno del suo ritrovamento. La fortezza era crollata, le macerie li avevano investiti, ma lui e i due elfi erano sopravvissuti. Distrutti, nel corpo e nell’animo, però ancora vivi.
    E nella polvere di quel luogo che non riuscivano ad abbandonare avevano raccolto le magie e gli artefatti dell’Oscuro Signore, persino quella pietra veggente ormai ridotta in schegge inutilizzabili. Almeno, così pensavano.
    Rivolse nuovamente la sua attenzione su Alatar, che fissava il Palantir senza riuscire a dire una singola parola. -Mi aspettavo una reazione più esaltante, dopo questa rivelazione.- L’altro deglutì, senza nemmeno accorgersi del suo tono canzonatorio:
-Sei stato tu a mandarla da me, anni fa?-
    -L’ho addestrata bene, vero? Non si è mai tradita. Mi è stata utile per allenare i miei poteri, perfezionare i miei incantesimi. Si rivelano di difficile esecuzione, se l’essere è ancora vivo. Decisamente un buon esercizio.-
    Alatar sentì l’angoscia fendergli il petto: Pallando l’aveva osservato per anni, per quasi due lunghi decenni.
    Pallando l’aveva trovato e osservato, quando lui era dannatamente convinto che egli fosse morto e sepolto. -Grazie a questi frammenti e ai nostri incantesimi, noi tre soli abbiamo mosso centomila cadaveri e quattro Mangia Terra ancora vivi e vegeti!- Quasi si pavoneggiava l’altro, accanto a Saedor: -E l’attacco si è rivelato un successo, grazie per averlo chiesto.- Commentò, ironico.
    Alatar serrò i pugni, rifiutandosi di ascoltare quei deliri sconclusionati: -Hai perso. Se avessi vinto, a quest’ora staresti marciando su Minas Tirith tu stesso.- Pallando scoppiò a ridere, una risata sguaiata e senza colore.
    Rise per molto tempo, tanto da rendere quel gesto estremamente inquietante e sgradevole. -Tu- Cominciò, tra le risate: -Tu osi immaginare le mie azioni. I miei intenti!- Si tenne una mano sul ventre, quasi tremante: -Hai sentito, Saedor? Lui crede di sapere!- Con un gesto furioso, al limite della follia, spazzò il contenuto della scrivania per gettarlo a terra, lo sguardo puntato in quello del fratello.
    Ansimò, senza smettere di sorridere: -Avanti, spiegati. Cosa avrei fatto, io? Quali brillanti deduzioni vuoi offrirmi, Morinehtar, Stregone Blu, servo del Bene?- Lo derise.
    Alatar cercò di regolare il respiro, sentendo il sudore freddo colargli lungo la schiena: -Tu non sei questo, Pallando. Sauron ti ha avvelenato la mente. Il Male ti ha piegato ma puoi tornare in te, tu sei più forte.- L’altro si batté la polvere via dalla veste, scuotendo la testa: -Il Male… Sauron… Sarebbe una bella storia, no?-
    Si avvicinò a Saedor, aggiustandogli qualche piega della mantellina color prugna in un gesto gentile e premuroso: -Noi saremmo solo povere vittime inghiottite dall’Oscurità.- Tolse le catene dalle mani dell’elfo oscuro e le gettò a terra, senza scomporsi: -Ma ti sbagli, fratello mio. La tua è una favola senza alcun fondamento.-
    Alatar guardò le catene cadere, libere dalla stretta del suo carceriere. Con uno schiocco di dita, Pallando fece scattare le serrature ed esse abbandonarono i polsi del giovane stregone.
    Questi deglutì, tornando a guardare il fratello con fare sospettoso. -Noi non siamo al servizio di nessuna Oscurità.- Lo informò l’altro, come se stesse spiegando un’ovvietà a un bambino: -Tutt’altro. Abbiamo soltanto deciso che questo era il modo migliore per liberare il mondo da essa. Domandati quanto giusta sia la causa della tua cara amica stella, piuttosto.-
    Alatar non capiva.
    E la sua confusione era evidente, tanto che Pallando si ritrovò a sospirare. -Vieni. Ti mostro una cosa.- Come si aspettava, il fratello minore non poté fare altro che seguirlo, come mosso da un’invisibile forza magnetica.
    Lo guidò in un corridoio buio, fino a un’anonima porta di legno. La aprì delicatamente, permettendo ad Alatar di vederne l’interno. Era una stanza disordinata ma vissuta, caotica ma accogliente. Piena di manufatti, libri e pergamene. -La stanza di Lhospen.- Precisò, Pallando.
    Alatar fissò il letto sfatto, pieno di coperte rattoppate ma pulite. Non era certo una stanza… sgradevole.
    Seguì il fratello e si affacciò nella stanza successiva, più grande ma più spoglia. Su due tavoli vi erano poste con ordine tante provette, sacchetti, ampolle, piccole armi da taglio e, nell’angolo più lontano, cresceva un’invasione di grandi piante dalle foglie scure e lucenti, rigogliose e ben curate. -La stanza di Saedor.-
    Alatar si voltò verso il fratello, confuso: -Cosa significa?-
    -Tu parli del Male e dell’Oscurità, di come essi ci abbiano resi servi. Ma sembri non conoscerci affatto. Certo… dopotutto, potevo aspettarmelo. Sei sempre stato superficiale e sprezzante, caro fratello mio.- Si incamminarono con calma, in silenzio, salendo una gradinata apparentemente pericolante, che proseguiva per molti piani. In cima, due finestre si aprivano sul cielo plumbeo di Mordor, a pochi metri dal terreno brullo. Davanti ad esse, si trovava un grande tavolo, pieno di oggetti anonimi. Qualche libro, un paio di bottiglie. Quello doveva essere il luogo dove i tre passavano più tempo.
    La cosa che sorprese Alatar oltre ogni immaginazione però, fu la grande mappa dall’aspetto consunto, piena di piccole pedine intagliate. Doveva essere opera dei tre abitanti del luogo, senza dubbio. La minuzia e la bellezza di quelle pedine stonava con tutto il resto: pareva quasi un gioco da tavolo, più che uno strumento di strategia.
    -Ormai ti sarà chiaro. Qui nessuno ha smesso di considerare il nostro strano gruppo una famiglia. Tranne te, ovviamente.- Sorrise, Pallando. -Tu che ci additi come malvagi. Beh, non è come credi. Non saltare a conclusioni affrettate.-
    -Da tempo pianificavate una guerra. Avete ucciso delle persone.-
    -Sì, è vero. E continueremo a farlo. Nemmeno la stupida Stella dei Valar potrà impedircelo.- Alatar allargò le braccia, frastornato: -Perché?!-
    -Perché noi abbiamo uno scopo.- Pallando respirò a fondo, come assaporando le parole che stava per pronunciare: -Noi vogliamo uccidere tutto.- Alatar, istintivamente, desiderò arretrare lontano da lui ma non lo fece: -Tutti.-
    -No. Tutto. Cancelleremo ogni vita su questa Terra. Distruggeremo ogni cosa. Così, finalmente, nessuno dovrà più soffrire.- Solo allora, Alatar lo afferrò per il bavero, fuori di sé: -Per questo stupido, insensato motivo avete mosso centomila non morti contro una città?!-
    Pallando sollevò una mano, fermando Saedor, già pronto a riportare Alatar all’ordine. -Non ti sembra una motivazione sufficiente, fratello? Quanti ancora dovranno cadere nel dolore della guerra, della povertà, del tradimento?- Sibilò.
    -Fa parte della vita.- Ringhiò Alatar, le nocche divenute bianche a causa della forza della sua stretta. Ma Pallando non sentì ragioni: -Ciò che abbiamo sofferto faceva parte della vita? Di una giusta vita?-
    -Era il volere dei Valar.-
    -Sei un ipocrita. Tu e i tuoi dannati Valar. Non hai mai creduto nel loro agire, pensi che l’abbia dimenticato? Ora li tiri in ballo invece, tutto tronfio nella tua misera idea di giustizia. Né tu né loro vi siete preoccupati per le sorti di noialtri, quando il dolore era tale da invocare la morte!- A quelle dure parole, Alatar distolse lo sguardo. -Troppo a lungo hanno giocato con noi. Uomini, Elfi, Nani, pedine dei loro voleri. Questa vita attira il Male ed esso vi sguazza tanto bene da non poter fare altro che tornare! Io scriverò la parola Fine, adesso.- Gli occhi di Pallando rilucevano, come fiaccole nella notte.
    Credeva profondamente in quelle parole. Ma Alatar non voleva ascoltarle. -Sei ferito, hai sofferto, non sei lucido!-
    -Anche tu hai sofferto, quando Sillen ti ha sbattuto nelle prigioni.-
    -L’ha fatto per delle buone ragioni!- Esclamò, sentendo comunque una stilettata ferirgli il cuore.
    -Non aveva prove. Ha semplicemente preferito eliminare il problema, anziché cercare di comprendere. E nemmeno sa cosa hai passato, prima di spacciare i miei disegni come tuoi e inventarti tante belle frottole per cercare redenzione nell’Ovest.-
    Il fratello minore contrasse la mascella: colto sul fatto, meschino e bugiardo.
    Osava davvero giudicare la follia di Pallando?
    Questi continuò, inflessibile: -Ella è una miserabile, come i Valar che l’hanno creata. Siete esseri così superficiali.- Alatar allentò la presa, suo malgrado.
    No, Sillen era diversa. Lei era pura, giusta, buona.
    Era lui quello sbagliato. E lo era Pallando.
    -Non sai di cosa parli.-
    -Lo so meglio di te, ingenuo fratello. Io mi sono allontanato dall’influenza dei Valar e ho coltivato un potere tutto mio, in grado di porre fine alla vita stessa. Liberi dal destino. Niente più soldati, niente più schiavi. Nessun sentimento.- Lo fissò negli occhi: -Nessuno che possa tradirti.-
    Alatar lo lasciò, nascondendo il viso tra le mani.
    Quelle surreali parole l’avevano scosso più di quanto volesse ammettere. Donare una Fine al mondo… sarebbe stato davvero un dono? Pallando, nella sua follia, stava davvero cercando di liberare la Terra di Mezzo dal Male?
    -Oltrepassare le mura di Minas Tirith significa abbattere le maggiori difese dell’Ovest, ora che i tuoi stolti amici si sono riuniti.-
    -T-tu hai già fallito.-
    -Ho semplicemente sondato il terreno. L’unica perdita subìta, sono stati cinque frammenti. È irrilevante, come puoi vedere.-
    -Ti fermeranno di nuovo.-
    -Come? Loro hanno perso centinaia di soldati e, dimenticavo di avvisarti, la stella ha perso il suo potere.- Lo apostrofò Pallando, osservando gli occhi del fratello sgranarsi. -C-cosa? No, non è possibile.-
    -È stata l’ultima cosa che ho sentito, prima che qualche suo alleato più sveglio isolasse i miei frammenti.- Alatar gli puntò il dito contro, furioso: -Tu menti!-
    -Saedor l’ha quasi uccisa, in battaglia. Non era così forte, quel suo potere divino.- Sollevò le spalle l’altro, con noncuranza: -Alla fine, lo ha ceduto in cambio della salvezza del Re degli Uomini.-
    A quella rivelazione, che suonava davvero plausibile, Alatar sentì il terreno scivolare via da sotto i suoi piedi e dovette reggersi al tavolo per non cadere. Era tutto perduto, dunque?
    -Non puoi prendere un Regno da solo… è impossibile… Anche sottomettendo Gondor, non riuscirai mai a distruggere l’intera Terra di Mezzo.- Pallando annuì: -Su questo siamo d’accordo. Lhospen e Saedor sono diventati forti, io sono potente. Ma da soli, sarebbe troppo faticoso guidare un’armata di non morti più grande di questa.-
    Alatar lo fissò negli occhi, soppesando quelle parole. Ancora una volta, lesse i pensieri del fratello e impallidì, realizzando: -Per questo mi hai riportato qui…- Pallando sorrise, quasi teneramente. Tentennò per un momento, poi rispose: -Se vorrai, potrai tentare di convincere la stella a schierarsi dalla nostra parte. A me non ha dato ascolto. Ma a te…-
    Non era possibile. Doveva aver capito male, pensò Alatar.
    Suo fratello gli stava offrendo un posto al suo fianco, ancora una volta. -Io ti ho abbandonato…- Sussurrò.
    L’altro sospirò, distogliendo lo sguardo ferito: -Lo hai fatto. E sarà difficile per noi perdonarti.- Ma volevano provarci.
    Era quello il sentimento sottointeso, ciò che si celava dietro la maschera di sprezzante ironia del vecchio fratello. Mai una volta, davanti a lui, si era sentito davvero minacciato. Solo… atteso.
    Pallando lo attendeva.
    Lo attendeva dietro ad ogni suo passato errore.
    Alatar sentì ogni certezza svanire, ogni saldo principio crollare.
    I pensieri si colpivano un con l’altro, come tessere di domino destinate a mostrare un unico disegno.
    -Fa che le tue azioni passate vengano davvero riscattate.- Sibilò Saedor, come uno spettro sputato fuori dall’oltretomba. -Ripaga il tuo debito nei nostri confronti.-
    Alatar lo guardò a lungo, divorato dal dubbio. Il suo posto… qual era il suo posto? Aveva cercato di aiutare la Stella dei Valar, quella ragazza che aveva adorato come i fiori adorano il sole, e aveva fallito. Aveva tentato di rinascere per trent’anni, nell’anonimato, ricostruendo la sua identità su bugie e inganni.
    Con la sua meschina messinscena, aveva infangato la memoria di suo fratello, usando la sua morte come espediente. Si era nascosto, codardo, dietro un nome che non meritava e una banale storia inventata.
    Forse, la follia di Pallando era solo colpa sua. Ma, se così fosse stato, poteva sottrarsi alle sue responsabilità ancora una volta?
    Fu come la rottura di un argine, una diga crepata che finalmente cede sotto al peso della piena. -Perdonami.- Sussurrò di getto, fissando gli occhi spaiati dell’elfo oscuro.
    Poi tornò a guardare suo fratello, le lacrime che cominciavano a sgorgare copiose e brucianti: -Fratello, perdonami!- Supplicò, singhiozzando. S’inginocchiò di colpo, abbracciando il corpo così familiare dell’unico essere che l’avesse amato per quello che era, l’unico ad amarlo al punto da perdonare le sue meschine azioni, pur conoscendo ogni suo vergognoso segreto.
    Pallando gli accarezzò la testa, respirando a fondo: -Sei stato solo tutto questo tempo…- Lo consolò, lasciandolo piangere.
    -Adesso sei a casa. Ti aiuteremo a tornare sul sentiero del Bene e, insieme, avremo la forza per fermare questa folle esistenza.- Alatar annuì, prepotentemente.
    Andava bene. Sarebbe andato tutto bene, adesso.
    Potevano stare insieme ancora una volta e se il prezzo era camminare insieme nella follia, così sarebbe stato.
    Così doveva andare.
    Ora, doveva riprendere il suo posto accanto al maggiore degli Stregoni Blu, un posto che da sempre gli spettava.
    Non era morto con loro, quel giorno. Nessuno di loro era morto. Questa volta, sarebbero morti insieme.
    Avrebbero messo fine a tutto, insieme. Insieme.
    -Alzati, mio caro Alatar.- Pallando lo aiutò a risollevarsi, stringendogli le spalle. Il minore si guardò attorno, i capelli brizzolati incollati al viso e al collo: -Dov’è Lhospen? Voglio chiedere perdono anche a lui.- Confessò, sentendo una stretta al cuore al pensiero delle dure parole che l’elfo oscuro gli aveva rivolto nelle prigioni di Minas Tirith.
    Pallando sorrise, indicandogli la mappa scolorita dietro di loro. Una pedina, blu come gli occhi del Maestro delle Illusioni, era posta un po’ più a sinistra delle altre, vicino al mare. Alatar si avvicinò, aggrottando le sopracciglia.
    -Mhm, a quest’ora dovrebbe aver portato a termine il suo compito. Lo incontreremo presto.- Lo rassicurò il fratello, voltando lo sguardo verso le finestre di pietra. Un grosso corvo nero, vecchio e spelacchiato, si era posato sul davanzale, gracchiando fastidiosamente e con insistenza.
    Alatar scrutò la mappa attentamente e sgranò gli occhi: Lhospen si trovava a… Dol Amroth. Pallando rise, prendendo nuovamente il bastone che aveva appoggiato al muro: -Stupido, da parte degli Uomini, radunare tanti civili in un solo luogo.-
    Il più giovane seguì con il dito il tracciato delle gallerie sotterranee, percorrendo quella che da Minas Tirith aveva portato Lhospen a Belfalas. Deglutì. Doveva abituarsi. Doveva abituarsi ai gesti violenti di suo fratello, alle sadiche azioni di Saedor, alla cieca determinazione di Lhospen.
    Così doveva andare.
    Accarezzò con la punta delle dita il nome della città di Minas Tirith, tremante: forse, non era sarebbe stato così insensato. Forse, in un’altra vita, i Valar sarebbero stati felici di vederlo tornare da suo fratello. Forse, la sua causa sarebbe stata giusta.
    In qualche modo, sperò, poteva ancora cercare Sillen. Aveva ancora una possibilità, una soltanto, e tutto era, ancora una volta, posto nelle mani della Stella dei Valar.
    -Questo è tuo.- Lo richiamò, il Maestro dei Veleni. Teneva nella mano bendata il suo bastone nodoso, porgendoglielo, senza espressione: -Lhospen ha detto di non deluderlo, questa volta.-
    Pallando rise, prendendoli per le spalle. Le sue parole accarezzarono l’orecchio di Alatar come un sibilo freddo, sinistro: -E adesso, il momento della partita che preferisco. La fine del gioco.-




 
N.D.A

Bentrovati!

Wow, che capitolino leggero eh? Anche se penso sia il più corto che scrivo da un saaacco di tempo ahaha Ma volevo dare l’idea di urgenza, di imminente pericolo. Una passeggiata insomma XD Come dice Pallando, ci siamo: la fine dei giochi. Tiriamo le fila, cosa accadrà adesso!? Sono ansiosa di farvelo scoprire!

Fatemi sapere cosa ne pensate e grazie per essere arrivati sino a qui!

Un bacio grande grande,

la vostra
Aleera


P.S Qualcuno avrà sicuramente colto la cit finale: è di Ade, il villain più strafigo della storia, dal lungometraggio d’animazione Hercules, della Disney XD Scusate, DOVEVO FARLO



 

 

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Capitolo 34
*** L'Alfiere del Cielo ***




-L'Alfiere del Cielo-



    Una voce dolce, eterea e fredda come l’argento le martellava in testa e Sillen aveva tutta l’impressione di averla già sentita.
    Brandelli di una storia. La sua storia.
    “Tu sei nata per una ragione…”
    Immagini di una vita passata e futura le passarono davanti agli occhi: c’era morte, c’era amore e c’era speranza. 

    “Tu sei nata per una ragione. Una maledizione… Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo. Dannata per l’eternità…”
    Le immagini scorrevano veloci e la Stella non riusciva più a distinguerne le forme.
    “Scenderai in battaglia. Il tuo compito è salvare la Terra di Mezzo. Sei maledetta… Riunirai i Popoli Liberi e scenderai in battaglia. La Stella dei Valar si è svegliata. La tua maledizione…”
    Le faceva male, voleva fuggire ma non poteva: perché stava accadendo, era già accaduto, e non avrebbe più potuto impedirlo.
    “Riunirai i Popoli Liberi. La Stella dei Valar porterà la pace e porterà il dolore. Dannata per l’eternità, porterai dolore… Tu sei nata per una ragione. Svegliati. Maledetta… Svegliati. SVEGLIATI!


    Sillen mosse appena le dita, tastando un terreno ghiaioso, freddo e ruvido sotto i polpastrelli. 
    Rabbia.
    Poco altro riusciva a provare, in quell’istante.
    Non seppe dire se le voci appena udite fossero reali o meno. In ogni caso, non le sarebbe importato.
    Era riversa faccia a terra e i suoi lunghi capelli le erano rimasti schiacciati sotto il busto, tirandole la cute dolorosamente. Si sforzò di tossire, il respiro ridotto a un rantolo sgradevole.
    Affondò ancora le dita nella ghiaia, avvertendo il gelo irradiarsi lungo il polso, negli avambracci, fino alle spalle indolenzite. Solo allora, la stella si accorse di non sentire più le gambe. Aprì gli occhi di scatto, agitandosi sul terreno come un pesce fuor d’acqua: si puntellò a fatica sui gomiti e voltò la testa, per constatare se le sue gambe fossero ancora al loro posto. Lo erano, solo immerse nell’acqua gelata.
    Sospirando di sollievo, Sillen si decise a reagire, girandosi con un lamento di dolore e strisciando fuori dallo scuro e freddo lago sotterraneo dov’era caduta.
    Cercò nel buio, con lo sguardo offuscato e le ciocche bagnate a sferzarle il collo. -T-Thranduil?- Il ricordo del sibilo glaciale della lama che si conficcava nel ventre dell’elfo le diede le vertigini e urlò più forte, tossendo altra acqua: -Thranduil! Manke naa lle!? (dove sei!?)-
    Sperò con tutta sé stessa che la lieve corrente del lago avesse spinto anch’egli a riva, in salvo. Sempre che fosse ancora vivo.
    Il terrore rischiò di pietrificarla sul posto ma la stella scrollò la testa con forza. La rabbia era tale da sopraffarla persino in quel momento. Strofinò le gambe con le mani, con gesti carichi di urgenza e, senza nemmeno attendere che i suoi muscoli si liberassero del tutto dal gelo, si sollevò in piedi, arrancando sulla ghiaia.
    La riva era ingombra di sassi ricoperti di melma, rocce viscide e pezzi di legno ormai marciti, che rendevano l’aria stessa satura d’un odore acre e stantio, tanto intenso da darle il voltastomaco.
    Chiamò ancora il nome dell’elfo, mentre la sua voce si perdeva in echi infiniti sopra di lei, nell’immensità ignota del sottosuolo.
    Incespicò, cadendo a carponi, le lacrime che avevano da tempo cominciato a rigarle il viso sporco. Thranduil l’aveva salvata. Era stato ferito per colpa della sua inettitudine. 
    No, perché prendersi la colpa ancora una volta?
    Lei ci aveva provato. Ci aveva persino creduto.
    Invece era tutto crollato, rotto, a causa del suo destino maledetto.
    Le voci dei Valar ancora mormoravano dentro di lei, facendola tremare: -Non voglio! Non deve essere lui il prezzo da pagare, io lo impedirò!- Scosse la testa, cercando dentro di sé l’ultimo briciolo di determinazione rimasto.
    Doveva trovare Thranduil ad ogni costo. Strinse i pugni, facendosi forza per rimettersi in piedi: -Thranduil!-
    Quando infine sollevò lo sguardo dinanzi a sé, Sillen si bloccò, il fiato sospeso. Incontrò gli occhi di luce di quell’altra, immobile e circondata da un’aura minacciosamente carica di energia distruttiva. Era a pochi metri da lei, silenziosa, accovacciata contro un grosso masso.
    Accanto al corpo inerme del Re degli Elfi.
    La paura animò le membra della stella come una scarica elettrica, spingendola a lanciarsi in avanti senza un attimo di esitazione. Le sue mani si chiusero attorno al primo bastone che riuscirono ad afferrare e corse con falcate instabili e disperate verso di loro: -STA LONTANA DA LUI!- Urlò, fendendo l’aria con quella ridicola arma improvvisata. 
    Quell’altra balzò via senza sforzo, atterrando una ventina di piedi più distante. Rimase immobile, con fare intimidatorio ma, stranamente, pareva non essere intenzionata a contrattaccare.
    Sillen si frappose tra lei e l’elfo, privo di coscienza: -Non osare avvicinarti!- L’avvertì, tremante, per quanto insulse potessero sembrare le sue minacce. Se avesse voluto, quell’altra avrebbe potuto gettarla al centro del lago con un unico manrovescio, si disse.
    Ma ciò non accadde e per parecchi secondi le due rimasero a fissarsi, immobili. Meglio così, Sillen non aveva tempo per affrontare i suoi incubi adesso.
    Accertatasi che il suo inquietante doppione fosse ancora deciso a rimanere dov’era, Sillen si voltò velocemente, inginocchiandosi di fianco al Re degli Elfi. -Thranduil!- Quando riconobbe i lineamenti del viso affilato di lui, la stella sussultò, portandosi una mano alle labbra: il lato sinistro era terribilmente sfregiato, solcato da profonde e frastagliate cicatrici argentee. Ma erano troppo singolari e antiche per appartenere a quel tempo.
    Con il cuore stretto in una morsa, Sillen spostò lo sguardo e scostò il mantello pregno d’acqua, avvolto intorno al corpo dell’elfo. Adocchiò subito la ferita e voltò la testa di scatto, cercando di non svenire. Era una brutta ferita e sanguinava ancora, nonostante i bordi arrossati e lividi si fossero ormai incrostati malamente. Dovevano essere passate ore, dalla loro caduta.
    Tuttavia, dopo una rapida analisi, Sillen sospirò profondamente, tremando per il sollievo. Thranduil era un combattente esperto ed estremamente agile: nonostante fosse accaduto tutto in una manciata di secondi, era riuscito a scostarsi giusto in tempo, in modo che la lama lo trapassasse senza però intaccare i suoi organi interni. Sillen soffocò i singhiozzi e si chinò sul suo viso dalle metà discordanti, baciandogli la fronte bollente a causa della febbre: -Bravo, bravo, bravo-
    Quando fu sicura che il tremore delle proprie mani non rappresentasse un ostacolo, scostò gli abiti dell’elfo, tirando su con il naso: -Starai meglio. Ora ti medicherò e la febbre scenderà, vedrai.- Lo rassicurò, senza curarsi che Thranduil fosse ancora incosciente e non potesse sentirla.
    Con gesti veloci, radunò i bastoncini più asciutti, accendendo a fatica un piccolo fuoco. Soffiò più volte, tentando di animare la timida fiamma pur riscuotendo ben poco successo e imprecò, proprio com’era solito fare Glorfindel. Doveva sterilizzare la ferita o l’infezione non si sarebbe arrestata.
    Tastò tra le vesti di lui, cercando nelle tasche nascoste qualcosa che potesse tornarle utile. Finché le sue dita infreddolite non incontrarono una consistenza insolita, all’altezza della cinta del Re: un sacchettino di morbida tela scura.
    Sillen lo studiò velocemente, lanciando uno sguardo sospettoso verso quell’altra. Era ancora immobile, intenta a osservarla, silenziosa e sinistra come la personificazione stessa della paura. Tuttavia, il suo comportamento era diverso dal solito, estraneo. Pareva quasi avesse sorvegliato l’elfo, in tutto quel tempo. Ad ogni modo, se avesse voluto far loro del male, pensò la stella, l’avrebbe già fatto.
    Il sacchettino del Re conteneva un’erba scura e profumata, simile all’athelas, e una piccola scintilla di speranza animò la stella. Non poté fare altro che tentare e prese a masticare le foglie con cura, come aveva visto fare a Galion durante la battaglia. Lasciò che l’erba agisse il più possibile nella ferita, tamponando il viso dell’elfo con un lembo di stoffa.
    Incredibilmente, l’emorragia si arrestò in breve tempo e persino la pelle attorno alla ferità cominciò a sembrare meno livida. Sillen fissò quel rapido e miracoloso cambiamento, gli occhi sgranati dalla sorpresa.
    Poi ricordò: aveva già sentito il profumo di quell’erba. Rivide Thranduil nella sua stanza, a Minas Tirith, intento a medicarla e non riuscì a trattenere oltre le lacrime: -Sei uno stupido. Un vero stupido, Thranduil.- Pianse, stringendogli la mano e portandosela al petto. Riversò fuori di sé tutta la paura, l’angoscia e la stanchezza, esasperata.
    Voleva solo tornare a casa con l’elfo che amava, al sicuro, nelle incantevoli sale del Reame Boscoso.
    Nel silenzio, solo gli occhi luminosi di quell’altra disturbavano il suo momento di intimo sfogo. Almeno, così pensava.
    -Che sentimentale. Il mondo non è cambiato, nemmeno dopo Tre Ere.-
    Sillen s’irrigidì di colpo, udendo quelle parole. Si voltò di scatto verso quell’altra, convinta che fosse stata lei a parlare.
    Invece, non incontrò il suo sguardo di luce: ella fissava il buio oltre le rocce della sponda, tesa.
    -Mi era parso di sentire una puzza familiare.-
    Ancora una volta, la voce estranea serpeggiò tra le rocce e la ghiaia, fendendo il vuoto come lo schiocco di una frusta. E altrettanto sferzante fu l’ironia che tinse il suo tono: -Credevo di essere abbastanza fortunato da non rivedere mai più una stella in vita mia.-
    Sillen si tirò in piedi, all’erta: -C-chi c’è?!-
    -Ho preferito passare secoli in questo lugubre posto, piuttosto che sopportare la presenza di voialtre ed ecco che me ne cade una dal cielo.-
    Quella voce non era comparabile a nulla che Sillen avesse mai udito. Sembrava alta e chiara, eppure non produceva eco. Indefinita, senza caratteristiche descrivibili o sesso, sfiorava la mente prima che l’orecchio potesse udirla. E, nonostante tutto, era estremamente espressiva.
    -Fatti vedere!- Esclamò la stella, scrutando nel buio. -Mi è un po’ difficile. Sai com’è, non ho estremità utili allo scopo di camminare.- Sillen aggrottò le sopracciglia, sospettosa.
    Doveva scoprire a chi diamine appartenesse quella voce ma non voleva lasciare il fianco dell'elfo.
    Suo malgrado, tornò a rivolgersi a quell’altra, come a capire quale azione fosse meglio intraprendere. Questa rimase immobile, fissando il buio: a quanto pareva, lei aveva già individuato la fonte di quella voce ma non sembrava aver voglia di andare a controllare da sé.
    Con un respiro profondo, Sillen tirò fuori il pugnale dallo stivale, stringendolo decisa. S’incamminò nella direzione dello sguardo di quell’altra e soppresse un brivido quando si ritrovò a superarla. Ancora una volta, ella non si mosse, per nulla intenzionata ad abbandonare il suo ruolo di spettatrice.
    Lontana dalla luce del fuoco, Sillen cominciò ad abituarsi all’oscurità, distinguendo le forme attorno a lei. E si accorse di un bagliore tra esse. -Mostrati e dimmi il tuo nome!- Balzò, fingendosi più sicura di quanto non fosse.
    Tuttavia, si arrestò all’istante, trattenendo di colpo il respiro: non era una persona, era un’alabarda. La stella ne aveva viste tante, nelle armerie e nei campi di allenamento, ma nulla che potesse paragonarsi a quell’enorme arma dall’aspetto inverosimile. Era rivolta al contrario, le lame verso il basso, come fosse caduta dall’alto per poi rimanere maldestramente conficcata nella pietra. L’asta era spessa e liscia, di un materiale sconosciuto e scuro come l’onice, interamente solcato da spirali di mithril purissimo.
    Sillen ne percorse la lunghezza con lo sguardo, la bocca schiusa per la sorpresa: l’estremità finale pareva appuntita e terribilmente affilata e dal lato opposto, impiantata nella roccia quasi vi si fosse fusa, brillava la testa dell’arma. La punta dell’asta era lunga e sottile come il fuso di un arcolaio e le due lame opposte, simili a quelle di un’immensa ascia, si profilavano con curve tanto micidiali quanto eleganti e manieriste. Ed era più alta della stella di quasi due teste.
    Sillen la fissò con sgomento, incredula e cominciò a realizzare.
    Quell’alabarda brillava debolmente ma emanava un’aura tanto potente da sovrastare qualsiasi altra energia attorno. Immersa dentro essa come in una bolla densa, la stella nemmeno se n’era resa conto: -L’Alfiere del Cielo…- Sussurrò, la gola secca.
    Dunque, ciò che le stelle avevano forgiato per distruggere le catene di Morgoth e liberare l’astro del Sole altro non era che un’alabarda!
    Cadendo nel lago sotterraneo, l’avevano finalmente trovata.
    -E tu sei la Stella dei Valar. Ti hanno mai detto che fissare è scortese?- Ribatté l’Alfiere, riscuotendo la giovane dalla sua contemplazione. -C-come?-
    -Oh, cielo. Ne hanno mandata una sorda. Quasi non mi sorprende.- Sillen aprì la bocca, sconvolta. L’Alfiere aveva una sua… coscienza. Di sicuro aveva un certo personalino. Ed era stato lui a parlarle, prima.
    Sillen sentì il proprio animo agitarsi, così vicino all’arma divina. Le parve di conoscerla da sempre, come l’avesse già incontrata in un vecchio sogno, o in un sogno nel sogno. E il pizzicore sulla sua nuca era ormai diventato un vero e proprio dolore pulsante.
    La presenza che la chiamava da Ovest, dunque, era sempre stata l’alabarda divina.
    Allungò una mano, cercando di sfiorare quella superficie sconvolgente ma la voce dell’Alfiere la fermò: -Fossi in te non lo farei. Ti ucciderei ancor prima che le tue dita mi tocchino.- La stella si tirò indietro, spaventata. Avvertiva il potere soverchiante dell’alabarda ma pareva quasi… soffocato nella pietra. Dava l’impressione che, una volta estratta da essa, l’arma potesse esplodere.
    -Sono Sillen.- Si presentò lei, senza avere alcuna idea su cos’altro dire. L’Alfiere del Cielo brillò leggermente, mentre una familiare luce bianca danzava su e giù in tutta la sua lunghezza:
-Sì, ci ero arrivato da solo.- Sillen balbettò: -M-mi conosci?-
    -Perché sei qui? Non hai una mitica battaglia da combattere, lassù in superficie?- Tagliò corto, l’arma. Sillen strinse le labbra, raddrizzando le spalle: -Non è andata secondo i piani.- Ammise.
    L’alabarda tacque per un po’, poi sembrò tremare lievemente. Stava ridendo? -Vedo. Il tuo amante è ferito e tu… Tu ti sei separata dal tuo potere.- L’altra strinse automaticamente il ciondolo viola, intuendo cosa l’arma avesse scorto: -L’ho perduto per salvare una vita.-
    -Perduto… Se la metti così.- Sillen si irrigidì, sondando quelle parole sprezzanti e intrise di sarcasmo. Quel tono la faceva sentire una stupida, un’ingenua bambina: -So che ci sono degli equilibri che non possono essere intaccati. Una vita in cambio del mio potere. Così doveva andare e così è andata.-
    -Come sei saggia.-
    -C’è qualcosa che mi sfugge?- Sibilò lei, tra i denti, oltremodo spazientita. L’Alfiere brillò debolmente, espressivo persino senza possedere espressione: -Puoi dirlo forte. Per esempio, ti ricordo che sei una stella, come tutte le altre tue sorelle nate da Elentári. Non è così facile far sparire per sempre un potere come il tuo. Soprattutto per un’insulsa vita mortale, figuriamoci.-
    La giovane ridusse gli occhi a due fessure: -Come sai che stiamo combattendo una battaglia? E io non ho mai detto che la vita che ho salvato è mortale.- Si mise sulla difensiva, stringendo il pugnale pur apparendo estremamente ridicola, difronte a quell’immensa arma.
    Questa, infatti, non si lasciò nemmeno scalfire: -Conosco ogni cosa che accade nella Terra di Mezzo, poiché tutto riverbera nel suolo ed io ne assorbo ogni più piccolo movimento. Saprei dirti quanti cadaveri marciano verso Gondor, quanti pesci sguazzano nel Brandivino e quante foglie si posano sulla terra bruna di Eryn Lasgalen.- Esordì, tronfio ed altezzoso.
    Sillen sgranò gli occhi, interiorizzando quella rivelazione. Quindi, l’Alfiere sapeva anche perché lei e i suoi compagni si trovavano lì, stava solo bluffando. E si era tradito.
    -Sai tante cose sul mio potere.-
    -Ovviamente. So della profezia, della battaglia, dei tuoi amici alleati e persino del tuo amato elfo.- Lei si avvolse le braccia attorno al corpo, come se temesse che l’Alfiere riuscisse addirittura a leggerle l’animo: -E sai della natura delle stelle, coloro che ti hanno creato.- Con quelle parole, Sillen sapeva di ergersi impudentemente sopra di lui, come creatura appartenente a quella stirpe senza la quale l’Alfiere stesso non avrebbe mai visto la luce.
    Come si aspettava, la cosa non piacque affatto all’arma divina, che tintinnò contro la roccia: -Come quelle che ho disprezzato e dalle quali sono fuggito.- Sillen distolse lo sguardo, cercando di moderare la propria arroganza.
    Ricordava bene la storia raccontata dai suoi compagni ma non aveva compreso che fosse un odio profondo a legare l’alabarda alle stelle: -Credevo che il tuo risentimento fosse rivolto all’astro della Luna, colui che non volle più brandirti.- Osservò la luce dell’Alfiere farsi più scura, quasi livida: -Non vedo perché dovrei portare avanti questa conversazione con te.-
    -Non ti sei sentito solo, durante queste lunghe Ere?- Cambiare argomento era più saggio che provocare l’arma, pensò Sillen.
    Sarebbe arrivata al punto percorrendo un’altra strada.
    -No. Il passare del tempo è relativo, per me.-
    -Perché non hai mai cercato di uscire da qui?-
    -Per fare cosa? Vendicarmi? Non m’interessa, preferisco guardare il mondo sgretolarsi da solo senza bisogno del mio aiuto.-
    -Credi saresti… malvagio?- A quella domanda, l’alabarda si zittì.
    Parve pensarci su per un po’, come a misurare ogni virgola della propria risposta: -No.- Dichiarò, infine: -Credo sarebbe spinto alla malvagità chi tenti di utilizzare il mio potere. Ma io sono un’arma e come tale non rispondo delle azioni che il mio portatore compie attraverso me. Piuttosto, se dovessi agire di mia iniziativa, non ci penserei due volte a spazzare via quelle deboli e patetiche stelle che non sono state capaci nemmeno di distruggermi.-
    Sillen sentì il proprio cuore mancare un battito. Ecco il rimorso che divorava la luce dell’Alfiere del Cielo: non era solo contrariato dalla debolezza di Tilion ma odiava le stelle perché esse lo avevano abbandonato a sé stesso, nonostante fosse una loro creazione. Una loro responsabilità.
    -Posso persino dire di capirlo.- Mormorò, stringendo il ciondolo in mithril.
    Rimasero entrambi in silenzio, quasi rispettando i sentimenti silenziosi che stavano condividendo. Quello era un mondo dalle regole davvero ingiuste, pensò lei.
    Tuttavia, sapeva che l’Alfiere non avrebbe retto il gioco ancora per molto e lei doveva sbrigarsi a portare a termine il compito per cui aveva intrapreso quel viaggio o Thranduil non avrebbe ricevuto le cure di cui aveva bisogno.
    -Alfiere del Cielo, io sono una stella. Non ero ancora nata quando le mie sorelle ti hanno abbandonato ma ora sono qui, per scusarmi a nome di tutte loro. E ti chiedo di aiutarci.- Si avvicinò di un passo, decisa e sincera. Ma la voce sprezzante dell’arma la colpì come uno schiaffo in pieno viso: -Sì, certo. Che pensiero gentile.-
    -Ti prego, ascoltami! Pallando usa i frammenti del Palantir e noi non sappiamo come-
    -E tu credevi che, chiedendomelo per favore, mi sarei immolato per la tua bella causa? No, grazie, Stella dei Valar.-
    Sillen rimase con le mani a mezz’aria, incredula. -T-tu hai liberato Arien dalle catene di Melkor, quel giorno!- L’Alfiere sfrigolò, come fa la pancetta sulla padella ardente: -Non ricordarmelo.- La rimbeccò, seccamente.
    La stella indicò la superficie, senza lasciarsi intimorire: -Oggi come allora, il Male avanza e si comporterà in modo ingiusto e sbagliato, ferendo gli innocenti!-
    -Non mi sono preoccupato di mali ben peggiori del tuo, credimi. E comunque la Terra di Mezzo è ancora tutta intera. O pressappoco.-[1] La prese in giro lui, ironico.
    -Hai liberato il Sole, è stato un atto di Giustizia! Non è per questo che sei stato creato? Perché rimani indifferente, adesso?!-
    -Proprio tu mi chiedi perché?- La zittì l’Alfiere, alzando il tono della sua innaturale voce. Sillen fece un passo indietro, instabile sotto quell’energia in fermento. -Io non ho chiesto di essere creato. E guarda caso nessuno mi ha domandato cosa ne pensassi, prima di darmi un preciso compito. Oh, ma tu lo sai, hai detto. Sai cosa si prova. Allora alza i tacchi ed esci da queste Miniere, va’ a morire nel modo che ritieni più giusto ma lasciami in pace. Dannati i Nani e le loro gallerie, e dannato quello Stregone Bianco e la sua lingua lunga. Stavo così bene da solo.-
    La stella sentì la rabbia montarle nel petto. Lui aveva ragione, lei sapeva bene cosa volesse dire nascere per perseguire un unico ed inevitabile destino: -Ma io sono arrivata sino a qui, nonostante tutto. E non ho intenzione di rinunciare.- Tremò, stringendo i pugni e fissando gli occhi d’ametista sull’onice lucida dell’Alfiere.
    -Sei più testarda di quell’Istar tutto pulito. Anche se finirai per andartene a mani vuote come lui.-
-Tu mi hai chiamata! Non negarlo, ti ho sentito, nella mia testa! Come vorresti spiegare questo legame che ci unisce?- Tentò, sperando che quel singolare senso di familiarità avesse avvolto anche l’arma.
    -Non ho fatto niente del genere.- E quel tono aveva tutta l’aria di essere una menzogna bella e buona.
    -Io sono destinata a te, perché non lo vuoi ammettere?-
    -Buon per te, sai quanto m’interessa.-
    Prima che Sillen potesse ribattere ancora, l’Alfiere parve perdere la pazienza: -Dimentichi che io so già tutto di te, Sillen. Anche se mi fossi simpatica, stupida ragazzina, ora come ora non sei in grado di gestire te stessa. Come diamine credi di poter reggere il confronto con il mio potere?-
    -So di non esserne degna. Glorfindel ti brandirà!- L’alabarda tremò ancora, in quella sua strana risata: -Già, il Vanyar fuori controllo. Forse lui potrebbe estrarmi ma dubito fortemente che resisterebbe alla mia energia. Lo consumerei nell’oscurità del suo stesso animo prima ancora di giungere a Gondor.-
    Il suo tono irriverente lasciò la stella ancor più furiosa ed esasperata. -Cosa devo fare, allora?- Chiese, il tono supplice maldestramente celato dietro una maschera di stizza. L’arma divina nemmeno ci fece caso: -Non è un mio problema. Prendi i tuoi amici, il tuo Re elfico e vattene. Non sono precipitato su questa Terra per fare da balia a un gruppetto di poveri imbecilli, tutti contenti di combattere per quei simpatici Valar che tanto amano. Se non vuoi che vi disintegri qui, vedi di sbrigarti.-
    -Non me ne andrò!-
    -Quanta… arroganza!- Le inveì contro, la voce esasperata dell’arma. Sillen si coprì le orecchie, scossa da brividi gelidi, ma non accennò ad indietreggiare.
    -Guardati. Non sei diversa da tutte le altre stupide cocciute stelle. Persino dopo una separazione non ti rassegni!-
    -S-separazione?- Balbettò lei, aggrottando le sopracciglia.
    L’Alfiere baluginò lievemente, illuminando un po’ di più quello scarno spazio tra le rocce: -Lascia perdere.-
    -Cosa intendi per separazione?- Insistette Sillen, con l’acuta sensazione di aver appena scoperto qualcosa di fondamentale.
    L’alabarda rimase qualche secondo in silenzio, come se stesse riflettendo: -Sono quasi tentato di lasciarti nell’ignoranza… Nella tua immensa intelligenza, non ti sei mai chiesta chi diamine sia quella cosa che ti segue?- Sillen si voltò quel tanto che bastava per notare la presenza di quell’altra, poco lontano da loro. Sentì il proprio cervello scricchiolare, nel tentativo di capire.
    Lei si era separata?… Si era separata dal suo potere. Separata.
    Sgranò gli occhi, avvertendo il peso di quella scoperta schiacciarla. Stupida, pensò. Non poteva essere più ovvio: la forza sovrumana, gli occhi di luce. 
    Quell’altra era il suo stesso potere.
    -Ha cercato di uccidermi.- Farfugliò, portandosi una mano alla testa, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quello impassibile di quell’altra. L’Alfiere del Cielo parve quasi sbuffare: -Beh anche se fosse, credi non avesse le sue buone ragioni, Stella dei Valar? Hai posto dei singoli individui al di sopra del tuo compito, del tuo destino. Dunque, il tuo potere divino si è trovato in difficoltà, diviso tra ciò per cui era nato e i tuoi stessi sentimenti.-
    Sillen scosse la testa, incredula, ma le parole dell’arma acquistavano consistenza, dentro di lei.
    -Il tuo potere è legato intrinsecamente al tuo destino. Rifiutandolo, hai rifiutato anche il compito che ti è stato assegnato, ciò per cui sei venuta al mondo. Così, il tuo potere tradito ha generato in sé odio e rancore.- Le rinfacciò l’alabarda, con tono grave.
    Sillen si appoggiò alla parete di pietra, instabile sulle gambe ormai tremanti. Ricordò quella notte, sulle mura di Minas Tirith, e le parole che aveva pronunciato le riverberarono nella mente: “Io non ti voglio e mai più ti vorrò, uccidimi pure ma salvalo! Se non lo salvi sarò io ad ucciderti, lo giuro!” Era ancora una volta colpa sua?
    Strinse i pugni, respirando a fondo: quella cosa aveva tentato di ucciderla più volte e c’era quasi riuscita. Ci sarebbe riuscita, anzi, se non fosse stato per l’intervento dei suoi compagni. Come poteva essere parte di lei?
    Il vuoto dentro il suo corpo risuonava sordo, assorbendo quell’informazione assurda. -Io non lo sapevo…- Mormorò, distrutta. Quell’altra rimase immobile a fissarla, come sempre, indifferente ad ogni sua parola.
    -Se il tuo potere ha tentato di ucciderti, è perché non puoi esistere senza esso. Mi sembra logico. Ed equo.- Concluse, piccato, l’Alfiere del Cielo.
    Sillen sentì le forze abbandonarla e credette di svenire. Si appoggiò alla parete dietro di sé, stringendosi le braccia attorno al corpo come per impedirgli di cadere in pezzi.
    Com’era potuto accadere tutto questo?
    L’Alfiere aveva negato loro il suo aiuto, come aveva fatto con Gandalf trent’anni prima. E se l’Istar non era riuscito a imporsi, chi di loro avrebbe potuto? Cosa poteva fare lei, ridotta in quel modo? Con una parte di sé lì accanto, pronta a ucciderla?
    Il suo sguardo si posò sull’elfo ancora steso sulla riva, inerme. Per cosa aveva combattuto, sino a quel momento? Non per lei, non per il suo ambizioso potere. Aveva combattuto per coloro che amava. Se doveva morire, allora voleva scegliere lei come.
    E, di sicuro, non sarebbe stato in modo tanto ridicolo.
    Tirò un pugno violento contro la roccia, lasciandosi ad un urlo di frustrazione. L’Alfiere tremò nel suo nascondiglio, turbato:
-Sillen, ascoltami.-
    -No!- Gridò lei. -Ascolta tu! Sono stanca di sentirmi dire cosa posso o non posso fare, io devo tornare a Minas Tirith! E NON LO FARÒ A MANI VUOTE!- Si lanciò sull’alabarda, furente e determinata ma la voce di questa la bloccò, quasi terrorizzata:
-FERMA, stai facendo proprio quello che i Valar desiderano, stupida!-
    Sillen arrestò il suo slancio, distendendo il viso in un’espressione sorpresa. L’Alfiere quasi sospirò di sollievo: -È la profezia.- La stella strinse i denti, impaziente: -Spiegati.-
-Non capisci? Io sto cercando di lasciarti libera, ragazzina!-
-Allora spiegami cosa sta succedendo e permettimi di capire!- Lo aggredì, nonostante il suo corpo vuoto dolesse terribilmente, dinanzi all’energia dell’arma.
    Questa parlò con tono quasi forzato: -Dovrai affrontare una prova per vincere il Male. E se vincerai e porterai la Pace, dovrai pagare un caro prezzo.- Sillen inclinò la testa: -Lo so bene. Cos’ha a che fare con te?-
    -Perché sentivi la mia voce? Perché sei caduta in questo lago? Perché sei stata tu a trovarmi?- Sillen lanciò uno sguardo al Re degli Elfi: -Thranduil è stato ferito. Credevo fosse lui il prezzo da pagare per portare la Pace… in qualche modo.- L’Alfiere brillò, attirando nuovamente su di sé la sua attenzione: -I Valar non hanno influenza sul destino delle creature viventi, poiché esse possiedono il libero arbitrio. Non potevano sapere che l’elfo si sarebbe sacrificato per te. No, la profezia è chiara e non si può raggirare: sarai tu stessa a pagare il prezzo, Sillen.-
    Lei lo fissò, senza capire: -C-come?-
    -Il tuo potere ha smesso di attaccarti, da quando sei qui. Non è forse vero?- Sillen annuì, attenta. -Non aspetta altro che tu scelga di brandirmi. Così, lo riassorbirai nuovamente, tornerai a realizzare la profezia, e con essa il destino che vi è… che ti è stato imposto.- Le rivelò, tristemente.
    Lei lasciò cadere a terra il pugnale, che aveva stretto tanto da ferirsi i palmi: -In che modo?-
    -Se mi brandirai, assorbirai tutto il mio potere e diventeremo un’unica entità. Sono creato per questo, per servire gli astri e le stelle. Nessun altro essere può farlo, per questo sappiamo che entrambi eravamo destinati ad incontrarci. Per questo mi sei familiare quanto io lo sono a te. Ma questa tua scelta, comporterebbe la tua inadeguatezza a rimanere nella Terra di Mezzo.- Sillen annuì, comprendendo quella motivazione: -Perché Bene e Male devono essere in equilibrio.-
    -Un Bene troppo grande, porterà un Male altrettanto grande. Per proteggere gli abitanti di questo mondo, dovremo tornare nel firmamento, senza poter fare ritorno. Esiliati per l’eternità.-
    La stella sentì gli occhi riempirsi di lacrime: -Perché mi dici queste cose?-
    -Perché né io né te vogliamo rispettare il volere altrui. I Valar hanno sottovalutato il nostro libero arbitrio. Sai di avere tanto da perdere.- La sua luce sfiorò il corpo del Re degli Elfi, come per dimostrarle la verità insita nelle sue parole. -Quindi, ora sai. Compi la tua scelta, Stella dei Valar. Puoi fonderti con il tuo potere, estrarmi e tornare ad essere chi sei destinata ad essere, per vincere la guerra ed eliminare il Male. Oppure, puoi scegliere di combattere la tua nemesi, tornare a Minas Tirith con l’elfo che ami, da umana, e plasmare il tuo futuro… Lasciare che la storia compia il suo corso da sola, senza alcun destino scritto, fino al momento in cui la morte verrà a prenderti. Tutto ciò che dobbiamo decidere è cosa fare col tempo che ci viene dato.-[2]
    Sillen interiorizzò quelle parole, cauta.
    Era arrabbiata, così arrabbiata. Come potevano i Valar averla creata con il semplice scopo di compiere quell’impresa, sapendo che il suo destino l’avrebbe costretta ad abbandonare chi amava?
    Se erano così buoni e magnanimi, come potevano farle così male? Forse, sarebbe stato meglio non provare alcun sentimento. L’avevano creata male. Avevano sbagliato.
    E adesso, lei sapeva che scelta compiere.
    Guardò l’Alfiere del Cielo e, solennemente, s’inchinò: -Grazie, compagno. Le mie sorelle sono state ingiuste con te. Non meritano il tuo perdono.- Non aggiunse altro, poiché sapeva di compiere il volere di entrambi, adesso.
    Con un respiro profondo, diede le spalle all’Alfiere del Cielo, allontanandosi dalla sua familiare luce.

    Quando fu vicina al fuoco, Sillen abbassò lo sguardo sull’elfo che amava, lasciando che la consapevolezza di ciò che aveva appena compiuto l’assalisse: -Perdonami, Thranduil.- Affondò le dita nei capelli e li tirò indietro, fissando il vuoto e il buio con il crescente peso della libertà a stritolarle lo stomaco.
    Pensò a tutti i suoi amici, ad Elessar, a Legolas, alla Principessa Miniel e mai come in quell’istante comprese quanto il suo fallimento fosse grave. Ma la sensazione di tornare a respirare come dopo una lunga apnea le dava ancora le vertigini.
    Era libera. Poteva rimanere con lui, con loro.
    Avrebbe indossato la sua armatura e avrebbero combattuto con gli Uomini liberi di Gondor, con tutti gli orgogliosi popoli pronti a morire per la loro Terra.
    Sarebbe vissuta da donna libera. O morta, da donna libera.
    Avrebbe scelto lei. Sorrise, portandosi le mani sul cuore.
    Fu solo per caso, lasciando vagare lo sguardo offuscato dalle lacrime, che Sillen si rese conto che quell’altra non era più al suo posto. Confusa, la stella volse la testa da una parte all’altra, sperando di non vederla mai più: -Ma dove-
    Prima che potesse rendersene conto, sentì il proprio corpo volare all’indietro e un dolore lancinante le trafisse lo stomaco. Cadde di schiena nella ghiaia, parecchi piedi lontana dal fuoco.
    Si girò a fatica su un lato, scossa dai conati e si ritrovò a vomitare sangue. Nemmeno ebbe il tempo di chiedersi cosa fosse accaduto che un altro colpo la investì, questa volta un calcio dritto all’addome. Rotolò malamente, finendo per sbattere contro un grosso masso nero. Sentì le ossa scricchiolare, il collo dolere per il contraccolpo. Provò a muoversi ma un peso la bloccò al suolo, salendo cavalcioni su di lei.
    Sillen sentì ogni fibra del proprio corpo tremare quando quell’altra le strattonò i capelli, avvicinando il proprio viso al suo: -Sono la tua maledizione. A causa del tuo fallimento, sarai dannata per l’eternità e porterai dolore e morte sul tuo cammino. Hai vissuto maledetta. E sarai maledetta per sempre.-
    La giovane ascoltò quelle parole, quelle stesse parole che aveva udito ancor prima di svegliarsi, dopo la caduta. Quelle stesse parole che l’avevano accompagnata per tutta la sua breve vita. La stessa voce distorta che aveva udito nella sua testa per tante volte e che, adesso, la stava condannando.
    Lo aveva già visto, questo momento.
    Non aveva capito, allora. Ma adesso, era tutto più chiaro.
    E si sentì sollevata.
    Fissò gli occhi di luce del suo doppione e, forse a causa del dolore o della confusione, l’unica cosa che riuscì a pensare fu: “Perdonami, Stella dei Valar”. Poi quell’altra le lasciò i capelli e, con impietosa decisione, le assestò un pugno in pieno viso.
    Sillen sentì le ossa del naso scricchiolare pericolosamente e vide il sangue sporcare le nocche di ferro dell’altra. Un altro colpo granitico e fu il turno dello zigomo. Ancora, e questa volta furono le labbra a spaccarsi, bruciando come il fuoco. E poi ancora, ancora. Il tempo era scandito solo dal debole crepitare del fuoco e dal terribile suono dei tonfi che colpiscono la ghiaia sottostante, senza che né la vittima, né la carnefice emettessero un singolo singulto. 
    Quell’altra si fermò solo quando il viso tumefatto di Sillen fu ridotto ad una maschera di sangue brillante. La giovane respirava a fatica, mentre il dolore insopportabile le stordiva i sensi. Aspettò che i suoi occhi si riaprissero, nonostante il sangue e le ferite, senza fretta.
    Ora sapeva cosa fare, non aveva più paura.
    Fissò quell’altra con espressione grave e rantolò: -Ora conosco la verità. E non esistono scuse per quello che ti ho fatto. Ma se tu sei stata parte di me, sai che non rimpiango una singola azione.
    Quell’altra distolse lo sguardo, per la prima volta da quando aveva coscienza fuori dal corpo della stella. Sillen si fermò solo per sputare sangue: -Mi dispiace, per ciò che ti è accaduto. Questa maledizione è tanto mia quanto tua, ora riesco capirlo. Scusami, se non ti sono stata vicina.-
    L’altra parve tremare, sopra di lei, come se quelle parole l’avessero colpita in pieno viso al pari dei suoi pugni sul volto di Sillen. Tuttavia, la stella continuò, ferma e sicura: -Se vorrai uccidermi, combatterò contro di te. Non ho paura di morire, dovresti saperlo. In caso contrario, puoi andare dove preferisci, adesso. Io non impugnerò comunque l’Alfiere del Cielo, poiché rispetto la sua libera scelta. E la mia.- Annunciò, solenne.
    -Anche se non potrai perseguire il nostro destino, ti auguro di trovare un posto nel mondo e forse, un giorno, esisterà qualcuno pronto ad accoglierti come io non ho saputo fare.- Detto ciò, lanciò uno sguardo all’Alfiere del Cielo e, per l’ultima volta, cercò gli occhi di luce che un tempo le appartenevano: -Grazie per tutto.- 
    Quell’altra rimase immobile per un po’, come a decidere cosa fare. Poi, con lentezza quasi abbattuta, si alzò e le diede le spalle. Andò a sedersi sulla pietra fredda, poco distante dall’Alfiere del Cielo: il suo corpo cominciò ad aderire alla roccia fino a che non ne fu quasi del tutto inglobato. Solo il suo viso affiorava, come un rilievo estremamente realistico.
    Infine, ella chiuse gli occhi di luce, addormentandosi per sempre nelle profondità della terra. In attesa.
    Sillen lasciò che la consapevolezza di ciò che era appena accaduto la riempisse come un’onda benefica, respirando a fondo.
    Era tutto finito, finalmente. Un pezzo di sé se n’era andato ma non si era mai sentita tanto leggera.
    Si alzò a fatica, tamponando il sangue che le gocciolava dalla bocca, dal naso, dalle sopracciglia. Si trascinò fino al lago e si pulì a lungo, lavando via tutto. Tutto quanto. Forse aveva bisogno di qualche punto di sutura ma non erano ferite mortali. Doveva solo farsi rimettere a posto le ossa del naso, forse, anche se non era in grado di capire come e dove fosse rotto.
    Tornò al fianco di Thranduil, ravvivando il piccolo fuoco. La pianta medicinale aveva ormai perso le sue proprietà ma la ferita era migliorata moltissimo e Sillen poté bendarla senza aver bisogno di cauterizzarla. Raccolse un po’ d’acqua, bevendo avidamente e tentando di darne un po’ anche all’elfo.
    Sfinita, stravolta, dolorante e confusa, la stella cominciò a vacillare. Aveva un sonno tremendo, aveva fame e il piccolo fuoco non riscaldava quanto avrebbe voluto. Non le rimase altro da fare che attendere il risveglio del Re degli Elfi, pronta a tornare a Minas Tirith.


 
**

    Thranduil si portò una mano al ventre, contraendo i muscoli del viso in una smorfia di stizza e dolore. Tastò la fasciatura, tendendo l’udito fine: sentiva il lieve andirivieni dell’acqua, il gocciolare della condensa sulle rocce e, chiaro e meravigliosamente vicino, il respiro regolare della stella.
    Socchiuse gli occhi, incontrando le lunghe ombre della grotta sotterranea, a malapena illuminate dal debole fuoco che sfrigolava accanto a loro.
    L’ultima cosa che ricordava era il viso sorpreso di Sillen, mentre una lama affondava nel suo corpo fin troppo vicino ai suoi punti vitali. Per fortuna, non era uno sprovveduto alle prime armi.
    Voltò la testa, allungando automaticamente una mano non appena il suo sguardo si posò sulla giovane addormentata, che gli dava le spalle. La familiare sensazione di fresco e sollievo al ventre gli diede la conferma che ella aveva ben saputo come occuparsi di quella ferita, lasciando che la Radice del Sole e il suo sangue elfico facessero il resto.
    Si tirò a sedere, lentamente, accertandosi della propria condizione e Sillen si svegliò all’istante, quasi avesse avvertito quel cambiamento. -Stai bene?- Esclamò, ancor prima di tirarsi a sedere. Il Re annuì, muovendo e flettendo le estremità: -Sto bene.-
    Quando vide la stella in volto però, sgranò gli occhi e lei si affrettò a sollevare le mani, come in un gesto di difesa: -Sto bene anche io! È una storia lunga ma adesso non abbiamo tempo per questo.- Poi aggrottò le sopracciglia doloranti, in un’espressione confusa, tanto che l’elfo si riscosse dalla sua sorpresa: -Sillen?-
    Lei scosse la testa, stringendo le labbra tagliate: -Perdonami, va davvero tutto bene. Solo che il tuo viso era diverso, mentre eri incosciente.- Thranduil storse la bocca, intuendo quanto era accaduto.
    Una delle tante fortune che portava l’essere un Re elfico antico e potente, era proprio saper celare quegli sgradevoli inconvenienti: -Si tratta di vecchie ferite. Di un’altra vita, quasi.- Concluse.
    Lei annuì, avvicinandosi carponi: -Le tieni nascoste con la magia?- Chiese, arrivandogli davanti e controllando per l’ennesima volta che la fasciatura fosse ben fissata. Il Sindar sorrise, osservando le sue mani dorate tremare appena al contatto con la sua pelle d’alabastro: -Più o meno. È una cosa da Elfi.- Sillen lasciò le bende solo per gettargli le braccia al collo.
    Aveva bisogno di raccontargli tutto, di ascoltare le sue opinioni, persino i suoi rimproveri. Ma soprattutto, voleva uscire dalle Miniere e sentire il sole sulla pelle. -Mi hai spaventata.- Mormorò, strofinando il viso innaturalmente gelido sulla sua guancia calda. Thranduil la strinse a sua volta, sospirando. Già, erano stati dannatamente fortunati a cadere in acqua.
    -Thranduil, c’è una cosa che devi sapere.- Dichiarò poi, la stella. Si scostò per guardarlo in viso, cercando i suoi occhi adamantini:
-Ho trovato l’Alfiere del Cielo.- L’elfo schiuse le labbra, interdetto: -Qui?- Lei annuì, torturandosi le dita con gesti nervosi: -E non è tutto. Io-
    -Sapevo che non potevate essere morti!- La voce possente di Thorin III Elminpietra riecheggiò nella grotta, facendoli sobbalzare. -Siete qui!- Esclamò Sillen, voltandosi verso di lui e sentendo il sollievo invaderla quando anche Glorfindel entrò nella grotta.
    -Vi abbiamo cercato dappertutto. L’elfo pervertito ha addirittura buttato giù un paio di gallerie, non so se mi spiego.- Bofonchiò il Re sotto la Montagna, sollevando gli occhi al cielo.
    Era visibilmente esausto, disordinato e ricoperto di terra e melma dalla testa ai piedi ma portava ancora fieramente la propria ascia sulla spalla. -Avete eliminato i Goblin e gli Orchi?- Chiese Sillen, ripensando a quante creature avevano dovuto fronteggiare. -Niente di serio, per noi erano una sciocchezza. Non è vero folletto? ... Folletto?-
    I tre compagni si voltarono verso Glorfindel, che ancora non aveva parlato. Forse nemmeno li aveva ascoltati, perché dava loro le spalle, rivolto verso la lieve luce dell’Alfiere del Cielo.
    Sillen si tirò subito in piedi, nervosa: -Glorfindel. Dobbiamo parlare.-
    -Lo avete trovato.- Sorrise lui, gli occhi incatenati all’alabarda: -È davvero formidabile…- Fece un passo in avanti ma Sillen si costrinse a correre, frapponendosi tra lui e l’arma. Per la prima volta, l’elfo dorato abbassò lo sguardo su di lei e rimase pietrificato: -Che cosa diamine ti è successo?-
    -Se mi ascolterai, te lo dirò. Ma ora vieni via, non puoi stare qui.- Quelle parole infastidirono il Vanyar, che sollevò un sopracciglio: -Che vorresti dire?-
    -L’Alfiere del Cielo non può essere estratto.- Glorfindel sorrise, posandole una mano sulla spalla: -Questo lo deciderò io.- E fece per scansarla, se non fosse stato per la stretta disperata della stella, che accolse la sua mano pallida tra le proprie.
    -Glorfindel, non puoi resistere al suo potere. L’ha detto chiaramente, nessuno oltre agli abitanti del Cielo può brandirlo! Moriresti!- Gli strinse la mano più forte e, subito, l’energia dell’elfo dorato prese ad agitarsi, impedendogli di distogliere lo sguardo dai suoi occhi ametistini: -Lasciami, Sillen. Sono l’ultimo Vanyar rimasto su questa Terra. Sono l’unico che può estrarlo e lo farò.-
    -Devi credermi, finirà per sopraffarti!- Lo pregò lei, supplice.
    Glorfindel contenne a fatica il proprio potere, in procinto di riversarsi nuovamente su di lei quasi vi fosse costretto: -Devo farlo. Devo essere più forte.- Sibilò, strattonando violentemente il braccio per sottrarsi alla sua stretta.
    Sillen perse l’equilibrio e cadde a terra, sgranando gli occhi per la sorpresa. Era la prima volta che Glorfindel la spingeva via.
    La prima volta che la trattava in modo così brusco.
    Stava per accadere qualcosa di molto, molto brutto. L’elfo dorato arrivò davanti all’Alfiere, sorridendo pericolosamente: -Bene, Alfiere del Cielo. A noi due.-
    -Fermati, Vanyar. Nessuno può estrarmi e sperare di rimanere in vita. Perderai te stesso, se oserai toccarmi.- Gli intimò l’arma.
    L’elfo non parve minimamente sorpreso nel sentirlo parlare nella propria mente: -Io non ho intenzione di perdere un’occasione come questa.- Thranduil si tirò in piedi: -Glorfindel, non devi farlo.- Ma l’antico elfo aveva preso una decisione.
    L’aveva presa molto tempo prima di quel momento.
    Con un gesto proprio del più sdegnoso degli dei, afferrò con forza il manico dell’alabarda, frantumando la roccia che la teneva intrappolata.
    Che la teneva sigillata da oltre Tre Ere.
    E una raffica spaventosa di potere divino investì tutti i presenti.
    Glorfindel si trovò invaso dalla forza immensa dell’Alfiere del Cielo, vacillando sulle proprie gambe. Era pesantissimo, bruciava come il sole e lo stava piegando. Ma non aveva intenzione di sottomettersi.
    Nel bel mezzo del vortice, lottò con tutto il suo potere per acquisire il controllo, stringendo la lunga asta con entrambe le mani. Faceva davvero male, dannazione. Pazienza, non poteva fare più male che essere uno stupido burattino dei Valar.
    E, senza ombra di dubbio, era meglio che sopportare la bruciante sconfitta contro il giovane Re Thranduil.
    L’Alfiere del Cielo rise, nelle sue mani, tremando come un essere vivo: -Povero vecchio resuscitato… Ti fa male perdere l’unica cosa che tu abbia mai desiderato. Non è così?- La sconvolgente forza dell’alabarda lo schiacciò più forte, tanto che i piedi dell’elfo finirono per sprofondare nel terreno con un boato violento.
    -Fai silenzio, brutto scarto di ferraglia.- Gemette il Vanyar, pur capendo quanto ancora l’arma potesse accrescere il proprio potere. Non poteva competere.
    -L’hai capito adesso? Il tuo stesso essere si piegherà alla mia aura e tutta la tua luce scomparirà. Non puoi più evitarlo. E non c’è nessuno in grado di salvarti.- Glorfindel spalancò gli occhi, avvolto dal terrore. Sentì l’oscurità della grotta attirare tutti i sentimenti prepotenti e corrotti che gli avevano invaso la mente per troppi secoli: -Resta fuori dalla mia testa!- Soffiò, cercando di respingere l’Alfiere. Ma questo era ormai penetrato troppo in profondità.
    Sillen si riparò il viso con le braccia, urlando per sovrastare il vortice di energie in tempesta: -Glorfindel, lascialo!- Il suono della sua voce scivolò dentro l’elfo come pece infiammabile, tendendolo oltre il sopportabile.
    Non riusciva a contenerlo, a contenersi. Desiderava solo una cosa: voleva eliminare chi lo minacciava tanto impudentemente. Infatti, fissò gli occhi dorati sull’unico individuo che riusciva a vedere chiaramente, il suo unico obbiettivo. -Thranduil…- Sibilò, permettendo all’energia dell’arma di penetrare in ogni suo muscolo, sostituendosi a quella dorata e piena di luce.
    Se solo il Re degli Elfi avesse tenuto la stella nel proprio reame.
    Se solo lui l’avesse nascosta.
    Lo odiava. Lo odiava perché possedeva la stella.
    Perché era libero come lui non sarebbe mai stato.
    Sillen sgranò gli occhi, seguendo il suo sguardo allucinato: -C-cosa vuoi fare, Glorfindel?!- Thranduil si irrigidì, leggendo nello sguardo dell’elfo tutte le emozioni che stava provando. Le assorbì tutte, le comprese una ad una, sino in fondo. E fece male.
    Il Vanyar era rimasto al suo fianco per molto tempo, in passato, e Thranduil, da lui aveva imparato molte cose. Soprattutto, aveva scoperto del suo triste fato: un Vanyar solitario rispedito nella Terra di Mezzo per servire i Re e le Regine che quivi si sarebbero susseguiti. Un essere senza un posto per sé, appartenente a niente. Una vittima di crudeli giochi di potere, tra Bene e Male.
    Glorfindel era spaventato. E solo. Solo da tutta la vita, incompreso, isolato. Persino biasimato. E arrabbiato.
    Esasperato, furioso, affamato.
    Il Re degli Elfi sorrise mestamente davanti allo sguardo vuoto dell’amico, pregno di dolore, esausto: -Non mi farai del male. Dopotutto, sei come un fratello per me.-
    Glorfindel si raddrizzò, come un automa, puntando l’enorme arma verso di lui: -Fai silenzio.-

    Thorin si parò allora difronte all’elfo dorato, incredulo: -Elfo pervertito, che cosa stai facendo!? Dannato, molla quel coso!- Strinse la propria ascia, indeciso su come agire e spaventato dallo sguardo inquietante del compagno.
    Sillen vide l’Alfiere del Cielo brillare intensamente, mentre l’elfo lo puntava implacabile contro Thranduil.
    Fece l’unica cosa possibile: si lanciò su di lui, sull’arma, stringendone l’asta con tutte le sue forze.
    In quello stesso istante, quell’altra spalancò gli occhi di luce, tremando nel suo involucro di pietra. L’Alfiere del Cielo soppresse il proprio attacco, costernato: -Stupida ragazzina! Tu sei umana, morirai!-
    Sillen sentì le spirali di mithril dell’arma bruciarle la pelle dei palmi come ferri incandescenti ma fece forza, le lacrime agli occhi: -GLORFINDEL SMETTILA!- L’elfo ringhiava, troppo sopraffatto per impedire a sé stesso di desiderare di eliminare il proprio avversario. -Tu sei più forte, io lo so!- Gridò lei, cercando di avvicinare le proprie mani alle sue.
    Sperava davvero che l’energia dell’elfo rispondesse di nuovo ma lui parve accorgersene e si spostò quel tanto che bastava per evitarlo: -Non toccarmi! Non ti permetto di controllarmi, è tutta colpa tua!- Le urlò in faccia. Lei non lo lasciò per un solo istante, nonostante ormai avesse la pelle delle mani e delle braccia completamente bruciata, piagata.
    Non riuscì a trattenersi oltre e gridò dal dolore, spingendo Thranduil a lanciarsi verso di loro.
    No, lui doveva stare lontano! -Thorin, fermalo!- Urlò Sillen, spaventata. Il nano riuscì a bloccare l’elfo ferito solo per qualche secondo ma Thranduil non aveva intenzione di rimanere a guardare.
    La stella tremò nel profondo: se Thranduil si fosse avvicinato, sarebbe morto. E lui non poteva morire. Fissò gli occhi di ametista sull’Alfiere del Cielo, stringendo la presa delle dita incenerite: -Io ti brandisco!- Gli fece, parlando solo a lui. L’alabarda fremette: -Non dirlo.-
    Lei cercò il viso pietrificato di quell’altra, che adesso puntava gli occhi verso di loro: -Sei parte di me, lo sei sempre stata. Non puoi lasciare che lui muoia!- La implorò, tra le lacrime.
    Sapeva, per una volta, di non aver bisogno di aggiungere altro. Quell’altra aveva impedito a Thranduil la caduta, fino a che non era stata certa che non vi fosse pericolo. Quell’altra lo aveva vegliato mentre egli era ferito e incosciente. Quell’altra, e ne era totalmente sicura, lo amava tanto quanto lei.
    A Sillen bastò tendere una mano: il suo potere la toccò appena e fluì dentro di lei, combaciando con ogni anfratto della sua anima come il più incredibile e complicato incastro mai creato. In un istante, la pelle ferita della Stella dei Valar si rimarginò, i tagli scomparvero, la stanchezza si dissolse.
    Sillen avvertì il vuoto del suo corpo venire prepotentemente invaso dall’onda in piena, mentre la luce divina delle stelle tornava a riscaldarla. La collana dalla pietra viola brillò con violenza, sollevandosi dal petto forte e vivo della stella e questa, con l’espressione più severa che mai, aprì gli occhi di luce sull’elfo davanti a sé.
    L’Alfiere del Cielo pulsò dolorosamente e Sillen lo strinse e lo tirò via dalle mani dell’elfo dorato, come strappandolo dalle deboli mani di un bambino. Glorfindel cadde all’indietro, cozzando contro il suolo come un manichino senza vita.
    -Alla fine, abbiamo solo perso tempo in chiacchiere, non è così?- Le chiese l’Alfiere, il tono sprezzante ma stranamente tinto da un più lieve sarcasmo. Sillen guardò Glorfindel, poi Thorin III, che accorreva ad accertarsi delle condizioni del compagno.
    Infine, fissò gli occhi di ghiaccio del Re degli Elfi e una lacrima di luce le sfuggì dalle ciglia nere: -Questa è stata una mia scelta.-



 
 
[1] L’Alfiere del Cielo è caduto sulla Terra di Mezzo ancor prima dell’arrivo degli Elfi… diciamo che ne ha davvero viste di peggiori, prima del caro Pallando XD
 
[2] Questa è una citazione del personaggio di Gandalf: la frase su cui ho costruito tutta questa contorta storia sulla libertà di scelta, sull’imposizione sull’altrui volontà e sul desiderio d’indipendenza. <3


N.D.A

Ciao! Arrivo con un poco di ritardo ma ci sono eheh

Capitolo luuuuungo e tosto, anche questa volta come molte altre volte XD

Spero che si sia capito il senso, più che altro ahahaha
La situazione della Stella doveva trovare una sua risoluzione, no? Nel bene e nel male. Insomma, spero solo che sia arrivato il messaggio T^T

Fatemi sapere cosa ne pensate e se avete qualche domanda non esitate a chiedere!!

Vi mando un caloroso abbraccio,
Aleera
 
P.S!!!! Non pubblicherò altri capitoli fino a metà Marzo T-T

Ahimé, la Tesi va finita e ormai manca poco. Devo eliminare il resto e, come dice Deadpool, “facciamolo alla vecchia maniera: con due katana (il mio incredibile pc e la brutta-cattiva bibliografia) e il massimo sforzo.” XD
Ci risentiamo amicii <3

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Capitolo 35
*** Un Teatrale Stratagemma ***




-Un Teatrale Stratagemma-



    Perso, come un pulviscolo nella notte.
    Il buio e il vuoto si erano spalancati su di lui al pari di enormi bocche mostruose, inghiottendolo intero. La sua mente stanca, ormai satura di ricordi indesiderati, vomitava angoscia e disperazione, senza pietà.
    Quel luogo
    L’animo flebile e disincarnato di Glorfindel si rannicchiò su sé stesso, desiderando di non essere mai esistito.
    Non di nuovo, non quel luogo...
    Era sprofondato nell’incubo di secoli prima. Non pensava che, una volta tornato, avrebbe ricordato la prima volta, la sua prima morte. Forse era parte della punizione, ricordare cosa lo aspettasse solo quando, ormai, era inevitabile.
    Il silenzio lo consumava, il vuoto gli urlava nelle orecchie. Solo, abbandonato. Ed ora era troppo tardi per pentirsene.
    Le pareti coperte di arazzi variopinti si stringevano su di lui, sempre più dettagliate, sempre più immense: le Aule di Mandos.[1] Ogni sensazione, pensiero, suono, tutto pareva finire assorbito dalla vastità confusionaria degli Arazzi di Vairë, la Tessitrice,[2] infiniti quanto le Aule del suo sposo. Una dedalica prigione senza via d’uscita.
    Questa volta, nessuno avrebbe concesso al valoroso Glorfindel la possibilità di tornare indietro. Perché, a dirla tutta, questa volta una possibilità non la meritava affatto.
    Tra singhiozzi arrendevoli, l’anima ferita del Vanyar si aggrappò agli ultimi, terribili ricordi della sua seconda vita. Era stato piuttosto inutile, pensò.
    Penoso. Arrogante. Traditore.
    E, adesso, morto.
    Stava per uccidere Thranduil, per l’amor del cielo, lo avrebbe fatto. -Lo avrei ucciso…-
    Realizzare una verità tanto oscura e vergognosa contrasse dolorosamente la sua anima, oramai ridotta a un’ombra sofferente tra le tante.
    Adesso non avrebbe più avuto importanza, per lo meno.
    Presto le altre anime silenziose lo avrebbero trovato, trascinandolo nella lunga processione attraverso le Aule senza fine: -Non posso sopportarlo ancora, non posso.- Ma devo. Me lo merito.
    Non riusciva a soffocare quei pensieri.
    Nemmeno voleva, in realtà.

    Da quanto tempo era lì? Minuti? Mesi? Anni? Non esisteva dimensione terrena in quel luogo, solo attesa.
    E lui attese. Per tantissimo tempo.
    O per pochissimo?


    Un mormorio fumoso, lontano, lo fece rabbrividire.
    Stavano arrivando le altre ombre?
    -Sia. Rivivere questo è pur sempre un destino migliore di quello che mi attendeva da vivo.- Ringhiò, risoluto.
    E sollevato.
    Sì, di un sollievo ristoratore, finalmente.

    A proposito: perché era morto? Oh, i ricordi cominciavano a svanire. Meglio così. Andava bene, dimenticare.

    D’un tratto, la sua ombra rannicchiata tra gli Arazzi sussultò: mezze voci si sovrapposero attorno a lui, questa volta più vicine.
    -Fai in fretta! Non sento il battito.-
    Glorfindel rimase in ascolto, immobile, sconvolto.
    Era una voce così familiare. Ma a chi apparteneva?
    -Mia signora!-
    -Va tutto bene, Thorin. Stai calmo.- Quell’ultima voce decisa, conosciuta, amata, lo attraversò interamente, come i fulmini e le saette incrinano il legno degli alberi, bruciandoli fino alle radici.
    -Adesso lo riporto indietro.-

    Le parole di Sillen lo strattonarono con violenza da tutte le direzioni, come avessero assunto forma fisica per diventare catene possenti. E Glorfindel ricordò tutto, mentre il passato gli scrosciava addosso come un’enorme cascata.
    -No no no!- Si divincolò, lottando contro la forza di quelle catene di fuoco che cercavano di trascinarlo via: -Non voglio tornare indietro!-
    Nei recessi della sua mente, si vergognò di tutta quella codardia; nella realtà, si ribellò con veemenza.
    Ad ogni modo, a nulla servì il suo opporsi: ancora qualche strattone e la sua povera anima si sarebbe rotta in tanti inutili brandelli, ne era certo.
    Il dolore bruciante si diffuse, sempre di più, invadendolo. Stava per spezzarsi?
    La voce di Thorin era vicinissima, adesso:
    -Lo sento, sento il polso! Sillen?-
 
**
 
    La stella continuò a trasferire la propria energia nel corpo rigido dell’elfo dorato, concentrata, senza lasciarsi distrarre dall’agitazione del Re dei Nani davanti a lei.
    -Dannazione, è ancora freddo come la morte.- Esclamò questi, apprensivo. Era successo tutto così in fretta che Thorin a malapena aveva compreso quanto fossero stati in pericolo: nulla era stato più sconcertante che vedere il fulgido elfo dorato cozzare al suolo, i capelli splendenti sparsi tra i ciottoli sporchi.
    Picchiettò sulla sua guancia liscia, chiamandolo con insistenza.
    Il tempo, intanto, scorreva quasi più lentamente, scandito dal tintinnare di numerose gocce che si staccavano dal soffitto umido per rimbalzare sull’acqua piatta del lago.
    Sillen chiuse gli occhi, respirando a fondo: doveva moderare la sua energia o avrebbe di certo incenerito qualcosa, pensò.
    Sentiva ondate di calore salire e scendere dentro di lei, dalle sue ossa sino alla superficie della sua pelle dorata. Aveva cessato di brillare e tremare come una fiamma viva da qualche minuto ma ancora stava cercando di abituarsi all’enorme potere che il suo corpo aveva appena accolto.
    Quell’altra si era impadronita nuovamente del suo legittimo posto, scalzando ogni umana debolezza che la stella aveva imparato a sentire propria. Non riusciva nemmeno ad ammettere a sé stessa quanto si sentisse rinata, viva, in quel momento.
    La gioia che avrebbe potuto provare, però, era minata da tutte le conseguenze che la sua scelta imponeva.
    Era fatta, l’Alfiere aveva avuto ragione sin dall’inizio: avevano solo preso tempo, niente di più.
    Le sue dita affusolate si contrassero sul petto del Vanyar, tradendo una rabbia malcelata.
    Lanciò uno sguardo al Re degli Elfi, ritto in piedi e rigido in maniera preoccupante: -Thranduil, stai bene?-
    Riscosso dalla sua voce limpida e insolitamente dura, il Sindar riprese a respirare: effettivamente, non si era accorto di aver trattenuto il fiato, durante quei lunghi istanti concitati.
    -Sto bene.- E cercò di convincersene, frastornato. Si mosse a fatica, dirigendosi anch’egli verso il Vanyar caduto. S’impose con tutte le sue forze di non rivolgersi alla stella inginocchiata al suo fianco, per non turbarla con il proprio sgomento.
    Per quanto cercasse di non mutare la propria espressione, nella sua mente stava avendo luogo una terribile bufera: Sillen aveva riacquistato i suoi poteri, come? Quando?
    Cosa era appena accaduto?
    E soprattutto, perché lei non stava ancora dando le spiegazioni dovute?
    Controllò le mani dell’elfo, immaginando le terribili bruciature che l’arma divina doveva avergli procurato. Invece, la sua pelle era liscia e intatta, non una ferita deturpava il suo corpo.
    Sillen
    Suo malgrado, il Re degli Elfi lanciò uno sguardo alla giovane, soffocando la propria angoscia come meglio poteva: -Non è ferito.- Per merito tuo.
    Un impercettibile spasmo contrasse la mascella serrata della stella: -Una volta brandito, ho imposto all’Alfiere di restituire a Glorfindel tutta la sua energia e lasciarlo illeso.- Confermò, tagliente. L’alabarda fremette, piantata nel terreno dietro di lei, lì dove la stella l’aveva lasciata per soccorrere l’elfo dorato: -E così ho fatto. Ma ci è mancato poco. Qualche secondo ancora e non saresti più riuscita a rianimarlo.- L’apostrofò, sprezzante.
    Finalmente, il petto di Glorfindel si dilatò in un respiro profondo, come per confermare le parole dell’arma.
    -Ce l’hai fatta, è vivo!- Esclamò Thorin, riprendendo immediatamente colore.
    Le mani curative della stella non abbandonarono il Vanyar, seppur tremanti, e Thranduil si avvicinò ancora un poco, cautamente: lei era arrabbiata, la conosceva abbastanza bene da poterlo dire con assoluta e incontestabile certezza. Lo capiva dalla rigidità del suo corpo, dai tratti tesi del volto e, soprattutto, lo avvertiva nel peso contratto del suo silenzio.
    -Sillen, io- Cominciò, serio, ma la Stella dei Valar si lasciò improvvisamente andare in un’imprecazione colorita, che lo spiazzò: -Perché si è comportato così!? Come ha potuto correre un rischio del genere? Farlo correre a tutti noi!-
    Una lacrima inopportuna le scivolò lungo la guancia e lei si affrettò ad asciugarla, con un gesto secco: -Pensavo fosse tutto finito, credevo di avercela fatta e- Singhiozzò, la voce rabbiosamente spezzata.
    Perché quel dannato Vanyar non aveva voluto ascoltarla?
    Perché aveva agito in modo così stupido?
    Per quale motivo aveva cercato di uccidere Thranduil?
    Sillen non riusciva a capire. Guardando il viso pallido dell’amico, cercava con tutta sé stessa di dare un senso a quell’assurda situazione: voleva delle spiegazioni, era suo diritto sapere perché quell’elfo arrogante l’avesse privata del suo futuro. Ne aveva bisogno.
    Il peso dell’Alfiere del Cielo nelle sue mani, pochi minuti prima, l’aveva sconvolta oltre ogni misura, terribilmente reale: reale quanto il suo destino, inevitabile come il domani. Aveva sentito ogni fibra del suo essere entrare in contatto con il potere devastante dell’arma, in un vincolo che non si sarebbe mai più spezzato, fino alla fine dei tempi.
    Da quel momento, tutte le sue speranze di poter vivere almeno un poco di quella semplice vita mortale che aveva sognato erano volate via come cenere al vento.
    Ce l’aveva quasi fatta. Quasi.
    L’Alfiere del Cielo brillò lievemente dietro di lei, attirando la sua attenzione. Le parlò piano, nella mente, suo malgrado contagiato dalle emozioni della propria padrona: -Sillen, so che sei arrabbiata. Credimi, lo sono quanto te. Ma c’è una cosa che forse devi sapere, prima di trarre le tue conclusioni.- La stella annuì, respirando a fondo per riprendere un contegno, mentre la sua energia fluiva nel corpo dell’elfo come se non vi fosse fine.
    Il giorno prima, forse meno, era accaduto l’esatto contrario.
    Cosa li aveva portati a questo?
    L’alabarda, intanto, parve esitare: -Il Vanyar… non so proprio come dirtelo, mi sento un idiota.-
    -Dillo e basta, non devono esserci segreti tra noi, siamo una cosa sola ormai.- Lo incoraggiò distrattamente lei, concentrata su Glorfindel. Thorin e Thranduil, alle sue parole, si scambiarono uno sguardo confuso, poiché nessuno di loro era in grado di sentire la voce dell’Alfiere, oltre alla stella.
    L’alabarda divina sembrò prendere un grande respiro e sciorinò le parole il più velocemente possibile: -Bene. L’elfo voleva ammazzare il tuo amante per gelosia. Ecco, l’ho detto.-
    Sillen aggrottò le sopracciglia: -Gelosia?- Thranduil, al suo fianco, s’irrigidì all’istante ma la stella non lo notò, intenta a rispondere all’arma con parole dure. -So bene che desiderava brandirti dal momento in cui è venuto a sapere della tua esistenza. Voleva dimostrare la sua forza come il pomposo arrogante qual è, ecco la verità. Ed è quasi morto per questa stupida, infantile motivazione.-
    L’Alfiere frenò le sue elucubrazioni, a disagio: -Ecco, è questo il fatto. In parte hai ragione, certo, ma ad averlo spinto è un sentimento di altro genere. Insomma, è geloso di te e dell’elfo.- Specificò. Lei si specchiò nelle lame affilate dell’alabarda, che le rimandarono il suo sguardo confuso: -Geloso di me?-
    -L’ho provocato, quando era sotto la mia influenza. Lui desiderava il tuo… cielo, non ci credo che sto per dirlo… amore o, in alternativa, desiderava essere più forte, per non doverne essere turbato. E ha miseramente fallito, non serve ricordarlo.-
    La stella, pietrificata, sollevò lentamente lo sguardo sul Re degli Elfi: -Lui voleva diventare più forte per allontanarsi da me?- Comprese, sconvolta.
    Thranduil schiuse le labbra, incapace di dire niente.
    Oh. La stella strinse gli occhi a due fessure lucenti: -Tu lo sapevi.- Sibilò. Dinanzi all’espressione colpevole dell’elfo si sentì ferita, tradita.
    -Sì. L’ho capito quando ho scorto la sua luce dentro di te.- Dichiarò lui, serio.
    -E perché non me lo hai detto allora?-
    L’altro sostenne il suo sguardo inquisitorio: -Non è così semplice. Glorfindel è complesso… delicato. Non volevo affrettare le cose.- Era sincero e la stella lo percepiva chiaramente. Anche se faticava a ritenerla una valida giustificazione per un’omissione tanto grave.
    Strinse le labbra, i pensieri che le vorticavano nella mente:
    -State cercando di dirmi che è quasi morto per questo?- Il suo tono era gelido, come lo stridio di schegge d’acciaio contro la roccia.
    L’alabarda tremò appena, investita dall’improvvisa rabbia della sua padrona: -Ascolta, cerca di non andare in escandescenze. Ci sono cose più importanti che dovrei-
    Glorfindel tossì improvvisamente, in uno spasmo dell’addome, calamitando l’attenzione di tutti i presenti. Aprì gli occhi dorati con lievi fremiti e li rivolse su di loro, lentamente.
    Respirava ancora a stento ma, per lo meno, era sveglio.
    Era vivo. Quella consapevolezza riempì di sollievo i compagni, certi che la natura divina dell’elfo avrebbe affrettato la sua guarigione.
    Glorfindel, invece, impiegò diversi secondi per realizzare dove si trovasse: ed era di nuovo lì, con loro. Non sembrava passato un giorno. Anzi, non era passato un giorno.
    Thorin si sporse verso di lui, entrando nel suo capo visivo con voce tonante: -Maledetto, meno male che sei vivo, così posso ammazzarti io!- E si prodigò in una serie d’insulti che avrebbero fatto invidia al più creativo dei Goblin, la voce calda che tradiva tutta la sua gioia.
    L’elfo mosse le estremità, ignorando il nano come meglio poteva. Dannazione, perché era di nuovo lì con loro?
    Sillen allentò i lacci della camicia dell’elfo, per permettergli di respirare meglio, e ignorò orgogliosamente l’esitazione che fece tremare le sue dita: non era il momento di farsi prendere dalla rabbia, né… da qualsiasi altra cosa stesse provando in quel momento. Fece per raggiungere le loro sacche e prendere le erbe medicinali ma non poté tirarsi in piedi perché, subito, la mano fredda dell’elfo le strinse il polso tanto forte da farlo impallidire.
    La stella alzò lo sguardo su di lui, sforzandosi di restare impassibile mentre sondava i suoi occhi dorati: -Glorfindel.- Lui deglutì, sforzandosi di parlare: -Mi hai svegliato.- Constatò, atono. Lei annuì con finta decisione, sentendo il peso della sua azione gravarle improvvisamente addosso: -Certo che l’ho fatto.-
    L’elfo la guardò a lungo, respirando piano, prima di annuire appena, lasciandole il polso con un gesto esausto: -Certo che lo hai fatto.- Il suo tono freddo e cupo risuonò nella grotta, lugubre, lasciandola frastornata.
    L’elfo dorato spostò lo sguardo sul Re degli Elfi, tirandosi a sedere con una smorfia dolorante. Non disse nient’altro, non ne aveva bisogno: Thranduil aveva già inteso i suoi sentimenti, ne era cosciente, e lo conosceva abbastanza da sapere che non si sarebbe intromesso. E un po’ lo odiò per questo, perché adesso il Re lo costringeva ad affrontare Sillen da solo.
    Uno scontro per cui non era pronto. Una resa dei conti che avrebbe preferito barattare persino con la desolazione delle Aule di Mandos.
    Thranduil ricambiò lo sguardo, una maschera di marmo, leggendo ogni pensiero del Vanyar come fosse proprio: era arrivato il momento, dunque. -Sillen.- La stella si voltò verso di lui, interrogativa. -Devo parlarti.- Leggendo l’urgenza nel suo sguardo, lei si tirò in piedi, seguendolo al limitare della grotta.
    -Tu stai bene?- Chiese il Re, quando furono sufficientemente discosti, affondando nelle iridi nuovamente luminose e vive della giovane. Lei annuì, stendendo i muscoli con movimenti misurati, saggiando la propria forza: -Tutto è tornato come prima. Solo, sono più forte.- Sussurrò, più a sé stessa che al Re.
    Si avvicinò improvvisamente, cogliendo l’elfo di sorpresa. Lui la osservò scostargli le vesti umide e posare una mano incredibilmente calda sulla sua fasciatura improvvisata. Un lieve pizzicore si diffuse nel suo ventre e, in pochi attimi, la recente ferita sparì, senza lasciare una singola cicatrice.
    Prima che l’elfo potesse protestare, Sillen lo zittì, con voce ferma: -È meglio così. Dobbiamo tornare a Gondor e non puoi permetterti di essere ferito.- Aveva ragione, naturalmente.
    Gli occhi del Re la studiarono con attenzione, per catturare ogni differenza. I segni della battaglia erano svaniti dal suo corpo e la sua pelle splendeva come rame colato. Le occhiaie violacee erano scomparse, i capelli s’inanellavano in onde scure lungo la sua schiena.  Persino le sue forme erano tornate piene e vigorose, anziché fragili ed emaciate.
    Sì, non vi era alcun dubbio: la Stella dei Valar era tornata.
    Lei fece un passo indietro ma Thranduil, incapace di separarsi così velocemente da quel contatto, prese le sue mani dorate tra le proprie: -Il tuo potere. Come lo hai riavuto indietro?- Chiese, il più diretto possibile. Lei strinse le labbra, ricambiando il suo sguardo teso: -Ha a che fare con la presenza che mi seguiva. E con l’Alfiere e con Glorfindel e… C’è tanto da raccontare, Thranduil. Ma non adesso.- Sospirò, sforzandosi di non urlare tutto ciò che lui ancora non poteva sapere. Strinse le sue dita forti, cercando di apparire rassicurante: -Devo parlare con lui.- Lo avvertì, limpida. -Sì. Lo so.-
    Con un sospiro, l’elfo posò la fronte su quella di lei, chiudendo gli occhi: -Non sarà pronto ad affrontarti.- La sentì annuire debolmente: -Ma io lo sono. E non ho intenzione di lasciar perdere.- Per nulla rassicurato dalla sua determinazione, il Re posò le labbra sulla tempia calda della giovane: -Be iest lin, Sillen. (come desideri)- Dovette sopprimere ogni emozione per riuscire a lasciarla tornare dal Vanyar.
    Era una creatura saggia, forse più saggia di lui, e doveva solo fidarsi di lei: dopotutto, come la ragione imponeva, lui avrebbe accettato l’esito di quel risolutivo scontro, in ogni caso.
    Un fremito gli attraversò la schiena, gelido, mentre osservava la figura della giovane farsi sempre più distante. In ogni caso?
    Tornò a passi pesanti verso il nano, rivolgendosi a lui con voce forzatamente inespressiva: -Confido tu abbia colto i sottintesi del nostro… diverbio.- Cominciò, altero. Thorin sospirò, strofinandosi la faccia con la grossa mano callosa: -Anche un bambino li avrebbe colti, elfo.-
    -Allora concorderai con me che è il momento di uscire di qui. Ci raggiungeranno.- Tagliò corto, il Re. Non guardò più gli altri due compagni, si limitò a voltarsi in silenzio, sparendo laddove Glorfindel e Thorin erano giunti.
    Quest’ultimo, invece, si attardò solo per lanciare all’elfo e alla stella uno sguardo spazientito, prima di seguire il Re con passo veloce e guadagnare l’uscita. Sperò che i due divini si sbrigassero a far tornare tutto come prima: avevano cose più impellenti di cui occuparsi, al momento.
    Sillen li guardò uscire, tesa ma decisa. Non aveva potuto ignorare la rigidità del Re degli Elfi, né il suo muto dissenso, ma sapeva che avrebbe capito, così come lei aveva dovuto accettare il suo tacerle i sentimenti di Glorfindel.
    Ci sono cose che non sempre debbono essere dette.
    Poi, con un profondo respiro, si voltò infine verso il potente Vanyar.

    Glorfindel rimase in silenzio, seduto sulla pietra fredda. Si prese la libertà di fissare la stella, senza vergogna.
    A che sarebbe servito cercare di nascondere i propri pensieri, oramai? Era chiaro dal suo sguardo, che la stella aveva scoperto tutto.
    Scrutò a lungo i suoi occhi ametistini, concedendosi di fermarsi a riflettere su ciò che era appena accaduto. Sillen aveva riacquistato il suo potere, il quale non era altro che quell’energia densa di rancore che tanto l’aveva spaventata in passato. Non avrebbe mai potuto immaginare un risvolto più insolito.
    E, adesso, ella era padrona dell’Alfiere del Cielo.
    Si sentì un idiota, nel constatare l’immane stronzata che aveva appena compiuto.
    Glorfindel di Gondolin, Glorfindel l’Alto Elfo, Glorfindel l’ultimo Vanyar della Terra di Mezzo. Un idiota.
    A disagio, spezzò quel silenzio insopportabile, serrando i pugni: -Hai intenzione di rimanere lì impalata ad aspettare cosa, precisamente?- L’apostrofò, calamitato dallo sguardo duro e inflessibile di lei. La Stella dei Valar non rispose, le labbra strette in una chiara espressione di disappunto.
    Per qualche motivo, non lo insultò come il Vanyar si sarebbe aspettato. Anche se la tensione del suo corpo suggeriva tutto il contrario. Era davvero spaventosa, così furente.
    Non che potesse darle torto.
    Ed era più bella di quanto ricordasse, senza alcun segno o cicatrice a ledere la sua grazia divina.
    Certo, come se la sua umiliante performance di poco prima e la sua momentanea morte prematura non fossero state delle punizioni sufficienti, per lui.
    Si alzò in piedi, abbastanza stabile, cercando di allontanarsi di qualche passo: -Per quanto tempo sono stato morto?- Chiese, moderando il tono.
    Sillen parlò seccamente, senza emozione: -Pochi minuti.- L’elfo annuì, per nulla sorpreso da quella notizia: -Capisco. Mi è sembrato molto, molto più tempo. Nelle Aule si perde la cognizione di ogni dimensione terrena e…- Si zittì, notando che lei non pareva minimamente intenzionata a fare conversazione.
    Beh, che si aspettava? Le sue scuse? Perché in tal caso non le avrebbe avute. Le meritava ma non le avrebbe avute, maledizione.
    Stette in silenzio quanto più possibile, sotto quello sguardo di ferro, poi cedette, scontroso, tornandole dinanzi: -Avanti, perché stai zitta? Se hai qualcosa da dire fallo oppure- Uno schiaffo violento gli fece voltare di scatto la testa e si ritrovò a fissare il lago sotterraneo alla sua destra, incredulo. Portò una mano allo zigomo, tastandolo appena per avvertire nuovamente quel dolore insolito. Era un dolore caldo, bruciante, reale.
    Si voltò nuovamente, sgranando gli occhi. Sul viso dorato di Sillen scendevano delle lacrime, grandi e luminose.
    Piangeva perché era la prima volta che colpiva davvero qualcuno che amava; piangeva per la rabbia, la paura e la tensione; piangeva perché non aveva idea di come affrontare tutto ciò che stava provando: -Perché non mi hai mai detto niente?- La sua voce tremò appena, prima di tornare dura come la roccia attorno a loro. -Perché non mi hai parlato dei tuoi sentimenti? Hai fatto di testa tua, solo per cercare di allontanarmi!- Alzò il tono e l’elfo indietreggiò appena, colto alla sprovvista. -Ti ho confidato le mie paure per così tante volte! Ho cercato il tuo appoggio senza sapere che stavi soffrendo!-
    A quelle parole, Glorfindel strinse i pugni, rabbuiandosi: -Cosa avrei dovuto dirti? Che mi ero innamorato di te come uno stupido ragazzino umano? Non avevo bisogno di cadere nel ridicolo ancora di più, conosci la mia patetica storia!-
    Sillen storse la bocca: -Reputi un sentimento puro come l’amore una cosa stupida e ridicola?- L’elfo voltò la testa, sottraendosi dal giudizio implacabile di quegli occhi terribilmente luminosi: -Credimi, di puro io non ho proprio niente. Se non ci arrivi, ho ragione di credere che tu sia solo una bambina che è cresciuta troppo presto.- Lei gli puntò l’indice al petto: -Sei tu che stavi scappando dalle tue responsabilità come un bambino.-
    -Tu non sei una mia responsabilità!- Abbaiò lui. -Perché non avrei dovuto tentare?- Cercò di nascondere il turbamento del proprio essere ma sapeva che la sua anima, in quel momento, era esposta oltre ogni precedente. -Ho dovuto fingere, non fare finta di non capire.-
    Lei scosse la testa, i pugni serrati: -No, non eri obbligato a farlo! Hai avuto decine di possibilità per parlarmi di ciò che provavi e non l’hai fatto!-
    Parlarne, diceva. Parlare, e poi cosa?
    -Cosa sarebbe cambiato?- Sibilò l’elfo, troneggiando su di lei con gli occhi ridotti a due fessure dorate: -Cosa avresti fatto, se ti avessi confessato ogni cosa, Sillen?- Lei deglutì, senza però cedere terreno: -Non… non lo so. Ma avremmo cercato una soluzione.-
    -Una soluzione?- Le ringhiò contro, lui. Puntò il dito alle sue spalle, verso l’Alfiere del Cielo: -Quella era la mia soluzione. Mi sarei assunto la responsabilità dell’Alfiere e mi sarei fatto rispedire a Valinor, lontano da qui! Lontano da te!-
    La stella contrasse la mascella, la voce carica di una rabbia sotterranea: -Se solo mi avessi dato ascolto-
    Lui storse la bocca in un sorriso forzatamente ironico: -Oh quanto avrei voluto brandire quell’arma e vincere la battaglia al posto tuo. Prestarmi a questo gesto caritatevole per poi lasciarti in pace a vivere la tua perfetta storia d’amore. Purtroppo non ha funzionato, quindi perdonami se te lo chiedo ma perché diamine non mi hai lasciato morto? Perché mi hai svegliato?-
    Lei fece per colpirlo di nuovo, furiosa, ma l’altro le afferrò il polso. Una recondita parte della sua mente registrò la mancata risposta della sua luce al tocco della stella e la cosa lo fece solo infuriare ulteriormente: lei era così potente, adesso, mentre il giorno prima era lui a permetterle di camminare sulle sue gambe.
    -Te lo dico io perché. Sei solo un’egoista, che si crede tanto superiore da pretendere che tutti quanti si schierino al suo fianco per combattere la sua nobile causa. A prescindere dai loro sentimenti.- Lei ringhiò la sua esasperazione, tentando di liberarsi dalla sua stretta, constatando che, forse, restituire subito al Vanyar tutti i suoi poteri non era stata una scelta ben ponderata.
    -Ma sentiti! Io sarei un’egoista!? Chi mi ha voltato le spalle pur di prendere il controllo dell’Alfiere per il proprio tornaconto? Chi ha messo in pericolo tutti noi perché troppo codardo per affrontare i propri sentimenti?!-
    -Era l’unico modo.-
    -Smettila di ripeterlo! Non era l’unico modo, non lo era affatto!- Lo spinse lei, tanto forte da fargli male. Glorfindel sentì la disperazione attanagliargli le viscere: -Non era l’unico modo? Preferivi questo?- La spinse a terra, violentemente, tenendola ferma.
    Alla vista di quell’improvviso assalto, l’Alfiere del Cielo tremò nel terreno: -Sillen!-
    -No, fermo! Stanne fuori.- Si divincolò lei, nonostante fosse oltraggiata da quella situazione. Rivolse al Vanyar sopra di lei uno sguardo gelido: -Lasciami immediatamente. Tu non lo faresti mai.- L’elfo non le diede retta, pur avvertendo quelle parole pungergli la coscienza: -Sei tu che mi costringi, Sillen. Vuoi che smetta di fingere? Bene. Smetterò.-
    Ormai troppo oltre ogni limite per poter anche solo pensare di fermarsi, Glorfindel premette senza riguardi le labbra contro quelle di lei.
    Dopo un attimo di smarrimento, Sillen sgranò gli occhi, sconvolta da quel gesto improvviso. Presa dal panico, sentì il suo potere montarle nel petto, fino a bruciarle dentro. I suoi occhi divennero luce e una forza incredibile animò le sue membra.
    Ma prima che potesse spedire il Vanyar dritto nel lago, questi si staccò da solo, imprecando. Un sottile rivolo di sangue tinse le sue labbra e Sillen capì di averlo inconsapevolmente morso.
    -Ahia.- Si lamentò lui, soffiando il respiro accelerato fuori dai denti. -Ben ti sta.- Sputò lei, avvertendo con sollievo il proprio potere rilassarsi nuovamente. Suo malgrado, non voleva fargli male, sapeva che niente di tutto ciò che stava accadendo era minimamente sensato, nemmeno per lui.
    -Spostati!- Lo ammonì, di nuovo.
    -Non ho scelto di amarti.- Ribatté l’elfo, senza ascoltarla.
    -Dannazione, lo so! Credi che io sia qui per giudicarti?- Urlò Sillen, di rimando: -Credi che io non mi senta colpevole per ciò che stai provando?- Lo fissò negli occhi, sincera più che mai. Era vero: era stata così superficiale e cieca, ancora una volta, troppo persa nei propri sentimenti per curarsi di quelli altrui. Strinse le labbra, contrita: -Nemmeno io ho semplicemente scelto di amare Thranduil.-
    Glorfindel trattenne un sospiro tremante, ferito. Perfetto, i sensi di colpa non avevano tardato ad arrivare, compagni indissolubili delle amare fitte di gelosia che gli laceravano il cuore.
    Dopo qualche attimo di orgogliosa resistenza, l’elfo abbandonò quegli occhi ametistini, scostandosi con gesti stanchi. Sedette sui ciottoli, tirando indietro i capelli dorati: -Ho fatto tutto questo perché tu potessi vivere la vita che volevi. E, a prescindere da ciò che pensi di me, questo è ancora il mio obbiettivo. Anche se mi hai riportato indietro dalle Aule, troverò comunque il modo di sparire dalla tua vita, per il bene di entrambi. Fosse anche seppellirmi vivo.-
    Lei si tirò a sedere a sua volta. Stette qualche attimo in silenzio, prima di rispondere: -Non sarà più necessario.- Decretò, con voce bassa. Glorfindel si voltò di scatto, il respiro sospeso. Per una frazione di secondo, il suo cuore accelerò: “dillo, Sillen. Non sarà più necessario perché anch’io ti amo. Dillo, ti prego.”
    Vide la stella respirare a fondo, raddrizzandosi, e in quei gesti lui lesse un dolore inaspettato: -Quando ho impugnato l’Alfiere, ho pagato il prezzo.- La mente di Glorfindel si svuotò di colpo:
    -Cosa? Quale prezzo?-
    -Il prezzo da pagare per portare la Pace, quello profetizzato dai Valar.- Chiarì lei, alzando lo sguardo violetto per guardare Glorfindel negli occhi: -Un Bene troppo grande attirerebbe un Male troppo grande, capisci?- L’elfo annuì, lentamente: -Per questo ho cercato di brandire l’Alfiere, perché mi costringessero a partire per Valinor.- Un mezzo sorriso storse la sua bocca arrossata: -Diversamente, non avrei trovato la forza per allontanarmi.-
    Sillen si avvicinò appena, sapendo di essere giunta alla sua verità, una verità che lo avrebbe ferito ancora una volta. L’ultima.
    -Tuttavia, non è così, Glorfindel. Io non posso portare l’Alfiere a Valinor. Nessuno può farlo. Tornerò nel firmamento, come ultima custode dell’arma.-
    Lui sgranò gli occhi. Nel cielo. Lei sarebbe tornata nel cielo infinito. -C-come?-
    Sillen percepì distrattamente le lacrime rigarle le guance, i capelli disordinatamente incollati al viso: -L’Alfiere mi ha rivelato la realtà nascosta nella profezia. Per questo motivo non potevo… non volevo impugnarlo.-
    L’elfo sentì le forze abbandonarlo: …era colpa sua.
    -Non sono qui per giudicarti, Glorfindel. Non potrei. Abbiamo affrontato la medesima situazione, rinnegando il nostro destino e rinunciando a tutto pur di essere felici. Solo, non ci siamo riusciti.-
    Lei non c’era riuscita a causa sua. L’antico elfo sentì il mondo sgretolarsi in coriandoli: aveva fatto di tutto per renderla felice e ora scopriva di essere la sola e unica causa della sua inevitabile infelicità. Aveva osato darle dell’egoista. E, invece, lui stesso l’aveva condannata ad assumersi la responsabilità della salvezza dell’intera Terra di Mezzo da sola.
    Questo non poteva sopportarlo.
    Si nascose il viso tra le mani, sconvolto: -È colpa mia.- Sillen si avvicinò ancora, negando fermamente: -No mellonin, non dirlo.-
    Gli afferrò i polsi, scostandogli le mani da davanti al viso: -Ti prego, guardami.- Glorfindel non riuscì ad opporsi e i suoi occhi corsero febbrilmente in quelli di lei. La stella quasi riusciva a leggere i suoi pensieri caotici, attraverso le iridi chiare: -È stata una mia scelta. Ero consapevole di ciò che sarebbe accaduto. Tu non potevi saperlo.-
    -Se non avessi agito così-
    -Nessuno di noi deve rimproverarsi. Questa è una guerra, Glorfindel. C’è sempre un prezzo da pagare. Per tutti noi.-
    Prese il viso dell’elfo tra le mani, guardandolo negli occhi spaventati: -Devi vivere, hai capito? Devi vivere ed essere libero.-
    Il Vanyar sentì lacrime pesanti colare sul viso, sul collo. Un singhiozzo gli mozzò il respiro: -Mi hai fatto tornare qui solo per vederti scomparire?- Gemette, sopraffatto dalle proprie emozioni. Sillen chiuse gli occhi: era così difficile, così dannatamente difficile. Lo strinse con un respiro tremante, cercando le parole. Ma nessuna parola pareva sufficiente, oramai.
    Quasi aggrappandosi l’una all’altro per non perdersi nelle loro paure, si abbracciarono con forza.
    La stella gli sussurrò, piano: -La guerra non è finita. Pallando potrebbe diventare un nuovo Signore Oscuro e non possiamo permetterlo. Loro avranno bisogno di te. Elessar, Elladan, Elrohir, gli elfi di Gran Burrone, Legolas.- Glorfindel non voleva ascoltare.
    -Tu sei tanto amato, Glorfindel.- La sua voce era una melodia confortante e dolce, quanto dolorosa, insopportabile: -Thorin è così preoccupato per te. Thranduil, è preoccupato. Anche se io andrò via, voi ci sarete, l’uno per l’altro. Vero?- Pareva quasi una supplica, più che un tentativo di conforto.
    L’elfo affondò il viso tra i capelli scuri della giovane, incapace di reagire. Aveva raggiunto la Stella dei Valar per cercare gloria e riscattare il suo valore agli occhi dei crudeli Valar ma era stato capace di attirare solo dolore e miseria. Non meritava l’affetto dei suoi amici, né il rispetto dei giovani guerrieri della Terra di Mezzo. Eppure, annuì contro la sua spalla: -Combatterò questa guerra per te.- Sussurrò.
    Era il minimo che potesse fare. Era così poco. Era niente.
    Dopo lunghi minuti, Sillen gli accarezzò i capelli, asciugandosi discretamente gli occhi: -Vinceremo, sai?- Glorfindel respirò a fondo, raddrizzandosi. Le accarezzò una guancia, guardando il suo viso amato con una dolcezza dolorosa: -Non farmi il verso.-
    Sorrisero, insieme, rotti e feriti come non erano mai stati.
    Come i loro destini.
    Si alzarono, lentamente, prendendosi il tempo per assimilare ciò che era appena accaduto.
    L’Alfiere del Cielo li richiamò poco dopo, con un fastidioso verso, quasi cercasse di schiarirsi la voce. O, per lo meno, il teatrale effetto che cercava di ricreare era quello: -Bene, non che m’interessi impicciarmi dei vostri affari ma avete appena citato l’unica cosa importante in tutto ciò. C’è una guerra in corso, gente. E i nemici marciano su Minas Tirith.- Concluse, quasi annoiato.
    Sillen si voltò di scatto verso di lui: -Cosa? Quando?-
    -Adesso. Sono in molti e gli Stregoni sono con loro. Credo proprio arriveranno alla città ben prima di voi.- La stella lo afferrò con forza, estraendolo dal suolo con un sibilo metallico: -Perché non hai detto niente?!-
    -Ci ho provato, cosa credi? Eravate lì a cincischiare con i vostri piccoli problemi di cuore, che dovevo fare? Scriverti una lettera?- La sbeffeggiò: -Comunque prego.-
    Sillen lanciò un verso esasperato, radunando le proprie cose. Si affrettò verso l’uscita con tanta fretta che i piedi quasi non toccavano terra: -I non morti possono essere tenuti a bada con il fuoco, sono certa che Elessar sarà-
    La sua voce si perse in un respiro interrotto e Glorfindel si girò allarmato verso di lei. Quando la vide, s’irrigidì di colpo: Sillen aveva gli occhi spalancati, di pura luce bianca, la collana luminosa che levitava sul suo petto. Anche l’Alfiere brillò violentemente, trascinato con la stella nella visione che stava avendo luogo nella sua mente.

    Erano i Campi del Pelennor, assolati. Tante figure incappucciate camminavano verso la città bianca, tranquille. Tuttavia, il clangore del ferro e della battaglia riempiva lo spazio, in netto contrasto con quell’immagine serena.
    Solo quando fu abbastanza vicina da riconoscere le figure, Sillen si accorse che Elessar era al centro del campo. Qualcuno teneva Andùril tra le mani e la sollevava contro di lui, verso la sua nuca esposta: pareva quasi un’esecuzione.
    La scena cambiò bruscamente e, davanti a sé, Sillen vide solo il volto etereo della piccola Miniel, mentre il sangue le fuoriusciva copiosamente dal naso e dalle labbra. Pallando tirava dei fili invisibili, dietro di lei, costringendola a sollevare le braccia.
    In pugno, Miniel brandiva Andùril.
    La Principessa calò la spada verso la stella, con forza impietosa, il volto inespressivo: -Sillen…-


    -Miniel!-
    E la stella espirò, cadendo carponi a terra. Si asciugò il sudore dalla fronte, mentre Glorfindel si chinava al suo fianco.
    Tornato il suo potere, la stella aveva riacquistato il dono della preveggenza. Talvolta, il destino conserva anche accadimenti utili: avevano ancora un po’ di tempo.
    Con il fiato corto, Sillen fissò la ghiaia sotto di sé: -Dobbiamo sbrigarci. Sono tutti in pericolo.- Glorfindel ascoltò ciò che la stella aveva visto e le sue labbra si tesero in una linea preoccupata: -Possiamo ancora evitarlo?-
    Sillen ricambiò il suo sguardo, tetra: -Dobbiamo.- Poi tentennò, mordendosi con forza la bocca tremante: -Il problema è che le mie visioni si sono sempre avverate. Sempre.-

 
**
 
    Sotto il cielo terso, la Principessa di Gondor e di Arnor marciava in silenzio, ordinatamente schierata tra le fila dei suoi numerosi sudditi. Sotto all’ampio cappuccio che la celava al mondo, i suoi occhi fissavano l’orizzonte, vitrei come specchi appannati, mentre il suo giovane viso non accennava l’ombra di un turbamento. Sembrava quasi serena.
    Disgraziatamente, quella era solo una tragica illusione: dentro di sé, Miniel urlava. Sentiva tutto, vedeva ogni cosa, ma non poteva fare niente.
    Dopo giorni di marcia, il dolore ai piedi si era fatto quasi insopportabile e mai, nemmeno per un secondo, aveva potuto fermarsi a riposare. La schiena dritta mandava fitte atroci, così come il collo, le spalle, le gambe. Il mantello le pesava addosso, caldo e soffocante. Le bruciavano le interiora, private di acqua, cibo e riposo.
    E la peggiore tra quelle torture era la consapevolezza che sua madre stesse soffrendo i suoi stessi patimenti. Sentiva il profumo dei suoi capelli bruni, accanto a sé, ma non riusciva a volarsi.
    Nemmeno un fiato poteva lasciare le sue labbra, serrate da quell’arcana magia. Mamma, mamma... Nella sua muta disperazione, solo le lacrime erano libere di scivolarle sul viso e fu grata che, per lo meno, la Regina non potesse vederle.
    Solo pochi giorni prima, le due sovrane erano a Belfalas, a guardare il mare, sognando di tornare a casa. Non avevano lontanamente immaginato che vi sarebbero tornate in quelle condizioni.
    Era accaduto così in fretta… Miniel nemmeno aveva compreso come l’elfo dai capelli neri, colui che si faceva chiamare Maestro delle Illusioni, fosse apparso in città, a Dol Amroth. A quanto pare, aveva il dono di rendersi invisibile. E, troppo velocemente, le cose erano degenerate.
    Gli abitanti di Gondor avevano cominciato a comportarsi in modo insolito, subito in pochi, poi in molti. Prima che potessero rendersene conto, i casi isolati divennero la normalità e, in meno di tre giorni e tre notti, infiniti frammenti neri come l’ossidiana si erano conficcati nelle loro carni, distruggendo le loro volontà.
    Persino le forti volontà delle nobili Signore di Minas Tirith caddero. L’ultimo gesto che Miniel aveva compiuto da sé era stato sollevare le mani verso sua madre, che brandiva una lama elfica contro le loro stesse guardie ormai succubi della magia oscura. Semplicemente, l’elfo invisibile era apparso dietro l’inerme Principessa e aveva spinto a forza un frammento nella sua schiena, incatenando a esso anche l’impavida Regina.
    Inoltre, a nessuno era dato sapere quale sorte fosse toccata al Principe Imrahil,[3] unico baluardo rimasto contro quell’assalto improvviso. Privato della propria guida, il popolo di Belfalas non aveva potuto fare altro che guardare: l’unica cosa certa era che le persone possedute non si sarebbero fermate dinanzi a niente e nessuno. A costo di uccidere… o di essere uccise.
    Da quel momento, un lunghissimo cordoglio di esseri privi di arbitrio aveva marciato verso Gondor, prima sotto terra, poi in superficie, indisturbato.
    Erano tutti vivi ma schiavi.
    Quando non era sopraffatta dal dolore, Miniel pensava a suo padre, a Minas Tirith, e a tutte le false lettere che l’elfo oscuro le aveva fatto scrivere per ingannarlo. In quelle occasioni, la sua mano copiava diligentemente il melenso dettato del Maestro delle Illusioni, mentre la sua volontà soggiogata le imponeva di modificarlo: scrivi che è una trappola, che non è vero, che sono tutti in pericolo, che ci hanno catturate! Padre ti prego, devi capire! Le esplodeva la testa e le frasi piene di allegria si scrivevano dinanzi ai suoi occhi, minando ogni sua speranza una parola dopo l’altra. “Il mare è bellissimo, mi manchi, ti voglio bene, mamma è felice.”
    L’elfo le sorrideva, quasi affettuosamente: -Ti leggerò le lettere di risposta, non vedo l’ora! Dopotutto, è come se fossi io il suo bambino, non trovi?- Sghignazzava, mentre lei non poteva nemmeno negare o arrabbiarsi.
    Suo padre non avrebbe sospettato nulla, lo sapeva.
    Lo sapeva quando fissava il suo vecchio e leale corvo prendere il volo verso Nord, gracchiando con quel suo familiare timbro rauco; lo sapeva quando immaginava il suo povero padre aggrapparsi a quelle brevi lettere, l’unico mezzo che poteva avvicinarli.
    Così, Miniel camminava e piangeva, sopportando un dolore che nessuna ragazzina avrebbe mai dovuto sopportare.
    Quando la paura si faceva tanto densa da minacciare di soffocarla, volgeva la mente all’unica certezza che possedeva: se Pallando aveva preso tutti loro come ostaggi, significava che gli alleati potevano ancora vincere la battaglia, che lo Stregone aveva paura. A confermare i suoi sospetti vi era anche il fatto che, nonostante avesse tutti loro ai suoi ordini, Pallando si fosse portato appresso una massiccia retroguardia di non morti. Erano molti, ne sentiva il fetore sin dalle prime fila.
    Ad un tratto, il suo udito fine di mezzelfo colse delle voci, poco distanti. Aveva intuito, a grandi linee, da dove provenissero e a chi appartenessero. Dopotutto, non aveva di meglio da fare che prestare attenzione agli altri membri di quella silenziosa folla.
    Per prima, sentì la ormai familiare voce del Maestro delle Illusioni, dietro di lei, sulla destra: -Calmati, mio caro Alatar. Smettila di agitarti inutilmente.- Le parve di vederlo, sornione come un grosso gatto, appollaiato sul suo mannaro in putrefazione. Una voce più profonda e incerta le giunse dal lato opposto: -Le Aquile ci hanno avvistati subito, quando siamo usciti dalle gallerie. In queste ore, a Minas Tirith avranno avuto tutto il tempo per preparare una difesa. O peggio, un attacco.- Alatar.
    Se avesse potuto, Miniel avrebbe urlato.
    Si era fidata dello Stregone Blu, tempo prima, come tutti gli altri, e ancora s’incendiava al pensiero di come egli avesse ferito la Stella dei Valar. Tuttavia, non poteva fare a meno di pensare che in fondo, molto in fondo, lui potesse non essere del tutto malvagio. Forse l’avrebbe aiutata. Forse il suo tradimento era frutto di un grande malinteso e lui, presto, avrebbe abbandonato il fianco del fratello per liberare tutti i cittadini innocenti. Se solo lei fosse riuscita a voltarsi e incontrare il suo sguardo...
    Intanto, la sgradevole voce di Pallando aveva messo a tacere la concitata apprensione dell’altro stregone: -Certo che hanno provveduto, non sono degli sciocchi privi di ragione! Ma pensa, fratello mio, perché dovremmo preoccuparcene? Credi verseranno pece bollente sulle loro famiglie? Su tutta questa povera gente?- Rise, una risata disgustosamente soddisfatta: -Li abbiamo in pugno, Alatar. Lascia che vedano. Lascia che si preparino inutilmente, credendo di potermi affrontare.-
    Era pregno di una sicurezza spavalda, inarrestabile. Terrificante. E Miniel pregò che Sillen fosse pronta a tutto ciò che stava per abbattersi su di loro.
    Qualche fila dietro, Saedor aguzzò la vista verso Nord-Est, laddove numerose Aquile erano sospese in volo: -Manca ormai poco. Minas Tirith è di fronte a noi.- Gracchiò, concentrato.
    Pallando strinse nel pugno il sacchetto con i pochi, ultimi frammenti, rimasti inutilizzati: -Stiamo impiegando più energia che mai, insieme. Sapevo che gli Stregoni e i Maestri, finalmente uniti, avrebbero mosso una schiera di viventi senza difficoltà. Inoltre, non dimenticate che il Palantir ci garantisce il controllo, finché anche un solo frammento di esso sarà utilizzabile.-
    Lhospen si stiracchiò languidamente sul collo della sua oscena cavalcatura: -Non sono mai stato così in forma, in effetti. Questa sarà la volta buona per mettere la parola fine sopra questa inutile città di moralisti senza speranza.- Sbuffò, attorcigliandosi una ciocca corvina attorno al dito affusolato.
    Alatar respirò a fondo: la resa dei conti, giusto? Non poteva fare a meno di dubitare di ciò che stava per fare. Prima di tutto, ora era il cattivo. O pressappoco. E, in secondo luogo, non gli sarebbe piaciuto il finale di tutta quella storia. Di questo, a dire il vero, ne era abbastanza certo. Le ultime parole, però, toccavano alla Stella dei Valar.
    Strinse forte il bastone ricurvo, luminoso affianco al suo compagno più scuro: gli Stregoni Blu, in carne e ossa, erano infine tornati nelle terre dell’Ovest.
 
**
 
    Gimli pressò bene l’erba della Contea nel fornello della sua lunga pipa, bofonchiando: -Sarebbe ora di pranzo e noi siamo qui a fare la guardia a barili d’olio puzzolente.- Elessar gli rivolse un sorriso teso, seduto sulla balaustra delle mura della Città dei Re:
-Ti informo che Pallando sarà qui a momenti. Non abbiamo tempo per goderci un pranzo, amico mio.-
    L’altro scrollò le spalle, tentando ostinatamente di scrutare l’orizzonte soltanto per rinunciare di nuovo, troppo basso per vedere oltre la balaustra merlata: -Beh, probabilmente sarebbe stato l’ultimo pranzo della nostra vita, maledizione!-
    Legolas, dal canto suo, non distolse lo sguardo dall’esercito nemico, che avanzava senza provocare alcun rumore: -Continuo a pensare che ci sia qualcosa di strano. A che scopo far indossare mantello e cappuccio alle schiere di non morti?- Anche Elessar trovava quel dettaglio insolito ma che spiegazione potevano darsi loro, quando nemmeno conoscevano le capacità del nemico?
    -Forse i suoi nuovi cadaveri sono sensibili alla luce del sole.-
    L’elfo scosse la testa, turbato: -Sento che c’è qualcosa che non è come dovrebbe essere. Abbiamo bisogno di scoprire cosa.- Al suo fianco, Gimli gli strinse brevemente un braccio, tentando di confortarlo: -Niente è come dovrebbe essere, orecchie a punta. Siamo ad un passo dalla morte e della Compagnia partita per La Contea non c’è traccia. Quello di cui abbiamo bisogno è un miracolo.- Nemmeno il Re degli Uomini poté ribattere.
    In effetti, dalla notizia dell’arrivo dei non morti, la paura degli alleati aveva avvolto la Città Bianca, più terribile di qualsiasi cattivo presagio: le schiere erano disordinate, spaventate al punto da essere a malapena controllabili.
    Come biasimarli? Da quanto sapevano, la loro unica speranza si trovava sin troppo lontano, a giorni di cammino dal campo di battaglia, introvabile persino dai corvi più esperti.
    Presto sarebbero morti tutti, dal primo all’ultimo, e la disciplina sembrava il minore dei problemi.
    Il Re degli Uomini serrò la mascella, impotente e incredibilmente stanco, lasciando vagare lo sguardo attorno alle mura. I soldati erano disposti in due grandi ali, a destra e a sinistra, in un disperato tentativo di accerchiamento.
    Gli Ent svettavano come un piccolo bosco dinanzi alle porte della città, brandendo grossi massi e tronchi; le catapulte erano pronte, la pece infiammabile nuovamente disposta nei Campi del Pelennor.
    Certo, come se il nemico potesse cascare nello stesso tranello due volte. Ma che altro potevano fare? Quella era la loro unica e ultima difesa, prima dell’inevitabile scontro frontale: dovevano prendere tempo, quanto più tempo potevano, e sperare nell’arrivo risolutivo di Glorfindel e gli altri.
    Anche se nessuno poteva offrire loro la certezza che sarebbero sopravvissuti sino a quel momento.
    Landroval atterrò al loro fianco, spaventando i soldati lì attorno con la sua minacciosa e imponente mole: -Re degli Uomini, il nemico è alle porte. Siamo in posizione.- Elessar annuì, alzandosi in piedi. Sistemò l’armatura, su cui riluceva l’Albero Bianco di Minas Tirith: -E pronti ad accoglierli.-
    Con un sospiro e un mezzo sorriso, guardò negli occhi i suoi più cari amici, i compagni di una vita: -Sono onorato di essere qui con voi, mellon. Non mi avete mai abbandonato.-
    Legolas gli sorrise con calore e Gimli si raddrizzò, nascondendo la commozione: -Come ai vecchi tempi, ragazzo. Come sempre.-
    Gli stendardi dei popoli liberi svettarono contro il cielo azzurro, come vele colorate sferzate dal vento. Uomini, nani, elfi, aquile ed Ent, uniti contro un solo nemico.
    O almeno, così credevano.

    Nel bel mezzo dei Campi del Pelennor, Pallando avanzò senza esitazione, solo, lasciando il mannaro e proseguendo a piedi.
    A guardarlo, pareva un vecchio mendicante appoggiato al suo bastone sporco.
    Scrutò attentamente i livelli verticali della Città Bianca, che si innalzava contro il fianco della montagna, e sorrise: -Che piacere conoscervi, finalmente.- La sua voce riecheggiò tra il silenzio dei due eserciti come un’eco stonata.
    Indifeso, esposto, eppure così sicuro di sé.
    -Re Elessar.- I suoi occhi si piantarono in quelli grigi del Re degli Uomini, che pareva una sentinella di pietra scolpita sulle mura della città. Tuttavia, non era il Re colui che lo sguardo di Pallando stava cercando: i suoi occhi lattiginosi corsero tra i soldati, sui bastioni, attorno ad essi.
    Quando, evidentemente, non trovò ciò che sperava di vedere, il viso dello Stregone si contrasse un poco, come un vecchio foglio incartapecorito: -Dov’è la Stella dei Valar, se posso chiedere?- Elessar serrò la mascella, teso: -Credi che io non possa bastare per rispedirti nelle tue maledette terre?- Esclamò, più risoluto di quanto non fosse in realtà.
    Pallando alzò gli occhi al cielo: -Non lo credo. Sono certo che tu non possa bastare, Re degli Uomini. Né tu, né tutti i tuoi amici.- Concluse, quasi deluso.
    -Ebbene, ella non si mostra? Le voci che sono giunte sino a Mordor sono vere, dunque. La tanto acclamata stella ha perso i suoi divini poteri.- Sorrise, ferino: -Poco male. Lei non m’interessa, tantomeno voi.-
    Detto questo, allargò le braccia, con fare magnanimo: -Ora, arrendetevi o dovrò marciare sulla vostra città.-
    Nemmeno finì la frase che una freccia, precisa e letale, puntò la sua fronte rugosa. L’intera folla trattenne il respiro, sconvolta da quell’improvviso attacco. Tuttavia, con un bagliore bluastro, la punta affilata della freccia si conficcò nel vuoto, a pochi centimetri dal bersaglio.
    Pallando la saggiò tra le dita, curioso, e Legolas, poco distante dal Re, strinse più forte il suo fidato arco: non lo aveva colpito.
    -Devo dedurre che non avete intenzione di ragionare.- Convenne, lo stregone. Elessar lo vide sollevare una mano, mentre l’altra spezzava senza remore la freccia dell’elfo. Al suo richiamo, altre cinque figure si staccarono dal gruppo di non morti, avanzando con sicurezza.
    Dall’alto delle mura, i tre compagni sentirono la rabbia rivoltar loro lo stomaco quando riconobbero Alatar, in piedi accanto al fratello. Lo stregone traditore li guardò con un’indecifrabile espressione sul viso, assorto. Pareva quasi estraneo alla scena, pur essendovi al centro.
    Pallando lasciò che i Maestri si avvicinassero, seguiti da due figure incappucciate: -Lasciate che vi spieghi cosa accadrà adesso.- Cominciò, con tono conciliante.
    Il suo modo di fare innervosiva i soldati, spiazzati dalla sua baldanza. Quel vecchio cialtrone emanava potere da ogni poro, come un agglomerato di malvagità, e calamitava l’attenzione come il più abile dei cantastorie.
    -Re Elessar scenderà dalle sue belle mura e verrà qui, offrendomi la sua testa. Se lo farà, risparmierò la città e mi limiterò a sottomettervi.- Fece una lunga pausa, che non fece altro che accrescere l’impazienza dei soldati.
    Era un gioco, per lui.
    Le sue parole penetrarono nell’animo di Elessar, lasciandolo spiazzato. Come diamine poteva pensare che avrebbero accettato una simile condizione? -Fintanto che un solo soldato respirerà, Gondor non verrà sottomessa.- Scandì, cercando di donare coraggio al proprio esercito.
    Ma Pallando ghignò, attirando nuovamente su di sé tutti gli sguardi. -Bene, la seconda opzione: se non lo farà, ucciderò tutti, a partire dall’amata Principessa e dalla bella Regina elfo.- Dichiarato ciò, lo stregone indicò con un ampio gesto le figure incappucciate che, con movimenti quieti e tranquilli, scoprirono il capo.
    E la situazione precipitò senza freni.
    L’esercito si agitò in un vociare concitato, costernato, oltraggiato.
    Elessar, bianco in volto, non poté articolare un’altra parola.
    Non era possibile, non era reale. Illusioni, ecco tutto.
    I visi candidi delle Signore di Minas Tirith, così reali e vivi, non potevano trovarsi lì.
    Fu Legolas a dar voce ai suoi pensieri, gridando con sdegno per sovrastare il caos sceso tra le truppe: -Menti, vile mostro! La Principessa e la Regina sono lontane da qui. Non circuirai i nostri cuori con le meschine illusioni dei tuoi servi!-
    Pallando ascoltò attentamente, senza scomporsi, osservando i soldati approvare le parole del Principe del Reame Boscoso. Con calma, lasciò che lo scompiglio si attenuasse, lasciando posto a un brusio costernato, confuso dal suo paziente silenzio.
    Si schiarì la voce, apprestandosi a portare dinanzi a tutti un sacco di cuoio, fino ad ora rimasto appeso al fianco del suo mannaro. -So bene che i vostri concittadini sono migrati a Dol Amroth e dintorni, Re Elessar. Dimentichi che ho sempre avuto un’efficiente spia tra voi.- Alatar non distolse lo sguardo, nemmeno quando tutti rivolsero gli occhi furenti verso di lui.
    Pallando non lasciò loro la possibilità di dire niente, riprendendo la parola: -Dunque, ho agito di conseguenza. Ho chiesto al Principe Imrahil di sottomettersi, concedendomi la sua testa. Oppure, avrei ucciso tutti i suoi sudditi.-
    Elessar strinse Andùril, rifiutandosi di credergli: -Se così fosse stato, lui avrebbe combattuto e tu saresti morto!- Urlò, rabbioso, senza riuscire a staccare gli occhi dai visi delle due dame.
    La sua vita, tutta la sua vita.
    Lo stregone, per nulla impressionato dalla sua nobile tempra, aprì il sacco di cuoio: -Temo tu ti stia sbagliando, saggio Re.-
    La sua mano dalle unghie ricurve riaffiorò dalla sacca, estraendone un panno azzurro: lo stendardo di Dol Amroth, il Cigno d’Argento. Con un gesto teatrale, Pallando lasciò cadere il vessillo, che si srotolò, rivelando la reliquia conservata al suo interno. Subito, tra le urla e la confusione, Elessar nemmeno riuscì a riconoscere ciò che stava fissando: era la testa mozzata del Principe di Dol Amroth, i lunghi capelli neri sparsi a terra e gli occhi vitrei rivolti al cielo.
    -Non è vero. Non è reale.- Ripeté, senza però crederci davvero.
    Le urla di Éomer, esplose come tuoni alla crudele vista del padre della sua amata moglie, gli straziarono il cuore.
    In pochi secondi, poi, tutte le fila nemiche si mossero, scostando i cappucci scuri dal viso. Eccoli, tutti loro, tutti gli abitanti della città, la gente di Gondor. I soldati gridavano nomi e preghiere, suppliche e maledizioni.
    Era un incubo, un dannatissimo incubo.
    Lhospen sorrise, deliziato dalla disperazione degli eserciti alleati: -Sapevo che il suo drammatico discorso avrebbe fatto un certo effetto.- Mormorò, mordendosi le labbra.
    Alatar taceva. Così doveva andare, non c’era altro modo. Nonostante tutto, però, le bugie del fratello lo confondevano: perché mentire su Imrahil? Egli era stato assassinato da Lhospen, non aveva accettato di sottomettersi. Presto, una volta distrutta la resistenza a Gondor e uccisi gli abitanti, Pallando sarebbe comunque tornato a Belfalas per concludere il lavoro, per estinguere ogni essere vivente. E così avrebbe fatto per ogni regione della Terra di Mezzo e oltre, con un esercito di non morti sempre più immenso e inarrestabile.
    Era la cosa che suo fratello desiderava, liberare i viventi dalle sofferenze della vita stessa. Non serviva mentire, poteva uccidere tutti velocemente e senza ulteriori sofferenze.
    Il maggiore, intanto, avanzò di un passo, rivolto al Re degli Uomini: -Vuoi ancora combattere, Re Elessar? Voi tutti, volete farlo?- Il silenzio calò di nuovo tra i presenti, lasciandogli il centro della scena: -Sappiate una cosa, allora. In diversi membri di questa folla- E indicò i cittadini di Gondor con uno svolazzo della manica blu: -sono impiantati dei frammenti del mio Palantir. Tutti loro sono ancora vivi, in vero. Vivi e vegeti. Se siete intelligenti, come voglio credere che siate, saprete bene come annullare il potere di un frammento. Non è forse così?-
    La tensione era palpabile.
    Gimli imprecò a mezza voce, stringendo l’ascia rabbiosamente: -Bastardo.- Al suo fianco, Elessar scosse la testa, completamente perso in un vortice inarrestabile. Non poteva davvero credere che i soldati avrebbero ucciso tutta quella gente innocente, anche se fosse servito a privarlo dei frammenti.
    No, non poteva… Non potevano uccidere la sua famiglia.
    -Uccideteli e io sarò, un frammento alla volta, più debole di quanto sono ora. Non vi sembra un buon affare?-
    Fu allora che Alatar capì davvero le intenzioni di suo fratello. Lo vide nei suoi movimenti misurati, nel suo ego appagato da quella situazione: stava recitando per il puro gusto di farlo. Il suo meschino gioco psicologico destabilizzava l’avversario, lo portava a dipendere dalle sue parole, dalle sue azioni, come un pifferaio circondato da piccoli topi. Un gioco perverso da cui Pallando, Lhospen e persino Saedor traevano piacere.
    Una vendetta verso coloro che li avevano dimenticati.
    La testa mozzata di Imrahil era un pretesto, una prova in più che convincesse Elessar a fare la stessa fine del Principe, pur di liberare la sua gente e le persone che amava.
    Deglutì, sforzandosi di mantenersi saldo. Era così che doveva andare.
    Elessar strinse la pietra della balaustra tanto da far sbiancare le dita: -Hai detto che vuoi la mia testa?!- Gridò, fuori di sé. Legolas si affrettò a trattenerlo ma l’altro lo spinse via: -L’avrai! Ci sottometteremo se li lascerai in vita!- Pallando non aspettava altro: -Lo giuro. E per dimostrarti che dico il vero, libererò la Regina.- Elessar si sporse dalla balaustra, il cuore in gola.
    Gimli afferrò Legolas di scatto, impedendogli di raggiungere nuovamente l'amico: -Deve scegliere, non possiamo fare nulla, capisci!?- L’elfo scosse la testa, strattonando con forza, fino a trascinare il nano a terra con sé: -NO, NO! Lasciami!- Le sue proteste disperate, per quanto terribili, non fermarono Elessar dall’abbandonare le mura di gran corsa, scendendo giù per le scale.
    Per sicurezza, Pallando legò le mani di Arwen con una spessa corda, avanzando di qualche passo con lei appresso. Con un fendente secco del suo bastone nero, lo stregone recise l’influenza del frammento di Miniel, liberando la Regina dal maleficio. E Arwen crollò a terra, boccheggiando: -Miniel- Tese le braccia tremanti, tentando di raggiungere la figlia ancora spietatamente soggiogata. Invece, Saedor tenne stretta la corda per impedirle di avvicinarsi, tirandola indietro al pari di un cane disobbediente.
    Pallando, annoiato da quella scena straziante, fece segno alle guardie di Minas Tirith: -Qualcuno venga a prenderla.- Ordinò.
    Velocemente, mezza dozzina di guardie abbandonarono le loro lance, correndo in soccorso dell’amata Regina: -Mia signora!-
    -Eccoci signora, siamo qui.-
    La tirarono su, portandola via senza indugio, ignorando le sue deboli proteste con il dolore nel cuore. Alle porte della città, venne loro incontro il Re, trafelato. Strinse la Regina, crollando in ginocchio con lei: -Ti prego…- Sussurrò questa, piangendo, aggrappata alle sue braccia. Elessar nemmeno sapeva per cosa lo stesse pregando, se ella desiderava che non andasse, che restasse vivo, oppure che le rendesse sua figlia, che si sacrificasse per lei. Forse nemmeno Arwen avrebbe saputo dirlo.
    Lo tenne stretto a sé con le poche forze che le rimanevano, prima di sentire le sue mani allontanarla con gentilezza. Lui le posò un bacio sulle labbra, veloce, disperato, prima di avanzare a testa alta verso la loro unica figlia.
    Giunto davanti al nemico, non ebbe occhi che per la piccola Miniel: -Sei al sicuro, figlia mia. Andrà tutto bene.- Le disse, fiero nella sua armatura. Saedor lo fissò con il grande occhio nero, quasi ringhiando il suo disprezzo e Lhospen posò dolcemente le mani sulle spalle della Principessa: -Papino ha scritto tante belle lettere per me, quasi mi sono affezionato.- Civettò: -Peccato che deve morire.-
    Il Re si costrinse a rimanere immobile, volgendo lo sguardo su Pallando: -Ora sono qui, lasciali andare.- L’altro negò con un cordiale cenno della mano: -Io ho te, non la tua testa. Sono stato piuttosto chiaro.- Senza pensarci due volte, Elessar sguainò Andùril, posandola sul collo forte: -Bene, così sia.- Odiava doverlo fare di fronte alle lacrime mute di sua figlia ma non aveva più tempo.
    Serrò i denti, caricando il colpo, quando Pallando sollevò le mani: -Cielo, no!- Lo riprese, scocciato. -Non sono così crudele, non ti lascerò compiere questo sacrificio da solo.- Gli spiegò, come parlando ad un bambino. -Da’ la spada a tua figlia, avanti.-
    Il suo sorriso pietrificò il corpo del Re. -No, te lo puoi scordare.- Sibilò, fremendo di rabbia. Lo stregone scrollò una mano con fare sbrigativo: -Non te lo sto chiedendo. È un ordine.- Prima che Elessar potesse lanciarsi contro di lui, Saedor e Alatar lo placcarono, costringendolo in ginocchio. Il Re sentì la spada cozzare al suolo e, dal basso, vide le mani bianche della Principessa stringerne l’elsa.
    Sollevò il viso, fissando la sua bambina negli occhi. S’impose di non tremare, trasmettendole più sicurezza di quanta non avesse: -Va bene così, amore mio.- Poi, sgranò gli occhi, preoccupato: Miniel perdeva sangue dal naso e dalle labbra, copiosamente.
    -Cosa le succede, cosa le stai facendo?!- Si dimenò, rivolto allo stregone. Fu Alatar a parlare, a mezza voce: -La sua mente cerca di ribellarsi all’ordine imposto al suo corpo. Devi lasciare che agisca in fretta, o morirà.-
    Elessar lo fissò di traverso, rabbioso: -Maledetto traditore, miserabile, infame!- L’espressione dell’altro non cambiò, subendo quegli insulti senza battere ciglio. Nessuna reazione, niente. Con un sospiro disperato, il Re perse le forze, arrendendosi all’evidenza. Era la fine, la fine di ogni traccia di umanità, persino per loro. Per lo meno, tutti gli altri sarebbero sopravvissuti.
    Si concentrò sulle sensazioni, godendo in modo quasi trascendentale dell’erba pungente sotto di sé, del sole caldo sulla pelle. Le grida disperate di Legolas erano l’unico suono a riempire l’aria ma lontano, in luoghi migliori, gli uccelli stavano di certo cantando. Andava bene così. Estel, Granpasso, Aragorn, Elessar… aveva vissuto abbastanza.
    Socchiuse gli occhi, rilassando i muscoli: -Miniel, ascoltami.- La vide così immobile, dinnanzi a sé, da parere una triste statua: -So che sarà doloroso ma voglio che tu sappia che non è colpa tua. Pensa a qualcosa di bello.- Deglutì, sorridendo appena: -Pensa a quanto siamo stati felici, noi due.- Chinò la testa, arrendevole, e Pallando si voltò verso la Principessa: -Basta con questi inutili discorsi. Che la sua testa rotoli lontano dalle sue spalle.-
    A quel semplice, terribile ordine, Miniel non poté far altro che muoversi. Impugnò più stretta l’elsa di Andùril, la spada che aveva candidamente ammirato sin da quando era una bambina. Mai avrebbe potuto immaginare che sarebbe stata lei ad alzarla contro il suo amato padre.
    Sollevò le braccia, i muscoli che chiedevano pietà a causa del peso del ferro, mentre il caos si scatenava nella sua mente affaticata. Ne sarebbe morta, sarebbe impazzita.
    Provò, tentò disperatamente e con tutte le sue forze di fermarsi, anche se sapeva, dannazione sapeva, che sarebbe stato inutile. Il silenzio attorno a lei riempiva le sue orecchie e il fiato scendeva senza il suo permesso nei suoi polmoni, dandole la forza per caricare il colpo.
    Infine, con orrore, sentì le braccia calare con fredda sicurezza sulla nuca esposta del Re. Fermati, ferma! NO, NO!
    -NO!- In una frazione di secondo, all’improvviso, una forza enorme e soverchiante la investì, calda come un raggio di sole, lasciandola di stucco: prima che colpisse suo padre, la spada affilata era stata violentemente sbalzata lontano. Miniel non riuscì a seguire la sua traiettoria ma sentì il sibilo del filo che tagliava l’aria, fino a conficcarsi nel terreno.
    Le sue orecchie si erano sgradevolmente tappate, tanto era intensa la pressione attorno a lei, e l’aria ancora friggeva di energia residua.
    Lei aveva urlato, nella sua mente, ma non era suo il grido che aveva squarciato il silenzio. Suo padre era salvo! Anche senza voltarsi, Miniel percepì la tensione di Pallando, dietro di lei. Sì, qualcuno era appena intervenuto per salvarli, ne era certa.
    Elessar espirò di scatto, sconvolto, girandosi verso di lei con la stessa confusione a velargli lo sguardo.
    Dopo pochi secondi di smarrimento, l’intera valle cominciò a vociare, tra grida agguerrite e speranzose.
    -Maledetta.- Sibilò lo Stregone Blu, avanzando di qualche passo, gli occhi fissi nel cielo terso sopra di loro.
    -Pallando! Sono qui per te!- La voce di Sillen riecheggiò nei campi e scivolò tra gli eserciti alleati, infiammando gli animi. L’Alfiere del Cielo catturava i riflessi del sole, accecando i presenti, mentre la Stella dei Valar giungeva a dorso d’aquila, una divinità dall’armatura lucente.
    Lhospen e Saedor si schierarono immediatamente davanti allo stregone, in sua protezione, l’attenzione rivolta alla stella.
    Elessar, stupito di trovarsi improvvisamente libero, sgranò gli occhi, affrettandosi per non perdere l’occasione: -Sono tornati!- Afferrò le mani fredde della figlia, tirandosi in piedi per trascinarla via di peso: -Miniel, mi senti? Sillen è qui!- Sorrise, trionfante, riprendendo Andùril e allontanandosi dai nemici.
 
    Gli altri membri della nuova Compagnia, intanto, affiancarono la stella, rapidi. -Che vile stratagemma. Degno di lui.- Ringhiò Glorfindel, guardando i cittadini caduti nelle mani dello stregone. Un abominio. Avevano volato come non mai per raggiungere la città e la visione di Sillen era apparsa davanti a loro senza filtri.
    Thranduil strinse gli occhi a due fessure, concentrato: -Gli elfi oscuri e Morinehtar sono con lui. Non dobbiamo abbassare la guardia.- Thorin, seduto dietro al Vanyar dorato, strinse impulsivamente l’ascia, per nulla intimorito: -Dannati tutti loro! Non hanno onore! Marciranno come i cadaveri che comandano!-
    Sillen studiò la situazione, tesa: -Thranduil ha ragione. Mi occuperò io di Pallando ma gli elfi si metteranno in mezzo, dovrete coprirmi.- Pallando era suo, suo soltanto.
    Loro annuirono, risoluti. -E Alatar?- La domanda di Thranduil aleggiò tra di loro come uno scomodo fardello.
    Alatar… La stella lasciò che i suoi occhi si posassero sullo stregone, freddi. Come ad attenderla, Alatar ricambiò lo sguardo, troppo lontano perché lei potesse decifrare la sua espressione ma abbastanza vicino perché il suo cuore accelerasse dolorosamente. Lui stava assistendo a tutto ciò, senza battere ciglio? Aveva davvero finto, per tutto il tempo passato con lei?
    Purtroppo, la realtà davanti ai suoi occhi era tanto orribile quanto inequivocabile. -Ha deciso da che parte stare.- Sibilò, Sillen. Non riusciva nemmeno a immaginare cosa sarebbe accaduto se non fosse arrivata in tempo: Miniel, la spada, Elessar.
    Ma infine, era giunta la resa dei conti.
    Serrò la mascella, ricomponendosi: -Hai commesso un grande errore a presentarti qui, oggi.- Decretò, solenne, rivolgendosi nuovamente a Pallando.
    -Non credere che tu possa fare la differenza, Sillen. Anche se hai riacquistato i tuoi poteri, sei inutile. Saedor ha già dimostrato la tua debolezza.- La derise, lo stregone.
    Lei storse la bocca, infastidita. Illuso. Lei non aveva solo riacquistato i suoi poteri. -Proviamoci, Alfiere.- Sussurrò, rivolta alla propria arma.
    L’alabarda si scaldò, tra le sue mani: -Impiegherò molta energia, il Palantir è un oggetto potente. Quando avrò finito, non potrò intervenire per un po’. Credi di farcela da sola?- Lei annuì, impugnandolo più saldamente: -Sono pronta.-
    L’Alfiere del Cielo brillò più intensamente, come un faro nella notte, e Sillen si lasciò cadere a terra. Il peso del suo atterraggio incrinò il terreno intorno a lei, mentre i suoi occhi divenivano pura luce bianca. Pallando indietreggiò automaticamente, fissando l’arma tra le mani di lei. -Come ho detto- Lo apostrofò, Sillen. -Hai commesso un grande errore a venire qui.-
    Con un colpo potente, conficcò la testa dell’Alfiere difronte a sé, nella terra arida. In pochi secondi, il suolo cominciò a tremare.
    Pallando si voltò, sconvolto, guardando lingue di luce correre tra l’erba come saette, oltrepassandoli, dritte verso gli abitanti di Gondor. Uno ad uno, i frammenti dentro questi cominciarono a saltare in aria, in lampi bluastri.
    -Ora, Sillen!- Le gridò l’Alfiere, nella sua testa. La stella lo impugnò saldamente, estraendolo dal terreno. Piantando i piedi, costrinse ogni muscolo a tendersi oltre il sopportabile: -I tuoi giochetti sono finiti, Pallando!- Gridò, sferzando l’aria con una forza tale da mandare a gambe all’aria chiunque si trovasse dinanzi a lei. La falce di luce scaturita dall’Alfiere tranciò di netto l’energia bluastra che legava gli animi dei cittadini ai frammenti, liberandoli dalla loro influenza.
    Privi del loro legame malefico, i frammenti caddero a terra, in un lieve baluginare blu. Anche Miniel cadde a terra, respirando forte, e il Re corse a sorreggerla: -Padre!- Singhiozzò lei, tremando dalla paura e dal sollievo. Sillen, con il fiato corto, richiamò l’attenzione di Elessar: -Andate! Non sono riuscita a estrarre i frammenti dalle carni dei non morti, Pallando li userà per attaccare.- Si frappose tra i due e gli elfi oscuri, che si avvicinavano velocemente. -I soldati devono combattere! Portate i cittadini dentro le mura.-
    Lui non se lo fece ripetere due volte, richiamando le guardie e Sillen tornò a concentrarsi sul suo unico obbiettivo. Prima che Lhospen e Saedor calassero su di lei, i suoi compagni li intercettarono. Glorfindel atterrò sul Maestro delle Illusioni, rotolando nell’erba, mentre Thranduil e Thorin tentavano di evitare la frusta avvelenata del Maestro dei Velenti.
    Davanti alla stella, oltre la via spianata, Pallando sorrise: -Allora avanti, Stella dei Valar. Combattiamo.-



 
[1] Le Aule di Mandos, o Aule dell’Attesa, sono il regno dell’omonimo Vala, Signore del Destino e Giudice delle Anime. Questo luogo, situato in una zona indefinita a Nord di Valinor, è composto da immense Aule silenti: nessuno sa quante siano, né quale sia la loro effettiva estensione. Qui si ritrovano le anime degli Elfi (e, temporaneamente, degli Uomini) dopo la morte del loro corpo mortale, in attesa di ritornare in vita o di affrontare il proprio Fato.
 
[2] Gli Arazzi di Vairë la Tessitrice: ella è una regina tra le Valie, sposa di Mandos e abitante delle sue Aule. A lei spetta il compito di rappresentare la storia di Arda, tessendo i suoi arazzi, che vanno a ricoprire i muri delle Aule del marito. Con il passare del tempo e delle ere, i suoi arazzi si espandono e andranno a rivestire tutte le pareti delle Case dei Morti, fino alla fine dei tempi.
 
[3] Il Principe Imrahil è sovrano di Dol Amroth e padre di Lothíriel, a sua volta moglie di Éomer e regina di Rohan. Nella mia storia ricordo che sono entrambi elfi, mentre Tolkien li rappresenta come discendenti della stirpe dei Dùnedain. Inoltre, Imrahil sarebbe zio acquisito di Faramir e Boromir ma, per motivi di trama, ho preferito non mantenere questa parentela: l’idea di renderli elfi mi è pure tornata utile XD



N.D.A

EHM. Ciao a tutti, bentrovati <3 Quanto tempo mamma miaaaaa
Scusate, scusate davvero se sono sparita T-T Ben 5 mesi sono passati =w=

Dunque, mi sono laureata (YEEEH) con mia grande soddisfazione! Purtroppo, non so se per colpa della stanchezza o a causa del “rilassamento post-tesi”, mi sono svuotata di ogni iniziativa. Ho lasciato la ff per un bel po’, fino a quando, rileggendola, ho realizzato che no, non mi piaceva. Ci sono stati momenti in cui ho seriamente pensato di cancellarla o modificarla completamente. Credo di essermi spaventata dopo aver compreso che la storia si stava rivelando forse troppo ambiziosa per un’autrice alle primissime armi come me! E tutt’ora sono convinta di aver messo su un progetto che nella mia mente suonava in un modo, senza pensare che avrei dovuto fare i conti con le mie sole capacità e che esse, ovviamente, lo avrebbero fatto suonare in modo diverso. Non so se mi sono spiegata ahahah Per fortuna, non ho cancellato niente e, piano piano (e con l’aiuto prezioso di Chiara, ti voglio bene <3), ho ritrovato la vera motivazione, il filo conduttore che mi ha sempre spinta a continuare questa storia. Voglio a tutti i costi vederla conclusa!! Ed ecco il capitolo su cui lavoro da più di tre mesi XD Mentirei se dicessi che mi soddisfa pienamente, non è così. Ma esiste, mi permette di continuare questa avventura, quindi è benvenuto e benvoluto!
Spero sia lo stesso anche per voi <3

Fatemi sapere cosa ne pensate, mi è mancato tornare su EFP :3
Nel frattempo spero siate stati tutti bene, in questi tempi rocamboleschi!

Un abbraccio e un grande grazie a chi è tornato su questa storia ancora una volta <3

Con affetto,
la vostra
Aleera

 
 

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Capitolo 36
*** Namárië ***


 
 
-Namárië-



    I frammenti che giacevano sul suolo devastato brillavano appena, tremanti in quell’innaturale solitudine e smaniosi di ricongiungersi tra loro. Una tensione lieve, infatti, li attirava gli uni agli altri, facendo vibrare l’aria di energia. Tuttavia, abbandonati senza preavviso dai loro portatori umani, gli inoffensivi pezzetti di pietra finirono presto schiacciati dall’inarrestabile avanzata dell’esercito oscuro.
    I non morti si muovevano velocemente, dritti verso i cittadini di Gondor che, ormai liberi dalla magia del Palantir, incespicavano a fatica contro le mura, troppo deboli per correre in salvo.
    Intuendo la gravità della situazione, Éomer guidò i suoi in una folle cavalcata, pronto a coprire la ritirata dei civili. -Serrate le fila, suonate i corni!- Sollevò la lancia, furioso, spronando il destriero argenteo a non cedere terreno: -Scontro frontale!-
    Elessar e le guardie di Minas Tirith fecero appena in tempo a trascinare via gli ultimi ostaggi, poi la cavalleria invase i campi come un’onda scalpitante.
    All’istante, il familiare e sinistro clangore del ferro assordò i presenti: la battaglia era di nuovo cominciata.
    Pallando, incurante della scena, strinse nel pugno i frammenti del Palantir ancora in suo possesso, infondendovi più potere:
-Distruggete tutto, uccidete chiunque vi si trovi d’innanzi! Questa guerra non richiede più sopravvissuti.- Sibilò, adirato.
    Il suo ordine animò con maggior fervore i non morti, costringendoli ad avanzare più velocemente.
    Sillen puntò l’Alfiere del Cielo davanti a sé, ergendosi in tutta la sua altezza: -Arrenditi Pallando! I tuoi non morti non sono sufficienti, verranno soppressi.-
    Lo stregone non indietreggiò, nonostante la tensione gli inasprisse i tratti rugosi del volto. -Credi di conoscere tutti i miei assi nella manica, stupida ragazzina?- Il suo sguardo corse ai cittadini, che si accalcavano intorno alle mura come formiche attorno ad un buco: le guardie faticavano a mantenere l’ordine presso le porte, ormai bloccate da un ingorgo di corpi spaventati.
    In quel momento, l’alabarda divina tremò nelle mani della stella: -Sillen, qualcosa di molto grosso si avvicina.- Lei si guardò attorno, tesa. -Dove?- La voce dell’Alfiere si fece più cupa, mentre rispondeva: -Sotto terra.-
    Sillen sentì il sangue gelarsi nelle vene. I Mangiatori di Terra.
    Lo stregone voleva uccidere i cittadini prima che questi riuscissero a mettersi in salvo e aveva affidato il compito ai Mangia Terra. -Quel bastardo già sapeva che saremmo stati più numerosi dei suoi non morti, in caso di scontro.- Nonostante la sua inutile farsa, egli voleva ancora uccidere tutto.
    La stella ringhiò la sua frustrazione verso Pallando, cercando un modo per fronteggiare quell’incombente pericolo. L’Alfiere aveva bisogno di più tempo per ricaricarsi, dunque lei non poteva ancora sfruttare la sua piena energia. Tuttavia…
    Sillen serrò la mascella, concentrata: tuttavia, l’alabarda non era l’unico potere di cui lei disponeva.
    Lo Stregone Blu avanzò verso di lei con il bastone nero saldo tra le mani, frenando i suoi pensieri: -Lo ammetto, non mi aspettavo che i miei ostaggi mi sarebbero stati tolti con tanta facilità... Ma adesso tu non puoi fare niente senza la tua grossa arma, non è vero? Non riuscirai comunque a salvarli.- Ghignò: -E anche se fosse, io ti ucciderei prima!- Si lanciò verso di lei, caricando un affondo senza pietà.
    Il suo bastone oscuro cozzò con un violento boato contro l’Alfiere del Cielo e Sillen piantò i piedi a terra, per evitare di essere sbalzata via. Lasciò scivolare le lame dell’alabarda verso il basso, sottraendosi al peso di quell’attacco solo per mirare al fianco scoperto dell’avversario.
    Inaspettatamente, quando il filo della lama lucente raggiunse Pallando, una forza estranea lo respinse di colpo, facendo barcollare la stella all’indietro. Lo stregone sorrise, un ghigno sinistro: -Giusto, dovevo avvertirti. Non puoi toccarmi.-
    L’Alfiere del Cielo risuonò metallico e infastidito: -Utilizza il Palantir per proteggersi. Posso attraversare la sua barriera solo al massimo della mia forza, è un artefatto troppo potente, soprattutto se sarà completo. Prendi tempo.- Sillen rinsaldò la presa, senza scoraggiarsi, mentre la battaglia le infuriava attorno: -Quanto tempo ti serve?- Schivò un nuovo affondo di Pallando, senza permettergli di colpire l’Alfiere. -A destra.- Le fece l’alabarda, e Sillen schivò un nuovo attacco con prontezza:
    -Concedimi più tempo possibile, saprai quando sarò pronto.-
    La stella annuì: -Bene!-
    Quando Pallando si avvicinò nuovamente in un attacco frontale, Sillen piantò l’Alfiere a terra, decisa. Anziché parare il colpo, si abbassò velocemente, calciando il ventre dello Stregone Blu con tutta la forza di cui disponeva.
    I suoi occhi brillarono intensamente e, contro ogni aspettativa, Pallando fu sbalzato violentemente indietro. Non era riuscita a toccarlo ma la barriera del Palantir, respingendo l’attacco della stella, aveva subito un forte contraccolpo. Pallando atterrò malamente, tirandosi a sedere con una smorfia tra il dolorante e il rabbioso.
    Sillen approfittò all’istante di quel momento, proprio mentre il suolo cominciava a tremare a causa dell’incessante scavare dei Mangia Terra: con decisione, premette le mani nell’erba secca, affondando le dita nel terreno.
    Sotto gli occhi costernati degli alleati, i Campi del Pelennor presero a brillare in modo del tutto innaturale, prima lievemente, poi sempre più intensamente, fino a colorarsi di un bianco vibrante, al pari di un lago di luce.
    Solo allora, i giganteschi corpi grigi dei tre Mangia Terra emersero violentemente, urlando il loro sconcerto in sibili assordanti: la stella li aveva cacciati fuori dalle loro gallerie, bruciandoli con il suo potere.
    Furiosi, i Vermi strisciarono in avanti ma non fecero in tempo a crollare con le loro bocche circolari sui cittadini che l’energia pura della stella avvolse anche loro.
    Sillen brillò con un’intensità tale da far lacrimare gli occhi, inarrestabile. La collana in mithril, sollevata sul suo petto, canalizzò la sua immensa forza alla perfezione: ella non solo si era impadronita nuovamente del proprio potere, si era rafforzata. L’immagine di quell’altra, terribile e implacabile, si sovrappose per un secondo a quella fulgida della stella: in tutti i modi possibili, loro due erano oramai un’unica cosa.
    Con un grido nato dal tremendo sforzo, Sillen rivolse tutte le sue forze sui tre Mangia Terra avvolti dalla luce e, in un lunghissimo attimo, essi esplosero, cadendo a brandelli sul suolo caldo.
    Pallando ansimò, incredulo: -Maledizione, è impossibile!- Una potenza simile era inaspettata. E loro non erano pronti ad affrontarla.
    Storse la bocca, osservando con odio la stella che, ancora inginocchiata a terra e ansimante, ricambiò lo sguardo, gli occhi d’ametista duri e freddi come gemme. -Non importa, non importa... Questo non cambia niente!- Le abbaiò contro lui, mentre le sue mani nodose si stringevano convulsamente al bastone scuro. -Tu sei sola, non puoi fermare la nostra ascesa!-
    Lei si tirò in piedi, espirando a fondo e svuotandosi di ogni tensione superflua. Non aveva bisogno di rispondere a quelle futili provocazioni: lei non era mai stata sola, nemmeno per un istante. Brandì l’alabarda nuovamente, decisa a mettere fine a quella guerra: -Pensa ciò che vuoi, non sono qui per metterti ragione, Pallando.- Esordì, seria e limpida. -Il mio solo e unico dovere è fermarti. E stanne certo, è quello che farò.-
    Prima che Pallando potesse rendersene conto, la Stella dei Valar si era mossa verso di lui, in un attacco fulmineo. Lui serrò i denti appuntiti, consapevole di non essere abbastanza rapido da schivarla. Poco male, quella stupida ancora non aveva compreso quanto impenetrabile fosse l’armatura del suo Palantir.
    Sollevò entrambe le braccia, pronto a ricevere un altro colpo a vuoto del temibile Alfiere: un boato assordante si propagò nei campi e molta polvere si sollevò da terra, nascondendo gli sfidanti alla vista.
    Solo nel momento in cui la nube polverosa cominciò a diradarsi, Pallando si rese conto che il colpo dell’Alfiere non lo aveva mai raggiunto.
    Sillen strinse gli occhi a due fessure, fissando le iridi grigie di colui che aveva parato il suo affondo mortale con il proprio bastone ricurvo: Alatar. Le braccia dell’uomo tremarono per lo sforzo ma lui era forte, abbastanza da trattenerla: -Sillen, aspetta.- Ansimò, con voce arrochita. Lei non diede segno di voler diminuire la potenza del suo attacco. -Ti prego di ascoltarmi, non è come credi.- Tentò lui, il tono e il volto insolitamente stanchi.
    Pareva sfinito oltre ogni precedente mentre le rivolgeva quelle parole vuote, forse senza sentirne davvero il peso; forse senza che per lui avessero più alcun valore.
    Pallando fissò il fratello con sdegno: -Alatar! Non perdere tempo in inutili discorsi, finiscila adesso!- L’altro scosse appena la testa: -Avevi promesso che mi avresti lasciato parlare con lei.-
    -Le cose sono cambiate, non lo capisci?! È più forte ora, è un pericolo.- Alatar, con la mascella contratta, si districò da quello stallo fatto di membra tese e ferro e Sillen balzò indietro, svelta.
    Guardò i due fratelli, senza lasciarsi distrarre da quell’inutile teatrino: non poteva esitare, nemmeno un istante, o ne avrebbero approfittato. Traditori, bugiardi, infidi, falsi.
    Non le importava di ciò che stavano dicendo, voleva solo porre fine a tutto. Anche a costo di dover affrontare Alatar. Anche a costo di dover affrontare sé stessa.
    L’Alfiere le riverberò nella mente, inaspettatamente gentile e comprensivo: -Se lo desideri, verrò con te.- Lei osservò il più giovane degli Stregoni Blu, mentre questi stringeva il suo familiare bastone ricurvo tra le mani ruvide e forti. -Tu e pensa ai frammenti. Raduna quelli caduti e aiuta gli alleati.- Rassicurò l’arma, lei, con un mezzo sorriso.
    La piantò nel terreno senza ulteriori preamboli: -Avvertimi quando il Palantir sarà ricomposto. Allora, metteremo fine a questa battaglia.- Poi, i suoi occhi si fecero luminosi come il sole.
    Estratta la spada elfica dal fodero, Sillen cominciò a correre verso gli Stregoni, lasciando l’alabarda dietro di sé.
    Alatar ebbe appena il tempo di sollevare nuovamente il bastone che la stella calò su di lui con tutta la sua forza, provocando tremende esplosioni di energia.

 
**
 
    Thorin ruotò l’ascia, piantandola ad un soffio dalle gambe dell’elfo oscuro. Quel tizio era veloce, troppo veloce. E la sua frusta schioccava in tutte le direzioni, imprevedibile.
    Thranduil, prontamente, attaccò ancora, senza lasciare al Maestro dei Veleni la possibilità di riprendere fiato. Come se questi ne risentisse. Il Sindar non era nemmeno riuscito a sfioralo e la cosa, suo malgrado, lo innervosiva. Inoltre, non riusciva a rimanere concentrato. Ci provava, fallendo pochi istanti dopo, quando il suo sguardo scattava rapido laddove la stella stava affrontando gli stregoni. Due contro uno, una mossa da codardi.
    Ringhiò tutta la sua tensione, parando un altro attacco incredibilmente potente dell’elfo bendato. Il suo udito fine tornò a sondare la situazione più a est, senza che lui potesse impedirlo.
    Sillen
    Scorgeva i lampi di energia, sentiva il sibilo della lama elfica e i tonfi dei corpi che cozzavano sul terreno e, cosa peggiore, non poteva comunque vedere chiaramente cosa stava accadendo. Era frustrante.
    Saedor seguì per un istante il suo sguardo adamantino, serrando i pugni: -Ho capito chi sei.- Sibilò, rauco. Fece schioccare la sua frusta velenosa, l’occhio nero come le tenebre spalancato sul Re degli Elfi: -Sei l’elfo amante della stella.- Thranduil storse la bocca in un’espressione rabbiosa: -Stai zitto.-
    Ma il solo sentirla nominare lo deconcentrò ulteriormente. Nemmeno si accorse della traiettoria mortale dell’arma dell’elfo oscuro. Prima che il Maestro dei Veleni riuscisse a colpirlo, Thorin si frappose velocemente tra i due, mozzando la punta della frusta avvelenata con la sua ascia: -Non distrarti, folletto! Sillen se la caverà meglio di noi, credimi!- Lo riprese, tonante.
    Il Re balzò all’indietro, respirando a fondo. La situazione non gli permetteva di ragionare chiaramente, troppo simile alle circostanze che, secoli prima, lo avevano privato della sua amata Regina.
    Saedor ignorò il nano e inclinò la testa, studiando Thranduil con inquietante insistenza: -Sai chi sono io, invece?-
    -Non mi interessa.-
    -Sono colui che ridusse la stella ad un’ombra martoriata, colui che avrebbe potuto ucciderla senza alcuno sforzo.- A quelle parole sibilate, Thorin Elminpietra puntò immediatamente gli occhi sul Re: -Non starlo a sentire, vuole solo provocarci!- E deglutì dinanzi all’espressione dell’elfo argenteo.
    Thranduil strinse la spada in un moto d’ira, consumato dalla preoccupazione e dal sentimento d’impotenza che lo inseguivano da ben prima dell’inizio della battaglia.
    Solo imponendosi un ferreo autocontrollo, riuscì a trattenersi dal rispondere. Non voleva stare a quel meschino gioco, ora Sillen stava bene, era più forte.
    Si concentrò nuovamente sull’attacco, sperando di porre fine a quello stallo per accorrere in aiuto della stella, quando la voce gracchiante dell’elfo lo raggiunse ancora una volta: -Perché vuoi impedirmi di farle del male? Ho provato un grande sollievo nello stringere la mia frusta attorno al suo fragile collo. Sentire il profumo della sua carne che si scioglie… è mio desiderio torturarla e ucciderla. Vorrei farla soffrire.- Spalancò ancora di più quell’infernale occhio nero, gli angoli delle labbra tirati verso il basso: -Dovrebbe soffrire. Solo chi soffre può capire.-
    Thranduil espirò, perdendo in un attimo ogni briciolo di concentrazione che gli era rimasto. Colpì senza esitazione, ripetutamente, nonostante non riuscisse a comprendere le reali intenzioni di quell’elfo degenerato.
    Thorin cercò di stargli dietro, tagliando la fuga del loro avversario: -Così non va bene, non va affatto bene.- Ansimò, tentando di colpire le gambe del veloce Maestro.
    Saedor saltellò di lato, evitando ogni preciso attacco senza battere ciglio. Era quasi innaturale. -Sono stanco di voi misere, inutili creature. Solo chi è come me è forte. Solo chi ha sofferto è degno di battermi.- Guaì, pronto ad attaccare un’ultima volta.
    Qualche secondo dopo, Thranduil sentì la frusta dell’elfo oscuro avvolgersi sfrigolando attorno alla lama della sua spada. In un istante, piantò istintivamente i piedi a terra. Sorrise, in un ghigno saputo: quel sadico aguzzino si era appena rovinato da solo. Poteva anche essere veloce e instancabile ma non aveva ancora imparato a misurare la forza del suo avversario. Il Re era due volte più grosso di lui, come poteva anche solo pensare di trattenerlo con la forza bruta?
    Con un gesto secco, Thranduil strinse la spada con entrambe le mani, tirando violentemente verso di sé. Saedor, come previsto, perse l’equilibrio, finendo dritto contro il corpo solido del Re degli Elfi. Thranduil lo sostenne, in vero: con un pugnale piantato dritto nel suo cuore. -Mi hai stancato.- Sibilò.
    Thorin esultò, sollevando la pesante ascia al cielo: -Fuori uno, ottimo lavoro!- Ma Saedor, contro ogni logica razionale, semplicemente afferrò la mano dell’elfo e indietreggiò, sfilandosi il pugnale dal petto con naturalezza. Sotto lo sguardo sconvolto dei due, riprese la posizione d’attacco: -Idioti. Vi sventrerò.-
    A quella scena, Thranduil sentì il sangue gelarsi nelle vene e strinse più forte il pugnale impregnato di sangue, deglutendo.
    Quando Sillen aveva accennato all’incredibile resistenza di quell’elfo, forse non aveva esagerato.
    Forse, la situazione era peggiore di quanto lui si fosse aspettato.
    E, forse, non si sarebbe riunito alla stella tanto velocemente.

 
**
 
    Legolas raggiunse in fretta il Re degli Uomini, ancora profondamente scosso da quanto accaduto poco prima. Sapeva di avere il viso stravolto, gli occhi gonfi di pianto e la gola riarsa dal tanto urlare, ma non aveva alcuna intenzione di fermarsi a riprendersi: -Aragorn!- Questi si voltò verso di lui, sorridendo.
    Alla vista dell’amico in piedi e in forze, il peso sul petto del Principe si dissipò all’istante, come un cumulo di ghiaccio finalmente sciolto dal sole. Lui era vivo, stava bene. Anche Miniel e la Regina erano salve, al sicuro dentro le mura. Contro ogni aspettativa, tutti loro avevano evitato il peggio.
    Strinse il proprio arco, sollevato, concentrandosi sulla situazione: -I cittadini sono entrati?- Elessar calciò via un non morto con poca grazia, scostando indietro i capelli disordinati:
    -Sì, sono tutti al riparo, finalmente. Ci penseranno Barbalbero e i suoi a difendere la città, adesso.- Fece poi segno ai generali, posizionati sulle mura sopra di loro e pronti a ricevere ordini:
    -Conducete i cittadini nei livelli più alti e difendete le porte! Chi non è strettamente indispensabile raggiunga i rohirrim in battaglia!- Esclamò, risoluto.
    Gimli ruzzolò al loro fianco poco dopo, trafelato. Si tirò su tra borbottii sollevati, guardando Elessar: -Ragazzo, te la sei vista brutta! Mi sono venuti i capelli bianchi per lo spavento.- L’altro rise di gusto, roteando la spada per accogliere altri due non morti in avvicinamento: -Poco male. Di capelli bianchi già ne avevi in abbondanza, vecchio mio. Ora buttiamoci nella mischia, ai convenevoli penseremo dopo!-
    Messe in sicurezza le porte della città, Elessar spostò lo sguardo su entrambi i suoi amici: -Sillen tenterà di uccidere Pallando appena le sarà possibile e gli altri stanno affrontando gli elfi oscuri. Noi dovremo occuparci dei non morti, per dare loro più tempo.-
    Legolas scosse la testa, sollevando una mano per frenare il Re: -Aspetta, Aragorn. La freccia che ho scoccato non è riuscita a penetrare le difese dello Stregone Blu, ricordi? La mia idea è che lui stia usando il Palantir per difendersi. Se la mia supposizione fosse corretta, la prima cosa da fare sarebbe radunare tutti i frammenti e rendere inoffensivo il Palantir, mentre la stella impegna gli stregoni nello scontro. In questo modo, Pallando perderà il suo scudo protettivo e Sillen potrà finalmente ucciderlo.-
    Elessar e Gimli si scambiarono uno sguardo preoccupato ma, in quell’istante, una voce indefinita e innaturale proruppe nella loro mente: -Ebbene, sei cento volte più sveglio di tuo padre, giovane Principe.-
    I tre sobbalzarono, guardandosi attorno con sconcerto. -Che cos’è stato?!- Esclamò Gimli, mentre gli altri due afferravano in fretta le spade.
    -State calmi gente, sono solo l’arma della vostra cara Sillen.- Credette di tranquillizzarli, l’Alfiere, riecheggiando nella loro mente. Come se comunicare con un’arma parlante fosse del tutto normale. -Alle domande risponderò più tardi, ora statemi a sentire. Non abbiamo molto tempo.-
    Elessar individuò l’alabarda, piantata nel bel mezzo del campo di battaglia: un’aura bianca come la neve la circondava, impedendo a chiunque di avvicinarsi o di toccarla.
    -Straordinario!- Esultò Legolas: -L’Alfiere del Cielo!-
    Questi sospirò: -Come il Principino diceva, Sillen non sta tentando di uccidere Pallando, in questo momento. Piuttosto, il suo piano è fare in modo che il Palantir venga reso inutilizzabile attraverso la sua morte.- Elessar sgranò gli occhi: -Giusto! La Pietra Veggente deve ricordare una morte violenta per perdere il suo potere. Se la facessimo avere a Pallando prima di ucciderlo, ricorderebbe proprio la sua morte!-
    -Per questo ho bisogno che tutti voi seguiate le mie istruzioni. In questo momento, sto attirando a me tutti i frammenti caduti ai cittadini.- L’Alfiere brillò brevemente, mentre i pezzi di vetro scuro rotolavano placidamente verso di lui, attirati dalla sua energia. Attorno alle sue lame, già a decine si erano accalcati gli uni agli altri, in un bagliore bluastro.
    I tre amici sorrisero, speranzosi.
    -Io mi occuperò di radunarli. Il vostro compito, invece, è estrarre i rimanenti frammenti dalla carne dei non morti.-
    E i sorrisi si spensero: -Cosa?! Ma sono troppi! Per muovere cinquantamila non morti, Pallando avrà usato almeno trecento frammenti! Hai idea di quanto tempo ci vorrà? Senza contare che prima dovremo individuare tutti i non morti che ne possiedono uno! E questi hanno l’ordine di scappare, una volta allo scoperto! Come credi che-
    Ma l’Alfiere zittì Elessar con voce seria: -Ce ne sono quattrocentosessantanove in possesso dei non morti, al momento.- I tre s’irrigidirono, scossi dalla potenza sotterranea che il tono incolore dell’Alfiere aveva trasmesso loro. Si fecero piccoli, sotto il peso della sua essenza divina. -Mi credi stupido? Lo so benissimo, simpatico Re degli Uomini. Infatti, sarò io a indicarvi i cadaveri ambulanti portatori dei frammenti. Cercate la mia luce.- Le espressioni degli alleati si fecero perplesse ma non per questo osarono obbiettare.
    L’Alfiere del Cielo abbandonò lentamente le loro menti, con l’eco di un ultimo ordine: -Passate la parola e sbrigatevi. Vi dò tre ore.- E sparì, lasciandoli a loro stessi.
    -Non perdiamo tempo, raggiungiamo Éomer, Faramir e gli elfi, e passiamo la parola. Sono certo che presto capiremo cosa cercava di dirci l’arma con “cercate la mia luce”.- Sospirò, Elessar.
    Gli altri annuirono e, insieme, presero a correre verso il campo di battaglia.

 
**

    Lhospen si voltò verso il suo implacabile inseguitore, senza rallentare: -Sei troppo lento, vecchio Vanyar.- Lo derise, lasciando che i lunghi capelli neri gli sferzassero il viso. Glorfindel balzò su di lui, mancandolo per un soffio. Ancora.
    -Stai zitto, ragazzino!- Ansimò, infastidito, tornando a corrergli dietro. Come diamine faceva ad essere così veloce?
    Oramai, con quell’infinito inseguimento, avevano percorso tutte le mura del versante Nord della città, giungendo quasi alle pendici della montagna. 
    Il frastuono della battaglia era solo un’eco alle loro spalle e le cicale frinivano senza sosta, sotto un sole impietoso.
    Finalmente, Glorfindel vide l’elfo svoltare di colpo, nascondendosi dietro all’ultima torre difensiva, e sorrise: si era andato a cacciare in un vicolo cieco, era in trappola. Il Vanyar frenò bruscamente dinanzi alle mura, pronto ad attaccare.
    Tuttavia, quando la polvere sollevata dai loro piedi si dissipò per rivelare il retro della torre difensiva, Glorfindel si ritrovò solo.
    Incredulo, perlustrò la zona, fino a tastare le pietre squadrate delle mura: l’elfo oscuro era letteralmente scomparso.
    La voce di Sillen risuonò nella sua memoria, come un monito: “I suoi servi sono esseri potenti e imprevedibili. Uno di loro è padrone delle illusioni…” Doveva essere lui, colui che si faceva chiamare Maestro delle Illusioni.
    Se padroneggiava le illusioni allora…
    Gli acuti sensi dell’elfo dorato si fecero attenti, mentre ripercorreva la torre difensiva: lui doveva essere ancora lì, invisibile ai suoi occhi. -Cerca di non essere troppo ridicolo e vieni fuori. Giuro che se t’inginocchi e preghi per la mia pietà, ti risparmierò.- Lo incalzò, Glorfindel, sorridendo sornione.
    Per tutta risposta, un forte calcio all’addome lo mandò a sbattere contro la parete di pietra: -Chi credi che io sia, per dover cercare la tua pietà?- Il tono canzonatorio del Maestro rimbalzò tra le pietre, senza che Glorfindel potesse rintracciarne la fonte.
    -Allora affrontami lealmente!- Ringhiò questi, rivolto allo spazio dinnanzi a sé. L’altro stette in silenzio per un po’, poi sembrò convincersi: -Va bene, come vuoi tu. Giochiamo, vecchio Vanyar.- Glorfindel aggrottò le sopracciglia, senza capire cosa l’elfo intendesse e si voltò per cercarlo con lo sguardo quando, improvvisamente, il paesaggio intorno a lui cambiò.
    La testa del Vanyar vorticò con violenza e le sue membra tremarono, mentre si ritrovava a fissare gli Arazzi di Vairë, la Tessitrice. -Come, d-dove-
    -Il gioco è semplice.- La voce dell’elfo rimbombò come un'eco infinita tra le volte di marmo delle Aule, stordendo ancora di più Glorfindel: -Devi uscire da queste stanze da solo. È leale, il mio potere contro il tuo. Se uscirai da qui, avrai vinto. Come vedi è molto semplice, tuttavia ti avverto: c’è una difficoltà.-
    Una risatina sfiorò l’orecchio del Vanyar, che si voltò di scatto, senza però vedere nessuno. Lhospen continuò: -Le mie illusioni possono riprodursi all’infinito. Ringrazia la stella per questo… è stato lo scontro con lei che mi ha permesso di perfezionarmi. Un tempo, una volta smascherate, le mie illusioni perdevano di efficacia e il vostro potere divino le avrebbe dissolte in pochi secondi. Ma adesso mi sono… adeguatamente potenziato. Non accadrà di nuovo.- Ridacchiò.
    Glorfindel si portò le mani tra i capelli, terrorizzato: -C-cosa vuoi dire!?- Ma era piuttosto chiaro: non poteva uscire da lì, e forse non ne sarebbe uscito mai più, perché l’unico modo per sconfiggere Lhospen era trovarlo, colpire il suo vero corpo, nascosto oltre la coltre delle sue nuove, potenti e indistruttibili illusioni. Alla faccia del gioco leale.
    Indietreggiò, deglutendo a vuoto. D’un tratto, una figura apparve in fondo alla sala di marmo. Non poteva essere Lhospen, non avrebbe mai rischiato tanto. Bensì, poteva essere un alleato, se la fortuna volgeva a suo favore. Glorfindel prese a correre verso la figura, più veloce che poteva. Tuttavia, per quanto corresse, egli non si spostava affatto dal punto di partenza.
    Ansimò, confuso e angosciato: -Chi sei!?- Per un secondo, la figura si fece più nitida: era Thranduil? No, forse era Legolas. E poi, gli parve fosse il tozzo Thorin Elminpietra. -Chi sei!?- Ripeté, sperando che questi rispondesse. Era… Sillen?
    -Sillen!- Urlò, sentendo il cuore battere impazzito nel petto. Lhospen non poté non notare le sue pupille dilatate, la sua espressione disperata, la mano tesa verso quella figura che lui aveva plasmato in ognuno dei compagni del Vanyar, sperando di trovare il suo punto debole.
    Ed eccolo lì, urlato al vento senza che lui si fosse sforzato poi tanto: Sillen. Girava sempre tutto attorno a lei, eh?
    Glorfindel sentì il proprio potere ribollire nelle vene: -Adesso basta, fammi uscire da qui!- Ringhiò, pronto a bruciare qualsiasi cosa avesse attorno.
    Ma, prima che il suo potere esplodesse, il Maestro delle Illusioni si diede da fare, producendosi in nuovi scenari. Non che avesse paura di alcunché, le illusioni non potevano essere ferite, voleva solo evitare che si rovinassero subito. E poi aveva in mente altri giochetti.
    Sillen corse verso il Vanyar, i passi leggeri che a malapena risuonavano sul freddo pavimento: -Glorfindel, ti ho trovato!-
    La sua voce irrigidì i movimenti dell’elfo, che si voltò verso di lei, sgranando gli occhi: -T-tu… Che cosa fai qui, vattene subito!-
    Lei scosse la testa, mentre i lunghi capelli le piovevano attorno in onde di seta nera: -Non posso andare via senza di te, fuggiamo insieme!-
    L’elfo sgranò ancora di più gli occhi dorati.
    Poi storse le labbra, infastidito: -Questa illusione ti è venuta proprio male. Perché farle dire una cosa simile? Oh, credi che io sia tanto affascinante da non poter essere rifiutato? Lusingatissimo ma caschi male, sai?- Si raddrizzò, ignorando la bella illusione della stella: -Sillen non direbbe mai una cosa simile. Pecchi di arroganza se credi di potermi ingannare senza conoscere la realtà dei fatti.-
    Lhospen, o meglio, la voce effimera di Lhospen, ridacchiò:
    -Scusami, credo tu abbia ragione. Forse ho sbagliato soggetto.-
    L’illusione di Sillen superò il Vanyar per correre tra le braccia di Thranduil, improvvisamente apparso al loro fianco: -Così va meglio, vecchio immortale?- Mormorò, il Maestro. Glorfindel distolse lo sguardo, sbuffando: -Patetico.-
    Si voltò, cercando di allontanarsi dalla parte opposta. Ovviamente, poteva camminare quanto voleva, non si sarebbe allontanato di un passo. -Odio questo tizio.- Masticò, incrociando le braccia al petto.
    Più che una battaglia, quella era una trappola mentale di pessimo, pessimo gusto.
    -Che peccato, avrei scommesso su di te.- Lo canzonò, Lhospen, mentre i due innamorati fittizi si prodigavano in effusioni oscene alle spalle dell’elfo dorato. Questi, nonostante cercasse di ripetersi che quella fosse solo finzione, non resistette a lungo alla deplorevole scena.
    In un moto di stizza, la sua luce violenta spazzò via l’illusione dei due amanti, pur non riuscendo a scalfire quella attorno a lui.
    O forse sì, non era importante. Tanto lui non poteva vederlo.
    Poteva solo vedere ciò che il Maestro voleva fargli vedere.
    Che potere tremendo.
    -Puoi smetterla!? Hai intenzione di andare avanti così? Non riuscirai a tenermi imprigionato qui a lungo, ti troverò!- Urlò, in direzione del nulla. -Oh, non ti piaceva guardare la tua stella? Era così felice! Forse preferisci qualcosa di diverso.- Questa volta, attorno a lui apparvero strumenti di tortura della peggior specie.
    Glorfindel rabbrividì ma strinse i denti: -Sono solo illusioni.-
    -Allora non ti dispiacerà se provo una di queste.- Sillen tornò nella sala, avvicinandosi ad una di quelle macchine infernali.
    I suoi occhi d’ametista fissarono Glorfindel, spaventati, mentre le cinghie si stringevano attorno ai suoi polsi sottili: -Glorfindel, aiutami!- L’elfo serrò la mascella: -Sono solo illusioni.-
    Eppure, quando le urla di dolore si propagarono nella sala, il Vanyar si sentì ribollire. -Smettila con queste stronzate!- Imprecò, investendo lo spazio con la sua luce dorata.
    Tuttavia, questo si ricompose in fretta attorno a lui.
    Le urla continuarono ma Sillen, questa volta, non apparve più legata. Stava in piedi, sanguinante, a fissarlo con odio: -Perché non mi hai aiutata!?- Gli urlò.
    Glorfindel indietreggiò di un passo, instabile, e l’illusione lo attaccò. Il dolore che gli attraversò le membra sembrava così reale che l’elfo pensò di essere finalmente uscito da quel luogo illusorio. Purtroppo, non poteva essere così semplice.
    -Sillen, ferma… Ah, a che serve parlare se è solo un’illusione!- Ringhiò lui, accusando un nuovo calcio della stella. Era forte, era veloce. Ed era solida come roccia. Sapeva che, se voleva rimanere intero, avrebbe dovuto combattere. Saltò indietro ma Sillen lo colpì al ginocchio, facendolo crollare a terra.
    -Guardati, nemmeno riesci a reagire. Nonostante tu sia consapevole che ella è solo un’illusione, ancora non riesci a colpirla?- Glorfindel rotolò sul marmo: -Dannazione…- Soffiò, dolorante, cercando di ignorare la voce beffarda di Lhospen.
    Attorno a lui apparvero altre Sillen, che riempirono la sala come una folla. Alcune subivano torture spaventose, alcune venivano uccise, altre erano prese senza pietà da versioni distorte di lui, di Thranduil, dell’elfo oscuro. Altre lo attaccavano senza esitazione, colpendolo con violenza.
    Era un incubo, una tortura apparentemente senza fine.
    Ogni volta che il suo potere lucente spazzava via tutto, questo si ricomponeva, senza fare una piega. Poteva andare avanti all’infinito… lui, invece, no.
    Presto sarebbe crollato definitivamente.
    E Lhospen aspettava solo quel momento.

 
**

    Elessar si fermò in mezzo alla ressa, tranciando membra non morte a più non posso: -Qualcuno ha visto una stramaledetta luce?- Gridò, rivolto ai compagni.
    Éomer bloccò un orco prima che si avventasse su Gimli, intento a decapitare un disgustoso Uruk-hai: -Ancora niente, è inutile!-
    Legolas recuperò un’altra freccia dalla faretra: -Abbiate fiducia nell’Alfiere del Cielo, sento che sta per accadere qualcosa.-
    Accanto a lui, Faramir schivò una lancia insanguinata, scostandosi i capelli sudati dalla fronte: -Lo spero! Non abbiamo che tre ore, deve sbrigarsi!- Gimli lo tirò indietro, evitando per un soffio che una mazza chiodata piombasse su di lui: -Se non appare nessuna dannata luce li illumino io con il fuoco, per tutti i martelli di ferro dei nani!- Tuonò.
    Come risposta a quelle veementi parole, un suono orribile irruppe tra il clangore delle armi e le urla degli alleati. Era un sibilo stridulo e penetrante, come ossa che sfregano tra loro o legno che viene stritolato dal metallo.
    Elessar si guardò attorno, tra le espressioni attonite e confuse dei compagni: -Da dove viene?!- Legolas tese le orecchie: -Non da una sola parte… viene da ovunque!- Sopra di loro, come fulmini a ciel sereno, si ersero improvvisamente sottili colonne di pura luce bianca. Erano decine, forse centinaia.
    Gli amici corsero verso quella più vicina, trafelati: -Di certo quella è una luce.- Convenne Gimli, sconvolto, seguendo Legolas tra i soldati. Giunti alla fonte di quell’assurdo evento, Elessar e i suoi rimasero a bocca aperta: un non morto era inchiodato al suolo, trattenuto da una lancia di luce conficcatasi nella sua carne putrida. Come ogni non morto portatore di un frammento, tentava di liberarsi, dimenando braccia e gambe, inutilmente.
    Il rumore sgradevole che riempiva l’aria, non era altro che lo sfrigolare della lancia di luce a contatto con i tendini e le ossa di tutti i cadaveri che, come questo, erano stati catturati.
    La puzza, poi, non era da meno.
    -Ecco cosa intendeva l’Alfiere.- Mormorò Faramir, deglutendo.
    Elessar brandì Andùril, improvvisamente consapevole del rapido avvicinarsi degli altri non morti: -Non abbiamo tempo da perdere, gli altri accorreranno a difendere i frammenti!- Con un balzo fu sul non morto, tranciandogli di netto la testa.
    Il frammento bluastro rimbalzò sul terreno un paio di volte, prima di partire come la punta di una freccia verso l’Alfiere del Cielo. -Perfetto.- Si animò, il Re degli Uomini.
    Anche i suoi compagni si riscossero, nuovamente motivati.
    Éomer fece segno ai suoi: -Io andrò a Sud!- Faramir gli tenne dietro, mentre Legolas cominciava a correre nell’altra direzione, più rapido: -Radunerò gli elfi a Est! Elladan e Elrohir sono già lì, devo avvertirli!-
    Elessar guardò per un istante Gimli, che si lisciò la folta barba rossiccia: -Non preoccuparti, noi nani ci occuperemo del Nord. Vai a Ovest con i tuoi uomini, ci rivedremo dall’Alfiere quando i frammenti saranno radunati.- Il Re annuì, partendo in gran fretta verso i generali di Minas Tirith: avevano tre ore, forse meno, ma si fidava di ognuno dei suoi compagni come di sé stesso.
    E ancora una volta, gli alleati si separarono per adempiere il loro compito.

 
**

    Sillen lanciò uno sguardo distratto alle colonnine di luce che avevano screziato il cielo terso, pulendosi il sangue dal labbro.
    Alatar ansimò per lo sforzo, il sopracciglio spaccato che colava rivoli cremisi sul suo viso segnato: -Capisci Sillen? Tutti smetterebbero di soffrire, non credi sia una buona cosa?- Le fece, mesto.
    La stella afferrò la spada con la mano sinistra, poiché la destra era ormai diventata troppo scivolosa per via delle ferite al braccio, che la sua luce stava già provvedendo a rimarginare. Non avvertiva dolore, però. Niente era paragonabile alla morsa di fuoco che aveva avvolto il suo cuore, nel combattere contro lo stregone. Da tempo aveva smesso di provare a zittirlo: non aveva alcun senso quel suo blaterare di pace, di morte risanatrice. La morte non rendeva liberi, Glorfindel le aveva insegnato anche questo: era solo una triste e vuota via di fuga che non poteva offrire alcuna pace al mondo.
    -A che serve un mondo pacifico se nessuno può viverci?- Lo apostrofò, piccata. Alatar strinse la mascella, senza ribattere. La spada elfica rovinò ancora sul bastone magico dello stregone, senza però scalfirlo. Era inutile continuare a combattere contro l’arma dell’Istar con una semplice spada, ma Sillen aveva bisogno di guadagnare tempo.
    Invece che mettere più forza nella lama, la stella assestò un pugno contro lo zigomo dello stregone, che barcollò all’indietro. Mentre la giovane scartava rapidamente di lato, la sua spada disegnò un arco rosso sull'avambraccio dell’uomo.
    -Alatar devi reagire! Non serve a niente provare a trattenerla, attacca!- Lo incalzò Pallando, rimasto alle spalle del fratello.
    Dopo l’assaggio della potenza di Sillen, e senza le figure protettive di Lhospen e Saedor al suo fianco, il vecchio pareva meno propenso a schierarsi in prima fila. -Codardo.- Soffiò, Sillen.
    Alatar la vide tornare all’attacco e dal suo bastone partì una forte corrente. Sillen fu sbalzata via ancora una volta, finendo a rotolare nell’erba secca.
    Pallando aveva ragione, Alatar si era limitato a fermarla, a impedirle di arrivare a lui, ma non l’aveva mai attaccata di sua iniziativa. Lei tenne una mano sul costato dolorante, osservandolo senza nascondersi al suo sguardo.
    Perché, Alatar? Perché non voleva attaccarla? Perché cercava di renderle le cose ancora più difficili?
    Scosse la testa prima che i suoi occhi si riempissero di lacrime: ancora un po’ di tempo, poi avrebbe attaccato con tutta la sua forza e nemmeno Alatar sarebbe riuscito a fermarla. Per ora, poteva continuare quel teatrino, che le straziava il cuore pezzo dopo pezzo. Si chiese solo, nei recessi della sua mente provata, dove fosse Thranduil.
    Sollevò il viso al cielo striato di luce: -Ti prego Alfiere, sii veloce…-

 
**

    Saedor sputò un fiotto di sangue, senza scomporsi. Che seccatura. Oramai era da un po’ che il Re degli Elfi si accaniva su di lui, provocato dalle sue parole sinistre. Non rischiava di certo la vita ma, se avesse perso l’utilizzo di qualche arto, avrebbe deluso Pallando e questo non poteva accadere: doveva sbrigarsi ad uccidere quell’elfo, così sarebbe potuto tornare al fianco dello stregone.
    Thranduil premette una mano sulla gamba, dove uno squarcio bruciante si estendeva dal ginocchio sino al fianco, e Saedor annuì soddisfatto. La sua frusta avvelenata lo aveva raggiunto svariate volte, ferendolo ogni volta più in profondità.
    La fine del duello si faceva mano a mano più vicina.
    Purtroppo, la provvidente presenza del nano gli impediva di assestargli il colpo di grazia. Infatti, l’ascia a doppia lama di Thorin III intercettò nuovamente la traiettoria della sua frusta mortale, vanificando il suo successivo attacco.
    Thranduil ne approfittò per cercare di colpire ma il Maestro dei Veleni aveva ancora qualche asso nella manica: dalla cintura che gli cingeva i fianchi ossuti tirò fuori due boccette violacee, che getto con precisione contro il Re degli Elfi.
   Automaticamente, egli sollevò la spada per proteggersi e il vetro si ruppe violentemente contro il ferro. Una nube maleodorante piovve su di lui, come nebbia densa e, al contempo, ustionante.
    Thranduil sibilò dal dolore, chiudendo gli occhi per preservare la vista e portandosi il braccio davanti al naso: -Thorin non avvicinarti alla nube, è tossica!- Tossì, saltando all’indietro.
    Il nano, assicuratosi di accorrere dalla parte opposta, si lanciò sull’elfo bendato, roteando l’arma imponente: -Adesso basta, sono stufo di te!- Quasi lo colpì, ma l’altro fu più rapido.
    La frusta schioccò in aria e, in un lampo, saettò dritta in mezzo al petto del Re dei Nani, che fu sbalzato indietro. Egli cadde con un tonfo, rotolando nell’erba secca. Più furioso di prima, Thorin fece per alzarsi ma, con orrore, sentì una fitta terribile trapassargli il corpo: laddove la frusta lo aveva colpito, la cotta di maglia si era sciolta, andando a corrodere e bruciare la pelle sottostante. Il dolore era lancinante e lo colpì come una scarica elettrica. Si accasciò nuovamente, ansimando: -M-maledetto.-
    Thranduil gli fu accanto, abbassandosi su di lui: -Resta qui, non muoverti.- Gli intimò, serrando la mascella. -Sei ferito anche tu, dobbiamo cercare rinforzi.- Protestò, l’altro.
    Il Sindar sapeva che il nano aveva ragione ma su chi altri potevano contare, in una simile situazione? Glorfindel era sparito da ore, Sillen era impegnata in uno scontro forse più decisivo del loro e, esclusi i presenti, nessun altro poteva sperare di fronteggiare il Maestro dei Veleni e sopravvivere. Anzi, forse nemmeno i presenti potevano vantare una simile fortuna.
    Ciononostante, il Re degli Elfi puntò gli occhi su Saedor: -Io sono il sovrano del Reame Boscoso, il più grande Re tra i Sindar e il più antico tra i guerrieri della Terra di Mezzo.- Proclamò, alzandosi con superba altezzosità e barcollando sulle gambe ferite: -Non puoi battermi.-
    L’altro fece scrocchiare le ossa della spalla, sgranando l’occhio di tenebra: -Non importa chi sei, non sei degno di batterti con noi! Nessuno di voi ha conosciuto la nostra sofferenza.- Sibilò.
    Thranduil storse la bocca con sdegno, sopprimendo il dolore e tornando all’attacco.
    Come se l’avesse previsto, Saedor lo schivò, complice la lentezza dell’elfo ferito, per poi assestargli una frustrata lungo tutta la schiena. Il Re degli Elfi crollò in ginocchio, scosso da spasmi di dolore. Fece per rialzarsi ma l’altro fu sopra di lui.
    E da allora non prese nemmeno più fiato: lo colpì ancora, e ancora, ricoprendo il suo corpo di mezzelune sanguinolente, corrodendo l’armatura e i tessuti.
    Thorin, tentando di strisciare verso di loro, lo pregò di smettere. Non poteva sapere che quello, per Saedor, era il modo di riservare loro la sua pietà.

 
**

    L’ennesimo frammento rotolò spedito verso l’Alfiere del Cielo, mentre le colonne di luce nel cielo svanivano una ad una. Gli alleati erano rapidi, più di quanto si fossero aspettati, nonostante gli implacabili non morti facessero di tutto per bloccare loro la strada. Ben presto, impararono come eludere gli sbarramenti dei non morti, puntando direttamente ai frammenti per non perdere nemmeno un secondo del preziosissimo tempo che l’Alfiere aveva concesso loro.
    Elessar si lanciò contro il successivo manipolo di non morti, schierati a proteggere il portatore del frammento ancora inchiodato dall’energia divina dell’alabarda: -Copritemi le spalle!- Gridò ai suoi uomini, mentre schivava con facilità le tozze membra dei cadaveri. I soldati di Gondor lo seguirono nel marasma, immobilizzando quelli che si mettevano tra il Re e la colonna di luce.
    Ancora una volta, la nobile lama di Andùril penetrò le carni del tozzo orco per estrarne il frammento nero. I non morti intorno a loro caddero a terra come sacchi vuoti, tra le esclamazioni agguerrite degli uomini.
    Oramai il campo di battaglia era stato setacciato per ben più della metà, mentre un mare d’inutili cadaveri ingombrava la strada alle spalle degli alleati.
    Elessar puntò lo sguardo sull’Alfiere, aguzzando la vista: -Puoi sentirmi, arma divina? Quanto manca?- Mormorò, senza essere sicuro che l’alabarda potesse sentirlo. Invece, con tono scherzoso, l’arma rispose: -Concentrati, Re degli Uomini. Non vedi che la mia luce fende ancora il cielo?- Poi, come un sussurro sputato fuori con enorme e forzata generosità, l’Alfiere del Cielo gli concesse ancora una volta il suo favore: -Novantadue.-
    Una parvenza di divertimento illuminò il volto di Elessar e il malmesso soldato accanto a lui, ignaro della conversazione avvenuta tra il Re e l’Alfiere, lo interrogò con voce sofferente:
    -Mio signore, qual è il motivo di tanto entusiasmo?- L’altro roteò la spada, spostando lo sguardo su di lui e allargando il proprio sorriso: -Che ce la facciamo.-

 
**

Lhospen fermò gli incessanti attacchi delle sue illusioni, che si allontanarono velocemente dal Vanyar steso a terra, circondandolo come un macabro pubblico.
    Era una scena incredibilmente soddisfacente e l’elfo oscuro ne rimase compiaciuto: Glorfindel, livido e scomposto, non riusciva a muovere un solo muscolo, arreso alla consapevolezza di aver dato fondo a ogni briciola di energia che gli fosse rimasta.
    -Fine del gioco. A Pallando piacerebbe tanto vederlo!- Si gongolò, il Maestro delle Illusioni. Aspettò ancora, accertandosi che l’antico immortale non osasse tentare di risollevarsi nuovamente. Ciò, ovviamente, non avvenne e l’elfo sospirò, entrando a sua volta nella propria illusione.
    Un leggero senso di vertigine gli attanagliò le viscere e chiuse per un attimo gli occhi: insolito.
    Ad ogni modo, lasciò scivolare via quella sgradevole sensazione: era da molto che non entrava direttamente in una delle sue visioni, doveva essere una normale reazione fisiologica, concluse.
    Superò le Sillen violente e sanguinarie, rompendo il loro perfetto cerchio: -Bene bene, guarda chi ha smesso di fare l’arrogante.- Rise, avvicinandosi al corpo esamine del Vanyar.
    Lo spinse appena con un leggero calcetto: -Non sarai morto, spero.- Lo canzonò. Il respiro di Glorfindel s’incrinò e persino la voce faticò ad abbandonare le sue labbra: -M-maestro delle Illusioni…- Tossì, gemendo dal dolore.
    Lhospen gli girò attorno, come un avvoltoio in attesa dell’ultimo respiro della sua preda: -Non avrei mai pensato di riuscire a batterti così facilmente, devo ammetterlo. Eppure, eccoci qua.- Glorfindel contrasse i muscoli del volto, nel tentativo di mettere a fuoco la figura dell’elfo: -Se vuoi uccidermi… fallo in fretta..- Mugolò, a denti stretti.
    Lhospen sollevò un sopracciglio, allargando il proprio ghigno ferino. Si chinò sul viso del Vanyar, una luce sadica nei magnifici occhi blu cobalto: -Solo se t’inginocchi e preghi per la mia pietà.- Sussurrò, umiliando Glorfindel con le sue stesse parole. Questi gemette, senza nascondere la propria disperazione: -Ti prego…-
    -In ginocchio.- Sibilò Lhospen, deliziato. Glorfindel si girò a fatica, il respiro corto, costringendosi a tirarsi in ginocchio. Lì, ai piedi del nemico, chinò la testa: -Ti prego…- Lhospen batté le mani leziosamente, tra risolini degni di una cortigiana. Stava lacerando ogni brandello di dignità del potente e antico Vanyar, un’impresa di cui pochi potevano vantarsi.
    Addolcì lo sguardo, mentre le sue stelle ridacchiavano alle sue spalle come iene affamate: -E va bene.- Convenne, gentile. Non che Lhospen fosse sensibile alle suppliche di Glorfindel, beninteso, tuttavia non era un elfo avvezzo a rimangiarsi la propria parola. La soddisfazione di vedere il Vanyar costretto in ginocchio dinanzi a lui era una ricompensa più che sufficiente, dopotutto.
    Con un sorriso a incurvargli le labbra seducenti, Lhospen sollevò il mento dell’elfo dorato per incontrare i suoi occhi tremanti: -Lo farò, ti ucciderò velocemente, non temere. Infondo, non era niente di personale.-
    Glorfindel spostò lo sguardo da lui alle false stelle che, una ad una, smisero improvvisamente di ridere.
    Infine, tornò all’elfo oscuro.
    E fu il suo turno di sorridere: -Dunque, mi avresti trattato con tanto riguardo? Pensavo tu fossi il cattivo della situazione.-
    Lhospen aggrottò le sopracciglia, lievemente confuso: -Stai sorridendo?- Glorfindel, fissandolo dal basso, inclinò la testa, un luccichio più vivo che mai ad accendergli le iridi dorate: -Perché, cosa dovrei fare? Piangere?- Con un unico movimento sinuoso, si tirò in piedi, spazzando via la polvere dall’armatura splendente.
    Lhospen fece automaticamente un passo indietro. Non vi era più alcuna traccia di dolore sul viso dell’immortale. -C-cosa?- Si accigliò, stringendo gli occhi a due fessure.
    -Ce ne ho messo di tempo per trascinarti qui.- Lo apostrofò l’altro, sorridente. Il moro, scrollando la testa, strinse i pugni e gli puntò un dito contro, rabbioso: -Questa è la mia illusione e ho torturato la tua mente!- Un ghigno sadico si profilò sul volto dell’elfo dorato davanti a lui, facendolo rabbrividire violentemente: -Hai davvero creduto di poterne essere in grado, piccolo elfo spaventato?-
    -C-come osi!- Indietreggiò, il Maestro delle Illusioni. -Rimarrai per sempre nell’inferno che ho creato e le mie illusioni non ti daranno pace.- Sibilò, aizzando contro di lui le sue stelle illusorie.
    Tuttavia, si ritrovò a fissarle senza capire: esse, infatti, lo fissavano di rimando, serie e immobili, per nulla intenzionate ad ascoltarlo. Nemmeno un fremito turbò le effimere Aule di Mandos. Perché non riusciva a controllarle!?
    Glorfindel fece un passo in avanti, inchiodandolo al suolo con lo sguardo felino: -Credo tu abbia sottovalutato un piccolo dettaglio.- Lhospen fece per indietreggiare ancora ma, con orrore, si accorse di non poter più muovere le gambe. Tentò di liberarsi, boccheggiando per lo spavento, mentre il Vanyar sollevava una mano verso di lui: -Come hai detto, è il mio potere contro il tuo. E io sono un Vanyar. Sono la creatura più simile a un dio che potrai mai incontrare nella tua patetica vita. Credevi di poter ingannare la mia mente eterna? Credevi che le tue deboli illusioni potessero qualcosa contro la mia psiche divina?- Rise, forse più sadico di quanto l’elfo oscuro era stato con lui.
    Con un gesto gentile e quasi affettuoso, gli scostò una ciocca corvina dietro le spalle sottili: -Vedi, giovane Maestro? Dovevo solo tirarti fuori dal tuo nascondiglio.- Dietro di lui, dalle ombre delle volte, cominciarono a staccarsi figure sinistre, senza che l’elfo oscuro riuscisse in alcun modo a controllarle.
    -C-come è possibile!? Sono io il padrone e creatore di questo luogo!- Glorfindel nemmeno si scompose: -Le tue illusioni erano interessanti ma così prevedibili… Tu non conosci molte cose, ragazzino. Non eri ancora nato quando il vero male calcava queste terre.-
    Le ombre sibilarono, scattanti e sinuose come belve. Lhospen sentì i brividi corrergli lungo la schiena e tremò quando il Vanyar avvicinò il viso al suo, chinandosi a sussurrargli all’orecchio con voce profonda: -Ancora non ti è chiaro? Queste non sono più le tue illusioni, Maestro. Sei entrato di tua spontanea volontà nella psiche divina di Glorfindel di Gondolin, Signore della Casa del Fiore d'Oro. In altre parole, il mio territorio.-
    E accostò le labbra morbide contro di lui, in un mormorio voluttuoso: -Come vedi, non sono io ad essere intrappolato qui con te. Tu sei intrappolato qui con me.-
    La sgradevole sensazione di vertigine che lo aveva colto poco prima acquistò senso, nella mente spaventata di Lhospen. Era entrato nelle illusioni di qualcun altro. Glorfindel aveva sostituito le sue illusioni con le proprie senza farsi notare, e senza alcuno sforzo.
    Lhospen non riusciva a elaborare una simile consapevolezza. Si era sempre considerato unico, non aveva mai nemmeno contemplato l’eventualità che altri al di fuori di sé stesso fossero in grado di produrre una tale magia.
    Esatto, il Vanyar si sbagliava: di quell’inganno lui se ne era reso conto all’istante ma era stato troppo arrogante per crederci.
    Un singhiozzo strozzato sfuggì dalla sua gola, simile ad un patetico squittio. Fece per scappare, disperatamente, ma il suo corpo non rispose ai comandi. I suoi piedi rimasero incollati al suolo, le sue braccia rigide lungo il corpo.
    Non riuscì nemmeno a urlare.
    Le ombre attorno a loro affiancarono le stelle illusorie ora ai comandi del Vanyar e presero a ringhiare, fameliche, pronte ad attaccare. Con soddisfazione, l’elfo dorato vide gli occhi blu dell’altro riempirsi di terrore e, in una mossa fulminea e impietosa, gli serrò la gola nella morsa granitica delle sue dita.
    E aprì i propri occhi dorati, respirando a fondo. La prima cosa che lo colpì fu il calore del sole, di nuovo prepotente su di lui.
    Era tornato alla realtà, finalmente. Si beò del cielo terso, della consistenza del vento, dell’odore pungente dell’erba secca.
    Il frastuono della battaglia gli giunse lontano e indistinto mentre, come risalito a galla dopo una lunga apnea, l’immortale si concedeva il tempo di respirare.
    Lanciò uno sguardo stanco al corpo del Maestro delle Illusioni, di nuovo visibile e deliziosamente vulnerabile: se ne stava immobile, riverso a terra, gli occhi spalancati fissi nel vuoto. Di certo non stava vedendo niente di piacevole, laddove si trovava.
    -Quasi mi dispiace. È stato bravo.- Sospirò Glorfindel, flettendo le gambe per chinarsi davanti a lui. Gli scostò i capelli corvini dal viso, guardandolo con più attenzione: -Che spreco, è davvero un bel vedere. E un grande talento.- Le sue dita asciutte seguirono il contorno del colletto della veste del Maestro, giù, fino al petto.
    Glorfindel strinse gli occhi, per niente sorpreso: -Un frammento del Palantir.- Sotto la pelle diafana dell’elfo, in effetti, un lieve bagliore bluastro faceva capolino, come il timido riflesso di un gioiello sul fondo di un lago. Ecco spiegato come l’elfo oscuro si fosse… potenziato. Solo un artefatto così potente avrebbe potuto rendere le sue illusioni tanto complesse e resistenti. Peccato che non fosse sufficiente a proteggerlo, non come invece il grande frammento di Pallando era in grado di fare.
    Estratto il pugnale, Glorfindel incise con delicatezza la carne tenera dell’elfo, estraendo il frammento: -Alfiere…- Mormorò, rivolto a Est. Subito, il frammento schizzò via dalle sue dita, calamitato dalla potenza dell’arma divina.
    Con l’ennesimo, sonoro sospiro, il Vanyar si caricò l’elfo in spalla, tornando a passo spedito verso la battaglia: -Ne vedremo delle belle.-

 
**

    Sotto gli attacchi di Saedor, Thranduil respirava. Non poteva concedersi di pensare ad altro, solo all’incredibile sforzo che gli costava l’incamerare aria. Quasi non avvertiva più il dolore.
    Thorin era stato rispedito lontano dall’ennesima frustata dell’elfo oscuro ma ancora tentava di raggiungerli. Pazzo sconsiderato, pensò il Re degli Elfi: poteva cercare aiuto, invece che intestardirsi a rimanere lì con lui. Infondo, era un nano ottuso come tutti gli altri. Avrebbe sorriso, a quel pensiero, se solo avesse avuto ancora un briciolo di controllo motorio.
    Saedor non rideva, invece: colpiva e colpiva, con dedizione quasi commovente. Quell’occhio nero era al contempo vuoto e traboccante di emozione, intransigente e premuroso. Dettagli che Thranduil, nella frenesia dello scontro, non aveva notato prima.
    Chissà quale storia portava con sé il Maestro dei Veleni, si chiese; un elfo tanto talentuoso e singolare da parere un membro delle antiche stirpi ormai dimenticate, custodi di magie tanto potenti quanto meravigliose. Probabilmente, non lo avrebbe mai scoperto, se non sugli Arazzi della Tessitrice.
    Lentamente, sentì le forze abbandonarlo, come un velo sottile che scivola via da un corpo indolente con fin troppa facilità. Era tardi per cercare ancora una volta Sillen con lo sguardo? Diede fondo alle sue energie, per voltarsi.
    Fu allora che Saedor smise di colpirlo. L’elfo oscuro fissò il volto del Sindar per interminabili secondi, l’occhio nero spalancato e confuso. Su quel volto perfetto erano apparse cicatrici orribili.
    Saedor le studiò a lungo, senza accennare un altro movimento: -Anche tu…- Gracchiò, contrito. Thranduil si sforzò di ricambiare quello sguardo attonito, mentre il Maestro si chinava appena su di lui: -Anche tu hai sofferto.-
E Thranduil capì, in qualche modo: -Sono stati i draghi.- Soffiò, con un fil di voce. Saedor annuì: -Li cacciavi?- Il Re degli Elfi scosse piano la testa: -Proteggevo il mio popolo e le sue ricchezze dalla loro avidità.-
    Un tremito lieve scosse gli occhi spaiati dell’elfo oscuro, che si incrinò su sé stesso: -Anche io proteggo. Proteggo tutti.- Ammise, come un bambino testardo che tenta di spiegare le proprie ragioni alla maestra più gentile. -Da cosa li proteggi?- Thranduil vide l’altro sollevare il viso per guardare il campo di battaglia: -Li proteggo dalla vita.-
    Innocente. Quella parola attraversò la mente stanca del Re come una cometa: era così innocente.
    Thorin li fissava, interdetto e senza forze, ma Saedor non aveva occhi che per il Re: -Sai anche tu che tutti devono soffrire, per capire. Perché allora non sei dalla nostra parte?- Lo incalzò.
    Thranduil contrasse le sopracciglia, sofferente: -Chi ti ha detto queste cose?- Il Maestro piegò la testa da un lato: -Pallando.-
    Giusto, Pallando. Quell’infida creatura che, in realtà, così malvagia non era mai stata. Capirli era difficile ma, una volta rimessi in ordine i pezzi, non più così impossibile.
    Povere anime confuse.
    -Non è così. Tutti soffrono. Tutti hanno il diritto di soffrire.-
    -Non è vero. La morte ci libererà. Uccisi tutti, moriremo anche noi e rimarrà solo la pace.- Lo fissò attento, Saedor, e Thranduil trovò le forze di ribattere: -E a te sta bene? Ricordi tutte le cose brutte che ti hanno fatto... Ma ricordi anche il bene che hai ricevuto.- L’altro scosse la testa: -Il bene non è mai abbastanza. Le persone tradiscono e fanno male, sempre. Se vivranno questa vita, gli innocenti soffriranno e-
    -Ho perso molto, nella mia lunga vita.- Lo interruppe, il Re, serio e paziente: -Ho pensato molte volte di lasciarmi morire.- Saedor sgranò gli occhi.
    -Ma vuoi sapere cosa mi ha tenuto in vita?- Il Re degli Elfi respirò a fondo, sopprimendo il dolore: -L’egoismo.-
    Thorin espirò, ormai troppo confuso per intromettersi, mentre l’elfo oscuro fissava il Re con il respiro sospeso. -Anche tu ricordi tutto il bene che hai ricevuto e le persone che hai amato. Sono i tuoi ricordi. Ti appartengono e nessuno ha il diritto di portarteli via. Se tu muori, chi custodirà quei ricordi? Tu vuoi che sparisca il male che ti hanno fatto. Ma distruggendo ogni cosa, anche il bene scomparirà. Non resterà niente. Ti porteranno via ciò cui tieni di più, puoi accettarlo?-
    -È così che deve andare.- Mormorò l’altro, sconvolto. Nessuno gli aveva mai detto delle cose simili. Ci aveva pensato, molte volte, ma non credeva che quei pensieri avessero senso. Pallando pensava, solo lui, dunque spettava a lui prendere le decisioni.
    Allora perché si sentiva tanto scosso?
    Rivide i campi in cui era cresciuto, le giornate spese a giocare al sole, la dolcezza del canto di sua madre. No, non era egoista, non lo era mai stato. Quell’elfo poteva dire ciò che voleva, lui non era così. Lui vedeva il disegno, metteva il bene degli altri prima del suo. Ma… perché ora quel disegno gli stava così stretto?
    -Non permettere a nessuno di prendere ciò che ti appartiene.- Thranduil, ora, lo incalzava con più insistenza. Sapeva cosa stava accadendo nella mente di quel giovane elfo: l’avidità nel suo sangue esisteva, era un dato innegabile quanto l’esistenza del terreno su cui giacevano. Esisteva in ogni membro della loro razza, dall’inizio dei tempi: era la stessa fame che li aveva resi potenti, che li aveva spinti a conquistato terre e sapere. Una sete che nemmeno una lunga vita immortale poteva soddisfare.
    Qualsiasi ricordo l’elfo oscuro avesse avuto, d’un tratto aveva acquistato un valore inestimabile. E ne sarebbe diventato geloso.
    Per questo, avrebbe pensato che sarebbe valsa la pena soffrire per cento o mille vite ancora. Per questo, avrebbe abbassato totalmente la guardia.
    -Io-io non- Il Maestro dei Veleni scosse la testa, tentando di riacquistare il controllo e sottrarsi agli occhi ammaliatori del Sindar: -No! Zitto! Non è vero, non è vero!- Sollevò il braccio armato ma, prima che potesse calarlo ancora una volta sul Re, qualcosa lo colpì con violenza.
    Inorridito, Saedor guardò il proprio braccio volare oltre la testa del Re degli Elfi, sino a rotolare sul terreno in una grottesca scia di sangue. Thorin aggiustò la presa sull’ascia e colpì di nuovo l’elfo, piantandolo a terra con tutta la forza che aveva.
    Saedor tentò di estrarre l’ascia, puntò i piedi, si dimenò e quasi si strappò il torace per scalzarla, ma fu tutto inutile.
    Lo avevano catturato.
    Thranduil chiuse gli occhi, sfinito: -Non tagliargli la testa. Non sappiamo se lo ucciderebbe.- Thorin si voltò verso di lui, stizzito:
-Perché mai non dovrei ucciderlo?!- Ma il Re degli Elfi si limitò a scuotere la testa, tirandosi a sedere a fatica. Come poteva spiegare quanto aveva compreso? -Legalo. Dobbiamo raggiungere Sillen.- Thorin annuì, sfilandosi varie cinghie di cuoio dai gambali. Legò i piedi dell’elfo e costrinse il braccio rimasto lungo il fianco, immobilizzandolo.
    Un bagliore leggerissimo catturò la sua attenzione: -Elfo, guarda! Non è un frammento di quella palla maledetta?- Esclamò, sorpreso, tastando sotto le bende candide laddove riluceva un bagliore bluastro. Thranduil zoppicò al suo fianco, mentre la pelle pallida del suo viso tornava liscia e diafana: -Lo è. Ecco perché era così forte.- Con la punta della spada, tagliò le bende dell’elfo e il frammento rotolò rapidamente a terra, diretto verso l’Alfiere.
    I due compagni lo guardarono sparire tra gli ultimi drappelli di soldati rimasti nei campi, sollevati, poi Thranduil fece un cenno con il mento affilato: -Caricatelo in spalla, lo portiamo con noi.-
    Gli occhi spaiati di Saedor fissarono con odio l’indispettito Thorin, che si grattò la nuca: -Ah maledizione, ma perché non lo porti tu?!-

 
**

    Sillen pulì il sangue che le colava lungo il mento, appena prima che il taglio si rimarginasse in un baluginare bianco come la neve. La stessa cosa non accadde alle ferite dello stregone, che scrollò la testa per scostare i capelli brizzolati dalla fronte insanguinata.
    Non era affatto uno scontro alla pari e questo Alatar lo aveva capito bene: Sillen era molto più forte e resistente di quanto lui non sarebbe mai stato. Tuttavia, ancora gli sfuggiva il motivo che la spingeva a continuare quell’inutile lotta. Avrebbe potuto sbarazzarsi di lui in poche mosse e attaccare Pallando.
    Certo, oramai la stella aveva inteso che il Palantir poteva rivelarsi un problematico ostacolo, ma nulla le impediva di continuare ad attaccare il maggiore degli Stregoni Blu, fino a quando i suoi compagni non avessero radunato tutti i frammenti della Pietra Veggente per portare a termine il loro palese piano.
    In questo modo, ostinandosi a battersi contro di lui, la stella lasciava Pallando libero di agire e questi non aveva perso tempo, concentrato a caricare di energia i pochi, pochissimi frammenti rimasti sul campo di battaglia, anche se oramai si stava rivelando inutile: -Non ci sono più non morti, i tuoi compagni ce l’hanno fatta. Finiscimi. So che non stai facendo sul serio.- Ansimò, fissando gli occhi di luce della Stella dei Valar.
    Lei attaccò ancora, colpendolo alle costole con il dorso della spada. Lo stregone boccheggiò, saltando all’indietro per evitare un altro colpo: -Stai giocando con me? Vuoi vedere per quanto resisterò senza subire il colpo di grazia?- Uno spasmo quasi impercettibile contrasse il viso della giovane, che si fermò a qualche metro da lui.
    In quel momento, Pallando si voltò febbrilmente verso suo fratello: -Non li sento più! Non sento i frammenti!- Allo stesso tempo, la voce dell’Alfiere si fece strada nella mente della stella.
    -Sillen, ci siamo. Oramai il Palantir è prossimo ad essere ricomposto. Però, e con questo non vorrei minare l’entusiasmo, manca ancora qualcosa.- Sillen puntò lo sguardo sulle mani nodose del vecchio stregone: -Manca il pezzo che Pallando custodisce per sé.- Si voltò verso il campo di battaglia, ormai divenuto una distesa di cadaveri, individuando alcuni dei suoi compagni in avvicinamento.
    Legolas fu il primo a raggiungerla ma lei non gli diede il tempo di parlare: -Dortha nan esgal! (Stai indietro, resta al sicuro)-
    Elessar, invece, nemmeno si girò a guardarla, deciso a fare di testa sua. Con l’espressione più spaventosa che la stella gli avesse mai visto, l’uomo caricò Alatar, senza esitazione. Lo stregone, sorpreso, finì per essere sopraffatto, mentre indietreggiava per evitare i colpi frenetici del Re degli Uomini.
    Approfittando della situazione, Sillen si voltò infine verso Pallando: -Consegnami il Palantir.- Ringhiò. L’altro strinse il sacchetto scuro al petto, guardandosi attorno come una preda braccata, visibilmente in difficoltà: -No! Non riuscirete mai a vincere contro il mio potere!- Le sue deboli minacce nemmeno sfiorarono Sillen: -Non te lo chiederò una seconda volta.-
    Lo stregone vide i soldati alleati circondarli, spettatori dell’ultimo scontro tra lui e la Stella dei Valar che, con tanta divina potenza, li aveva condotti alla vittoria.
    Forse Saedor e Lhospen sarebbero arrivati presto, si disse.
    Forse non tutto era perduto.
    Piantò i piedi a terra con strenua resistenza, stringendo il bastone come ultima ancora di salvezza: -Vieni a prendertelo allora.-
    -Non così in fretta.- La voce di Glorfindel fendette l’atmosfera tesa e i due sfidanti si voltarono di scatto: -La tua battaglia giunge al termine, Rómestámo.- Thranduil gli fu accanto e Sillen incontrò per un attimo il suo sguardo adamantino, sospirando impercettibilmente per il sollievo.
    Pallando sbiancò all’istante, fissando i sottili corpi dei due Maestri, abbandonati sul suolo freddo e circondati dalle armi degli alleati. Lhospen si era ridestato e sosteneva il fratello, sconvolto e spaurito, mentre dal braccio mozzato di quest’ultimo sgorgavano copiosi fiotti di sangue.
    -I nostri frammenti! I frammenti!- Singhiozzava il Maestro delle Illusioni: -Il Palantir non ci ha protetti! Pallando, perché non ci ha protetti?- Alatar tentò di raggiungerli ma Elessar lo aveva in pugno e gli torse violentemente il braccio armato. Il suo bastone cadde a terra, tintinnando, e Alatar fu costretto in ginocchio.
    -Pallando non vi ha mai dato quei frammenti per proteggervi. Voleva solo accrescere e usare il vostro potere. Credevo lo sapeste.- Sussurrò, la voce mozzata dal dolore al braccio. Elessar si accostò al suo orecchio, gelido: -Allora è per questo motivo che tu non hai alcun frammento dentro di te, maledetto traditore?- Alatar non rispose, serio e teso come una corda di violino.
    I due elfi oscuri parevano ancora più confusi, fissando prima il giovane stregone, poi Pallando, come se aspettassero una qualche spiegazione sensata. Il vecchio distolse lo sguardo: -Che importa! Dovevate aiutarmi! Alla fine sareste dovuti morire lo stesso, come tutti noi!- Tagliò corto, ansimando.
    Parve afflosciarsi su sé stesso, appeso al bastone scuro come un panno consunto: -A che serve spiegare!? Voi non capite. Siete degli stolti…- Il flebile pianto di Lhospen accompagnò quelle frasi sconclusionate, mentre gli alleati non osavano proferire parola. L’intero campo di battaglia si fece immobile e silenzioso, come uno stremato sopravvissuto ridestatosi dopo l’uragano.
    Elessar, che ancora teneva la lama di Andùril premuta contro la gola del più giovane degli stregoni, fu il primo a rompere quella calma assoluta: -Consegna il frammento, Pallando. Adesso.-
    Questi spostò lo sguardo sull’inutile pezzo di vetro che, ostinatamente, ancora stringeva in mano: -Credevo di poter mettere fine a questa vita priva di significato.- Ringhiò, più a sé stesso che al Re degli Uomini.
    Sillen lasciò cadere la lama elfica, mentre i suoi occhi tornavano del colore delle ametiste: -Basta così, è finita. Non essere la causa di un altro inutile spargimento di sangue. Dammi il Palantir e ti giuro sul mio onore che i tuoi servi sopravvivranno.-
    Alatar fissò intensamente il fratello, quasi speranzoso, sondando la sua reazione. Ma il vecchio stregone, dopo qualche secondo di costernato silenzio, storse la bocca, fissando la stella con sdegno. Il suo corpo parve raddrizzarsi, elettrico, mentre il Palantir nelle sue mani riprendeva a risplendere.
    -Come puoi dire una cosa simile, ragazzina!? Osi insultarmi sino a questo punto!- Puntò il bastone verso i Maestri, che lo guardavano colmi di disperazione: -Uccidili! Non capisci che li avrei comunque uccisi io!? Vi avrei uccisi tutti!- Urlò, furioso: -Vi avrei liberati dal peso di questa vita ingiusta e immorale ma voi, voi stupidi falsi eroi, non mi avete mai dato ascolto!-
    Un vento potente si sollevò dal terreno, avvolgendo i presenti, e i campi tremarono violentemente. -Io porterò a termine il mio compito.- Sibilò l’Istar, allungando la mano per esporre il grosso pezzo di vetro nero. All’istante, il suo bagliore blu s’intensificò, calamitando a sé tutti i frammenti ammucchiati ai piedi dell’Alfiere del Cielo.
    Sillen, d’istinto, si lanciò in avanti ma l’arma divina la bloccò, rapida, rimbombandole nella testa: -Lascialo fare. Deve ricomporre la pietra se vogliamo renderla inoffensiva una volta per tutte, ricordi?- Aveva ragione, rimaneva un’ultima mossa da giocare. La giovane attese, paziente, mentre gli alleati la fissavano senza capire il motivo della sua immobilità.
    I frammenti blu vorticavano attorno allo stregone, incasellandosi perfettamente nella forma sferica del Palantir. La Pietra Veggente di Barad-dûr era più grande del previsto, con un diametro di almeno due piedi,[1] e ben presto Pallando dovette reggerla con entrambe le mani, lasciando cadere il proprio bastone.
    Senza farsi notare, la stella lanciò un breve sguardo attorno a sé e si accorse appena dei gesti di Alatar che, veloce, affondò una mano nella tasca consunta del proprio mantello blu.
    -Aspetta ancora un secondo.- La distrasse, l’Alfiere, concentrato sul Palantir: -Sappi che avrai una sola possibilità. Io posso colpire Pallando solo una volta e spera che non mi scheggi nel provarci perché giuro che in quel caso mi chiamo fuori.- Scherzò, nonostante una nota densa e tremante tradisse tutta la sua agitazione.
    Sillen affondò i piedi nel terreno, pronta a saltare.
    Mancavano ormai pochi frammenti.
    -Fratello, te lo chiederò un’ultima volta! È questo ciò che vuoi davvero!?- Gridò disperato, Alatar, per sovrastare il rumore del vento: -La stella ci ha offerto clemenza! Potremmo ricominciare! Perché portare avanti questa follia? Sei davvero disposto a morire per questo?!-
    Pallando gli lanciò un’occhiata indecifrabile, prima di allargare il proprio ghigno, ormai completamente avvolto dalla vibrante luce del Palantir: -Raderò al suolo questo mondo!-
    Un ultimo frammento si avvicinò alla sfera, delicato e discreto.
    -Adesso!- La voce dell’Alfiere spronò la stella, che scattò prima che Pallando potesse formulare una sola sillaba del suo incantesimo mortale. Premette le mani dorate sopra quelle dello stregone, rilasciando tutta l’energia che aveva in corpo. La luce delle stelle avvolse il Palantir e il tremendo calore che ne scaturì bruciò la carne dell’Istar, che urlò e si contorse come un ossesso.
    Sillen continuò, senza pietà: -Sii felice, ora non lascerai mai più questa dannata pietra!- Le mani dello stregone si fusero, colando e solidificandosi attorno all’energia in fermento del Palantir.
    Era giunto il momento, ciò per cui la Stella dei Valar era venuta al mondo. Sillen allontanò una mano solo per tenderla dietro di sé, perentoria: al suo richiamo, l’Alfiere del Cielo vibrò nel terreno, staccandosi da esso con uno scatto repentino. Come una freccia, esso puntò verso la stella e sfrecciò tra gli alleati, che si scansarono velocemente.
    Il contatto fu tremendo: la punta dell’alabarda penetrò nella barriera del Palantir, sprigionando talmente tanta luce che, per un secondo, l’intero Ovest fu solo un silenzioso lampo accecante.

    Sillen riaprì gli occhi, ansimante. Le lame dell’Alfiere erano immobili e scure, adesso. La sua punta affilata era nascosta nel petto di Pallando, fuoriuscendo dalla sua schiena per più della metà. Tuttavia, il Palantir non aveva cessato di brillare. E non una goccia di sangue sgorgava da quella ferita.
    Lo stregone sollevò lo sguardo allucinato, incredulo quanto la stella davanti a sé; quanto tutti gli alleati attorno a loro.
    Lentamente, tirò vicino al viso la Pietra Veggente, osservando le proprie mani fuse attorno ad essa: la girò e rigirò, studiandone la superfice. E sorrise: lì, proprio accanto alla sua mano destra, un piccolo foro deturpava la liscia superfice della sfera.
    -Un frammento mancante.- Rise, Pallando.
    Sillen lo fissò a sua volta, sconvolta: nemmeno lui se lo aspettava. Nessuno di loro lo aveva previsto. -Alfiere.- Chiamò lei, ma nessuna risposta arrivò dall’arma. -Alfiere!-
    Pallando saltò indietro, sottraendosi alla stretta della stella. L’alabarda rimase impiantata nel suo petto, inoffensiva, senza che lui potesse togliersela di dosso.
    Proruppe in una risata sguaiata, nonostante le mani ancora colassero sulla sfera come cera lungo una candela accesa: -Ho vinto! Ho vinto io! Un frammento non è tornato, si è perso!- I suoi occhi s’illuminarono di energia bluastra, mentre si preparava a terminare la propria battaglia: -Sono invincibile. Sono immortale!- Il suo potere bruciò l’erba attorno a lui, pronto a incenerire chiunque osasse avvicinarsi nuovamente. Sillen strinse i pugni, disperata, tentando di richiamare a sé le ultime forze.
    -Non è perso.- La voce di Alatar calò come un’accetta sui presenti e la stella si voltò di scatto verso di lui. Lo stregone aveva approfittato del caos per sfuggire a Elessar e allontanarsi dai presenti. In piedi su una roccia, guardava suo fratello, ora fermo a fissarlo con espressione rabbiosa: -Cosa stai dicendo!? Scendi e aiutami!-
    Sillen vide il viso del più giovane adombrarsi, gli occhi rossi e gonfi: -Ho detto, non è perso.- Pallando strinse gli occhi a due fessure, rigido come una statua di sale. Lentamente, Alatar tirò fuori la mano che aveva ancora premuta in tasca. Per un secondo, incontrò lo sguardo violetto della stella: -Il frammento mancante, l’ho sempre avuto io.-
    Lo sgomento attanagliò il petto della giovane, che espirò violentemente. Pallando rimase immobile, gli occhi fissi sul pugno del fratello che, adesso, si schiudeva per mostrare il debole baluginare di un unico frammento.
    Al Nido delle Aquile, comprese Sillen, in un lampo di consapevolezza: al Nido delle Aquile, Alatar era stato il primo ad avvicinarsi ai non morti. Alatar aveva visto. E aveva taciuto.
    -Hai mentito.- La voce di Pallando fece eco ai pensieri della stella: -Mi hai tradito ancora.- Il fratello respirò a fondo: -Non sapevo cosa fosse questa scheggia fino a quando, a Mordor, hai riposto alle mie domande di tua spontanea volontà. Così, ho provveduto a sigillarla.- Strinse il frammento, estraendo velocemente un pugnale dalla cintura: -Ero dalla tua parte, Pallando. Volevo proteggerti. Sapevo che avrebbero cercato di ucciderti sfruttando la ricostruzione del Palantir e l'unico modo per tenerti al sicuro era nascondere questo frammento. Ma l'ho fatto perché, in cuor mio, credevo che dinanzi alla sconfitta e al buon cuore di Sillen, ti saresti arreso. Credevo…- Deglutì a fatica, cercando le parole: -Credevo di poterti salvare da te stesso, ci ho creduto sino all’ultimo.-
    Sì, aveva atteso che il Palantir fosse ricomposto. Così doveva andare. Ignorare la sua coscienza, il suo onore, il dolore di coloro che riteneva degni compagni, solo per arrivare dov’era. Solo per dare un’ultima possibilità al suo unico, amato fratello. Un fratello che, a conti fatti, aveva perso molti anni orsono.
    Sollevò il viso al cielo, tremante: -Mi dispiace fratello… Ma la tua follia è cominciata a causa mia.- Ricambiò lo sguardo stanco e sconfitto di Pallando, il volto disteso da una disperata dolcezza:
    -E per causa mia ora deve finire.-
    Sillen sgranò gli occhi, mentre la consapevolezza la schiacciava al suolo: -No.- Fece un passo, fissando la lama di Alatar sollevarsi.
    -NO!- Le braccia di Thranduil la raggiunsero prima che potesse correre verso lo stregone.
    -Addio, fratello.- Sussurrò questi, prima di affondare il pugnale nel proprio cuore. Sillen gridò. Lhospen e Saedor gridarono. E il corpo di Alatar barcollò, sino a crollare sulla roccia.
    Il Palantir si spense improvvisamente, mentre l’Alfiere del Cielo si tingeva del sangue scuro di Pallando, adesso accasciato su sé stesso. Il suo corpo senza vita crollò di lato, freddo quanto la pietra che stringeva.
    Sillen si divincolò, spingendo Thranduil lontano, con la gola riarsa e le lacrime brucianti a bagnarle il viso. Si chinò su Alatar, le mani tremanti: -Alatar! Alatar!- Pianse, tastando febbrilmente il freddo metallo intriso di sangue. Lo stregone non aprì gli occhi, non si mosse, ma dalle sue labbra parve sollevarsi un ultimo respiro, che trasportava dentro di sé il suono caldo e dolce della sua voce: Namárië, stellina. Addio.


    E così, nei Campi del Pelennor, si spensero per sempre le vite dei due Stregoni Blu, Alatar, Il Flagello dell'Oscurità e Pallando, Il Protettore dell'Oriente.   


 
[1] Due piedi corrispondono a circa mezzo metro. Comunque una pietra bella grossa, neeh?



N.D.A

Bentrovati a tutti, amici di lunga data e nuovi arrivati!

Grazie per essere tornati per questo nuovo aggiornamento, eccomi qui super emozionata! E terrorizzata, a dire il verooo!
Sono super in ritardo, di nuovo, ma sono contenta di aver concluso anche questo lungo, difficile capitolo, che spero vi sia piaciuto!

Sono successe tante cose e purtroppo mi avvicino sempre di più alla parola fine. Oggi ho riletto il capitolo è ho pensato: “Ecco, il penultimo gradino. Tra poco vedrò la cima.”
Temevo e desideravo tantissimo questo momento, dall’inizio di questa avventura!
Oramai sono anni che vivo con Sillen e i suoi amici e sono così abituata ad aprire la mia cartella “La Stella dei Valar” che non so cosa farò, quando tutto questo sarà finito. E allo stesso tempo non sto più nella pelle! So che molti di voi sanno cosa vuol dire vedere conclusa la propria storia, e a chi ancora non lo sa auguro tutte queste emozioni <3

Detto questo, voglio ancora ringraziarvi di cuore per essere arrivati sino a qui e spero davvero di avervi fatto compagnia! Grazie a chi ha recensito, seguito, aggiunto la storia alle ricordate o alle preferite e grazie a chi ha seguito silenziosamente il destino di Sillen: mi avete spronata a continuare sino alla fine!

E niente,
Ci vediamo nell’epilogo, amici <3

Con tanto affetto e tanti baci,

la vostra
Aleera



 

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Capitolo 37
*** Epilogo ***


-Epilogo-



    Erano passati solo due giorni dal termine della battaglia; due giorni dal maledetto momento che aveva sconvolto la sua breve vita di stella caduta.
    Sillen si strinse il mantello sulle spalle, riparandosi dal vento che spingeva le acque del fiume Anduin verso sud. Era quasi bello, quel paesaggio; il corso sinuoso dell’acqua pareva un nastro d’argento, morbidamente sfiorato dai bagliori dorati dell'alba.
    Nel frattempo, una generosa folla si era accalcata lungo le sponde del fiume e sui bastioni di Osgiliath, per assistere al triste evento che si sarebbe svolto da lì a poco: ovunque si posasse lo sguardo, s’incontravano solo le espressioni serie e gravi di Elfi, Nani, Uomini, dei soldati che avevano partecipato a quella guerra come fratelli, nessuno escluso.
    Persino i feriti, alcuni ancora febbricitanti e con ferite sin troppo fresche, avevano insistito per essere presenti.
    A Sillen parve di sentire ogni singolo cuore di quella folla batterle addosso, dentro, tanto era solenne il silenzio che avvolgeva le pareti di pietra della cittadella.
    Elessar e la Regina si avvicinarono alla riva lucente, affiancando la stella: -Le barche sono pronte, Sillen.- La Stella dei Valar annuì, incontrando i loro sguardi premurosi: -Procedete pure, non dovete preoccuparvi per me.- Deglutì, ingoiando a vuoto e ricacciando indietro le parole.
    Sapeva di non poter esprimere i suoi pensieri, in quel momento. Era troppo irrazionale perché potesse avere voce in capitolo, Thranduil l’aveva avvertita.
    Sorrise appena, rassicurando il Re degli Uomini: -Davvero, sto bene.- Questi sospirò, accettando quelle parole e la menzogna che nascondevano, impotente. Fece un singolo cenno e gli uomini sulla sponda opposta si mossero all’unisono: due corde furono tagliate e due barche, piccole e rapide, sfilarono lungo le acque dolci del fiume.
    Sillen si costrinse a rimanere immobile, mentre fissava quelle barche passarle tanto vicino da poterle sfiorare. Sapeva già di chi erano quei corpi distesi sul legno freddo e umido, eppure sperò di non riconoscerli. Immaginò di incontrare dei visi sconosciuti e distanti, come quelli di tutti i valorosi soldati che avevano bruciato dinnanzi alle mura di Minas Tirith, il giorno prima. Anime che, pur smuovendo la sua compassione di stella, non l’avevano toccata.
    Estranei senza valore. Era un pensiero terribile, crudele, ne era consapevole.
    Ma lei non aveva intenzione di mentire a sé stessa, non sarebbe servito a riportarlo in vita.
    Inevitabilmente, il suo sguardo riconobbe le due figure senza concederle neppure il beneficio del dubbio, i loro volti oramai marchiati a fuoco sulle sue retine: gli Stregoni Blu.
    La voce di Elessar le arrivò lontana e distorta, tanto da riuscire a malapena a distinguerne le parole: -Uomini dell’Ovest, amici del Nord, gente della Terra di Mezzo. Questo è un giorno di lutto per tutti noi.- Sulla sponda, Sillen sapeva che erano presenti anche i suoi compagni e odiò il fatto che anche loro, nel profondo, stessero patendo il suo stesso dolore. -Coloro che oggi salutiamo, non possiamo dire di averli conosciuti davvero. E non li abbiamo mai compresi davvero.- Continuò Elessar, solenne.
    -Eppure dobbiamo loro molto. Gli Stregoni Blu hanno protetto tutti noi, in passato, rischiando la loro vita e patendo sofferenze che vanno oltre ogni nostra immaginazione.-
    I suoi occhi grigi e benevoli si posarono brevemente sulle due figure incappucciate che assistevano al funerale, seppur incatenate per i polsi: -I racconti delle loro gesta sono stati finalmente tramandati e noi faremo in modo di non dimenticarli mai più.- Saedor e Lhospen, in lacrime, si strinsero tra loro, guardando i loro familiari venir trascinati via dalla corrente.
    -Pallando ha portato grande dolore su questa terra, è vero. Ma il nostro tempo non conoscerà il rancore, poiché nessuno di noi ha l’autorità per giudicare le sue azioni. Non noi, che abbiamo macchiato Alatar con la parola “traditore”.- Ammise, facendo tremare la stella.
    I ricordi di due giorni prima le ferivano l’animo come una lama rimasta a rovistarle nelle viscere, ad ogni respiro. Si rivedeva premuta contro il corpo dello stregone, fuori di sé: “Non è morto! Lasciatemi, non è morto, non è morto!”
    -Faremo ammenda per le ingiustizie che abbiamo riservato loro. Ricordatevi di questa guerra, fratelli. Ricordatevi di loro.-
    Sillen chiuse gli occhi, respirando a fondo. Rimpiangeva così tante cose che, se fosse stato possibile, avrebbe riavvolto il tempo a mani nude.
    Alatar, Alatar, il suo compagno, il suo migliore amico, quell’anima smarrita cui non aveva saputo offrire aiuto.
    Strinse forte i pugni, sentendo le vene bruciare per la furia che invase i suoi pensieri: non era stata solo colpa loro, non era forse così? Qualcuno, più in alto di lei, di tutti loro, aveva guardato senza fare nulla. Rabbiosamente, sperò che le due piccole imbarcazioni attraversassero il mare per intero, sino ad incagliarsi sulle sponde della lucente e immacolata Valinor: “guardate i loro cadaveri, potenti Valar. Sono l’onta che non laverete via, il fallimento delle vostre elucubrazioni, la cecità che negate in favore di tracotanti visioni del futuro”. Un sibilo sterile, quella condanna: nulla sarebbe cambiato, Alatar non sarebbe tornato indietro.
    Eppure… Seguì le sagome delle piccole barche con lo sguardo, la bocca dello stomaco serrata e il petto in subbuglio: eppure, non riusciva a non immaginare la familiare figura dello stregone riscuotersi come da un lungo sonno, per poi sollevare il busto e voltare prontamente la barca, incredulo e anche un po’ scocciato da quell’assurda situazione. Era un’immagine così vivida e impossibile da lasciarle le ossa indolenzite, scottate.
    Poi l’orizzonte inghiottì le salme e ogni altro pensiero venne sostituito dal fracassante silenzio che accompagnava la sua impotenza.
    Non raggiunse gli altri, non ne aveva ancora le forze.
    Quei cupi istanti sulla riva del fiume vennero bruscamente interrotti dallo sferragliare metallico dell’armatura di un soldato, diretto senza dubbio verso di lei. Sillen storse la bocca, infastidita, ma rimase ferma ad attenderlo. -Mia signora, Stella dei Valar!- La richiamò quello, ancor prima di raggiungerla: -Mia signora, l’Alfiere del Cielo si è- A lei non servì sentire oltre, perché la voce dell’arma, fino a quel momento sopita, le riverberò nella mente, un formicolio familiare e insperato a solleticarle la nuca:
    -Sillen. Dobbiamo parlare.-

    La sua stanza era fresca, in confronto all’esterno, e le tende impedivano al sole invadente di penetrare le ombre soffici, ammucchiate negli angoli di pietra. L’Alfiere del Cielo vibrò nel suo supporto regale, confezionato apposta per lui, e Sillen sentì il sollievo invaderla: -Stai bene.- Constatò, scrutandolo per intero.
    -Certo che sto bene.-
    -Sei rimasto in silenzio per due giorni, da quando hai infranto la barriera del Palantir.-
    -Lo so, dovevo solo riposare. Non sono un’illimitata risorsa di energia, scusami tanto eh.-
    -Non ho detto niente, infatti.- La stella sedette lentamente sul letto, dritta di fronte a lui, lasciando cadere nel vuoto quelle frasi di circostanza. Sapeva cosa stava per accadere e, a dirla tutta, aveva solo fretta di sentire cosa l’Alfiere avesse da dirle in proposito, stanca di rimanere sul bordo di un precipizio del quale, da sola, non poteva scorgere la fine.
    Inspirò a fondo, sporgendosi verso di lui sino ad appoggiare gli avambracci sulle cosce irrigidite: -Parla, dunque.- Il suo tono ferroso lasciò l’alabarda a corto di parole, per una volta: -S-sei tesa.- Parve mormorare, avvolto improvvisamente dalle emozioni della sua padrona.
    Dopotutto, era un po’ che non la sentiva così vicina: lei non tornava nella sua stanza da giorni, nemmeno per dormire. E quelle occhiaie riassumevano impietosamente il fatto.
    Sillen contrasse la mascella: -Alatar è morto.- Chiarì, ripetendolo nella propria mente per essere certa di ricordarlo a dovere. L’arma brillò placidamente: -Lo so, Sillen. Mi dispiace. Il suo incantesimo ha celato l’ultimo frammento, nessuno poteva immaginare quale fosse il suo piano.- Le mani della stella si contrassero in uno spasmo violento, mentre il suo respiro accelerava inconsapevolmente: -Io dovevo immaginarlo.- Sibilò, cruda.
    Doveva immaginarselo, perché amava lo stregone, lo conosceva, lo capiva meglio di chiunque altro e aveva sempre creduto in lui. E quelle bugie erano troppo preziose perché lei potesse negarle improvvisamente, dal giorno alla notte.
    -Poco importa. Sarò trascinata tra le mie simili, tra non molto.- A quella conclusione piccata, l’Alfiere del Cielo fremette: -Volevo parlarti di questo, Sillen.- Lei annuì, rivolgendogli finalmente la propria attenzione.
    Il tono dell’arma si fece grave, nella sua mente: -Stanotte la terra verrà battuta dai primi raggi di luna crescente.- Rimase in silenzio per qualche secondo, come a dare enfasi a quelle parole.
    Peccato che, per Sillen, quelle parole non avessero il minimo senso. Difatti, la stella si trovò a sollevare un sopracciglio, confusa: -E con questo?- L’altro crepitò, in un verso stizzito: -In che senso, “e con questo”?-
    -Cosa dovrebbe dirmi la luna crescente?-
    -Stai scherzando? I dettagli, Sillen, i dettagli. Non è che se tu sei abituata a fare tutto a caso allora è così anche per gli altri.-
    -Invece di criticarmi di continuo, vedi di spiegarti!-
    -Va bene, va bene! Per tutti i cieli, sei insopportabile.- La tensione nella stanza sarebbe dovuta sfumare nel giro di pochi secondi, come sempre accadeva in presenza dello scostante Alfiere del Cielo. Invece, nemmeno quel suo veloce scambio di battute fu in grado di scioglierla.
    -Tu sei caduta su questa terra nel primo fascio di luce crescente del mese di Maggio.- Spiegò questi, pazientemente.
    -Stanotte, saranno passati esattamente tre mesi da allora. Ci sarà di nuovo la stessa luna crescente.-
    -Tre mesi? Nella profezia non viene riportato niente del genere.- Sbottò lei, consapevole di non essersi realmente mai interrogata su quanto poco tempo ancora le rimanesse. -Credi sia un caso che la battaglia sia stata vinta a pochi giorni da questa notte? Il tuo tempo è scaduto.- E quelle parole la trafissero come una pugnalata in pieno petto.
    Irrevocabili, innegabili, inevitabili.
    Si ritrovò ad ansimare, terrorizzata: -C-cosa? No! Non è possibile, nessuno mi ha detto una cosa del genere, nessuno!-
    -Te lo sto dicendo io. Persino io già sapevo che sarei stato trovato adesso, lo sapevo ancor prima che cadessi su questa terra, non credere che si tratti di una coincidenza.-
    Il rifiuto bloccò in un istante la mente della stella, senza possibilità di penetrarla oltre. La giovane nascose la testa tra le braccia, muta e singhiozzante. Solo dopo aver sprecato interi monologhi nel silenzio della stanza l’arma divina si costrinse a tacere a sua volta. Quella ragazzina senza speranza! Non aveva sentito una singola parola. Si attardò nei propri pensieri, ponderando, riflettendo. Ma ogni singulto della padrona gli faceva tremare le lame affilate come fogli di carta al vento, maledizione.
    -Va bene, ecco quello che faremo.- Cominciò, sentendo l’energia da poco recuperata strepitare dentro di sé, contrariata.
    Finalmente, vide Sillen sollevare gli occhi gonfi di pianto su di sé, degnandolo di attenzione. Per quanto detestasse ammetterlo, ciò che stava per proporle non lo disgustava nemmeno così tanto: -Non spetta a me sorbirmi i tuoi piagnistei, bensì ho intenzione di scaricare la patata bollente a chi di dovere. Quindi stanotte tu raggiungerai i Valar e ti lamenterai per bene con loro. Spero di essere stato chiaro.-
    La stella sgranò gli occhi di ametista, incredula: -C-come? Tu puoi farmi parlare con loro?-
    -In un certo senso. Ma posso farlo una volta sola. Quindi vedi di non sprecarla, inutile ragazzina.-

    Sillen cominciò ad avvertire qualcosa d’insolito solo al tramontare del sole. Non era sicura fosse reale, in quei giorni erano state troppe le volte in cui aveva dubitato delle proprie sensazioni.
    Eppure, un’impazienza vertiginosa le impediva di rimanere ferma. E il bisogno di uscire dalla camera e correre a vedere il cielo scurirsi si faceva via via più impellente. Strinse l’Alfiere tra le mani, respirando a fondo.
    -Lo so. Lo sento anche io.- Il tono dell’arma voleva essere rassicurante ma a lei suonò solo come una cupa certezza, la prova che tutto ciò fosse reale. -Vuoi andare da lui? Ormai non manca molto.- Sillen scosse la testa fermamente, ricacciando indietro le lacrime: -Non ce ne andremo stanotte.-
    -Non puoi saperlo. Se non lo raggiungi adesso potresti pentirtene per sempre.- Quelle parole, calde e materne, la scossero dall’interno. Nonostante il bruciante desiderio di assecondarle, Sillen scosse nuovamente la testa: -Te l’ho detto. Io stanotte non andrò da nessuna parte.- E quella sicurezza allucinata, l’Alfiere non poté scalfirla in alcun modo.
    Quando la luna si stagliò alta nel cielo terso, le sensazioni si erano ormai acuite al punto da far scattare la stella in piedi, ansimante: -Alfiere, io-
    -Sì. Andiamo fuori.- Lei non se lo fece ripetere due volte. Con la camicia e i capelli umidi di sudore freddo, la stella corse nel Cortile della Cittadella, il cuore che le martellava nel petto. Non c’era nessuno, a quell’ora della notte, se non due guardie che, prontamente, la giovane rimandò dentro.
    Non si fermò fino a che, quasi sfinita, non arrivò all’estremità più lontana del cortile allungato, laddove esso si apriva nel vuoto per sovrastare le cerchia sottostanti e gli ondeggianti Campi del Pelennor.
    Tese l’Alfiere davanti a sé, istintivamente, e sentì uno strattone tirarle il braccio, pericolosamente verso il vuoto: -N-non ti faccio cadere.- Strinse la presa sull’asta tiepida dell’arma e lo rassicurò, tremando. L’alabarda, per nulla intimorita, ruotò nel suo palmo, allentandole la stretta teneramente: -Lo so, Sillen. Mi fido di te.-
    E la luce della luna crescente li colpì con una pressione quasi fisica. L’arma divina brillò a sua volta, attraendo a sé il ciondolo viola della giovane: -Va tutto bene, va tutto bene. Stai ferma.- La richiamò l’Alfiere, vedendo gli occhi della stella riempirsi di terrore. Questa annuì, cercando di non sporgersi troppo nel vuoto.
    Fu questione di un attimo. Il vento parve scomparire, tutto d’un fiato. Ogni suono, persino il sangue che le pompava nelle orecchie, venne isolato ai suoi sensi. Qualunque cosa doveva accadere quella notte, stava accadendo.
    Il cielo sembrava immenso, le stelle parevano vibrare come soffioni battuti dalla Bora.
    E tutto era silenzioso e furioso, inarrestabile.
    Solo allora, l’Alfiere lasciò che la propria energia irrompesse nella notte: un lampo di luce, che fece serrare gli occhi alla stella, poi un suono sordo. Infine, un ronzio, insistente, fastidioso, incessante. E l’inspiegabile sensazione di star precipitando verso l’alto.

    Sillen si ritrovò a sbattere le palpebre, incredula. La sua mano era vuota: -Alfiere?- Provò a chiamare, eppure la sua voce le morì nella testa, senza intaccare l’esterno. Non si trovava nel Cortile della Cittadella. Per un secondo sentì il panico invaderla.
    Era tutto perduto? Era stata trascinata nel firmamento? Allora dov’era l’Alfiere? Dov’erano le altre stelle?
    Si guardò attorno, il fiato corto, e sgranò gli occhi: due immensi alberi avvizziti, uno dorato e uno d’argento, dominavano l’orizzonte, sovrastando nove scranni dalle dimensioni titaniche. Davanti a quella scena sproporzionata, Sillen si ritrovò a tremare senza controllo, cadendo a terra.
    -Non avere paura, figlia mia. Sei al sicuro qui.- Una voce la attraversò con la stessa incandescente potenza di un fulmine, tanto inintelligibile da stritolarle la mente e l’animo. -Mia adorata… Dovresti essere con le tue sorelle, adesso.- Nonostante la confusione palpabile, Sillen fissò lo sguardo a terra e si sforzò di parlare di nuovo: -Chi sei? Sei uno dei Valar?- L’altra voce si fece quasi materia, sopra e dentro di lei: -Lo sono. Sono colei che conosci con il nome di Varda.-
    -Mia.. mia madre?- Come poteva il tono della Valië essere dolce e terrificante allo stesso tempo?
    -Se così vorrai vedermi. Ne sarei felice.- Con un immenso sforzo, la stella sollevò la testa, azzardando un’occhiata davanti a sé. Su uno degli scranni, una figura dalle dimensioni inaudite sedeva con grazia, talmente luminosa da non riuscire a definirne i contorni. Bastò solo quella fugace occhiata a far bruciare e lacrimare gli occhi viola della giovane.
    -So bene perché sei qui. Sapevo che saresti venuta. Ma voglio sentirtelo dire ad alta voce. - La incalzò, Varda. Sillen non riusciva a fermare i pensieri, ronzanti in testa come api inferocite. Quella era Varda, la sua creatrice, la divinità cui apparteneva.
    Era… troppo. Aveva così tanto da dirle e, ciononostante, così poco da spartire con lei. Voleva urlare, arrabbiarsi, insultarla, piangere, pregarla. Era semplicemente troppo.
    Si fece forza, ingoiando quell’ancestrale timore che le stringeva la gola: -L’Alfiere mi ha aiutata, perché dovevo parlare con voi. Con voi che mi avete creata.- A quelle parole, la Valië si sporse un poco ma non la interruppe.
    Stette a Sillen trovare il coraggio per dire oltre: -Per dirvi che non ho intenzione di tornare nel firmamento.- Lasciò che la sua dichiarazione si depositasse, non importava dove, ma sperò ben visibile agli occhi della sua genitrice.
    Ella non rispose subito e si prese il tempo di ponderare ogni singola sillaba. Quando si decise, c’era una vena di comprensione, o forse compassione, nella sua voce: -Non è il tuo volere a decretare quale sarà il tuo destino.- E lo affermò con una naturalezza tale da trapassare il cuore della stella da parte a parte. -Il tuo volere è una dimensione che si esaurisce in un tuo intimo desiderio, non deve essere un fatto.-
    -Ma potrebbe, è questo che stai dicendo? Se volessi, potrei rimanere nella Terra di Mezzo?-
    La regina dei Valar sospirò: -C’è differenza tra la potenza e l’atto. Una differenza che può stravolgere il mondo in cui hai vissuto. Confido tu sappia di cosa sto parlando, L’Alfiere ti ha spiegato ogni cosa.- La stella strinse i pugni. L’atto, dunque, era contemplato tra le cose possibili: in poche parole, lei poteva ancora cambiare le sorti del suo destino, nessun vincolo le impediva davvero di agire. Tantomeno una semplice profezia.
    -So che l’Alfiere deve tornare nel firmamento. E so che anche la mia presenza attirerebbe altro male, d’ora in avanti. Ma perché devo essere io a pagarne il prezzo!?-
    Ecco, lo aveva detto. Ormai non sarebbe tornata indietro, era fatta. A suo discapito, Sillen non aveva mai messo in dubbio il valore del suo compito. Anzi, lo aveva accettato, e onorato. Ma come poteva rimanere indifferente, adesso? Relegarla a un destino scritto era stato come reprime un fuoco dietro una misera porta di legno: chi poteva pretendere che questa non si consumasse, prima o poi?
    Adesso, c’era solo cenere e tanta, tanta rabbia.
    -Io non ho chiesto tutto questo! Se sapevate dall’inizio che avrei dovuto soffrire una cosa simile, perché mi avete creata in questo modo?!-
    Varda soppesò quelle parole: -Nessuno di noi ha il potere di donare o togliere i sentimenti e le emozioni ad una creatura. Sono semplicemente parte del suo animo. Ti abbiamo donato alcuni talenti per superare le prove di questa sfida, niente di più, niente di meno. I tuoi sentimenti, la luce e il buio dentro di te, sono affare tuo.-
    -Io questi doni non li voglio più! Vi prego, prendeteveli! Lasciatemi priva di ogni potere, non m’importa! Qualsiasi cosa, andrà bene qualsiasi cosa pur di-
    -Lascia che ti chieda questo, figlia mia. Chi porterà l’Alfiere lontano, se tu ti rifiuti di farlo?- Sillen sentì tutto il suo corpo tremare violentemente quando comprese quale sarebbe stata la sua risposa. Era davvero diventata meschina. O lo era sempre stata. -Non m’importa, purché non sia io. Non ho forse fatto abbastanza? Perso abbastanza?- Mormorò, con tono piatto.
    Varda sembrò abbandonarsi contro lo scranno prezioso, quasi si piegasse a causa di una profonda stanchezza. Lasciò che la pace di quel luogo l’avvolgesse per un po’, prima di tornare a parlare:
    -Voi giovani creature siete imperfette. Non fartene una colpa, se pensi ciò che hai detto. Io non ti biasimerò.-
    Come se a Sillen fosse minimamente interessato il suo biasimo: -Devo prenderlo come un no, madre?- Quel tono insolito scosse appena la Valië, che fissò all’istante la sua luce addosso alla stella, imperiosa: -Sarà sempre un no. È tuo destino custodire l’Alfiere del Cielo, lontano dalle altre creature che popolano la Terra di Mezzo. L’Equilibrio tra Bene e Male verrà mantenuto. È un sacrificio che salverà le generazioni future da dolori più grandi di quelli vissuti in passato.-
    Sillen sentì il fuoco bruciarle nelle vene: -Ora mi è tutto così chiaro. Glorfindel aveva ragione.- Sbottò, stringendo i pugni e sollevandosi in piedi. Il Vanyar le aveva aperto gli occhi molto tempo addietro e tutto ciò che aveva vissuto, era solo una riprova: loro erano solo pedine ben disposte sulla scacchiera, votate a compiere i voleri di quelle divinità onniscienti senza alcuna alternativa.
    Lei, Glorfindel, Pallando… Alatar. Sbattuti su quella terra con un destino scritto cui non potevano sottrarsi, modellati contro la propria volontà solo per essere adeguati.
    Era così crudele, così ingiusto. E così necessario.
    -Sai che accetterai questo destino, figlia. Perché non c’è altro modo, perché è nella tua natura proteggere quella gente.-
    -Tutte le vite che avete distrutto per i vostri alti scopi, madre, che valore hanno per voi?- Sibilò, la stella, puntando fieramente le iridi di ametista sulla Valië: -Tutta la sofferenza di quelle creature sacrificabili, che valore ha per voi!? La vita di Alatar non valeva quanto la sopravvivenza di quelle persone?-
    La luce di Varda si fece violenta e pulsante, tanto da schiacciarla al suolo con uno schiocco di frusta: -Non osare parlare di ciò che non puoi comprendere, figlia! La sofferenza di ogni creatura pesa su di noi senza filtro alcuno, come i loro destini! Non ti permettere di additarci come tiranni quando non puoi comprendere la natura di potenze divine come noi!- Non stava urlando ma la forza esercitata da quella voce compresse tutte le ossa della giovane, che gridò terrorizzata.
    Si rannicchiò su sé stessa, singhiozzando e stringendo i pugni contro la testa: -Grida quanto vuoi, non sono pentita di ciò che ho detto!- Urlò, testarda, sfidando con la voce quell’immensa energia. -Non importaTu porterai via l’Alfiere.-
    -Certo che lo farò! Però, dannazione, credevi che non avrei tentato il tutto per tutto!? Perché pensi sia venuta fino a qui!? Sapevo di non avere speranza, l’ho sempre saputo!- Gridò la stella, piangendo a dirotto, abbandonata al suolo.
    Varda sfrigolò per parecchio, prima di sospirare nuovamente, assimilando quelle parole. Sillen, come tutti i figli ribelli, aveva solo bisogno di crescere. E lei non aveva nemmeno il cuore per arrabbiarsi oltre: -Tre mesi.- Sillen sollevò la testa di scatto, gli occhi sgranati: -Cosa?-
    -Ti concedo altri tre mesi, figlia mia. Non un giorno di più. E adesso sparisci, ne ho abbastanza di te.- La stella fece per protestare, cercando di sollevarsi, quando la luce della Valië sparì di colpo dalla sua vista.
    E la sensazione di precipitare nel vuoto le strozzò il respiro.


 
**
 
    Glorfindel raggiunse il cortile pochi minuti dopo, stravolto.
    Tutta quell’energia che aveva avvertito… Il cielo pareva spalancarsi sulla città, lì fuori. No, non voleva nemmeno pensarci.
    Si guardò attorno, cercando febbrilmente una figura tra le ombre. -Ti prego, ti prego- Aggirò l’Albero Bianco, cercando di regolare il respiro. Poi, un familiare brivido gli attraversò la spina dorsale, tranquillizzandolo: la sentiva ancora, sentiva la presenza di Sillen. Fu il suono di singhiozzi strozzati a condurlo da lei.
    -Sillen…- La stella non si mosse, rannicchiata contro il parapetto del Cortile, l’Alfiere del Cielo abbandonato a terra al suo fianco. Il potere di entrambi rendeva l’aria elettrica, frizzante, come dopo una violenta tempesta. -Perché stai piangendo?- Le sue parole caddero nel vuoto, accolte solo da singhiozzi irrefrenabili, disperati.
    Vederla così lo consumava dall’interno e nemmeno sapeva perché. Però, qualunque cosa fosse successa, lei era ancora lì, davanti a lui. Per un secondo, aveva davvero creduto che il cielo l’avesse reclamata a sé senza preavviso.
    Sospirò, sentendo la tensione allentare la presa sui suoi muscoli e si lasciò scivolare al fianco alla giovane, stiracchiando le gambe davanti a sé.
    Attese per chissà quanto tempo che lei si calmasse, paziente, senza azzardare nemmeno un altro commento, fino a quando non percepì il suo battito tornare regolare.
    -Ho parlato con Varda.- Esordì la stella, d’un tratto, la voce spezzata. -Stanotte sarei dovuta partire per sempre. Avrei dovuto… Avrei dovuto portare con me l’Alfiere, proprio stanotte.-
    Glorfindel si voltò verso di lei, deglutendo: -Però, sei qui.-
    Il viso della stella si accartocciò tristemente: -Sono qui.- L’elfo sentì lo stomaco serrarsi e chiuse gli occhi per un momento, cercando le forze: -E per quanto sarai qui?- Altre lacrime colarono dagli occhi d’ametista di lei, come gocce di luce: -Tre mesi.- Confessò, in un soffio. Tre mesi.
    Quella consapevolezza li trapassò, impietosa. Tre mesi.
    Il Vanyar si alzò di scatto, come ustionato. Strinse i pugni, fletté le dita lunghe, e Sillen s’impose di non cedere a quell’istinto che le urlava di stringerle forte tra le sue.
    Erano già abbastanza distrutti così.
    Si alzò a sua volta, voltandosi per non lasciare che lui vedesse ancora le sue lacrime. -C’è un modo per impedirlo?- La voce roca dell’elfo le fece tremare le spalle: -Anche se ci fosse, non potrei permettermi di provarci. Perché rischierei di riuscirci.- E quella innegabile realtà fu l’ennesimo schiaffo che l’elfo dorato accusò senza difese. Contrasse la mascella, distogliendo lo sguardo con un sibilo frustrato.
    Non voleva, dannazione. Non voleva affatto.
    -Glielo dirai?- Sputò fuori a fatica quella domanda scomoda, anche se già prevedeva la volontà della stella. E, soprattutto, sapeva che qualunque cosa lei avesse fatto d’ora in avanti non lo riguardava più.
    Deglutì, avvertendo la rabbia irrompere da dentro, un dolore quasi tangibile. Non gli importava, si disse -mi importa, mi importa troppo, fa troppo male, non reggerò- e premette una mano sugli occhi, inspirando forte, costringendosi ad ingoiare ossigeno. Ascoltò i singhiozzi della stella morire lentamente contro il cielo notturno, quel maledetto cielo, e un po’ morì anche lui. Morì di nuovo. Di nuovo e ancora, ancora, ancora, al suono di ogni lacrima che batteva sulla pietra tiepida.
    -Non gli dirò niente. Non dirò niente a nessuno.- Sussurrò lei, infine, dopo minuti infiniti. Solo allora, il Vanyar le puntò gli occhi dorati di nuovo addosso, accusatori. Egoista. -Perché?- Chiese, tra i denti, nonostante riuscisse ancora ad anticipare ogni sua parola come fosse propria.
    Lei sollevò la testa e si voltò, affondando impietosamente le iridi di ametista in quelle dell’elfo, provocandogli una scossa che gli strozzò le viscere: -Perché non ne ho il coraggio.- Ammise, stringendo i pugni in un moto di frustrazione: -Perché non voglio passare gli ultimi giorni della mia vita con il suo dolore addosso.- Egoista.
    -E quando te ne andrai, non sarai tu a raccogliere i pezzi.- Quelle parole la ferirono, tuttavia sollevò il mento, decisa: -So che non è solo. Andrà tutto bene.-
    -Certo che andrà bene, lui è forte. Supererà anche questa. Ma non è una giustificazione per le tue azioni. Sei tu quella che non ce la farà.- Le abbaiò contro il Vanyar: -Questi tre mesi saranno un tormento, una tortura, lo sai benissimo.-
    Sapeva che sputarle addosso sentenze tanto velenose non era giusto ma non poteva farne a meno. Dopotutto anche lui, come lei, non poteva farcela.
    Sillen sospirò, senza ribattere. Lasciò vagare lo sguardo nel cielo nero, costellato di stelle, mentre l’elfo divorava senza vergogna il suo profilo tinto dalla luna. Sillen poteva quasi sentire quelle iridi spogliarla, impietose, fisiche.
    Glorfindel non le aveva mai rivolto lo sguardo tormentato e dolce di Thranduil, non possedeva lo stesso affetto accorato: no, Glorfindel non la guardava, lui la scuoiava viva, le scavava nella carne e nelle ossa, con violenza. Lo lasciò fare, quasi beandosi di quel bruciore reale. Tre mesi, e nessuno l’avrebbe mai più guardata.
    -Quando Alatar è morto… No, quando ho accettato la sua morte, pensavo sarebbe stato più facile.- Confessò. -Ho pensato che il mio fallimento, il mio dolore, mi avrebbero portata a rinunciare a tutto questo. Una sofferenza così grande che pur di non sentirla, pur di lasciarmela alle spalle, sarei scappata in cielo senza voltarmi indietro.-
    Le parole erano un fiume in piena, il pianto che tornava a spezzarle il fiato e la voce: -Però mi sbagliavo! Io voglio vivere, voglio vivere tutto questo, lo voglio, lo voglio, lo voglio e basta! È vero, saranno tre mesi orribili, perché saprò quanto ogni giorno mi avvicinerà alla fine, saprò che non saranno mai abbastanza. Eppure non vedo l’ora di viverli! Ma perché? Perché voglio ancora rimanere qui, perché sono così debole? Perché sono fatta così male!?-
    Glorfindel avvertì il cuore contrarsi su sé stesso e allungò le braccia verso la stella senza nemmeno rendersene conto. La strinse, incastrando il viso di lei contro di sé per arrestare quei singhiozzi convulsi. -I Valar ti hanno donato tante belle qualità Sillen. Sei forte, coraggiosa, generosa, una valida stella. Certo che lo sei. Ma tu non ti esaurisci solo in questo. Sei molto, molto di più. Sei egoista, sei testarda, sei incosciente, avida, arrogante, sfiancante, ingenua, viziata, ingiusta.- Sorrise amaramente, chinando il viso sui suoi capelli scuri: -Dei se sei ingiusta.-
    Avvertì distrattamente il respiro di lei calmarsi, il tremore farsi più lieve: -E hai tanta voglia di vivere. Quindi soffri, ma vivi questi tre mesi con la consapevolezza di non essere sbagliata. È il destino ad esserlo. Tremendamente sbagliato.-
    Cercando di darle forza, sapeva di sfiancare il proprio animo. Voleva solo portare via quella maledetta stella e lasciare il mondo intero dietro di loro, a bruciare. “Non avrai mai il mio addio, non te lo concederò nemmeno prima della fine. Ma porta con te tutto il mio amore, Stella dei Valar. E con esso, tutto ciò che avrei potuto darti e che rimpiangerò per sempre.”
    Ascoltò i battiti della stella tornare regolari, soffocato da un sentimento che conteneva dolore e amore in egual misura, un ossimoro capace di spezzargli il respiro.
    Solo allora, l’Alfiere del Cielo brillò lievemente, avvolgendo i due compagni con la sua luce calda e gentile: -Una vita così dolorosa, eppure così bella… non vale forse la pena viverla? Se solo Pallando avesse avuto la vostra forza, tante cose non sarebbero accadute. Alla fine, tutto ciò che dobbiamo decidere è cosa fare col tempo che ci viene dato.-

    Quella mattina, quando Thranduil lasciò le sue stanze, trovò la stella dinnanzi alla sua porta, seduta scompostamente contro la parete. Aveva gli occhi grandi e gonfi, il viso stravolto, come se non avesse mai smesso di piangere. Come se i suoi singhiozzi strazianti avessero continuato a vessarla dal momento in cui era riuscito a staccarle le mani dorate dal mantello blu di Alatar sino a pochi istanti prima.
    Per quanto ne sapeva, poteva essere successo esattamente quello. Erano due giorni che lei non tornava da lui. Due lunghissimi giorni.
    Si bloccò sulla porta, la linea della mascella tesa e lo sguardo tagliente. Fino a quando Sillen non si aprì in un sorriso dolce, genuino, di quelli che il Re temeva di non rivedere mai più.
    -Torniamo a casa, Thranduil.-
    Dopo un attimo di stupore, gli occhi di ghiaccio dell’elfo si fecero lucidi e caldi, come il cielo estivo. -Torniamo a casa.-

 
**
 
 
3 mesi dopo…
 
    Miniel si affacciò dalle alte mura del cortile della Città Bianca, sbracciandosi per salutare un’altra volta ancora i suoi più cari amici: -Arrivederci, arrivederci!- Sorrise dolcemente, mentre il vento le scompigliava i capelli bruni.
    Il sole di quell’alba autunnale le scaldava piacevolmente le guance ma non era lontanamente paragonabile al calore che le avvolgeva il cuore nel posare lo sguardo sulla sua pacifica Gondor: i mercanti lungo le strade di Minas Tirith vociavano allegri e scanzonati, famiglie e carovane andavano e venivano dai paesi vicini e i profumi dei forni della città impregnavano l’aria. Persino i Campi del Pelennor erano tornati ad essere quelle erbose distese che, la prossima primavera, sarebbero graziosamente rifiorite.
    La Principessa premette una mano sul petto, respirando a fondo per non lasciare che quelle meravigliose sensazioni venissero gradualmente sopraffatte da ricordi meno lieti: ciò che era accaduto aveva lasciato molti segni dentro di lei, segni che forse nemmeno il tempo avrebbe potuto cancellare.
    I capelli biondi di Legolas spiccavano sulla via maestra, ben settecento piedi più in basso ma ancora perfettamente riconoscibili, e Miniel lo vide sollevare il braccio, per sventolare il lungo arco nella sua direzione.
    Tornò a sorridere, ricambiando il saluto: -Vi voglio bene! Tornate presto!- Gridò, consapevole che Legolas e Gimli non l’avrebbero comunque sentita. Non le importava: dopotutto, aveva passato gli ultimi mesi incollata ai due come la resina sugli alberi e di certo aveva ripetuto quelle parole abbastanza volte da rendersi persino fastidiosa. Anche se i due amici non l’avrebbero mai dato a vedere, pensò felicemente.
    Elessar e Arwen, accanto all’Albero Bianco, sorrisero della scena, tenendosi teneramente per mano.
    -Faramir è ripartito?- Chiese la Regina, posando la testa sulla spalla forte del suo sposo. Elessar sollevò giocosamente le sopracciglia: -Stamani all’alba! È sempre più impaziente di tornare a casa, ora che sua moglie ha annunciato l’arrivo di un altro bel piccolo erede.[1] Certo è dedito al suo ruolo di Sovrintendente ma è giunto il momento che si prenda un meritato congedo. Éomer e Dama Lothíriel andranno a trovarlo presto.-
    Anche Arwen rise, dolce come un usignolo: -Così deve essere.-
    I suoi occhi grigi corsero al cielo, accesi come il suo sorriso:
    -Chissà, forse i Valar doneranno anche a noi un’altra gioia.-
    Elessar la guardò con rinnovata attenzione: -Un’altra gioia?- Lei annuì, posando il mento sul suo petto per poterlo guardare in viso e lasciandosi avvolgere dal suo abbraccio: -Una piccola principessa… o un piccolo principe.- Il Re socchiuse gli occhi, divertito, e abbassò la voce in un mormorio eloquente: -A tal proposito, non credo servirà scomodare i Valar.- Baciò la sua Regina, tranquillo come non era da molto tempo.
    Nelle sue vene, il sangue di Dunadàn scorreva placido e soddisfatto, finalmente: il suo regno era al sicuro, la sua famiglia al suo fianco e nessun male si sarebbe nuovamente azzardato a mettersi lungo il suo cammino, ne era certo.
    Ora, tutti i suoi compagni più fedeli erano in pace, le loro terre floride e piene di vita.
    E di amore.
    -Anche Sillen vorrà crearsi una famiglia, un giorno.- Pensò, tra sé e sé. A quelle parole, la serenità di Arwen parve incrinarsi leggermente, ma si ritrovò a sperare che Aragorn non riuscisse notarlo. Distolse lo sguardo, il sorriso più tirato: -Chissà…-
    -Sto forse interrompendo qualcosa?- I due sovrani voltarono la testa, sorridendo istintivamente. Il ghigno saputo di Thorin Elminpietra li accolse, mentre questi puntava le grosse mani sui fianchi: -Ma guarda un po’, ultimamente sembrate tutti fin troppo rilassati. Come se non ci fosse del lavoro da sbrigare!-
    Arwen si portò una mano alle labbra, tentando di nascondere le risa, e Elessar si avvicinò all’amico: -Per fortuna il Signore dei Nani ha tutto sotto controllo!- Gli assestò diverse pacche sulle spalle massicce e il nano quasi perse l’equilibrio: -Prendi pure in giro, vecchio ramingo! Intanto, i miei uomini hanno appena concluso il restauro.-
    -Incredibile, in soli tre mesi sono riusciti a svolgere un lavoro che ci avrebbe impegnati per anni!- Era sincero, il Re di Gondor e di Arnor. I Nani di Erebor, abili minatori e forgiatori, avevano restaurato le mura esterne e il magnifico portone in mithril, sotto la guida esperta di Gimli e del mastro fabbro del Re, Ibûn.
    -Vi siamo grati per il vostro aiuto. E grazie per essere tornato a valutare i lavori, Thorin.- Sorrise, Elessar, commosso.
    L’altro agitò una mano: -Consideralo un dono da parte del popolo dei Nani. Abbiamo rischiato di morire fianco a fianco, no? Ora sarà il caso di vivere facendo altrettanto.- Arwen si chinò con estrema gratitudine: -Sarai sempre il benvenuto in queste terre, mio signore.-
    Thorin si perse ad ammirare il paesaggio per qualche istante, il viso disteso in un’espressione soddisfatta: -Sapete, è una bella sensazione.- Strinse gli occhi chiari, trattenendo la commozione:
-Credo proprio che i miei padri, adesso, non avranno niente da ridire sulle mie gesta.-
    Prima che qualcuno potesse aggiungere altro, si riscosse, battendo le mani con fare gioviale: -Bene! È giunto il momento per noi di tornare alla Montagna Solitaria. Penso passerò a trovare Sillen, sulla via del ritorno. Ah, si starà annoiando, con tutti quei folletti dei boschi! Se partiamo subito, potremmo accodarci a Gimli e a quell’altro folletto: è possibile che vogliano venire anche loro.-
    In quel momento, la voce della Principessa fendette di nuovo la calma della città, propagandosi nella valle come lo squillo acuto di una tromba d’argento. Stava puntando il dito proprio verso i lontani Legolas e Gimli, seria e accigliata come non mai: -E non litigate più, voi due! Solo baci e carezze, chiaro?!-
    Elessar e Arwen sgranarono gli occhi all’unisono, preoccupati per la presenza del Re dei Nani vicino a loro. Aveva di certo sentito tutto. -Miniel!-
    Invece, Thorin sollevò il sopracciglio folto, alzando la voce per difendere l’adorabile Principessa: -BEH? Che avete da urlare? C’è forse qualcuno che ancora non l’ha capito, miseriaccia?!-

    Intanto, Legolas si grattò un orecchio, infastidito: - Mi fischiano le orecchie! Qualcuno sta parlando di me.- Con il naso arricciato dall’ilarità, Gimli sistemò la pesante sacca sulla schiena, prendendo una boccata dalla sua fidata pipa: -Sarà perché quelle appendici a punta prendono troppa corrente, altroché.-
    Legolas lo colpì sulla testa con l’estremità dell’arco, aprendosi all’istante in un’espressione falsamente dispiaciuta solo per beccarsi un’occhiataccia furiosa: -Non l’ho fatto apposta!- Poi scoppiò a ridere, cosa che, suo malgrado, fece desistere Gimli dal complottare qualsivoglia vendetta.
    Oramai i due compagni solcavano i Campi del Pelennor, diretti verso Nord, e niente sembrava poter turbare la profonda quiete che albergava dentro di loro.
    -Mi manca viaggiare tutti insieme, in un certo qual modo.- Ammise Legolas, tra lo scemare delle risate. Il nano dovette convenire con lui: -Già ma ora sono tutti sistemati e pieni d’incombenze. Nessuno ha tempo per le scampagnate. A ben vedere, pure noi avremmo delle responsabilità ad attenderci.-
    Legolas si imbronciò, aggrottando le sopracciglia delicate. Non avrebbe voluto incrinare quel momento perfetto ma ignorare la domanda che aleggiava tra loro sarebbe stato più che inutile, giunti a questo punto: -Ti sei pentito della tua scelta? Vorresti tornare alle Caverne Scintillanti?-
    Gimli, con sua somma sorpresa, lo zittì senza esitazione: -Lo sapevo che stavi pensando a questo! Ma cosa ti salta in testa? Sono anni che aspetto di tornare a viaggiare, non saranno di certo quelle irrilevanti responsabilità a fermarmi!-
    E si schiarì la voce, conscio che declassare i suoi doveri di reggente a “irrilevanti” fosse stato comunque un atto decisamente coraggioso: -E poi, non avrei più occasione di vederti. Tu torneresti nell’Ithilien, ad almeno…- Si fermò per contare a mente, cosa che fece sorridere l’elfo al suo fianco: -…almeno quattrocento miglia da me! Io sia dannato se passo un altro decennio come quello appena trascorso.- Esclamò.
    Legolas arrossì, senza più preoccuparsi di non darlo a vedere:
    -Giusto. Grazie per queste tue parole, le custodirò nel cuore.-
    Gimli tossicchiò il fumo, borbottando tra sé e sé: -Sentiti, adesso fai il tenero. Tanto impiegherai meno di due minuti per passare ad un’altra rottura di scatole, parola mia.-
    -Invece credo ci divertiremo molto, tu ed io.- Rise, Legolas.
    -Magari vivremo nuove avventure e salveremo paesi stranieri dalle grinfie del male! E quando sarai troppo vecchio per viaggiare ti cucinerò la zuppa, soffiandoci pure sopra.- E quasi finì per lacrimare dal ridere, al pensiero.
    Gimli scrollò una mano: -Certo, guarda che ne deve passare di acqua sotto ai ponti prima che io mi ritrovi ridotto così! Sono ancora forte e resistente, cosa credi?-
    Lo sguardo di Legolas si fece più sottile e brillante, malizioso, mentre incontrava i suoi occhi scuri: -Resistente..? Andiamo, ho imparato a mie spese che voi nani siete “scattisti nati”.- Sibilò, intendendo nemmeno troppo velatamente ben altre resistenze, che avevano poco a vedere con l’innocente corsa campestre.
    Gimli sgranò gli occhi, talmente colpito da riuscire a malapena a rispondere a tono: -T-tu! Rimangiatelo! Ti farò passare un brutto quarto d’ora!- Legolas prese a scappare: -Solo un quarto d’ora? Lo sapevo, avevo ragione!- Rise, mentre l’altro lo inseguiva con l’ascia in mano: -Smettila immediatamente, piccolo sfacciato!-
    Il cuore del giovane elfo batteva all’impazzata, felice e innamorato. Per una volta, era nel luogo giusto, al momento giusto e con la persona giusta. Non importava dove si sarebbero ritrovati all’alba, o fra molti anni da adesso, né cosa avrebbero mangiato o dove avrebbero riposato. Non esistevano confini o vincoli nel futuro che avevano scelto, purché lo affrontassero insieme.
    Correndo di qua e di là, inseguito da un rossissimo nano brontolone, Legolas si commosse, improvvisamente consapevole di essere riuscito, finalmente, a trovare il suo posto nel mondo.
    Adesso era tutto perfetto.
    I due si lasciarono Gondor alle spalle e, tra una provocazione e l’altra, non poterono fare a meno di ripensare ai loro compagni.
    In particolare, si chiedevano come se la cavasse la Stella dei Valar, che da ormai tre mesi non vedevano. Una stella che aveva cambiato le loro vite. E che, ignari e spensierati, si auguravano di rincontrare presto.


 
**
 
    Quella stessa stella, intanto, si rigirava nel letto, disturbata da un delicato raggio di sole che penetrava dalla grande finestra della stanza del Re degli Elfi. Era stranamente indolenzita ma il letto era talmente accogliente e comodo che l’idea di abbandonarlo non le passò nemmeno per l’anticamera del cervello.
    Mugolò qualcosa, sfregandosi i pugni sugli occhi come poteva, intralciata da un paio di braccia sin troppo strette attorno a lei.
    -Come mai stamattina non ti alzi?- Ancora per metà avvolta dal sonno, si rigirò di nuovo, voltandosi verso il proprietario di quelle braccia solide: -Di solito sei già in piedi da ore.- Thranduil scrollò le spalle, per nulla intenzionato a spostarsi: -Stamattina non era necessario.-
    -Niente incombenti impegni da Re?-
    -Solo farti compagnia.- Sillen sorrise, aprendo gli occhi. Suo malgrado, dovette reprimere un brivido inopportuno. Lo aveva visto in ogni modo possibile, quell’elfo dispotico, ma non si era abituata a quella particolare visione, nemmeno in tre mesi. Semplicemente, era impossibile.
    Thranduil sollevò appena un angolo di quella dannatissima bocca, stringendo gli occhi a due fessure lucenti: -Fai quella faccia tutte le mattine, sei incredibile.- Lei, per tutta risposta, si cimentò in una smorfia teatralmente infastidita, nascondendo il rossore che le aveva tinto le guance: -Guarda che sei tu a sconvolgermi tutte le mattine, non farmene una colpa.-
    L’elfo la avvicinò un po’ di più a sé: -Lo so. E non sono affatto dispiaciuto.- Affondò lo sguardo cangiante nel suo, attento: -Non so cosa ti sia preso ieri notte ma ero così stanco che credo di essermi addormentato persino io.- Constatò.
    A quelle parole, Sillen si svegliò violentemente da quell’idillio e la realtà, con tutti i ricordi della sera prima, le piombò addosso come un macigno. -G-già. Scusami.- Sorrise, ignorando il battito del proprio cuore impazzito.
    Giusto, i tre mesi…
    Era giunta al capolinea. Quella notte, ci sarebbe stata di nuovo la luna crescente.
    La sera prima era talmente disperata da…
    Avrebbe dovuto controllare il panico, la disperazione. Invece, ricordava benissimo di aver fallito miseramente, ormai giunta al limite della sopportazione. Aveva fallito nel momento stesso in cui si era lasciata consumare dalla crudele e irrefrenabile necessità di soffocare il dolore e la sofferenza tra le mani del Re degli Elfi. Quelle mani sempre gentili cui aveva chiesto, quasi pregando tra le lacrime, di stringerla più forte, di scavarle nella carne, di strapparle la pelle e assorbirla, prima che fosse troppo tardi.
    Invece, si era svegliata ancora una volta e niente era cambiato.
    Non si sarebbe più ridestata così, con lui, mai più. Non avrebbe rivissuto quel brivido impossibile, che al mattino la svegliava più di qualsiasi raggio di sole.
    Niente di tutto ciò, mai più.
    Per tutti i cieli, non doveva crollare proprio adesso.
    Strinse inconsciamente le dita sulle spalle dell’elfo, che la avvicinò dolcemente di rimando, e allargò il proprio sorriso, regolando il respiro: -Perdona l’irruenza, non è da me.-
    Thranduil rimase immobile per qualche attimo, senza lasciarle la possibilità di distogliere lo sguardo: -Hai pianto. Anche dopo, nel sonno, hai pianto.- Il suo viso non tradiva nessuna emozione, nessuna anomalia, eppure Sillen sentì lo stomaco contorcersi.
-Non me ne sono accorta.- Mentì, deglutendo a vuoto.
    Dannazione, dannazione, non doveva crollare proprio adesso!
    Poi, il Re la spinse di schiena, premendola contro il materasso con il proprio peso. La fissò dall’alto, i capelli argentei a celarli al mondo e, per un secondo, alla stella parve infinitamente triste.
    Solo fino a quando le labbra calde di lui non cercarono le sue, ponendo fine ai pensieri impazziti nella sua testa.
    Almeno per un po’.

    Mentre si rivestiva, Thranduil si attardò a seguire i movimenti della stella. Sulla pelle di entrambi, ancora spiccavano i segni di ciò che era accaduto la scorsa notte.
    Era stato diverso. Diverso da tutte le altre innumerevoli volte.
    Così diverso da ferirli entrambi.
    Accarezzò distrattamente con il pollice un piccolo livido dalla medesima forma, sul braccio dorato della stella, compagno di tanti altri identici, e lei sollevò lo sguardo con un sorriso rassicurante. Passò a sua volta la mano aperta sulla sua schiena forte, come a scusarsi per le sottili linee arrossate che adesso la percorrevano: -Va tutto bene, stiamo bene.- Si rallegrò lei, sistemando poi il vestito verde scuro che Emlinel le aveva amorevolmente confezionato, tirando bene giù le maniche.
    Thranduil non rispose, tornando a vestirsi.
    La stella superò lo studiolo, mentre il Re indossava la sua corona: -C’è qualcosa in particolare che devi fare oggi?-
    Non diceva mai dobbiamo. Thranduil era il Re ma Sillen non aveva mai nemmeno pensato di diventare Regina. Lo aveva chiarito da subito, che quello non era il suo compito, né il suo giusto ruolo. Non lo sarebbe mai stato, anche se avesse avuto a disposizione una vita, al posto di quei tre, miseri mesi. Amava Re Thranduil come Stella dei Valar e gli aveva fatto compagnia, lo aveva supportato e affiancato sempre come tale.
    -No. Rechiamoci alla Sala del Trono.- La stella sospirò: -Però, oggi pomeriggio andiamo all’arena? Voglio combattere un po’ con te.- Quasi mise su il broncio ma, stranamente, quel giorno Thranduil pareva più conciliante del solito: -Anche io ne ho voglia. Sbrigherò le mie pratiche in fretta.- Sorrise appena, lui, sospingendola verso la porta.
    Sillen si sentì stringere il cuore, per l’ennesima volta.
    Dannazione, quanto lo amava.

    Superando lentamente gli innumerevoli corridoi del Palazzo, Sillen si prese tutto il tempo per ammirare il paesaggio variopinto che faceva capolino dalle arcate di pietra. L’autunno, nel Reame Boscoso, si mostrava in tutti i suoi spettacolari colori. Le fronde fiammeggianti degli alberi sarebbero rimaste tali sino alla prossima primavera, senza spogliarsi mai.
    Avrebbe tanto voluto vederle mutare i loro colori ancora una volta. Ancora mille volte.
    Invece, si ritrovò a sobbalzare per lo spavento: -Ben svegliata, inutile stella.- L’ingombrante voce dell’Alfiere le sfondò il cranio con ben poca gentilezza e Sillen sibilò infastidita, sollevando gli occhi al cielo. -Finalmente tu e quel ghiacciolo reale avete deciso di darci un taglio.- Continuò l’altro.
    Nessuno poteva sentire le sconvenienti battute di spirito di quell’arma petulante, per fortuna; ma, pur sapendolo, la stella si sentì avvampare dall’imbarazzo.
    -Vi siete proprio ostinati a dar ragione a tutti quei piccanti pettegolezzi che girano a Palazzo.-
    La stella ringhiò in risposta, nella propria mente: -Resta fuori dalla mia testa, Al.-
    -Per carità, questo è sicuro. Non ci tengo proprio a vedere certe cose. Già non posso fare a meno di sentirle riecheggiare nel terreno, ne ho anche abbastanza.- Si finse disgustato, mentre avvolgeva la padrona con il proprio calore. Lo avrebbe negato sino alla morte ma le mancava, quell’inutile stella, quando non l’aveva accanto.
    -Che cosa diamine vuoi? Sono venuta a trovarti ieri.-
    -Oh niente. Volevo solo fungere da promemoria.- L’altra trattenne un respiro tremolante. Come se ce ne fosse mai stato bisogno…
    Ne avevano parlato anche il giorno prima. E quello prima ancora. Ne parlavano sempre, anche se si trattava solo di poche frasi: a Sillen serviva sfogare quei pensieri angoscianti, in qualche modo.
    L’alabarda doveva aver sentito ciò che era accaduto la scorsa notte e quell’incursione mattutina era semplicemente il suo modo di preoccuparsi per lei.
    Anche se non era lì, nel palazzo.
    Aveva deciso di rimanersene impiantato nel bosco, laddove la stella era caduta tempo addietro, per godersi le albe e i tramonti di quella terra che non avrebbero mai più rivisto.
    Desiderio che la stella, dal canto suo, aveva compreso fin troppo bene.
    -Ci vediamo più tardi…- Concluse lui, abbandonando la sua mente con più dolcezza di quand’era arrivato. Già, più tardi.
    Istintivamente, la mano della stella corse a stringere quella grande e affusolata del Re, al suo fianco.
    Questi le scoccò un’occhiata dall’alto, scrutando il suo profilo adombrato con le labbra tese in una linea piatta. Sarebbe stata una cattiva notizia, per lei, eppure Thranduil non si premurò di celarle la verità: -I corvi sono tornati da Imladris. Anche questa volta, senza esito.- Sillen trattenne il pianto che le premeva in gola, cercando di sorridere con naturalezza: -Ti avevo avvertito che Glorfindel non avrebbe risposto. Pazienza, è comprensibile no?- L’altro strinse leggermente gli occhi adamantini, studiando le sue reazioni: -Ci ho provato per te, a me non interessa cosa prova lui.- Lasciò cadere lì la conversazione, senza infierire e Sillen gliene fu grata.
    Sapeva che mentiva, invece: gli interessava eccome.
    Il Vanyar, dopo la battaglia, si era riservato l’incarico di custodire i due elfi oscuri e curare le loro ferite, a Gran Burrone, rifiutando l’invito degli Elfi di Eryn Lasgalen. Ma l’intento era chiaro: non voleva più stare con loro. La stella non si era opposta. A che scopo costringerlo a rimanere con lei quando questo gli avrebbe procurato solo dolore? Di certo, non sarebbe tornato adesso per darle l’ultimo saluto, non era da lui. Ma cielo, come le mancava.
    Quando aveva salutato i suoi compagni, a Minas Tirith, aveva impresso nella sua memoria ogni secondo. Loro non potevano sapere che quelli, per lei, fossero degli addii strazianti. Ci aveva fatto i conti allora ma le mancavano tutti, le mancavano terribilmente.

    Poco dopo, il Sindar prese posto sul suo trono, mentre Sillen si sistemava discosta, comodamente seduta sui gradini di legno.
    Come ogni mattina, Galion trotterellò alacremente verso di loro, i lunghi capelli bruni a rimbalzargli sulla schiena ritta: -Mio signore, l’ordine del giorno. Ci sono diverse cose piuttosto impellenti da risolvere, stamani ho atteso lungamente e-
    -Non adesso, Galion.- La brusca interruzione di Thranduil fece arcuare le spocchiose sopracciglia dell’elfo silvano, preso in contropiede: -N-non adesso. . E quando, se posso permettermi?- Bastò lo sguardo gelido del Re a convincerlo a zittirsi. Lanciò giusto l’abituale occhiataccia alla stella, prima di inchinarsi e andare ad affiancare la scalinata con impeccabile professionalità.
    Non gli era proprio andato giù il fatto che Thranduil non dedicasse più anche la notte al suo lavoro.
    Proprio no.
    Un elfo della guardia si chinò dinanzi al Re, una mano sul cuore: -Aran Thranduil, i ricognitori di Amon Lanc[2] sono qui.- Lo informò. Sillen si sporse verso il trono, curiosa: -Dei ricognitori?-
    Lo sguardo dell’elfo argenteo si fece carezzevole, mentre tornava su di lei: -Pazienta, Sillen.-
    In realtà, non passò molto prima che il suono di molti passi invadesse la Sala del Trono, diretto verso di loro. In un gesto di cortesia, Sillen si alzò in piedi, spazzando il vestito: -Non avevo mai sentito parlare di questi ricognitori.- Borbottò, tra sé.
    Una dozzina di elfi silvani s’inchinò al cospetto del Re, la mano sul cuore. Il portavoce del gruppo si sollevò per primo, il viso stanco ma determinato: -Aran Thranduil, Belain en Gil (Stella dei Valar).- Al cenno assertivo del Re degli Elfi, anche tutti gli altri tornarono in piedi, in file ordinate. -Ho con me il rapporto scritto delle nostre ricognizioni, come richiesto.-
    La voce di Galion attirò improvvisamente l’attenzione di tutti, interrompendo l’elfo silvano: -E lui cosa ci fa qui?- Gli sguardi degli elfi si fecero confusi, mentre si guardavano tra loro.
    Non che Galion si facesse problemi ad utilizzare i suoi modi bruschi con chiunque, solo che quel sibilo era stato più pungente e serio del solito. Doveva essere molto arrabbiato, per lasciarsi andare così dinanzi al Re.
    Interessata, anche Sillen lasciò scivolare gli occhi d’ametista sui presenti. Fino a quando il fiato le si mozzò in gola. -F-Felon.- Espirò, fissando gli occhi gentili dell’elfo, proprio davanti a lei.
    Felon. Quasi non riuscì a metterlo a fuoco, tanto era il suo sconcerto. Non l’aveva nemmeno visto.
    -Perché è qui?- Insistette Galion, fissando con astio il giovane elfo. Questi parve non sentirlo: guardava a sua volta la stella con gli occhi sgranati, incapace di dire una parola. Come tutti i suoi compagni, era abbigliato con logori vestiti da viaggio, il suo mantello bruno era ancora impolverato e umido. Pareva quasi volersi nascondere nel piccolo gruppo.
    Sillen superò i presenti, giungendo ad un passo da lui e lo spinse con una mano, piano, gli occhi ancora piantati sul suo viso: -Ma dove sei stato?- Vedendo che l’altro non rispondeva, continuando invece a fissarla, la stella gli strinse un braccio.
    -Nessuno voleva dirmi dove fossi! Non parlava nemmeno Emlinel! Perché sei andato via?- A quelle parole, Felon sussultò, abbassando lo sguardo sulla mano della stella. Lei, zittendosi, fece altrettanto: in effetti, stava stringendo una candida fasciatura. -Oh, perdonami, ti sei fatto male?-
    Solo allora, Felon trovò il coraggio di parlare: -Uuma dela ten’ amin, Belain en Gil (non preoccuparti per me, Stella dei Valar).- Si inchinò, con una deferenza tale da lasciare la stella senza parole. -Questa ferita è quasi guarita.-
    -Ma perché non eri qui, dove sei stato?- Lui la guardò con l’espressione più colpevole e triste che lei gli avesse mai visto.
    Quando vide le mani della stella avvicinarsi nuovamente, il silvano lanciò uno sguardo teso verso il trono, scostandosi leggermente. Thranduil ricambiò, gli occhi impietosi e il viso scuro. Tuttavia, prese un lieve respiro, prima di alzarsi dal suo Trono e raggiungere i nuovi arrivati: -Andate a riposare. Mi occuperò personalmente dei resoconti.- L’elfo a capo del gruppo annuì, consegnando il suo libro ormai liso al Re.
    Quando questi si voltò verso la stella, lei fece per parlare ma si ritrovò brevemente stretta contro il suo petto: -Tu resta. Mi raggiungerai.- Le posò il viso tra i capelli: -Non metterci troppo.-
    L’ultima occhiata, fredda ed eloquente, la riservò all’elfo gentile, che chinò la testa, mentre il sovrano lasciava la sala e i restanti presenti si disperdevano.
    Non senza un “assurdoincredibile!”, squittito da un Galion più che furente.
    Sempre più confusa, Sillen si voltò nuovamente verso Felon.
    -Sei sparito per mesi.- Rimarcò. Felon annuì, suo malgrado e i delicati ciuffi ramati gli accarezzarono i lineamenti fini: -Alla fine sono tornato, mia signora.- Si azzardò finalmente a prenderle le mani tra le proprie, con un sospiro. -Il Re non mi ha espressamente chiesto di non parlarti ma sarebbe saggio per me cercare di essere breve. Non voglio che perdiate tempo.- Ammise e Sillen aggrottò le sopracciglia sottili.
    Che significato stava attribuendo, lui, a quel “perdere tempo”?
    Sapeva forse qualcosa?
    -Comunque credo di meritare di sapere cosa è accaduto qui in mia assenza. E cosa è accaduto a te.- Felon la guardò con dolcezza. -Sai, mi sono macchiato di tradimento, quando sei partita.- La rivelazione rimbombò nella sala vuota come uno scoppio e, davanti all’espressione attonita dell’altra, l’elfo distolse lo sguardo: -Sì, è così. All’ennesima udienza rifiutata, dopo che il Re aveva dichiarato di non volersi schierare al tuo fianco, mi sono preparato a disertare. All’inizio eravamo in tanti. Però, la paura di contrariare il nostro signore portò tutti quanti a desistere. Alla fine, sono rimasto solo.-
    Sillen non si mosse, sconvolta. -T-tu hai tradito…-
    -Galion mi ha trovato prima che io riuscissi a varcare i cancelli. E sono stato portato al cospetto del Re.- Il cuore della stella perse un battito, mentre fissava terrorizzata l’elfo davanti a lei.
    Come poteva parlarne con tanta serenità?
    Sapeva, dannazione, sapeva quanto freddo e brutale potesse essere Thranduil: nonostante non l’avesse mai provata da sé, conosceva la reverenziale paura degli elfi nei suoi confronti e non osava immaginare cosa volesse significare trovarsi al suo cospetto da suddito, dopo un tremendo tradimento.
    Strinse più forte la mano di Felon, come per accertarsi che fosse ancora lì, vivo. -Dunque quella ferita…- Cominciò, deglutendo. L’altro scosse la testa: -Il Re avrebbe dovuto uccidermi, mia signora. Era un suo dovere farlo. Eppure, quando venne il momento, lui colpì solo il mio braccio.- Sfiorò le bende, gonfio di un sentimento che pareva quasi una devozione assoluta: -Guardando questa cicatrice, ricorderò il mio tradimento. Così disse. E mi esiliò. Per questo non ero qui, al tuo arrivo.- Sorrise alla stella, che aveva ripreso un poco di colore: -Il Re sapeva che la sofferenza più grande l’avrei provata nel rimanere lontano, quando scelse infine di partire per la battaglia.-
    Sillen non capiva: -Ma perché scelse di partire? Lui, purtroppo, non ha mai voluto rispondere a questa domanda.- Felon piegò il collo sottile, sollevando lo sguardo sul Trono maestoso: -Chi lo sa. Forse, è un po’ merito mio. O almeno, mi piace pensare che sia così. Nemmeno lui poteva stare lontano da te, io gliel’ho solo ricordato.-
    Sillen strinse le labbra, arrovellandosi nei propri pensieri. Tutti i pezzi, infine, s’incasellavano nel disegno della sua breve vita.
    -Quando Thranduil è arrivato a Minas Tirith, era più confuso di me.- Sorrise, stringendo con più forza la mano dell’elfo gentile:
-Ed è il Re più devoto che conosca. Deve aver avuto paura, quando ha compreso che i suoi fedeli dubitavano delle sue azioni. Tanto da dubitare anch’egli. È e sarà sempre una buona guida, per questo.-
    Felon schiuse le labbra, assimilando quelle parole con dolce ammirazione: -La mia signora è saggia. Sei cambiata tanto, in così poco tempo.- Lei rise, ripensando a tutti gli avvenimenti che l’avevano riportata al Reame Boscoso: -Sono sempre la stessa stella imbranata a cui hai insegnato a camminare, mio caro Felon. Hannon le, per tutto.-
    Lo abbracciò con forza, grata per averlo potuto rivedere almeno una volta. Aveva rinunciato a chiedere di lui, eppure eccolo lì, davanti a lei.
    Avevano così tante cose da dirsi e così poco tempo da spendere insieme.
    Improvvisamente, Sillen venne travolta da un pensiero. In realtà, più che altro, venne scossa da un terribile presentimento.
    -Felon, il Re ti aveva destinato all’esilio, giusto?-
    Lui annuì: -Sarei dovuto restare con la guarnigione di Amon Lanc, a Sud. Invece, ci è stato ordinato di tornare.- Sillen lo guardò negli occhi, seria: -Non vi era mai stato domandato di portare i resoconti personalmente, vero?- Lui rimase per qualche secondo in silenzio, sbattendo le palpebre. Vedendolo così rigido, Sillen si affrettò a correggersi: -Non fraintendermi, sono così felice che tu sia qui. Però devo saperlo, per favore.-
    -Sì, non è mai successo che fossimo noi a muoverci, al posto dei messaggeri. Anch’io rimasi sorpreso, quando mi avvertirono che il Re aveva espresso delle direttive per noi, qui a Palazzo. Prima di allora, non avevo nemmeno sperato di poterti rivedere.- Quella limpida ed innocente risposta lasciò la stella pietrificata. Preoccupato dal pallore che aveva tinto la sua pelle dorata, l’amico le strinse una spalla: -Mia signora?- Poi lanciò uno sguardo ansioso verso i corridoi: -Ora dovresti andare, il Re ha detto chiaramente di non trattenerti.- Sillen annuì, lentamente.
    Era una stupida, una vera stupida.
    -Va’ pure a riposare anche tu, Felon. Verrò a salutarti più tardi.-
    L’elfo gentile la guardò andare via, confuso e allertato da quel tono carico di un’emozione che non era riuscito ad identificare.
    L’unica cosa che aveva intuito era che la luce di quella giovane stella, in qualche modo, si era lievemente affievolita.

    Sillen entrò nello studio del Re e richiuse la porta, appoggiandosi ad essa con un respiro profondo. Sapeva che lo avrebbe trovato lì.
    Thranduil, in piedi al centro della stanza, sollevò lo sguardo di ghiaccio su di lei e Sillen si sentì pugnalare al petto senza pietà. Da quando c’era così tanta consapevolezza, negli occhi del Re?
    Stupida, stupida. Era davvero una stupida.
    Lui non parlò, aspettando che fosse lei a cominciare quella crudele conversazione. E Sillen, poco dopo, lo fece, senza abbassare lo sguardo: -Tu lo sapevi.- Il Sindar non si mosse, nemmeno respirò, lasciandole il tempo di riordinare i pensieri.
    -Quei silenzi, l’insistenza nel cercare Glorfindel, il ritorno di Felon… Ora è tutto chiaro.- Frenò il tremore delle proprie labbra, stringendo i pugni tanto da sbiancare le nocche: -Perché non mi hai detto niente?-
    -Aspettavo che fossi tu a dirmelo, Sillen.- Pareva quasi un rimprovero ma c’era troppo dolore nella voce del Re: -Dovevi essere tu a confidarti con me. Non l’hai fatto e credimi, mi hai ferito.- La stella poté avvertire ogni lembo del proprio animo contorcersi su sé stesso: -Non potevo dirtelo, Thranduil. Avevamo così poco tempo e-
    -Credevi che avrei permesso al dolore di portarmi via gli ultimi giorni che potevo passare con te?- Ringhiò, il Re, facendosi più vicino: -Io convivo con il dolore da più tempo di quanto immagini. E lo porterò con me per molto tempo ancora, per tutta la mia esistenza. Hai ragione, tutto ciò mi farà ancora male.- Sillen non riuscì a distogliere lo sguardo nemmeno quando fu costretta a gettare la testa all’indietro, mentre il corpo fremente del Re la opprimeva contro la porta: -Ma io voglio te abbastanza da poterlo affrontare.-
    -Thranduil-
    -Credevi di poterlo nascondere a me?- Sillen tremò, stringendo istintivamente le maniche preziose della veste del Re: -C-come lo hai scoperto? G-Glorfindel?- Quelle domande parvero infiammare ancora di più il Sindar: -Ci sarà sempre qualcosa che quel maledetto sa mentre io no?-
    -Se non lui, chi?-
    -Non insultarmi, Sillen. Sono un elfo della Prima Era. Puoi fingere dinanzi ai tuoi amici umani, ma non c’è stato un singolo istante in cui io non abbia letto le tue emozioni chiare come specchi d’acqua. I saluti che hai rivolto agli alleati, erano addii.-
    Nonostante quelle parole fossero dure e severe, l’elfo si chinò sino a posare la fronte su quella della stella, il volto contratto.
    -Ho continuato a osservarti e ad aspettare. Ogni giorno era peggiore del precedente. Lo vedevo in ogni cosa che facevi, che dicevi, nei tuoi sforzi per nascondermelo.-
    -Mi dispiace, mi dispiace- Il Re asciugò le lacrime della stella, prendendole il viso tra le mani: -Quando?- Soffiò poi, la voce malferma. Sillen sgranò gli occhi viola: lui non lo sapeva. Aveva capito ma non sapeva tutta la verità. E lei non poteva davvero fargli questo...
    Sentì le forze abbandonarla, mentre cercava di spingere fuori la voce: -Stanotte, Thranduil.- Tenne gli occhi fissi in quelli di lui e si lasciò investire da ogni cosa. Ogni emozione, ogni pensiero.
    Meritava di lasciarsi annegare dentro essi, dopo aver provato in ogni modo ad evitarli. Era così egoista e, allo stesso tempo, così debole.
    Strinse forte il Re, mentre si lasciavano scivolare a terra. Che cosa poteva dire ora? Quali parole avrebbero potuto salvarli da quelle onde inarrestabili? Mentre singhiozzava, quasi non sentì le parole dell’elfo stretto a lei.
    -Melin le, Sillen. (ti amo)-
    Sillen aveva sempre creduto che il cuore fosse come un contenitore. Lo si riempie di emozioni e sensazioni per tutta la vita, fino a che, troppo pieno, non finisce per creparsi e andare in mille pezzi. Dopo, si può solo morire. Eppure non avvertì nessuno schianto, nessun frastuono. Solo silenzio e quelle due parole che invadevano ogni anfratto di quel contenitore, che si espandeva e si espandeva sotto la loro feroce pressione. E non morì.
    -Melin le.- Affondò il viso nel petto del Re e pianse senza ritegno, ripetendo quelle parole all’infinito.
    I Valar l’avevano ingannata ancora una volta.
    Quei tre mesi, e tutti i ricordi che le avevano donato, l’avrebbero dilaniata per sempre.


 
**

    La notte aveva avvolto ogni cosa, oramai. La luna crescente accarezzava i profili scuri del bosco, con pennellate gentili. Alle porte del Reame Boscoso, sul ponte che sovrastava l’impetuoso Taurduin,[3] non vi era anima viva.
    Non c’era Emlinel, con i suoi occhi pieni di lacrime; non c’era Felon, con il suo sorriso gentile; tantomeno Galion, impegnato a lamentarsi di chissà cosa, chissà dove.
    Sillen si strinse nel mantello, sorridendo al pensiero di tutti loro. Probabilmente, a quest’ora Miniel stava già dormendo, con la certezza di salutare la nuova alba al suo risveglio. Arwen avrebbe rimproverato Elessar, perché era tardi e le carte potevano aspettare. Legolas e Gimli, non voleva nemmeno immaginare cosa stessero facendo, decisamente. Di certo, Thorin e i suoi stavano festeggiando, anche senza un valido motivo, quasi sentiva le loro voci tonanti. E Glorfindel, il suo saggio elfo dorato, era di sicuro troppo codardo e orgoglioso per alzare gli occhi al cielo come stava facendo lei.
    Le stelle tremavano e la sensazione di vertigine ed impazienza era più forte che mai. Persino la luce dell’Alfiere del Cielo, laggiù tra le fronde, risplendeva più del solito.
    -Oggi è stato tutto perfetto.- Sussurrò la Stella dei Valar, voltandosi verso il Re.
    Thranduil sorrise, stringendole la mano dorata.
    -È crudele ma anche bellissimo, non trovi? Sei sempre stato tu. Sei colui che mi ha trovata in quella radura e colui che adesso mi guarderà partire. Il mio principio e la mia fine.- Allacciarono le dita tra di loro, avvicinando i visi per sentirsi ancora una volta.
    Per l’ultima volta.
    -Non parlare di fine, Sillen. Questo è solo l’inizio.- Lei annuì, contro di lui.
    Avrebbe trascinato con sé ogni dettaglio di lui. Per sempre.
    Avrebbe ricordato tutto, lo sapeva.
    Era compito di una stella.
    E nessuno le avrebbe portato via questa verità.


    La Stella dei Valar e l’Alfiere del Cielo lasciarono la Terra di Mezzo quella notte. Accadde davvero.
    A Minas Tirith, tutti si affacciarono per seguire quella luce splendente che ascendeva al cielo.
    A Imladris, qualcuno giurò di aver udito lo schianto di oggetti che si frantumavano contro le pareti.
    Molti dicono di aver sentito il mondo tremare.
    Altri, ricordano un calore dolcissimo.
    Ma nessuno, in realtà, poté dire con certezza di aver visto cosa accadde, quella notte.
    Restò solo il fatto che qualcosa di unico era certamente arrivato e poi certamente ripartito, come poche volte capitava.

    E, si sa, sta nella caducità delle cose la nascita di leggende destinate a rimanere eterne.

 
**
 
 
Ai Porti Grigi, estate, sei mesi dopo.

    La nave era pronta a salpare e il tempo, così mite e assolato, non poteva essere dei migliori.
    -Beh, direi che ci siamo tutti.- Batté le mani, il Vanyar dorato. I due elfi oscuri si strinsero tra loro, osservando il mare con timore. -Non preoccupatevi, andrà tutto bene.- Li rassicurò l’altro, posando le mani sulle loro spalle tremanti.
    Ci sarebbe voluto tempo ma nutriva grandi speranze per quei due giovani elfi dal talento straordinario. Non vi era posto migliore delle Terre Immortali, per curare le loro ferite.
    Altri elfi, alcuni di Gran Burrone, altri di Bosco Atro, seguitarono a salire sul ponte, con calma e grazia.
    Era davvero quasi ora di partire, dunque.
    Mancava giusto un ultimo passo da compiere.
    Infatti, prendendo un profondo respiro arreso, Glorfindel si voltò verso il molo di pietra. -Che carino, sei venuto a salutarmi?- Ammiccò, incontrando lo sguardo gelido del Re degli Elfi. 
    Che faccia indecente, si ritrovò a pensare.
    Dopotutto, non erano passati che pochi mesi da quella notte...
    Ingoiò a vuoto, forzando l’ennesimo sorriso malizioso: -Se vuoi, puoi farmi un’appassionata dichiarazione. Forse mi convinceresti addirittura a rimanere.- L’altro sollevò un sopracciglio: -Persino in questo momento riesci ad essere insopportabile.-
    -Sono un animo romantico, sai? Mi basterebbe un bel gioiello per farmi cambiare idea.-
    -Ti farei legare all’albero maestro, se potessi.-
    -Mhm, che cosa eccitante.-
    -Ma perché sono venuto fino a qui.- Sospirò, il Re. Glorfindel sentì il proprio sorriso incrinarsi. Lo sapevano entrambi perché era lì. Avevano fatto una promessa, e stavano per infrangerla.
    -Sei tu che non vuoi venire con me.- Mormorò il Vanyar, distogliendo lo sguardo. Thranduil strinse gli occhi a due fessure taglienti: -Io non scappo, al contrario di te.-
    -Rimanere qui o salpare per Valinor non fa differenza.­-
    -Forse. Ma non ho intenzione di vivere dove non posso vederla, anche se è solo una luce nel firmamento.- Il Vanyar sentì il fuoco ardergli dentro: -Sta’ un po’ zitto.- Ringhiò. Poi gli diede le spalle, rigido e altezzoso: -Fai come vuoi. Namárië, giovane Re degli Elfi.-
    Thranduil fece un passo in avanti, schiudendo le labbra.
    Quasi tese la mano per fermarlo.
    Poi abbandonò il braccio lungo il fianco, guardandolo allontanarsi sempre di più lungo il pontile di pietra.
    Il Vanyar non aveva motivo di rimanere, in vero. Ed era di certo più razionale di lui che, invece, rimaneva ostinatamente aggrappato a quelle terre ormai prive di magia, soltanto per poter ammirare ogni notte un’ignara stella.

    Glorfindel salì sul ponte dell’aggraziata nave elfica e questa, finalmente, si staccò dal molo.
    Era fatta, basta così.
    Rimanere significava finire coinvolti nelle vicende future di quella terra maledetta. E lui ne aveva decisamente abbastanza. Si era guadagnato il riposo, la libertà. I Valar non si sarebbero azzardati a chiedergli altro, dannazione.
    Ma allora perché più si allontanava più sentiva l’irritazione mordergli le ossa?
    Prese a sbattere il piede sul legno spesso della coperta, nervosamente, incrociando le braccia.
    Dopo un po’, all’ennesimo sbuffo scocciato del Vanyar, alcuni degli elfi lì accanto si guardarono tra loro, confusi.
    Con chi diamine stava parlando?
    -Non mi girerò.- Sibilava, infatti, Glorfindel, blaterando al nulla, fissando caparbiamente l’orizzonte. Col cavolo che si faceva dei problemi per quel dispotico Re dei ghiaccioli. Ancora pochi metri e non avrebbe nemmeno più sentito la sua presenza. Avrebbe guardato avanti, sempre e solo avanti, lasciandosi alle spalle tutto quanto, per una buona volta.
    Era la cosa giusta da fare.
    Era quello che voleva.
    Giusto?
    Glorfindel si girò di scatto, trovando la figura del Sindar esattamente dove l’aveva lasciata.
    E imprecò in una decina di lingue diverse: -Tsk, dannazioneee-
    Sotto gli occhi attoniti degli altri passeggeri, il Vanyar mise un piede sul parapetto: -Ti conviene cominciare ad essere più gentile, brutto ragazzino viziato!-
    Avrebbe voluto godersi le espressioni dei presenti, mentre si buttava in mare con ben poca grazia.
    Thranduil sgranò gli occhi, fissando incredulo la figura dell’elfo dorato nuotare e sputacchiare acqua tra i suoi stessi improperi.
    Suo malgrado, sentì le lacrime rigargli il viso. Quasi corse sul molo di pietra, andandogli incontro.
    Glorfindel s’issò sul molo, scrollandosi l’acqua salmastra dai capelli dorati. -Questa era pure la mia camicia preferita, maledizione!- Si voltò giusto in tempo per incontrare lo sguardo sconvolto del Re degli Elfi e lo raggiunse a grandi passi, puntandogli il dito contro: -Che sia chiaro! È tutta fottutamente colpa tua!- E lo tirò a sé, fregandosene altamente di inzupparlo dalla testa ai piedi.
    Thranduil rimase pietrificato, contro la spalla solida del Vanyar.
    -Come se potessi mollarti qui così, razza di idiota. Non sopravvivresti altri due secoli senza di me.- Lo strinse l’altro, trattenendo il tremito della propria voce. Solo allora, il Re si concesse di cedere. Sollevò le mani e strinse la camicia fradicia sulla schiena dell’amico, singhiozzando senza ritegno.
    Alla fine, quella dannata stella ha vinto di nuovo, sorrise amaramente Glorfindel, accarezzandogli i capelli sottili.
    Attese fino a quando Thranduil non tornò in sé, consapevole che l’orgoglioso Re non avrebbe mai voluto farsi vedere in quel modo dalle sue guardie. -Andiamo adesso, ho bisogno di un bagno caldo.- Si lamentò il Vanyar, strizzando altra acqua dai propri vestiti.
    Raggiunsero le guardie, lentamente: -Non sai quando partirà un’altra nave.- Gli fece notare, il Re. Glorfindel sollevò un sopracciglio elegante: -E ti sembra che serva a qualcosa ricordarmelo adesso?-
    -Magari non ci avevi pensato.-
    -Io penso sempre a tutto.-
    -Sono convinto che la tua capacità di raziocinio sia nettamente inferiore alla media.-
    L’elfo dorato, esasperato, fece per colpirlo quando, con sua sorpresa, si ritrovò a fissare due occhi gentili, decisamente familiari. Istintivamente, sollevò le labbra in un ghigno saputo.
    -Guarda chi si rivede…-
    Felon arrossì dalla punta dei capelli sino alla punta dei piedi, stringendo le mani al petto: -H-heruamin. (mio signore)-
    La mano alzata per punire il Re si abbassò, finendo ad assestare a quest’ultimo un’energica pacca amichevole: -Bene bene, si prospetta un’estate interessante.-
    Thranduil si raddrizzò, furente: -Scordatelo! Felon lo rimando ad Amon Lanc stanotte!-
    -Eheh, contaci.-
 
**
 
    Nella frenesia del momento, nessuno avrebbe fatto caso alla figura nascosta nelle ombre del porto. Questa si mosse lentamente, in uno svolazzo del suo singolare mantello bianco sporco: -Brava, stellina. Hai fatto un ottimo lavoro, dico davvero.-
    Prese ad allontanarsi, aiutandosi con il bastone ricurvo, che ticchettava sulla pietra con ritmica cadenza.
    Un piccolo falco, dalla testa scura e le ali dorate, si posò sulla sua spalla, arruffando le penne con uno stridio quasi contrariato: -Oh andiamo, gallinella. Li rivedremo presto. Tutti quanti.-
    E la figura sorrise, gli occhi grigi che brillavano nella penombra:
    -È una promessa.-
 


 
Fine
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.
.
?


 
[1] Il Professore non ha fatto riferimenti ad altri figli di Faramir, oltre ad Elboron. Questa mia aggiunta è personalissima, perché ho sempre immaginato il nostro Sovrintendente come un padre modello <3
 
[2] Amon Lanc: nome elfico dell’antica fortezza di Dol Guldurfondata dagli elfi silvani. In principio, fu la Capitale del regno di Oropher, il padre di Thranduil e venne poi occupata da Sauron introno all’anno 1000 T.E. Sconfitto l’Oscuro Signore, l’intero Bosco Atro venne bonificato e così anche la zona di Amon Lanc, tornata presidio elfico. Thranduil ancora ne detiene il controllo.
 
[3] Taurduin: nome elfico del Fiume della Foresta, che attraversa la parte Nord di Bosco Atro (ora Eryn Lasgalen), fino a Lago Lungo.


 



N.D.A

Ciao a tutti, amici!
Beh *si asciuga la lacrimuccia* ecco l’epilogo.

CHE SUDATA RAGA sto malissimo XD
Non so per quanto tempo ho continuato a guardarlo e riguardarlo, certa di NON volerlo pubblicare.
E invece l’ho pubblicato. E sto piangendo.

Ma andiamo con ordine.
Questa storia è stata compagna indissolubile dei miei ultimi 4 anni. E sono successe tante cose in questi 4 anni, che davvero mi hanno cambiata tanto. Adesso riesco a vederlo, rileggendo quei primi, brevi capitoli. Quasi non riesco a crederciii!!
Non immaginavo che arrivare a destinazione mi avrebbe lasciata così vuota e raggiante allo stesso tempo. Vi confesso che è il primo vero progetto a lungo termine che sono riuscita a concludere e non potrei essere più fiera dei miei personaggi.
È vero, il mondo a cui appartengono non è una mia creazione ma spero di aver messo davvero del mio nel comunicare ciò in cui credo e che ritengo importante.
La vita è bellissima ma è anche una grande sofferenza. Elargisce bene e male in quantità casuali e quella proverbiale lotta tra destino e caso, per me, sarà sempre seconda alle scelte che ognuno di noi deve compiere: ci autodetermineremo per sempre, che questa vita sia una o solo una tra le tante. O almeno, mi piace pensare che sia così <3

Ora, ho due domandine da farvi, a voi che avete seguito dal principio questa storia, a chi è arrivato nel mentre e a chi è appena approdato:
-qual è il vostro personaggio preferito? (domanda cattivissima, okay - vale anche “qual è il vostro ssspreferito?”)
-c’è qualcosa che proprio non vi ha entusiasmati, di tutto ciò che è stato narrato? Qualcosa che vorreste cambiare? (non fatevi problemi, siate brutali XD)
-quale capitolo porterete (almeno un pochino!) nel vostro cuoricino di fan del grande e amato mondo creato dal Professore?

Inoltre, e poi la smetto perché dopo tutto sto popò di epilogo anche basta, ho da parte ben 3 capitoli inediti. Sono, in realtà, parti della storia (approfondimenti di ceeeerte situazioni, inzomma) che ho dovuto tagliare per motivi di scorrevolezza.
Sto pensando di pubblicarli in una mini raccolta di One Shot (non sono pratica, mi informerò!) voi che dite?

Ultimi ma non ultimi, i ringraziamenti.
Perché, ne sono davvero felice, non sono mai stata sola in questo percorso.
Il primo grazie va a Chiara: perché le voglio un mondo di bene, perché mi ha sopportata e supportata dall’inizio, perché siamo due cuori e un cervello malato e perché è la persona più intelligente e buona che io conosca. Grazie per avermi accompagnata e consigliata come la migliore persona che sei <3
Grazie a 
Kaiyoko Hyorin, la mia Kaiy-chan che, da quando ha recensito la prima volta, non ha mai mancato di donarmi tutto il suo appoggio. Proprio capitolo dopo capitolo! In lei non ho solo trovato una compagna fangirl ma anche una grande ispirazione. Vi consiglio di fare un salto sulla sua pagina, se già non la conoscete ;) Grazie Kaiy-chan, per tutto il tuo supporto :3
Grazie anche a 
Nimue, che con il suo modo di scrivere mi ha sempre fatto sognare. Ogni sua pubblicazione è stata una spinta in più a continuare questa storia. Grazie amica <3
E grazie infinite a chi ha recensito, seguito, messo nelle preferite o nelle ricordate questo mio umile lavoro.
Vi mando tanto affetto, tantissimo, non immaginate nemmeno quanto sia stato bello compiere questo viaggio con tutti voi.

Beh, alla prossima amici!

Un abbraccio,
la vostra

Aleera
 

P.S La storia sarà revisionata da cima a fondo nei prossimi giorni. Ci sono cose che vanno aggiustate, aggiunte, levigate e legate, ora posso vederle con chiarezza. Avrò premura di segnare fino a che capitolo avrò corretto mano a mano!
Baci

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