Golden Age

di muffin12
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anno 0 ***
Capitolo 2: *** Anno 1 ***
Capitolo 3: *** Anno 2 ***
Capitolo 4: *** Anno 3 ***
Capitolo 5: *** Anno 4 ***



Capitolo 1
*** Anno 0 ***


Golden Age

Anno zero 


Sakusa afferrò per un pelo il giornale prima che toccasse la panchina del parco. Alcuni fogli sfuggirono alla sua presa frettolosa e caddero dritti per terra con un fruscio derisorio, ma la maggior parte rimase nel suo pugno stretto. Storcendo il naso, piegò il giornale rimanente e se lo mise nello zaino, prese dalla tasca del giubbotto un sacchetto di plastica da cui tirò fuori dei guanti di gomma e li infilò velocemente, chinandosi poi per raccogliere i fogli sfuggiti.
 
Valutò con occhiata critica la panchina. Quanto poteva essere sporca? Era all’aperto, sotto un albero. Delle foglie dal colore discutibile erano cadute chissà quanto tempo prima e si erano seccate direttamente sulla seduta, lasciando briciole sparse in maniera odiosa dappertutto. Sembravano incrostate in maniera indelebile. In alcuni punti il legno era decisamente più scuro e si ricordò della pioggia del giorno prima. Non era ancora asciutta, quindi.
 
Decidendo che sarebbe morto prima di avvicinare il suo sacro sedere su una superficie la cui unica possibilità di sterilizzazione totale erano le fiamme dell’inferno, si fermò lì accanto e cominciò a leggere.
 
Politica, attualità e pubblicità. Perfetto, non gli serviva. Gettò il tutto nel cestino e si tolse i guanti con uno schiocco soddisfacente, stando ben attento a non toccare alcuna parte contaminata, rimettendoli poi nel sacchetto originario e camminando alla ricerca del cesto dei rifiuti adeguato.
 
Il cellulare cominciò a vibrare. Con un sospiro afferrò il disinfettante da una tasca laterale dello zaino e ne sparse il gel tra le mani, prese il telefono da quella dei pantaloni e, dopo aver visto il nome lampeggiare sullo schermo, accettò la chiamata.
 
“Ci siamo sentiti venti minuti fa.” Salutò in tono secco, rimettendo a posto con cura la sua unica ragione di vita.
 
“Mi sei mancato ogni secondo.” Rispose Motoya teatrale, il tono di eroina d’altri tempi. Poteva sentire il rumore echeggiante delle palle che venivano sbattute a terra con violenza bruta, il che stava a significare che si era preso una pausa dall’allenamento. “Allora? Com’è andata?”
 
“Perché ti pagano per cazzeggiare e io non riesco ad essere assunto?”
 
“Sento l’invidia.” Cinguettò suo cugino. “Qual era il problema stavolta?”
 
“Troppo qualificato.”
 
“Che cazzata.”
 
“Lo penso anche io. Non esiste ‘troppo qualificato’.” Pronunciò quelle parole come fossero una maledizione.
 
“Considerando che hai iniziato l’università da poco meno di un anno, dovrebbero cercare una scusa migliore.”
 
“Era un posto per cassiere. Avessi un dottorato in astrofisica capirei.” Borbottò contrariato. “Non che siano affari loro comunque.” Se voleva sprecare i suoi talenti per servire la gente era una decisione soltanto sua, alla fine.
 
“Forse è la faccia.” Mugugnò Motoya pensoso. “Hai sorriso?”
 
“Non essere ridicolo. Perché avrei dovuto?”
 
“Kiyoomiiiiiii, ti ho detto che devi sorridere! Sei un albero dalla faccia truce, spaventi la gente!”
 
“Non sorrido senza motivo.” Con un’occhiata scorse il cestino della plastica. Cominciò a puntarlo con passo deciso.
 
“Tu non sorridi proprio. Un’espressione gioiosa aiuta!”
 
“Avevo la mascherina.” Buttò il sacchetto e riprese a camminare verso i dormitori. Sentì suo cugino imprecare.
 
“Non puoi presentarti con la mascherina.”
 
“L’ho fatto. È un mio diritto.”
 
“Sì, ma poi non ti lamentare delle conseguenze!”
 
Come se fosse stato quello il problema. Lo sapevano entrambi.
 
“Non puoi chiedere agli zii di aiutarti?”
 
No, non poteva. Stupido Motoya che lo chiedeva ancora.
 
“Troverò qualcos’altro.” Rispose invece, attraversando la strada. “Ci sarà un morto di fame qualsiasi a cui posso servire.”
 
“Cuginetto mio, il morto di fame sei tu in questo caso, lo sai vero?” Oh, quanto aveva ragione. “E poi detta così suona proprio male.”
 
“Non voglio saperlo.”
 
“Sembra tu stia cercando un magnaccia.” Cinguettò Motoya. Sentì il ghigno nella sua voce come qualcosa di fisico. “Hai mai pensato di darti alla prostituzione?”
 
“Continua così e non arriverai a domani.” Lo avvertì, schivando un bambino decisamente iperattivo sfuggito dalla presa della madre.
 
“Vivo solo per il brivido.” D’un tratto una voce lontana chiamò suo cugino. Doveva essere bella forte per riuscire ad arrivare alle sue orecchie. “Ehi, ci sentiamo dopo, mi cercano.”
 
“Non voglio parlarti mai più.”
 
“Ti voglio bene anch’io!” E riattaccò dopo un bacio schioccante.
 
Sakusa, sospirando, rimise in tasca il cellulare. I sospiri allontanavano la felicità, ricordò con una parte della sua mente. Eh.
 
Aveva affrontato il quinto colloquio in tre settimane. Ovviamente era andato uno schifo.
 
Non biasimava nessuno, sapeva di avere un problema. E per una volta non erano le sua idiosincrasie.
 
I suoi genitori non erano più molto giovani quando lo avevano avuto. Lui era il terzo figlio, la sorpresa, il non programmato. C’era da dire che, con il primo ritardo, sua madre stava già festeggiando in grande una meritata menopausa e invece no, si era trovata nove mesi dopo tra le braccia un pargolo musone che avrebbe solo complicato la vita di tutti.
 
Sua madre e suo padre lo amavano tantissimo, non gli avevano mai fatto pesare nulla. Quando la sua avversione si scatenò, di punto in bianco, come un interruttore acceso, lo convinsero ad andare insieme in terapia accorgendosi di non essere preparati alla situazione di fronte a loro. Lo incoraggiarono ogni giorno a cercare il suo posto nel mondo e non potevano essere più fieri di ciò che era diventato.
 
Ma.
 
Non erano una famiglia ricca. I suoi fratelli erano avevano già diciotto e quindici anni quando era nato e se all’inizio facevano a gara per stare con il loro Ki-chan quando i loro genitori mancavano anche giornate intere per lavorare, crescendo avevano inevitabilmente cominciato a vivere le loro vite.
 
Non aveva avvertito la solitudine. Non aveva un carattere tale per cui sentiva il bisogno di compagnia, quindi su quello era stato fortunato. I suoi non la pensavano così.
 
L’avvicinamento di Motoya era stata una manna del cielo per cui sua madre e suo padre ringraziavano ancora oggi, in colpa per la loro assenza e per la convinzione di essere la causa del carattere chiuso del loro bambino; la decisione di praticare la pallavolo li liberò dall’angoscioso pensiero fisso di lui che tornava ogni giorno in una casa vuota e quando la zia Haruki propose di portarselo a casa dopo la scuola e gli allenamenti per giocare con Motoya e Maki-chan, erano sollevati dall’assicurarsi che Kiyoomi mangiasse pasti caldi effettivamente appena cucinati, non solo preparati la mattina ed in attesa di una riscaldata nel microonde, e che soprattutto lo facesse in un ambiente familiare.
 
Ma a Kiyoomi mancavano i suoi genitori. Quindi cominciò a studiare sodo per ottenere i premi e le borse di studio necessarie a non pagare le rette della scuola, cercando di guadagnarsi una serata in più da passare sul divano a guardare documentari sugli animali con suo padre o in cucina a pelare le carote per aiutare sua madre a preparare il Nikujaga da mangiare tutti insieme. Quando capì che la pallavolo era un raggio di sole in una giornata buia durata tutta una vita, la sua mania di perfezionismo e di completezza lo spinse ad eccellere, sfruttando appieno caratteristiche fisiche che fino a quel momento reputava un peso o, al massimo, una stranezza con cui cercare di fare amicizia. La sua tenacia lo portò ad essere reclutato per Itachiyama, rinomata scuola privata, una scuola per ricchi. L’orgoglio negli occhi di suo padre lo incoraggiò a dedicarsi con maggior fervore alle sue passioni.
 
Aveva cercato comunque di trovarsi dei lavoretti nei finesettimana per non pesare sull’economia di famiglia non appena si ritrovò con l’età giusta ed era andato tutto bene, una favola un po’ faticosa ma appagante.
 
Fino all’università.
 
Lui non voleva andarci. Aveva ricevuto tantissime proposte da rinomate squadre della V1 e voleva diventare un professionista, voleva continuare a giocare, voleva effettivamente togliere il suo peso ingombrante dalle spalle dei suoi. Suo padre gli propose di rimandare di qualche anno, il tempo di una laurea.
 
“Hai bisogno di un piano B, Kiyoomi.” Gli disse seriamente prendendolo da parte. “Sono preoccupato per gli infortuni, i tuoi polsi … Fammi solo questo favore, hai bisogno di un piano B. Pensaci.”
 
Lo accettò. Non perché gli fosse stato imposto, alla fine era un consiglio, la decisione rimaneva a lui, ma aveva senso. Nella pallavolo gli infortuni erano all’ordine del giorno, le dita venivano costantemente scotchate, combatteva con gli insaccamenti giornalmente, bastava un atterraggio sbagliato per mandare all’aria tutta una carriera.
 
Poteva stare attento quanto voleva, ma poteva capitare in qualunque momento. Iizuna-san ne era la prova.
 
Fu fortunato da essere preso in considerazione anche da molte università prestigiose, alla fine il suo curriculum era decisamente stellare anche per quanto riguardava l’andamento scolastico e la sua bravura nella pallavolo faceva gola a molti. Doveva solo scegliere.
 
Non fu facile, quindi, spostare la sua attenzione dalla Waseda di Tokyo, vicina a casa, comoda, rinomata, alla Handai, l’università di Osaka. Fu una bella botta pure per la sua famiglia.
 
La Handai era terza a livello nazionale, un’università con i controcazzi, ma era lontana. Decisamente lontana. L’aveva scelta per quello.
 
La borsa di studio copriva l’iscrizione, la retta e anche la stanza del dormitorio, singola, un sogno. Ovviamente aveva dovuto passare l’esame di ammissione, uno decisamente tosto vista l’importanza dell’università, e studiare così a fondo frequentando comunque le classi di preparazione e gli allenamenti ogni giorno non era stato semplice.
 
Sua madre non lo voleva accettare e non passava giorno che non cominciasse a discutere della sua scelta. Anche suo padre era contrario ma lo nascondeva meglio, scrutando la situazione ogni volta che si alzava l’argomento e cercando di capire i silenzi di quel figlio dal carattere così simile al suo. Lui, d’altro canto, sentiva il bisogno di lasciarli liberi di godersi finalmente la loro vita e l’unico modo che riusciva a trovare era andarsene altrove.
 
Quando arrivò a Toyonaka l’anno prima con i pochi averi che aveva deciso di portare, dopo sei ore di auto passati a sentire con un orecchio gli improperi di sua madre e con l’altro le osservazioni sagaci di suo padre, passò la giornata a fare un giro con i suoi prima di accompagnarli ad un bed&breakfast che avevano prenotato per passare la notte. Sarebbero ripartiti la mattina dopo, lasciandolo per la prima volta veramente da solo.
 
E si era trovato bene. Le lezioni gli piacevano, la squadra di pallavolo dell’università era più che accettabile, lo studio andava alla grande. I bagni in comune erano l’unica sfida che si era trovato ad affrontare fino a quel momento, insieme al pensiero dell’effettiva sicurezza igienica di lavatrice e asciugatrice della lavanderia universitaria, ma anni di terapia e di esposizione costante ad atleti sudati dalla dubbia educazione sanitaria lo avevano preparato meglio di quanto credesse. Sentiva i suoi genitori a giorni alterni, i suoi fratelli almeno una volta a settimana e Motoya, acciuffato dalla EJP Raijin, anche troppe volte al giorno.
 
Non aveva calcolato, però, che i suoi risparmi si sarebbero prosciugati come una pozza d’acqua nel deserto. Uno schifo.
 
Non era propriamente povero, seriamente. Aveva un conto in banca piuttosto cospicuo, i suoi genitori lo aiutavano costantemente, nonostante le sue lamentele di godersi i soldi con qualche viaggio, ed era stato bravo sin da subito a centellinare ogni singolo yen, ma non riusciva sempre a mangiare nella mensa o nella caffetteria del campus e le sue scorte di disinfettante erano messe a dura prova ogni giorno. Si era trovato ad affrontare spese che non aveva mai neanche preso in considerazione prima. Aveva bisogno di un lavoro e non aveva intenzione di chiedere ulteriore aiuto.
 
Tuttavia tra le lezioni, lo studio e gli allenamenti per una squadra che era la favorita a vincere il campionato collegiale e a giocare al Kurowashiki All Japan Volleyball Tournament trovare il tempo non era semplice. O, meglio, non era semplice trovare un lavoro nelle sue ore libere.
 
Fino a quel momento i rifiuti erano sempre girati intorno alla sua disponibilità. Giustamente. Lui per primo non si sarebbe fidato di una matricola universitaria (perché era ancora al primo anno, sebbene mancassero poco più di due mesi alla fine dell’ultimo semestre) alta come un lampione con la mascherina perenne che, oltre a dare problemi per la pulizia, rompeva anche le scatole per l’orario di lavoro. Avevano sempre alluso ad altri motivi – avevano già assunto, non erano interessati a studenti, troppo qualificato – ma erano tutti arrivati dopo che li metteva davanti ad una disposizione che cozzava con la loro fascia lavorativa.
 
Il suo problema non erano solo le giornate piene: doveva prendere in considerazioni partite d’allenamento, campionati, trasferte, inviti. I preavvisi c’erano, ma non era economico per nessuno assumere un soggetto come lui. Men che meno ad un passo dalle vacanze.
 
Con l’ennesimo sospiro aprì la porta della sua camera e, dopo essersi cambiato le scarpe, tirò fuori il giornale dallo zaino.
 
Prese un pennarello e cominciò a sfogliarlo, fino ad arrivare alla colonna delle proposte di lavoro. Era ora di ricominciare a cercare qualcosa.
 
 
*
 
 
Osamu stava vibrando. Aveva inserito le chiavi nella serratura con mani tremanti e si era fatto strada nel buio ovattato del locale con una riverenza che di solito riservava alle crocchette omaggio che riceveva con gli ordini da asporto. Lingue di luce pallida trapassavano i vetri opachi delle finestre, i granelli di polvere impalpabili galleggiavano pigramente nel vuoto.
 
Atsumu lo seguì più cauto, guardando quella stanza con una smorfia sul viso.
 
Suo fratello osservava il suo futuro. Lui vedeva solo mucchi di roba in giro su un pavimento grigio – oh, aspetta, no era un giallo strano. Quanto cazzo era sporco quel posto?
 
“Quindi.” Disse soltanto, decidendo di non toccare nulla. Le spalle si chiusero inconsciamente.
 
Girando la testa, valutò la distanza con la parete. Fiocchi di polvere erano attaccati all’intonaco bianco e non voleva in nessun modo essere nel loro raggio di azione. Guardando in basso mosse il piede e sì, c’era un tappeto sporco sotto di lui. Doveva bruciare, assolutamente.
 
“È perfetto.” Mormorò Osamu estatico. Poteva letteralmente vedere le stelle nei suoi occhi e non aveva proprio il cuore di dire quello che pensava.
 
Sì, come no.
 
“Da quanto è rimasto chiuso?”
 
“Una trentina d’anni.” Ah, ecco perché l’affitto era basso.
 
“E come sono, che ne so, i tubi? Funzionano?”
 
Osamu gli lanciò un’occhiata derisoria. “Da quando ne capisci qualcosa?”
 
“Ti ho accompagnato ad ogni appuntamento, ho visto tutti i buchi di questa città, ormai so tutto di pareti portanti, possibilità di ampliamento e cazzate varie.” Quanto era vero. Era riuscito a rimorchiare anche l’agente immobiliare, una brunetta dolce come il miele. Fortuna che era finita dopo il contratto di Samu. Era stata una buona nottata, ma le zuccherose non facevano proprio per lui. E poi, a quanto aveva capito, aveva un ragazzo. O ex. O qualcosa di simile, sinceramente di lei ricordava solo quella quarta assassina che non lo faceva pensare chiaramente.
 
“Allora perché lo chiedi?”
 
“Ero occupato con Yumiko-chan, non stavo ascoltando.”
 
“Porco.” Lo informò tranquillamente. Atsumu fece spallucce. “Hanno fatto manutenzione costante, potevano permetterselo. Ha valore sentimentale. Lo hanno tenuto come fosse di cristallo.”
 
“Sei serio?” Domandò poggiando un dito su una vetrata serigrafata. La scia di vetro pulito che seguì l’azione lo informò che si trattava di una normale vetrina trasparente e che la polvere era riuscita ad impossessarsi di qualsiasi cosa. Cominciò a cercare urgentemente un rubinetto con una smorfia schifata. “Dov’è l’acqua?”
 
“È perfetto, non rompere.”
 
“Ci stiamo rotolando nello sporco.” Si avvicinò ad un qualcosa coperto inutilmente da un lenzuolo che una volta doveva essere stato bianco e scoprì che si trattava di un bancone. “Samu, dimmi dov’è l’acqua.” Lo pregò, pulendo il dito su un angolo di tessuto leggermente più chiaro.
 
“Ho preso le chiavi ieri, devono venire ad informarmi dei particolari in giornata, non so dov’è la valvola.” Suo fratello tolse lo straccio con lo stesso ampio movimento che aveva visto fare ad un mago. Nuvole di polvere si alzarono impetuose finendogli addosso.
 
“Che cazzo fai!” Urlò Atsumu. Fu un errore. Sentì granelli di roba innominabile ficcarsi in gola e cominciò a tossire come un matto.
 
“Guarda che bel legno!”
 
“Passa l’acqua!” Riuscì a gracchiare. Sentiva i polmoni pieni di polvere e voleva morire.
 
“Oh mio Dio, è massello!”
 
Capendo che suo fratello era entrato nel magico mondo dell’inutile, si buttò sul borsone che si era portato dietro per poter raggiungere direttamente la palestra e si attaccò alla bottiglietta come se ne andasse della sua vita. Quando fu sicuro di non rischiare più di morire, si risintonizzò su Osamu. “Non c’è un bagno in questo posto?”
 
“Certo che sì, sta là dietro insieme a magazzino e ufficio.” Lo informò indicandogli una porta. “Allora? Che ne pensi veramente?”
 
Atsumu cominciò a guardarsi attorno con aria più seria. Era una stanza grandicella, un bancone centrale circondava la zona di lavoro con le vetrine espositive fissate sul piano più alto, governando il posto. Era bello, maestoso, attirava immediatamente l’attenzione. Quella che doveva essere la cucina era ben in vista, limpida agli occhi dei clienti. I lampadari caratteristici scendevano dal soffitto con grazia. Anche così spoglia dava comunque il calore tipico di un ristorante della tradizione. Era esattamente quello che cercava Osamu.
 
Senza alcun preavviso sentì gli occhi pizzicare. Cazzo, era fiero di suo fratello.
 
“È da pulire.” Disse soltanto, perché sarebbe morto prima di dire qualcosa di piacevole.
 
Osamu si limitò a guardarlo con le palpebre pesanti su quegli occhi giudicanti che sapevano leggerlo come un’insegna al neon particolarmente eccentrica. Sospirando, prese la scopa che si era portato dietro e cominciò a spazzare per terra. “Domani viene una ditta di pulizie, avrò bisogno di passare la giornata al telefono per sollecitare l’attacco della luce. Mi stanno dando un sacco di problemi, ma ora finalmente c’è il cazzo di numero di contratto, il pod e tutti i dannati dati catastali che cercano. La pratica per l’allaccio del gas è già avviata ma adesso mi interessa ben poco, ho appuntamento con loro alla fine della settimana.”
 
“Sembra che sai quello che dici.” Lo prese in giro. “Quante di queste parole sono inventate?”
 
“Almeno la metà.” Rispose con un sorriso storto. “Voglio iniziare il prima possibile, stanno volando via troppi soldi.” Capendo che la scopa stava facendo ben poco per quello strato di polvere, si arrese poggiandola sulla parete  e si sedette su uno sgabello. “Cazzo Tsumu, ho un locale.” Sussurrò con sguardo sognante.
 
“Hai una baracca.” Ghignò Atsumu.
 
“Ricordati di queste parole quando verrai a mendicare del cibo.” Lo avvertì. Aveva ancora il sorriso in bocca e gli occhi si poggiavano su qualunque cosa velocemente, come le ali di un colibrì. C’era troppo da ammirare, non riusciva a farlo tutto in una volta. “Appena ho la luce devo mettermi d’accordo per la linea telefonica e internet. Devo trovare il posto giusto per mettere il modem, non voglio che si veda.”
 
“C’è un sito?” Atsumu lo vide scuotere la testa. “Perché?”
 
“Non so creare un sito da zero e non conosco nessuno che possa farmelo gratis. Aspetto fino a che il tutto non è avviato bene, intanto punto sugli ordini telefonici.”
 
“E come farai? Non puoi stare qua e in giro contemporaneamente.”
 
“Certo che sei un rompiballe.” Lo informò alzandosi in piedi e sistemando lo sgabello. “È un problema per il futuro, ci metterò un po’ prima di cominciare anche con l’asporto. Senza un sito dovrò farmi conoscere con altre vie e sto pensando a volantini e sconti, tessere fedeltà, cose così. Ma non ora: ho bisogno di aiuto nell’immediato e ho disponibilità solo per un dipendente e nient’altro, per il resto mi arrangerò.”
 
“Ci hai pensato parecchio.”
 
“Ho stilato un business plan decisamente dettagliato. Ho studiato le mie finanze, gli aiuti di mamma e papà, i tuoi prestiti senza rimborso …”
 
“Sogna.” Ma sapevano entrambi che era solo grazie al suo intervento se Osamu era riuscito a prendere in affitto il locale, convincendo il proprietario con una lauta cauzione e un anticipo di tre mesi. Non era riuscito ad ottenere alcun prestito, la sua start-up non aveva convinto: era considerato un azzardo troppo grosso investire in quel tipo di ristorazione quando la concorrenza era così agguerrita, senza considerare l’ovvia esperienza dei suoi cosiddetti rivali.
 
Atsumu non rivoleva indietro nulla, suo fratello lo avrebbe mantenuto a suon di onigiri.
 
“… da qualche parte devo iniziare. Ho parlato anche con Kita-san, sembra che abbiamo raggiunto un accordo per il prezzo iniziale.”
 
“Come hai fatto a fregare Kita-san?” Gli domandò, il dubbio nella voce. “Devo parlare con lui.”
 
“A differenza tua, lui crede in me.” Gli disse Osamu con tono scocciato. “Stai facendo lo stronzo e mi stai stufando.”
 
Atsumu ridacchiò. “Sono solo contento per te. E sono contento per me, perché sto vincendo alla grande.”
 
Osamu sbuffò. “Siamo pari. Sto iniziando un attività, non sono capace e non so come andrà; stai scaldando la panchina dei Jackals, non sei capace e non sai come andrà.”
 
“Non sarai capace tu, testa di cazzo. Sto lavorando con Barnes-san, ora rosica.”
 
“Lavorando significa che ti devi sintonizzare e non puoi fare come facevi a Inarizaki. Ti voglio proprio vedere girarti verso di lui e dirgli con la tua solita aria da cazzone ‘se non riesci a colpire la palla il problema sei tu’.” E, davvero, riusciva a imitarlo alla perfezione. Non lo avrebbe mai ammesso.
 
“Non ho bisogno di dire niente perché sono fan-ta-sti-co!” La risata derisoria di Osamu lo fece infuriare. Quindi si avvicinò e gli spinse la spalla con cattiveria, perché evidentemente aveva cinque anni.
 
Osamu si bloccò, si girò con occhi spalancati e rispose allo spintone mettendoci il doppio della forza, non volendo essere da meno. “Che cazzo fai?” Gli disse anche, come se non fosse ovvio.
 
Per tutta risposta Atsumu lo spinse con entrambe le mani, facendolo indietreggiare di qualche passo. “Sei uno stronzo!”
 
Osamu ritornò alla carica. “Sei tu lo stronzo!” Prese qualcosa da terra e, con una precisione diabolica, lo tirò addosso a suo fratello, prendendolo sul naso.
 
“Cazzo, fa male!” Era una spugna dura, di quelle abrasive. E Osamu era stato un spiker, continuava ad allenarsi nel tempo libero, aveva muscolo. Inoltre era distante tipo un metro e si era impegnato decisamente. “Sei scemo?”
 
“Hai iniziato tu!”
 
Un cellulare cominciò a squillare. Era il tema degli Avengers. Atsumu, una mano sul naso graffiato, prese il cellulare dai pantaloni. “Cazzo, è Meian-san.” E corse fuori per rispondere.
 
Osamu, ora più libero, si guardò lentamente attorno. Non gli sembrava vero.
 
Poteva già vedersi dietro a quel bancone di legno a tagliare il pesce e le verdure e a modellare il riso sul piano di lavoro bianco pulito, in piena vista dei clienti.
 
Chiuse gli occhi. Poteva sentire l’eco del chiacchiericcio della gente che sedeva a quei tavolini che aveva scelto mesi prima, in attesa solo di essere consegnati. Il vapore del riso cotto che gli inebriava i sensi, l’acqua del lavandino che scorreva per pulire migliaia di piatti sporchi lasciati vuoti da clienti soddisfatti, il campanello della porta che avvertiva dell’arrivo di un nuovo flusso di persone, le risate, il calore della contentezza che lo avvolgeva.
 
Aprì lentamente gli occhi, ammirando la sua tela tutta da dipingere.
 
Alzò la testa verso il soffitto e sorrise fiero.
 
 
*
 
 
“Che vuoi ancora?”
 
“Eeeeeh Kiyoomi, dovresti trattarmi meglio. Veramente, voglio solo il tuo bene.”
 
Lo scherno di Sakusa risuonò chiaramente nell’etere. “Non mi fido di te.”
 
“Senti, è successo solo una volta. Non pensavo ti sedessi proprio in quel momento o non avrei tolto la sedia. Giuro!” Motoya chiaramente non sapeva il significato del verbo ‘giurare’. Lo aveva ripreso con il cellulare e non ci si organizzava per fare video se non c’era premeditazione. Era stato veloce a scappare.
 
“Vigliacco.” Lo insultò quindi con sentimento.
 
“E poi avevamo tredici anni, è ora di smetterla di rinfacciarmelo, no?”
 
“Hai continuato a riprovarci per anni, non mi fido di te.” Sakusa si sistemò un riccio selvaggio dietro l’orecchio, poi riaccostò al cellulare. “Cosa vuoi?”
 
“I miei sensi di ragno mi dicono che stai pensando di fare qualcosa di malvagio.” E quello era davvero l’eufemismo del secolo. Era intenzionato a fare qualcosa di malvagio, non sapeva ancora a chi. Aveva bisogno di qualcuno di fisico con cui prendersela. Insultare le sopracciglia a bruco di Motoya al telefono aveva perso il suo fascino da parecchio tempo.
 
“Come diavolo fai a sapere sempre quando voglio uccidere qualcuno?” Chiese comunque, una scintilla di interesse.
 
“Ho messo un microchip dentro quel Tranello del Diavolo che chiami capelli anni fa. Mi dice quando sei vicino a diventare un supercattivo e intervengo.”
 
A volte Sakusa non capiva perché ancora parlava con suo cugino. Moriko-kun poteva essere molto più utile con meno sarcasmo, non erano molto vicini ma lo avrebbe difeso a spada tratta da quel gremlin di suo fratello. Maki-chan lo adorava e lui stravedeva per lei, sarebbe stata una scelta più logica e la sua pura bontà lo avrebbe rimesso al mondo con un solo sorriso. Invece no, aveva scelto Motoya. Come un idiota.
 
“Oggi sparlerò di te con Maki-chan.” Lo informò secco. Era niente se non onesto.
 
“Chibi-Maki ha un ragazzo, penso tu debba evitarla per un po’ di tempo.”
 
Quell’informazione lo destabilizzò. “Non lo accetto.” Borbottò contrariato.
 
“Oh, siamo in due, fidati. Appena torno a casa acchiappo lo stronzetto e lo appendo al muro per lo scroto.”
 
“Aveva detto che avrebbe sposato me.”
 
“Quando aveva cinque anni. Doveva sposare pure il tizio dei gelati, che francamente era una cosa inquietante, ma sai com’è, la pubertà ha colpito e tu sei suo cugino.”
 
“È piccola.”
 
“Ha quindici anni. È piccola, ma è quella l’età.”
 
“I maschi sono porci. A tutte le età”
 
“Quando avevo quindici anni non riuscivo a togliere le mani dalle mutande, ogni momento era buono.”
 
Sakusa fece una smorfia. “Dividevamo la camera a volte.” Sperava davvero, davvero che non aveva fatto quello che pensava durante i loro pigiama party obbligati.
 
“Sì, era un po’ complicato, hai l’udito dei pipistrelli, sai com’è. Ma cazzo se era soddisfacente.”
 
“No, Motoya.” La sua voce era sofferente. Sentiva un mal di testa da record minacciare si scoppiargli dietro le orbite. “Solo … no. Che schifo.”
 
“Era per avvalorare la tua tesi.” Ridacchiò Motoya. “Senti, dobbiamo organizzarci. Ho visto che hai fatto delle spalle da paura, quando torno vieni con me e spaventiamo il segaiolo.”
 
Una risata leggera scoppiò dalla parte di suo cugino. Ci fu un mormorio. “Suna ha già cominciato con sua sorella.”
 
Sentì un “portati dietro i gemelli” del centrale dei Raijin che da solo era un insulto. Era dalla parte buona del metro e novanta, bastava e avanzava per qualche teppistello col pensiero fisso. Comunque, ancora doveva capire l’utilità di questa chiamata improvvisa.
 
“Mi spieghi perché hai chiamato?” Chiese quindi sospirando.
 
“Vedo che non è giornata. Andata male pure stavolta?”
 
C’era da dire che la signora del konbini era stata anche dispiaciuta di mandarlo via. Gli aveva fatto i complimenti per il curriculum, gli aveva offerto una caramella fortunatamente confezionata singolarmente ma gli aveva detto chiaramente che le sue disponibilità non erano convenienti per lei.
 
Sakusa sentì un fiotto di stima per quella donnina energica che gli arrivava a malapena al petto. Finalmente qualcuno che diceva le cose come stavano.
 
Il risultato però non cambiava: lui rimaneva senza lavoro.
 
“Fare il gigolò paga bene?” Domandò oziosamente. Perché davvero, era l’unica cosa che gli era rimasta da pensare.
 
“Kiyoomi, cucciolo, venderesti anche bene ma non fa per te.” Oooh, avrebbe ucciso Motoya. Sentì Suna ridere più forte, ancora vicino a suo cugino.
 
“Non devo fare per forza sesso con i clienti.”
 
“Devi solo far finta di essere qualcosa di più di un estraneo. Che ci vuole? Sei così estroverso e tattile.”
 
“Arriverà il giorno in cui sarò abbastanza vicino da farti seriamente del male.”
 
“Finirai in galera.”
 
“Ne vale totalmente la pena.” Almeno avrebbe avuto un tetto sopra la testa, pasti gratis. Poteva laurearsi, poteva trovare un lavoro se si comportava bene. Batté gli occhi, stupito. Perché non ci aveva pensato prima?
 
Ah, la pallavolo.
 
Sakusa sospirò mesto. Le cose che faceva per la pallavolo.
 
“Senti, qua c’è Suna che vuole parlarti. Ti comporterai bene?”
 
Che cazzo di domande erano? “Non ho tre anni.”
 
“Ce l’avevo con lui.” E sentì un brusio confuso, un serie di tonfi, un “cazzo” nemmeno troppo soffocato e di nuovo brusio.
 
“Yo.” La voce apatica di Suna Rintarou uscì tranquillamente dal telefono dopo un lunghissimo minuto.
 
“Tutto ok?”
 
“Il cellulare è rotolato un paio di volte, ma va bene. Ha visto di peggio.” Sì, la proverbiale attenzione di Motoya per i cellulari. Non si sapeva come ma riusciva a spaccare tutti i suoi telefonini con una velocità allarmante. Il fatto che li lanciasse a caso e pretendesse di aver calcolato bene le distanze forse poteva spiegare quest’anomalia.
 
“Senti, ho saputo che cerchi lavoro.”
 
L’irritazione cominciò a colpire Sakusa. Aveva saputo. Stava vicino Motoya il 90% delle volte che lo sentiva, interveniva nelle conversazioni, poteva evitare di girarci attorno e dirgli esattamente cosa voleva da lui.
 
“Quindi?”
 
“Quindi cosa, cerchi lavoro o no?” Sentiva i nervi cominciare a scattare come molle. Non aveva mai capito Hulk come in quel momento. E aveva vissuto con Motoya contro la sua volontà, sapeva cosa diceva.
 
“Suna-san, non vorrei risponderti male, ma qual è il punto?” Bella frase, gentile, pacata. Non aveva sibilato, non aveva insultato nessuno, la sua voce era normale. Era fiero di sé stesso.
 
“Oh oh oh, ti sei alzato dal lato sbagliato del letto?”
 
Ok, doveva lavorarci su. Forse doveva usare un altro tono, un po’ più piacevole. Ma aveva avuto l’ennesima giornata di inferno, era nervoso e mancava veramente poco affinché buttasse la sua proverbiale calma dalla finestra e uscisse fuori dalla sua stanza per fare una strage.
 
“Cerco lavoro.” Ammise. E se gli uscì un ringhio con quelle parole non era da biasimare, davvero.
 
“Beh, il caso vuole che io sappia perfettamente dove puoi andare.” Sakusa fece una smorfia. Suna dovette avvertirla perché ridacchiò piacevolmente.
 
Ci fu un lungo momento di silenzio statico. “Ci sei?” Chiese Suna, il divertimento della voce.
 
Sakusa aprì leggermente la bocca, poi la richiuse. Aveva paura a chiedere.
 
“Non vuoi sapere dove?”
 
Si fece coraggio, chiuse gli occhi e preparò la voce più stanca del suo repertorio.
 
Pregando che non rispondesse qualcosa di osceno, perché in quel caso avrebbe preso il treno per Tokyo e i Raijin si sarebbero trovati con due panchinari in meno e lui con un numero osceno di ergastoli alle spalle, domandò un “Dove?” che aveva il sapore e il suono della sconfitta.
 
“Sakusa-kun, un po’ più di vita.” E lo disse con voce così profondamente apatica che lo spinse a prendere il telefono e a terminare la chiamata. Al diavolo lui e suo cugino, avrebbe fatto da solo.
 
 
*
 
 
Numero sconosciuto
 
ti inoltro l’indirizzo non serve appuntamento
 
 
Numero sconosciuto
 
mi devi un favore
 
 
 *
 
 
Sakusa lottò con tutto sé stesso per non cedere al richiamo della sirena.
 
Nominò il numero sconosciuto come SUNA-PERICOLO e continuò per la sua strada. Non avrebbe dato un’occhiata a quell’indirizzo, non gli interessava alcuna proposta, avrebbe contato solo sulle proprie forze, su internet, sui giornali e sugli annunci in bacheca. Era decisamente terrificante la prospettiva dover essere in debito con qualcuno del calibro di Suna Rintarou e lui non si sarebbe abbassato a compiere quell’errore. Assolutamente. Mai.
 
Durò esattamente tre ore, ventisette minuti e cinquantaquattro secondi.
 
Era andato alla caffetteria dell’università per consolarsi con uno degli snack prescritti e certificati come illegali dal nutrizionista della squadra (illuso) prima dell’allenamento, qualcosa di non troppo pesante che avrebbe potuto andargli su e giù per l’esofago durante una corsa assassina (perché col cavolo che lo avrebbe vomitato), ma nemmeno così triste da avere la sensazione e la certezza di assaporare l’aria. Aveva voglia di cioccolato con il sale marino, ma non poteva permetterselo e la cosa non gli andava assolutamente a genio.
 
Si rese conto presto che si trattava di paturnie inutili: nel momento di controllare la propria disponibilità monetaria scoprì che era praticamente evaporata.
 
Rimase per un po’ di tempo fermo come un soprammobile, il portafoglio aperto e gli occhi persi nei meandri della tasca vuota. Il fatto che si fosse immobilizzato esattamente davanti il reparto frigo, senza la benché minima intenzione di volerci stare viste le spalle girate, portò ondate di gente a spazientirsi con quel palo della luce lì piantato, cercando di convincerlo a sloggiare con secchi colpi di tosse, brontolii e insulti a voce neanche troppo velata.
 
Quindi, dopo un allenamento estenuante e una doccia bollente in cui aveva tentato di annegarsi più volte, si ritrovo davanti al desktop del suo portatile.
 
Il canto delle sirene era quasi impossibile da raggirare, si giustificò cliccando con il mouse.
 
Ulisse aveva dato ai suoi compagni cera da mettere nelle orecchie, ma se Ulisse era un deficiente che aveva convinto un folto gruppo di persone a legarlo per non cedere alle tentazioni perché era curioso, lui era da solo. Non legato. E non curioso, decisamente. Non gli fregava niente di Suna e dei suoi contatti francamente terrificanti, voleva solo avere la libertà personale di disponibilità liquida senza intaccare il suo conto bancario.
 
Cedette. Inserì l’indirizzo nella barra di ricerca del browser e cercò la strada segnata dal centrale dei Raijin.
 
Era a Osaka, osservò aggrottando le sopracciglia. Circa un quarto d’ora di treno e qualche minuto di cammino.
 
Curioso, aprì google maps per capire di cosa si trattasse effettivamente. Gli venne riportata l’immagine di un locale decisamente sprangato, posto al piano terra di una palazzina di tre piani.
 
Avvicinò l’inquadratura e sì, non era in attività. A che gioco stava giocando Suna? Controllando la data della foto, scoprì che risaliva a tre anni prima.
 
Decise velocemente che non aveva niente da perdere (tranne l’anima, ma l’aveva già salutata da un pezzo. Suna avrebbe dovuto litigarsela con Motoya), era una possibilità come un’altra. Magari andava bene.
 
Controllò l’orario dei treni e ne fece una foto per ogni evenienza. Aveva gli allenamenti di mattina presto, una lezione di un’ora verso le dieci, ma poi era libero fino alle quattro di pomeriggio.
 
Ridusse a icona la pagina web e aprì il pdf della lettura in programma per la materia del giorno dopo. Non si sarebbe dato per vinto in nessun modo.
 
 
*
 
 
 Sakusa affondò il mento dentro la sciarpa pesante che gli avvolgeva il collo, le mani inguantate infilate nelle profonde tasche del cappotto, gli occhi che guardavano fissi davanti a lui.
 
Era una giornata particolarmente fredda, sentiva le gote e le orecchie congelate ma aveva deciso di non mettere il cappello. Voleva fare bella figura, almeno sperare di instillare un minimo di interesse e indossare un copricapo qualsiasi lo avrebbe fatto sembrare sciatto. Aveva anche scelto di non indossare la mascherina o, meglio, di toglierla appena arrivato a destinazione, perché non avrebbe affrontato il viaggio in treno con niente di meno del suo kit di protezione personale.
 
Il locale sembrava in allestimento. Aveva visto alcune persone entrare e uscire con buste, ma non aveva ancora capito di cosa si trattasse. Aveva uno stile tradizionale, legno scuro e luce morbida, ma dove avrebbe dovuto esserci l’insegna era presente solo una copertura di tela cerata bianca.
 
Inspirando fortemente fece qualche passo verso l’entrata. Di sfuggita vide un cartello di un colore rosa evidenziatore con un annuncio di ricerca del personale in pesante inchiostro nero e sperò tanto che fosse la volta buona.
 
Quando aprì la porta, la sua entrata venne annunciata da uno scampanellio odioso.
 
Il locale non era per niente piccolo, ma neanche troppo grande. Il pavimento era di grandi lastroni di un bel giallo aranciato, brillante di pulizia. Poteva avvertire il sentore leggero di un detergente che conosceva, uno di cui aveva avuto riscontri positivi e che non era troppo floreale per il suo naso sensibile.
 
Neanche un secondo dopo, gli arrivò alle narici il profumo familiare del riso cotto, accompagnato da quello stuzzicante della carne succosa e delle verdure grigliate e lo stomaco brontolò leggermente. Quindi era un ristorante.
 
Il tradizionale bancone centrale, insieme ai fumi leggeri del cibo in cottura, oscurava la vista del cuoco. Sentì un “Arrivo subito!” da una voce che gli parve di riconoscere, ma non ci badò. Due donne attendevano sedute sugli sgabelli chiacchierando tra loro, un uomo in un angolo sbucciava degli edamame con sguardo concentrato sul televisore fissato in alto, il baffo impregnato della schiuma della birra.
 
Sakusa fece alcuni passi all’interno, togliendo le mani dalle tasche e sfilandosi i guanti. La mascherina era ben protetta dentro il taschino sul suo petto. Stranamente, non avvertiva il bisogno di prendere il gel disinfettante. Cominciò a svolgere la sciarpa dalla faccia avvicinandosi lentamente al bancone quando il cuoco si alzò per passare delle buste piene di cibo da portar via alle signore con un sorriso sincero sul volto e parole di ringraziamento nella parlata morbida tipica del Kansai. Scambiò convenevoli con le clienti e poi si girò verso di lui.
 
Vide immediatamente il lampo di riconoscimento in quegli occhi marroni dopo un attimo di presa a fuoco.
 
Si chiese quanto fosse rancoroso Miya Osamu, perché quello era chiaramente lo spiker, o meglio ex, si vedeva lontano un miglio, capelli che aveva deciso di far tornare del colore originario a parte. Si chiese se ce l’avesse con lui per l’ultima partita di Interhigh. Si chiese se avesse conservato i tratti peggiori dell’animo maligno del suo gemello.
 
Si chiese anche se non fosse una vendetta particolarmente complicata di Suna Rintarou, e se la complicità di Motoya non fosse l’ennesima presa in giro da parte di suo cugino. Ormai non si stupiva più di niente.
 
Miya, quindi, lo riconobbe. E sorrise. “Sakusa! Ciao!”
 
Sakusa era leggermente destabilizzato. “Salve.” Mormorò, inchinandosi leggermente.
 
“Che ci fai qua? Ah, già, fai l’università qua a Osaka, Tsumu me l’aveva detto che ti aveva visto al Kurowashiki.” Si girò leggermente verso i fornelli. “Aspetta un attimo, torno subito. Mettiti seduto.”
 
Davvero non voleva. Si sentiva un po’ a disagio, ma decise di seguire il consiglio e si sedette, dritto come non era mai stato e teso come una corda di violino, sullo sgabello. Non sapeva proprio che fare.
 
“Non mi aspettavo di vederti qui, giuro.” Disse Miya muovendosi rapido tra la vaporiera e la griglia, girando le verdure spesse con una pinza e tagliando il cavolo in quelli che poteva solo pensare fossero coriandoli con una velocità mostruosa. “Non hai gli allenamenti?”
 
“Stamattina.” Sakusa lo guardava affettare ipnotizzato. “E oggi pomeriggio.” Osamu Miya aveva una scintilla negli occhi che non gli aveva mai visto se non quando lui e il suo degno gemello improvvisavano veloci diaboliche durante una partita combattuta. La differenza, però, era palese.
 
Impiattò con maestria, degli onigiri caldi che non aveva notato in una stoviglia a parte, e portò il tutto al tavolino del signore che guardava la televisione. Chiacchierò leggermente, una risata sincera e ritornò in cucina.
 
Prese del riso, delle strisce di alga, quello che pensava fosse polpo e si mise davanti a lui.
 
“E allora? Che mi racconti? Come hai saputo di questo posto?” Chiese, tagliando il nori con scioltezza.
 
Non voleva dirgli di Suna, almeno non adesso. “È tuo?”
 
“Sì.” E strabordava orgoglio da tutti i pori. Era accattivante vedere una passione così profonda, la capiva perfettamente. Era lo stesso per lui con la pallavolo. “Ti piace?” Domandò, dandogli le spalle per mettere a posto della soia e lavandosi le mani nel lavandino.
 
“È bello.” E lo era davvero. “Da quanto ce l’hai?”
 
“Poco più di quattro settimane, ma ho iniziato veramente a fare qualcosa di produttivo una ventina di giorni fa.” Si girò verso di lui, un asciugamano a strofinare le mani. “Cosa ti posso portare? Il menù è qua da qualche parte, aspetta che lo prendo.”
 
Sakusa boccheggiò leggermente. “Non sono venuto qua per il cibo.”
 
Osamu si fermò, battendo le palpebre. “È un ristorante.” Spiegò condiscendente.
 
“Posso vederlo.” E davvero, doveva smetterla di rispondere così. Osamu, però, sembrò divertito. Lo vide appoggiarsi al bancone davanti a lui.
 
“Sicuro di non volere nulla da mangiare?”
 
Lo stomaco brontolava, ma il suo portafoglio nella tasca, fastidiosamente leggero, gli ricordò delle priorità. “Mi hanno consigliato di venire qua per un lavoro.”
 
Osamu piegò la testa leggermente. “Non credo di aver capito.”
 
“Stai cercando personale. Ho bisogno di un lavoro. Mi è stato detto di provare qua.”
 
“Chi te l’ha detto?”
 
Non stava andando bene. “Suna Rintarou.”
 
“E perché Sunarin ti ha detto di venire qua?”
 
“Sto cercando un lavoro.” Ripeté lentamente. Non sembrava difficile. Miya gli era sempre sembrato sveglio, non capiva da dove venivano tutte quelle domande.
 
“Sì, ma perché?”
 
Sakusa lo guardò con la sua solita espressione neutra. Non stavano andando da nessuna parte.
 
Osamu si sentì leggermente imbarazzato. “Senti, non voglio farti il terzo grado …”
 
“Dovresti. È un tuo diritto, fa parte del colloquio.” Rispose Sakusa fermamente. “Ma le domande dovrebbero essere intelligenti.”
 
E con quello, Sakusa poté dire addio al lavoro. Qualcuno doveva pur dirlo ma la sua bocca sputasentenze decise autonomamente per lui. Con sua sorpresa, Miya ridacchiò.
 
“Sì, hai ragione. Ma mi hai destabilizzato. Hai bisogno di un passatempo?”
 
“Ho bisogno di soldi. Non capisco sennò perché avrei dovuto cercare lavoro.”
 
Osamu lo guardò con pena. “I tuoi ti hanno tagliato i fondi? Che hai combinato?”
 
Fondi? Quali fondi?
 
“Cosa?”
 
“Seriamente, deve essere roba grossa. O roba piccola? Non so come funziona il cervello di voi ricchi, devi farmi uno schema.”
 
“Noi ricchi?” Oddio no, non ancora.
 
“Sì, voi ricchi. Non pensavo che avrei mai visto Sakusa Kiyoomi qua nel mio locale, men che meno per chiedere un lavoro, devi aver fatto incazzare i tuoi veramente tanto.”
 
Non era la prima volta che veniva scambiato per uno con i soldi. Gli avevano detto che il suo atteggiamento snob lo faceva sembrare un arricchito della peggior specie. Nessuno voleva capire che non avrebbe toccato anima viva perché era una sua precisa volontà e non perché non avevano un pedigree lungo tre chilometri.
 
Avrebbe voluto far sentire Miya uno schifo, ma non lo fece. Gli serviva il lavoro.
 
Contando sulla buona educazione, cosa che sembrava non insegnassero nel Kansai, cercò di chiarire. “So perfettamente perché potresti pensarlo, ma ti assicuro che è quanto di più lontano dalla verità.” Non voleva entrare nei dettagli. Non l’avrebbe fatto.
 
“Senti,” Disse Osamu con aria sicura. “vieni da Itachiyama. Sappiamo tutti di che razza di scuola si tratta. Per non parlare della Handai.”
 
“Borse di studio.” Sputò velocemente Sakusa, stufo. Era un livello di presunzione che non accettava nemmeno da suo cugino, figurarsi da un tizio che aveva visto sì e no due volte l’anno.
 
Miya aprì leggermente la bocca, stupito. “Cosa? Ma per avere una borsa di studio per quei posti devi essere, tipo, un casino intelligente.” Sembrava non fosse una cosa facilmente assimilabile per lui. “Cioè, devi avere il massimo dei voti, condotta perfetta e … e attività extracurriculari sopra la media, e questo ci sta, cazzo, sei tu e … e … e non so nemmeno cos’altro, seriamente, il sangue blu? Può servire il sangue blu?”
 
“Decisamente no. Cosa ti fa pensare che io non sia intelligente?”
 
“Il fatto che scendi al livello di mio fratello appena te ne dà l’occasione, facendolo costantemente nero e credimi, hai la mia stima per quello.”
 
Sì, beh, essere intelligenti non limitava un sacco di cose. Come il fatto che aveva studiato come un matto per avere quei risultati. Essere intelligenti non era un requisito, lo era farsi il culo sui libri. Tutti erano intelligenti, pochi avrebbero lottato per ottenere quello che volevano.
 
“Quello non c’entra niente.” Rispose, un po’ meno piccato. “Tuo fratello sembra chiedere di essere pestato ogni volta che apre bocca.”
 
“Non hai tutti i torti.” Convenne, guardandolo a lungo. “Come posso crederti?”
 
“Non capisco perché dovrei mentire, ma se la mia parola non basta ti ho portato il mio curriculum.” Prese un foglio piegato dalla tasca, porgendoglielo. Miya lo prese e lo aprì. “È completo di referenze e, se non sei ancora convinto, ci sono i numeri di telefono dei miei precedenti datori di lavoro. Saranno contenti di rispondere ad ogni domanda, visto che non c’è modo di farti capire che non è uno scherzo elaborato.”
 
Osamu si sentiva un po’ male per lui. Forse aveva un po’ esagerato. Un po’ troppo. “Davvero, non ho niente contro di te ma non capisco perché sei venuto qua. Non ci sono altri posti in cui lavorare?”
 
“Ho provato. Ma ho un … problema.”
 
“La cosa dei germi? Tutto il non toccare?”
 
Magari potesse essere così semplice. “La disponibilità.”
 
“Come scusa?”
 
Sakusa sospirò. “Nessuno vuole rischiare assumendo un atleta. Ho una disponibilità varia che non coincide con i soliti orari, i tornei portano via giornate intere e decisamente non convengo.” Cazzo, quello non avrebbe dovuto dirlo.
 
“E sei venuto da me perché?”
 
“Non sapevo nemmeno fosse il tuo locale.” Chiarì velocemente Sakusa. “Suna mi ha dato l’indirizzo, io sono venuto e qua ho scoperto che c’eri tu. Non so nemmeno come si chiama questo posto.”
 
“Onigiri Miya.”
 
Beh, se fosse stato scritto fuori forse avrebbe riflettuto un attimino di più prima di entrare. “Manca l’insegna.”
 
“La devono consegnare la settimana prossima.”
 
“Non avrebbe dovuto esserci prima dell’apertura?”
 
Osamu strinse gli occhi. “Stai criticando i miei metodi di mantenere il mio ristorante?”
 
“Vedo che ti scaldi parecchio quando ti mettono in dubbio.” Sakusa sostenne lo sguardo, la sfida negli occhi. “È piacevole? È quello che hai fatto con me fino ad ora.”
 
Vide Osamu boccheggiare leggermente. Poi si riprese. “Aspetta un attimo, prima chiedi un lavoro e poi mi insulti?”
 
“Non ho insultato nessuno. A differenza tua.”
 
“Cosa ti avrei detto?”
 
“Che sono un bugiardo, che sono stupido, che visto che secondo te sono ricco ho bisogno di un lavoro per passare il tempo …”
 
“Ok ok ok, ho esagerato.” Lo bloccò, le guance rosa di imbarazzo. “Mi spiace, seriamente. Cazzo, a risentirti sono stato proprio stronzo.”
 
“Che poi, avessi voluto un passatempo non sarei certo venuto qui.” Spiegò Sakusa tranquillamente.
 
“Effettivamente.” Concordò Osamu. Buttò un’occhiata sul foglio nelle sue mani. “Hai fatto un sacco di cose.” Constatò curioso. “Commesso, cassiere, cameriere in un café, addirittura contabile?” Lo guardò con un sopracciglio alzato.
 
“Mio zio mi ha insegnato la contabilità gli ultimi quattro mesi del mio terzo anno, prima di trasferirmi. Tenevo traccia delle spese e delle scorte del magazzino del suo negozio, me la sono cavata bene. C’è scritta la data.”
 
“C’è scritto anche che sai usare il computer.”
 
“Il pacchetto Office, precisamente. Excel e Access sono particolarmente utili per organizzare i dati di un’attività, per fare confronti o qualunque cosa ti possa venire in mente. Ho usato quelli per mio zio.”
 
“E se chiamassi tutte queste persone che direbbero?”
 
Sakusa fece spallucce. “Non ne ho idea, che ho lavorato bene penso. Nessuno si è mai lamentato.”
 
“Ma hai cambiato parecchio.”
 
“Me ne sono andato io.” Sperò che non continuasse su quel filone. Aveva lasciato quei lavori ogni volta che i suoi genitori riuscivano a ottenere un’ora in più a casa, aveva cercato qualcosa che non precludesse passare il tempo con loro, ecco perché alla fine aveva chiesto aiuto a suo zio.
 
Osamu lo valutò con occhio pigro ma sembrò accettare tranquillamente quella risposta. “Qua sopra c’è anche il tuo numero?”
 
“E la mia mail. La preferisco.”
 
“Sì, otterrai quello che voglio io.” E quel ghigno era proprio marca Miya. “Senti, spiegami del problema. Che disponibilità hai?”
 
A quello, Sakusa non sapeva proprio come rispondere. Per fortuna Osamu lo anticipò. “So che significa essere un atleta del tuo livello, ci sono stato e c’è Tsumu che piange costantemente al telefono.” Ne dubitava, a meno che le lacrime versate dal Miya cafone non fossero la rappresentazione fisica delle anime dei bambini cattivi. “Quindi, parlami delle giornate. C’è una fascia oraria in cui è sicuro che sei libero?”
 
“La sera, tutti i giorni. E posso alternare mattina e pranzo. Per le lezioni.”
 
“Oh!” Osamu batté le palpebre. “Da come parlavi pensavo peggio. Penso che il problema più grande siano partite, tornei e cose così, no?”
 
Sakusa annuì. “Il preavviso minimo fino ad ora è stato di una settimana.”
 
“E se ti assumessi adesso” Cominciò Miya incrociando le braccia. “come ti comporteresti? Tra pochi giorni ci sono le vacanze estive e a maggio c’è il Kurowashiki.”
 
“Non torno a casa per le vacanze.” Si fotta Motoya e il suo piagnisteo inutile, non lo avrebbe trascinato in un parco acquatico schifoso come tentava di fare ogni anno. “Il Kurowashiki si fa a poca strada da qui, posso correre ogni volta che ho finito con le partite.”
 
“Non devi stare con la tua squadra? Non devi riposare?”
 
“Non dobbiamo allenarci, posso fare i briefing e poi venire a lavorare. Siamo una squadra universitaria, difficilmente riusciremo ad arrivare alla fine.” Alzò le spalle. “Il riposo non è un problema, sono bravo a prendermi cura di me stesso.”
 
“Non hai fiducia nelle vostre capacità?” Gli chiese Osamu aggrottando le sopracciglia. “So che siete bravi.”
 
“Abbiamo vinto il torneo collegiale.” Spiegò Sakusa con calma. “Ma non lo facciamo di lavoro. Battere i Raijin, i Falcons, gli Hornets è impensabile. Per non parlare dei Jackals e degli Adlers. E sono solo quelli della V1.”
 
“Non ti avrei mai preso per uno che getta la spugna.”
 
“Il nostro libero titolare ha saltato una partita perché aveva litigato con la sua ragazza.” Qua, Osamu scoppiò a ridere. “Dico solo le cose come stanno. Alla mia squadra piace vincere, ma è solo quello che li spinge. Non bastano due atleti che ci mettono l’anima se il team non è sulla stessa lunghezza d’onda.” Scosse la testa, un po’ risentito. “Non sentono la pallavolo come dovrebbero.”
 
Osamu ebbe la fugace sensazione di avere a che fare con uno della stessa pasta di Atsumu. Quante volte aveva sentito quelle parole dalla bocca di suo fratello? Non conosceva Sakusa, si erano visti solo attraverso una rete, ma ricordava perfettamente l’aria appassionata con cui effettuava le sue giocate, la libertà di azione e movimento che perdeva completamente una volta al di fuori del campo. Era un amore viscerale che poche persone avrebbero potuto capire.
 
Sospirò leggermente. “Va bene, guarda. Ti faccio sapere. Prometto.” Lo rassicurò. “Ora però ti mangi qualcosa perché sono le due e sento il tuo stomaco brontolare da qui. Dammi le istruzioni su come vuoi che prepari i tuoi onigiri, devo usare dei guanti?”
 
 
*
 
 
 “Sakusa? Seriamente?”
 
“Senti, sono tre mesi che cerca un lavoro. Mi ha fatto un po’ pena. E sai quanto ci vuole.”
 
Effettivamente Suna Rintarou era famoso per essere l’unico di Inarizaki a non aver pianto per la morte della madre di Bambi. O di Mufasa. O per Ellie di Up.
 
Stranamente non voleva sentir parlare di Koda fratello orso. Voci misteriose (Jun-chan) raccontavano che era scoppiato a piangere rantolando tra i singhiozzi cose come “Era la mamma, cazzo, era la mamma!” e era stato sentito giurare di non ascoltare più neanche una canzone del film per il resto della sua vita. Suna negava con energia, ma la veemenza con cui tirava fuori materiale di ricatto appena si sfiorava l’argomento convinse tutti che un fondo di verità ci doveva essere per forza.
 
“E poi Komori mi ha fatto leggere il suo curriculum.”
 
“L’ho visto. È impressionante.” Acconsentì Osamu.
 
“Finiti gli allenamenti del weekend non avevo neanche la forza per prendere in giro Atsumu e lui riusciva a fare tutta quella roba. È un mostro.”
 
“Tsumu era convinto fosse un robot.”
 
“Un robot non gli avrebbe mostrato il dito medio mentre si preparava alla battuta all’ultimo Interhigh.” Disse Suna. Un secondo di silenzio e cominciarono tutti e due a ridere come matti. “Te la ricordi la faccia di tuo fratello?”
 
“È stato fantastico.” Convenne, asciugandosi una lacrima dall’occhio. “Avrei potuto innamorarmi di Sakusa in quel momento se solo non avessi rischiato di morire malissimo.”
 
“Per il fatto che era di Itachiyama? O per il suo essere piacevole come Kita-san incazzato nero?”
 
“Per il fatto che Atsumu si lamenta ancora adesso così tanto di Sakusa che non capisco come fa a non rendersi conto che vuole solo saltargli addosso e avere la sua strada con lui. Tra le altre cose.”
 
“Ci arriverà.” Mormorò Suna pensoso. “E quando lo farà sarà insopportabile.”
 
“Decisamente.” Osamu sistemò l’ultimo sgabello sul bancone, sistemandosi il cellulare tra orecchio e spalla. “Komori ha qualcosa di cui avvertirmi?”
 
“Che vuoi dire? Vuoi dargli una possibilità?”
 
“Perché non dovrei? Mi sarà decisamente utile, non farà orario pieno e sa un sacco di cose. Ho sentito i suoi ex datori di lavoro e dal punto di vista lavorativo era impeccabile. L’atteggiamento era un po’ freddo ma si dava decisamente da fare.”
 
“Solo un po’ freddo? Che faceva di strano?”
 
“Lavorava con guanti e mascherina.” Spiegò Osamu. “Non capisco perché considerarlo un problema, se si trova a suo agio così ben venga. È certamente igienico, non mi lamento.”
 
“Ma guardati.” Chiocciò Suna. “Tutto imprenditoriale.”
 
“Finiscila.”
 
“Perché? Mi piace imprenditoriale.” La voce di Suna si abbassò di qualche tono. “Ce l’hai una scrivania?”
 
“Rin, no. Non cominciare, sto chiudendo ora e diventare duro in mezzo alla strada non è eccitante come pensi.”
 
“Bugiardo.”
 
Sì, decisamente, ma non avrebbe ceduto. “Come vanno gli allenamenti?”
 
“Bel modo di sviare il discorso.” Lo giudicò Suna. “Gli allenamenti.”
 
“Volevi sapere di Tsumu che rimorchia la mia agente immobiliare?”
 
“Che schifo, certa gente non ha standard.” Mugugnò facendolo ridere. “Abbassarsi ad Atsumu.”
 
“Non lo ammetterei mai davanti a lui ma siamo uguali, Rin.”
 
“Decisamente no. Posso fare un libro sulle vostre differenze. Tu sei molto meglio.”
 
La totalità delle persone non sapevano distinguerli. Suna e stranamente Komori erano l’eccezione.
 
“Devo chiamare Sakusa.”
 
“Non ha una mail?”
 
“Certo, e lo preferirebbe. Ma la vita è piena di delusioni.”
 
“Che stronzo.”
 
 
*
 
 
“Pronto?”
 
“Sakusa, sono Osamu. Salva il numero come ‘Capo migliore del mondo’.”
 
“Non lo farò. Deduco che mi hai assunto.”
 
“Mandami un messaggio con i tuoi orari, domani sera ti voglio al lavoro. Prima di chiudere ci mettiamo d’accordo con le specifiche e il tuo stipendio, non preoccuparti.”
 
“Verso che ora?”
 
“Le sette. E mettiti a tuo agio, mettiti mascherina, guanti, quello che ti pare.”
 
“Davvero?”
 
“Hey, sei una delle persone più pulite che conosco, devi stare a posto con te stesso. Mi fido. Ci vediamo domani.”
 
 


Note

Salve a tutti!
Se siete arrivati fino a qua avete un coraggio e una resistenza per cui pagherei soldoni, quindi innanzitutto complimenti!
Scherzi a parte, spero vi sia piaciuto il primo capitolo. Mi ha sempre incuriosita quell’arco di tempo tra la fine delle superiori e la partita del secolo.
E poi, ragazzi, Sakusa ricco è l’headcanon un po’ di tutti, compreso il mio: disinfettanti, alcool e quant’altro costano un casino! Ho voluto pensare a come si sarebbe comportato se avesse avuto una famiglia normale, con entrate normali e, sfortunatamente, spese normali. Perché la scuola e l’università costa, crescere e mantenere tre figli costa. E fare l’università da fuori sede, soprattutto se lavoratore, è drenante.

Anche se, angolino delle curiosità, l’università giapponese è famosa per il fatto che è difficile entrare ma è facile uscire. Il vero ostacolo sono i test di ingresso, sono più difficoltosi maggiore è il prestigio dell’università, e tutto perché una volta laureati se ne sbattono tutti dei voti e ci si basa sull’università di provenienza.
Puntano al fatto che, se sei così testardo, tenace e tosto  da riuscire a entrare in università del genere, allora lo stesso atteggiamento avrai nel lavoro. E piovono offerte.
Gli esami sono molto blandi, alcuni si passano solo per la presenza alle lezioni, molti richiedono una tesina finale.
Quindi Sakusa non avrà mai troppi problemi legati all’università. Bastardo fortunato.

E poi sono un casino curiosa di sapere di Osamu e come ha tirato su Onigiri Miya. Ho conoscenza minima di queste cose, vado avanti per sentito dire, se ne sapete di più, se ho sbagliato qualcosa, datemi una strigliata! Provvederò a modificare!

Per alcune cose ho usato le mie esperienze (tipo con gas e luce. Non so assolutamente come funziona in Giappone, anche qua se c’è qualcuno di più informato è ben accetto!)

Canonicamente Komori ha due sorelle: una più grande e una più piccola.
Canonicamente Suna ha una sorella più piccola.
Non si capisce che cacchio di parentela abbia Sakusa: nel manga c’è scritto che ha fratelli più grandi, Furudate ha detto che è figlio unico. Prendo per buono il manga.

Ora, ho detto tutto. Mi sembra.
Grazie per aver letto!

 

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Capitolo 2
*** Anno 1 ***


Anno 1
 
 
“Non sto dicendo che non dovevi assumerlo, solo spiegami perché lui?”
 
Osamu non aveva mai pensato che la gestione del suo locale potesse diventare una questione che avrebbe coinvolto più persone di quanto fosse necessario.  E per necessario intendeva circoscritto a lui solo.
 
Marzo era iniziato da qualche giorno e nelle ultime due settimane e mezzo si era ritrovato ad avere come dipendente Sakusa Kiyoomi e come parassita fisso suo fratello. Uno lo aveva voluto lui, l’altro si presentava ogni giorno ed infastidiva tutti finché la bocca non veniva tappata con un onigiri al tonno grande quanto la sua testa, esattamente come avrebbe fatto per un gatto randagio particolarmente insistente. La differenza era che Atsumu se ne sarebbe andato solo quando si avvicinava l’ora dei suoi allenamenti e si sarebbe ripresentato puntuale la sera, all’inizio o quasi dell’orario di lavoro di Sakusa. Il gatto invece lo avrebbe rivisto il giorno dopo, se tutto andava bene.
 
Per Sakusa, invece, erano iniziate le vacanze che lo avrebbero portato al suo secondo anno di università ed era leggermente più libero rispetto a quanto concordato inizialmente. La pratica di pallavolo era un po’ più concentrata con il Kurowashiki alle porte, avendo preso il posto delle ore di lezioni, ma sempre più spesso riusciva ad avvertirlo di una disponibilità temporanea maggiore.
 
Non sapeva se era stato un bene: Sakusa era dedito e (quasi sempre) rispettoso, ma stava rapidamente scalando la classifica delle persone che avrebbe volentieri preso a pugni. Per essere colui che aveva blaterato riguardo la volontà di suo fratello di essere pestato ogni qualvolta aprisse bocca, doveva ammettere che Sakusa ci stava mettendo un impegno inumano per non essere da meno. E senza alcun motivo: il livello di Atsumu non era nemmeno classificabile, quindi si sarebbe dovuto accontentare di un primo posto fasullo.
 
Sakusa gli aveva mostrato metodi sicuramente accurati ma difficilmente veloci per sbrigare le pulizie, criticando persino il suo modo di tenere lo spazzolone in mano e apostrofandolo come villano schifoso ogni qualvolta prendeva lo straccio per pulire il bancone.
 
Alla sua richiesta di delucidazioni, un soave quanto educato “Che cazzo c’è ora che non va?”, era iniziata una filippica malevola riguardo l’ignoranza dell’igiene di base, una lezione non richiesta sullo studio dei materiali e delle loro proprietà fisiche e chimiche e l’invito “Guarda cosa cazzo hai davanti gli occhi, questo è massello smaltato!” che gli era valsa una ricerca approfondita sul detergente migliore da utilizzare per non far cadere a pezzi il punto focale del suo locale.  
 
Avrebbe voluto farlo contento solo ed esclusivamente per sbattergli in faccia la propria competenza, ma non aveva nemmeno finito di dare la prima passata che Atsumu era entrato ed aveva sbottato, gli occhi grandi come piattini, “Come hai fatto a farlo così lucido? Posso specchiarmi!” e aveva dovuto alzare bandiera bianca. L’espressione saccente di Sakusa infestava i suoi incubi ad occhi aperti.
 
Per ristabilire l’ordine delle cose, fortunatamente o no ancora doveva deciderlo, a Sakusa era permesso avvicinarsi alla cucina solo per prendere gli ordini dei clienti e per lavare i piatti. Il suo ruolo per i compiti culinari era saltato nel momento in cui aveva scoperto che anche solo pelare le carote, per lui, era un’attività che andava dalle tre alle cinque ore. Era meticoloso oltre l’inverosimile e senza alcun diritto: si trattava di carote, cazzo, non gli aveva chiesto di spellare un riccio di mare, avevano una buccia talmente sottile da essere tagliata letteralmente con lo sguardo, non aveva bisogno di venti minuti di studio approfondito a pezzo, neanche avessero i denti.
 
Per fortuna era un atleta con un paio di spalle belle grandi, quindi lo scarico e il carico della merce era equamente diviso tra lui e Atsumu, che se voleva mangiare a sbafo era meglio che collaborava e non si limitasse a ridacchiare con le vecchiette del quartiere che si precipitavano a vederli sudare.
 
I primi pomeriggi del finesettimana, quando il locale era chiuso per organizzare le serate più affollate, erano le ore dedicate alle lezioni di informatica mascherate da riunioni di bilancio nell’ufficio. Era presente lui, il suo blocco di appunti, Sakusa, il portatile di Sakusa e un Atsumu che vantava conoscenze informatiche decisamente inesistenti.
 
Sapeva perfettamente che stava mentendo, avevano praticamente vissuto in simbiosi, suo fratello aveva difficoltà a ricordare la password della sua casella mail e l’indirizzo effettivo della sua mail professionale, che consisteva letteralmente nel suo nome e nel suo cognome. L’unica cosa in cui riusciva con una certa maestria, con sorpresa di nessuno, erano le piattaforme sociali.
 
L’ufficio non era per niente in grado di ospitare tre persone delle loro dimensioni, ma Atsumu non voleva vedere né sentire ragioni. Si sarebbe presentato puntuale come la morte con uno sgabello richiudibile sotto braccio, reclamando il posto alla destra di Sakusa e facendo domande più stupide delle sue sulle celle di Excel. E ce ne voleva.
 
Sakusa su questo si era dimostrato paziente, aveva risposto alle loro domande con relativa gentilezza, aveva spiegato con calma le varie possibilità che il programma aveva da offrire e lo aveva messo davanti una griglia a quanto diceva infinita che avrebbe dovuto riempire di numeri. Tsumu si lamentava che voleva giocare anche lui. Sakusa praticò con costanza i suoi respiri zen, raggiungendo ogni volta una pace mentale che gli invidiava enormemente.
 
Il livello di Sakusa era ovviamente troppo più alto del suo in quell’ambito, così gli delegò felicemente il compito di organizzare a suo piacimento un layout a prova di stupido che funzionasse bene, di aiutarlo ad inserire i vari dati e a gestire il tutto, di evidenziare le scadenze e di trovare un modo per tenere sotto controllo anche il magazzino.
 
Nel momento in cui quelle parole gli uscirono dalla bocca, lui e Atsumu si trovarono davanti ad un fenomeno unico. Una scintilla maniacale spuntò negli occhi scuri di Sakusa, illuminandolo come se avesse ingoiato le lucine di Natale, seguita da un vivace “Posso usare formule e macro?” così fuori dal personaggio che lasciò allibito lui e fece quasi secco suo fratello.
 
“Cos’è il macro?” Domandò d’istinto. Fu abbastanza per vedere la vita uscire dalle pupille di Sakusa e fargli perdere tutta la sua passione, spingendolo ad abbassare lo sguardo sullo schermo con faccia cupa. Il momento era sparito.
 
Atsumu gli tenne il broncio tutto il giorno, lamentandosi di non avere fatto in tempo neanche a fare una foto a causa della sua boccaccia larga. Lui non capiva assolutamente cosa avesse detto di sbagliato. (Cercò su Wikipedia senza farsi vedere. Scoprì che lA macro non era una cosa per lui.)
 
Così, non era preparato per quella domanda da parte di suo fratello.
 
“Scusa, puoi ripetere?”
 
Atsumu lo guardò accigliato ma non si arrese. “Perché lui?” Chiese quindi di nuovo.
 
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Perché no?”
 
“Cosa te ne fai di uno che non riesce a lavorare senza guanti?”
 
Ah, era quel momento della settimana.
 
Atsumu aveva preso la pessima abitudine di infastidire Sakusa per cose che non gli competevano solo per avere una reazione, il tutto in situazioni casuali. Sì, perché la domanda era rivolta a lui, ma lo sguardo era dritto su Sakusa, che ricambiava con occhio talmente giudicante da far ribollire suo fratello per l’impudenza.
 
Il fatto che in quel preciso momento Sakusa stesse lavando i piatti e che i guanti che indossava erano quelli che usava pure la loro madre, alti fino ai gomiti per evitare di bagnarsi le maniche del maglione, gli fece capire che Atsumu aveva solo voglia di dargli il tormento e che non era assolutamente serio.
 
“Miya, sei consapevole che posso sentirti?” Commentò piatto Sakusa insaponando un bicchiere. Perché Atsumu era seduto dietro il bancone a tipo cinquanta centimetri da lui, ovviamente poteva sentirlo. “Chiedilo direttamente a me.”
 
“Non puoi rispondere per Samu.”
 
“Qualcosa posso inventarmi, non preoccuparti.”
 
“Perché non hai la mascherina oggi?” Cambiò tattica suo fratello.
 
“Ce l’ho. Non la indosso ora.”
 
“Non ha senso indossare la mascherina quando ti pare.” E questo, davvero, non aveva per niente logica.
 
Sembrò pensarlo anche Sakusa. “Neanche il colore dei tuoi capelli ha senso, ma non sembra ti stia preoccupando.”
 
Atsumu si era convinto a cambiare la tonalità dei suoi capelli dopo anni di prese in giro, senza successo. Era, forse, peggio del liceo.
 
“Vogliamo parlare di capelli, eh Sakusa?” Ringhiò quindi Tsumu, colpito nel vivo. “Parliamo di quel cespuglio di rovi che hai in faccia. Sono pronto!”
 
“Vedo che è un punto dolente.”
 
“Te lo do io il punto dolente, bastardo.”
 
Ora, non era che non voleva intervenire. Lo avrebbe fatto se ci fossero stati clienti nel locale, ma era vuoto e sinceramente stava filmando l’interazione a scopo didattico. In quei primi giorni aveva sentito così tante volte suo fratello punzecchiare Sakusa con argomenti sempre differenti, alla ricerca di una qualunque reazione, che aveva deciso che li avrebbe lasciati liberi di uccidersi come meglio credevano.
 
Intanto cercava di raccogliere quante informazioni possibili per provare a studiarli con un che di accademico insieme a Sunarin. Era divertente sentirlo descrivere i video con voce da documentario, commentando riguardo il pavone Atsumu che, in assenza di coda da ruotare, chiedeva aiuto al compagno prescelto per scuotere altro.
 
Sembrava il momento clou della sua giornata. Ultimamente lo sentiva un po’ stressato, non aveva cuore di privarlo del suo divertimento e, come il bravo ragazzo che era, lo riempiva di video incriminanti. In fin dei conti aveva bisogno di qualcuno che gli spiegasse a cosa assisteva tutti i giorni: non riusciva proprio a capire i rituali di corteggiamento di Atsumu.
 
“Tsumu, asciuga i piatti.” Gli ordinò secco, improvvisamente infastidito.
 
“Nemmeno se preghi. Non sono al tuo servizio, a differenza di qualcun altro.”
 
“Asciuga i piatti e non fiatare, abbiamo venti minuti prima di chiudere e deve essere tutto in ordine.”
 
“Mi aspettano per gli allenamenti.”
 
“Osamu-san ho finito, li asciugo io.” Intervenne piano Sakusa. Questo sembrò bastare per scatenare la bestia.
 
Atsumu si girò con sguardo di fuoco verso di lui. “Perché lui è Osamu-san?” Domandò aggressivo, completamente dimentico della scaramuccia di poco prima. Osamu raddrizzò svelto il cellulare, impostando una messa a fuoco più precisa.
 
Sakusa, che non si aspettava niente del genere, batté le palpebre. “Perché è il suo nome.”
 
“Il mio nome è Atsumu ma tu non lo usi!”
 
Sakusa lo guardò con la stessa espressione che gli avrebbe riservato se avesse cercato di convincerlo di essere appena tornato da Narnia. “Neanche tu usi il mio.” Rispose tranquillamente.
 
“Samu ti chiama per cognome!” Atsumu sembrava sconvolto. Il video continuava a girare. “Per cognome!” Ribadì con voce leggermente stridula.
 
“È un rapporto di lavoro.”
 
“E allora chiamalo Miya-san!”
 
Sakusa arricciò il naso. “Miya-san è vostro padre.” Osamu lo guardò divertito. Ogni tanto Sakusa aveva delle uscite che non si aspettava decisamente, con una logica tutta sua. Era esilarante.
 
Atsumu non la pensava allo stesso modo. “Ti rendi conto che non ha assolutamente senso?” Scandì lentamente, gli occhi stretti. "Chiamami Atsumu!”
 
“Io e te non abbiamo alcun rapporto.” Se si concentrava abbastanza poteva sentire il cuore da Grinch di suo fratello scricchiolare. Sakusa prese un piatto e lo asciugò velocemente. “Sono costretto a interagire con te, ti chiamo come è più accettabile.”
 
“Accettabile per te?”    
 
“Accettabile per la nostra attuale relazione.”
 
Ci furono alcuni secondi di silenzio durante i quali Sakusa continuò a sistemare le stoviglie sotto lo sguardo concentrato di Atsumu. Dopodiché, sulla faccia di suo fratello si allungò un sorriso odioso che prometteva guai. E pugni, ma quello era un suo istinto di default. “Quindi, quando la nostra relazione cambierà, mi chiamerai diversamente.” Constatò con voce dolce.
 
Sakusa sembrò avvertire il pericolo. “Se.” Precisò stizzito. “Se la nostra relazione cambierà.”
 
“Nel momento in cui, sicuramente, per te sarò più che un bellissimo malandrino” Sakusa sbuffò derisorio. “e diventerò il protagonista dei tuoi sogni bagnati, mi chiamerai Atsumu.” Decretò con decisione.
 
“Ci sono talmente tante cose sbagliate in quella frase che non so da dove cominciare.”
 
“Ti troverò un soprannome.”
 
“Non farlo.”
 
“Non combatterlo.” Atsumu si portò la mano al cuore, sulla faccia un’espressione drammatica rovinata dal tremolio delle sue labbra. “So che vuoi che tra noi ci sia qualcosa.”
 
“Tre continenti.” Bofonchiò Sakusa. “Un oceano. Venti città.”
 
“Venti centimetri, forse.” Atsumu lo guardò divertito. “E sarebbero ancora troppi.”
 
“Sopravvaluti la qualità della tua compagnia, decisamente.” Sakusa scosse la testa.
 
Atsumu poggiò il gomito sul bancone e mise la faccia sulla mano, le palpebre calate su uno sguardo troppo furbo. “Non vedi l’ora di scoprire quanto sono vere le voci sulla mia compagnia.”
 
“Ew.”
 
“Non stai negando.” Sussurrò Atsumu sciropposo.
 
“Penso che ‘ew’ racchiuda il sentimento.” Gli occhi di Sakusa si strinsero leggermente, fulminandolo. Ma non sembrava solido come voleva far credere.
 
“Ooooh, lo vuoi.” E il tono languido di suo fratello spinse Osamu a intervenire.
 
Fece due colpi di tosse di cui non aveva assolutamente bisogno e vide la schiena di Atsumu irrigidirsi e le orecchie di Sakusa diventare rosa. Sì, era in tempo. E lo avevano decisamente dimenticato. “Avete gli allenamenti, tutti e due” Sibilò. “Dovete sparire.”
 
“Samu non rompere, ce l’ho tra un’ora.” Sbuffò Atsumu.
 
“Devo finire …”
 
“Non preoccuparti Sakusa, vai a prendere il treno, ci pensa Tsumu.” Sakusa sembrò apprezzare la via d’uscita.
 
“Cosa? Non sono il tuo schiavo!”
 
 “Sei uno spreco di spazio. Vieni qui, mangi gratis e non aiuti nemmeno.” Sakusa, intanto, era sparito per prendere le sue cose.
 
“Con che cazzo di faccia lo dici? Oggi ho scaricato i tuoi sacchi di riso! Se mi viene uno stiramento e non posso giocare me la prenderò con te!”
 
“Sei in panchina, passeranno anni prima che ti facciano titolare.” Osamu sbatté le palpebre e ghignò. “Se ti faranno titolare.”
 
“Se un cazzo, stronzo, vogliamo scommettere?”
 
“Stai già perdendo una scommessa, non iniziare cose di cui ti pentirai.”
 
Sakusa entrò dalla zona ufficio bardato come se stesse andando sulla neve. “Ci vediamo stasera.” Disse con un cenno di saluto a lui e ignorando totalmente Atsumu.
 
“Oi, Sakkun, aspetta!” Lo chiamò suo fratello, ghignando. Lo scatto del suo sopracciglio all’uso del soprannome dichiarava guerra, ma continuò a camminare. “Puoi aiutarmi per favore?”
 
Fu solo l’educazione profonda di Sakusa che lo fece fermare e girare lentamente verso di lui, si vedeva chiaramente che avrebbe preferito pugnalarsi la mano, ma l’uso del ‘per favore’ aveva avuto la meglio. Doveva chiedergli se per caso non fosse stato vittima di una tata particolarmente malvagia e bacchettona da piccolo, altrimenti non si spiegava. “Samu dice che non diventerò mai titolare. Vuoi dirgli che si sbaglia?”
 
“Perché dovrei?” Domandò con voce un po’ aggressiva.
 
“Perché è uno stronzo!”
 
“E tu fagli vedere che ha torto.” Sakusa sospirò stancamente, sistemandosi il borsone sulla spalla. “Davvero, quando finirai di parlare e comincerai finalmente ad agire?” E con quello si girò e uscì dal ristorante.
 
Osamu si girò verso suo fratello con le sopracciglia alzate e l’aria soddisfatta. Atsumu guardava la porta con le guance rosa di rabbia e la bocca semiaperta. Poteva vedere il bianco brillante dei suoi denti e aveva un che di ferino. “Ha ragione.” Gli disse, solo per farlo incazzare.
 
Atsumu si riprese dalla sua immobilità. “Non capite un cazzo, nessuno dei due.” Cominciò ad asciugare una padella con una certa violenza. “Sai che significa uscire da re e ritrovarti a leccare il pavimento?”
 
“Tsumu, non abbiamo nemmeno vinto l’Interhigh, chi diavolo ti ha fatto re?”
 
“Hai capito cosa intendo, idiota. Lui sta in una fottuta squadra universitaria, quanto gli ci è voluto a diventare titolare? Niente, ecco quanto.”
 
“Vuoi davvero dirmi che se avesse scelto di farlo professionalmente non avrebbe fatto tutto ciò che poteva per giocare in partita?” La mascella di Atsumu si irrigidì ma non rispose. Un broncio da record gli si piantò in faccia.
 
Osamu sospirò. “Non prendertela con gli altri se non riesci a ottenere quello che vuoi. Sei entrato nei Jackals. Se non valessi non ti avrebbero neanche guardato due volte.” Suo fratello, però, continuava a stufare. “Sakusa ha ragione. Datti tempo, datti da fare e non venire a piangere. Sei brutto.”
 
“Vaffanculo.” Mugugnò buttando l’asciugamano nel lavello. “Ho finito stronzo, me ne vado.”
 
“Vieni stasera?”
 
“No.” Ma lo avrebbe rivisto sicuramente a mendicare del cibo come un affamato prima della chiusura.
 
Osamu sorrise. “Asciugati bene quando hai finito l’allenamento e copriti, sai che ti raffreddi facilmente.”
 
 
*
 
 
“Sono imbarazzanti.”
 
“Decisamente imbarazzanti!”
 
“E devo vederli tutti i giorni. Tutti.” Osamu sospirò, la polpetta di riso aperta in una mano per inserire una manciata generosa di salmone. “Spero finisca presto. Sono mesi che va avanti questa storia.”
 
Pagherei per vedere dal vivo mio cugino essere annusato così. Ne ho bisogno per vivere.” Disse Komori facendo ripartire il video. “Oh mio Dio! I tuoi clienti non sanno dove guardare! Riesci a fare affari nonostante tutto?”
 
“Devo ammettere che molti vengono anche per l’intrattenimento.” Osamu si sporse sul cellulare. “Vedi queste due ragazze? Queste qui in fondo? Penso abbiano iniziato un fan club o qualcosa di altrettanto umiliante.”
 
“Come lo sai?”
 
“Mi hanno chiesto una foto migliore di loro due che si ringhiano addosso per fare delle spille. Vorrei non aver avuto quella conversazione.”
 
Suna si avvicinò allo schermo con sguardo concentrato. “Aspettate. Sbaglio o qua Sakusa ha cambiato espressione?” Mise in pausa il video e aspettò conferme. Komori e Osamu inclinarono la testa.
 
“Come lo capisci?” Domandò Osamu aggrottando le sopracciglia.
 
“Guarda gli occhi.”
 
“A me sembra la solita faccia stitica.” Mormorò Komori, strizzando le palpebre per vedere meglio.
 
“Cazzo, è tuo cugino. Non lo vedi che lo guarda strano?”
 
“Rin, non mi sembra che …”
 
“No! Oddio, lo vedo!” Komori spalancò gli occhi e aprì la bocca, battendo le mani sul bancone. “Oh mio Dio, lo sta totalmente squadrando!”
 
“Come hai fatto a passare da ‘ha la faccia stitica’ a ‘lo sta squadrando’?” Domandò Suna.
 
“Conosco Kiyoomi meglio di tutti, so quando vuole spogliare la gente.”
 
“Non sembrava poco fa.” Osamu poggiò davanti a loro due patti con onigiri, decisamente divertito.
 
“Ha anche un filo di bava!” Rimarcò Komori afferrando il suo e cominciando ad ingozzarsi.
 
“Ecco, ora stai inventando cose.”
 
“Non invento niente! Guardalo! Sembra un alano con la permanente davanti una bistecca!”
 
“Che immagine orribile.”
 
“Che schifo. Ci devo lavorare con lui.” Osamu fece una smorfia.
 
Suna morse il suo onigiri e gli fece un sorriso, le guance gonfie di riso e salmone. Komori era già al secondo.
 
Era la prima volta che venivano da Onigiri Miya. Il giorno dopo sarebbe iniziato il Kurowashiki All Japan Volleyball Tournament e si erano stabiliti in un hotel lì vicino insieme alla squadra. Intanto erano riusciti a fare una scappata.
 
Sapeva che Rintarou era dispiaciuto per non essergli stato vicino fisicamente per l’inizio dell’attività o ancora prima per tutte le ricerche ma non gliene poteva fare assolutamente una colpa: stavano seguendo la loro strada e, davvero, nessuno dei due poteva permettersi di avere rimpianti. Prima o poi sarebbe riuscito ad aprire una filiale a Tokyo e a vivere lì o Rin avrebbe avuto un’offerta migliore e avrebbero proprio cambiato città insieme, non sapeva come sarebbe stato il futuro. Avevano vent’anni, c’era una vita davanti. Per adesso, avrebbero resistito come meglio potevano.
 
“Verso che ora arrivano?” Chiese Suna pulendosi le dita su un tovagliolo.
 
“Sakusa fra una decina di minuti.” Disse Osamu guardando l’orologio. “Tsumu …”
 
“Che cazzo ci fanno i Raijin qua? Samu, da quando raccogli randagi?”
 
Lo scampanellio della porta avvertì dell’entrata di Atsumu, che si fiondò velocemente su Suna quasi spaccandogli la schiena. Non gli diede neanche il tempo di reagire. “Sunarin!!!” Gli urlò direttamente nelle orecchie.
 
“Togliti deficiente!”
 
“Ti sono mancato? Ti sono mancato!” Gli saltellò intorno come un cane iper eccitato, prima di sedersi vicino a lui. “Allora? Hai visto il locale?  Vi spaccheremo la faccia domani.”
 
“Ha le sue priorità.” Spiegò Osamu tranquillamente ad un divertito Komori, alzando le spalle. “Ti sono piaciuti?” Domandò, vedendo il piatto vuoto.
 
“Buonissimi!” Komori aveva le stelle negli occhi. “Fai anche gli yaki onigiri?”
 
“Sicuro, li vuoi adesso o a portar via?”
 
“E tu chi sei?”
 
Komori si girò verso Atsumu, che lo stava guardando con il dubbio negli occhi. Si vedeva chiaramente che  non riusciva a fare mente locale. “No, aspetta, ti conosco.”
 
Komori, tuttavia, non poteva proprio resistere a una presa in giro. “Miya-kun, ti sei già dimenticato di me? Che vergogna!”
 
Un rapido sguardo tra Suna e Osamu e si misero in azione. “Davvero, Tsumu, che schifo.” Disse suo fratello scuotendo la testa.
 
“Come fai a metterti le mutande la mattina senza aiuto?” Rincarò Suna.
 
 “Chi ti dice che non ho aiuto?” Il gemito che seguì lo fece ridacchiare. “No, davvero, ti conosco, ma non mi ricordo.”
 
“Eeeeh, quella settimana qualcun altro aveva la tua attenzione.” Sorrise Komori prendendo il bicchiere d’acqua che aveva davanti.
 
“Qualcuno alto.” Canticchiò Osamu pulendo l’area di lavoro.
 
“Qualcuno moro.” Sussurrò Suna avvicinandosi ad Atsumu con fare sornione.
 
Il fatto che la descrizione coincidesse praticamente con il 90% della fauna pallavolistica del liceo non sembrò intaccare minimamente il filo mentale a senso unico di Atsumu, che esclamò. “Sei il libero di Itachiyama! Komori-kun!” Lo vide annuire. “Siamo stati insieme al ritiro della nazionale U19! Allora conosci Omi-kun!”
 
“Intimamente.” Il tono languido di Komori fece ghignare Suna, già pregustando il disastro. Osamu, invece, mantenne la faccia seria, imponendosi di non ridere. Suo fratello doveva pagare.
 
Atsumu, ovviamente, si rabbuiò. “In che senso intimamente?” Domandò con voce troppo forzatamente spensierata per illudere chiunque avesse un paio di occhi e orecchie, funzionanti o non.
 
“Che senso dai ad intimamente?”
 
“Ci sono molti significati per intimamente.” Intervenne prontamente Suna.
 
“Decisamente no.” Borbottò Atsumu. “Intimamente vuol dire una cosa sola.”
 
“Non è detto.” Mormorò Osamu. “Può voler dire un sacco di cose.”
 
“Oppure no.” Komori sorseggiò la sua acqua. “Forse hai ragione tu. Forse è quella cosa.”
 
 Atsumu strinse gli occhi. “Quella cosa, cosa?”
 
“Quella cosa.” Rispose Komori vago. “Quella che dici tu.”
 
“Cioè, cosa dico io?” Ribadì, la gola stretta dall’irritazione.
 
Come se non bastasse, Sakusa entrò in quel momento. L’odioso suono del campanello li fece guardare tutti e quattro verso la porta con uno scatto sincronizzato che non avrebbero potuto replicare neanche volendo. La sua espressione tranquilla si trasformò in terrore puro una volta che alzò lo sguardo e riconobbe le persone al bancone, lampante nonostante la mascherina.
 
“No.” Alitò, gli occhi spalancati. “Questo no.”
 
“Kiyoomi!!!” Strillò Komori facendogli fare un piccolo balzo, un sorriso che andava da un orecchio all’altro. Atsumu lo guardò male, offeso per conto di Sakusa e ovviamente invidioso per l’uso del nome proprio che a lui era precluso. Suna alzò la mano per salutarlo, un ghigno stampato in faccia. “Ciao Sakusa-kun.” Mormorò piacevolmente.
 
“Osamu-san, sono malato.” Sibilò Sakusa aprendo di nuovo la porta per andarsene e facendo ridacchiare Suna.
 
“Vatti a cambiare, c’è la divisa con il logo fresca di lavanderia. Le ho ritirate stamattina.” Lo bloccò il suo capo cominciando a preparare gli ingredienti sul piano di lavoro.
 
“Mi prendo il giorno.” Continuò testardo cercando un appoggio che non avrebbe trovato.
 
“Oggi è previsto pienone, mi servi.”
 
“Non sono mai mancato. Mi stai negando il diritto di malattia?” Domandò accusatorio.
 
“Sì.” Perché avrebbe sofferto come aveva fatto lui da quando lo aveva assunto. “Fila a cambiarti, c’è anche una mascherina personalizzata tutta per te.”
 
“Chi ha previsto pienone? Le tue analisi campate in aria?”
 
“Esattamente.”
 
“Kiyoomi, non sei felice di vedermi?” Komori batté le palpebre come una principessa Disney. “Ho fatto tutta questa strada solo per te!”
 
Sakusa aggrottò le sopracciglia e non rispose. Era meglio così, sarebbe uscito qualcosa di talmente osceno che qualche divinità sarebbe sicuramente rotolata chissà dove.
 
“Intimamente?” Chiese a bassa voce Atsumu a Suna, le sopracciglia aggrottate. Suna annuì. “Intimamente.” Confermò con aria cospiratoria.
 
“Vieni ad abbracciarmi!” Continuò il libero, alzandosi in piedi e spalancando le braccia.
 
Nero di rabbia, Sakusa si diresse verso la porta che portava alle zone del solo personale, schivando le mani tentacolari di suo cugino con una scioltezza che sapeva di abitudine. “Me la pagherai.” Sibilò ad Osamu, che gli rispose con un sorriso da schiaffi.
 
“Aspetta Omi!” Atsumu scese dallo sgabello e gli corse dietro. Sakusa non rallentò il passo ma mormorò aggressivo. “Non chiamarmi così.”. Ovviamente Atsumu non lo ascoltò. “Lo conosci davvero? Intimamente?” Domandò con un pizzico di isteria, la voce soffocata dalla porta chiusa.
 
“È stato divertente.” Cinguettò Komori rimettendosi a sedere con un sorriso enorme stampato in faccia. “Potrei avere degli yaki onigiri con la carne?”
 
“Puoi avere tutto quello che vuoi.” Promise Osamu ridacchiando.
 
“Pago io per lui.” Brindò con la sua acqua Suna, alzando il bicchiere con solennità.
 
 
*
 
 
“Ushijima è stato chiamato per la nazionale olimpionica.” La voce spezzata di Suna risuonò dagli altoparlanti del telefono, echeggiando nel locale vuoto in maniera straziante. Atsumu si lasciò sfuggire una risata decisamente amara.
 
Osamu aveva appena chiuso il ristorante, aveva suo fratello davanti con la faccia schiacciata sul bancone, il cellulare appoggiato ad una bottiglia d’acqua e la faccia del suo ragazzo in videochiamata.
 
Sakusa era andato via cinque minuti prima, il tempo di vedere Atsumu entrare e schiantarsi sullo sgabello senza neanche salutarlo e dare un’occhiata ai messaggi di suo cugino che cominciarono a far impazzire il suo telefonino quasi nello stesso momento, informandolo dell’ultima notizia nel mondo della pallavolo. Dai trilli che scandivano la conversazione con frequenza isterica aveva capito che non doveva aver preso la notizia in maniera migliore.
 
“Sarà una serata di merda.” Lo aveva sentito mormorare chiudendo gli occhi e portandosi il cellulare alla fronte dopo aver letto, le spalle che crollavano. Era il primo gesto stanco che gli vedeva fare da quando era iniziata la loro collaborazione mesi addietro. Fino a quel momento era stato una macchina, a volte non capiva nemmeno lui come riuscisse a trovare la forza di schizzare da un posto a un altro come un flipper dopo quegli allenamenti massacranti e a portare comunque a termine il suo lavoro senza scivolare nemmeno una volta.  
 
“Cosa è successo?” Gli aveva chiesto a voce bassa, lasciando suo fratello a fondersi con il bancone. “Qualcosa di grave?”
 
“No, non è grave. Devono solo accettarlo e rendersi conto che forse non è una cosa bella come pensano.” Rispose criptico. Aveva guardato la schiena curva di Atsumu con un’espressione morbida e aveva scosso la testa. “Buona fortuna con gli altri due.” Non lo aveva capito immediatamente, ma dopo gli fu tutto più chiaro.
 
“Che cazzo pretendo, non riesco nemmeno a entrare in campo.” Rin aveva gli occhi cerchiati di rosso e lucidi ma non lo avrebbe visto versare nemmeno una lacrima. A differenza di suo fratello, che aveva resistito solo fino a che Sakusa non li aveva salutati ed era uscito dalla porta con il cellulare all’orecchio,  cercando di parlare con un Komori decisamente sconvolto, almeno a giudicare dalla sfilza di parolacce e maledizioni che sentiva uscire fuori nonostante tutta quella distanza.
 
“Non ci riesce nessuno.” Mormorò Atsumu tirando su con il naso. Fino a poco prima aveva la faccia accartocciata dentro un fazzoletto e la guancia ostinatamente schiacciata sul bancone.
 
“È entrato un anno prima di voi.” Cercò di farli ragionare Osamu.
 
“È diventato titolare immediatamente.” Rispose suo fratello, la voce decisamente nasale ma non per questo meno arrabbiata .
 
“Stiamo parlando di Ushijima Wakatoshi.” Rintarou ridacchiò senza allegria. “È un cazzo di cannone. Ci ha uccisi al Kurowashiki.”
 
“Almeno siete durati.” Atsumu sistemò meglio la faccia sul legno, lacrime e moccio a macchiare la brillantezza del bancone. Avrebbe dovuto disinfettarlo e lucidarlo appena si fosse deciso a staccarsi, prima che Sakusa riuscisse a vederne l’alone opaco con la sua vista laser e lo convincesse a bruciarlo. Doveva ammettere che poteva avere ottime probabilità, Tsumu si stava decisamente impegnando a spargere le sue secrezioni ovunque. Le carcasse di fazzoletti umidi stropicciati tutte intorno a lui rendevano quel quadretto ancora più schifoso.
 
“Solo perché Komori si è allenato con Sakusa da quando erano piccoli e se lo è trovato spesso davanti.” Suna scosse la testa. “È l’unico motivo per cui è riuscito a entrare. Ma quando era fuori ci ha ammazzati.”
 
“Lui però ce l’ha fatta. È stato bravo.”
 
“Non dite stronzate, gli Adlers non sono solo Ushijima.” Osamu li bloccò, finalmente stufo. “C’è Romero. Romero, ragazzi. Hirugami. Ci sono un sacco di mostri. E anche voi avete un sacco di gente fuori dal comune.”
 
“Rimane il fatto che Ushiwaka è titolare e noi no.” Vide Rintarou mordersi l’interno delle guance, lo sguardo basso. “Ushiwaka è stato convocato per le olimpiadi e noi non siamo riusciti neanche a entrare nel radar. O a toccare palla nelle partite ufficiali.”
 
“Omi-kun stravede per Ushiwaka del cazzo.” Gli occhi di Atsumu si riempirono di nuovo di lacrime, il naso si arricciò e Osamu gemette ad alta voce. “No, anche questo no.”
 
“Dio, Tsumu, almeno girati dall’altra parte. Sei veramente brutto quando piangi.” Sembrava che, per quanto triste, Rin non avesse abbandonato la sua voglia di prendere in giro suo fratello. Ad essere sinceri, il suo ragazzo sarebbe dovuto essere morto per scegliere di lasciare in pace Atsumu anche solo per cinque minuti.
 
“Che ha più di noi?” Domandò Atsumu tirando su con il naso e tamponandosi una narice rossa con un fazzoletto pulito. “I capelli noiosi?”
 
“La faccia mono espressione.” Ci si mise anche Suna, cominciando a dondolare sulla sedia.
 
“Magari gli puzzano i piedi.” Aiutò Osamu con un sorriso leggero.
 
“Forse dovrei tingermi i capelli di quel colore strano. Cos’è, marrone? Con qualcosa di verde scuro?”
 
“No.” Risposero in coro Osamu e Suna, la voce piatta. Atsumu fece spallucce, ancora rimanendo così piegato. C’era da chiedersi se il collo stesse chiedendo aiuto. “Che cazzo di genetica ha per avere un colore del genere?”
 
“Aliena. Spiegherebbe un sacco di cose.”
 
Ad Osamu non piaceva vederli così. Era abituato ad Atsumu sbruffone e a Rin così sicuro di sé da dare il tormento ai centrali avversari, non sopportava di avere davanti quelle caricature di giocatori.
 
Sapeva che, a parte Komori nell’ultimo torneo, non erano riusciti nemmeno a mettere piede in campo. Aveva sentito Atsumu lamentarsi praticamente ogni giorno, in fin dei conti vivevano insieme ed era costretto a sorbirselo ogni volta che era di umore nero. Sapeva che Rin aveva un altro carattere e durante le loro chiamate avvertiva il suo umore peggiorare ogni giorno di più, sentiva che stava facendo il pieno e che prima o poi sarebbe scoppiato. Non si aspettava che succedesse in contemporanea con gli altri due, però. Fortuna che a Komori ci stava pensando Sakusa, altrimenti non avrebbe saputo proprio dove mettere le mani.
 
O forse no, aveva il sacro terrore che Sakusa mantenesse alto il suo nome e facesse lavorare troppo la sua personalità atroce. Era consapevole delle sue abilità sociali inesistenti, puntava solo sul fatto che la vicinanza e la complicità tra cugini fosse un motivo abbastanza valido da non spingere al suicidio uno dei liberi migliori in circolazione.
 
“Perché è così difficile?” Sentì domandare Rin, retorico. “Mi basta una possibilità. Una.”
 
“Sapevo che Toshio-san era una bestia, ma cazzo, vorrei far vedere quanto valgo.” Mormorò suo fratello. Già a casa doveva sentire le sviolinate sul setter in carica dei Jackals, in quel momento non ne aveva la voglia.
 
“Siete due ragazzine.” Osamu, sinceramente, era rimasto anche troppo zitto. Vederli sguazzare in quella pozza di autocommiserazione aveva innescato la miccia che cercava di tenere sotto controllo da quando aveva visto quelle facce da funerale, più per il suo ragazzo che per suo fratello. Ma non ce la faceva più. “Anzi, Jun-chan ha più palle di tutti voi.”
 
Suna lampeggiò uno sguardo malevolo. “Samu, vaffanculo.”
 
“No, seriamente, vi state lamentando da un casino di tempo, ogni giorno.” Osamu scosse la testa, deluso. “Dopo un po’ non vi fate schifo da soli?”
 
“Che ne vuoi sapere tu? Fai onigiri.” Lo accusò suo fratello.
 
“E allora andatevene affanculo da qualche altra parte. Siete sempre qua a piagnucolare ma non mi sembra che facciate qualcosa di più per cambiare la situazione.” Batté una mano sul bancone, sporgendosi verso di loro. “Vi sembra il modo di reagire questo?”
 
“Cosa dovrei fare?” Gridò Atsumu con gli occhi spalancati. “Andare da Foster e dirgli di darmi una possibilità?”
 
“Perché no? Ci hai mai provato?” Il silenzio che seguì gli fece capire che no, l’orgoglio era troppo per abbassarsi. Ma non potevano averlo in quel momento, non ne avevano alcun diritto e dovevano capirlo presto. Quindi, sospirando, domandò a Rin. “Come ha fatto Komori a entrare in partita l’ultima volta?”
 
Lo vide aggrottare le sopracciglia, pensandoci un attimo. “Ha fatto notare le schiacciate di Sakusa e si è vantato di aver lavorato con lui. Che sapeva contrastare giri infami.” Lo sentì mormorare.
 
“Quindi ha fatto quello che non avete fatto voi. Ha girato le sue carte, ha rischiato.”    
 
“È andata male.” Disse Suna. “Abbiamo perso.”
 
“Ma si è fatto notare, a differenza nostra.” Accettò finalmente Atsumu, alzando la testa dal bancone con un sospiro profondo. “Omi-kun mi aveva detto mesi fa di agire.”
 
“Di sicuro sta insultando Komori in questo momento.” Li informò Osamu.
 
“Lo sento piangere e maledire i suoi nei, se volete saperlo.” Ridacchiò piano Suna, lo sguardo vergognoso abbassato sulle sue mani. Si sentì un tonfo che lo fece irrigidire. “Wow, questo era brutto.”
 
Neanche un secondo e videro la porta della sua camera spalancarsi, Komori entrare come una furia  avvicinandosi al computer sul quale Suna aveva attiva la videochiamata, arrabbiato come non avevano mai immaginato di vederlo. “Licenzia quello stronzo di mio cugino o radigli la testa, solo la striscia centrale. Deve soffrire.” Sibilò, troppo vicino alla fotocamera per poter far vedere qualcosa di più di un sopracciglio aggrottato e qualche capello. Sentirono Suna intimargli di allontanarsi dallo schermo.
 
Osamu rimase un attimo destabilizzato. “Non posso, può denunciarmi.”
 
“Lascia stare i capelli di Omi, voglio riuscire a vedere se si muovono da soli come quelli di Medusa se lo faccio incazzare abbastanza.” Spiegò Atsumu contrariato.
 
“Quelli erano serpenti.” Gli ricordò Suna.
 
“Vuoi dirmi che non vedi la somiglianza?”
 
“Non farti uccidere dal mio dipendente. Sarò moralmente obbligato a coprirlo.” Osamu si mise una mano sulla fronte, avvertendo un principio di mal di testa: l’ultima cosa che gli serviva era il circo al completo.
 
“Stronzo.” Borbottò Atsumu. Poi strizzò gli occhi e si avvicinò allo schermo del cellulare. “Komori-kun, sbaglio o sei chiazzato?” Ed era vero, il pianto non faceva proprio per Komori.
 
“Vaffanculo Miya, come se tu fossi messo meglio.”
 
“Miya io o Miya lui?”
 
“Tutti i Miya che ho davanti in questo momento, non sopporto nessuno.” Sbottò schiantandosi sulla poltrona a fagiolo di Suna. Incrociò le braccia, abbassò il mento direttamente sul petto e ringhiò. “Wakatoshi del cazzo.”
 
“Non voglio nemmeno sapere cosa ti ha detto tuo cugino.” Disse Osamu alzandosi per prendere il disinfettante ora che suo fratello si era deciso di scrostarsi dal bancone.
 
“Oh, niente di che. Prima mi ha fatto urlare, poi ha detto che faticava a seguirmi, che non capiva che dicevo perché non scandivo bene le parole e di scegliere se piangere o strillare perché tutte e due le cose insieme non andavano bene.”
 
“Beh, aveva ragione.” Intervenne Suna, decisamente più allegro. “Ti sentivo perfettamente ma non ti capivo nemmeno io. Era tipo un unico suono continuo inarticolato, intervallato da parolacce.”
 
“Vaffanculo anche tu.”
 
“Adoro il fatto che Komori-kun perda completamente la facciata quando è incazzato come una biscia.” Cinguettò Atsumu afferrando un altro fazzoletto pulito, un sorriso lacrimoso in faccia.
 
Komori fece un ghigno che prometteva dolore. “È un tratto di famiglia.” Sussurrò diabolico facendo scoppiare a ridere Suna e Osamu e sbiancare leggermente Atsumu.
 
“Quindi,” Continuò, incurante di aver assicurato mesi di incubi a quello che si divertiva a chiamare ‘futuro acquisto in famiglia’. “dopo avermi informato che dovevo assolutamente soffiarmi il naso perché sentiva il moccio scendere da lì – sì, gente, ha detto questo – ha cominciato a elencarmi le magnifiche abilità di Ushijima Wakatoshi e come non potremmo mai sperare di eguagliarlo.”
 
“Non ci credo.” Mormorò Atsumu con gli occhi spalancati. “Non l’ha fatto.”
 
Komori fece una smorfia. “No. O, meglio, sì, ma potrei avere esagerato. Mi ha ricordato comunque che abbiamo ruoli differenti e quindi non devo fissarmi su una stronzata del genere, di concentrarmi sui miei obiettivi.”
 
Sospirando, si mise a giocare con il laccio della sua felpa. “Ha detto che Ushiwaka è sempre stato coccolato dalla Shiratorizawa,” La voce era un mormorio che poco aveva della furia di poco prima. “che forse non era un bene essere convocato in quel momento preciso, che è un grande ma le sue capacità non erano progredite più di tanto.” Arricciò il naso, grattandosi la punta. “E che era ora di smetterla di comportarmi da ragazzina e che l’invidia era una brutta cosa. Così ho chiuso la telefonata e ho lanciato il cellulare sul letto.”
 
“Ha detto la stessa cosa Osamu!” Esalò Suna. “La parte della ragazzina intendo. E devo informarti che il tuo telefonino non è atterrato sul letto.”
 
“Certo che sì, l’ho visto.”
 
“Penso che prima tu abbia fatto un buco nel muro, allora.” Komori agitò una mano come se fosse un dettaglio inutile.
 
“Io non sono invidioso.” Sputò Atsumu. La marea di pernacchie che ricevette lo fecero alzare dallo sgabello con rabbia. “Non sono invidioso! Sono diecimila volte meglio di Ushiwaka!”
 
“Nel tuo campo sicuramente.” Disse Osamu, cercando di togliere il moccio di suo fratello dal bancone con una smorfia concentrata e molto olio di gomito. “Ma ti sta rodendo il fegato comunque.”
 
“Sono troppo al di sopra per essere invidioso di Ushiwaka!”
 
“Stai piangendo come una fontana a causa sua. La smetti di inventarti cose?” Intervenne Suna.
 
“Ottobre.” Sbottò Atsumu, alzando il dito e puntandolo verso lo schermo del cellulare di suo fratello da dove Suna e Komori lo osservavano curiosi. “Entro ottobre sarò scelto come setter di prima corda. Dominerò la V1 e Ushiwaka potrà baciarmi il culo.”
 
“Basta che smetti di perdere liquidi qua sopra, la gente ci mangia.” Borbottò Osamu strofinando il detergente sull’alone opaco.
 
 “Va bene, accetto.” Cinguettò Komori, l’umore improvvisamente allegro.
 
“Tu non sei in gioco, sei già entrato in partita.” Lo guardò male Rin.
 
“Sì, come riserva. Qua si parla di prima corda, sono dentro!”
 
“Che poi, perché eri incavolato con Sakusa-kun?”
 
Komori mise su un broncio adorabile che confermò la sua parentela con Sakusa. “Volevo solo lamentarmi.” Si lagnò. “Posso averne il diritto? L’ho chiamato per sfogarmi, non per avere un fottuto grillo parlante che mi faceva la morale. Me ne sbatto del suo tono saccente, se lo ficcasse nel sedere insieme alla sua boria.”
 
“Non mettere Sakusa e sedere nella stessa frase, qualcuno potrebbe andare in autocombustione.” Avvertì Suna con un ghigno.
 
“Sunarin, fai a farti fottere.” Atsumu sporse il labbro. “Omi ha la ragazza.”
 
“Cazzo dici?”
 
“Li ho visti tre giorni fa qua vicino.” Osamu vide suo fratello muovere una spalla, gli occhi bassi sul fazzoletto che cercava di polverizzare con le dita. “È carina.”
 
“Che io sappia non ha nessuno.” Disse Komori mentre si allungava sulla scrivania per prendere un kleenex dalla confezione, le sopracciglia aggrottate.
 
“Beh, li ho visti. Chi se ne frega.” Alzò gli occhi e fece il solito sorriso storto malandrino che preannunciava guai. “E questo finesettimana ho un appuntamento caldo, alla faccia vostra.”
 
Osamu inspirò profondamente, alzandosi per andare a sciacquare al lavello il panno sporco un attimo dopo vedere Suna mostrare a suo fratello il dito medio e sentire Komori augurargli di fare cilecca. Non voleva sentire niente, prevedeva solo altri giorni di inferno.
 
 
*
 
 
Doveva dire ad Osamu di investire in un condizionatore. Uno qualsiasi, poteva anche avere quattrocento anni e andare a manovella, ma ne avevano bisogno. Altrimenti si sarebbero sciolti tutti.
 
Agosto ad Osaka era piovoso, ma il caldo secco stranamente aiutava. Tokyo era decisamente più umida e aveva odiato ogni estate passata lì, dove non potevi uscire che la pressione ti scendeva a terra e ti sentivi costantemente appiccicaticcio. La quantità di gel disinfettante che consumava in una sola settimana concorreva felicemente con quella usata in un singolo mese invernale.
 
Ad Osaka, invece, si trovava molto meglio. La pioggia regnava sovrana ma si trattava di classici temporali estivi, fastidiosi, sì, ma decisamente tiepidi e leggeri. Tuttavia, anche se il termometro che segnava una temperatura più vicina ai 35° che ai 25° lo metteva davanti ad un clima temperato all’esterno, nel locale le cose cambiavano: si trattava di un ristorante, per Dio, possibile che il calore costante che saliva dai fornelli non avesse intaccato minimamente l’integrità di Osamu?
 
Di cosa era fatto? Amianto?
 
Anche i clienti non sopportavano la temperatura interna. Lo vedeva nelle signore con i ventagli in mano che si mettevano all’opera ogni qualvolta Osamu accendeva la griglia, agitandoli sempre più veloci ad ogni fetta di verdura o carne poggiata sui ferri roventi, o nelle birre ghiacciate che venivano praticamente inalate, le gocce di condensa sul vetro colorato accettate come sollievo temporaneo per fronti o mani sudate, con suo sommo disgusto, o, ancora, nei gruppi di ragazze vestite in maniera sempre più succinta, pronte a sperare di vedere se fosse la giornata buona per poter ammirare finalmente Osamu senza maglietta e a scoprire se magari era permesso toccare un po’. No, non se lo stava inventando, aveva sentito i loro gorgoglii estatici. Avrebbe voluto informarle sulle norme igieniche ma si astenne, in fin dei conti non stavano molestando lui ed erano clienti paganti neanche troppo fastidiosi.
 
Quindi, decise che era arrivato il momento di prendere il suo capo ed iniziare una seria opera di convincimento.
 
“Fa caldo.” Cominciò secco. Aveva sempre sostenuto che esporre il problema senza troppi giri di parole avrebbe fatto metà del lavoro.
 
Osamu alzò gli occhi dalla vaporiera, la fronte umida di sudore, i capelli sotto il cappello nero sicuramente inguardabili. L’aria svagata sulla sua faccia gli suggerì che si era completamente estraniato dietro al condimento del riso, come se fosse appena uscito dal suo mondo ideale.
 
“Oh?” Disse solo, guardandosi attorno. Aveva le gote di un rosso violento, cotte dal calore rovente del cibo che gli andava dritto in faccia, e gli occhi un po’ secchi, ma si vedeva chiaramente che non avvertiva alcun disagio. Sperava solo potesse notare in che stato si trovava il signore sulla settantina all’angolo, noto cliente abituale di cui non ricordava mai il nome ma che li trattava come fossero i suoi nipoti, abbracciato ad una brocca d’acqua congelata neanche fosse la sua ancora di salvezza, mentre osservava rapito la puntata di una serie coreana particolarmente senza senso sulla tv impostata lì in alto.
 
“Oh.” Sakusa strinse gli occhi, guardando critico la maglia nera umida che era incollata al tronco di Osamu come una seconda pelle. “Ti sembra modo di cucinare? Avrai bisogno di installare una doccia, perché è decisamente schifoso.”
 
“Alle signore sembra piacere.” Rispose con un sorriso sornione, indicando leggermente un gruppetto di ragazze che lo occhieggiavano e ridacchiavano.
 
“Ew.”
 
“Guardano pure te, non preoccuparti.”
 
“EW!” Davvero, non aveva bisogno di quell’informazione. Sentì l’improvviso impulso di coprirsi con qualcosa di informe come un poncho, ma aggiungere strati lo avrebbe portato ad una temperatura interna maggiore e, seriamente, non avrebbe giovato al suo piano.
 
“Non fa così caldo.” Disse Osamu alzando le spalle, aprendo con cura due uova per preparare la maionese. “Prendi quella ciotola.”
 
“I clienti si stanno liquefacendo.” Lo informò Sakusa, passandogli una terrina bianca e guardandolo separare i tuorli dagli albumi. “Io mi sto liquefacendo. Non so come tu non sia ancora evaporato.”
 
“Resistenza spaziale.” Lo informò con un ghigno lascivo, cominciando a sbattere con una frusta. Aggiunse l’olio a filo e succo di limone poco per volta, continuando a sbattere con più energia, il tutto guardando Sakusa con un’espressione di superiorità.
 
“Dovrei essere impressionato?” Gli domandò Sakusa con occhi morti, un sopracciglio alzato pronto a giudicarlo.
 
“Mi sto assicurando la clientela.” Gli rivelò sornione. Un trillo di risatine raggiunse le loro orecchie e Sakusa si sentì messo in vendita anche se non stava facendo nulla. “Dovresti metterti a farlo anche tu. Aiuta i muscoli.” E, decisamente, i suoi bicipiti erano piuttosto gonfi.
 
“Suna sarà felice.” Accettò laconico. “Ora, facciamo qualcosa per rinfrescare il locale o dobbiamo aspettare che ai clienti prenda un colpo di calore?”
 
“Reggi qua, devo controllare il riso.” E gli mollò ciotola e frusta. “Svelto, gira quel coso sennò impazzisce la maionese.”
 
Decisamente terrorizzato, Sakusa mosse la frusta come se ne andasse della sua vita. “Che significa esattamente ‘impazzisce’?” Domandò cauto. Seriamente, cosa avrebbe dovuto fare quell’ammasso informe di roba gialla viscida? Prendere vita e uccidere qualcuno?
 
“Continua, stai andando bene.” Lo ignorò totalmente Osamu. “Girati un po’ a destra … sì, così, perfetto.”
 
Sakusa continuò a sbattere uova e olio con vigore per alcuni minuti, cercando di capire come aveva fatto a rimanere incastrato in quel modo. Mosse la testa verso Osamu e lo beccò con il cellulare in mano. “Cosa stai facendo?”
 
“Sto documentando la prima cosa utile che riesci a fare in cucina.” Lo informò. Se avesse avuto le mani libere gli avrebbe mostrato entrambe le dita medie.
 
“Sei tu che non vuoi che ti aiuti.”
 
“Il tuo pelare le carote lasciava a desiderare.” Disse spietato. “Sei portato per fare la maionese, però. Sarà il tuo compito da oggi in poi.”
 
“Decisamente no.” Rispose categorico. Non lo avrebbe fregato così facilmente.
 
“Hai i muscoli, usali.”
 
“Li hai anche tu.” Guardando dentro la ciotola, vide che il pasticcio iniziale si era trasformato magicamente in una crema liscia. “Quanto ancora devo fare?”
 
Osamu guardò il contenuto della terrina con sguardo professionale. “Puoi smettere.” Stoppò il video e prese la ciotola. “Cazzo se sei veloce, la pallavolo fa bene alla maionese.”
 
“Non c’è un altro metodo?” Domandò Sakusa.
 
“Di che ti lamenti? Non sei neanche sudato.” No, lui non sudava facilmente senza motivo e questo era decisamente niente, ma farlo con quel caldo era stancante. “Si può fare con il frullatore a immersione o con le fruste elettriche, ma non davanti ai clienti. Perderei di credibilità.” E si girò per prendere qualcosa.
 
In meno di un attimo si ritrovò con due piatti caldi tra le mani e non poteva spiegare assolutamente come fossero arrivati lì. Ringraziava solo anni di riflesso incondizionato che lo avevano allenato per ogni evenienza, altrimenti si sarebbe dovuto mettere a pulire i pezzi di porcellana per terra. “Sono del tavolo tre.” Lo informò Osamu sbrigativo. “Non insultare nessuno e fai un sorriso, non ti è morto il gatto.”
 
“Non lo sai.” Mormorò a voce bassa. Osamu lo sentì comunque e ridacchiò. “Continuiamo dopo la conversazione.”
 
Il tavolo tre era il tavolo delle ragazze. Erano tutte girate verso Osamu, ammirandone le spalle ampie e la vita stretta. Erano tutte parole loro, sembravano non rendersi conto del volume della loro voce. Il sorriso compiaciuto di Osamu rendeva ovvio che i complimenti erano arrivati anche alle sue orecchie. Ora capiva di più lo spettacolo della maionese, ma non lo avrebbe accettato così facilmente.
 
Non pensava seriamente che la vanità fosse uno dei punti in comune con il suo gemello, ma ad essere sincero non ne era molto stupito: Osamu idolatrava il suo cibo come Atsumu faceva con le sue alzate, era stato forse troppo di parte per non notarlo prima.
 
Poggiò i piatti al centro del tavolo con mano esperta, rendendo il più agevole possibile la presa sulla varietà di onigiri ordinati. “Ecco il vostro ordine.” Mormorò, notando che non si erano accorte della sua presenza. Tre paia di occhi slittarono di scatto su di lui in sincrono. Era un po’ inquietante. “Avete bisogno di altro?”
 
“Sì, un’informazione.” Domandò la ragazza alla sua destra, lo sguardo furbo sotto le ciglia. “Osamu-san è già preso?”
 
“Yukiko!” La rimproverò la sua amica, rossa in faccia, dandole uno schiaffo sul braccio con forza decisamente mascolina a dispetto dell’aspetto delicato. Sicuramente l’informazione era per lei, la compagna aveva solo la faccia tosta adeguata per porre una domanda del genere.
 
“Temo sia meglio chiederlo direttamente a lui.” Non si sarebbe mai, mai, immischiato in queste cose. Non per morale o altro, alimentare la nuvola di mistero riguardo lo status sentimentale di Osamu era un ottimo modo per passare il tempo. Aveva promesso di impegnarsi a rendere la vita del suo capo più difficile che poteva da quando aveva accettato di accogliere come ospite fisso Motoya e lo aveva costretto a servirlo nonostante il suo rifiuto categorico. Motoya era stato un incubo. Suna lo aveva preso in giro. Osamu avrebbe pagato.
 
La ragazza fece il broncio. Poi stirò le labbra lucide in un sorriso. “E tu invece?” Chiese con voce morbida. “Hai qualcuna da sbattere come quelle uova?”
 
E questo decisamente non se lo aspettava.
 
Sentì le sue amiche ridacchiare, lui era un po’ troppo sorpreso per fare di più che battere le palpebre un paio di volte e domandare un “Mi scusi?” con voce così gelida da far correre a gambe levate giocatori con una massa e un’altezza decisamente superiore.
 
La ragazza non sembrò impressionata, anzi. Si sporse sul tavolo con le spalle strette, la scollatura in mostra. “Oh, puoi darmi del tu.” Disse piegando la testa di lato per scoprire la curva del collo. “Più volte, se ti va.” Mormorò suadente.
 
“Sakusa, c’è il tavolo quattro da servire.” Lo richiamò Osamu
 
Grato della scappatoia, si defilò più veloce della luce arrivando al bancone con passo svelto. “Non farmi più andare là.”
 
“Hai rimorchiato?” Domandò Osamu con un sorriso pigro, guardando il gruppetto oltre la sua spalla fiondarsi sugli onigiri con vigore. Molestare la gente metteva sempre un certo appetito. “Che dirà la tua ragazza?”
 
“La mia cosa?” Chiese con voce atona. E non era un ‘cosa’ da ‘non ho capito bene cosa hai detto, potresti ripeterlo per favore?’ ma più da ‘di cosa stracazzo stai parlando???’. Con Sakusa la differenza era sottile, ma dopo mesi Osamu poteva vantarsi di riuscire a riconoscerne la sfumatura nonostante la mancanza di inflessione.
 
Quindi, spostò lo sguardo su di lui aggrottando le sopracciglia. “Non hai una ragazza?”
 
“No.” Si guardò intorno alla ricerca dei piatti. “Cosa devo portare al quattro?”
 
Osamu sbatté le palpebre. “Oh, niente, ti vedevo a disagio e ho pensato di salvarti.” Era in momenti come questi che lavorare con Miya Osamu era una cosa bellissima. Certo, se avesse comprato un climatizzatore sarebbe stato anche meglio. Decise di essere diretto.
 
“Devi parlare con i proprietari per installare un condizionatore.” Lo informò deciso. “Sabato ci studiamo il bilancio e vediamo se riusciamo a ritagliare qualcosa per ogni evenienza, ma sono spese che devono coprire loro. Molti tuoi clienti sono anziani e decisamente non vuoi portarli alla tomba prima del previsto, non farebbe bene all’attività.”
 
“Era questo quello che volevi prima, quindi.” Osamu ridacchiò. “Dimmelo subito la prossima volta, stasera faccio una chiamata. Ora vai a controllare Ojiisan, sta borbottando dietro il televisore da un po’ troppo tempo.”
 
Ojiisan doveva essere il signore della telenovela. Si avvicinò cauto cercando di non farsi notare altrimenti lo avrebbe catturato per parlare. Non era irrispettoso, davvero, solo non voleva parlare. Semplice.
 
Constatando che era in perfetta forma, a giudicare dagli improperi sapientemente fantasiosi che gli uscivano di bocca verso un tizio con la faccia da orango in tv, non fece in tempo ad allontanarsi che venne fermato dalla sua voce rauca. “Sakusa-kun, vieni a farmi compagnia. Aiutami a capire se Kyung-Soon ha dato il benservito al biondino con la bocca larga.” Borbottò, adocchiandolo da sotto un sopracciglio cespuglioso.
 
Preferirei infilzarmi l’occhio con la tua bacchetta usata, pensò di istinto. “Non posso, devo lavorare.” Rispose invece con voce professionale. Buttò un’occhiata al tavolo e scoprì che l’acqua era terminata. Si avvicinò afferrando la brocca e una mano rugosa lo prese per il polso. Chiuse un attimo gli occhi, cercando di non rabbrividire. C’era bisogno di toccarlo? Seriamente?
 
Dopo alcuni secondo, quando fu sicuro che la voce avrebbe collaborato, chiese. “Posso esserle utile?” Lasciami andare, devo mettere la mano nell’acido.
 
“Sakusa-kun, portami una birra.” Lo sguardo acquoso dell’uomo non accettava repliche. Era un peccato, quindi, che sarebbe corso incontro ad una grossa delusione. “Sua moglie non sarebbe d’accordo. Le porto altra acqua.”
 
La presa si fece più forte. “Se non glielo dici non lo saprà. Vorrei una Asahi bella fresca.”
 
“Mi lasci il braccio.” Sibilò con calma, guardando quella mano solo all’apparenza fragile. Erano le mani di chi aveva lavorato pesante per anni, mani di un certo spessore, e se voleva mantenerle ancora per un po’ era meglio che facesse un passo indietro e le mettesse in tasca o dove gli pareva, ma lontane da lui.
 
“Ojiisan, non cercare di corrompere Sakusa-kun!” Osamu li guardò con un sorriso furbo, valutando velocemente il livello di pazienza in rapido esaurimento di Sakusa, l’occhio scintillante di malizia. “Oltre al fatto che non ci riuscirai mai, e lo dico per esperienza, avvertirò Obaasan e saranno venti minuti spiacevoli per tutti. Che ne dici?”
 
“Al diavolo, voi e lei. Portami la dannata acqua e voglio tre onigiri con tonno e maionese.”
 
“Uno. E ti offro altri edamame.”
 
“Quello e voglio che liberi Sakusa-kun per cinque minuti, ha la faccia di uno a cui può piacere questa robaccia.” Borbottò indicando la televisione con un pollice storto.
 
Sentendosi preso in causa, Sakusa si girò verso Osamu spalancando leggermente gli occhi e scuotendo quasi impercettibilmente la testa, una muta richiesta di essere lasciato in pace.
 
Osamu, essendo un Miya e quindi geneticamente rompicoglioni, la vide apertamente come un’occasione per dargli sui nervi in assenza del fratello. “Andata!” Accettò con un ghigno. “Però non devi dargli il tormento, se vuoi qualcosa urlamelo e basta.”
 
E fu così che, trentacinque minuti dopo, Atsumu lo trovò svaccato su una sedia a commentare la stupidità di una tizia con i capelli scuri e la faccia a punta che singhiozzava in modo molto poco credibile. “Perché diavolo ha lasciato andare il pelato?” Lo sentì borbottare, arraffando un umeboshi da dentro un barattolo e sgranocchiandolo, guardando la televisione con la stessa concentrazione malata che era abituato a vedergli in faccia durante una partita di pallavolo. “È un bastardo, avrebbe dovuto gonfiarlo di botte.”
 
“È il fratello gemello segreto.” Gli spiegò Ojiisan con fare saputo. La testa di Sakusa scattò fulminea verso di lui. “Noooo.” Esalò stupito, spalancando gli occhi. “Non ci credo.”
 
Atsumu guardò Osamu che riprendeva il tutto con il cellulare con l’aria estatica di chi ha trovato dieci milioni di yen dentro il cassetto del proprio comodino e chiese sconvolto. “Che cazzo sta succedendo?”  
 
Osamu continuò a girare il video esaltato, aggiustando la messa a fuoco con perizia consumata. “Qualcosa di meraviglioso.”
 
 
*
 
 
“Ok, quindi a quanto pare la mia PR sta venendo qui.”
 
Era una storia divertente, se ci pensava bene. Certo, non aveva capito cosa stesse succedendo per circa tre quarti della conversazione con l’allenatore Foster, ma alla fine il succo della questione era che aveva bisogno di un PR manager. E di uno bravo, se aveva letto bene tra le righe.
 
Lo offendeva il fatto che pensavano potesse creare casini solo respirando, fino a quel momento era stato nel suo comportamento migliore, non gli sembrava proprio che dovesse essere tenuto al guinzaglio come un fottuto cane senza un briciolo di educazione: non avrebbe alzato la gamba e fatto pipì sui pantaloni della federazione pallavolistica giapponese, dovevano rilassarsi tutti quanti!
 
Tuttavia, come la maggior parte delle cose riguardanti il mondo della pallavolo professionistica di cui doveva ancora imparare i meccanismi, decise di far contento Foster e ammise che sì, allora, era vero, doveva essere tenuto al guinzaglio. Qualunque cosa lo facesse dormire la notte andava bene.
 
Foster quindi, con quel suo sorriso tipicamente americano, gli piazzò davanti quindici curriculum e gli ordinò di scegliere. Fu tutto molto veloce, molto semplice. Gli diede un paio di consigli, i suoi compagni lo aiutarono a scremare quell’enormità di informazioni con una scioltezza dettata dall’esperienza e il suo capitano lo indirizzò verso Fukuda Tomoko, scompigliandogli i capelli e dicendogli che era orgoglioso di lui.
 
“La tua cosa?” Domandò Osamu ascoltandolo con un orecchio solo, cercando di non bruciare la carne sulla piastra e di sfilettare il pesce contemporaneamente, il tutto mentre buttava un occhio sui clienti per vedere se avevano bisogno di qualcosa. Sakusa lo aveva già avvertito che quel giorno sarebbe arrivato in ritardo per problemi dell’ultimo secondo, problemi non dipesi da lui a giudicare dal tono omicida, ma non si aspettava tutte quelle persone. Ci mancava solo suo fratello a complicargli la vita.
 
“La mia PR manager.”
 
“Da quando ne hai una?” Prese la pinza e mise la carne deliziosamente abbrustolita su un piatto. “Perché ne hai una?”
 
“Cazzo se lo so. C’è un posto libero?”
 
“Guardati attorno coglione.” Gli abbaiò contro. “Mi dici le peggio stronzate e questo no.”
 
“Samu, calmati, qual è il problema?”
 
“Perché non mi hai avvisato prima? Ti potevo riservare un posto, questa è una cosa importante! Non so subito se sarà una giornata piena o no!” Spense la vaporiera e la aprì, controllando il riso con occhio allenato. “Se vuoi tranquillità c’è lo studio. È piccolo, ma che ti devo dire, sei un deficiente, ti becchi quello che c’è.”
 
“Oh, non preoccuparti, davvero. In caso stiamo qua al bancone.” Cercò di placarlo Atsumu, buttando comunque un occhio ai tavoli. “Guarda, ce n’è uno libero là dietro. Mi pianto là.”
 
“Sai almeno che aspetto ha?”
 
Atsumu si grattò la testa. “Più o meno? Cioè, ho visto la foto sul curriculum, quanto potrà essere diversa?”
 
Scoprì che le foto sui curricula erano bugie sfacciate.
 
Fukuda Tomoko era una ragazza di circa trent’anni alta mezzo metro e con lo sguardo più lungo e acuto che avesse mai avvertito addosso su un’espressione ingannevolmente zuccherosa. Okay, no, non era alta mezzo metro ma era bassa. Tanto bassa. Li separavano tipo quaranta centimetri, a voler essere gentili.
 
Quando entrò, nella sua adorabile coda di cavallo e una mise neanche troppo pretenziosa, di lei riconobbe solo il sorriso sul volto morbido. Subito dietro aveva Omi, che nel suo metro e novanta era comicamente enorme, e che filò di corsa a mettersi la divisa con un cenno a Osamu, vagando con gli occhi nel locale per fare il punto della situazione prima di essere inghiottito dal reparto riservato al personale (e a lui, perché andava a letto con il capo. Oddio, no, non in quel modo, nel senso che dormiva con lui. Cioè abitavano nella stessa casa. Che brutta cosa dover spiegare roba del genere.)
 
Quindi, tornando indietro, entrò Fukuda Tomoko e con un sorriso si fece strada verso Osamu, che la indirizzò da lui indicandolo con il dito.
 
La foto di lei che aveva visto ritraeva una tizia con la faccia truccata e i capelli a caschetto. La ragazza che aveva davanti aveva un viso acqua e sapone. Lo salutò con un inchino aggraziato e cominciò a riempirlo di complimenti. Aveva la voce dolce. Tanto dolce. Sembrava una quindicenne.
 
“Quindi, Miya-san …”
 
“Fukuda-san, ti prego, Atsumu va bene. O Tsumu.” La bloccò ridacchiando. “Il tizio che cucina è il mio gemello e, come ha detto qualcuno qualche tempo fa, Miya-san  è nostro padre. Dovremmo stare a contatto parecchio, almeno su di me perdiamo le formalità.”
 
La vide battere le palpebre un paio volte e accettare tranquillamente. “Ok, Atsumu. Abbandoniamo ogni cerimonia, sono Tomoko, o chiamami come preferisci, e chiedo solo una cosa.” Lo guardò fisso negli occhi e risucchiò tutta la sua attenzione. “Non fare cazzate.”
 
C’era una sorta di contraddizione malata dentro di lui in quel momento. Da una parte voleva rimproverarla per quelle parole, perché davvero aveva l’aspetto di una di una ragazzina delle medie ed era inquietante, ma dall’altra, quella razionale, quella che gli ricordava chi aveva veramente davanti, ci restò secco.
 
“So che sei giovane,” Continuò lei con un sorriso leggero sulle labbra, sapendo esattamente cosa stava succedendo nella testa del suo cliente in quel momento. “so che alcune cose ti sembreranno normali, ma non lo sono. Non mettere incinta nessuno se non ne sei convinto o se non ne avete parlato prima, altrimenti sarà un dolore per me cercare di appianare le acque e proteggerti e mi premurerò che non succeda più staccandoti le palle personalmente.”
 
Prese la brocca dell’acqua e se ne versò un bicchiere. “Non rispondere male ai giornalisti. Metti una facciata, fai un sorriso finto, glissa quando non ti piace la domanda o fai finta di non aver sentito ma per ogni rispostaccia ci sarà un problema stupido e inutile che diventerà valanga e non lo vogliamo nessuno dei due, fidati.”
 
Prese poi un piccolo sorso. “E io ci sono per ogni problema. Non sono la tua psicologa, se ne hai bisogno ti metterò in contatto con qualcuno bravo, ma se vuoi consigli, se vuoi parlare, fallo. Perché se scopro che non lo hai fatto e hai invece scelto di pubblicare un video di te che ti masturbi per attirare l’attenzione ti farò rimpiangere di essere nato.”
 
“Scusa la domanda, ma con chi hai lavorato fino ad ora?” C’era da dire che Atsumu non aveva molti filtri quando era sconvolto. Ed in quel momento era decisamente sconvolto. “Davvero, che cazzo.”
 
“Quindi tuo fratello ha questo ristorante. È carino.” Cinguettò quella sottospecie di Satana in gonnella guardandosi attorno. “C’è solo lui?”
 
“Omi sta arrivando, è uscito ora.” La informò destabilizzato.
 
Omi-kun, proprio come aveva detto, arraffò un menù e lo portò al loro tavolo. “Mi scusi il ritardo, questo è il menù, fatemi sapere quando siete pronti per ordinare.” Non ascoltò nemmeno il ringraziamento di Tomoko che se ne andò velocemente, richiamato a gran voce da Osamu.
 
Era veramente stanco, lo poteva vedere chiaramente. Non gli facevano bene quelle giornate piene ogni singolo giorno, prima o poi avrebbero dovuto raccoglierlo svenuto da qualche parte. Aveva le spalle tese, la schiena tirata e i ricci quel giorno andavano in ogni direzione. Portava la mascherina personalizzata con il logo di Onigiri Miya e i guanti neri e questo era un’enorme insegna lampeggiante al neon sul suo disagio interiore: aveva passato una giornata di merda e non era ancora finita.
 
Gli aveva visto anche delle occhiaie profonde e la cosa non gli piaceva per niente. Si annotò di chiedergli quanto stesse dormendo o se stesse riposando bene, preparandosi mentalmente a risposte al vetriolo che nascondevano non più tanto bene come prima verità scomode.
 
Stirò le labbra in una smorfia e riportò lo sguardo su Tomoko, aspettandosi di vederla assorta nel menù. Invece, la sua PR nuova di zecca lo stava studiando con lo sguardo stretto di valutazione.
 
Fu una breve analisi. Atsumu avvertì un brivido gelido lungo la spina dorsale nel momento in cui la bocca di Tomoko si stirò in un sorriso comprensivo. “Vedo che non devo preoccuparmi per gravidanze indesiderate.” Mormorò inclinando la testa.
 
“Oh, no, vado anche con le donne.” La informò con un tatto esemplare. Poi, con tutta l’eloquenza che poteva vantare, continuò imperterrito. “Cioè, sto attento e non ho intenzione di avere bambini ma, ecco, sì, vado con le donne. Non solo con gli uomini. Anche con le donne.”
 
“Sei a disagio?”
 
“Disagio di cosa?” Atsumu ridacchiò forzatamente, spostandosi sulla sedia in modo molto poco naturale. Tomoko lo giudicò. “Non sai recitare, non provarci nemmeno.”
 
“Sono bi, non sono a disagio. Non so dove vuoi andare a parare.”
 
“Ti piace il cameriere.” Dio, quella donna era terrificante. “Sei a disagio per quello, non per la tua sessualità.”
 
“Non è un cameriere.” Lei lo guardò confusa. “Aspetta, sì, è il cameriere, ma non è solo un cameriere, capito?”
 
“Immagino.” No, la sua faccia diceva che non immaginava per niente. “Fa anche altre cose? Come lo hai chiamato? Omi?”
 
“Senti, se conosci me conosci lui.”
 
“Conosco te perché ti ho seguito da quando sei entrato nel radar del professionismo. Eri carino con l’uniforme dell’Inarizaki.” Sorrise maliziosa. Atsumu scelse di soprassedere per il bene della sua sanità mentale.
 
“Beh, Omi è Sakusa Kiyoomi. Di Itachiyama.”
 
Tomoko rimase bloccata per un lungo secondo, guardandolo curiosa come se gli fossero spuntate le antenne in testa. Aggrottò le sopracciglia e si girò sulla sedia, il braccio poggiato allo schienale e l’attenzione su Omi che scattava da una parte all’altra del locale. “Sakusa Kiyoomi? Quel Sakusa Kiyoomi? Uno dei primi tre assi del paese un po' di anni fa?”
 
“L’unico e il solo.” Si beccò un’occhiata calcolatrice.
 
“Che ci fa qua nel ristorante di tuo fratello e non nel circuito professionistico?”
 
“Ha scelto l’università.” Tomoko aprì leggermente le labbra pensosa, ma alla fine annuì. “Beh, ha senso.”
 
“Davvero? Spiegalo anche a me, sono mesi che cerco di capire perché ha fatto questa stronzata.” Bofonchiò Atsumu cominciando a giocherellare con il bicchiere, uno sguardo torvo sulla figura di Sakusa.
 
Per tutta risposta, Tomoko gli sorrise come avrebbe fatto ad un bambino gorgogliante nel passeggino. “Sei adorabile! È la tua prima cotta?”
 
“Dio, come cazzo siamo arrivati a parlare di questo e come faccio a fartelo dimenticare?” Sibilò Atsumu portandosi le mani alle tempie e strizzando le palpebre.
 
“Andiamo, è buono che sappia da subito queste genere di cose.” Guardò il menù con sguardo curioso. “Uno yaki onigiri suona veramente bene in questo momento.” Mormorò. “Mi piace col salmone e ci voglio il sesamo dentro.”
 
“Deve essere reciproco? Posso sapere gli affari tuoi?”
 
“Assolutamente no, io sono la tua ombra. Non ti interessano gli affari miei.”
 
“E vedi, qua non siamo d’accordo.” Atsumu finalmente sfoderò il suo ghigno. “Dimmi qualcosa di te, non è giusto che mi hai scoperchiato in mezzo secondo e io non so nemmeno, che ne so, se ti piacciono le gelatine di frutta.”
 
“Atsumu, tesoro, chiunque con un pezzo di cervello può notare quello che ho visto io. Non sei sottile.”
 
“E tu non sei fidanzata.” Tomoko alzò lo sguardo dal menù, guardandolo con gli occhi minacciosamente assottigliati. “Non cerchi nemmeno qualcuno, posso vederlo, sei presa dal lavoro. Ami l’inverno, visto come non siamo nemmeno a ottobre e sei già vestita come se stessi in uno chalet in montagna. E hai un cane.”
 
“Ah, sì?”
 
“Sì. Ci sono dei peli sul maglione che non sei riuscita a togliere.” E le indicò la manica con fare compiaciuto. “Se vuoi Omi ha sempre dietro quel rullo adesivo per i vestiti, può prestartelo.”
 
Tomoko sorrise. “Hai visto troppo Sherlock.”
 
“Decisamente, ho passato tipo quattro mesi a cercare di dedurre cose fino a che Samu non si è rotto e mi ha chiuso a chiave nel magazzino.” Le raccontò facendola scoppiare a ridere. “Non è stata una bella cosa, mi ha riaperto tipo venti ore dopo.”
 
“Erano venti minuti e stavi singhiozzando pregando che qualcuno ti liberasse.” Omi arrivò in quel momento con un blocco e una penna in mano. Sembrava un po’ più calmo di prima.
 
“Erano almeno tre ore. E faceva molto freddo.”
 
“Era aprile, non faceva per niente freddo.” Specificò, guardando Tomoko. “Siete pronti per ordinare?”
 
“Oh si, vorrei due yaki onigiri con salmone e sesamo, per favore.” Omi annuì e cominciò a scrivere velocemente.
 
“Io il solito. Digli a Samu di non essere tirchio con il tonno.”
 
“Diglielo tu.” Bofonchiò. “Da bere?”
 
“L’acqua andrà benissimo, devo guidare e basta un sorso di alcool che comincio a dire stupidaggini.”
 
“Lo vedi? Sapere queste cose mi fa bene, ora so che devo darti da bere se combino qualcosa.”
 
Tomoko notò che l’occhio destro di Sakusa scattò leggermente, come un piccolo tic, ma fu una cosa talmente fugace che avrebbe potuto pensare di esserselo immaginato. Ovviamente era una professionista, lei non si immaginava nulla.
 
“Atsumu, non hai bisogno di farmi ubriacare per farmi fare quello che vuoi.” Miagolò, lasciandolo leggermente confuso.
 
“Perfetto, vi lascio soli, arrivo tra un po’ con gli ordini.” E Sakusa se ne andò via veloce, una falcata impressionante.
 
Tomoko, soddisfatta, prese un altro sorso d’acqua. “Che cos’era quello?” Domandò Atsumu con una voce più dura, più seria. Lo valutò con un’occhiata. Si era irrigidito, constatò. Si era appiattito sullo schienale della sedia, allontanandosi quasi inconsciamente da lei. Le piaceva, decise. Era un bravo ragazzo con dei principi solidi. Avrebbero lavorato bene insieme.
 
“Rilassati, manichino, stavo cercando di capire una cosa.” Lo tranquillizzò, poggiando il bicchiere sul tavolo.
 
“E cosa?”
 
Girò la testa e buttò un occhio su Sakusa. Stava parlando con il fratello di Atsumu passandogli la comanda, lo sguardo un po’ più cupo.
 
“Sei piuttosto fortunato.” Disse semplicemente. “Non sei messo così male come credi.”
 
“In che senso?”
 
Tomoko valutò leggermente la situazione. No, non era compito suo scoperchiare quel vaso particolare in quel preciso momento. Quei due idioti, perché poteva aver scambiato mezza parola con entrambi ma aveva il radar per gli idioti, se la sarebbero cavata benissimo da soli. Quindi liquidò velocemente la domanda. “Parliamo di cose serie.” Cominciò con fare professionale, raddrizzando la schiena e ottenendo l’attenzione di Atsumu. “Sai perché ti hanno fatto scegliere un PR manager?”
 
Atsumu batté le palpebre. “No? Oddio, penso per tenermi d’occhio.”
 
“Quello sì, ma perché? Te lo sei chiesto?”
 
Sì, lo aveva fatto. Non era arrivato ad una risposta soddisfacente. “Per non fare casini?” Provò ad indovinare.
 
Tomoko sospirò pesantemente. Poi però gli sorrise. Era un sorriso grande, luminoso. “Sei in lizza per giocare da titolare.” Gli rivelò. Atsumu, per tutta risposta, aprì la bocca in modo molto poco elegante. Tomoko ridacchiò. “Diventerai decisamente pubblico d’ora in poi, quindi vogliono qualcuno che ti guidi in questi primi passi e ti accompagni quando capirai come muoverti. Il tuo compito sarà giocare al massimo delle tue capacità, il mio sarà proteggerti da scandali, mantenere la tua reputazione ottimale e tutte quelle cose a contatto con il mondo esterno che potrebbero scoppiarti in mano.”
 
“Aspetta, giocherò in partita?”
 
La vide annuire con aria divertita. “Sei eccitato?”
 
“Sei seria? Non è uno scherzo?” Tomoko scosse la testa, tranquillizzandolo. “Ho vinto quella scommessa di merda!” Atsumu si alzò di scatto e, lasciandola basita, cominciò a urlare. “Samu! Omi! Chiamate quei due sfigati di Suna e Komori, sto per giocare in prima corda!”
 
“Siediti, perdente, spaventi i clienti!” Lo sgridò suo fratello, ma le persone nel ristorante, che ormai lo conoscevano, cominciarono a fischiare e applaudire, urlando complimenti e facendo cori da stadio.
 
Tomoko si guardò intorno stupita, ridacchiando per tutto quel baccano e quella dimostrazione di affetto così aperta. Poi poggiò lo sguardo su Sakusa, che guardava Atsumu con un orgoglio e un sentimento così crudo che le fece provare un fiotto di invidia.
 
Atsumu lo guardava di rimando con le braccia alzate, un segno di vittoria per un gradino che per lui doveva essere stato uno strapiombo, le guance rosee di soddisfazione, un sorriso che gli divideva la faccia in due e gli occhi luminosi. Non avvertiva nessun altro, chiedeva solo la sua attenzione e la riceveva con un trasporto non pari, perché a differenza sua Sakusa era un ottimo attore, ma comunque decisamente ovvia.
 
Come potevano non accorgersi di nulla? Era là da meno di mezz’ora ed era così palese.
 
Vide Osamu guardare tra loro due e scuotere la testa, continuando ad assemblare e modellare onigiri, non riuscendo a nascondere la felicità per suo fratello.
 
Mmmh, sembrava proprio che avesse appena trovato qualcun altro con cui chiacchierare.
 
 
*
 
 
 “Quindi tornerai a Tokyo per Natale.” Constatò Atsumu guardandolo battere sulla tastiera del portatile.
 
“Già.” Mormorò Sakusa sentendosi gli occhi bruciare. Aprì il borsone e tirò fuori la custodia dei suoi occhiali per pc. Avevano le lenti gialle e la montatura nera pesante, servivano per riposare gli occhi quando stava troppe ore davanti al computer ma doveva continuare a lavorare.
 
Li inforcò con un sospiro e continuò a studiare i numeri nel file delle scorte del magazzino.
 
Atsumu lo fissò come se gli fosse spuntato un terzo occhio. “Da quando porti gli occhiali?”
 
“Non li porto.” Mormorò pensoso, segnando su un file note di controllare i pacchi di nori.
 
“Omi, mi sta bene questa tua fissa di prendermi per il culo in continuazione, davvero, fa parte di te, ma ce li hai addosso adesso.”
 
Sakusa batté le palpebre e finalmente si girò a guardarlo. “Cosa?”
 
Atsumu stavolta si era portato dietro una sdraietta richiudibile, di quelle da spiaggia con lo schienale alto. Dove l’aveva trovata a dicembre era un mistero, ma era particolarmente abile a far comparire cose fuori stagione. Ci stava svaccato sopra come se fosse stata lì da tutta la vita, gli mancava un mojito in mano e, se non fosse stato per il maglione di lana, con la sua carnagione dorata sembrava potesse materializzarsi una spiaggia in qualsiasi momento.
 
“Gli occhiali, Omi.” Gli spiegò con un sorriso. Sapeva che Sakusa aveva un atteggiamento auto isolante quando era concentrato, lo divertiva immensamente l’espressione sperduta che metteva su quando ritornava nel mondo dei vivi. “Li stai indossando ora.”
 
“Ah, questi. Non hanno gradazione.” Spiegò tranquillamente, notando accigliato una macchia sulla lente destra. Li tolse dal naso con una smorfia. “Servono a non stressare l’occhio per lo schermo del pc.” Cercò nella custodia una pezzetta morbida e cominciò a pulirli, la fronte aggrottata.
 
“Sono una figata pazzesca!” Esclamò Atsumu rapito. “Sembri un giocatore di poker particolarmente cattivo, uno di quelli che se perdi e non puoi pagare ti fanno spezzare le rotule. Ci sono solo gialli?”
 
Omi valutò la pulizia della lente con fare concentrato. “No, ci sono di altri colori. Anche trasparenti.”
 
“E perché li hai presi gialli?”
 
“Quando li ho comprati non lo sapevo.” Spiegò, strofinando anche la lente sinistra. “Altrimenti li avrei presi sicuramente di un colore meno offensivo.”
 
Osamu quel pomeriggio non c’era. Aveva preso la macchina di Atsumu, una citycar usata che si era comprato il mese scorso per festeggiare la prima vittoria in cui lui era titolare e perché si era rotto ogni volta di prendere il treno per andare a casa o tornare a Amagasaki, e se ne era andato da Kita-san a parlare di affari. Quindi erano solo loro due.
 
Atsumu si accigliò. Sooooolo loro due.
 
Poggiando la testa sul manicotto della sdraia si permise di guardare tranquillamente Omi. Doveva farsi un taglio di capelli: erano cresciuti e, benché i riccioli lucidi fossero attraenti, tendevano a coprirgli la faccia. Era una bella faccia, quella, perché nasconderla?
 
Sakusa inspirò inconsciamente e mosse le labbra leggermente, come a mimare ciò che stava leggendo.
 
Era una bocca piccola, il labbro inferiore era più grassoccio di quello superiore. Aveva l’abitudine di sporgerlo, di rosicchiarlo quando ragionava troppo, a farlo rosso con gli incisivi. Però sembrava morbido. Metteva il burrocacao? Conoscendolo era probabile. Com’è che non l’aveva mai visto?
 
“Cosa stai fissando?”
 
Aveva le ciglia lunghe, sbattevano sulle lenti. Erano ciglia che ti aspetteresti su un viso femminile, non su un atleta di quasi due metri e due spalle che parlavano da sole.
 
“Miya? Cosa guardi?”
 
Atsumu appiattì le labbra. “Nulla.” Rispose. Non stava guardando nulla. “Quindi mi dicevi che torni a Tokyo per Natale.”
 
“E Capodanno.” Omi si massaggiò gli occhi da dietro le lenti con un gemito sofferente. “Osamu ha assunto un altro aiutante, inizierà lunedì.”
 
Ah, sì. Quello che sembrava un cerbiatto appena nato con le gambe tremanti.
 
Come se sapesse a cosa stava pensando, Omi lo fulminò. “Non dargli il tormento. È timido, ha bisogno del suo tempo.”
 
“Ma mi annoierò!” Atsumu fece il broncio. “Tu non ci sei fino a gennaio, come faccio a passare il tempo?”
 
“Prova l’uncinetto e non rompere l’anima alla gente perbene.” Sibilò salvando il file Excel.
 
“Ma sei l’unico con cui mi diverto a parlare!”
 
“Mettiti davanti uno specchio, prima o poi comincerà ad insultarti anche lui.”
 
“Devi per forza andare?” Stavolta lo intendeva davvero. Si era abituato a trovare Omi ogni volta che entrava nel ristorante di suo fratello, avere davanti a sé tutti quei giorni in cui non lo poteva né sentire né vedere gli lasciava una strana agitazione alla bocca dello stomaco.
 
“È più di un anno che vedo i miei solo tramite Skype e Motoya è un infame bugiardo, ho il terrore di sapere cosa si inventerà se manco anche quest’anno.”
 
“Gli parlo io.” Sakusa gemette internamente. Motoya lo avrebbe visto come un modo per dargli ulteriore tormento, non se ne parlava nemmeno. E poi gli mancavano i suoi genitori, non era tornato nemmeno per l’estate.
 
“Sarà l’anno nuovo, ci saranno anche i miei nipoti.” Sorrise teneramente e Atsumu rimase un attimo incantato. “Stavolta ho dei regali veri per loro, non ho semplicemente messo in una busta discutibile dei calzini.”
 
“Che zio di merda.” Rise Atsumu e Omi nascose un sorriso scuotendo la testa. 
 
“Potrei raggiungerti a Tokyo.” Propose quindi. Seppe che aveva sbagliato quando lo vide arricciare il naso.
 
“Assolutamente no, come ti presenterei? Il gemello del mio capo?” Faceva un po’ male, ma non aveva tutti i torti.
 
“Non devi presentarmi. Posso fare una vacanza.”
 
“Pensa al campionato. Finito Capodanno devi ricominciare ad allenarti e dovete umiliare gli Adlers.”
 
Atsumu lo guardò stranito. “Omi-Omi, che cazzo dici? Non stravedevi per Ushijima?”
 
Sakusa spense il portatile e lo richiuse. “Wakatoshi è un grandissimo atleta e lo vedo come rivale.” Sporse però il labbro inferiore. Era adorabile. “Non è andata giù nemmeno a me la sua chiamata per la nazionale olimpionica, ma non sono un ragazzino come voi tre.” Borbottò, evitando di guardarlo in faccia.
 
“Vaffanculo, è stato un trauma.”
 
“Pensa al fatto che, se avessi scelto il professionismo, probabilmente quella chiamata sarebbe stata indirizzata a me.” E non era presunzione quella, era semplice constatazione, pura verità. Omi era un professionista a 360° anche adesso che era all’università, era praticamente perfetto. Effettivamente, la convocazione sarebbe stata sua senza alcun dubbio. “Non è stato il mio momento migliore, devo essere sincero.”
 
“Quindi sei umano anche tu.” Replicò sorridendo. “Fammi felice, quanto hai rosicato?”
 
Lo vide inumidirsi il labbro, mordendolo. “Motoya mi ha attaccato il telefono in faccia e io ho cominciato a prendere a pugni il cuscino.” Rivelò svelto, facendolo scoppiare a ridere. “Per questo dovete stracciarli, una mia soddisfazione personale.”
 
“È così egoista da parte tua!” Lo prese in giro. “Sfrutti il mio affetto per te in modo così sfacciato!”
 
“Da quando il tuo tormento è affetto?”
 
Da quando ho notato mesi fa che quegli occhi enormi che ti ritrovi non sono neri, ma di un verde così profondo da farmi girare la testa.
 
“Andiamo, so che ti piace.” Lo vide prendere il portatile e sistemarlo in una custodia per pc, togliersi gli occhiali e pulirli ulteriormente. Il tutto con quel labbro sporgente.
 
Cazzo, come faceva a lasciarlo andare per più di due giorni?
 
Atsumu aveva la lingua che spingeva la guancia e la bocca aperta di concentrazione mentre Omi organizzava il suo borsone. Lo faceva inconsciamente quando era concentrato, quando stava per prendere una decisione che avrebbe cambiato le sorti della partita.
 
“Dammi il tuo numero di cellulare.” Disse d’istinto, puntandolo come una volpe affamata.
 
Omi si prese il suo tempo per pulire la scrivania di suo fratello, limitandosi a scoccargli una singola occhiata laterale. Dopodiché domandò. “Perché?”
 
“Sarà il tuo regalo. Per me.”
 
“Non ho mai avuto intenzione di farti un regalo.”
 
Atsumu si sporse in avanti, mettendo le braccia sulle ginocchia con un ghigno. “Omi, sappiamo entrambi che è una bugia.”
 
“Non ho mai avuto intenzione di farti un regalo.” Ripeté con voce più dura.
 
“È tremendamente egoista da parte tua pretendere e non dare.” Lo informò alzandosi in piedi. In quella posizione doveva abbassare la testa perché Omi era rimasto seduto alla scrivania e quella differenza di altezza lo rendeva inconsciamente un po’ più sicuro. “Chiedi che stracci Ushiwaka e non ricambi nemmeno.”
 
“La tua richiesta è personale.”
 
“La tua è una richiesta personale.” Lo corresse. “La mia è un semplice numero di telefono.”
 
Omi leccò il labbro inferiore e ci affondò di nuovo gli incisivi, continuando a guardarlo negli occhi con quei pozzi scuri di sottobosco circondati dalle ciglia più lunghe che avesse mai visto. Dopodiché, prese il cappotto, il borsone e gli disse. “Le chiavi sono sulla scrivania, chiudi il locale quando te ne vai. Ci vediamo a gennaio.” E se ne andò.
 
Atsumu si morse l’interno della guancia e, quando sentì il suono doppio del campanello che avvertiva dell’aprirsi e chiudersi della porta, fece il giro e crollò sulla sedia girevole, i gomiti sulla scrivania e le mani a tirarsi indietro i capelli.
 
Non la sentiva come una sconfitta, stranamente. Ma quella sensazione fastidiosa nel petto doveva sparire prima che diventasse troppo aggressiva.
 
 
*
 
 
Atsumu capì perfettamente che si trattava di una causa persa e che avrebbe dovuto conviverci per chissà quanto tempo quando, il primo gennaio alle ore 00.01, il cellulare squillò con la suoneria non personalizzata.
 
Corrucciato, andò a vedere chi potesse trovare il tempo di rompere a quell’ora empia, non notando assolutamente la faccia compiaciuta di Osamu e l’espressione di chi la sapeva lunga di sua madre. Suo padre continuava a sorseggiare il suo tè davanti la televisione, mezzo addormentato e beatamente inconsapevole di tutto.
 
Sullo schermo c’era la notifica di un numero sconosciuto. La aprì e, nel momento in cui lesse, un sorriso enorme e decisamente tremulo minacciò di spaccargli in due la faccia. Si sentiva le guance rosse e la sensazione alla bocca dello stomaco si acuì, facendogli capire che non si trattava di indigestione ma che erano fottute farfalle.
 
 
Numero Sconosciuto
 
Ciao Miya. Auguri di Buon Anno.
 
 
 
 
 
Note
 
Sì, ragazzi, lo pubblico a San Valentino ma di San Valentino non c’è assolutamente nulla. C’è un po’ di romanticismo, se così vogliamo chiamarlo XD
 
Non so cosa vi aspettavate, se vi piace, se ve lo eravate immaginato così il secondo capitolo … è stata una bella lotta cercare di capire come volessi sistemare la storia, ma sicuramente è stata una sorpresa anche per me che il mio cervello mi sussurrasse sta roba strana.
 
Mi spiace per gli aggiornamenti lenti ma sono decisamente una lumaca io e non sono soddisfatta finché il file non mi si sovraccarica e mi minaccia di chiudersi e cancellare tutto come succede ogni singola volta, lo odio! O lui odia me, ormai è una faida che va avanti da un po’ di tempo XD
 
 Ancora una volta ringrazio tutti quelli con il pelo sullo stomaco che sono riusciti ad arrivare fino a qui!
 
Siete dei grandi e vi voglio bene!!!
 
Per qualsiasi appunto mi vogliate fare, per qualsiasi cavolata che ho scritto e che non corrisponde alla realtà, o anche solo per fare una chiacchierata su stronzate a caso (quelle mi vengono bene!), vi aspetto a braccia aperte!
 
Grazie a tutti per aver letto e buon San Valentino!
 
O, per chi come me è tristemente single e scarica la singletudine sulle fic, buona Festa dei Single domani! XD
 

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Capitolo 3
*** Anno 2 ***


Anno 2

Suna aprì gli occhi. Non totalmente, una striscia appena quasi del tutto coperta dalle ciglia folte, ma fu abbastanza da farlo gemere. Chi diavolo aveva lasciato le tapparelle mezze alzate? E perché quel maledetto raggio di luce doveva finirgli proprio in faccia?
 
Contrariato strizzò le palpebre, forte abbastanza da vedere lampi bianchi, arricciando il naso in completo disappunto. Non sapeva che ore erano e non voleva scoprirlo, era in vacanza per altri tre giorni e li voleva passare tutti a letto a scopare con il suo ragazzo. E mangiare roba buona cucinata dal suo ragazzo. E coccolarsi con il suo ragazzo, perché il periodo refrattario era una cosa reale e sicuramente sarebbero arrivati al punto in cui avrebbero pianto se chiunque di loro avesse proposto un altro round, quindi sì, non si sarebbe mosso da lì per tre ragioni solide.
 
Non aveva pensato al bagno, lo avrebbe risolto quando fosse sorto il problema. E non intendeva la doccia. Era una professionista lui, voleva puzzare e continuare a rotolarsi in mezzo a roba immonda, la doccia era estremamente sopravvalutata e lo avrebbe allontanato da Osamu per troppo tempo inutile, perché era una scatola di scarpe e non ci sarebbero entrati in due neanche a provarci. Lo diceva per esperienza.
 
No, non si sarebbe decisamente schiodato da quelle lenzuola putride. Ma doveva cambiare posizione perché non si sentiva più le mani sotto il cuscino e il sole lo stava sfidando.
 
Con fare rallentato, quindi, girò il busto e la testa dalla parte opposta, sistemandosi meglio. Il peso del braccio di Osamu sulla schiena lo schiacciava al materasso rendendo difficili parecchi movimenti, ma ci riuscì. Ora la luce era dritta sulla faccia di Samu e gli andava bene. Decisamente bene. Così poteva ammirarlo in tutto il suo splendore di barba mattutina e alito all’antrace.
 
Era davvero bello messo così a stella marina. Specie con il collo pieno segni. Aveva il viso rilassato, la bocca leggermente aperta e un filo di bava che si raggruppava in una pozza sul cuscino. Avrebbe dovuto fargli schifo, perché diamine, quel cuscino era il suo, si erano scambiati di posto tra i rotolamenti della sera prima, e invece no.
 
Cazzo, invece no. Era la cosa più carina che avesse mai visto ed era abbastanza auto consapevole da poter ammettere ad alta voce di avere qualche problema e decidere che non lo avrebbe risolto per niente al mondo.
 
La sera prima Samu non aveva nemmeno avuto modo di disfare la valigia che lo aveva afferrato per il giubbotto appena aveva varcato la porta di casa, lo aveva sbattuto sul letto, gli si era arrampicato sopra e non lo aveva nemmeno spogliato del tutto. Avevano avuto un rapporto urgente e disperato, lui lo aveva pregato come un condannato e Samu lo aveva accolto mordendogli le labbra e le spalle, scambiandosi baci affamati al sapore di sale e rame. Gli era mancato come l’aria ed era finalmente il momento di respirare di nuovo.
 
Dopo avevano rallentato, mangiando un boccone veloce e godendosi la vicinanza in maniera meno selvatica e più profonda, più morbida e consapevole, ma non erano riusciti a staccarsi gli occhi e le mani di dosso neanche per cinque minuti filati.
 
Non si toccavano fisicamente da due mesi. Non lo aveva sentito addosso, dentro, ovunque da circa sei. Era passato troppo, troppo tempo e la distanza pesava parecchio.
 
Avrebbe rivalutato le sue scelte professionistiche solo ed esclusivamente per poterlo bloccare da qualche parte e farlo suo quando poteva, per sentirlo raccontare della sua giornata sdraiato in posizioni strane sul divano, per guardarlo piangere per qualche film strappalacrime in televisione e prenderlo in giro impunemente mentre si soffiava il naso e lo mandava a quel paese, ma sapeva perfettamente che non avrebbe risolto nulla: non se lo sarebbe perdonato nel lungo periodo. E vivere di rimpianti significava non vivere per niente.
 
Ormai era riuscito anche a entrare in qualche partita da titolare, avrebbe aspettato la maledetta filiale di Onigiri Miya a Tokyo per potergli mettere un cazzo di anello al dito. Era pronto e infiocchettato in camera di Motoya da circa tre settimane, perché Samu aveva l’anormale capacità di trovare le cose senza realmente cercarle e quello era l’unico posto in cui non avrebbe messo piede. Sarebbe rimasto nascosto anche per anni, ma prima o poi sarebbe andato al legittimo proprietario, era una delle poche certezze della sua vita.
 
Con la mano libera gli toccò la punta del naso, lasciandosi dietro una sensazione fastidiosa. Aveva le dita congelate e Osamu era decisamente bollente, non ci avrebbe messo molto a svegliarlo.
 
Disegnò il ponte con tocco leggero, più volte, tracciando i bordi delle narici lentamente e risalendo sul setto più veloce, punteggiando le lentiggini sbiadite che poteva vedere solo da così vicino e che sarebbero risorte con i primi raggi caldi della primavera. Poi passò alle sopracciglia folte, nere, che avevano un serio bisogno di un intervento di pinzette. Studiò i peletti randagi che sporcavano la linea, ponderando di catturarlo più tardi e di divertirsi a staccarli alla radice come un estetista particolarmente sadico.
 
Saltando sulla bocca, cominciò a tracciare la forma delle labbra superiori perché sì, era cotto, ma ancora non si sarebbe avvicinato alla bava gocciolante. Aveva standard.
 
Osamu fece una smorfia, arricciò il naso, aggrottò le sopracciglia e terminò quella dimostrazione di fastidio con un forte rumore di risucchio. “Che schifo.” Ebbe il coraggio di mugugnare, le parole che uscivano tutte impastate le une alle altre. “La saliva è fredda.”
 
“Complimenti, sei riuscito ad ammazzare tutto l’ammazzabile.” Ridacchiò Suna portandogli una ciocca di capelli all’indietro con due dita.
 
“Perché sei sveglio a quest’ora?” Continuò Osamu senza inflessione, la testa ancora affondata nel cuscino e le palpebre ostinatamente chiuse. Sentì la mano sulla sua schiena arricciarsi, accarezzando la pelle  pigramente.
 
“Sai che ore sono?”
 
“No, ma non è l’ora giusta.” Schiacciò il naso contro il materasso, la fronte che si bagnava leggermente con la bava raggruppata sulla federa. Sembrava non gli importasse o che ancora non lo avvertisse. “Me lo sento, non è l’ora giusta.”
 
“Hai lasciato le tapparelle aperte.” Lo accusò Suna, tirandogli una piccola ciocca senza cattiveria.
 
“Non è vero.” Osamu aprì l’unico occhio visibile di mezzo millimetro. “Non mi hai dato il tempo di fare niente quando sono arrivato.”
 
“Non scaricare la tua inadempienza su di me, è di cattivo gusto.” Sogghignò Suna toccandogli un segno particolarmente rosso sul collo. Aveva bordi violacei e segni di denti, doveva far male. “Sembra che ti abbia sbranato ieri sera.”
 
“Dovresti vederti tu.” Lo informò Osamu, le dita su un punto tra le scapole che punse decisamente un po’ troppo. “Ho esagerato ma cazzo se eri buono.”
 
“Sono sempre buono.”
 
“Ovviamente.” Accettò, prendendogli la mano e portandosela alle labbra. “Dobbiamo farci una doccia.” Mormorò baciandogli pigramente il palmo.
 
“Non voglio alzarmi.” Decretò Rintarou, adocchiando la posizione esatta della pozza di bava e cercando di girarci attorno senza staccarsi da Osamu.
 
“Voglio farmi una doccia, mi sento schifoso.”
 
“No, non lo fai. Ho deciso che rimarremmo così per giorni.”
 
“E da quando quello che decidi per te si ripercuote anche su di me?” Osamu si stava lentamente svegliando del tutto. Gli occhi socchiusi brillanti di malizia e il sorriso lento che avvertiva contro la sua mano erano un ottimo indizio.
 
“Da quando non lo fa?”
 
“Quanto è vero.” Accettò semplicemente, la bocca sul polpastrello centrale ad inumidirlo con il respiro. “Ma devo comunque andare in bagno.”
 
“Ho una bottiglia di plastica qua vicino.” Lo informò Suna girandosi sul fianco in una posizione più comoda e organizzando il piumone in modo da non far entrare il freddo. “Potremo sopravvivere per secoli solo stando a letto. Bear Grylls sarà fiero di noi.”
 
“Dirò a Komori di non farti più vedere programmi di sopravvivenza, non fanno bene alla tua vita domestica.”
“Motoya ha cercato di accendere il fuoco dal nulla usando il collutorio, non mi affiderei a lui.”
 
Sentì Samu dire “Sono circondato da idioti.” tra le risate e la prese come una vittoria personale.
 
Lo stomaco brontolò e Suna si lamentò ad alta voce. “Traditore.” Sibilò, guardando male l’addome piatto.
 
“Hai fame.” Disse Osamu scostando il piumone e alzandosi dal letto. Venne ripreso per le spalle e buttato di nuovo giù sul materasso. “Rin, hai fame. Ho fame. Fammi alzare.”
 
“No.” Suna si fece serio e gli salì sopra, il sedere sulle gambe. “Non te ne vai. Chiama da asporto.”
 
“Mi dovrò comunque alzare anche solo per aprire la porta.” Cercò di farlo ragionare, massaggiandogli le cosce fino ai fianchi. “Dai, andiamo a lavarci. Mangiamo qualcosa, cambiamo le lenzuola perché penso siano diventate un’arma batteriologica e facciamo un altro giro tra la biancheria fresca.”
 
Vedendolo corrucciato, risalì con le mani sullo stomaco, su quegli addominali d’acciaio, segnando i solchi lentamente con un polpastrello. “E poi ricominciamo da capo. Che ne dici?” Con tre dita seguì lentamente il sentiero scuro che portava all’inguine, raschiando con le unghie sempre più giù, sentendo Rintarou sospirare un po’ più forte e cominciare a muoversi leggermente per seguire il tocco. “È più bello prenderti col profumo di pulito.”
 
“Continua così e ti ribalto io.” Disse Rin serio, le iridi verdi che cominciavano ad essere divorate dal nero della pupilla.
 
“Anche.” Osamu ghignò, capendo di avere la situazione in pugno. “Ma solo dopo aver bruciato questa roba. Non voglio prendere la scabbia.”
 
Passò la mano sulla parte più interna della piega che univa la coscia al tronco, lì dove sapeva che era particolarmente sensibile, e avvertì l’interesse cominciare a crescere. Venne fermato da una morsa ferrea sul polso e da Rin che ringhiava. “Va bene, cazzone, hai vinto. Facciamo la fottuta doccia e poi voglio che cucini tutto quello che voglio.”
 
“Era così difficile?”
 
“Sì.” Sibilò a denti stretti, scendendo da lui con scatti nervosi e dirigendosi verso il bagno con passo deciso.
 
“Non ti porti dietro i vestiti?” Domandò Osamu alzandosi sui gomiti.
 
“Perché perdere tempo?” Rispose Suna senza voltarsi. “Allora? Vogliamo provare a vedere se stavolta riusciamo a entrarci?”
 
“No, ancora mi fa male il gomito dall’ultima volta. Comincio a preparare la colazione.” Lo vide fare spallucce e chiudere la porta.
 
Osamu, con un sospiro appassionato, si alzò, mise i boxer della sera prima e si avviò in cucina dopo essersi dato una rinfrescata veloce in bagno ed essersi lavati i denti, mentre il vapore dell’acqua bollente cominciava ad uscire fuori dal box doccia appannando lo specchio e inumidendo le piastrelle.
 
Con un’occhiata vide l’orologio e si rese conto che l’ora della colazione era passata da un pezzo. Non si poteva neanche parlare di pranzo, era tardissimo.
 
I piatti erano quasi pronti quando Rin si decise a raggiungerlo, rosa di calore, i capelli puliti e vaporosi e profumato di agrumi. Fortunatamente aveva messo un paio di pantaloni e una maglietta larga, ma molto probabilmente l’idea di indossare la biancheria non lo aveva nemmeno sfiorato. Non si sarebbe certo lamentato.
 
“Motoya mi ha chiesto di mandargli una foto di Fury.” Lo sentì lagnarsi mentre si avvicinava alla credenza. “Ci credi? Quella cazzo di pianta è viva grazie a me e dice che non si fida.”
 
“Chi diavolo chiama una pianta Fury?” Chiese Osamu ridendo.
 
“È una pianta carnivora.” Spiegò Rin con un sorriso storto, prendendo due bicchieri dal ripiano in alto. “Dice che gli sta bene come nome. È cazzuta.” Era d’accordo con lui. Per essere sopravvissuta nonostante le cure di Motoya doveva avere un’anima d’acciaio.
 
“Quando torna? Dobbiamo decisamente fare la spesa per quando saremo in tre.”
 
“No, ha detto che rimane dai suoi fino alla fine delle vacanze.” Per non disturbarli e lasciarli liberi di godersi quei giorni insieme. Suna non era stato d’accordo, non avrebbero certo avuto problemi se fosse rimasto, anzi. Ma Motoya era stato irremovibile.
 
Osamu fece una smorfia, spadellando con perizia. “Cazzo, mi sento in colpa. È casa anche sua, questa, l’ho praticamente sfrattato.”
 
“Beh, attaccati al telefono e litigaci tu. A me non ha voluto dare retta.” Prese dei tovaglioli dal cassetto alla destra di Osamu e, una volta messi a tavola, si avvicinò al suo ragazzo.
 
“Che prepari per colazione?” Gli domandò morbido cambiando argomento, il mento sulla spalla  e le braccia a circondargli i fianchi mentre lo guardava muovere le mani rapito. Gli era sempre piaciuto vederlo cucinare, vedere la sicurezza trasparire da ogni singolo gesto, i  movimenti puntuali e decisi.
 
“Pranzo.” Lo corresse, girando la testa e scoccandogli un bacio veloce sulla tempia. “La colazione era tipo sette ore fa.”
 
“Quindi non è neanche pranzo.”
 
“Diciamo di sì, è un pranzo in ritardo.”
 
“Allora dai, sapientino, cosa c’è per il nostro pranzo in ritardo?” Gli morse la spalla leggermente e lo sentì ridacchiare.
 
“Riso fritto, uova e qualcosa di non meglio identificato che ho trovato in frigo.” Gli spiegò, facendo saltare il riso nel wok con fare esperto. “Non è andato a male ma non so assolutamente a che specie appartenga.”
 
“Penso sia roba di Motoya.” Spiegò Suna valutando il contenitore contenente un ammasso violaceo dalla consistenza del mastice con un’occhiata veloce. “Sì, ha detto che erano patate viola. Devo dire che era buono.” Lo guardò rapito aggiungere in pentola pizzichi di spezie che non sapeva nemmeno possedesse, qualche fogliolina strana e immediatamente un profumo paradisiaco salì dai fornelli, inondando la cucina. “Mi piace cosa stai facendo.” Mugugnò senza staccare la bocca dalla spalla. “Ha un odore fantastico.”
 
“Ti piace tutto quello che ti faccio, non sei affidabile.” Ma Samu sorrideva orgoglioso e Suna non si sarebbe mai perso l’occasione di poter vedere quell’espressione compiaciuta sulla sua faccia. “Prendi i piatti e mettiti a tavola, ho finito.”
 
Dividendo il riso in due porzioni, mise al centro del tavolo le uova con i cipollotti soffritti e il piatto della purea violacea di Komori riscaldata nel microonde e ammorbidita con chissà quale stregoneria da cuoco, generosamente ricoperta da pepe e formaggio.
 
“Come hai fatto a far uscire queste cose dal frigo?” Gemette godurioso Suna dopo un morso enorme al suo riso. "È magia, questa. Non c’era roba del genere in casa.”
 
“Siete atleti. Dovete mangiare salutare, avete una cazzo di dieta, seguitela.” Lo rimproverò, alzandosi per prendere qualcosa dal frigorifero. “Ci sono limoni qua dentro?”
 
“Ti sembriamo tipi che comprano limoni?” La voce di Suna era piena zeppa di giudizio. “È per questo che c’è il cassetto con i depliant dell’asporto.” Lo informò, allungando le bacchette per rubare un pezzo di frittata mentre Samu non stava guardando. “Vuoi qualcosa che non sai fare? Chiami chi è più bravo di te.”
 
“La base della mia attività, praticamente.” Osamu mormorò pensoso, poi esclamò. “Oh, eccone uno! È pure fresco, quando lo avete preso?”
 
“Sei sicuro sia un limone?”
 
“Spero di sì, è giallo e profuma.” Rispose, schiacciandoselo al naso e annusandolo con gli occhi chiusi di piacere.
 
“Non significa niente e lo sai perfettamente.” Borbottò con la bocca piena.
 
Osamu lo lavò accuratamente, prese una cosa lunga da un cassetto che si rivelò una grattugia e si avvicinò al suo piatto. “Qua manca un pezzo di frittata.” Lo avvertì guardandolo male e cominciando a grattugiare la buccia del limone sul riso. Il profumo dell’agrume gli investì il naso e Suna gli mandò un bacio volante. “Non scherzarci, ho fatto del male ad Atsumu per molto meno.”
 
“Oh lo so. Ero presente.” Prese un ritaglio di uovo pieno di cipollotti e lo alzò per mostrarglielo con sguardo di sfida. “Vuoi questo o un pompino?”
 
“La frittata.” Rispose immediatamente Osamu senza nemmeno far finta di pensarci, guardandolo con un sopracciglio alzato. “Davvero, c’è ancora bisogno di chiederlo?”
 
“Nessuno sano di mente sceglierebbe il cibo al sesso.” Commentò Rin sbuffando contrariato, mettendogli l’uovo nel piatto. “Ingozzati, ti ho lasciato la parte migliore come interesse.”
 
“Accetto il pagamento.” Si allungò e sparse il limone anche sul suo piatto. “Così è un po’ meglio.” Borbottò pensoso. “Manca il piccante ma non avete un cavolo qua dentro.”
 
“Dovrei essere risentito, mi butteresti in un burrone per una ciotola di soba.”
 
“Per della soba no.” Lo consolò sedendosi finalmente a tavola. “Per un okonomiyaki con farcitura tripla ci penserei, sono sincero.”
 
“Mi sento amato.” Disse Rin in tono piatto, bevendo un bicchiere d’acqua e guardandolo riempirsi le guance.
 
“Se può consolarti entrerei in scivolata sul crociato di Tsumu senza alcun rimpianto.” Rivelò aprendo appena la bocca.
 
“Non lo fa.” Lo informò spietato. “Allora, dai, raccontami. Come va il ristorante?”
 
A quella domanda ci fu un momento di fermo. Come andava il ristorante? Osamu masticò accuratamente prendendosi il suo tempo, lo sguardo su di lui leggermente aggrottato e l’aria pensosa. “Bene.” Rispose semplicemente, il tono troppo leggero, affondando le bacchette nel riso. “Bene.”
 
Suna lo guardò confuso. “Bene? Solo bene?” Domandò, il bicchiere ancora in mano.
 
Osamu alzò le spalle. “Va.” Con un sospiro lasciò andare le bacchette e portò le mani sul tavolo, giocherellando con un tovagliolo. “Hai presente quando sembra che non stai andando da nessuna parte? Cioè, sei lì, ma sei statico, le giornate scorrono e non succede niente?”
 
“Assolutamente no, ho solo avuto una crisi di nervi in videochiamata a reti unificate scatenata da Ushiwaka che andava alle olimpiadi.” Strascicò Suna con un ghigno. “Non so per niente di cosa parli.”
 
Osamu lo guardò, le palpebre pesanti calate sugli occhi. “Mi sembra di non andare né avanti né indietro.” Spiegò, la bocca che si muoveva appena. “Il ristorante va bene, ma rimane così. Fermo.”
 
“Ti stai seriamente lamentando per questo?” Chiese retorico Suna. Vedeva Osamu un po’ tirato, restio. Improvvisamente serio. “Cosa c’è che non va con quello che hai adesso?”
 
Samu non rispose, stropicciando l’angolo del tovagliolo con dita nervose. “Non sei aperto da neanche un anno.” Gli ricordò Rin.
 
Osamu non sapeva cosa c’era che lo disturbava. Era consapevole che non stava avendo problemi, che le entrate erano soddisfacenti e a volte decisamente grandi, che stava andando bene, quindi non riusciva a spiegare quella sensazione smaniosa che saliva alla fine di una giornata di lavoro e che lo lasciava con uno strano senso di disagio nel petto, le mani che prudevano per qualcosa che non riusciva a definire. “È come … come se avessi bisogno di uno sblocco.” Inspirò leggermente, riprendendo le bacchette in mano e scavando nel riso. “Manca qualcosa.” O qualcuno, ma non lo avrebbe mai detto ad alta voce. Non al diretto interessato, almeno.
 
Sospirando, diede voce al suo altro pensiero. “Non lo so. La clientela sta rimanendo costante, forse troppo.”
 
Suna respirò un po’ più libero, il petto più leggero. Quello era qualcosa per cui poteva aiutare. “Fatti conoscere da altri, allora. Che ne so, trova un modo per far girare la voce.” Sbocconcellò un po’ di patate schiacciate e formaggio. “Fai dei volantini e di’ a Sakusa di spargerli per l’università. Può essere un inizio.”
 
“Dovrei trovarmi qualcuno specializzato in cose del genere, come cazzo si fanno dei volantini? E quanto costerebbe? Non so a chi rivolgermi.”
 
“Samu, sono sincero, ai soldi puoi pensare fino a un certo punto.” Lo bloccò, puntandogli le bacchette contro. “Se non spendi non guadagni. Non è tipo uno dei mantra dell’economia?”
 
“Si chiama investimento, amore.”
 
“Ecco.” Rin lo guardò con un mezzo sorriso. “Chiamalo come ti pare. Investi in qualcosa e ottieni altro. Se ti senti fermo fai partire il motore. Olia il sistema. Metti il carburante.”
 
“Non sai un cazzo di automobili, smettila di usare queste analogie.”
 
“Senti, prendi una risma di fogli, disegnaci un onigiri e scrivici qualche stronzata, non devi partire subito col turbo.” Mescolò il riso con aria leggera. “E poi c’è sempre internet.” Rivelò, alzando le spalle.
 
“Come se fossi capace di costruire un sito.”
 
Rintarou stavolta lo guardò come guardava di solito Atsumu quando dava aria alla bocca. Non era una bella sensazione essere dalla parte sbagliata di quell’espressione. “Samu, cazzo, esiste Facebook. Twitter. Instagram.”
 
Prese un altro po’ di purea e lo mischiò con il riso, evitando di guardare la smorfia schifata di Osamu sul suo esperimento. “So che non usi i social più di tanto, ma vedi di svegliarti. Puoi iniziare gratuitamente così e poi, magari più in là, pagare sponsor per farti pubblicità, contattare esperti di marketing. E se sei bravo sarai tu ad essere pagato dalla gente per far loro pubblicità, il mondo gira così.” Si mise una generosa quantità di riso e patate in bocca e cominciò a masticare con aria concentrata. “Non è per niente male.” Mugugnò a bocca piena, guardando il piatto stupito.
 
“Ok, quindi che dovrei fare?” Osamu aggiustò la presa sulle bacchette e allungò il braccio. “Fammi assaggiare.”
 
“Neanche per il cazzo, hai preteso la frittata e schifato un pompino dal sottoscritto.”
 
“Quello l’avrei avuto comunque, fammi assaggiare.” Più veloce, rubò un po’ di grumo pastoso schivando lo schiaffo di Rin sulla sua mano e se lo ficcò in bocca. “È riso cementato.” Commentò, sentendoselo vagare in bocca come una pallina di plastilina.
 
“Buono, però.”
 
“Hai unito due cose buone, ma la consistenza fa schifo. È come mangiare una pappa con roba dentro che non dovrebbe esserci.”
 
“Il tuo limone rende tutto più scintillante sulla lingua.”
 
“Non so che significa quello che hai detto, neanche si sente il limone.” Mugugnò, ingoiando e lavandosi il palato con un sorso d’acqua. “Dai, dimmi oh grande esperto. Che dovrei fare, che ne so, se decidessi per facebook?”
 
“Tu non decidi proprio niente, te li fai tutti e tre contemporaneamente.” Osamu sbuffò. “Senti, non dico Sakusa che ha la faccia e l’atteggiamento di quelli che sono stati costretti a iscriversi, non pubblicano niente e ti giudicano in silenzio, ma Inoue-san è attivo sui social, fa anche belle foto. Parlane con lui, no?”
 
Inoue Yoshiaki, aveva scoperto nel modo più duro, era un altro problema.
 
O, meglio, Atsumu era il vero problema. Il povero Inoue-san era la vittima sacrificale dei malumori di suo fratello, il suo punching-ball emotivo, la sua valvola di sfogo. Aveva dovuto più volte prendere la scopa e minacciare Atsumu di infilargliela in posti discutibili, pur di far lasciare in pace la nuova aggiunta.
 
E tutto perché gli mancava Sakusa.
 
Ora, seriamente, Sakusa aveva bisogno di un periodo di ferie. Era decisamente stressato e non si era mai preso un giorno. Studiava, si allenava e lavorava senza fiatare, non aveva voluto vacanze estive, non aveva mai chiesto finesettimana, si era trasferito da un’altra città per studio, la cosa più umana da fare era costringerlo a riposarsi nel momento in cui le lezioni erano terminate e gli allenamenti gli avevano dato finalmente una pausa.
 
Osamu aveva comunque bisogno di qualcuno in più nel ristorante: la clientela era costante, sì, ma dagli inizi era aumentata parecchio e finalmente aveva il margine per assunzioni, quindi era stato un salto logico prendere qualcuno in più. Considerando poi che, da come andavano le partite e secondo le sviolinate di  Atsumu, Sakusa se lo sarebbero litigato parecchie squadre una volta laureato: era stato ovvio da subito che sarebbe rimasto solo di passaggio.
 
Atsumu, comunque, aveva rotto le palle ininterrottamente fino a che non aveva chiuso il negozio per i giorni di vacanza programmati per Capodanno e Sakusa non si era degnato di mandargli un messaggio.
 
Si era preso il suo dolce tempo, il bastardo. La mattina della sua partenza per Tokyo se lo era ritrovato al ristorante in un orario in cui era sicuro che Tsumu non si sarebbe fatto vedere, chiedendogli il numero di suo fratello con un atteggiamento vergognoso e reticente neanche si trattasse di uno scambio di porno.
 
Imprecò mentalmente a quel pensiero. Dio, non voleva averci niente a che fare, davvero.
 
“Siamo amici su facebook, lo seguo un po’ ovunque.” Continuò a spiegargli Rin sentendolo troppo zitto.
 
Osamu, assorbendo quell’informazione, batté gli occhi più volte. “E perché?” Gli domandò confuso. Non gli era sembrato che Rin fosse tanto interessato.
 
Rintarou lo guardò fisso in un silenzio scomodo per alcuni secondi, poi socchiuse le palpebre, aggrottò le sopracciglia e si mise in bocca un’altra porzione enorme di riso impastato.
 
“Rin, perché?”
 
Osamu lo vide continuare a masticare quel boccone da brontosauro versandosi nel frattempo l’acqua nel bicchiere. Il collo segnato si colorò di una sfumatura che aveva visto solo in situazioni particolari e gli si accese la lampadina nel cervello. “Oh mio Dio, sei geloso?”
 
Suna ingoiò con forza e sbuffò nel suo solito atteggiamento altezzoso. “Non dire stronzate.” Mugugnò bevendo qualche sorso. “Avrebbe potuto essere un serial killer.”
 
“Rin, Sakusa avrebbe potuto essere un serial killer con quella faccia.” Osamu sentiva il sorriso allargarsi e vedeva la faccia di Rin ombreggiarsi sempre di più. “E uno anche piuttosto bravo, non troveresti traccia di lui da nessuna parte.”
 
“Sono sempre le acque chete a fregarti.”
 
“È la cosa più divertente che abbia mai sentito!” Samu scoppiò a ridere, facendo incazzare leggermente il suo ragazzo. “Ha il terrore di Tsumu!”
 
“Grazie al cazzo, non lo conoscessi anch’io avrei il terrore di un tizio con la sindrome d’abbandono che non mi lascia lavorare in pace.”
 
“Ha avuto paura di Sakusa, che non è stato altro che gentile con lui il giorno del colloquio!”
 
“Avrebbe potuto essere una recita.” Senza contare che la gentilezza di Sakusa era troppo simile a lui che fissava la gente con quei pozzi scuri senza fondo e rimaneva immobile giudicando in silenzio, mascherina sulla faccia e guanti alle mani.  Decisamente non l’atteggiamento con cui chiunque sano di mente potrebbe rimanere a proprio agio.
 
“Va bene, va bene, non sei geloso.” Finì di ridacchiare Osamu, assaggiando la purea di Komori. “A che conclusione sei arrivato, quindi? Devo preoccuparmi?”
 
“Vai a quel paese.” Borbottò guardandolo male. “Comunque sei salvo.” Ed è etero, ma questo non lo disse. “Dico davvero, prendi lui e Sakusa, fate una di quelle riunioni super segrete che vi piacciono tanto e non piagnucolare via cam.”
 
“Quanto ti piace fare il prepotente?”
 
“Tanto.” Rin prese i piatti vuoti e li portò al lavandino. “Dai masterchef, laviamo questa roba e rifacciamo il letto, è ora di scopare.”
 
“Fallo tu, io devo ancora fare la doccia.” Lo bloccò, mettendosi l’ultimo pezzo di frittata in bocca. “Quando esco fatti trovare pronto, voglio vedere quanto ci mettiamo a rendere la camera zona tossica.”
 
 
*
 
 
“Quindi, mi stai dicendo che vuoi lavorare il 14 ma non il 15?”
 
Osamu non riusciva proprio a capirlo.
 
Inoue-san, accanto a lui, aveva messo su una faccia confusa ma non aveva proferito parola, stringendo forte le labbra tanto da renderle bianche. Forse aveva ancora paura di Sakusa, forse no considerando che erano stati fatti passi avanti pazzeschi tra i due, fatto sta che era il più furbo di tutti e aveva scelto, con un’intelligenza impressionante, di mantenere per sé quello che stava pensando. E non doveva essere qualcosa da poter essere liberamente esternato in presenza di persone perbene, a giudicare dall’espressione aggrottata. Sfortunatamente, ci stava mettendo così tanto impegno che sembrava a pochi secondi dallo scoppiare.
 
Come il capo magnanimo che era, Osamu si fece coraggiosamente carico dell’onere di cercare di comprendere il suo dipendente più ostico. “Perché cazzo questa cosa?” Domandò, forse più aggressivo di quanto avesse preventivato. Ma la seconda settimana di febbraio si stava rivelando il suo inferno personale privato, quindi non avrebbe nemmeno chiesto scusa.
 
Fortunatamente, Sakusa era una di quelle persone a cui quegli atteggiamenti isterici rimbalzavano addosso, quindi lo guardò altezzoso e sbuffò da sotto la mascherina. “San Valentino è meno opprimente.”
 
Dove? Dove esattamente il 14 febbraio non era opprimente?
 
Osamu avrebbe speso un sacco di tempo ed energie per decorare l’intero negozio con roba rosa a forma di cuore, con sagome discutibili di bambini nudi con ali, archi e frecce e con odiosi glitter rossi e bianchi ovunque non ci fosse il pericolo che cadessero nel cibo, praticamente firmando ad occhi chiusi per la presenza costante di brillantini in posti inspiegabili per settimane. Avrebbe inserito nel menù gli speciali onigiri con confettura di ciliegie, confettura di fragole e cioccolato, disponibili solo per l’occasione e decisamente non replicabili, non importava quante volte gli sarebbe stato chiesto di fare un’eccezione. Si sarebbe messo a regalare rose di origami a qualsiasi essere femminile avesse varcato la dannata porta del suo ristorante, sperando di non ricevere pugni in faccia da accompagnatori troppo protettivi e con poca elasticità mentale.
 
Capitava di domenica, per Dio, gli sarebbe presa un’orticaria sicura a fine giornata e lui aveva il coraggio di dire che San Valentino non era opprimente?
 
“Le persone sono concentrate su sé stesse, sulla loro relazione. Sarà una giornata tranquilla, tutto sommato.” Spiegò Sakusa pulendo un tavolo con concentrazione, la mascherina sulla bocca copriva le labbra in movimento. “Il 15 è il giorno degli sfigati.”
 
“Sakusa-kun, scusami, forse intendevi il giorno dei single.” Intervenne timidamente Inoue-san. Sakusa annuì sicuro, guardandolo con approvazione. “Esatto.” Accettò, evidentemente soddisfatto di essere stato capito.
 
Notizia flash: nessuno aveva capito niente.
 
“No, aspetta. Spiegami in quale angolo contorto della tua mente single e sfigati sono uguali.” Lo accusò Osamu, cercando (e non riuscendo) di trovare il filo logico dietro quel ragionamento decisamente campato in aria.
 
Sakusa sospirò infastidito. “Non ho mai detto questo. Ma il 15 sarà pieno di single che entreranno con la convinzione di far festa grande e si ritroveranno a piangere ai tavolini o, peggio, al bancone, annacquando la loro di birra perché secondo loro nessuno li vuole.” Gli spiegò con convinzione. “O donne a loro dire intraprendenti che scambieranno quel giorno per un’occasione per avere la libertà di allungare le mani, pensando che nessuno le denuncerà solo perché avranno bevuto un bicchiere di troppo e sono clienti paganti.” Batté le palpebre, pensoso. “O uomini.” Aggiunse alzando le spalle.
 
Poi li fissò negli occhi, serio come la morte. “Non succederà.” Affermò, una convinzione nella voce che prometteva esattamente quello che stava dicendo. “Verranno denunciati sicuramente.”
 
“Cosa diavolo ti è successo?” Osamu era sinceramente sconvolto.
 
“I café di Tokyo non sono luoghi tranquilli come si può pensare.” Rivelò ombreggiandosi leggermente.
 
Arrivando alla rapida conclusione di non voler saper nulla delle disavventure travagliate di Sakusa, ritornò al nocciolo della questione. “Guarda, mi stai dando solo motivi in più per costringerti a lavorare il 15.” Decretò, aggiustandosi la visiera del cappello e incrociando le braccia. “Io ci sarò. Inoue-san ci sarà. Tu non mancherai di certo.”  
 
“Avrò la febbre quel giorno.” Se ne uscì Sakusa con tono leggero. “Mi sento già tappato.” E mimò l’atto di soffiarsi il naso, muovendo la mano con leggerezza fino a riportarla allo straccio sul tavolino che stava lucidando.
 
“Sei uno stronzo.”
 
“Non ti sento, Osamu-san. Le orecchie fischiano.”
 
“Tu ci sarai.” Ringhiò minaccioso. “Dovessi trascinare il culo di Atsumu per proteggerti le grazie.” E non ci sarebbe voluto neanche troppo impegno per convincerlo.
 
Sembrò pensarlo anche Sakusa, che inspirò profondamente come ad invocare una pazienza che non aveva mai avuto, la testa cadente affondata tra le spalle e la punta delle orecchie che cominciava a colorarsi di un tenue rosa.
 
Paradossalmente, a sbiancare leggermente fu Inoue-san. “Ti prego, Osamu-san, Atsumu no.” Ed era decisamente divertente come Osamu potesse vantare dell’uso dell’onorifico mentre, nella mente di Inoue-san, il nome di Atsumu era alla stregua di quello del cane randagio che faceva regolarmente pipì sul vaso destro fuori dal ristorante. Un cane molto alto, molto grosso e molto molesto, ma pur sempre un cane.
 
Per la cronaca, Sakusa aveva nominato il cane (quello vero, non Tsumu) dopo Motoya e stava studiando metodi per convincerlo ad orinare altrove. Diceva che la testardaggine e l’idiozia era pari a quella di suo cugino, ma Toya il cucciolo era decisamente più carino. Osamu aveva avuto ampiamente da ridire su quell’uscita, vista la dentizione del canide che sembrava non riuscire a rimanere all’interno della sua bocca, ma a quanto pareva Sakusa era uno di quei tipi per cui i cani erano meglio delle persone quindi non era riuscito a vincere alcuna discussione su quel frangente.
 
“Inoue-san, Sakusa è tornato.” Cercò di farlo ragionare Osamu. “Atsumu non ti infastidirà, né ora né mai.” Avrebbe ucciso suo fratello per aver messo il sacro terrore nel suo dipendente più sano di mente. 
 
“Sono mancato una sola settimana di lavoro, cosa ha combinato quell’idiota?”
 
Inoue-san era a metà imbarazzato e metà terrorizzato. Osamu guardò male Sakusa, anche se alla fin fine non poteva certo incolparlo di esistere. “Da quando Sakusa si è tagliato i capelli non ti guarda nemmeno più.” Cercò di incoraggiarlo con una pacca sulla spalla.
 
Quando erano tornati tutti, a gennaio, Sakusa si presentò al lavoro con i capelli decisamente addomesticati. E stava davvero una favola, ricevette tantissimi complimenti, anche se lui borbottava di essere stato messo alle strette e portato dal barbiere da sua sorella con l’inganno.
 
L’unico a non parlarne fu Atsumu che, quando entrò nel ristorante e lo vide, si fermò di scatto come paralizzato. Il collo assunse velocemente una sfumatura rossa da competizione, gli occhi gli si fecero grandi e vitrei e, con il pensiero più veloce che Osamu avesse mai visto attraversargli la mente, girò su sé stesso e scappò via, una mano stretta sul petto ed in faccia l’espressione di uno ad un passo dall’infarto fulminante.
 
Fu un episodio molto divertente per Osamu. Inoue-san guardò la scena con un punto interrogativo stampato in faccia. Sakusa non si accorse nemmeno della presenza fugace di suo fratello.
 
Ci vollero ventisette ore lavorative per Atsumu per trovare il coraggio di entrare nel locale e comportarsi come niente fosse. Le foto che Osamu fece a Sakusa a tradimento su sua richiesta (una artistica, con la luce che lo colpiva in tutta la sua eterea e affilata bellezza, i due nei in fronte in bella mostra e i ricci sistemati lateralmente. Un’altra, decisamente più realistica, di quando se ne accorse e lo minacciò di spaccargli il cellulare al muro.) gli erano state utili per sistemarsi le coronarie e costruirsi una resistenza alla vista che Osamu non comprendeva pienamente, ma in fin dei conti aveva deciso tempo prima che non avrebbe cercato di capire quel rapporto per niente al mondo, quindi andava bene così.
 
“Smettila di prendermi in giro.” Bofonchiò Sakusa evitando di guardarli, quindi decisamente imbarazzato.
 
“Fidati, vorrei fosse uno scherzo.” Gli assicurò Osamu con tono stanco.
 
“Da quanto tu e Atsumu state insieme, Sakusa-kun?” Chiese candidamente Inoue-san, la bocca stirata in un sorriso tenero e un genuino interesse nello sguardo.
 
Se Osamu si girò a guardarlo con le stelle negli occhi e una risata di pancia appena trattenuta, Sakusa si raddrizzò dal tavolino, la schiena rigida e le orecchie decisamente rosse. Si voltò lentamente, la mascherina a coprire le labbra talmente strette che sembrava volesse fonderle tra loro e gli occhi che promettevano l’inferno. “Cosa?” Sibilò con voce bassa.
 
E stavolta, secondo il dizionario vocale di Sakusa, era un ‘cosa’ da ‘ti do meno di 3 secondi per ritrattare o ti succederà qualcosa di terribile e non riusciranno mai a risalire a me’. Osamu non voleva davvero sapere tutti quei lati della (poca) espressività di Sakusa, ma era decisamente fiero di riuscire a tradurlo nonostante tutto. Avrebbe potuto essere utile nel lungo periodo.
 
Inoue-san, però, non era ancora a conoscenza delle mille sfumature di quel ‘cosa’. “Tu e Atsumu.” Continuò imperterrito, prendendo una spugna e pulendo il lavello con passate veloci. “Siete veramente tanto affiatati, da quanto va avanti?”
 
Ad Osamu uscì una risata simile a una pernacchia dalle labbra sigillate. Lo sguardo omicida di Sakusa passò da Inoue-san a lui con una lentezza inquietante, sfidandolo a fare un fiato. La mascherina rendeva tutto più spaventoso. Inoue-san, a quell’atteggiamento così strano, cominciò a capire che forse c’era qualcosa che non riusciva ad afferrare. “Ho detto qualcosa di sbagliato?” Domandò con tono dubbioso, aggrottando le sopracciglia dispiaciuto.
 
“Io e Miya non stiamo insieme.” Sputò Sakusa con tutto il veleno di cui era capace. Ed era praticamente una sentenza. Senza aggiungere altro, ridiede loro le spalle e si avventò su un altro tavolino, passando lo straccio con violenza tale da dare l’impressione che volesse scartavetrare il fissante industriale dal piano.
 
Inoue-san rimase per qualche secondo con la bocca aperta a formare una piccola ‘o’. “Davvero?” Pigolò, cercando con gli occhi l’aiuto di Osamu.
 
Osamu, lo stronzo, mimò con il labiale “lo vogliono tutti e due” facendo un movimento osceno con le mani  per imprimere meglio il concetto e terminando quella dimostrazione di puro galateo con il gesto universalmente noto del ‘te lo dico dopo’. 
 
“OH!” Esclamò Inoue-san. Poi, notando la schiena irrigidita di Sakusa. “Oh, scusa Sakusa-kun, errore mio. Sicuramente ho visto male.”
 
“Non preoccuparti Inoue-san, succede spesso.” Scherzò Osamu, prendendosi dietro più maledizioni. Vide il muscolo della mascella di Sakusa guizzare e sentì i denti scricchiolare da lì. “Sakusa-kun, attento o avrai bisogno di un dentista.” Canticchiò in maniera odiosa.
 
Con un’espressione scura, Sakusa non rivolse loro la parola per il resto della serata.
 
Tuttavia, quando il 15 febbraio arrivò impietoso, Sakusa non si aspettava tutta una serie di manovre che gli affollarono il cervello di pensieri molesti, così veloci e aggressivi da fargli girare la testa. E cominciare a porsi delle domande che, sfortunatamente, aveva visto arrivare tempo prima.
 
Aveva appena terminato una allenamento assassino in cui aveva passato la quasi totalità del tempo a cercare di perfezionare la sua battuta (quella che non faceva dormire tranquilli taaaanti giocatori della V1 per via dei polsi sfuggenti e la rotazione malvagia. Ne andava particolarmente fiero.), si fece una doccia bollente e si coprì quanto poteva per non prendere freddo. Dopodiché uscì dalla palestra per ritrovare Atsumu sulla panchina al di fuori del complesso, il collo piegato a guardare in alto il cielo sfumato di scuro punteggiato leggermente delle prime stelle della sera, il viso completamente rapito.
 
Era tranquillo, in pace. Sicuramente era stanco quanto e, poteva tranquillamente ammetterlo, più di lui, lo notò dalle spalle lievemente irrigidite e gli arti sciolti, le braccia abbandonate tra le gambe aperte e allungate davanti a lui. Il giaccone non era totalmente chiuso e la sciarpa era allentata a lasciare scoperto il punto centrale della gola. Aveva un cappello con visiera Onigiri Miya in testa e sperò non lo avesse indossato per passare inosservato perché non era propriamente efficace: ormai era decisamente famoso, i fan lo avrebbero riconosciuto anche con un sacchetto di carta in faccia. Era una fortuna che gli allenamenti terminassero tardi ed il flusso di studenti fosse scemato ore prima.
 
“Che ci fai qui?” Gli domandò, la voce attutita dalla sciarpa che era avvolta talmente tante volte attorno alla testa da fasciarlo quasi completamente.
 
Atsumu si girò di scatto, sorpreso. “Omi?” Esalò dubbioso. Le sopracciglia aggrottate di Sakusa e lo sguardo giudicante gli diedero conferma. “Che cazzo, è buio e non ti si vede la faccia, non guardarmi male.”
 
“Dovresti coprirti anche tu.” Borbottò, sistemandosi il borsone sulla spalla e avvicinandosi a lui. Poteva sentire nitido l’odore fresco del suo shampoo, segno che doveva essere partito appena finito con i Jackals.
 
Atsumu si spostò per fargli spazio ma lui scelse di non sedersi. “Ti prenderai un raffreddore così.” Lo rimproverò, adocchiando la gola scoperta.
 
“Aw, sapevo che ci tenevi.”
 
“Che ci fai qui?” Chiese di nuovo, stavolta forse un po’ più brusco di quanto intendesse.
 
Atsumu gli fece segno di sedersi, più insistente, e Sakusa stavolta lo accontentò, appoggiandosi allo schienale della panchina con una postura decisamente illegale. “Samu mi ha detto di venirti a prendere.” Gli rivelò leggero, continuando ad ammirare il cielo.
 
Sakusa storse il naso. “E da quando fai quello che ti dice tuo fratello?”
 
Atsumu piegò la testa per guardarlo. Anche al buio poteva vedere la sfumatura miele nei suoi occhi, un cerchio dorato tutto intorno alla pupilla che si diramava in quel bruno bruciato così simile a quello di Osamu ma così diverso insieme, più caldo. Avevano una scintilla di malizia e il tutto era troppo accattivante per il suo bene. “C’è ben poco che non farei pur di vederti.” Gli rivelò con un sogghigno appassionato.
 
Sakusa sentì il sangue correre a concentrarsi sulle guance così velocemente che ringraziò Dio di essersi bardato in quel modo. Sentiva la faccia bollente e quella situazione non aveva niente a che vedere con la doccia ustionante di poco prima. “Smettila.” Sibilò quindi, buttando il borsone a terra e sistemandosi meglio sulla panchina. “Non mi ha dato il giorno libero, mi sarei dovuto presentare comunque.”
 
“Non penso fosse preoccupato per quello.” Atsumu cominciò a controllarsi la punta delle dita, strofinandole tra loro con una smorfia. “Devo cominciare a passarci la crema idratante.” Bofonchiò, stuzzicandosi l’indice con l’unghia.
 
Sakusa si chinò a prendere dalla tasca laterale del borsone un piccolo vasetto e glielo passò. “Tienilo. Ne ho una decina.”
 
“Wow, Omi, è il primo regalo che mi fai.” Lo prese in giro girandoselo tra le mani. Aprendolo, un lieve odore fresco e fruttato uscì fuori arrivandogli alle narici. “Ed è pure usato.”
 
“Se non lo vuoi ridammelo.”
 
“No, lo tengo.” Prese una punta di crema e la passò sulle dita, massaggiando in piccoli cerchi per farla assorbire. Richiuse il barattolino e se lo mise in tasca. “Quando lo finirò, lo metterò su un piedistallo con tutti faretti intorno e una targa ‘REGALO DI OMI-KUN’. Farà crepare di invidia chiunque.”
 
“Idiota.” Borbottò Sakusa, la voce priva di convinzione e le palpebre calanti dalla stanchezza. “Dovrei cominciare ad andare se voglio arrivare in tempo con il treno.” Mormorò, ma non si mosse. Stava bene là, con il fresco di febbraio che lo circondava e il calore naturale di Atsumu di fianco a riscaldarlo.
 
“Omi, per chi mi hai preso?” Atsumu tirò fuori le chiavi della sua auto, dondolandogliele davanti il naso. “Ti porto in carrozza, signorina.” Sakusa lo guardò confuso, aggrottando le sopracciglia. “Andata e ritorno. Oggi sono il tuo autista designato, baby.”
 
“Sei venuto in macchina?”
 
“Credevi avessi preso il treno?” Atsumu  lo derise leggermente. Da quando aveva comprato quella scatoletta di metallo che amava neanche fosse una figlia l’avrebbe presa anche per andare in bagno, se solo non fosse fisicamente e civicamente impossibile. Forse anche legalmente impossibile.
 
“Non salgo in auto con te.”
 
“Oh, lo farai. E ti piacerà.” La sensazione che l’argomento in questione non fosse completamente il veicolo investì Sakusa come acqua gelata, lo stomaco che si agitava leggermente e non voleva assolutamente capirne il motivo. Lo guardò alzarsi con un’espressione compiaciuta e cominciare ad avviarsi lungo una stradina panoramica affiancata dai lampioni che sapeva portava ai parcheggi pubblici. “Allora?” Lo esortò. “Muovi il culo, Samu è isterico da giorni, non lo farei incazzare più di quanto non abbia già fatto io stamattina.”
 
Oh, lo sapeva. Il giorno prima, alla fine della serata, aveva allegramente dato fuoco alle rose di origami avanzate con un’espressione maniacale che lo aveva fatto dubitare della sua sanità mentale. Inoue-san si era avvicinato a lui in cerca di conforto e, per una volta, non se l’era sentita di toglierglielo.
 
Alzandosi con molta calma, stirò le braccia in alto e sentì la schiena e le spalle scrocchiare leggermente. Dopodiché cominciò a seguirlo. “Alla prima curva strana mi impegnerò a vomitarti sul cruscotto.” Lo informò morbido, la voce ancora soffocata dalla sciarpa.
 
Atsumu lo sentì comunque. “Soffri la macchina?” Chiese preoccupato, girandosi per guardarlo.
 
No, decisamente no. Era così a suo agio nelle auto in movimento che avrebbe potuto leggere un’intera enciclopedia ad alta voce senza avvertire una singola sensazione di disagio. Non doveva, però, essere per forza di dominio pubblico. Vedendo l’espressione apprensiva sulla faccia di Atsumu, tuttavia, decise che forse era meglio non puntare i piedi più di tanto. “È un incentivo a comportarti bene.” Lo rassicurò, il borsone che gli scivolava dalla spalla spinto indietro con un pollice.
 
Atsumu lo studiò con sguardo concentrato su quel poco che poteva vedersi della sua faccia. Poi sorrise, evidentemente soddisfatto di ciò che aveva potuto leggere. Continuando a camminare all’indietro tenendo le mani in tasca, con un ghigno disse “Omi, ti giuro, se provi a fare qualcosa al mio tesoro neanche quegli occhi da Bambi ti salveranno da un pugno in faccia.”
 
“Devi prima prendermi.” Lo prese in giro, il sorriso ben nascosto dalla sciarpa. “Non ti reggi in piedi.”
 
“Non sottovalutare la mia resistenza spaziale.” Lo informò, muovendo le sopracciglia con aria lasciva che gli fece sfuggire, suo malgrado, un basso risolino di gola. “O la mia ostinazione. Ti seguirò fino in capo al mondo.”
 
A quello, Sakusa si fece improvvisamente serio. No, non stava parlando dell’auto, si accorse con una punta di panico. Perché non stava parlando dell’auto?
 
Continuò ad andare arrivando ad affiancarlo, gli occhi dritti davanti a sé. Anche Atsumu si era fatto serio, camminando con sguardo basso ma concentrato. Poteva vederlo mordersi l’interno della guancia, muovendo la parte carnosa tra i denti ritmicamente, i pensieri che gli attraversavano la mente talmente forti da avere la sensazione che avrebbe anche potuto percepirli se solo si fosse concentrato un po’.
 
Ad un certo punto però, come se fosse arrivato ad una conclusione, Atsumu alzò la testa e la faccia si distese, rischiarandosi da una cupezza che non aveva notato precedentemente. Prese il cellulare e mandò velocemente un messaggio, forse per avvisare Osamu che stavano arrivando, poi gli diede una gomitata leggera con un sorriso storto e lo portò alla macchina grigia lucida che sostava da sola in un lato del parcheggio.
 
“Prego!” Lo prese in giro, aprendogli lo sportello con un ghigno imitando un cavaliere d’altri tempi.
 
“Ho le mani.”
 
“Strane mani, lo so. Fammi fare il gentleman, Dio solo sa che hai bisogno di una dose di zucchero in quel sistema velenoso che ti manda avanti.”
 
“Mi piace il mio sistema velenoso.” Mormorò, sedendosi e sistemandosi il borsone tra le gambe. Lo vide afferrarlo e rubarglielo. “Hey.”
 
“Hey un cazzo, c’è un portabagagli, usalo.” Brontolò Atsumu aprendo il cofano posteriore.
 
“Poteva stare qua, non ti avrebbe dato fastidio.”
 
“Omi, fammi un favore e statti zitto.” Entrò in auto, controllando gli specchietti con cura maniacale. “Cintura.” Ordinò, mettendosela velocemente e accendendo il motore, la musica dalla radio che cominciava ad uscire automaticamente.
 
Sakusa roteò gli occhi, afferrando la cintura con uno sbuffo. “Vuoi dirmi anche come respirare?”
 
“Se vuoi.” Ghignò Atsumu andando di retromarcia. “Ma guardati, tutto docile a farti portare in giro. Sembra quasi un appuntamento.”
 
“Non è un appuntamento.”
 
Per ora, pensò Atsumu, il sorriso da volpe che si allargava di più.
 
 
*
 
 
“Allora, Tomo-chan, ho bisogno di un aiuto. Stavolta non ti sto mettendo alla prova come l’ultima, giuro, è un codice giallino, neanche un colore serio, ma mi serve aiuto. Forse due. No, sicuro due. Ma due aiuti così, immediati, veloci, davvero non puoi capire quanto, ci metterai sì e no cinque secondi. Ok, ok, ti lascio. A dopo.”
 
Atsumu terminò la chiamata lasciando il terzo vocale in due minuti. Sapeva che Tomoko stava arrivando, glielo aveva fatto sapere quattro minuti prima con aria arrabbiata intimandolo di lasciarla in pace. Quindi non era che la sua PR lo stesse ignorando, molto probabilmente stava tentando di parcheggiare e davvero, non doveva romperle l’anima così, considerando la sua abilità alla guida.
 
Pensandoci chiaramente, forse non era una buona scelta lasciare dei messaggi del genere: Tomoko non era in grado di parcheggiare senza fare danni, si sarebbe fatta prendere dal panico e avrebbe incastrato l’auto in un posto per bici o tirato il freno a mano sopra una Smart o sfanculato direttamente una Smart chissà dove e, sinceramente, era terrorizzato. Era salito in macchina con lei solo una volta ed aveva giurato che non lo avrebbe più fatto, nemmeno se avesse avuto le gambe spezzate, un’orda di zombi che lo circondavano e lei fosse stata l’ultima pilota sulla faccia della terra.
 
Gli zombi avrebbero fatto meno male.
 
Quindi, riprese il cellulare e schiacciò di nuovo il tasto del vocale. “Tomo-chan, senti, vieni tranquilla, non è così importante, non ucciderti, capito? E non uccidere gli altri, ricorda, è un codice giallino, neanche un colore vero, sì lo so, te l’ho già detto, ma stai calma. E non avvicinarti alla macchina grigia con gli adesivi di un onigiri e un pallone da pallavolo, ok? Quando la vedi vai dritta, ci sarà sicuramente posto altrove. Ok, ora smetto, stanno bussando. Ciao.”
 
Soddisfatto di aver assicurato un giorno di vita in più al suo terzo amore, si alzò per andare ad aprire la porta del suo appartamento. Si ritrovò davanti Tomoko incazzata come una biscia, la borsa gigante scivolata dalla spalla che sembrava potesse spezzarle il gomito in ogni momento, i capelli che sfuggivano dall’elastico e il cellulare in mano, poco lontano dall’orecchio, che riproduceva a volume massimo l’ultimo vocale che le aveva inviato. Rimasero a fissarsi così, morti negli occhi, finché la sua voce non si spense.
 
“Te la rigo quella macchina.” Sibilò Tomoko a mo’ di saluto, assottigliando lo sguardo con aria minacciosa.
 
“Tomo-chan!” Cinguettò Atsumu, facendola finalmente entrare. “Tutto bene? Dove hai parcheggiato?”
 
Tomoko lo ignorò. Con espressione dura buttò la borsa a terra con un tonfo preoccupante, gli mollò il cappotto e indossò le pantofole degli ospiti che Atsumu aveva preparato precedentemente in uno sprazzo isolato di senso di ospitalità. In tutto ciò, gli ringhiò “Vengo dall’altra parte della città, se non è una cosa seria diffondo la voce che hai l’herpes genitale.” senza degnarsi di rispondere alla sua domanda.
 
“Tomo-chan, sei un po’ fissata con i miei genitali.” Atsumu, intanto, si avvicinava alla finestra per vedere lo stato della sua auto. “Parlo con te e vai subito a finire lì.”
 
“Sarà la tua faccia a farmi fare collegamenti strani.”
 
Atsumu si ringalluzzì. “Mai visto niente di così sexy, vero?”
 
“È modo originale di metterla.” Finì lei, assottigliando gli occhi. “Allora? Che è successo? Voglio un tè caldo, molto caldo, talmente caldo che mi si dovrà squagliare il palato.”
 
Atsumu aprì la dispensa mentre lei si sedeva al tavolo, vedendola un po’ sotto stress. “Guarda, ho un Earl Grey e non so neanche perché, ti va bene?”
 
“Pensavo bevessi roba più tradizionale.”
 
“Il tè nero è tradizionale.” Si difese Atsumu. “E mi sa che è roba di Samu, questa, quindi non giudicare me.”
 
“Almeno hai dei mochi?” Chiese Tomoko, piegando il collo in un angolo strano e sentendolo scrocchiare in maniera appagante. “Vorrei dei mochi così tanto che penso di essermeli sognati stanotte.”
 
“Mi hai preso per un konbini?” Mise sul fornello un pentolino e prese da una tortiera un vassoio. “Tieni, ho questo.” E glielo posò davanti, lasciandola leggermente basita.
 
“Una torta di mele?”
 
“Tarte Tatin. Samu mi ha catechizzato.”
 
“Hai un buon accento francese.” Si complimentò, stupita. “Ti viene bene il nasale.” Si sporse per vedere meglio quella bellezza dorata di frutta e glassa al caramello. “Ci sono due buchi.” Lo informò impietosa.
 
“Sì, le mele sono rimaste attaccate alla teglia.” Spiegò alzando le spalle. “Le ho mangiate. Samu mi ha dato un pugno.”
 
Le porse un piatto e una forchetta e le tagliò una fetta come un perfetto padrone di casa. Se fosse riuscito ad ingraziarsela, c’era la possibilità che forse ci avrebbe almeno pensato prima di brandire il coltello da dolce e affondarglielo nel braccio.
 
“Allora,” Cominciò Tomoko, dopo che le servì anche la tazzina con il tè. “dimmi di questi problemi.”
 
Il primo era facile. “Devo cambiare colore di capelli.” Buttò fuori velocemente, via il dente via il dolore, no? “Qual è il verdetto?”
 
“Beh, fai bene. Era meglio quello del liceo, e cavolo se era brutto.” Sì, no, lo aveva intuito da solo. Non stava chiedendo proprio quello.
 
“Devo dirti cose del genere? O posso fare come mi pare?”
 
Tomoko lo guardò, l’espressione intenerita. “Wow, sei più serio di quanto pensassi.” Gli disse ridacchiando. Stava girando il cucchiaino nel tè per sciogliere lo zucchero e il vapore le saliva in faccia arricciandole i fili di capelli liberi che le sfuggivano sulla fronte. “No, tranquillo, hai via libera. Certo, meglio non farti fare roba oscena, ma hey, la testa è tua.”
 
Prese la tazzina per il manico e bevve un piccolo sorso, sussultando leggermente per la temperatura. “È per via di Sakusa?” Gli chiese, stringendo le labbra con sofferenza e sicuramente maledicendo la sua richiesta.
 
“No.” Rispose Atsumu velocemente. “È per me. Voglio un colore che mi stia bene e non … questo.”
 
“No, perché l’ho visto.” Alzò le sopracciglia, annuendo lentamente comprensiva. “Sta da Dio.”
 
“Non ricordarmelo, per favore.” Bofonchiò Atsumu strofinandosi la faccia con fare disperato.
 
“Ti starebbe bene qualcosa di veramente chiaro in contrasto con la tua carnagione, ma fatti consigliare da degli esperti. Hai fatto bene a farti allungare i capelli.”
 
E quello era utile. Almeno non sarebbe andato completamente alla cieca.
 
“Il secondo problema?”
 
Ecco. Quello non sapeva proprio affrontarlo.
 
Era stato decisamente combattuto riguardo quella particolare richiesta. Non perché non fosse sicuro, ma era una situazione delicata ed il contesto sociale era quello che era. Voleva informarsi bene prima di fare qualcosa di stupido ed essere pronto per qualsiasi risposta gli sarebbe arrivata dall’altra parte.
 
Aprì la bocca, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Si morse un angolo del labbro inferiore con forza, avvertendo l’accenno del sapore ferroso del sangue.
 
“Atsumu?” Lo chiamò Tomoko, l’espressione leggermente preoccupata. “Hey, stai bene?”
 
Sì, stava bene. Era solo terrorizzato.
 
“Guarda, sei un bravo ragazzo, non penso sia una cosa così grave.” Tomoko allungò una mano per afferrare la sua, decisa. Era una mano minuscola, bianca, morbida come lo erano quelle delle ragazze e con una forza d’acciaio che le scorreva dentro. Le carezzò il dorso con il pollice, cercando un appiglio nella trama vellutata della sua pelle. “È successo qualcosa?”
 
Fino a quel momento l’aveva solo pensato.
 
Era iniziata come un’idea pigra che gli girava in testa ogni tanto, divertendosi ad immaginare come avrebbe potuto essere. Pura curiosità senza un minimo accenno di interesse. Il cambiamento di cuore era stato veloce e d’impatto come un treno in corsa e, se doveva spiegare cosa esattamente l’avesse scatenato, non avrebbe saputo farlo.
 
Forse le ore passate insieme in silenzio con il solo ticchettare del mouse e della tastiera, forse le prese in giro sempre più scherzose e meno insidiose, forse i piccoli gesti che si scambiavano senza pensarci troppo, come le fette di limone e la foglia di menta che trovava nella sua acqua ghiacciata, esattamente come piaceva a lui, o il dolcetto dall’aspetto curioso che si divertiva a portargli godendo della scintilla di golosità in quegli occhi scuri.
 
Era diventato fisicamente doloroso continuare a mantenerla un’idea e fermarsi dall’agire.
 
“Atsumu?”
 
“Voglio portare Omi a un appuntamento.”
 
Tomoko mantenne una mano su di lui, stringendolo ferrea, portando l’altra al viso. Non un gesto di disperazione, tutt’altro. Sorrise tra le dita, con gli occhi lucidi di emozione e lasciandosi sfuggire uno sbuffo dal naso simile a una risata. “E c’era bisogno di mettermi paura?” Lo rimproverò senza morso, la presa sulla mano talmente stretta da bloccargli quasi la circolazione.
 
Atsumu continuò a guardarla senza espressione. “Non hai capito.”
 
“Ho capito benissimo. È bello.” Vedendo la mancanza di reazione di Atsumu si alzò in piedi, piegandosi in avanti sul tavolo per afferrargli le guance e costringerlo a guardarla negli occhi. “È bello, Tsumu. È una cosa bella.”
 
“Lo so.” Mormorò, la bocca stretta tra le guance schiacciate. “Lo so.”
 
“E allora qual è il problema?” Domandò, liberandogli la faccia e appoggiandosi con i gomiti sul tavolo, ancora così piegata.
 
Atsumu boccheggiò. “Un po’ tutto.” Cercò di spiegare, stringendo le mani a pugno.
 
“Hai paura che ti dica di no?”
 
“No.” Batté le palpebre più volte. “Cioè, sì, ma no, non intendevo quello.”
 
Tomoko attese qualche secondo, poi sospirò, risedendosi composta. “Non ho idea di cosa ti passi per la testa in questo momento.” Gli disse. “Usa le tue parole, spiegami. Non ci arrivo da sola.”
 
Atsumu si passò la lingua sul labbro superiore con decisione. “Tomo-chan, mi riconoscono per strada.” Le rivelò e lei cominciò a mettere insieme i pezzi. “Vogliono il mio autografo, vogliono foto, i bambini mi amano. È figo, mi piace l’attenzione. Vivo per l’attenzione. Ma quella.”
 
“Tesoro, è il lato oscuro dell’essere famosi.” Tomoko sorrise tristemente, arricciando le labbra. “Ci sono cose belle e cose brutte. Puoi startene fuori dai riflettori per un po’, sia se con Sakusa vada bene che in futuro, con qualcun altro. Se sei veramente bravo puoi tenere basso profilo per sempre. Diavolo, c’è gente di Hollywood che è riuscita a nascondere famiglia per decenni.” Gli fece un sorriso furbo. “Con tutto il rispetto, non sei minimamente la star che credi di essere.”
 
“Sogna, è l’invidia che parla.” Ridacchiò lui, un po’ più calmo. “Ho paura anche per il lavoro, sono sincero.”
 
“La sessualità è un tabù strano, viene scoperto e ricoperto velocemente. Parlane con il tuo allenatore, con il PR della squadra, vedi com’è la loro visione delle cose.” 
 
“L’ho fatto.” Tomoko era un po’ stupita. “Non fare quella faccia, non sono idiota.”
 
“Beh, hai su quell’espressione da condannato a morte, scusami se pensavo non avessi detto nulla a nessuno.” Sorseggiò il suo tè, scoprendo che si era intepidito parecchio nell’attesa. “Allora?”
 
“Non sono contrari, se è quello che ti preoccupa. Non gli ho detto di Omi, non sono completamente deficiente, ma mi hanno fatto capire che dipende da me, ho l’appoggio dei piani alti, sia che lo voglia rendere pubblico sia che lo tenga privato.” Cominciò a strofinarsi la punta delle dita. “Ai miei compagni non frega nulla di chi mi porto a letto, Wan-san ha cercato di trascinarmi per locali per prendere appunti.”
 
“Inunaki-san non ha bisogno di te per rimorchiare.” Rise Tomoko scuotendo la testa. “Non gonfiarti la testa da solo, è già abbastanza grossa.”
 
“Hey!”
 
“Toshio-san non aveva già avviato qualcosa?” Domandò, ignorandolo.
 
Atsumu sospirò, dandosi una spinta e cominciando a dondolare sulle gambe posteriori della sedia. “Sì ma ha rovinato tutto sposandosi.” Tomoko inclinò la testa. “Con una donna.”
 
“Sì, l’avevo capito dal tono risentito.” Ridacchiò. “Senti, hai la strada aperta. Prenditi il tuo tempo, fatti uscire un paio di palle e chiedi a Sakusa-kun di farti l’onore di toglierti dalla miseria. Poi vedrai quello che devi fare.”
 
“Pensavo che chiedere a te invece che a Samu mi avrebbe salvato da un po’ di insulti ma vedo che non è così.” Borbottò, guardandola infilzare il dolce con la forchetta e prenderne un morso.
 
“La vita è piena di delusioni.” Accettò Tomoko masticando, la mano davanti la bocca perché aveva classe. Poi guardò la torta meravigliata. “Cazzo se è buona.” Mormorò stupita. “L’hai fatta tu?”
 
“Non c’è bisogno di essere così sorpresi, Samu non è l’unico a saper usare i fornelli.”
 
“Beh, ha un ristorante e tu rincorri una palla.”
 
“Lo faceva anche lui, Tomo-chan.” Mise il broncio, le braccia abbandonate all’indietro che dondolavano insieme alla sedia. “Gli ho insegnato io a cucinare.”
 
Tomoko lo scrutò con gli occhi socchiusi. “Non è vero.” Disse lentamente, cercando di sondargli l’anima.
 
“Lo giuro! Ho dovuto farlo, mi rubava sempre il budino!”
 
“Questa la so diversa.” Sorrise saputa puntandogli la forchetta contro. “Non ci provare, raccontane un’altra.” Prese un pezzo di mela caramellata. “Da quel poco che ho visto su di voi, è stata la competizione.”
 
Atsumu annuì “E il fatto che mamma si era stufata di andare a comprare disinfettante, cerotti e spuntini e ci ha costretti a cucinarsi da soli i pranzi per prima e dopo l’allenamento.” Cedette Atsumu con un sorriso affettuoso. “Diceva che la legge della giungla avrebbe fatto il suo dovere.”
 
“Saggia donna. Vorrei conoscerla prima o poi.”
 
“Decisamente no. Ne ho abbastanza di persone che mi tengono per le palle, farò tutto ciò che è in mio potere per non farvi coalizzare.”
 
 
*
 
 
“Mille yen che risolvono la loro merda a dicembre.”
 
“Perché dicembre? Duemila che lo faranno l’anno prossimo.”
 
“Ragazzi, non riescono ad affrontare l’argomento neanche a pagarli.” Osamu-san si rovistò nelle tasche e buttò sul bancone una manciata di soldi. “Cinquemila che passeranno almeno altri tre anni.”
 
Inoue-san guardava quel gruppo di bestioni con genuina curiosità.
 
Si era ormai abituato ad Atsumu-san (sì, era finita la paura) che aveva le spalle ogni giorno più larghe e due cosce decisamente illegali che sembravano in grado di schiacciare cocomeri (e teste) senza il minimo sforzo; trovava normale stare vicino a Sakusa-kun e non riuscire ad arrivargli nemmeno al mento e guardarlo con soggezione montare la maionese senza una goccia di sudore, i bicipiti gonfi di sforzo e nemmeno un capello fuori posto; aveva fatto l’abitudine a lavorare insieme ad Osamu-san che, comunque, aveva un passato da atleta, continuava ad allenarsi ed aveva il vizio di litigare con Atsumu-san su chi era più alto (Osamu-san). Ma in quel momento era circondato da altri due giganti.
 
Conosceva il fidanzato di Osamu-san, erano amici su Facebook e si seguivano un po’ ovunque sui social. Pubblicava un sacco di roba divertente ed era seguito da tantissimi fan. Recentemente era stato contattato come testimonial per una marca di energizzanti e questo aveva quadruplicato la sua popolarità.
 
Non lo aveva però detto ad Osamu-san, che lo aveva scoperto nel modo più duro vedendo il suo ragazzo in televisione mezzo svestito e circondato da ballerine. A seguito di questo episodio, Osamu-san aveva avuto un piccolo crollo, a detta sua, nervoso. La totalità del mondo lo chiamava con il suo vero nome: gelosia decisamente motivata.
 
Quando lo aveva saputo, Suna-san gli aveva mandato un vocale della lunghezza di cinque minuti e quarantatre secondi filati, contenente solamente il suo tentativo più riuscito di risata malvagia. Osamu-san lo ascoltò interamente con i denti talmente serrati da potersi spezzare da un momento all’altro.
 
(Avevano litigato. Tanto. Non aveva mai visto Osamu-san così deluso e arrabbiato, e lo era stato per giorni. Dopodiché Suna-san si era preso un finesettimana di ferie, era arrivato a Osaka e il suo capo si era dato alla macchia per un po’ di tempo. Atsumu-san si era lamentato che non si poteva vivere così, che la notte aveva bisogno di dormire e che doveva sbrigarsi a trovare un altro appartamento.)
 
Se Sakusa-kun ghignò in faccia ad Osamu-san in una squisita dimostrazione di bastardaggine, onorando Inoue-san della vista dei suoi denti forse per la prima volta, Atsumu-san si era accasciato sul bancone, invidioso che a lui non era stata proposto alcun contratto pubblicitario e chiedendo al alta voce a chiunque avesse la voglia di sentirlo in quale mondo la faccia addormentata di Sunarin era adatta per essere la testimonial di una bevanda energizzante.
 
Effettivamente aveva un po’ ragione.
 
“Voi dite che non la risolvono quest’anno?”
 
La terza voce apparteneva alla persona dalla genealogia più strana di cui Inoue-san era a conoscenza. Oddio, no, non strana in senso cattivo, ma quando aveva saputo di chi si trattasse scoppiò a ridere come un matto, fino a che non gli venne giurato che la parentela era legittima, benché senza senso.
 
Komori Motoya lo incuriosiva. Era solare, simpatico, sorridente senza alcun doppio fine malvagio. In quale universo parallelo era il cugino di Sakusa Kiyoomi?
 
Komori Motoya era stato il primo dei tre ad entrare come titolare fisso in partita. A parte Sakusa-kun, ma parlava della lega di pallavolo professionistica.
 
Lo aveva saputo perché il sabato e la domenica, dopo le “riunioni di bilancio”, spesso e volentieri Osamu-san e Sakusa-kun organizzavano il locale per vedere le partite che non avevano potuto seguire durante la settimana. A volte c’era pure Atsumu-san ed era molto divertente quando era presente: non era silenzioso come potevano esserlo gli altri due e la sua sola presenza tendeva ad accendere la vena competitiva di Osamu-san e la meschinità francamente spassosa di Sakusa-kun. Erano tutti molto gentili con lui che di pallavolo non ne sapeva nulla, passando anche ore a rispondere ad ogni sua domanda e litigando tra di loro per classifiche di merito di cui non capiva niente.
 
(Quando il commentatore urlò il nome di Komori Motoya durante una di queste visioni di gruppo, annunciandolo in campo ed elogiandone le qualità e le competenze, Atsumu-san fece un verso strozzato che sottolineava tutto il suo disappunto.
 
“Ti ha fregato.” Aveva commentato piano Sakusa-kun, andando a prendere il suo barattolo di umeboshi personale che Osamu-san riempiva silenziosamente ogni volta che era agli sgoccioli.
 
“La scommessa l’ho vinta io!” Aveva urlato Atsumu-san con aria tradita.
 
“È tipo la terza partita che entra da titolare.” Era intervenuto Osamu-san con una ciotola enorme di patatine gusto pizza tra le mani. Ne prese una manciata e se le ficcò in bocca. “Ti ha fregato.” Mormorò, sputacchiando briciole dappertutto.
 
“Non era quella la scommessa!”
 
“No, hai ragione.” Atsumu-san si era girato verso Sakusa-kun con espressione grata. “Ma ti ha fregato comunque.” Gli aveva porto una confezione di budino dal colore strano e un cucchiaio e si sistemò sulla sedia accoccolato come un gattone, le ginocchia sotto il mento e il barattolo di umeboshi al petto a mo’ di cuscino.
 
Atsumu-san gli aveva lanciato un flaconcino di disinfettante gel che aveva preso dalla tasca, aveva afferrato il dolce e aveva borbottato “Vaffanculo Omi.” scartando il primo vasetto e affondandoci dentro il cucchiaio, scivolando con il sedere quasi fuori dalla sedia.
 
Inoue-san, con la sua busta di pop-corn in mano, non ci aveva capito niente. Gli spiegarono tutto in un secondo momento.)
 
“Non li vedete tutti i giorni come faccio io. Sono un caso disperato.”
 
“Oh, non lo so. Kiyoomi ha cominciato ad accennare qualcosa.” Suna-san, Osamu-san e anche Inoue-san stesso si girarono verso Komori-san con gli occhi enormi.
 
“Cosa?” Domandò Suna-san, aggrottando le sopracciglia e mettendo su la faccia più risentita del suo repertorio. “E quando me lo dici?”
 
“Definisci accennare.” Disse Osamu-san lentamente, socchiudendo gli occhi.
 
“Beh, ha cominciato a parlare di qualcosa.” Cercò di spiegare Komori. “Cioè, roba vaga di quando lavora qua, di Inoue-san, di te che lo costringi a fare la maionese. Del cane.” Qua mise un broncio arrabbiato. “Parla un sacco di quel cane. Mi ha mandato le foto.” Mugugnò qualche insulto fantasioso e poi si riprese. “A volte nomina Atsumu.”
 
“E cosa dice?” Suna-san era rapito dalla svolta degli eventi. “Di Atsumu, dico, non mi frega niente del cane.”
 
“Si chiama come me, un po’ di rispetto.”
 
“Motoya! Cosa ti ha detto!”
 
“Niente di che.” Sembrava che Komori-san avesse difficoltà. Aveva la faccia un po’ sofferente e agitava le mani in movimenti senza senso. “Che è arrivato poco prima della chiusura. Che ha aiutato a scaricare il riso.” Ci pensò ancora un po’. “Ah! Che si era sistemato i capelli! Ha parlato per ben tre minuti dei suoi capelli.”
 
“Dio, è come una dichiarazione.” Suna-san  si portò la mano in faccia, allibito.
 
“E che hanno in programma di allenarsi insieme.”
 
“Aspetta, cosa?” Osamu-san era sconvolto. “Quando cazzo è successo? Quei bastardi.” Si girò di scatto. “Inoue-san, tu ne sapevi qualcosa?”
 
Beh, sì. Era con loro quando ne avevano parlato. “Atsumu-san vuole alzare a Sakusa-kun.” Cercò di spiegare, sperando di averci preso con i termini tecnici.
 
“Ovvio che sì, quel montato di merda.” Ringhiò Suna-san, portandosi le mani dietro la nuca con aria pensosa. Qualche secondo di profonda riflessione e poi scosse la testa. “Niente da fare, per me risolvono l’anno prossimo.”
 
“Beh, ora voglio ripensarci.” Borbottò Osamu-san, riprendendosi i soldi. “Mi aspettavo almeno che quello stronzo di Tsumu si facesse sfuggire qualcosa: non riesce mai a tenere la bocca chiusa e quando serve si ricorda di avere una decenza?” Scosse la testa deluso.
 
“Per me è dicembre, Kiyoomi chiacchiera troppo per i suoi standard.” Chiarì Komori, allungando la testa al di là del bancone per vedere se riusciva a rubare un pezzo di salmone affumicato. Suna-san lo afferrò per il retro della maglia per evitare di farlo capitombolare dall’altra parte. Non fece una piega, sembrava succedesse più spesso di quanto pensasse.
 
“Perché proprio dicembre?” Domandò Osamu-san, passandogliene una fetta senza farlo uccidere.
 
“L’anno scorso sono successe cose a dicembre.” Komori-san infilò l’intero salmone in bocca e quasi lo mandò giù senza masticare. “È tipo il loro mese speciale.”
 
“In realtà è successo a gennaio.” Specificò Osamu-san.
 
“Il numero quando te l’ha chiesto?” Domandò Suna-san, tamburellando le dita sul cellulare.
 
Osamu-san sospirò. “Dicembre, avete ragione. Ma il messaggio l’ha mandato a gennaio.”
 
Inoue-san aprì la bocca per dire qualcosa e la richiuse di scatto. Suna-san se ne accorse. “Inoue-san, perdona la maleducazione ma vediamo questa soap da tanto tempo.” Fece un sorriso storto e la faccia assunse un’espressione un po’ troppo furba. “Vuoi partecipare? Anche pochi yen, Samu qua ha le tasche bucate.”
 
“Oh, è vero!” Intervenne Komori-san. “E mi scuso per mio cugino, qualsiasi cosa abbia fatto o detto posso solo dire che così ci è nato. Nessuno in famiglia ha la sua vitalità da gatto investito.”
 
“Oh, no, no! Sakusa-kun è molto gentile.” Inspirò un po’ forte e, ignorando il verso di scherno di Komori-san, chiese. “Posso partecipare davvero?”
 
“Inoue-san ha avuto le palle d’acciaio di guardare Sakusa negli occhi e chiedergli da quanto stava con Tsumu. Sakusa è andato fuori di testa.” Ghignò Osamu-san, guardandolo con affetto. “Sono così fiero di lui, cazzo.”
 
“Seriamente?” Suna-san scoppiò a ridere e Komori-san aveva le stelline negli occhi. “E nessuno ha pensato di fare un video?”
 
“Non sapevo niente di tutto questo …” Cercò di spiegare.
 
“Meglio ancora!” Rise Komori-san. “Cazzo, avrei dovuto esserci.”
 
“Sakusa ti avrebbe ucciso e mostrato il tuo cadavere come monito per i disertori.” Strascicò Suna-san, il mento sulla mano.
 
“Non lo avrebbe fatto, ha paura che torni a perseguitarlo come fantasma.”
 
“Davvero?” Ridacchiò Osamu-san. “E cosa lo spaventerebbe?”
 
“Il fatto che non può uccidermi di nuovo.” Spiegò Komori-san stranamente serio. “Voglio dire, come uccidi qualcosa di già morto?”
 
“In Supernatural si risolve tutto con il sale, proverei così.”
 
“Secondo te perché faccio di tutto per non farglielo vedere?” Suna-san ridacchiò e Komori-san commentò “Dilettanti.” con fare saputo.
 
“Le olimpiadi sono quest’anno, vero?” Chiese Inoue-san di getto, nella mente un’idea molto precisa. Ottenne la loro attenzione e li vide annuire confusi.
 
Scavò nella tasca dei jeans e tirò fuori delle banconote. Contandole velocemente, alzò gli occhi e fece un sorriso che gli illuminò l’intera faccia. “Io dico che a settembre è tutto sistemato.”
 
“Settembre?” Domandò Osamu-san. “Non è un po’ presto per loro? Siamo solo ad aprile.”
 
“Samu, fatti i cazzi tuoi.” Intervenne Suna-san. “Dobbiamo scrivercelo da qualche parte e decidere chi tiene i soldi.” Lo guardò concentrato. “Sicuro settembre?”
 
Inoue-san annuì con decisione. “Settembre.”
 
 
*
 
 
“Samu! Inoue-san! Omi! Guardate chi vi ho portato!”
 
“Hey hey hey!”
 
“Atsumu, deficiente, perché volevi tenerci lontani?”
 
No, non era possibile. Sakusa strinse gli occhi fino a farsi male, inspirando così a lungo che passarono alcuni secondi prima che si decidesse di liberare i polmoni. “Voglio andare a casa.” Mormorò piano. Osamu gli rise in faccia, salutando i nuovi arrivati. “Ciao ragazzi! È un onore avere qua i baby-sitter glorificati di Tsumu!”
 
“Samu, vaffanculo!”
 
Sakusa si girò, ritrovandosi la totalità dei Black Jackals all’interno del locale. E Bokuto. Cazzo, no, perché c’era Bokuto? “Osamu-kun, finalmente questo marmocchio ci ha portato qua da te.” Il capitano Meian si avvicinò al bancone, portandosi dietro Atsumu dopo averlo afferrato per la nuca con presa decisa. “Parla degli onigiri più buoni del mondo e non ci ha mai detto dove li mangia.”
 
“Meian-san, non dire cazzate. Sono a malapena passabili.” Borbottò Atsumu schivando una bottiglia di plastica lanciata da suo fratello.
 
“Osamu-san, se devo pulire di nuovo i vostri casini stavolta ve li faccio mangiare.” Mormorò Sakusa guardandolo male ed involontariamente concentrando su di sé la loro attenzione. Si maledisse internamente. Una volta era più furbo.
 
“Sakusa!” Il loro libero, Inunaki gli sembrava di ricordare, si avvicinò. Fortunatamente non lo toccò, anzi, sembrava fare uno sforzo notevole per tenere le mani per sé stesso. Nh, buono, Miya doveva averli catechizzati. “È stato un onore ricevere le tue schiacciate infami questi anni.” Gli mostrò un ghigno troppo astuto e lui abbassò la testa per ringraziamento. “Ti sono arrivate le mie maledizioni?”
 
“Wan-san, che cazzo.”
 
Wow, era uno stronzo. Bello. “È difficile dirlo, anche se sembra vi piaccia vedere la palla schizzare via.” Inclinò la testa in modo piacevole ma la faccia era completamente vuota. Ci fu un silenzio carico di aspettative. Gli occhi di Inunaki si strinsero.
 
“Oh mio Dio.” Si sentì piano Inoue-san, che non sapeva nulla di pallavolo ma sembrava avere un sesto senso eccezionale per le risse. 
 
Meian lo guardò con il sorriso tirato, congelato al bancone. Degli altri solo Barnes se ne fregava allegramente chiedendo informazioni sugli ingredienti ad un preoccupato Osamu, che cercava di rispondere e tenere sott’occhio la situazione. Bokuto stava vibrando sul posto.
 
Atsumu si avvicinò cauto. “Wan-san, senti …” Cominciò, ma Inunaki, contro tutti i più oscuri presupposti, scoppiò a ridere come un matto, alzando le mani in segno di sconfitta. “Sakusa-kun, sei un gioiello! Lo voglio in squadra capitano!”
 
Ci fu un sospiro generale di sollievo. “Vedrò cosa posso fare.” Sghignazzò Meian, scuotendo la testa. “Sakusa-kun, mi scuso per questo goblin.”
 
“Sono abituato.” Rispose, facendolo ridere.
 
“Hey! Sto creando un legame qua!” Meian si girò verso Adriah e lo pregò di portare via il libero selvatico. “Osamu-san, hai un tavolo abbastanza grande per noi? Abbiamo stracciato gli Hornets e vorremmo festeggiare.”
 
“Certo! Tsumu unisci quei tavoli.”
 
“Non sono il tuo schiavo.”
 
“Unisci i tavoli o inondo il tuo ordine con il wasabi.”
 
E un Atsumu ribollente si avviò obbediente per evitare di essere ucciso.
 
“E tu invece Bokuto?” Chiese quindi Osamu, cominciando a preparare gli ingredienti sul piano da lavoro. “Che ci fai qua? Ti sei perso?”
 
Beh, poteva essere. Sakusa ci sperò con una passione che non riservava nemmeno per i suoi nipoti.
 
“È la nuova recluta dei Black Jackals!” Spiegò Meian orgoglioso, mentre Bokuto gonfiava il petto come un tacchino. “La partita di oggi è stata il suo debutto e non poteva fare meglio.”
 
Cazzo, no. Si sarebbe parcheggiato nel ristorante a qualsiasi ora del giorno e avrebbe cominciato a urlare, ne era sicuro.
 
A dispetto dei suoi pensieri non propriamente teneri nei confronti dell’ex asso della Fukurodani, Sakusa non aveva niente contro Bokuto, seriamente. Lo ammirava, era tenace, aveva un lungolinea malvagio e una diagonale ancora più cattiva e dava sempre il massimo. Era sempre stato un rivale interessante.
 
Bokuto, però, aveva qualcosa contro di lui. Non in modo cattivo, Bokuto Koutarou non avrebbe saputo essere cattivo nemmeno se si fosse sforzato, ma appena lo vedeva gli gridava cose: sull’essere assi, sull’essere più bravi, sul batterlo, roba da esaltato del genere.
 
Lo aveva sentito spesso, in passato, da gente diversa. Anche adesso, se doveva essere preciso. Ma mai con il volume di voce di Bokuto.
 
Aveva già tirato un sospiro di sollievo quando aveva saputo di Hoshiumi Kourai prontamente arraffato dagli Adlers, recitando sentito una preghiera per le orecchie dell’intera squadra. La piccola, potente e caotica personalità di Hoshiumi era comunque contrapposta all’assoluta calma e stoicità di Wakatoshi e di Kageyama, quindi si riusciva a creare una sorta di equilibrio cosmico che permetteva al mondo di non essere disintegrato dalla pura forza delle sue vibrazioni ma, cazzo, non aveva preso in considerazione Bokuto. Era stato decisamente un errore.
 
Lo stancava anche solo pensarci: sapere che avrebbero vissuto praticamente nella stessa città gli faceva accarezzare l’idea di andare a giocare in autostrada. 
 
E poi, seriamente, i Jackals erano così pazzi? Prima Atsumu, poi Bokuto. Senza contare Inunaki, la cui gestione non sembrava proprio una passeggiata. Certo, tutta gente di un certo livello, ma dovevano giocare a pallavolo, non partecipare al carnevale di Rio.
 
“Sakusa! Che figata ritrovarti, lavori davvero qua? Tsumu mi ha detto qualcosa ma non ci credevo!”
 
Dio, ora doveva anche rispondergli. “Ciao Bokuto.” E sperò finisse così. La sua parte l’aveva fatta.
 
Osamu, però, decise di mettere in moto i geni Miya. “Sakusa-kun, ti affido il loro tavolo.” Si mise velocemente d’accordo con lo sguardo con Inoue-san, che annuì tranquillo.
 
“Ho altri clienti.” Cercò di controbattere, inutilmente. Osamu  ghignò. “Se ne prenderà cura Inoue-san, in confronto sono gestibilissimi. Vai e divertiti, hai bisogno di svagarti.”
 
E non era gentile, quando lo disse. Era facile sbagliarsi. Lo guardava con una faccia che chiedeva solo di essere presa a pugni e lo sapeva che voleva soltanto mettersi a correre e non fermarsi mai più, lo sapeva. Ma non poteva rifiutare, non funzionava con Osamu: sarebbe diventato solo più infame.
 
Sakusa sospirò, sentendosi in trappola. Doveva trovare modi nuovi per vendicarsi.
 
“Omi, vieni, siediti!” Miya batté la mano sulla sedia vuota vicino a lui, mentre Bokuto agitava le braccia a richiamarlo come se stesse per affogare. Lui si avvicinò con una smorfia.
 
“Devo lavorare, Miya.” Si guardò intorno con fare professionale. “Sarò il vostro cameriere, se Osamu-san non decide diversamente come ha fatto poco fa.”
 
“Ti sento!” Urlò Osamu da sopra lo sfrigolio della carne sulla piastra.
 
“Lo so, l’ho detto ad alta voce.” Rispose senza nemmeno girarsi. Inunaki ridacchiò e Adriah-san si coprì il sorriso con la mano.
 
“Nei menù c’è scritto tutto, allergeni compresi. Per ogni problema sono disponibile per chiarimenti.”
 
“Sakusa, mettiti seduto con noi intanto che scegliamo.” Se ne uscì Inunaki, occhieggiando il posto vicino a Miya. “Tanto hai solo noi, facciamo quattro chiacchiere.”
 
“Non voglio.” Cominciò a dire, ma la voce esagerata di Bokuto coprì la sua risposta. “Oddio sì! Sakusa è da un saaaaacco di tempo che non parliamo!” Non lo avevano mai fatto. Non ce n’era mai stato motivo.
 
Li guardò, però, sentendosi un po’ uno schifo davanti gli sguardi da cucciolo con cui Inunaki, Miya e Bokuto cercavano di convincerlo. Erano orribili, ma se li avesse assecondati forse lo avrebbero lasciato in pace. “Solo cinque minuti.” Chiarì, scivolando giù sulla sedia.
 
“Allora.” Cominciò Inunaki e già i campanelli di allarme di Sakusa cominciarono a squillare impazziti. “Come mai l’università?”
 
“Oddio, non anche tu.” Mormorò mentre Miya e Bokuto annuivano soddisfatti. “Diglielo Wan-san! È uno spreco!” Gli diede man forte Atsumu, riempiendosi un bicchiere d’acqua e facendo il giro tra i suoi compagni.
 
“Pensavo l’avessi superato.” Sibilò mettendoci tutto il veleno che poteva. Miya ghignò. “Mai. Finché non me lo spieghi.”
 
“Ragazzi, che c’è di male a voler continuare gli studi?” Domandò Adriah-san, sbattendo le palpebre confuso. “È una cosa del Giappone?”
 
“No, è solo Miya che è un marmocchio.” Spiegò Meian-san con sospiro. Sakusa lo ammirò: quell’uomo doveva avere tanta di quella pazienza che avrebbe potuto venderla e con il ricavato camparci di rendita.
 
“Capitano, l’hai visto giocare. Non ti sembra uno spreco?”
 
“Miya, sai quanto è alta la probabilità di infortunio su un soggetto con ipermobilità articolare?” Domandò, finalmente stufo.
 
Lui lo guardò con gli occhi a palla. “No? Cosa sarebbe?”
 
“I polsi strani.” Suggerì Barnes-san prendendo una manciata di edamame e portandosele al tovagliolo. Sakusa lo ringraziò mentalmente, sia per la risposta che per la pulizia.
 
“I polsi strani? Cioè, è tipo un superpotere?” Bokuto sposò gli occhi sulle sue mani con ammirazione. “È una figata!”
 
“Sì, finché non ti si rompono perché prendi un bicchiere d’acqua, ad esempio.” Intervenne Meian-san severo. “Non è un superpotere, è una cosa con cui deve convivere e starci mille volte più attento di quanto faremmo noi di solito.”
 
“E lo aiuta con l’effetto in battute e schiacciate.” Brontolò Inunaki, strizzando gli occhi con fare maligno.
 
Sakusa alzò le spalle, un sorriso leggero che ad un occhio non allenato sembrava più uno spasmo. “Tra le altre cose.”
 
“Quindi fammi capire, sei andato all’università perché hai paura di farti male?” Lo accusò Miya.
 
“No, sono andato all’università perché se poi mi faccio male posso vivere con un altro lavoro e non devo chiedere l’elemosina sotto i ponti.” Gli rispose, zittendolo. “Fattene una ragione, tra due anni vedrò chi mi vorrà.”
 
“Ed è una decisione molto intelligente.” Si complimentò Meian-san con fare paterno. Sakusa strinse le labbra, non sapendo cosa dire.
 
“Woooh, che significa? Che io e Bokuto non siamo intelligenti?” Esclamò Atsumu, sentendo la tensione e cercando di spezzarla. “Perché lo siamo, diglielo Bokkun!”
 
“È vero! Akaashi ha sempre detto che sono molto intelligente, devo solo urlare di meno.”
 
“Sante parole.” Mormorarono Sakusa e Meian insieme. “Akaashi era il setter del Fukurodani, vero?”
 
“Sì! Era bravissimo ma non ha continuato. Anche lui sta all’università, a Tokyo però.”
 
“Hey, Omi! Sai come ho saputo che Bokuto sarebbe stato dei nostri?” Lo bloccò Miya perché era evidentemente un cafone,  mentre Inunaki-san e Adriah-san cominciavano a ridere. “Mi si è schiantato addosso mentre ero a mezz’aria per una battuta, urlandomi nelle orecchie e piangendo come il gufo che è!” Sakusa provò un pizzico di vicinanza emotiva per quello.
 
“Ero felice!” Si giustificò Bokuto, il solito sorriso enorme che gli apriva la faccia in due. “BUM! Entro nei Jackals! BUM! Trovo Tsum lì! E ora te, sembra stiamo tutti qua!”
 
“Evviva.” Commentò piatto, sentendo uno sbuffo di risata dalle parti di Meian e Barnes. “Allora, ragazzi, siete pronti per ordinare?”
 
Venne investito da una quantità di voci ammassate una sopra l’altra e mentre Inunaki-san e Bokuto litigavano per il condimento da far portare, Barnes-san continuava a chiedere informazioni sulla preparazione dei piatti cercando di farsi sentire sopra gli altri con Adriah-san che tentava di ascoltare, curioso quanto lui. A Sakusa stava venendo mal di testa.
 
Quando ebbe finito, sperando di essere riuscito ad appuntare tutto, chiese delle bevande e si girò per portare la comanda ad Osamu. Fu in quel momento che Miya parlò. “Sai, Omi, sei un cameriere provetto.” Canticchiò in maniera odiosa, guardandolo da sotto le palpebre con un ghigno di pura insolenza. Sakusa si girò lentamente. “Sei perfetto per questo. Abbandona tutto e segui la tua strada.”
 
Sakusa inclinò leggermente la testa. “Oh, hai ragione. Cercherò di ricordarlo quando segnerò il primo ace della partita proprio accanto al tuo piede.”
 
Se Atsumu strillò indignato e Bokuto urlò alla guerra, Sakusa sogghignò accompagnato dalle risate sentite di Inunaki-san “Ti ha fregato, stronzo!” Urlò, allungandosi per dare uno scappellotto alla testa di Miya, che incassò con un sorriso affettuoso. Meian si scambiò uno sguardo con Osamu, che li sentì ed imprecò mentalmente.
 
A fine serata, come il capitano tutto d’un pezzo che effettivamente era, si avvicinò al bancone per risolvere il conto. “Allora.” Cominciò, strofinandosi le mani pensoso. Osamu lo guardò incuriosito. “Sakusa e Miya.” Disse solo e Osamu sbuffò. “Atsumu ha fatto un po’ di domande tempo fa. Domande un po’ troppo specifiche.”
 
“Non è mai stato troppo furbo.” Mormorò e Meian accettò fin troppo velocemente. “Hanno qualcosa in corso?” Chiese piano, prendendo lo scontrino e cercando il portafogli nelle tasche dei pantaloni.
 
Osamu lo scrutò per un lungo secondo da sotto le palpebre abbassate, cercando le parole adatte. “La risposta che darò cambierà qualcosa per loro?” Domandò lentamente. “Perché non se lo meritano.” Ed era veramente serio. Avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere suo fratello e quello che era diventato un amico importante.
 
Meian alzò lo sguardo di scatto stupito, non capendo immediatamente. Vedendo la fermezza nei suoi occhi, però, ridacchiò, scuotendo la testa. “Osamu-kun, farebbe solo bene ad Atsumu qualcuno che non se la prenda per le stronzate che dice e riesca a tenerlo in punta di piedi.” Spiegò semplicemente e Osamu riuscì a respirare più libero, la tensione che gli scivolava addosso. “E penso che anche Sakusa-kun riuscirebbe a rilassarsi un po’, è veramente un ragazzo serio.”
 
“Parlate dei due polli?” Domandò Inunaki, spuntando da dietro il suo capitano. “Perché, amico, sono così ovvi che mi aspettavo di vederli montare sul tavolo e darci dentro da un momento all’altro.”
 
“Hai descritto precisamente l’ultimo anno e mezzo della mia vita.” Mormorò Osamu piatto, tra l’ilarità generale. “Signori, ho una proposta per voi.” Tirò fuori un foglietto e  lo mise sul bancone, ben attento a non farsi notare. “Stiamo mandando avanti una scommessa. Volete partecipare?”
 
“Tu e chi altro?” Domandò Barnes raggiungendoli, interessato. “Di quanto parliamo?”
 
“Davvero?” Chiese retorico Meian, guardandolo male. “Anche tu?”
 
“Beh, è una vittoria facile. Dobbiamo solo azzeccare la data.”
 
“Il mese, più che altro. La puntata è a piacere.” Spiegò Osamu tranquillamente. “Ci sono io, Inoue-san, Suna e Komori della EJP Raijin.”
 
“Adriah! Vieni, dammi una mano!” Gridò Inunaki al vuoto, gli occhi avidi sul foglietto. Fortunatamente i diretti interessati erano alle prese con Bokuto e non sentirono. “Secondo te quando scoppiano?”
 
 
*
 
 
Atsumu non era una persona da … beh … persone.
 
Conviveva da un sacco di tempo con quella consapevolezza e, ad essere sinceri, non era che la cosa lo facesse necessariamente rimanere sveglio la notte.
 
Non gli piacevano le persone. O, meglio, persone inutili. Era meglio sottolinearlo. Aveva scoperto presto che alle persone non piaceva molto lui, quindi il sentimento era decisamente contraccambiato.
 
Aveva avuto un primo assaggio di quell’informazione anni prima, alle medie, quando il suo amatissimo fratello lo informò che nella squadra di pallavolo lo odiavano tutti. Poi aveva commentato, con lo stesso tono di voce annoiato, che il suo sedere stava diventando grasso e che doveva dargli tutto il suo bento, altrimenti non sarebbe riuscito a passare dalle porte. Ovviamente era finita a spintoni e morsi.
 
Ad Atsumu non era importato: non doveva passare la sua vita con quella gente, sinceramente non gli fregava niente se non lo potevano vedere. Finché avrebbe fatto il suo lavoro, in maniera eccellente come al solito, nessuno aveva il diritto di dirgli alcunché.
 
I suoi fan erano una cosa a parte.
 
Inizialmente era stato strano passare alle superiori e sentire tutto quel calore non richiesto: la gente stravedeva per i gemelli Miya, i fan club a loro dedicati aumentavano esponenzialmente ogni mese tanto da averne perso il conto e lui aveva scelto di andare decisamente con la corrente. Non vedeva proprio perché non avrebbero dovuto adorarli: erano belli, erano bravi, lui in particolare era la rappresentazione del Dio dei setter in terra, era solo una conseguenza naturale che la plebe avrebbe adorato il terreno su cui camminava.
 
Certo, fino a che certi maiali non avrebbero strillato durante la sua sacra battuta.
 
Seriamente, non era difficile: se stavano tutti zitti, dovevi solo prendere esempio e rimanere zitto anche tu. Era elementare. Anche Samu ci sarebbe arrivato.
 
Aveva diciassette anni e la pallavolo era la sua vita. Neanche un paio di anni dopo capì che, in certe situazioni, quelle che aveva apostrofato come maiali dovevano essere chiamate principesse e si sarebbero aperte le porte del paradiso.
 
Era la situazione ideale: lui era felice, loro erano felici e Samu era quello più felice di tutti, che si ritrovava con la casa finalmente libera e poteva fare tutto il sesso in cam che voleva con Sunarin senza averlo tra i piedi. C’era da dire che la sua presenza non lo aveva mai fermato, ma gli piaceva pensare che un minimo di decenza la avesse anche lui.
 
Gli uomini erano stati un esperimento che gli era piaciuto decisamente tanto e che, però, aveva tenuto sotto banco: era libero con la sua sessualità, ma era anche consapevole che tra il sentire e il vedere c’era un mare enorme. Era perfettamente conscio di qual era il suo scopo nel grande schema della pallavolo e non avrebbe mandato tutto a puttane soltanto perché non era riuscito a tenerlo nei pantaloni, soprattutto con una persona che non avrebbe neanche più rivisto.
 
Era cauto, sapeva come andava il mondo e agiva di conseguenza.
 
Poi era capitato Omi e, per la prima volta, si interessò seriamente a qualcuno. Era stata una fioritura tardiva, la sua, iniziata con sguardi curiosi e bastoni nel culo a diciassette anni per poi ritrovarsi a venti a cercare di capire il perché di molte domande.
 
Perché era così stronzo. Perché era andato all’università. Perché non si tagliava i capelli. Perché non era un professionista. Perché quei nei erano così allineati.
 
Perché gli aveva preparato il tè caldo quel giorno piovoso di novembre. Perché lo aspettava per vedere le registrazioni delle partite. Perché gli faceva trovare budini sempre di gusti diversi. Perché cercava, a modo suo, di tirarlo su di morale dopo una sconfitta. Perché era così stranamente gentile.
 
Perché perché perché.
 
Perché sentiva il bisogno di far sparire le occhiaie sotto i suoi occhi profondi. Perché era la prima persona che cercava quando entrava nel locale di suo fratello. Perché era stranamente umorale quando non si incontravano per ritiri e trasferte. Perché voleva vederlo ridere.
 
Avevano cominciato a scambiarsi messaggi sempre più spesso in quei mesi. Si erano avvicinati, anche se mantenevano quell’aura di competizione perenne soprattutto davanti gli altri. Era facile gareggiare con Omi: si era presentato come una sfida e cazzo se non aveva mantenuto la parola.
 
Era una giornata di luglio e faceva un caldo bestiale. L’anno prima Samu era riuscito a far installare dei condizionatori sia nella sala che in quel buco di studio e adesso lui e Omi stavano sfruttando quel fresco artificiale con una faccia tosta da manuale.
 
Samu se ne era andato con la scusa di una commissione di un paio di ore, lanciandogli un’occhiata laterale che non aveva capito del tutto ma che intuiva come un segno di darsi una mossa. Inoue-san era tornato a casa per pranzare con la sua ragazza, una cosina adorabile che le guance naturalmente rosa che studiava per diventare maestra d’asilo. Rimanevano lui e Omi.
 
Omi aveva appena finito di scrivere un saggio per l’esame che avrebbe dovuto sostenere tra qualche giorno e stava preparando lo streaming dell’amichevole di Falcons contro Adlers che c’era stata nel mezzo della settimana. Aveva ancora quegli occhiali dalle lenti colorate sul naso e la vista gli lasciava la voglia di baciarlo senza senso.
 
“Nerd.” Lo apostrofò gratuitamente, un sogghigno storto tutto per lui. Omi batté le palpebre e capì dopo qualche secondo a cosa si riferisse. Non commentò, ma lo onorò di un’occhiata al vetriolo che da sola era una bellezza.
 
“Togliti quella roba dalla faccia, sembri un gangster di basso livello.”
 
“Ovviamente li sai riconoscere, quindi dovresti sentirti a tuo agio.” Mormorò piano, sistemando l’inclinazione dello schermo e sedendosi accanto a lui. “Ora zitto, inizia.”
 
Si posizionò meglio sulla sdraio, curvandosi leggermente e portando le ginocchia sotto il mento. Come riuscisse ad entrare tutto lì dentro era un mistero, ma non aveva mai visto qualcosa di così ridicolo e adorabile al tempo stesso e sì, si stava rammollendo. “Mettiti dritto.” Borbottò, girandosi per guardare la linea di Aran in battuta. “Ti fotterai la schiena un giorno di questi.” Lo sentì sbuffare dal naso e non gli diede alcuna soddisfazione, muovendo invece il sedere sul posto come per sistemarsi meglio. Atsumu lo vide con la coda dell’occhio e si lasciò scappare un sorriso.
 
Era strano e bello insieme vedere una partita con Omi. Entrambi non accettavano gli errori, commentavano ogni azione e molto spesso la pensavano allo stesso modo. Ma c’erano volte in cui la loro visione del gioco si scontrava, segno dei loro caratteri così appassionati e fortemente sicuri. C’erano sbavature che Atsumu non accettava e che Omi lasciava passare con un’esperienza di ruolo più marcata. C’erano momenti in cui Omi storceva il naso e Atsumu annuiva comprensivo. C’erano situazioni in cui entrambi si facevano sfuggire suoni strozzati a seguito di particolari azioni e partivano con diatribe sempre più focose su schemi, viste e occasioni mancate.
 
Si chiese oziosamente come sarebbe stato giocare con lui, invece che contro. Decise di non volerlo sapere.
 
“Kageyama è migliorato.” Commentò Omi con occhio critico, togliendosi gli occhiali e poggiandoli sulla scrivania, massaggiandosi le palpebre con il dorso della mano.
 
“Avere quel tipo di giocatori intorno te lo fa fare, Omi.” Mise inconsciamente il broncio, spostando la testa di lato. Anche lui sarebbe migliorato in un attimo giocando con Romero, doveva solo vedere se quel santarellino avrebbe avuto la faccia di cambiare le carte in tavola a suo piacimento come era accaduto regolarmente con il piccoletto dai capelli rossi, Hinata Shouyou. Fino a quel momento era stato anche troppo diligente, per i suoi gusti.
 
“Non sei obiettivo.” Lo rimproverò. “Non ha avuto molto tempo per lavorare con loro, lo hanno buttato dentro subito.”
 
“È un’amichevole. Anch’io sono entrato in un’amichevole appena iniziato. Anche Bokuto.”
 
“Lui è veramente bravo.”
 
“Sì, beh, io ero meglio.” Brontolò e Omi ebbe il buon senso di sorvolare e non girare ulteriormente il dito nella piaga.
 
“Bambino.” Mormorò comunque, perché se non gli diceva qualcosa di diversamente carino ogni cinque minuti sarebbe morto. Atsumu sporse il labbro ancora di più.
 
Fu durante una delle schiacciate stronze di Ushiwaka, vedendolo strizzare gli occhi per assorbire la vista di ogni singolo guizzo di muscolo, che decise che era arrivato il momento. “Esci con me.” Disse semplicemente, continuando a guardare la partita da quella posizione mezza storta.
 
Era scivolato fuori con una facilità che non si aspettava, come se stesse parlando del tempo. Non era agitato. Non era preoccupato. Non aveva la voglia di tapparsi le orecchie a intermittenza e fare versi per non sentire la risposta.
 
Si aspettava una reazione del suo corpo decisamente peggiore, poteva ammetterlo, con palmi sudati e il cuore che cercava di scappare dal petto. Invece no, era stato naturale.
 
Doveva essere fatto in quella precisa situazione, capì. Svaccati sulle sdraie a discutere di cose stupide con il loro primo amore davanti gli occhi. Non poteva esserci momento migliore.
 
Omi batté lentamente le palpebre e prese qualche secondo di silenzio. Poi sbuffò piano dal naso e alzò le spalle. “Ok, dove vuoi andare?”
 
… Eh? Si girò a guardarlo di scatto.
 
Omi gemette con soggezione con gli occhi sullo schermo, arricciando il naso, rapito dalla potenza bruta della schiacciata di Aran. Atsumu, assorbendo l’impatto della risposta, si scoprì improvvisamente sconvolto. “Davvero è così facile?” Domandò piano, come se alzando la voce anche di mezzo tono avrebbe potuto fargli cambiare idea.
 
“Che vuoi dire?” Lo sentì chiedere aggrottando le sopracciglia.
 
“Cioè, usciresti con me? Con me?”
 
“Usciamo sempre, dov’è il problema?”
 
No, non uscivano mai. O, almeno, non le uscite che si era immaginato Atsumu. “Omi, mi sa che stiamo parlando di due cose diverse.” Lo avvisò, mettendosi a sedere dritto e sporgendosi verso di lui. Omi finalmente si girò a guardarlo in faccia, il viso completamente rilassato. “Io intendo uscire con me.” Lo vide annuire, sicuro. “Come un appuntamento, capisci? Tenersi per mano, lingua in bocca, sveltine nel ripostiglio, cose così.”
 
“Sei decisamente schifoso.” Ma ridacchiava mentre lo diceva e cazzo se non era l’insulto più bello che gli avessero mai detto. “Ho detto di sì, cosa c’è di difficile?” E aveva una spolverata di rosa sulle guance e non riusciva più a guardarlo negli occhi e voleva solo buttarsi su di lui e non lasciarlo andare mai più.
 
“Non mi stai prendendo in giro, vero?” Domandò cauto, il cuore che batteva all’impazzata. “Perché sono a mezzo secondo dall’avventarmi su di te e non voglio cominciare ora a coprire denunce di molestie.”
 
“Non dovrebbe succedere al terzo appuntamento?”
 
“L’hai detto tu, usciamo sempre, dove sarebbe il problema?” Ghignò e lo vide cercare di aggirare pensoso la logica della frase. “Quante volte l’abbiamo fatto? Ormai il terzo appuntamento è un ricordo lontano.”
 
“Non esagerare.” Lo ammonì, girandosi per continuare a guardare la partita con aria concentrata. “Siamo a malapena a cinque.”
 
“Cinque cosa?”
 
“Cinque uscite.” Si morse il labbro al muro dei Falcons. “Cazzo, devo far vedere questo all’allenatore. Aran-san è veramente forte.”
 
“Sì, è fantastico, ma non ti distrarre.” Atsumu si alzò e bloccò velocemente il video, incespicando con i tasti per la fretta. Omi sospirò rassegnato, un sorriso leggero sulle labbra. “In che senso cinque uscite? Erano appuntamenti?”
 
Omi lo fissava con un’espressione consapevole che lo fece uscire di testa. “Mi hai scarrozzato in auto più volte di quanto servisse.” Cominciò a spiegare con tutta la pazienza del mondo.
 
“Siamo amici, lo faccio con tutti.”
 
“Con chi?” Chiese tranquillamente, inclinando la testa di lato. Atsumu boccheggiò ma non seppe rispondere. “Presumo quindi che tu vada a prendere un sacco di gente avvertendola solo con un messaggio e conoscendo perfettamente i loro orari di lezione e allenamento.” Strinse le labbra, godendosi il suo sguardo smarrito. “Sei un amico veramente premuroso.”
 
“Oh, fottiti. Ok, passi la macchina. Che altro?”
 
“I dolci. Il disinfettante. Le discussioni sul prendermi cura di me stesso. Il pomeriggio sul campo dei Jackals quando non c’era nessuno.” Adesso che lo sentiva ad alta voce si rendeva conto che sì, effettivamente si comportavano come in una relazione da un casino di tempo.
 
Si era preoccupato inutilmente. Si sentiva così stupido.
 
“Non sono cinque uscite.” Borbottò, solo per il gusto di avere ragione.
 
Omi accettò tranquillamente. “Ok, non sono cinque. Sinceramente non so quante sono ma sembra che stiamo insieme da un po’.” E arrossì, evitando di guardarlo. Era adorabile e voleva mangiarlo, ma non era ancora nel pieno delle sue facoltà mentali.
 
Atsumu era decisamente sconvolto. “Quando avevi intenzione di dirmelo?”
 
“Che ne sapevo che non avevi capito? Ti comportavi in modo così normale.”
 
Aveva ragione, cazzo. Aveva ragione, era stato lui quello un po’ tirato tra i due, Atsumu aveva sempre agito con la facilità della consapevolezza, con la differenza che non se ne era mai accorto. Dio, aveva ragione Samu quando diceva che non capiva un cazzo.
 
“Pensavo non volessi definire niente.” Gli rivelò Omi con una smorfia leggera e voleva prendersi a pugni da solo.
 
“Credimi, ho affrontato un sacco di tempo e conversazioni imbarazzanti per poter definire qualcosa senza rovinare la carriera di nessuno dei due.” Gli disse portandosi le mani ai capelli e tirandoseli leggermente fino a sentire il bruciore delle radici perché sì, doveva capire se era vero e il dolore era la via più veloce.
 
“Non ho una carriera.”
 
“Omi, sinceramente, vaffanculo. Ogni fottuta squadra sta litigando per te, hai una carriera.” All’improvviso nella testa si stabilì un singolo pensiero decisamente fastidioso. “Quindi sono passati mesi.” Vide Omi annuire e finalmente, finalmente, stabilì le giuste priorità. “Omi, devo baciarti.”
 
“No.” Ed era definitivo. Era secco e fermo e decisamente arrabbiato.
 
“Ne ho bisogno! Perché no?”
 
“Perché no.”
 
“Oh mio Dio, sei il ragazzo peggiore del mondo, hai bevuto dal mio bicchiere! Non ti va di baciarmi?” Cazzo, era vero, aveva bevuto dal suo bicchiere. Per sbaglio, sì, ma dopo non si era scolato mezzo litro di alcool denaturato per disinfettarsi la bocca e questo avrebbe dovuto aprirgli gli occhi in più di un modo.
 
Lo vide mettere il broncio e arrossire facilmente, quindi sì, lo voleva quanto lui. “È il tuo primo bacio?” Domandò con un sorriso intenerito. Aw, il suo Omi, così puro e innocente.
 
Omi sbuffò derisorio, quasi ridendo. “Certo che no.” Atsumu si pietrificò. “E se continui così non sarà neanche l’ultimo con la stessa persona.” Lo scansò, ignorando la sua espressione decisamente oltraggiata, e riprese la visione della partita. “Mettiti seduto, prima mentre parlavi Kageyama ha fatto qualcosa che dovresti decisamente vedere.” Si riposizionò sulla sdraio, le ginocchia al mento e lo sguardo di nuovo concentrato.
 
Atsumu continuò a fissarlo sconvolto per tutto il resto dello scontro.
 
Quando Samu ritornò, gli chiese come era andata la partita e chi avesse vinto. Non aveva saputo dargli una risposta.
 
 
 
 
Note

Non mi hanno rapita gli alieni, solo l’università.
 
Salve a tutti! Ho un paio di appunti da fare.
 
  • Non volevo approfondire troppo la questione sui diritti LGBT in Giappone, non è quel tipo di storia, l’ho resa volutamente leggera. Ma volevo parlarne un po’, anche se solo in maniera superficiale. Atsumu alla fine qua è un ragazzo di 20 anni, diventato personaggio pubblico. Una celebrità minore, sì, ma pur sempre una celebrità. E fanno scandalo facile.
    Mi sono informata per cercare di capire come muovermi, per rendere la cosa non dico credibile perché è comunque una fan fiction, ma almeno accettabile, senza rendere il tutto troppo rosa.
    Wikipedia in merito è stata molto esaustiva (sì, dopo varie capocciate in giro sono andata sul sicuro): dal 2015 alcune città, tra cui Osaka, hanno iniziato a emettere certificati di relazioni alle coppie omosessuali. Dal 2017, primo caso, Osaka permette alle coppie omosessuali di essere riconosciute come famiglie affidatarie.
    Ci sono varie personalità dello spettacolo e della politica transessuali, quindi l’accettazione sta cominciando ad avere piede.
    Quindi Atsumu si fa le sue giuste paranoie, poi Sakusa manda tutto all’aria. Ma alla fine è una mia storia, quando scriverò qualcosa di veramente serio congelerà l’inferno XD
  • Spero non mi uccidiate per come li ho fatti mettere insieme. Ci ho pensato tanto, avevo tante idee diverse, dovevo solo scegliere. Vi giuro, questa è uscita fuori da sola mentre scrivevo.
    Penso che alla fine sia una conseguenza logica: molte storie nascono dal solo stare bene, senza paranoie inutili, senza problemi. Si sono imparati a conoscere, si sono accettati, si sono cercati.
    Come dice Atsumu, doveva accadere in quel momento.
 
Ho finito!
Spero vi sia piaciuto il capitolo, che sia stata una buona lettura!
Se vi fa piacere, sono aperta a critiche e commenti di ogni tipo (ma non fatemi piangere XD)
 
Grazie per aver letto!
 

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Capitolo 4
*** Anno 3 ***


Anno 3
 
“Ho sentito Wakatoshi. Si sta allenando duramente.”
 
Atsumu aggrottò le sopracciglia, continuando ad annusare il collo di Omi e poggiando le labbra sulla sua pelle sottile. Poteva sentire il suo cuore scandire regolarmente i battiti e le vibrazioni della sua voce dritte sul viso e pensò che, se il suo ragazzo aveva la voglia di parlare di Wakatoshi del cazzo mentre stavano sul divano a far finta di guardare la televisione, forse non stava facendo un così buon lavoro. Fece scivolare le mani sotto la sua maglia senza salire oltre la cinta, accarezzandogli i fianchi con dita leggere e sentì il suo respiro tremare leggermente. Ghignò.
 
Cominciò a lavorare di bocca, lentamente, baciandogli la colonna del collo con sole labbra, pennelli umidi e lascivi, poggiando i polpastrelli più aderenti sulla pelle calda della vita. “Ha detto che ha intenzione di … di provare una cosa e … e …” Aprì la bocca e gli fece sentire un lieve accenno di denti, raschiando piano. Lo sentì inspirare forte e muoversi in avanti con il torace, avvicinandosi a lui. “Puoi smetterla?” Sibilò, portandogli una mano sul retro del collo e stringendo leggermente, spingendolo contro di lui in completo contrasto con le sue parole.
 
“No, continua.” Gli mormorò Atsumu dritto sulla pelle bagnata di saliva, vedendola reagire immediatamente al suo respiro. Strofinò il naso sotto la sua mandibola, facendosi scappare un sorriso soddisfatto. “Sono veramente preso da Ushiwaka in questo momento. Sai che non riesco a diventare duro se non lo nomini minimo tre volte ogni cinque minuti.” Gli morse leggero la spalla ancora coperta dalla maglia, con suo sommo dispiacere, e Omi gli tirò una ciocca di capelli senza cattiveria.
 
“È una cosa importante.” Gli disse direttamente sulla tempia, baciandola di scuse. “Potrebbe essere utile.”
 
Atsumu si staccò da lui per guardarlo in faccia, l’espressione esasperata. “Omi, credimi, puoi dirmelo dopo.” O mai, davvero. Non gli fregava assolutamente niente di Ushiwaka, avrebbe passato la sua intera vita in maniera completa ed appagante senza parlare di Ushiwaka. Per quanto lo riguardava, poteva tranquillamente andarsene a quel paese insieme a Tobio-kun e lasciarlo in pace ad approfittarsi bassamente del suo ragazzo.
 
“Dopo saresti inutile o ti metteresti a dormire.” Lo rimproverò piano, passandogli l’indice sulla fronte rapito da chissà che cosa.
 
“Ti giuro, non ho intenzione di dormire.” Un sorriso malizioso gli si allargò in faccia e vide Omi arrossire leggermente, imbronciandosi per l’allusione. “Fidati, ho programmi.” Aveva aspettato che Samu se ne andasse da Suna per tutti gli ultimi giorni di dicembre, e ora che aveva casa completamente libera per una settimana intera aveva intenzione di battezzare tutte le stanze dell’appartamento e vedere, sistematicamente, la totalità delle sue fantasie andare in frantumi davanti il categorico rifiuto di Omi. Sì, ormai prevedeva le risposte e si adattava di conseguenza.
 
Il sesso, però, non sarebbe mancato, almeno in posti approvati dal suo ragazzo rompicoglioni.
 
Lo avrebbe convinto diversamente, prima o poi. Era questione di tempo. Doveva solo trovare la leva giusta.
 
“Non mi fiderei di te nemmeno per tenermi una matita.”
 
“Sappiamo entrambi che è una bugia.” Gli prese le labbra con le sue, muovendosi pigramente su di loro e toccandole appena con la lingua. Si allontanò di pochi millimetri e si godette il suo sguardo languido. “Mi hai dato ben più di una matita.”
 
Questo sembrò non piacere ad Omi, che aggrottò la fronte e l’espressione guadagnò di lucidità. “Fai schifo.”
 
“Andiamo, era una battuta! Era una battuta!” Omi gli prese le mani e le allontanò da lui. “Omi, cazzo, era per ridere!”
 
“Devo parlarti. Seriamente.”
 
Atsumu si fermò, poggiandogli però le mani sui lati delle cosce, massaggiandole leggermente. Non era il caso di sfidare la fortuna andando oltre in quel momento, ci sarebbe stato tempo. “Non mi stai lasciando per Ushiwaka, vero?” Domandò comunque con tono cauto, gli occhi stretti di sospetto. “Perché avrei tutto il diritto di staccargli le palle con delle forbici arrugginite e farti una scenata tale da svegliare tutto il quartiere.”
 
“Ti sembra di operare sullo stesso livello?”
 
“Omi, che domande, tu mi servi intatto, non ci sarebbe divertimento altrimenti.” Lo beccò sulle labbra e gli sussurrò piano. “Mi stai davvero lasciando per Ushiwaka?”
 
Sakusa sospirò con dolore, strizzando le palpebre. “Smettila di dire stronzate, perché mi fate tutti la stessa domanda?”
 
Tutti chi? Avrebbe voluto chiedere Atsumu sconvolto, ma Omi lo zittì con un bacio decisamente accessoriato e il cervello si spense per qualche secondo. Sì, aveva imparato velocemente un metodo molto efficace per farlo tacere. Potevano esserci controindicazioni, ma Omi non era niente se non dedicato al suo scopo.
 
Atsumu era a conoscenza che, nel momento in cui la lingua di Omi avrebbe toccato timidamente la sua, sarebbe andato, partito, la sua capacità di pensiero avrebbe fatto le valigie e sarebbe tornata solo a cose finite, mentre erano ansimanti sul letto in mezzo a lenzuola spiegazzate e tanta voglia di ricominciare da capo. Era già successo varie volte. Non si lamentava per niente.
 
“Sta perfezionando il suo mancino.” Gli sussurrò Omi dritto sulle labbra, baciandogli un angolo con tocco delicato. Atsumu stava avendo difficoltà a concentrarsi sulle sue parole. “Sta perfezionando il suo mancino e dovremo lavorare il triplo per tenerlo in gioco.” Si spostò sulla mandibola, leccando piano e muovendosi languido. Non stava aiutando per niente con la sua già provata capacità d’attenzione.
 
“Asp-aspetta.” Atsumu lo prese per le guance e lo riportò dritto, guardandolo negli occhi. No, non andava bene, aveva un’espressione troppo morbida e avrebbe ceduto ad ogni cosa avrebbe chiesto. Mantenendo la faccia di Omi in posizione, strizzò forte le palpebre e parlò di nuovo. “Ora va bene, dimmi. Che sta facendo quel bastardo?”
 
“Perché hai gli occhi chiusi e mi tieni la faccia?” Domandò Omi, la voce che usciva stretta tra le guance schiacciate. “O, meglio, chi ti ha detto di toccarmi la faccia?”
 
“Sei distraente. E pericoloso. E stavamo pomiciando fino a tre secondi fa, non ci ho pensato, ti da fastidio?”Atsumu lo sentì sorridere leggermente in risposta e sospirò, cercando di darsi un contegno. “Quel cazzo di mancino può davvero diventare più infame?”
 
“Sembra di sì.” Omi gli staccò le mani dal viso e sbuffò dal naso, appoggiandosi allo schienale del divano con un fianco. “Tu cosa hai intenzione di fare?”
 
Cosa aveva intenzione di fare? “A quanto pare non sesso.” Brontolò, aprendo gli occhi e guardandolo un po’ male. Omi fece un sorriso piccolo e divertito e questo lo riportò nel giusto stato d’animo. “Niente?”
 
“Devi dirlo alla squadra. Dovete essere preparati, è diventato più combattivo dopo i mondiali.”
 
Ah, sì, il mega flop in diretta televisiva. Atsumu ancora ghignava quando ci ripensava.
 
Omi lo giudicò severamente. “Smettila. Sarebbe potuto succedere a chiunque.”
 
“Ma è successo a lui e la cosa mi riempie di gioia e letizia.” Rispose ridacchiando. “Dirò a Wan-san di darsi da fare di più, che ti devo dire.” E spostò lo sguardo sullo schermo della TV, su cui ancora andava avanti la soap coreana che piaceva tanto a Omi e al signore strambo di ottocento anni, cliente fisso del ristorante di suo fratello.
 
Sakusa lo valutò tranquillamente, studiandolo con calma. Osservava Atsumu guardare la televisione con un trasporto che non aveva mai avuto per Kyung-Soon e le sue avventure francamente imbarazzanti. Era rapito per il monologo della madre della protagonista, una signora infame che tramava ogni volta per una cosa diversa, ma poteva vedere i suoi occhi muoversi in piccolissimi scatti per controllarlo con quello che credeva essere un incredibile esempio di furtività.
 
Sakusa sospirò. Atsumu non era mai stato un ottimo attore, né un investigatore quantomeno decente. “Hai qualcosa in mente, vero?” Gli domandò con tono leggero, facendolo sussultare. Sì, davvero, era pessimo.
 
“Cosa vorresti dire?”
 
“Non mi devi dire cosa, lo capisco. Siamo rivali.” Allungò la mano verso la sua e intrecciò i mignoli con tenerezza. Atsumu cominciò a sentire sudore freddo formarsi sul retro del collo, fiutando il pericolo. “Mi accontento di sì o no.”
 
“Biscottino alla panna acida, guardi troppi drama.”
 
Sakusa ignorò la punta di irritazione al nomignolo deficiente e senza senso, perché era una tattica bella, buona e consolidata distogliere la sua attenzione facendogli saltare i nervi con cazzate del genere.
 
Non avrebbe ceduto. Voleva giocare? Lo avrebbe fatto.
 
Sarebbe stato ancora più meschino.
 
“Sì o no, Atsumu.” Atsumu lo guardò con gli occhi spalancati e la bocca aperta. Quel grandissimo bastardo.
 
“Non puoi fare così.” Mormorò a voce bassa, inspirando forte. No, non poteva, non poteva. Se avesse parlato Meian lo avrebbe scuoiato vivo. “È scorretto.”
 
“Così come, Atsumu?”
 
“È meschino anche per te, dovresti vergognarti.”
 
Atsumu?
 
Atsumu strizzò forte le palpebre. “Non puoi chiamarmi per nome perché vuoi sapere delle cose.” Scattò, spalancando poi gli occhi con aria accusatoria. “Non vale, è una tecnica che non puoi usare quando ti pare.”
 
Invece sì. Lo sapeva lui e lo sapeva Omi.
 
Omi gli afferrò meglio la mano, portandosela vicino e cominciando a giocare con le dita. Gli erano sempre piaciute le mani di Atsumu, era con quelle che controllava in maniera così splendida e precisa ogni movimento della palla, ogni singolo scatto, ogni vibrazione. Da quando andavano a letto insieme, gli piacevano anche per altre cose, trovandole ugualmente talentuose. Avrebbe preferito essere morto prima di ammettere davanti a lui qualsiasi cosa.
 
Trascinò il dito sul suo palmo, seguendo la linea della vita con riverenza. “Non posso chiamarti Atsumu?” Domandò con tono di voce basso e molto accattivante, abbassando le palpebre sugli occhi liquidi. Avvertì lo sguardo pieno di panico e fame insieme di Atsumu su di lui e si sentì decisamente potente. “Mi piace chiamarti per nome.”
 
“Non è vero.” Atsumu respirò più forte. “Non mi chiami mai per nome.”
 
Questo non è vero.” Sentì il gemito appena trattenuto di Tsumu al ricordo improvviso del contesto in cui a Sakusa piaceva chiamarlo, o urlarlo quasi quando era particolarmente investito, e le labbra si alzarono leggermente. Aveva praticamente vinto. “Mi ricorda cose.”
 
“Cose?” Si ritrovò a chiedere Atsumu d’istinto con voce strozzata e si morse la lingua per zittirsi. “Dio, pensavo fosse bello poterti toccare senza che scattassi con disinfettante e cattiveria, ma non volevo mi si ritorcesse contro.”
 
“Le pensi anche tu?”
 
Ovvio che sì, era un pensiero fisso ogni volta che immaginava anche solo il nome di Omi. La sua mente era piena di occhi lucidi e vogliosi, di calore e profumo, di mani che artigliavano e imprecazioni schiacciate contro la pelle nuda, ma non era giusto che lo usasse a suo vantaggio in quel modo. “Sei cattivissimo.” Borbottò, sentendo il respiro farsi più veloce e qualcosa muoversi interessato nel bassoventre. Omi aveva cominciato a diventare più rosa sulle guance e quello stava a significare che stava avendo idee.
 
Erano belle, le sue idee. Portavano sempre ad orgasmi grandiosi.
 
“Cosa pensi?” Chiese Atsumu, portando la mani sulle sue gambe, tracciandone la lunghezza con pressione lenta e appena accennata. Il suo ragazzo era investito quanto lui e ne avrebbe approfittato in modo vergognoso per ribaltare la situazione a suo favore.
 
Ma non aveva fatto i conti con la capacità di concentrazione assoluta di Omi, che si alzò appena sulle ginocchia affondando nei cuscini del divano e sporgendosi verso di lui, quasi toccando il naso con il suo. “Sì o no, Atsu?” Sussurrò piano, languido. Sentiva il respiro sulla sua bocca ed era così vicino che avrebbe potuto prendere le sue labbra senza nemmeno muoversi.
 
Atsumu chiuse le palpebre e sospirò. Era morto.
 
“… Sì?” Omi sorrise vittorioso e si allontanò, riportando il sedere al suo posto e ricominciando a guardare la televisione, un ghignetto soddisfatto stampato in faccia. Atsumu piagnucolò. “Non vale!”
 
“Non ti chiedo cosa, non ci sarebbe gusto, voglio solo essere preparato per la tua prossima giocata infame.” Atsumu allungò le mani verso il suo interno coscia con fare deciso e Omi lo fermò bloccandogli la strada. “Non ci provare.” Sibilò.
 
“Sei tu che mi hai sedotto, è la conseguenza delle tue deprecabili decisioni.” Ghignò, afferrandolo come un sacco di patate e sistemandoselo a cavallo sulle gambe. Omi si fece maneggiare facilmente con sguardo torvo, ma il fatto che glielo permettesse e non lo prendesse a testate era di per sé una dichiarazione bella e buona. “Sei bello così. Ti va di provarlo?” Propose con un sorriso allungato un po’ troppo furbo.
 
Omi lo guardò con espressione pizzicata ma decisamente meno combattiva del solito. “Più tardi.” Accettò con grazia, segno che era non vedeva l’ora quanto lui. Atsumu esultò interiormente. “Sono stato convocato per delle prove di reclutamento.” Gli raccontò, strofinandosi le mani sulle gambe e storcendo un attimo il naso.
 
Quella non era una cosa di cui Atsumu parlava volentieri. Sapeva che Omi era ricercato in lungo e in largo dalle squadre professionistiche, ma non gli piaceva pensare di avere meno di un anno da passare nella sua stessa città. A meno che, certo, i Jackals non lo avessero chiamato per dei provini e Omi accettasse di presentarsi, ma erano variabili a cui non voleva pensare troppo. Ci sarebbe rimasto troppo male. “Dove?” Chiese quindi con tono forse troppo leggero.
 
“Hiroshima. E Tokyo.”
 
Ah. Kiryuu e Ushiwaka. “Non pensare ai giocatori, pensa a me.” Lo rimproverò Omi, stringendolo tra le cosce in maniera poco sensuale e decisamente aggressiva. Era bello che potesse leggerlo come un cazzo di libro, ma non voleva essere trasparente in quel preciso momento. “Che ne pensi?”
 
“Penso che saresti grande ovunque, Omi.” Pensava che voleva godersi quei giorni e non perdere tempo ad immaginare il futuro. Non gli piaceva quel futuro. “Surclasseresti tutti con i tuoi tiri a effetto e gli Adlers hanno Romero. So quanto vorresti giocare con Romero.”
 
“A te piacerebbe giocare con Romero.” Sì, ma lui non era Sakusa Kiyoomi. E lui aveva giurato fedeltà ai Black Jackals da quando l’allenatore Foster lo aveva avvicinato durante l’ultimo Interhigh, puntando tutto su un ragazzino arrogante con una tinta di capelli discutibile, vedendolo crescere ad ogni allenamento e ad ogni partita, spronandolo a rialzarsi ad ogni sconfitta e a mostrare il suo talento con orgoglio.
 
“Come faresti con l’università?” Domandò piano. “Hai ancora un anno.”
 
“È una cosa di cui parleremo dopo. Non smetto di studiare solo perché lo vogliono loro.” Atsumu se lo schiacciò addosso, stringendolo tra le braccia e appoggiando la fronte contro il suo petto. Sentì le sue mani sulla nuca, intrecciandosi con i capelli biondi e massaggiando la cute piano con unghie e polpastrelli. “Atsu …”
 
“Omi, saresti la fottuta star ovunque tu vada.” Però aspetta, cercò di dirgli senza successo, aspetta noi, aspetta i Black Jackals. Dacci una possibilità.
 
Non lasciarmi.
 
Le dita di Omi passarono ad un movimento rotatorio, lente e precise. “Smettila di pensare cose stupide.” Mormorò e la voce rimbombò nel petto dritta sulla testa di Atsumu. “Ho un anno e qualche mese per decidere cosa fare dei miei polsi strani.”
 
“Un anno passa in fretta.”
 
“Appunto.” Lo afferrò per i capelli e lo costrinse a piegare il collo all’indietro, facendolo strillare. “Vuoi stare qui a piagnucolare o vuoi scopare?” Sistemò meglio la presa, facendogli vedere stelle di dolore.
 
“Si chiama fare l’amore.” Se ne uscì Atsumu con tono gracchiante, facendogli roteare gli occhi. “Chiamalo come ti pare, andiamo a letto sì o no?”
 
Atsumu passò le braccia sotto il suo sedere e, con un grugnito animalesco e un ottimo lavoro di addominali, si alzò in piedi, portandoselo dietro e sistemandolo su una spalla come un sacco molto poco collaborativo. “Che cazzo fai?” Lo sentì strillare, mentre afferrava l’aria per istinto, artigliandogli poi i capelli con una mano e la maglia con l’altra, non trovando nient’altro di solido a cui aggrapparsi, piantandogli per sbaglio un ginocchio nell’addome. “Non peso quaranta chili e sono più alto di te, vuoi farti uscire un’ernia?”
 
“Omi, tiro su roba più pesante di te.” Gli rivelò con voce un po’ sofferente, assestandogli una pacca sul sedere un po’ per dispetto e un po’ per farlo stare fermo. Omi fece uscire un suono indignato. “Andiamo a letto, oggi ti faccio urlare.”
 
 
 *
 
 
Osamu sapeva di avere un problema.
 
Aveva preso coscienza di questa situazione da un po’ di tempo, in effetti. Un anno o giù di lì.
 
Era iniziato tutto come se un peso invisibile si fosse attaccato alla sua schiena. Una sottospecie di koala maniaco che era strisciato su per la sua spina dorsale, aggrappandosi con quelle manine dalle unghie oscenamente lunghe e dure alle sue spalle, masticandogli addosso e facendo probabilmente altra roba schifosa sulla sua maglietta pulita.
 
Lo aveva avvertito a malapena i primi giorni. Era una presenza leggera, quasi volatile, una cosa che non sapeva spiegare ma che si sentiva appiccicato tra le scapole e lo spingeva leggermente giù, mandandogli all’aria il baricentro. Era una punta più acuta di fastidio a fine giornata, quando rimaneva solo nel locale ad aspettare Atsumu e si guardava intorno con la sensazione di aver combinato poco o nulla. Ma era uno stato d’animo talmente irrisorio e fugace, temporaneo, da non farci nemmeno caso. Non gli lasciava addosso nessuna preoccupazione inutile, solo un senso di disagio generale.
 
Dopo aver parlato con Rin, inoltre, le cose avevano preso una piega più propositiva e, pian piano aveva ingranato diversamente, riempiendo la testa di altri pensieri.
 
Pensava a pubblicità, ad esempio, a piattaforme social, a tessere sconto e menù di degustazioni. Le giornate si erano riempite diversamente, affollando le ore con proposte ed esperimenti, cercando di studiare i margini economici ed osando con azzardi che a volte si erano rivelati deludenti, ma altre avevano dato soddisfazioni indescrivibili.
 
Non aveva tempo per qualsiasi marsupiale emotivo avesse deciso di abitargli addosso. Sicuramente, alla fine, si sarebbe stufato e sarebbe scomparso da solo.
 
Insomma, alla fin fine aveva un curriculum di tutto rispetto per situazioni che richiedevano una certa stabilità mentale.
 
Aveva fatto parte di una team di pallavolo di pazzi scatenati (Kita-san in primis, lui e il suo bisogno spasmodico di pulire ogni angolo di qualsiasi cosa. Il rispetto che nutriva per lui non era quantificabile ma, dopo anni, ancora si svegliava nel cuore della notte con i sudori freddi dopo aver sognato solamente i suoi occhi galleggianti in un niente di buio, giudicanti e delusi dal suo comportamento generale. Di solito metteva a sbrinare il freezer quando succedeva, conscio che non sarebbe più riuscito a dormire).
 
Era sopravvissuto ad una squadra capitanata da Atsumu. Atsumu, cazzo. Solo uno squilibrato in libertà avrebbe nominato Atsumu capitano (a conferma dei suoi pensieri su Kita-san. E facendogli fare qualche seria domanda sul loro allenatore). Era stata un’esperienza che solo un orrendo trip di allucinogeni tagliati male avrebbe potuto eguagliare.
 
Aveva il ricordo nitido di Kosaku-kun che guardava con occhi scevri di voglia di vivere il cesto in metallo dei palloni, lo prendeva per i bordi e lo alzava, tentando di batterlo sulla testa piena di ego di suo fratello, bicipiti gonfi e un cieco moto omicida che lo spingeva avanti e non gli faceva sentire la fatica. Salvare la vita di Atsumu era stato un lavoro a tempo pieno.
 
Sì, avevano raggiunto risultati considerevoli sotto la sua guida, ma non lo avrebbe augurato al suo peggior nemico.
 
Kosaku-kun era diventato il suo commercialista, tra l’altro. E salutava suo fratello con entrambe le dita medie alzate. Osamu lo incoraggiava. Sakusa approvava. Atsumu piagnucolava.
 
Era corso incontro a lezioni di cucina ed economia aziendale contemporaneamente, riuscendo a terminare i corsi ottimamente in un singolo anno (e qualche mese), tirando su un dannato ristorante dal nulla e mantenendo detto ristorante alto nel suo nome, strofinando il suo orgoglio in faccia a tutti quelli che non ci avrebbero scommesso mezzo yen, investitori in primis.
 
Era capitato qualche periodo di sconforto ovviamente, in fin dei conti non poteva andare sempre liscio, ma era sempre riuscito a risollevarsi con forza, mento in alto e spalle indietro, avanti tutta a rompere culi.
 
Il koala, però, aveva avuto l’ardire di ingrassare.
 
Pesava sempre più sulla sua spina dorsale, diventava ogni giorno più ingombrante e presente e si stava trasformando, con suo enorme disappunto, in Jiaozi nel momento cruciale in cui decise di scoppiare addosso a Nappa. 
 
Ora, sapeva che lui non sarebbe esploso. In fin dei conti neanche Nappa l’aveva fatto, rendendo del tutto inutile lo scenografico sacrificio di Jiaozi, ma i suoi nervi non avevano tutta quella resistenza.
 
Quel cazzo di peso gravava sul suo stato d’animo come un mostriciattolo odioso, alimentandolo di insofferenza e condendo le sue giornate con picchi di irritazione che lo facevano scattare per un nonnulla.
 
Faceva di tutto per arginare il nervoso, cercando di non portarlo al lavoro e di non farlo vedere, ma più andava avanti e più era difficile.
 
Sakusa era nel suo ultimo anno di università e doveva dividersi tra il suo ruolo di asso confermato e quello nuovo di vice capitano, tra provini per squadre professionistiche in tutto il paese, lezioni e futuri esami, allenamenti, partite ufficiali e amichevoli. Era decisamente stressato e lo aveva avvertito che, se avesse avuto la brillante idea di urlargli contro per stronzate al lavoro, gli avrebbe fatto molto male. Intanto, quando vedeva che l’umore generale non era dei migliori, tendeva a stargli lontano e continuare con le sue mansioni senza nemmeno guardarlo due volte.
 
Osamu aveva ringhiato tra i denti per l’affronto, ma era stato silenziosamente d’accordo con la sua decisione. Anche perché Sakusa aveva quell’aura indipendente da gatto selvatico che l’aveva sempre circondato e ormai non aveva più bisogno di essere seguito e guidato all’interno del ristorante, quindi tanto meglio.
 
Inoue-san, invece, incassava la testa tra le spalle e si beccava sproloqui senza fiatare. Sapeva che non era rivolto contro di lui personalmente, quindi aveva deciso di lasciar sfogare il suo capo e intanto occupava il tempo pensando alle faccende che aveva lasciato in sospeso a casa.
 
Osamu, in fin dei conti, non era uno di quei titolari che si divertiva ad umiliare davanti la clientela. Era abbastanza padrone di sé da scattare in privato dove nessuno l’avrebbe visto e sentito, quindi lo faceva sgolare per bene, consapevole che alla fine si sarebbe scusato fino alle lacrime e gli avrebbe regalato qualche leccornia buonissima per lui e la sua ragazza.
 
Osamu sapeva che era profondamente sbagliato un comportamento del genere. Gli dispiaceva tantissimo e non riusciva più a sopportarlo. Poteva soprassedere dal prendersela con Atsumu a casa, che comunque era la sua fonte costante di irritazione privata, ma non doveva in alcuna maniera permettersi di sfogare i nervi contro altre persone.
 
Nel grande schema delle cose, era consapevole si trattasse di un problema stupido in confronto a molti altri. Davvero, lo sapeva. Era qualcosa di assolutamente risolvibile e per lo più temporaneo. Doveva solo mettersi l’anima in pace e darsi a fare, attendere qualche anno e tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi.
 
Il problema, infatti, era quello: Osamu era stufo. Non riusciva più ad accettarlo, non voleva più accettarlo.
 
Aspettare qualche anno, come preventivato inizialmente, era sembrato semplice. Cosa sarebbe cambiato, in fondo? Avrebbe dovuto solo rimboccarsi le maniche e fare del suo meglio, cercando di incanalare tutte le frustrazioni e i pensieri negativi nell’attività che gli dava più soddisfazione al mondo.
 
Ma, doveva ammetterlo, era arrivato ad un punto in cui era stanco di aspettare in generale. Aveva la sensazione che tutta la sua vita si fosse basata sull’attesa, come un enorme blocco statico che rimaneva tale e non andava né avanti né indietro e non ce la faceva davvero più.
 
Il nocciolo del suo malumore era semplice: doveva trovare il modo di riavvicinarsi a Rintarou.
 
Passare le uniche vacanze che si concedeva per tutto l’anno e qualche finesettimana occasionale insieme al suo ragazzo era stupendo. E non parlava solo di sesso. Anzi, era arrivato ad un punto in cui il sesso era solo una cosa in più da poter fare insieme.
 
Fino a qualche tempo prima sembrava la più importante, l’unico modo in cui poteva sentirlo vicino dopo mesi di lontananza, il solo mezzo con cui potergli far capire quanto gli fosse mancato, una sorta di ripristino dell’energia vitale di cui non riusciva a fare assolutamente a meno. Era arrivato al punto in cui era diventato solamente un elemento del suo rapporto. Non perché non fosse spettacolare, tutt’altro, ma aveva bisogno di altro.
 
Aveva bisogno di sentirlo lamentarsi del suo ruolo di lavapiatti designato ogni volta che si finiva un pasto, borbottando contro l’acqua saponata che colava lungo tutto il braccio e gli finiva nelle maniche del maglione.
 
Aveva bisogno del suo ghigno derisorio per le sue litigate con quel catorcio di lavatrice che lui e Motoya si rifiutavano di sostituire, asserendo che The Black Hole (Holly per gli amici) fosse ormai parte integrante della famiglia. Il nome, ovviamente, lo aveva dato Motoya, che stava allargando i suoi oscuri gusti cinematografici anche su di lui. Era particolarmente bravo a nominare le cose: Osamu era arrivato da loro con sette paia di calzini, era tornato a casa con cinque elementi in meno e, dopo tre mesi e mezzo, ancora non aveva idea di dove fossero finiti.
 
Aveva bisogno di sentire Rin e Motoya canticchiare i jingle discutibili delle pubblicità in momenti topici, come quando stava per girare una frittata dalla nascita sfortunata, o quando era il momento di stirare le camicie, o quando cercava di capire che fine avessero fatto le mutande che aveva messo a lavare il giorno prima, brandendo il manico della scopa con il desiderio di vedere la lavatrice fare una bruttissima fine, o, ancora, quando Rin usciva fuori dallo sgabuzzino con l’aspirapolvere in mano per costringere Motoya a ripulire il macello che aveva creato cercando di rinvasare Fury, attività che lo spingeva ogni volta a sporcare di terra e fertilizzante l’intero appartamento.
 
Aveva bisogno di partecipare alla lotta all’ultimo sangue ai videogames ogni volta che si doveva designare il perdente costretto a scendere a buttare la spazzatura, o caricare l’asciugatrice, o andare a fare la spesa, scontri epici che terminavano ogni volta con accuse di alto tradimento e i ricatti più infimi.
 
Aveva bisogno di sentirlo vicino per ascoltarlo raccontare dei suoi allenamenti, infervorarsi per le partite, lamentarsi delle gelatine che non aveva trovato al konbini in fondo alla strada, borbottare contrariato riguardo gli appuntamenti di Motoya, che inizialmente non capivano perché non riuscissero mai a passare la loro approvazione, prendere in giro Washio-kun, ultimo interesse amoroso (non ricambiato, perché Washio-kun era un gentiluomo rispettoso della legge e della decenza) della sorellina di Motoya, Maki-chan.
 
Erano cose cretine, cose di tutti i giorni. Ma erano stranamente importanti, erano diventate la routine di Rintarou e sentiva che la sua assenza al suo fianco era pesante.
 
Anche Motoya faceva ormai era entrato a far parte di quel circolo di abitudini.
 
Era diventata una consuetudine piacevolissima arrivare al loro appartamento e trovarlo sdraiato sul divano a guardare programmi su pesca mostruosa in televisione, osservando con espressione oltraggiata l’aspetto orribile della fauna ittica recuperata con metodi astrusi, salutandolo con un sorriso enorme e facendogli trovare sempre qualche snack curioso che era sicuro gli sarebbe piaciuto.
 
Quell’anno, inoltre, era la prima volta che passava le vacanze di Natale e Capodanno con loro perché, a suo dire, “Sono stato abbandonato crudelmente da tutta la mia famiglia per l’Hokkaido. Ah, e da Kiyoomi. Che problema ha Kiyoomi? Perché mi ignora? È il cugino più cattivo del mondo. Mi manca la sua faccia incazzosa.”
 
(Osamu non sapeva esattamente come avesse passato Sakusa quelle vacanze ed era sicurissimo di non volerlo scoprire. Atsumu era stato anche troppo sfuggente e sua madre gli aveva assicurato che l’aveva visto a casa per le feste obbligate, accompagnato oltretutto, poi era scomparso per farsi vivo solamente per le classiche telefonate serali.
 
La mamma insisteva stesse frequentando qualcuno che si divertiva a chiamare Omi e che le piaceva molto. Osamu era sicuro che avesse semplicemente passato quei giorni ad affinare le sue capacità di stalker dando il tormento a Sakusa, ovunque fosse finito a far danni.
 
La mamma aveva riso e gli aveva detto che era un idiota, attaccandogli il telefono in faccia.
 
L’ignoranza, alla fine, era stata praticamente una scelta obbligata.)
 
Motoya era stato carinamente attento a lasciare loro spazio personale e, doveva ammetterlo, non se lo aspettava con il suo carattere particolarmente furbo.
 
A sua discolpa, era abituato ad Atsumu che entrava in camera urlando stronzate ogni santa volta si ritrovava con le mutande abbassate ad avere del tempo privato con Rin. Aveva standard molto bassi.
 
Inoltre, con somma preoccupazione, gli era dispiaciuto. Motoya era diventato qualcuno da cui difficilmente lui e Rin riuscivano a staccarsi.
 
Ne avevano parlato, ovviamente.
 
Non era stata una chiacchierata facile, anche se alla fine si era rivelata un po’ piacevole: rendersi conto che Motoya si era insinuato nella loro esistenza con il suo solo sorriso (e l’atteggiamento bastardo, dovevano ammetterlo) e ci stava benissimo, li aveva spaventati come nient’altro al mondo.
 
Era stato difficile affrontare l’argomento con Rin.
 
Il dubbio che la lontananza aveva spinto la scintilla di interesse verso qualcuno che non era il suo ragazzo lo portò a dubitare di tutto: di sé, dei suoi sentimenti, della sua vita. La sola cosa che lo teneva ancorato alla sanità mentale era che l’amore per Rin non era appassito, tutt’altro. Lo cercava con un bisogno primordiale, lo spingeva a mettere tutto sé stesso nella sua attività, ne sentiva la necessità come se fosse aria.
 
Solo che Motoya si era aggiunto all’equazione con una naturalezza che non si spiegava. O forse sì.
 
Rin l’aveva preceduto, come succedeva sempre per le cose importanti. Era stata la conversazione più difficile e più cruda che avessero mai affrontato, perché avevano bisogno di organizzare i passi da compiere. Scoprire che Rin non era indifferente al suo compagno di squadra, e che, anzi, finalmente riusciva a capire perché non voleva uscisse con altre persone, gli sollevò l’animo tanto da farlo piangere.
 
Settimane di discussioni portarono alla decisione di andarci con i piedi di piombo. Solo che, con il suo fare assolutamente privo di tatto (lo riconosceva, era un problema di famiglia) e la parlata maliziosa e ammiccante di Rin quando aveva un obiettivo, la situazione poteva scoppiargli in mano da un momento all’altro.
 
Senza contare la capacità di Motoya di tenerli in punta di piedi e non fargli capire granché.
 
La soluzione, quindi, era fare qualcosa per accelerare i tempi. O, se era fortunato, i tempi erano giusti ed era il momento di fare il grande passo.
 
In qualche modo, però, doveva saltare.
 
Osamu sospirò, strofinandosi le palpebre con dita forti e mugugnando suoni inarticolati. “Spara.” Pregò con tono di voce distrutto. Si portò le mani ai capelli, tirandoseli all’indietro ed affondando la faccia tra le braccia, gli occhi strizzati fino a farsi male. “Come sono messo?”
 
Kosaku-kun, davanti a lui, lo guardò da sopra le lenti dei suoi occhiali da vista, le sopracciglia talmente alzate da sfiorare l’attaccatura dei capelli, ammirando quella squisita dimostrazione di teatralità che tanto piaceva ad entrambi gemelli Miya, malgrado la conoscenza comune. Ticchettò qualcosa sulla tastiera del portatile con agilità, premendo la barra spaziatrice e il tasto INVIO ogni volta come se volesse sfondarli, mosse velocemente le dita sulla calcolatrice e si fermò un secondo, assimilando il numero sullo schermo e facendo un po’ di ragionamento veloce. Prese un respiro profondo e si portò la mano alla gola, allargando la cravatta con gesti rapidi e automatici. “Sei povero.” Esalò svelto, grattandosi la fronte con una smorfia.
 
Osamu aggrottò le sopracciglia, aprendo le palpebre di qualche millimetro. “Questo è sbagliato.” Lo bloccò con voce dura.
 
Kosaku-kun si schiarì la voce. “Sei povero per Tokyo.” Chiarì.
 
Oh, ecco, aveva più senso.
 
Osamu si bagnò il labbro inferiore con la lingua e lo prese tra i denti, affondandoli nella carne, il cervello per lo più vuoto dopo quell’informazione feroce.
 
Povero per Tokyo.
 
Povero per Tokyo.
 
“Sei sicuro?” Domandò inclinando la testa. “Perché le entrate sono state parecchie, le spese sono ben bilanciate. Sì, ok, il tonno del cazzo è sempre un macello prenderlo a prezzi decenti ma mi hanno assicurato che devo solo essere ostinato, anche perché sto praticamente litigando con Satou-san ogni giorno per questo e sa che non sono proprio fiori e arcobaleni alle quattro di mattina, non so che succede se …”
 
“Satou-san?”
 
“Il giudice d’asta. Al mercato.” Osamu si grattò la testa pensoso. “Senti, non c’è davvero niente da fare?”
 
“Osamu, Tokyo è cara.” Kosaku-kun si sistemò gli occhiali sul naso e digitò velocemente qualcosa al computer. “Parti dal presupposto che ti stai allargando, quindi senza pensare a immobili o altro concentrati sulle questioni fiscali.” Prese un foglio e una penna e cominciò a scrivere.
 
“Spese giuridiche. Controlli. Tasse come se non ci fosse un domani. E queste sono solo tre delle cose prima di sistemarti, le prime a cui ho pensato. Aggiungi in contemporanea l’affitto, eventuali spese immobiliari, a meno che non cerchi un locale da solo, le imposte, acqua luce e gas, telefono e linea ADSL. Assicurazione. Arredamento. Fornitori.”
 
Ad ogni punto dell’elenco, la penna sul foglio tracciava linee con movimenti sempre più aggressivi e scattanti, una spada che affondava senza pietà in quelle fibre di cellulosa e nell’animo di Osamu, facendolo irrimediabilmente a pezzi. Le spalle crollarono sconfitte.
 
“E non sarà facile come per il primo ristorante: il marchio adesso ce l’hai. Devi mantenerlo.” Continuò Kosaku-kun spietato. “Devi trovare lo staff giusto, persone di cui ti puoi fidare sia qua che là, perché non puoi stare ovunque contemporaneamente. E diciamocelo, fra un po’ Sakusa-kun se ne andrà e rimarrai solo tu con Inoue-san.” Kosaku-kun fece una smorfia. “Un po’ pochino.”
 
“Sono povero.” Accettò mestamente Osamu con una voce da funerale. Aveva gli occhi sul bancone, dritti sulle venature del legno lisce di fissante senza vederle davvero. Aveva la vista piena dei suoi sogni sfumati, dei suoi progetti in fumo, del suo amore a pezzi. Sospirò profondamente. “Sono povero e non posso fare un cazzo.”
 
“Non sei povero.”
 
Osamu alzò la faccia e guardò malissimo Kosaku-kun. Gli stava rovinando il momento. “Hai appena elencato tutto quello che non riuscirò mai a pagare, l’hai detto tu.”
 
Kosaku-kun ridacchiò. “Ho detto che sei povero per Tokyo.” Lo vide puntare i suoi occhi severi su di lui e fece un sorrisino storto. “Mira ad altro, per ora.”
 
Osamu batté le palpebre. “Cosa intendi?”
 
“Hai i soldi, punta su un’altra città.”
 
“Quindi non sono così povero.” Lo accusò puntandogli il dito contro. “Mi hai spaventato a morte!”
 
“Osamu, cambiamo vita. Io vengo qua e mi prendo i tuoi soldi e tu vai a pregare il padrone di casa di darti una settimana in più per l’affitto. Così capirai veramente cosa significa essere poveri.”
 
“Il padrone di casa è tua madre. Ti fa lei la spesa. E ti prepara pranzo e cena.”
 
“Quella donna è una megera. Sta sempre a controllare a che ora rientro.” Kosaku-kun fece una smorfia. “E con chi.”
 
Osamu ricordava benissimo la madre di Kosaku-kun. Una donna slanciata con la sua stessa espressione severa, ammorbidita da un sorriso sincero pronto sia per le vittorie che per le sconfitte. Ricordava che portava sempre il limone zuccherato per tutti ad ogni partita e costringeva l’allenatore a distribuirli tra un set e un altro con un sibilo terrificante. Atsumu e Osamu l’avevano sempre chiamata Oba-san.
 
Kosaku-kun esagerava sempre quando parlava di lei. Forse Oba-san non voleva semplicemente che la casa che aveva affittato al suo unico figlio fosse occupata da persone estranee. Oppure era il fatto che lo facessero esclusivamente di notte a farle storcere il naso.
 
Certo, anche la madre di Osamu si comportava diversamente quando portava Rin a casa, come se venisse esorcizzata momentaneamente da tutti i demoni che abitavano quel piccolo corpo energetico per tutto il resto del tempo, quindi forse si trattava solamente di una cosa da mamme.
 
“Per un po’ dimenticati di Tokyo.” Continuò Kosaku-kun con piglio professionale. “O trova un modo per avvicinarti senza vendere i tuoi organi al mercato nero.” Osamu si risollevò sulle braccia, guardando il suo ex compagno di squadra con occhi riflessivi. “Studiati la situazione e guardati un po’ intorno. Ci sono scelte sicuramente più economiche e intanto ampli il tuo business e il tuo portafogli.” Kosaku-kun gli fece un sorrisino. “Suna-kun non ha intenzione di scappare.” E rise, vedendolo arrossire con sommo dispiacere.
 
“Sta’ zitto.” Brontolò Osamu sentendosi la faccia in fiamme. “Non è solo per quello.”
 
“No, infatti.” Kosaku-kun chiuse il portatile con uno scatto non propriamente etereo e lo mise nella sua valigetta. “Senti, invece di raccontarmi stronzate regalami degli onigiri.”
 
“Andrò fallito a forza di non farvi pagare.” Ma si mise all’opera, perché Kosaku-kun era corso in suo aiuto dopo una giornata piena e senza appuntamento, glielo doveva. “Come li vuoi?”
 
“Maiale e zenzero.” Osamu lo vide riflettere mentre prendeva la vaporiera. “Puoi farli a forma di cuore? Devo ingraziarmi mia madre, magari mi fa saltare l’affitto questo mese se me la gioco bene.”
 
 
*
 
 
Il brodo borbottava piano sul fuoco come un vecchio brontolone. Bolle lucide salivano in superficie a gonfiarsi lente, scoppiando con un suono pieno piacevolmente familiare, spargendo il ricco odore speziato in tutto il locale.
 
Osamu buttò un’occhiata rapida alla pentola sul fuoco, girando il liquido con il mestolo un paio volte prima di immergere le mani nella ciotola sul piano lì vicino e afferrare una grossa manciata di funghi shiratake, strizzandoli dall’acqua in eccesso e buttandoli nel liquido gorgogliante. Sorrise per l’aroma salato che si alzò dai fornelli, incantandogli le narici.
 
“Merda merda merda merda!”
 
Prese la grattugia sporca di zenzero e la mise a lavare, bagnandola velocemente per staccare la polpa più superficiale. Si chinò velocemente per controllare la lonza di maiale nel forno, vedendola luminosa di luce calda e lucida di grassi e oli naturali. Si stava cuocendo perfettamente, costante e succosa, la crosticina superficiale dorata ed invitante era da sola un capolavoro.
 
“Cazzo, mi hai rubato tutto? Dov’è il cucchiaio?”
 
Il brodo cominciò a bollire con intenzione, rumoroso e chiacchierone. Osamu girò il mestolo al suo interno un altro paio di volte, soddisfatto del colore profondo e del profumo caratteristico, abbassando la fiamma di poco per non eccedere con il calore.
 
Era nel suo elemento.
 
“Non si può lavorare così, dove hai messo i coltelli?”
 
“Tsumu, non muoverti così velocemente, verrai sfocato nel video.”
 
I suoi ingredienti avevano bisogno di attesa, quindi Osamu si permise di poggiarsi al piano con i fianchi con un ghigno derisorio, ammirando suo fratello andare avanti e indietro con utensili più o meno pericolosi in mano, la faccia sconvolta e un atteggiamento nervoso.
 
Seduti agli sgabelli del bancone, Rintarou aveva il cellulare stretto tra le mani e un sorriso appagato in bocca, Motoya nascondeva le posate sotto tovaglioli e dietro le bottiglie facendo andare Atsumu completamente fuori di testa.
 
Sakusa si muoveva in giro per la sala, sistemando i tavoli per la clientela della sera e facendo un controllo generale delle stanze di servizio, buttando un’occhiata divertita ad Atsumu ogni volta che passava vicino alla cucina, guardandolo borbottare maledizioni con frequenza preoccupante.
 
Osamu aveva deciso di chiudere il locale per il pranzo, quel giorno. Un suo capriccio per poter stare tutti quanti insieme, per una volta, per mangiare riuniti e godere della reciproca compagnia in completa tranquillità. Inoue-san era tornato a casa sua, ma erano riusciti ad incastrare Sakusa con l’inganno più basso e con un placcaggio degno di nota di Motoya. Motoya era un po’ preoccupato per suo cugino, lo vedeva stanco e non gli piacevano le occhiaie che stavano cominciando a formarsi sul suo viso. Una pausa ci voleva.
 
Non si sapeva come, era finita in una sfida culinaria tra lui e suo fratello.
 
“Samu, togliti, devo vedere la mia roba.”
 
“Intendi quella cosa anemica che sta cuocendo senza controllo?” Atsumu lo fulminò con lo sguardo, alzando il coperchio della sua pentola. Al suo interno, l’acqua aveva appena cominciato a scaldarsi seriamente. Sistemò il fuoco ad un livello più alto, come avrebbe dovuto fare inizialmente, e controllò la casseruola posta più avanti, contenente un liquido ricco più scuro che bolliva allegramente. Lo spense. “Intendo quella cosa strabuona per cui piangerai.” Rispose con aria spavalda.
 
“Perché dovrebbe piangere?” Motoya si allungò velocemente per afferrare il coltello puntato da Atsumu e metterlo dietro un piatto.
 
“Komo-kun, cazzo, smettila di farmi sparire le cose!”
 
“Hai messo il tofu a marinare?” Domandò di sfuggita Sakusa, avvicinandosi cauto per prendere la carta assorbente.
 
“Sì, Omi, ho messo il fottuto tofu a ma …” Motoya tirò fuori da sotto un canovaccio una ciotola. Conteneva il tofu in ammollo. Sunarin rise diabolico. “No, non ho messo il tofu a marinare.” Ringhiò Atsumu, cominciando a muoversi per afferrare coltello e tagliere. “Mi state rendendo le cose difficili.”
 
“Osamu ha trovato ogni cosa.” Lo prese in giro Komori.
 
“Questa è la sua fottuta cucina, se non trova qualcosa ne prende un’altra. Sa dov’è tutto.” Prese il tofu e cominciò a tagliarlo a strisce uniformi, concentrato e preciso. “Omi, ti piace il tofu vero?”
 
“Lo mangia a colazione, certo che gli piace.” Rispose Osamu per Sakusa, facendosi guardare malissimo da suo fratello. Ghignò. “Che c’è, non lo sapevi?”
 
“Lo prendo a colazione solo all’università, ho altri gusti la mattina.” Intervenne Sakusa pieno di insperato buonsenso, sedendosi accanto a suo cugino ed impedendogli di spostare il sale con un’occhiataccia. Le spalle di Atsumu si rilassarono quasi impercettibilmente.
 
“Buuu Sakusa-kun, non potevi aspettare?” Lo rimproverò Suna aggiustando la messa a fuoco. “Sarebbe stato più divertente vederlo infastidito.”
 
“Sunarin, vai a giocare in autostrada.” Lo ringraziò Atsumu.
 
“Solo se vieni con me.”
 
Era bello essere tutti insieme nello stesso momento a scherzare, ridere e prendersi in giro. Non capitava mai, per una cosa o per l’altra. Ad Osamu ricordava i tempi dopo gli allenamenti, quando si riunivano tutti e intasavano il konbini più vicino entrando ogni volta insieme, beccandosi le sgridate dei gestori, tutto cameratismo e cibo veloce. Era il momento più bello della sua vita studentesca. Beh, vincite a pallavolo e spuntini rubati a parte.
 
“Ma di solito non si prepara il tofu prima della zuppa?” Domandò Motoya con un tono di voce falsamente ingenuo.
 
“Faccio il cazzo che mi pare.” Rispose scortesemente Atsumu finendo con il coltello.
 
“Se è per questo, il tofu si taglia in triangoli.” Intervenne Suna utilmente, rubandone una striscia e portandosela davanti gli occhi. “Questo non mi sembra un triangolo.” E lo mise in bocca velocemente, prima che Atsumu riuscisse ad afferrarlo.
 
“Te lo stai inventando!” Lo accusò infastidito.
 
“La maggior parte dei ristoranti lo fa.” Sakusa scoccò un’occhiata severa al duo rompiscatole. “Ma non è una regola, puoi tagliarlo come vuoi.” Si alzò e allungò una mano fin sotto il bancone con quelle sue braccia ridicolmente lunghe, prendendo una piccola casseruola e porgendola ad Atsumu, che la prese rivolgendo al resto del gruppo un ghignetto soddisfatto. “Stai andando bene.” Lo rassicurò con convinzione, vedendo Atsumu cominciare a pavoneggiarsi.
 
“Woooh Kiyoomi, cos’è questo?” Esclamò Motoya stupito, dimenticando di nascondere la salsa di soia.
 
“Lo state massacrando.” Li accusò, sistemandosi con le braccia sul bancone e poggiando il mento. “Fatelo respirare altrimenti diventerà orribilmente odioso e petulante.”
 
Osamu scoppiò a ridere mentre Atsumu si sgonfiava, mettendo un muso da competizione e poggiando sul fuoco la marinatura. “Ed ecco ripristinato l’ordine cosmico.” Mormorò Suna, scattando una foto al broncio Atsumu. “Perfezione. Questa la mando ad Aran-san.”
 
“Siete tutti stronzi. Tranne Omi.”
 
“È stato lui ad offenderti.” Convenne Motoya.
 
“Sì, ma mi ha anche detto che sto facendo un buon lavoro, quindi bilancia.” Prese con le bacchette una striscia di tofu e cominciò a masticare un boccone con fare pensoso. Si girò verso Sakusa e allungò il braccio verso di lui. “Secondo te è buono o mi hanno fregato?”
 
Le facce di Suna e Osamu anticipavano già una serie di prese in giro da manuale in previsione della sicura risposta al vetriolo di Sakusa. Le bocche cominciarono a stirarsi di un sorriso malvagio e già assaporavano il momento topico in cui sarebbero riusciti a smontare Atsumu della sua sicurezza inconsistente.
 
Erano certi di questo.
 
Finché non videro Sakusa allungare il collo e prendere con la bocca, dalle bacchette usate di Atsumu, il tofu rimasto dal precedente morso di Atsumu.
 
Dire che rimasero tutti e due allibiti non si avvicinava nemmeno alla quantità di stupore manifestato effettivamente dalle loro facce.
 
Il più sconvolto di tutti era Motoya, che guardava suo cugino masticare a bocca chiusa con le sopracciglia aggrottate di ragionamento, fino ad ingoiare e dire, noncurante. “A me sembra tutto a posto.”
 
Nessun conato. Nessuno strillo. Nessuna richiesta urlata di disinfettante, di alcool denaturato con cui fare i gargarismi, di acido muriatico, tamponato, citrico. Nulla.
 
“Cosa sta succedendo?” Domandò Motoya confuso, guardando Sakusa come se non lo riconoscesse. “Perché l’hai messo in bocca? Perché l’hai mangiato?”
 
Sakusa batté le palpebre. “Mi ha chiesto un parere.” Rispose semplicemente.
 
“Komo-kun, qual è il problema?” Chiese Atsumu con tono leggero, ritornando alla sua casseruola che aveva cominciato a bollire con insistenza. Inserì svelto le strisce di tofu e abbassò di nuovo la fiamma dell’acqua.
 
“L’ha mangiato.” Constatò Osamu avvicinandosi cauto, come se dirlo a voce anche un minimo più alta l’avrebbe resa una situazione più normale. Non lo fece.
 
Suna continuava a guardarlo con occhi persi, senza capacitarsi.
 
“L’ha mangiato.” Accettò Atsumu mentre Sakusa sbuffava. “E?”
 
“E un cazzo, non ha mai voluto nemmeno le caramelle che gli davo!” Strillò Komori alzandosi in piedi con foga. Suna si riprese dal suo stato di trance. “Che cazzo è successo?” Mormorò piano guardando un Osamu ugualmente sconvolto.
 
“Scartavi le caramelle, poi me le offrivi con quelle dita sporche che mettevi ovunque per essere certo che non le avrei volute e che potessi mangiarle tu.” Brontolò Sakusa guardando male suo cugino.
 
“Ma non l’hai fatto adesso!” Ribatté Komori mentre Atsumu scoppiava a ridere. “Non metti in bocca cose del genere! Senza offesa.” Disse svelto rivolto ad Atsumu, che scosse la testa ridendo.
 
Osamu e Suna cercavano ancora di capire.
 
Sakusa sbuffò. “Non essere ridicolo, ho avuto di peggio in bocca.”
 
“Kiyoomi, provare il dentifricio allo zenzero invece che alla menta non è proprio la stessa cosa.”
 
“Ah, no Komo-kun.” Intervenne Atsumu con uno sguardo diabolico e un ghigno cattivissimo in faccia. “Intendeva il mio cu-“
 
“NO!” Strillarono Suna, Osamu e Komori sconvolti mentre Sakusa gli scoccava uno sguardo maligno.
 
“Che immagine orribile.” Esalò Suna accasciandosi al bancone come se avesse l’energia completamente evaporata. “Non volevo scoprirlo in questo modo.”
 
“Hai deviato mio cugino!” Se ne uscì Komori guardando Atsumu accusatorio. Il suo ghigno divenne solo più cattivo.
 
“Sei sicuro di questo Komo-kun?” Domandò Atsumu con sfida, la voce bassa e soave. “Ne sei veramente certo?”
 
“Atsumu.” Lo avvertì secco Sakusa con una voce lugubre.
 
“Oh mio Dio, lo chiami per nome.” Mormorò Osamu. Poi si sedette sulla prima sedia libera, gli occhi larghi e la faccia sconvolta. “Lo chiami per nome.” Ripeté come un mantra.
 
“Perché non dovrei?” Ribatté Sakusa finalmente stufo.
 
“Beh, Omi, non mi chiami quasi mai per nome.” Atsumu gli fece un occhiolino malizioso. “Non vedo roba sexy in giro per avere questo onore.” Komori gemette distrutto.
 
“Continua così e non lo farò più.” Promise Sakusa ferreo. Le implicazioni di quella frase servirono ad Atsumu per mandargli un bacio volante (non accettato) e ritornare ai fornelli a far finta di cucinare.
 
“Quando è successo?” Si riprese Suna con un interesse rinnovato. “Quest’anno?”
 
“A dicembre, vero?” Rincarò Komori decidendo velocemente di non voler combattere contro qualunque cosa fosse ormai successa e di puntare, invece, su cose notevolmente più importanti dell’attività sessuale di suo cugino. Lo sguardo maniacale rendeva tutto solo più strano. “Me lo dovete, deve essere dicembre.”
 
“Perché?” Chiese Sakusa, gli occhi stretti di sospetto.
 
“Kiyoomi, rispondi e basta!”
 
“Mi spiegate dove avete passato le vacanze di Natale?” Domandò invece Osamu, lo sguardo ancora perso nel vuoto ma la mente che andava per conto proprio, decidendo in quel momento di mettere insieme tutti quei pezzi che non credeva riuscissero ad incastrarsi nel breve periodo.
 
“A casa tua.” Rispose Sakusa seccato.
 
Osamu sbuffò. “Sakusa-kun, che cazzo! Non c’è bisogno di rispondere così.”
 
“No, Samu, davvero.” Intervenne Atsumu esilarato. “Siamo andati a casa, ad Amagasaki. L’ho presentato a mamma e papà.”
 
Suna cominciò a sogghignare. Osamu e Komori erano doppiamente sconvolti. Atsumu alzò le spalle, un luccichio malvagio negli occhi. “Poi siamo tornati qua a Osaka e abbiamo finito le vacanze a casa nostra.” Fece l’occhiolino a suo fratello e per poco non si ritrovò una forchetta in mezzo agli occhi.
 
“Mamma e papà sanno tutto?” Domandò isterico Osamu.
 
“Certo che sanno tutto.” Atsumu riaccese il fornello dell’acqua. “Gli piace.”
 
“Perché l’unico a non sapere niente ero io?”
 
“Siamo in due.” Ringhiò quasi Komori.
 
“Komo-kun, stai calmo.” Atsumu gli passò un bicchiere d’acqua più per prenderlo in giro che per aiutarlo. Komori artigliò il vetro come se potesse spezzarlo in ogni momento. “Sono solo i miei genitori.”
 
“Persone squisite, tra l’altro.” Intervenne Sakusa guardando i due gemelli con sguardo un po’ schifato. “Da dove siete usciti voi?”
 
“Vero?” Suna si accodò, guardando il suo ragazzo con il naso arricciato. “È come se avessero trovato delle uova infernali chissà dove e avessero deciso di covarle per vedere cosa usciva fuori. Per poi tenersele.”
 
“Omi, te l’ho già spiegato, mamma ha un demone che abita dentro il suo corpo.” Atsumu era serissimo e Osamu si ritrovò ad annuire, forse per la prima volta in vita sua d’accordo. “Cambia completamente anche quando c’è Suna, non la vedrai mai al suo stato naturale.”
 
“Penso si tratti di educazione.” Spiegò Sakusa velenoso.
 
“E le siamo più simpatici di voi.” Terminò Suna.
 
“Fatemi capire bene.” Komori era stato zitto fino a quel momento, le rotelle del cervello che andavano in cortocircuito. “Nelle vacanze di Natale ti ho sentito per due minuti contati al giorno.”
 
“Avevo da fare.” Sakusa lo guardò confuso. “Ed eri occupato anche tu.” Notò gli sguardi evasivi di Osamu e Suna e batté le palpebre, non capendo immediatamente. Sapeva che avevano passato quei giorni insieme.
 
“Ma adori parlare con me!”
 
“Questa è una tua convinzione.” Komori sbuffò e agitò la mano come per scacciare una mosca particolarmente insistente.
 
“Quindi, da quanto va avanti?” Domandò Osamu strofinandosi la fronte. Si sentì il fuoco sfrigolare e, girandosi, trovò il brodo uscito dalla pentola, invadendo in un attimo il piano cottura come fosse lava. “Merda!” Imprecò, correndo ad abbassare la fiamma e controllare lo stato degli ingredienti, girando il mestolo all’interno velocemente. “Perché non mi hai avvertito?” Aggredì Atsumu dandogli un pugno sulla spalla.
 
“Eri occupato a farti gli affari nostri, sembrava giusto.” Rispose, colpendolo di nuovo e spingendolo per buona misura. Osamu ribatté il colpo. “Se brucia qualcosa scatta l’allarme antincendio, deficiente! Vuoi ritrovarti tutto allagato con i vigili del fuoco che ti fanno il culo?”
 
“A me piacerebbe!” Si inserì Komori battendo gli occhioni. “A quanto pare, sono l’unico qua dentro che potrebbe ottenere qualcosa.” Mentre Atsumu scoppiò a ridere, Osamu si rigirò ai fornelli continuando a mescolare. Suna portò gli occhi sul cellulare, toccando lo schermo insistentemente senza che succedesse nulla.
 
Sakusa osservò la scena in silenzio, pensoso.
 
Motoya ciarlava riguardo muscoli e prestanza, ma il tono era troppo leggero per poterlo convincere del tutto.
 
Osamu gli dava le spalle, ma a parte un irrigidimento generale non poteva capire granché. Aveva, però, la facciata di Suna libera da ogni ostacolo e poteva vedere la sua guancia guizzare leggermente, come se la stesse mordendo dall’interno.
 
Erano diventati improvvisamente strani.
 
Sakusa sospirò, rassegnato. L’unica fortuna era che Atsumu non si era accorto di nulla.
 
 
*
 
 
Kiyoomi entrò in camera con un sospiro, aprendo la porta con i gesti un po’ rallentati e accendendo l’interruttore della luce. Era stanco, si vedeva dalle palpebre cadenti e i muscoli leggermente irrigiditi, ma Motoya sapeva che non aveva il turno al ristorante di Osamu, quella sera, quindi non si sentiva troppo in colpa per aver invaso il suo dormitorio. O il suo letto, precisamente.
 
Non si era accorto della sua presenza. Guardava in basso per togliersi le scarpe, la mascherina ancora alta sul naso e i capelli vaporosi e lucidi della doccia post allenamento. Il manico del borsone gli slittò dalla spalla e cadde a terra con un tonfo pesante, ma non gli diede troppa attenzione. Sicuramente aveva già diviso per gravità di igiene gli indumenti sudati dalle cose pulite, quindi non sentiva il bisogno di sbrigarsi a separare la biancheria sporca.
 
Si tolse la mascherina facendola pendere da un orecchio mentre litigava con i lacci di una scarpa. Era concentratissimo.
 
“Hai un buon odore.” Cinguettò Motoya con un sorriso divertito, guardando suo cugino alzare la testa di scatto con gli occhi allargati di panico e vedere i suoi lineamenti rilassarsi e le sue sopraciglia aggrottarsi un secondo dopo averlo riconosciuto. “Hai cambiato shampoo?”
 
“Che ci fai qua?” Domandò Kiyoomi brusco, alzandosi lentamente ed entrando finalmente in camera, buttando la mascherina in un secchio vicino la porta e lasciando il borsone abbandonato per terra. “Come sei entrato?”
 
“Sono tuo cugino, le porte sono sempre aperte per me.” Motoya lo vide togliersi la giacca, passarsi una spruzzata di disinfettante tra le mani e prendere gli indumenti che usava come pigiama senza guardarlo una seconda volta. Erano piegati in modo maniacale, ma la maglia aveva qualcosa di familiare che non riusciva a visualizzare del tutto. “La gente mi ama.”
 
“Con cosa hai pagato il portiere?”
 
“Sono un raggio di sole, l’ho graziato con il mio sorriso.”
 
“Ha voluto soldi?”
 
“Un fazzoletto autografato di Iizuna-san.” Rivelò con fare svelto. “La figlia è una fan e, beh, Iizuna-san è un gran bel pezzo di ragazzo con una firma facilmente riproducibile.”
 
“Sono secoli che gli dico di cambiarla.” Accettò facilmente Kiyoomi togliendosi la maglietta. “Non dovresti essere in albergo?”
 
“Ho il permesso dell’allenatore. Devo ritornare tra …” Controllò l’orologio del cellulare a terra sporgendosi dal materasso. “… tre ore. E qualcosa. Potrei fare un sonnellino.”
 
“No.” Lo vide mettere il pezzo sopra del suo pigiama con un numero e un nome preciso stampato bianco su nero, insieme alla stampa stilizzata di uno sciacallo selvatico e un’artigliata dorata sfrontata che gli accese le lampadine nel cervello tutte insieme. “Atsumu ti ha dato la sua divisa ufficiale?” Domandò stupito. “Può farlo?”
 
“Non essere ridicolo.” Kiyoomi lo guardò malissimo, ma l’improvviso rossore sulle guance la raccontava lunga e imbarazzante. “È merchandising.”
 
“Quando ti ha regalato questo esempio di megalomania e bassa autostima tutto insieme?” Batté le palpebre. “Non dirmi che te lo sei comprato da solo. Potrei offendermi.”
 
“L’ha preso per il mio compleanno.” Era ufficiale: Miya Atsumu faceva regali discutibilissimi. Sembrò pensarlo anche Kiyoomi, che fece una smorfia ma accarezzò distrattamente il logo dei Black Jackals sul suo petto con uno sguardo affettuoso. Rivoltante.
 
“E lo usi come pigiama?”
 
“Quando non mi vede sì.” Fece spallucce ma evitò il suo sguardo. Motoya notò la punta delle sue orecchie praticamente andare a fuoco da quanto erano diventate rosse. “È comodo.”
 
“Siete così schifosi.” Si lamentò Motoya buttandosi di schiena sul materasso, prendendo il cuscino e schiacciandoselo sugli occhi. “Davvero, neanche Chibi-Maki con il poster di chissà quale cantante slavato è mai stata così melensa.”
 
Kiyoomi non rispose nemmeno, mettendosi i pantaloni con gesti veloci e mandando un messaggio sul cellulare chissà a chi con un mezzo sorriso sulle labbra. La vibrazione lo informò che la persona del mistero si era sbrigata a rispondere e dal broncio arrossato di suo cugino non era un messaggio tale da poter essere letto ad alta voce.
 
Motoya aveva sempre saputo che uno come Atsumu avrebbe fatto solo che bene a Kiyoomi. Era troppo abituato ad essere infallibile e perfettino, troppo concentrato ai suoi scopi ed occupato a raggiungere il picco delle proprie possibilità. Il comportamento sfrontato di Atsumu lo avrebbe smosso abbastanza da fargli cominciare veramente a vivere la sua vita e a scioglierlo un po’, farlo finalmente divertire.
 
Kiyoomi spense la luce con uno sbuffo e si avvicinò per pungolarlo. “Togliti. Voglio dormire.”
 
“Hai già mangiato?” Lo ignorò Motoya con una leggerezza che sapeva di abitudine. “Ho cenato all’hotel ma posso prendere qualcosa con te.”
 
“Sono a posto.” Lo spinse di nuovo piano. “Voglio dormire.” Ripeté con tono acido.
 
“Accomodati.” Motoya si spostò di lato, in quel letto stranamente grande per uno studente, e Kiyoomi si sedette vicino a lui dopo un lungo minuto con il sospiro più stanco del mondo. “Se ti muovi troppo ti butto fuori dal letto. Ti sei lavato almeno?”
 
“Mi sono cambiato con la tua roba pulita e mi sono disinfettato da cima a fondo, tranquillizzati.” Il materasso affondò e Kiyoomi si mise sotto le coperte leggere, infagottandosi fino al mento come se non fosse giugno e stesse invece nevicando.
 
Da piccoli si ritrovavano sempre a sonnecchiare insieme nel letto di Motoya dopo il pranzo nei giorni in cui non c’era scuola, faccia contro faccia a sussurrare stupidaggini finché non crollavano per stanchezza e pancia piena.
 
Sonno di crescita, lo chiamava la mamma, costringendoli sotto le coperte con piglio da generale. Se ne pentì quando entrambi arrivarono al metro e ottanta all’imbarazzante età di quattordici anni, sembrando precisi a due piante di fagioli con gli arti sproporzionati, goffi all’inverosimile. Lui almeno aveva avuto la decenza di fermarsi, ma Kiyoomi aveva continuato fino a diventare il lampione musone che conoscevano tutti. Fortunatamente aveva messo un po’ di massa muscolare dalle superiori per compensare la sua linea allampanata.
 
Era rilassante starsene così, con la presenza confortante di suo cugino vicino, un calore familiare e piacevole. Era come tornare ad avere sei anni, nessun problema al mondo se non la pioggia che minacciava di bloccarli dentro casa,  costringendoli a passare il pomeriggio a sorbirsi Chibi-Maki che sgambettava in giro con le sue gambette cicciotte, toccando di tutto e mettendo qualsiasi cosa in bocca con velocità impressionante, la possibilità di allenarsi nei palleggi sfumata inesorabilmente.
 
Sembravano pensieri così importanti, all’epoca.
 
Sentiva il respiro di Kiyoomi calmo e paziente e sapeva che non avrebbe dormito finché non avesse detto qualcosa. La cosa bella di Kiyoomi era che era intuitivo: sapeva che la sua presenza nel dormitorio era dovuta a qualcosa che lo aveva sconvolto, ma gli avrebbe lasciato comunque il suo spazio, pronto ad ascoltarlo quando lo era lui a parlare, senza mettergli pressioni.
 
“Gli zii sanno di Atsumu?” Domandò Motoya da sotto il cuscino, la voce attutita dal contatto con la federa e strati di lattice.
 
Kiyoomi bloccò il suo respiro per un attimo. “Sì.”
 
“Glielo hai detto a Natale?”
 
“Erano in Hokkaido con i tuoi genitori e Maki-chan.” Gli ricordò piano. “Ho presentato Atsumu a marzo, siamo andati a Tokyo per il mio compleanno.”
 
Quasi tre interi mesi e lui l’aveva scoperto solo qualche tempo prima. “Da quanto va avanti?”
 
“Perché queste domande?”
 
“Sento che ti stai allontanando.” Gli rivelò a voce bassa, schiacciando di più il cuscino contro la faccia. “Non ci parliamo più come prima e ho scoperto tutta questa cosa grazie ad un pezzo di tofu.” Spostò il cuscino e lo guardò. Il buio della camera era rischiarato dalla luce del lampione esterno che entrava dalle fessure delle persiane, i vetri della finestra liberi dalle tende leggere. Gli occhi di Kiyoomi erano aperti e lo guardavano fisso, serio. “È una cosa importante.”
 
“Pensavamo l’aveste capito.” La voce di Kiyoomi era pacata e Motoya si sentì stupido per chissà quale motivo. “Continuavate a prenderci in giro e l’avevamo presa come un modo per farci sentire accettati.”
 
“Saremmo dovuti essere morti per smettere di prendervi in giro, voglio dire, facevamo a gara a chi vi faceva arrossire di più.”
 
“Stronzi.”
 
“Ha vinto Osamu, per la cronaca, ma gioca sporco.” Si girò di fianco per ritrovarsi faccia a faccia. “Opera sul vostro stesso territorio.”
 
Motoya mosse la testa sul cuscino, spostandolo per farci entrare anche Kiyoomi. Lo sentì mordicchiare il labbro inferiore, massaggiandolo con la lingua con un suono umido. “Non mi ero accorto che …”
 
“Sì, lo so.” Lo bloccò Motoya e lo vide stringere la bocca in una linea sottile. “Tendi a farlo quando hai la testa piena.” Portò una mano sotto il collo, mettendosi più comodo. “Qual è il problema?”
 
Kiyoomi si fece sfuggire un lungo sospiro e chiuse le palpebre. Poteva vedere le ciglia tremare leggermente. “È stupido.”
 
“Sicuramente è stupido, si parla di te.” Si beccò un calcio leggero allo stinco e ridacchiò.
 
Atsumu è stupido.”
 
“Ancora, niente di nuovo.”
 
“Ha questa idea deficiente che lo lascerò non appena firmerò con qualche squadra.”
 
Komori sentì un sorriso spingere gli angoli delle labbra, ma non poteva farlo vedere a Kiyoomi quando era di quell’umore: si sarebbe offeso e non avrebbe più detto niente. E, davvero, gli era un po’ mancato parlare così con lui. “Te l’ha detto lui?”
 
Kiyoomi sbuffò. “Certo che no, ma non sa dire una bugia nemmeno a pagarlo.”
 
“Gli hai detto che si sta inventando le cose?” Domandò. “Magari pensa che per te non sia troppo importante, non sei mai stato molto espressivo in fondo.”
 
“L’ho portato a Tokyo.” Sbottò con tono scocciato. “È questa la portata della mia serietà, l’ho presentato in famiglia.” Sbuffò dal naso, forte. “Ho sopportato le occhiate divertite di papà ogni volta che Atsumu cercava di fare lo splendido, le battutine stronze di Chieko, Daiki che lo prendeva da parte e lo minacciava con quel suo maledetto atteggiamento passivo-aggressivo da psicopatico e mamma che cercava di ingozzarlo per ogni complimento alla sua cucina.”
 
Non ce la fece più e scoppiò a ridere, vedendolo imbronciarsi. “Smettila, mi sono vergognato a morte. I suoi genitori sono stati fottutamente normali, è stata una giornata piacevolissima.”
 
“Perché non c’era Osamu, probabilmente.” Ridacchiò piacevolmente. Kiyoomi, alla fine, era il cucciolo di famiglia. Avevano fatto lo stesso con Chibi-Maki, che cambiava interesse tanto quanto lavava i denti. Anche se era un po’ preoccupato per la fissa per Washio-kun, durava da troppo tempo. Moriko-chan la incoraggiava, stranamente. “Atsumu cosa ha detto?”
 
Il broncio di Kiyoomi si ammorbidì e, benché la luce fosse spenta, Motoya poté giurare che la sua faccia fosse diventata rosa. “Era felicissimo.” Rivelò piano, più tranquillo. “Ha avuto questo sorriso enorme per giorni. Finché l’allenatore non mi ha informato di essere stato contattato dalla VC Kanagawa per organizzare un provino.”
 
Motoya poteva capirlo. Le relazioni a distanza erano difficili, piene di ostacoli. Lo vedeva ogni giorno con Rintarou e Osamu: aveva sotto gli occhi il dispiacere nel suo compagno di squadra ad ogni appuntamento in cam mancato, sia da una parte che dall’altra, la gioia di quando si incontravano e l’umore pesante di quando dovevano ripartire, le telefonate fino a notte fonda, la mancanza, la rabbia per le cose più stupide.
 
Era una questione di fiducia, dopotutto, sia nel futuro che in loro, e Rin e Samu stavano insieme da secoli in confronto a Kiyoomi e Atsumu. Era una relazione troppo fresca per poterla mettere sotto torchio da subito.
 
“Siamo insieme da quasi un anno.” La voce di Kiyoomi era bassa e pensosa e lo risvegliò dai suoi pensieri. “Ufficialmente.” Precisò.
 
Un anno poteva sembrare tanto, ma non lo era. Erano solo all’inizio.
 
“Hai avuto delle offerte dai Jackals?”
 
“No.” Si spostò più sul cuscino e premette la coperta sulla bocca. “Non hanno bisogno di uno schiacciatore. O, forse, non sono semplicemente interessati a me.”
 
“O stanno aspettando, che ne sai?”
 
“Non voglio scegliere i Jackals solo per Atsumu.” Precisò Kiyoomi severamente. “Non voglio pentirmi per una relazione che andrà avanti comunque.”
 
“Pentirti di cosa?” Motoya aggrottò le sopracciglia. “È una cosa egoista da dire.”
 
“Atsumu ha potuto scegliere, senza condizionamenti.” Stavolta la voce di Kiyoomi era più dura, più ferma. Quasi come per convincere sé stesso. “Siamo professionisti, quanto potremo andare avanti? Un’altra decina di anni? E se non rimanesse nella stessa squadra? Perché è dannatamente bravo, lo sappiamo tutti. Sarebbero ciechi a non fargli offerte più allettanti, anche all’estero.”
 
Aveva paura, capì Motoya stupito.
 
Kiyoomi era la persona più testarda che avesse mai conosciuto, prendeva una decisione e andava avanti per la sua strada schiacciando ostacoli senza guardarsi indietro due volte. Ma nella relazione con Atsumu aveva il terrore di fare un passo sbagliato, qualcosa che lo avrebbe fatto rimpiangere delle sue decisioni, qualcosa che non poteva prevedere.
 
Lo sentì respirare un po’ più velocemente, poteva vedere la luce dei lampioni riflettersi parzialmente in quegli occhi scuri e spaventati. Sentì una scintilla di irritazione salirgli su per la gola.
 
“E se non lo facesse?” Domandò semplicemente e sentì il respiro di suo cugino cominciare a rallentare leggermente. “Se invece rimanesse per sempre nei Black Jackals? O, ancora, che ti importa se anche cambiasse squadra? Affrontereste comunque la questione, più vicini e più maturi.” Avvertì la testa di Kiyoomi affondare di più nel cuscino. “Non puoi cercare di prevedere questo futuro. Non puoi leggere nella mente della gente.”
 
“C’è l’istinto …”
 
“Si fotta l’istinto, il tuo istinto ora ti sta urlando si scappare, con il rischio di mandare tutto a quel paese. E non vuoi farlo, credimi.”
 
Kiyoomi non rispose, continuando a cercare di regolarizzare gli sbuffi rapidi che gli uscivano dal naso, lo sguardo puntato una spanna oltre la sua spalla e le labbra strette così forte che si chiese se le stesse mordendo.
 
C’era altro, capì immediatamente Motoya.
 
“Non è questo, vero?” Gli chiese piano e vide gli occhi di suo cugino spostarsi nei suoi. “Non solo, almeno.”
 
Kiyoomi aprì la bocca lentamente e la richiuse dopo un secondo. Passò la lingua sul labbro, prendendo tempo. “Entrare nei Jackals significherebbe mandare all’aria tutto ciò per cui ha lavorato.” Rivelò con un sussurro e Motoya sentì per la prima volta di aver vinto. “E ha lavorato tanto, cazzo, così tanto. Lo metterei in una situazione di merda con stampa, con allenatori, compagni. Non se lo merita. Non è giusto.”
 
Ed eccolo, come al solito il suo cervello si arrovellava per cose inutili, pensando troppo e male. “Siete due coglioni. Glielo hai detto?”
 
“Certo che no, farebbe di tutto per non far veder-”
 
“Cosa? Che ha già fatto tutto questo? Che ha fatto di tutto per mettervi in una botte di ferro?” Kiyoomi aggrottò le sopracciglia e Motoya sbuffò. “Parlane con lui, cazzo, e fagli capire che non vuoi lasciarlo. In qualsiasi maniera.”
 
“Ha bisogn-”
 
“Oh mio Dio, Kiyoomi zitto e lascia parlare le persone con il cervello!” Sbottò stufo. “Perché stai in una situazione da Dio in confronto a tanti altri e non vuoi rovinare un cazzo, me lo devi!”
 
Kiyoomi si rabbuiò. “Non ti devo proprio niente.”
 
“Oh oh oh, signorino, qua sbagli!” Motoya sembrava isterico, cominciando a gesticolare con la mano libera come se non riuscisse a tenerla ferma. Lo vide contrarre la bocca in quello che conosceva come un sorriso. “Luglio? Seriamente? Sai quanti soldi ho perso per i cazzi vostri? Non potevi aspettare dicembre, noooooo, ti avrebbe ucciso farmi questo favore!”
 
“Signorino?” Lo prese in giro divertito.
 
 “L’unica cosa positiva è che questa scommessa del cazzo non l’ha vinta nessuno, altrimenti giuro avrei pubblicato sui social le foto del tuo tentativo di capelli lisci del primo anno delle superiori.”
 
“Ti avrei ucciso prima.” Mormorò con un piccolo sorriso. “Quale scommessa?”
 
“Non sei un addetto ai lavori, non ti interessa.” Motoya mise il broncio, perché quella era un’ingiustizia bella e buona. Aveva fatto da spola tra suo cugino e gli scommettitori per cercare di carpire informazioni preziose da letterali secondi di silenzio, perché Kiyoomi aveva l’espressività emotiva di un sasso affogato nel fango e non avrebbe scucito il suo reale pensiero nemmeno a pagarlo. Se li era guadagnati quei soldi.
 
Invece no. Luglio.
 
Motoya strizzò gli occhi così forte che cominciò a vedere lampi bianchi dietro le palpebre, inspirando per non cominciare a sputare improperi. Kiyoomi non se lo meritava un cugino come lui, assolutamente.
 
“La stai facendo troppo lunga.”
 
“Zitto.” Sibilò. “So che mi hai raccontato tutto solo perché ti sentivi in colpa, ora lasciami in pace.”
 
“Lo farò se mi dici perché sei venuto veramente.”
 
Motoya rilassò le palpebre e arricciò in naso. “Te l’ho detto.” Disse velocemente. “Mi mancava parlare con te.”
 
“E?” Motoya sospirò. Maledetta perspicacia di famiglia.
 
“E niente. Eri troppo occupato a fare cosacce con Miya per degnarti di chiamarmi.”
 
Kiyoomi sbuffò forte dal naso e Motoya notò che il suo livello di irritazione stava raggiungendo nuovi picchi di isterismo. Ottimo, se lo meritava. “E?” Ripeté però, calcando il tono come se pensasse che Motoya fosse stupido.
 
“Non voglio parlarne.” Mormorò tra i denti.
 
“È mancato anche a me parlare con te.” Motoya lo derise. “Fottuto bugiardo.” Kiyoomi non si degnò neanche di usare una voce convincente per dire quella stronzata.
 
“Va bene, a volte mi mancava.” A questo poteva credere un po’ di più. “Sei sempre stato più bravo di me con le persone.”
 
“Non ci vuole tanto.” Bofonchiò e si beccò un altro calcio sullo stinco.
 
“È il mio turno per toglierti fuori dai guai.”
 
Motoya aprì gli occhi e si beccò lo sguardo sicuro di suo cugino, fisso sulla sua faccia con una determinazione che conosceva anche troppo bene.
 
Sospirò. “Non mi lascerai deprimere da solo, vero?”
 
Kiyoomi si avvicinò di più, il ginocchio che toccava con il suo da sotto la coperta. Lo aveva sempre fatto quando, da piccoli, si svegliava dagli incubi che lo lasciavano sconvolto e senza fiato. Nelle nottate passate ad inzuppare le federe di lacrime per partite perse. Nei giorni pieni di depressione per la prima cotta non corrisposta.
 
Un tocco di ginocchio e Kiyoomi era lì, pronto per lui. Ad ascoltarlo, a trattenerlo, a farlo respirare.
 
“Ho una … situazione.” Sussurrò quasi. “E mi sta dando problemi.”
 
Kiyoomi annuì leggermente e una scintilla di vittoria illuminò i suoi occhi. “Vuoi parlarne?”
 
“No.”
 
“Vuoi parlarne con loro?”
 
Di nuovo, bastardo perspicace. Si chiese oziosamente quando e quanto effettivamente avesse capito. Non lo voleva veramente sapere, sarebbe stato umiliante. “ … No. Voglio che rimanga così all’infinito.”
 
“Non ti fa bene uscire con chiunque.”
 
“Beh, cazzo, non mi fa neanche male.” Non avrebbe bruciato la sua possibilità di incontrare qualcuno che facesse per lui, qualcuno che lo facesse sentire a posto, a suo agio e voluto come facevano loro.
 
C’era voluto un del tempo per arrivare a capire che non era dovuto tutto alla sua mente. Rin e Samu volevano veramente che stesse lì con loro quando passavano le vacanze insieme, erano più che felici a passare il loro tempo con lui e quando organizzavano qualcosa lo includevano sempre, non per dovere come aveva immaginato inizialmente.
 
Non era stato facile pensare che l’atteggiamento scontroso e sarcastico per ogni suo appuntamento, il mezzo sorriso e gli occhi luminosi per la fine delle sue relazioni, le battute e i flirt involontari che scappavano dalle loro bocche, erano tentativi di … qualcosa.
 
Ha fatto veramente fatica ad accettarlo, nella sua testa. Ma non era sicuro di volerlo, non in quel modo. “Non faccio lo sfascia famiglie.”
 
Kiyoomi aggrottò lo sguardo. “Dici sul serio? Sfascia famiglie?”
 
“Senti, non cominciare.” Motoya sospirò ed era stanco, davvero. Non faceva altro che pensare a quella situazione e si stava esaurendo. “Stanno benissimo insieme, la lontananza è già un ostacolo per loro, non voglio aggiungermi a qualunque cosa tu stia pensando. Non sono interessato.”
 
Kiyoomi si fece uscire un verso di scherno e Motoya non ci vide più. “Cosa ne vuoi sapere? Sei stato quasi in grado di far naufragare una relazione perfettamente funzionante con letteralmente nulla all’attivo!”
 
“Non dire stronzate.”
 
“Non dirle tu! Ti fai problemi inutili e pensi di sapere meglio di me cosa voglio e di cosa ho bisogno!”
 
Non doveva dirlo, lo capì nel momento in cui gli scappò di bocca.
 
Vide la mascella di Kiyoomi guizzare leggermente, a trattenere una rispostaccia che, ne era consapevole, si meritava totalmente. Socchiuse gli occhi, inspirando lento. “Scusami.” Mormorò, liberando gradualmente i polmoni. “Non dovevo scattare così.”
 
“Ti odierò per alcuni minuti, se per te va bene.”
 
Ridacchiò. Kiyoomi permaloso. “Fai pure, me lo merito.”
 
“Comunque, per me stai vedendo tutto sbagliato. Sei più allegro, quando sei con loro.” Gli rivelò con sguardo affettuoso. “Hai sempre il sorriso. Fai bene ad essere cauto e a salvaguardarti, ma dovresti dargli il tempo di capirlo ed il beneficio del dubbio.” Kiyoomi lo toccò di nuovo con il ginocchio e Motoya si rilassò quasi senza accorgersene. “Si comportano come idioti troppo attenti attorno a te. E fidati, ne so qualcosa.”
 
 
*
 
 
Suna sospirò, sdraiato sul divano a vedere la televisione. Una gamba era piegata sotto l’altra, sistemate in modo tale da non muovere la schiena più del necessario. La mano che teneva il telecomando era appoggiata sullo schienale con pigrizia, l’altra ciondolava nel vuoto, toccando terra con suo disappunto.
 
Non avrebbe dovuto appollaiarsi sul divano, c’era stato un divieto categorico da parte del preparatore atletico in merito con tanto di minacce annesse, ma sinceramente non vedeva come starsene un’oretta su quei cuscini deformi avrebbe dato ulteriori problemi alla sua spina dorsale già sapientemente martoriata da anni. Si stava annoiando e voleva vedere la tv.
 
“Peggiorerai la situazione.” Aveva ringhiato il preparatore atletico mentre compilava su un foglio il suo regime di recupero, scoccando alla sua faccia da schiaffi un’occhiata che avrebbe fatto piangere chiunque. Ma non lui.
 
Lui era cresciuto con gli occhi morti di Kita-san, che ti guardavano in faccia e ti facevano sapere immediatamente che erano delusi da te. Non sapevano ancora perché, ma Kita-san aveva questo sguardo giudicante ed estenuante che ti informava che era a conoscenza di tutti i tuoi movimenti e ti rimproverava prima ancora che riuscissi anche solo a pensare a qualcosa da combinare, quindi, davvero, il preparatore atletico sarebbe andato incontro ad una grossa delusione.
 
Il fatto era che Kita-san conosceva perfettamente i suoi polli ed era una scommessa vincente immaginare un guaio a caso combinato da un compagno di squadra a caso, ciò non significava che si meritasse quell’espressione disillusa.
 
Sospirò di nuovo, sistemando la testa sul bracciolo troppo duro e portando il braccio sulla fronte, cambiando canale direttamente da sopra la sua testa.
 
Ci mancava solo lo stiramento, seriamente. Non bastavano tutti gli altri problemi.
 
Era stata una disattenzione bella e buona, la sua. Stretching sottovalutato per pigrizia, alzata leggermente sbilanciata per un recupero miracoloso e inclinazione del suo corpo oltre le sue possibilità giornaliere. Fortunatamente era atterrato bene, quindi almeno si era salvato da caviglie storte o peggio, ma la fitta fulminea alla schiena gli tolse il respiro bloccandolo sul posto e quel giorno fu relegato allegramente in infermeria, in attesa che Motoya terminasse l’allenamento e lo accompagnasse a casa.
 
Ora aveva cerotti grandi quanto la sua testa sul dorso, bollenti in maniera insopportabile, che gli lasciavano una sensazione viscida e appiccicosa sulla pelle che lo rendeva irritabile e scontento. Le stilettate a tradimento appena faceva un movimento un minimo più carico contribuivano al suo malumore in maniera esponenziale.
 
Motoya gli stava vicino come poteva esserlo uno scarsamente impressionabile cresciuto con un odiatore di germi non del tutto ipocondriaco. Lo aiutava a mettere i cerotti e gli intimava di non piagnucolare. Gli chiedeva se voleva qualcosa da mangiare e gli preparava il suo pasto preferito. Male, ma lo faceva.
 
Gli preparava il soggiorno per permettergli di vedere Netflix in comodità e poi se ne andava a cena con l’ultima conquista.
 
Motoya era questo concentrato di sorrisi, furbizia e gentilezza sarcastica che, con il tempo, si era insinuato nella sua testa destabilizzandolo, facendogli pensare seriamente al suo rapporto con Osamu. Ai problemi. Alle soluzioni, perché amava Osamu con tutto sé stesso e non lo avrebbe lasciato per qualcosa di temporaneo come la lontananza. Erano due ore di Shinkansen, cazzo, i problemi seri erano altri.
 
L’anello aspettava in camera di Motoya da ormai più di un anno. Non si sarebbe mosso di lì finché non avrebbe avuto Samu sotto tiro in pianta stabile.
 
Lo aveva scelto con Motoya, paradossalmente. Era stato un pomeriggio di tormenti, di telefonate mancate, di una mezza litigata per una stupidaggine che non ricordava più finché Motoya non gli propose di renderlo ufficiale, almeno nella sua testa.
 
Non avrebbe mai pensato al fatto che, un anno dopo, il suo coinquilino avrebbe tolto il tappeto da sotto i suoi piedi in quel modo.
 
A questo si aggiungeva Samu, che ovviamente stava lavorando e non poteva stargli dietro per i tre giorni pattuiti con chi di dovere. Samu, che vedeva esaurito ogni sera in cam e cercava di rassicurarlo con un sorriso stanco e gli occhi secchi.
 
Samu, che aveva quasi pensato di perdere.
 
Perché non sapeva mentirgli. Non sapeva omettere, non con lui. Quindi, prenderlo e dirgli che stava pensando anche a Motoya, che però lo amava più di tutto e che non ci stava capendo più niente era stato d’obbligo.
 
Ricordava come aveva tremato la sua voce, come avesse difficoltà a parlare, come Samu avesse preso la sua mano e lo avesse incoraggiato con lo sguardo.
 
Era stato pronto a tutto. Ad urli, litigate, accuse. Pianti.
 
Non si aspettava di vedere lacrime di sollievo. “Anche io, Rin.” Aveva detto tra i singhiozzi, portando la sua mano sulla fronte. “Anche io, cazzo. Sono terrorizzato.”
 
Ne avevano discusso per settimane: dovevano capire cosa dovevano fare prima tra di loro, vedere se veramente il loro rapporto era rimasto immutato. Solo in un secondo momento pensarono a come muoversi con Motoya. E da lì, fu veramente tutto in discesa.
 
Anche se capire l’interesse di Motoya era difficile. Era bravo, cazzo. Flirtava e ritrattava, ti faceva sognare e poi spariva dietro a chissà chi. Era davvero una dannata donnola, fluido e scivoloso, bravo a cambiare pelliccia quando lo chiedeva la natura.
 
Suna si morse l’interno delle guance, indispettito. Quel gremlin non gli stava rendendo le cose facili.
 
Sentì le chiavi girare nella porta di ingresso e Motoya entrò, incespicando nel borsone pesante e nell’ombrello bagnato. Suna girò gli occhi verso la finestra, non riuscendo a credere di non aver sentito la pioggia.
 
“Yo!” Salutò Motoya buttando il borsone a terra e correndo verso il bagno. “Metto l’ombrello in vasca e torno a mettere a posto.”
 
“Ti aiuto.”
 
“No, fermo lì.” Tornò di corsa e lo guardò, lo sguardo aggrottato. “Non devi stare sdraiato sul divano.”
 
“Questo lo dici tu.”
 
“Lo dice il foglio di recupero.” Prese il borsone e lo portò in camera sua, sicuramente per disfarlo e mettere a lavare la roba sudata. “Quel divano è uno schifo!” Sentì rimproverarlo con la voce attutita da una serie di muri. “Mettiti su una sedia!”
 
“È peggio.” Borbottò contrariato. Se voleva stare sul divano, sarebbe rimasto sul divano. “Com’è andata oggi?”
 
“Ho dato a Washio-kun la lettera di Chibi-Maki.” Sghignazzò Motoya tornando in camera e buttandosi sul divano con lui, alzandogli le gambe per poggiarsele addosso. “Era rossissimo. C’è voluto mezzo allenamento per farlo tornare del suo colore originario.”
 
“Foto o non ci credo.” Lo vide prendere il cellulare prontamente e fargli vedere lo scatto di quell’orso di pezza di Washio-kun completamente bordeaux. Suna scoppiò a ridere. “Cosa c’era scritto sopra per ridurlo in quello stato?”
 
“Niente di osceno, ho controllato.” Poggiò il cellulare sul bracciolo e si sistemò meglio, la schiena affondata nello schienale. “Sono stanchissimo, il capitano ci ha fatti sgobbare come schiavi. Penso di non aver mai fatto tanti affondi come oggi.”
 
“Fortunato me.” Sorrise Suna beccandosi un pizzicotto sul polpaccio. “Io sono passato dal letto in cucina, poi di nuovo letto, poi porta perché ho ordinato il ramen per pranzo …”
 
“Se non l’hai preso anche per me ti ucciderò nel sonno.”
 
“… il tuo è in forno, poi doccia calda e divano.”
 
“Giornata piena, vedo.” Mormorò con un sorriso storto e gli occhi socchiusi di stanchezza. “Hai preso l’antinfiammatorio?”
 
 “… Sì, mamma.”
 
“Li ho contati prima di andare via, devo andare a controllare?”
 
Suna fece una smorfia. “L’ho dimenticato.” Ammise e Motoya ridacchiò. “Vedi di prenderli, mi servi in campo.”
 
“Ti manco?” Lo sfidò con sorriso malizioso e Motoya si girò a guardarlo con occhi affettuosi. “Un po’.” Mormorò sofficemente e Suna sentì il respiro farsi un pizzico più rarefatto. “È difficile riprendere tutto e prendere in giro Washio-kun allo stesso tempo.” Suna sentì il sorriso congelarsi in una smorfia.
 
Ecco, l’aveva smontato. Era abile, in questo.
 
A Suna e Osamu piaceva giocare in quel modo, era così che si erano messi insieme, ma quella era una situazione un po’ troppo delicata per mandarla a puttane per un’incomprensione.
 
Motoya era il suo compagno di squadra. Si parlava di un lavoro in cui feeling e complicità erano alla base di tutto. Ed era il suo coinquilino. Solo la punta di certezza che Motoya effettivamente li ricambiasse li spinse a provare a tastare il terreno, altrimenti avrebbero risolto in altra maniera.
 
Le frasi sibilline ed enigmatiche di Sakusa avevano fatto la magia confermando i loro pensieri, insieme a una minaccia talmente cruenta che Suna se la sognava di notte.
 
L’unica consolazione era che Atsumu non si era accorto di nulla.
 
“Penso che non sia solo per quello.” Continuò, sistemandosi meglio e quasi sibilando di dolore. “Penso che vorresti avermi vicino sempre.”
 
“Ma già siamo vicini sempre. Viviamo insieme.”
 
“Ti manca vedere i miei addominali sotto la doccia.” E Motoya scoppiò a ridere di gusto, senza dargli alcun tipo di  soddisfazione. Suna scosse la testa e riportò la sua attenzione in tv, continuando a cambiare canale con un sorriso. “Sei una minaccia.”
 
“Io?” Motoya gli spostò le gambe con un luccichio negli occhi. “Vado a mettere la roba a lavare, vuoi che ti porti il portatile? Così ce l’hai vicino per la videochiamata con Osamu.”
 
“Lo prendo dopo.”
 
“Sarà un problema se farai fatica a muoverti.” Si alzò e se ne andò in cucina, aprendo il frigorifero.
 
Suna non comprendeva pienamente quella risposta. “Beh, mi aiuterai tu, no?”
 
“Sto portando Washio-kun a fare conquiste.” Lo informò, prendendo una bottiglia d’acqua e portandola alle labbra. Suna sentì una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco. “Magari vedendolo con qualcun’altra Chibi-Maki se ne farà una ragione. Pagherei perché Chibi-Maki abbia il disinteresse totale per i maschi di Jun-chan.”
 
Considerato che Jun-chan aveva disinteresse generale per il mondo, a parte i libri e farlo nero con risposte così secche e acide che non capiva ancora come facesse a pensarle, pensava che quella di Motoya fosse una battaglia persa in partenza.
 
Rimaneva il fatto che Motoya sarebbe uscito per l’ennesima volta e non c’era verso di trattenerlo per una serata a tre, con Samu in videochiamata.
 
Si sistemò di lato sul divano, stringendo i denti per le fitte secche, e impostò il canale alla soap coreana che vedeva Sakusa e di cui si stava appassionando.
 
Forse era una battaglia persa in partenza anche la loro.
 
 
*
 
 
Samson Foster era stato sempre un uomo molto deciso.
 
Era nato in America, dove football, basket e baseball erano istituzioni.
 
Era cresciuto con la mazza tra le sue mani, legno liscio e lucido che forzava nelle sue braccia di bambino e che faceva fatica anche a sollevare. Ricordava guantoni di cuoio che stringevano la palla piccola e grande al tempo stesso, con le cuciture spesse e la presenza ingombrante. Aveva parastinchi e berretti a proteggere gambe e testa ed aveva imparato a correre come se ne dipendesse della sua vita.
 
Se chiudeva gli occhi sentiva ancora l’odore dolciastro dell’erba strappata ad ogni scivolata, quello terroso e stagnante del fango che ricopriva ogni cosa, quello zuccherino della frutta che erano costretti a mangiare dopo ogni allenamento. Sentiva le risate dei suoi compagni, le feste nel diner più vicino a base di frullati e pizza spessa e untuosa, i rimproveri del coach, il tifo di suo padre.
 
Era felice. Era piccolo, un ragazzino appena, ma già viveva per gli applausi, per i ringhi degli avversari, per gli insulti arrabbiati e per le pacche di incoraggiamento. All’età di 8 anni, la sua camera era tappezzata di poster dei grandi del baseball, due medaglie di latta di cui era particolarmente orgoglioso, una palla firmata che faceva bella mostra di sé sulla sua scrivania.
 
Sarebbe stata solo fortuna riuscire a farlo interessare ad un altro sport. O talento puro.
 
Vedere giocare Karch Kiraly nei Giochi olimpici di Los Angeles gli cambiò la vita.
 
Non erano stati i salti, le battute, le schiacciate, qualcosa di scenografico e scintillante per cui un pagano come lui avrebbe potuto essere abbagliato. Erano le ricezioni.
 
Era il modo in cui si tuffava, impostava le mani, prevedeva. Era un animale affamato e non aveva paura di farlo vedere.
 
“Tutto ciò che oltrepassa la rete si può prendere …” Era stato Kiraly stesso a dirlo, non sapeva se in un intervista o dove, non ricordava nemmeno quando. Ma, cazzo, era un gran bella presa di posizione.
 
Si appassionò alla pallavolo. Giocò nella squadra della scuola, in quella delle superiori, venne reclutato in un college di tutto rispetto con una borsa di studio sportiva. Ed in tutti quegli anni prendeva forma dalle azioni dei suoi idoli.
 
Vide la sua ispirazione ritirarsi nel ’92 per puntare al beach volley. Lo seguì anche lì. Riconobbe i grandi di oltreoceano, come Lorenzo Bernardi e Gilberto de Godoy. Vide sfondare personaggi che credeva di nicchia, comete diventare meteore, crescere ed entrare nell’Olimpo dèi come Kaziyski, vide tutto. 
 
Passare da giocatore ad allenatore, una volta terminata la sua carriera sportiva, era stato naturale come respirare.
 
Fu colpa di un infortunio, sfortunatamente. Un atterraggio sbagliato che mandò in frantumi un ginocchio già malridotto e tenuto costantemente sotto controllo. Avrebbe preferito l’anzianità, doveva essere sincero, ma dopo un primo momento di sconforto, grazie anche al carattere d’acciaio di sua moglie Ruth, riuscì a risollevarsi e a puntare a visionare da dietro le quinte.
 
Era sempre stato bravo nell’adattare schemi di attacco e tattiche, era una parte di lui. Giocare al burattinaio aveva spiegato le sue ali.
 
Il Giappone non era preventivato, ma fu un cambiamento accettato con facilità. Iniziò con divisioni più basse, fino ad arrivare all’età di quarantatre anni ad allenare la MSBY Black Jackals.
 
Sciacalli. Predatori, territoriali, capaci di adattamento. Necrofagi. Mammiferi monogami che possono riunirsi in piccoli branchi di pochissimi elementi. Pericolosi da soli. Letali in gruppo.
 
Non avrebbe dovuto essere esaltato come, invece, si era sentito.
 
Formare la sua squadra era stato esaltante. Poi, uscì fuori quella che chiamarono “Generazione dei mostri”. Un sogno.
 
Ushijima Wakatoshi venne preso dagli Adlers.
 
Puntò a Sakusa Kiyoomi, ovviamente, sua degna nemesi. Rifiutò per l’università, cosa che, a posteriori, per un soggetto come lui era una scelta logica. Ci sarebbe stato tempo, doveva solo essere furbo.
 
Miya Atsumu era un talento stellare che avrebbe finito di sgrezzare. Ci avrebbe messo pochissimo: il ragazzo aveva fame.
 
Bokuto Koutarou era stato in dubbio per il suo carattere altalenante. Lo aveva seguito durante la sua esperienza in categorie minori, sarebbe stato un idiota a non farlo. Poteva dire di aver avuto un tempismo ottimale a presentargli la sua offerta dopo due anni di rodaggio professionistico: con la sua emotività sotto controllo era pronto a spiccare il volo.
 
Quindi, la sua puntata vincente poteva considerarsi quasi completa alla vista del ragazzo seduto davanti a lui in quel momento. Il figliol prodigo, se poteva permettersi di essere ironico.
 
Chiamato per un provino privato, Sakusa Kiyoomi si era presentato sicuro e deciso come se non dubitasse nemmeno per un secondo delle proprie capacità. Era stata una prova stellare, la sua, talmente completa e rotonda da fargli sentire il petto caldo di emozione e gli occhi lucidi di commozione. Era meticoloso e preciso come lo ricordava e come lo aveva visto crescere in tutti quegli anni, perché col cazzo che l’avrebbe lasciato alla mercé degli artigli altrui. Era stato bellissimo da guardare.
 
Si trovavano nel suo ufficio, in quel momento. Aveva messo sotto gli occhi di Sakusa un contratto che il ragazzo aveva letto con meticolosità e concentrazione. Aveva rifiutato la sua penna e ne aveva presa una sua. Non si era offeso, tutt’altro. Ancora pochi secondi e si sarebbe aggiunto un elemento prezioso ai suoi ragazzi.
 
Solo che non stava firmando.
 
Librava la punta della penna a pochi millimetri dal foglio. Poteva vedere la sua mano tremare leggermente, gli occhi fissi su una delle prime linee in cui doveva siglare il tutto, il respiro rallentato.
 
“Sei emozionato?” Gli domandò con un sorriso. Era normale, in fin dei conti. Sapeva cosa significava poter entrare ufficialmente in una vera squadra, era un onore e un onere e si veniva sopraffatti da ogni cosa.
 
Sakusa alzò lo sguardo, la mano ancora ferma al di sopra del foglio. “No.” Gli rispose secco e quasi gli venne da ridere per la schiettezza sfacciata.
 
Il sorriso si congelò quando lo vide mettere giù la penna. “Cosa succede? Ci sono termini che vuoi riveder-”
 
Bloccò gli occhi con i suoi e la sua espressione divenne di granito. “Sto uscendo con Miya Atsumu.”
 
Oh. Foster batté le palpebre più volte. Oh.
 
“È una cosa piuttosto seria e non ho intenzione di dare problemi, a lui o a voi.” Prese un respiro leggermente tremante. “Soprattutto a lui.”
 
Beh, non poteva dire che era preparato a vederselo buttato così sulla sua scrivania lucidata da poco.
 
Doveva succedere. Atsumu gli aveva parlato riguardo le sue inclinazioni tempo fa ed era stato felice di informarlo che non doveva preoccuparsi di nulla, che lo avrebbero sostenuto in tutto e per tutto e che poteva vivere la sua vita come era più a suo agio. Non pensava di ritrovarsi il suo ragazzo pronto a spiattellare ogni cosa ad un passo dall’entrare nella squadra.
 
Li aveva visti giocare insieme.
 
Seriamente, Atsumu si credeva furbo ad organizzare appuntamenti nella palestra ufficiale dei Jackals senza pensare che fosse controllata a vista. In quella struttura non si muoveva foglia che lui, o meglio chi per lui, non decideva di approvare ed era a conoscenza di ogni crepa di intonaco da stuccare. Figurarsi se si lasciava scappare un ragazzino che decideva di pavoneggiarsi di fronte alla sua ovvia cotta. Perché li aveva, gli occhi.
 
Quindi sì, li aveva visti insieme. Li aveva visti anche insultarsi, se doveva essere sincero, prendersi in giro e sfidarsi con una naturalezza che sapeva di istinto e conoscenza.
 
Aveva sorriso. Se ne era andato dopo una decina di minuti, sentendo che era una situazione intima e che non avevano bisogno di un vecchio guardone che li controllasse, lasciandoli liberi di godersi quell’appuntamento senza troppe storie.
 
Quindi sì, doveva succedere.
 
Foster appoggiò la schiena aderente alla poltrona in pelle, inclinandola all’indietro e portando le mani unite, strofinandole piano tra loro. Prese un lungo respiro. “Non è mai un bene quando una coppia gioca insieme.” Iniziò, guardando quel ragazzetto da sotto le ciglia.
 
A suo merito, Sakusa non contrasse nemmeno un muscolo, quasi sfidandolo.
 
“Avevo un collega fidanzato con una manager. Finì male. La dinamica della squadra …” Scosse la testa, una smorfia amara sul viso. “Lui lasciò.”
 
“Non è la stessa cosa.”
 
“No, non lo è.” Versò un bicchiere d’acqua che gli offrì con un gesto. Sakusa sfiorò il bicchiere con lo sguardo e lo rifiutò con educazione. “Penso che due compagni di squadra coinvolti sia infinitamente peggio.” Sakusa strinse le labbra forte e continuò a guardarlo fisso, senza dire una parola. “O meglio.”
 
Riuscì a scomporlo un minimo e la prese coma una vittoria. Lo vide battere le palpebre. “Mi scusi?”
 
“Certo, dipende dalle situazioni. Dal feeling, dalla passione, e non mi riferisco a quella sotto le lenzuola.” Ridacchiò, vedendolo arrossire. “Ragazzo, vi ho visti spingervi a dare il meglio di voi. Ed eravate rivali. Anzi, siete ancora rivali, finché non firmi quel dannato foglio.”
 
“Come ha fatto …” Un lampo di realizzazione e socchiuse gli occhi con un sospiro. “Miya.” Sibilò quel nome come se fosse la maledizione di tutti i suoi mali e Samson ridacchiò, annuendo. “Ha sempre la convinzione di essere più furbo degli altri. E di saper mentire.”
 
 “Dovrebbe smetterla, ad oggi gli si è ritorto tutto contro.” Samson scoppiò a ridere, perché Sakusa in quel momento pareva così simile alla sua Ruth che sembrò di vederla a braccia conserte e con cipiglio arrabbiato davanti a lui. “Spero non abbiamo dato problemi, credevo avesse avvertito chi di dovere e …”
 
Foster agitò la mano con espressione serena. “Non preoccuparti, non è stato niente di che. Certo, difficilmente credevo che una palestra sudata fosse materia di appuntamento ma non si finisce mai di imparare.” Lo vide farsi ancora più rosa e portarsi il pugno alla fronte, guardando di lato.
 
“Non eravamo nemmeno insieme, in quel periodo.” Borbottò, addossandosi alla sedia come se volesse sparire. A quelle parole, le sopracciglia di Foster schizzarono in alto, quasi a sfiorare l’attaccatura dei capelli.
 
Quindi tutto quell’equilibrio tra loro, il comfort, la fiducia, era prima. Prima di qualunque cosa.
 
Sentì il cuore cominciare a battere seriamente, l’adrenalina risvegliarsi dal torpore. Non vedeva l’ora di scoprire cosa avrebbero avuto in serbo dopo.
 
Spinse il foglio verso Sakusa, incoraggiandolo con un sorriso. “Le regole sono uguali per tutti.” Lo informò, ottenendo la sua attenzione. Si era un po’ ripreso, anche se le orecchie scoperte erano ancora rosse. “Non si portano i problemi personali dentro la struttura. Palestra, campo, spogliatoio, distributori automatici. Varchi l’ingresso con un piede e gli unici problemi da affrontare sono quelli della squadra.”
 
Sakusa annuì deciso, la faccia completamente seria. “Va da sé che i rapporti personali non devono influire sulla dinamica del team, in nessuna maniera e con nessun collega. Le vostre diatribe private le risolvete fuori di qui, qua dentro esiste solo la squadra. E non mi riferisco solo alla vostra situazione.”
 
Sakusa si riappropriò della penna con una piccola smorfia, continuando a guardarlo. Foster si rilassò, riappoggiandosi allo schienale della poltrona reclinabile. “Siete liberi di dare pareri e consigli per quanto riguarda schemi, tattiche, spunti di qualsiasi tipo, giocate o qualsiasi cosa vi venga in mente. Verranno accettati senza problemi, verranno sicuramente presi in considerazione e approfonditi, ma l’ultima parola spetta a me.”
 
Prese il bicchiere d’acqua in mano nel momento in cui Sakusa tolse il tappo dalla penna. “Niente sesso prima delle partite.” Lo vide scoccargli un’occhiataccia e ridacchiò. “Chiedi a chiunque, questo punto è stato parte integrante di ogni colloquio.”
 
“Pensavo fosse la prassi.” Mormorò cominciando a firmare in ogni linea segnata, muovendosi sui fogli fluido e pulito.
 
“Credimi, è una cosa che scatena parecchie polemiche. Ho ricevuto diverse proteste.” Prese un sorso d’acqua, la fronte aggrottata. “Non creare casini inutile, ma penso di non doverlo nemmeno specificare. Ah, a tal proposito …” Si abbassò sullo scaffale in basso della sua scrivania, lo aprì con una chiave e prese un raccoglitore pieno che poggiò sul piano con un tonfo pesante. Sakusa lo guardò lateralmente ma non smise di firmare. “Questi sono i curricula di PR manager preapprovati. Sono copie, quindi puoi prenderli e studiarli con calma.”
 
“Non posso assumere nessuno, in questo momento.” Lo informò, tappando la penna e spingendo il contratto verso di lui.
 
“Non fai ancora ufficialmente parte della squadra, devi prima finire l’università e fare bella figura al campionato collegiale, quindi non posso darti uno stipendio e non puoi usufruire dello staff interno dei Jackals.” Gli porse il raccoglitore con un sorriso. “Li pagheremo noi fino alla tua entrata ufficiale. Dio solo sa cosa potrà succedere per tutto quel tempo.”
 
 



Note
 
Siete liberissimi di insultarmi e me lo merito. È stato un capitolo complicato da scrivere e non me lo aspettavo. In tutti questi mesi non l’ho abbandonato, è sempre stato parte integrante delle mie giornate, ma non ingranava e, a parte prenderlo a male parole, potevo fare veramente ben poco!
 
Volevo dare qualche informazione tecnica:
 
  • Jiaozi (Riff) e Nappa sono personaggi di Dragon Ball.
  • Ad Osaka c’è il Mercato Centrale del Pesce. È una delle zone gastronomiche raccomandate, insieme al Mercato Kuromon, anche se si consiglia di visitarlo dopo le quattro di mattina, quando ci sono le aste del tonno.
  • Atsumu e Osamu stavano cercando di preparare rispettivamente Kitsune Udon e Ramen. Ho studiato le ricette in modo maniacale per capire come farli muovere senza farli passare per due Cooking Mama robotici, fatemi sapere se ci sono riuscita!
  • Karch Kiraly, Lorenzo Bernardi, Gilberto de Godoy (detto Giba) e Matey Kaziyski sono i migliori pallavolisti della storia. È stato interessantissimo leggere di loro.
  • La sorellina di Komori, Maki-chan, in questo capitolo ha 18 anni. Sì, il tempo passa per tutti ma i fratelli iperprotettivi e amici annessi non lo vogliono capire, quindi il suo interesse per Washio è legale (e dannatamente comprensibile, lo avete visto?), benché facciano tutti battute discutibili.
 
Che dire? Vi ringrazio tantissimo per la fiducia dimostrata, mi avete fatta sentire apprezzata in più di un modo per tutte le mie storie e lo so che lo dico sempre, sono una piagnucolona ripetitiva ma è la verità!
 
Grazie mille per essere passati!

 

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Capitolo 5
*** Anno 4 ***


Anno 4

Sakusa stava avendo problemi a capire con esattezza la totalità della situazione in cui si trovava.
 
Aveva la disagevole impressione di essere inciampato in uno di quegli episodi da sit-com in cui tutti si impegnavano a fare gli stupidi, ci riuscivano perfettamente e il tutto era condito da risate fintissime odiose, perché alla fin fine la battuta non era poi così divertente da scatenare effettivamente quelle vere.
 
Non gli erano mai piaciuti quei programmi. Li vedeva, era costretto. Sembrava che, a volte, in televisione ci fossero solo quelli.
 
Per sua sfortuna, aveva questo comportamento maniacale che lo spingeva a terminare ogni serie che cominciava anche per sbaglio, creando non pochi problemi alla sua psiche quando non erano ancora concluse o, peggio, non venivano direttamente rinnovate. Era orribile dover far fronte a quella consapevolezza e, proprio per questo, preferiva qualcosa che lo coinvolgesse in altra maniera.
 
I drama coreani, ad esempio. O quelli americani. Reality. Programmi che sarebbero andati avanti per secoli o che avevano un termine preciso. Fulgidi esempi di società andata in malora.
 
Era appagante finire una puntata e sentirsi a posto con sé stesso pensando che, se c’era gente che nel mondo si comportava in modo così sopra le righe ed aveva il coraggio di ritenerlo accettabile, allora, tutto sommato, la sua personalità all’antrace non era proprio da buttare nel secchio.
 
Lo rimetteva a suo agio con tutto. Si sentiva anche più caritatevole verso il prossimo, concedendo al suo vicino di banco della lezione del lunedì all’alba, ad esempio, di continuare a toccargli insistentemente la gamba della sedia. Non lo faceva apposta, ne era consapevole, ma se avesse trovato il modo di rimanere fermo al suo posto per più di quattro secondi forse Sakusa avrebbe smesso di fantasticare di infilzargli la coscia con la sua matita appuntita per l’occasione.
 
Tuttavia, i problemi di cui parlava erano più vicini di un estraneo iperattivo dell’università.
 
C’era un centrale di Tokyo che gli mandava meme ininterrottamente, non riuscendo a capire quando fermarsi. O non importandogli, probabilmente. Ovviava alla sua richiesta di smetterla chiedendo se a Motoya piacessero i lacci di liquirizia e se, in caso, avrebbe reagito bene ad una confezione extra lusso di sushi assortiti del loro ristorante preferito. Informandosi inoltre, in modo assiduo ed oppressivo, su come far smettere suo cugino di passare da un fiore all’altro e prendere, invece, lui e la sua degna metà (o un terzo, in questo caso?) in considerazione. O, almeno, di dargli il ben servito finale.
 
Poteva sembrare poca cosa. In fin dei conti poteva ignorarlo, silenziare il suo numero, inserire nello spam. Lo faceva, in situazioni particolari.
 
Ma il suo datore di lavoro aveva caricato il colpo. E lui non poteva eliminarlo dalla sua vita multimediale e cibernetica, sfortunatamente.
 
Osamu lo guardava con sospetto da mesi, lo chiamava traditore (aveva dedotto che non fosse il vincitore della famosa scommessa) e cercava di carpire informazioni su suo cugino. Non in modo delicato.
 
Sakusa aveva imparato che, quando Osamu cominciava ad aggrottare le sopracciglia fissandolo da sotto le sue palpebre pesanti, stava per arrivare una domanda che non gli avrebbe fatto piacere. Anche perché la gente era sicura fosse Atsumu quello senza filtri tra i due, ma mentre il suo ragazzo semplicemente non pensava e dava aria alla bocca, Osamu aveva l’aggravante di riflettere, prima di dire alcunché. Per lui era infinitamente peggio.
 
Quindi, a parte evitarlo come un appestato dopo avergli chiesto con aria profondamente seria “Motoya ha mai pensato al sesso a tre?” ed aver continuato, dopo un suo verso indignato e sofferente, “Sakusa-kun, è una cosa seria. Può spaventare.” in una sorta di momento cuore a cuore che Sakusa non aveva neanche subodorato, non poteva fare più di tanto.
 
Era un suo dipendente. Lo pagava. Lo pretendeva durante i colloqui, perché, a detta sua, se i candidati non fossero scappati a gambe levate per la sua aura negativa e la faccia da serial killer, avrebbero resistito a qualunque altra cosa.
 
In effetti la nuova arrivata, Kaneko Hoshi-san, una cosina piccola e graziosa come il suo nome ma cattiva peggio di un tasso del miele, era stata assunta immediatamente dopo averli scrutati da sotto la sua frangia troppo lunga e aver chiesto con tono scocciato “Dovrei essere colpita?”. Sakusa non si era nemmeno scomposto, riconoscendo all’istante un’anima nera affine, ma Inoue-san aveva squittito, terrorizzato di avere a che fare con un’altra malata di mente.
 
Fortunatamente cucinava da Dio ed era pulita quasi quanto Sakusa stesso, almeno in cucina, quindi Osamu se ne era fregato altamente delle loro impressioni ed aveva salutato la nuova arrivata nella famiglia Onigiri Miya con un sorriso malandrino che da solo preannunciava guai.
 
E, infine, c’era Motoya.
 
Il suo amatissimo cugino aveva deciso, con molta generosità non richiesta, di rendere la vita di tutti un inferno. Compresa la sua.
 
Voleva bene a Motoya, davvero. C’era sempre stato per lui, era Motoya che lo aveva portato per la prima volta a vedere la pallavolo, aveva sempre sopportato le sue idiosincrasie senza battere ciglio. Ma c’era un limite a tutto.
 
Perché, almeno, le sue crisi (quando ancora erano lontane dall’essere tenute sotto controllo) non erano volute, assolutamente. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per farle sparire del tutto. Invece aveva sotto gli occhi suo cugino che cercava di complicarsi l’esistenza come se fosse il suo scopo nel mondo, spezzando cuori e frantumando altro.
 
Davvero, lui non voleva trovarsi in situazioni del genere. Aveva passato anni ad affinare il suo atteggiamento da misantropo, rendendo chiaro sin da subito che non aveva alcun bisogno di interazione sociale per vivere, nella maniera più assoluta. La sua vita era basata sull’evitare di parlare con le persone, in primis per non essere coinvolto nei loro problemi: ne aveva già tanti di suoi, non gli interessavano le paturnie altrui.
 
Ma aveva fatto l’errore di entrare in un locale di cui non si capiva la natura anni prima, si era fatto coinvolgere dal personale e si era messo con il fratello del suo capo, sua privata fonte di mal di testa da competizione.
 
Forse, a conti fatti, era quest’ultimo fatto ad essere il chiodo della sua bara.
 
Perché Atsumu era un problema a sé stante.
 
Scoccò un’occhiata malevola al soggetto dei suoi pensieri più neri, che stava bevendo una brodaglia di proteine, che lui insisteva sapesse di cioccolato, seduto sul divano, cercando di indovinare le risposte di un gioco a quiz in televisione.
 
Forse era davvero lui la causa di tutti i suoi mali, ragionò con sguardo stretto.
 
Se non si fosse messo in mezzo, avrebbe mantenuto il suo distacco naturale e non ci sarebbero state complicazioni.
 
Sarebbe andato a letto senza bloccare il numero di Suna, perché era spaventosamente attivo di notte e Sakusa aveva bisogno del suo sonno di bellezza, altrimenti avrebbe passato una giornata da schifo e avrebbe fatto piangere tanta gente. Avrebbe passato le sue serate senza sentire il tono falsamente allegro di Motoya, con l’occasionale voce maschile o femminile che era riuscito ad avvicinare in chissà quale pub da sfigati frequentasse in quel periodo, cercando di convincerlo che si stava divertendo, ovviamente senza successo. Avrebbe avuto tempo privato per sé stesso senza ascoltare promesse sussurrate e sconcezze ansimanti da una voce calda e da brividi.
 
Quest’ultimo pensiero lo fece rinsavire un attimo dal suo ragionamento scuro, facendogli sbattere le palpebre. No, si disse velocemente, quello gli piaceva.
 
Tuttavia poteva trovarlo altrove, decise ricominciando a guardare male Atsumu. Ovunque. Da qualsiasi parte.
 
Ed era stato un pensiero che aveva sfiorato la sua mente parecchie volte, in quel periodo.
 
Perché Atsumu era convinto che lo avrebbe mollato da un momento all’altro, certo che avesse accettato di far parte di una squadra chilometri lontana da Osaka. Non aveva preso nemmeno in considerazione l’idea di un rapporto a distanza, non lo accettava ed era convinto sarebbe diventato matto a fare la vita di Osamu.
 
Non aveva preso in considerazione neanche che, quando Sakusa lo informò di aver firmato per i Black Jackals con uno sguardo tenero e un raro sorriso sulle labbra, fosse la verità. No, lui era ancora convinto che fosse uno scherzo complicato partorito da chissà quale genio del male.
 
“Non ci credo finché non ti vedo nella palestra e non vieni presentato alla squadra, Omi.” Aveva detto con tono profondamente offeso. “I vostri scherzi del cazzo non funzionano con me.”
 
Il sorriso di Sakusa si era spento, lasciando al suo posto una smorfia arrabbiata che lo portò a mandarlo a cagare e a tornarsene al campus, sperando di trovare la palestra libera da gentaglia o, almeno, un angolo sperduto e isolato, quanto bastava per sfogarsi con schiacciate ad effetto finché non gli fosse passata la voglia di distruggere a sberle la faccia del suo ragazzo.
 
Aveva cercato di convincerlo ad aiutarlo a cercare un appartamento decente con un affitto nelle sue corde e si era sentito dire “Non posso prendere giorni per andarmene chissà dove chissà per quanto tempo. E poi, davvero, è cattivo anche per te chiedermi una cosa del genere.” Aveva messo su un muso tristissimo e aveva preso le sue bacchette. “Sarebbe come vederti andare via.”
 
Ascoltare quelle parole avrebbero dovuto riempirlo di tenerezza come solo lui a volte riusciva a fare, allargandogli il cuore di tre taglie come un Grinch moderno e meno verde, se solo non fossero fuori dal fottuto mondo.
 
Solo i suoi respiri zen lo aiutarono ad evitare di afferrargli la nuca e spingere la sua faccia da schiaffi nella soba con cui stava pranzando, tenendolo fermo fino a che non fosse affogato nel brodo salato e condito di cipollotti. L’immagine inquietante e stranamente appagante insieme dei germogli di soia che vagavano nei suoi polmoni, valeva da sola la repressione che si imponeva con così tanto impegno.
 
Adesso si ritrovava in casa di Atsumu e Osamu per compiere un ulteriore passo. L’ultimo.
 
Vide Atsumu prendere un lungo sorso del suo frullato proteico, scorgendolo a fissarlo insistentemente con la coda dell’occhio. Lo vide battere un paio di volte le palpebre, girarsi verso di lui e sorridergli.
 
“Tutto ok?” Domandò con una dolcezza che veniva fuori poche volte, forse le più importanti. I denti bianchi luminosi appena visibili tra le labbra un po’ socchiuse, quegli occhi bruni rischiarati da gocce dorate calde e dense, la mite abbronzatura della sua pelle, affascinante e accattivante, alterata dai colori chiari della televisione. “Ne vuoi un po’?” Porse lo shaker verso di lui, dondolandolo tra le dita, invitandolo a prenderne un sorso.
 
Sakusa prese un lungo respiro. Perché doveva essere così? Tenero e amorevole un secondo e completamente deficiente quello dopo? Perché doveva esserne così innamorato, dannazione?
 
e, cosa più importante, quando era diventato così patetico?
 
Scosse la testa e lo vide terminare la sua merenda, poggiando lo shaker sul tavolino davanti, lo sguardo di nuovo puntato sulla televisione.
 
Era il momento.
 
Sakusa portò la sua mano nella tasca della felpa e chiuse le dita sul suo futuro. Era freddo, duro, simbolico. Poteva avvertire l’odore metallico da lì e non era sicuro fosse solo una risposta inconscia del suo cervello.
 
Prese un altro respiro e lo sguardo si fece deciso. “Devo darti una cosa.” Mormorò piano, ottenendo immediatamente l’attenzione di Atsumu. Si girò con espressione candida, lo sguardo limpido e Sakusa sapeva già che sarebbe andato tutto a puttane. Andò avanti comunque. “Pensa bene a quello che dirai.”
 
“Mi stai spaventando.” Lo informò sbarrando gli occhi. Prese il telecomando e abbassò il volume quasi del tutto, senza spegnere, e si concentrò di nuovo su di lui. “È successo qualcosa?”  
 
“No.” Sakusa espirò lentamente e tirò fuori dalla tasca qualcosa di tintinnante. Lo teneva tra le dita, stringendolo tanto da non poter scorgere immediatamente di cosa si trattasse, come se non volesse farlo vedere. “Si tratta di queste.”
 
Allentò la presa ed Atsumu riuscì a vedere un mazzo di chiavi, brillante di acciaio lucidato, nuovo, non ancora ossidato. Si irrigidì senza volerlo.
 
Era piccolo, un paio di chiavi in tutto, abbellito da due portachiavi troppo sdolcinati per il suo bene. Atsumu non riusciva a distogliere lo sguardo da loro. “Cosa sono?” Domandò ottusamente improvvisamente teso, come se non si fidasse dei suoi occhi e lo volesse sapere direttamente dalla fonte.
 
Sakusa venne assalito dall’istinto di lanciargli il mazzo in faccia, ma un lento sospiro lo aiutò a soffocare quell’impulso violento che, a volte,  sembrava riuscisse a scatenare soltanto lui.
 
“Sono le chiavi del mio appartamento.” Vide Atsumu guardare tra lui e la sua mano con gli occhi scattanti, un po’ più pallido in faccia. Avrebbe davvero voluto non reagisse così. “Vorrei che le tenessi.”
 
“Perché?” La sua voce era un po’ aggressiva, adesso, le labbra tirate e i canini leggermente in mostra. Si sentiva messo all’angolo e Sakusa si costrinse a non pensare che fosse per un rifiuto personale. “Così ti annaffio le piante ovunque hai deciso di trasferirti?” C’era scherno nella sua voce, ma non riusciva a mascherare del tutto la rabbia delusa di fondo. Quella frase bastò per fargli capire che, a parlare, era solo la stupidità di Atsumu. “Quante ore di treno dovrei farmi per prenderti la posta?”
 
“Nessuna, cazzo!” Scattò finalmente Sakusa, alterato quanto lui. “Non so più come dirtelo, non me ne vado. Ho firmato con i Black Jackals da settimane, ormai, e da settimane cerco di convincerti che è tutto vero. Le vuoi queste chiavi, sì o no?”
 
“Dimostramelo.” Ringhiò Atsumu, sporgendosi verso di lui. Sakusa non lo accettò più.
 
“Non ti devo dimostrare proprio niente.” Armeggiò con il piccolo mazzo tra le sue mani, incespicando nell’anello che tratteneva i due portachiavi. Una volpe e una donnola, insieme. Non se li meritava, decise, scuotendo la testa e liberandoli dal gruppo, non si meritava proprio niente.
 
Li staccò, lanciandogli le chiavi sul grembo e dondolandogli i portachiavi davanti al naso. “Questi?” Glieli fece vedere bene, due piccoli animali di pezza che sorridevano senza motivo, lo sguardo vacuo e denso di cotone. Li strinse nel pugno così forte che le nocche sbiancarono. “Te li sei giocati.”
 
Atsumu batté le palpebre, prendendo morbidamente le chiavi ora nude. Sembrava sgonfiato dalla sua reazione, come se fosse lui quello ferito. “Cosa?” Domandò con un filo di voce.
 
“Eravamo io e te, ma a quanto pare sei un coglione.” Sakusa si alzò veloce, andando verso l’ingresso per mettersi le scarpe. Sentiva calore alle tempie, sentiva gli occhi pizzicare, sentiva i nervi tesi e sensibili e voleva solo spaccare qualcosa.
 
“Che fai?” Urlò Atsumu dal divano ed in quel momento poté scorgere la preoccupazione nel suo tono. Sakusa sentì le molle scricchiolare per i movimenti bruschi e si sbrigò a raggiungere la scarpiera. “Non abbiamo finito!”
 
“Non ho più niente da dirti finché non cambi quel cazzo di pensiero.” I lacci non volevano saperne di annodarsi, le mani tremavano troppo e le dita li tenevano goffamente, intrecciandoli male e lasciandoli scivolare dalla presa traballante. Sakusa li lasciò andare e strinse le mani in pugno, respirando profondamente per cercare di calmarsi. “Non è detto nemmeno che dopo voglia parlarti.” Riprese le stringhe e rapidamente le legò in un nodo mal fatto ma resistente.
 
“Andiamo Omi!” Sentì i suoi passi risuonare dietro di lui, talloni sul pavimento pesanti e veloci, di fretta. Sakusa si alzò rapido e afferrò la sciarpa. “Parliamone a cena, ci sono gli onigiri che ti piacciono.”
 
“Strozzatici.” Sibilò Sakusa, la voce acrimoniosa soffocata da strati di lana spessa. Afferrò il cappotto e lo infilò con movimenti secchi, senza preoccuparsi di chiuderlo.
 
Vide con la coda dell’occhio Atsumu guardarlo, le spalle cadenti e sconfitte, la tristezza chiaramente visibile negli occhi. “Dove stai andando?” Mormorò a voce bassa, ma arrivò alle sue orecchie chiaro e forte.
 
Non si girò, stavolta. Non voleva. Non avrebbe ceduto a quella faccia, non lo avrebbe accontentato. Quella situazione era andata anche troppo per le lunghe.
 
“A casa mia.” Ringhiò e uscì, sbattendo la porta d’entrata con molta più forza del necessario.
 
 
*
 
 
Sapeva che qualcosa non andava nel momento in cui entrò dentro casa, sorriso a trentadue denti che si congelò immediatamente e la valigia piena di cibo che rischiava di lussargli la spalla ad ogni passo.
 
C’era un’elettricità nell’aria che aleggiava debole e invadente in ogni angolo, sottotono ma presente, come se volesse infiltrarsi tranquillamente sotto la sua pelle, morbida e infida, cercando di non fargli alzare la guardia. Sembrava coccolare la sua figura e strisciare dentro i suoi polmoni, zucchero e veleno al tempo stesso e i suoi sensi scattarono neanche fosse sotto attacco.
 
A conti fatti, ripensandoci bene, forse non aveva tutti i torti.
 
“Ciao?” Salutò con tono cauto, guardando Rin appoggiato al muro a braccia conserte, serio come la morte e una scintilla dura nel suo sguardo. Samu era sdraiato sul divano con le gambe accavallate, le palpebre pesanti calate su quegli occhi che lo scrutavano come se volessero leggere ogni suo movimento.
 
Motoya batté le palpebre stranito, lasciando il trolley in mezzo all’ingresso e togliendosi la sciarpa velocemente, non capendo il perché di quello stato d’animo teso. Forse avevano litigato, pensò confuso. Tentò di allentare la situazione. “Ho rifornito il frigo, mamma ci ha mandato un sacco di roba.”
 
Niente. Nessun gemito incuriosito di Osamu o un lamento amorevole di Suna, nulla. Si tolse il cappotto con un rapido lavoro di spalle e ci riprovò. “Ora, non assicuro che sarà roba da ristorante a cinque stelle e avverto che mamma è un po’ troppo fantasiosa, ma sono cresciuto benissimo nonostante tutto.”
 
“Possiamo vederlo.” Mormorò Suna con quel tono ammiccante e appena lascivo che aveva imparato a sopportare quei mesi, che strisciava su per la spina dorsale e in cui cercava di non leggerci mai troppo. Osamu non rispose, limitandosi ad alzare un angolo di bocca in un sogghigno compiaciuto, le gambe che dondolavano leggermente e gli occhi che vagavano lenti sulla sua figura, centimetro dopo centimetro senza saltare un solo pezzo.
 
No, non avevano litigato, comprese. Lo stavano aspettando.
 
Motoya si sentì in trappola come un canarino lasciato in pasto a due gatti grassi, sempre affamati ma abituati a giocare con il cibo. Certo, se il canarino era più vicino a una donnola fluida e furba e i gattoni a due volpi tenaci e calcolatrici.
 
Non era la prima volta che veniva accerchiato in quel modo. Ultimamente succedeva sempre più spesso, lasciandolo ogni volta un minimo destabilizzato e vagamente eccitato.
 
Perché gli piaceva, cavolo, chi voleva prendere in giro?
 
Erano entrambi belli, prestanti, divertenti da morire e palesemente interessati a lui, non era cieco. Lo poteva ammettere tranquillamente nella privacy della sua testa, ma solo ed esclusivamente lì. Perché non capiva cosa volessero da lui ed i pensieri che stavano prendendo strada nella sua mente, in quel periodo, non erano molto in linea con quello che sentiva verso di loro.  
 
Agganciò il soprabito e afferrò il manico del trolley, girandosi per portare la valigia in cucina scoccando ai due un sorriso luminoso e un’alzata di sopracciglia ammiccante.
 
Successe tutto in un attimo.
 
Osamu si alzò e Suna si mosse, entrambi a posizionarsi da un lato del divano e spingerlo con tutta forza verso la porta d’entrata, sistemandolo longitudinalmente per occupare tutto l’ingresso.
 
Motoya si bloccò a metà strada per guardare quello spreco di energie, non capendo a cosa servisse una cosa del genere. Una piccola scintilla di panico gli invase i polmoni, a tradimento.
 
“Ok, che state facendo?” Domandò piano, vedendo Osamu sedersi sul divano, stavolta in modo quasi composto, e Suna salire sui cuscini con i piedi per posizionarsi con il sedere sullo schienale. Non risposero, limitandosi a sistemarsi meglio.
 
Motoya sbuffò. “Rin, hai di nuovo letto quella roba sul Feng Shui? Perché te l’ho già detto, abbiamo l’ingresso rivolto a nord, siamo fottuti a prescindere.”
 
“Potremmo comunque mettere delle vetra-” Osamu si girò a guardare divertito Suna, che si bloccò e scosse la testa. “Lascia perdere, non è questo.”
 
“Uh?” Mormorò Motoya, mentre Osamu chiedeva “Feng Shui?” ridacchiando a spese di Rintarou.
 
“Il Feng Shui è un’arte troppo sottile perché voi possiate capirla.” Brontolò in direzione di Osamu, che rise solo più forte. “Basterebbe comprare delle lampade al sale.”
 
“La piantana di tua madre ha fatto una fine orribile, non prenderei di nuovo roba che si rompe con lo sguardo.” Sorrise Komori aprendo il trolley. Dopodiché, visto che non erano intenzionati a muoversi nel breve periodo, si vide costretto a sottolineare l’ovvio. “Il divano messo così blocca il passaggio.” Li informò quasi sovrappensiero, cercando di decidere come svuotare il tutto.
 
“Appunto.” La voce di Osamu fece morire qualunque commento salace sulla punta della lingua di Motoya, che alzò la testa dalla valigia per guardarli con occhi enormi.
 
Aveva appena detto … ?
 
“In che senso?” Cinguettò, cominciando ad avvertire una bruttissima sensazione. Prese un contenitore arancione e lo poggiò sul piano da lavoro, cercando di controllare le vibrazioni nel suo respiro. Ridacchiò, ma era più agitato del solito e lo avvertì alle sue stesse orecchie. “Ragazzi, mi state spaventando.”
 
“Penso sia arrivato il momento di fare due chiacchiere.” Suna scese dal divano e si avvicinò a lui. Era fluido, lento, pronto a scattare se ci fosse stato il bisogno. Un animale in azione.
 
Motoya sentì il sangue cominciare a freddarsi nelle vene.
 
Controllò dietro di lui e vide la porta che portava alla zona notte, verso la sua camera, completamente priva di ostacoli. Strinse le labbra, cercando di capire come muoversi. “È chiusa.” Lo avvertì Osamu con occhi pigri, portando il piede sotto l’altra gamba. “Dovrai ascoltarci, stavolta.”
 
“Non mi sembra molto equo.” Si limitò a dire Motoya inclinando la testa. Suna si bloccò a pochi passi da lui, avvertendo il cambiamento di tono. “Porto da mangiare e mi ritrovo in un’imboscata.”
 
“E di chi è la colpa?” Osamu sembrava che avesse l’intenzione di risolvere qualcosa e Motoya si girò a guardarlo con occhi freddi. “Ci è sembrato l’unico modo per riuscire a farti stare fermo abbastanza da ascoltare.”
 
“Toya, mettiti seduto.” Rin allungò un braccio verso di lui e Motoya vide le sue stesse dita tremare leggermente. Le strinse nel pugno così forte che sentì le unghie perforargli la pelle. Bastò per dargli una scossa.
 
“Non sono interessato.”
 
Suna sbuffò, una risata amara, derisoria.
 
Motoya inspirò. “Sono serio. Non mi prendo la responsabilità di una vostra rottura.” La voce uscì dura, ferma, granitica come non l’avevano mai sentita. Vide Osamu allargare le palpebre e aprire leggermente le labbra. Suna ritrasse la mano, le guance un filo più pallide. “Toya, no.”
 
“Non lo faccio, Rin, non mi metto in mezzo a una coppia come la vostra.” Fece un passo indietro e sbatté contro il piano da lavoro. Sentì la maniglia del cassetto perforargli la schiena al livello dei reni, ma era talmente agitato che a malapena se ne accorse. “Siete perfetti, cazzo, che cosa cercate da me?”
 
“Non lo immagini?” Si girò verso Osamu. Aveva la bocca scoperta in una smorfia e Motoya in quel momento, in quel momento, vide la vera somiglianza tra i due fratelli Miya. Nessun aspetto esteriore, nessuna cazzata di facciata, quelli erano solo elementi fuorvianti. “Non sei stupido, l’hai detto. Non vogliamo lasciarci.”
 
 “Volete sesso? È questo?” Komori ridacchiò amaro e non vide lo sguardo di Osamu e Rin scurirsi per la provocazione. “Possiamo risolverla senza rovinare niente. Andiamo in camera e vi togliete la fantasi-”
 
Cosa cazzo stai dicendo?” Sibilò Suna livido, facendo un passo avanti. La sua voce era gelida e Motoya si ritrasse inconsciamente ancora di più, quasi avvertendola fisica sulla sua pelle, la maniglia che entrava ancora di più nella schiena. “Toya, siamo compagni di squadra. Siamo colleghi e coinquilini, secondo te metterei nella merda tutto per una cazzo di scopata?”
 
“Potevamo avvicinare qualcuno in qualche locale.” Osamu scosse la testa evitando di guardarlo e Motoya si sentì uno schifo. “Funziona bene per te.”
 
“Questo non te lo permetto.” Lo avvertì gelido. Non aveva il diritto di dire cose del genere. Non era nella sua posizione, non sapeva cosa significava vedere i loro sguardi feriti ogni volta che usciva di casa, ogni volta che si presentava con un profumo estraneo addosso senza aver combinato nulla oltre un bacio perché non se la sentiva, perché sapeva che un reale passo in più avrebbe distrutto qualunque cosa potesse succedere con loro.
 
Anche se diceva che non voleva, anche se lo urlava davanti le loro facce deluse, non era mai riuscito ad andare avanti. Gli faceva male, era doloroso da morire, ma era bello affondare in quelle sensazione, proiettarsi dentro qualcosa che non poteva esistere, immaginarsi situazioni e vivere di nulla. Era stranamente piacevole e non riusciva ad avere abbastanza coraggio per vederlo disintegrarsi davanti i suoi occhi.
 
Il suo inconscio, fino a quel momento, aveva solamente lavorato contro di lui. Appagato dai loro sguardi e dalle loro attenzioni, lo faceva agire come se potesse succedere veramente.
 
Lo faceva sognare. Lo faceva sperare.
 
Lo distruggeva.
 
“Dacci una possibilità.” Sussurrò Suna, la guancia leggermente incavata per essere presa tra i denti, un’azione che faceva quando era particolarmente nervoso. “O, se non vuoi, almeno dicci perché.”
 
“Se pensi sia una cosa di solo sesso, vuol dire che non hai mai capito niente.” Osamu si avvicinò a Rintarou, il passo lento ma molto diverso da quello del suo ragazzo. Più aggressivo, più pesante.
 
“Cosa avrei dovuto capire?”
 
“Che siamo interessati a te. Come persona. Come parte di una relazione.”
 
Motoya scosse la testa, un sorriso amaro sulle labbra. “C’era bisogno di chiudermi in una stanza?”
 
“Beh, sì.” Motoya vide Suna alzare le spalle e guardare Osamu lateralmente. “Non ci hai reso la situazione facile.”
 
“Perché state facendo una stronzata.”
 
Osamu fece un sospiro stanco. “Questo, se permetti, lo decidiamo noi.” Disse con voce pesante. Motoya aprì la bocca ma lo bloccò. “Pensi davvero che sia stato facile? Sai, almeno, quanto siamo stati terrorizzati?”
 
“Samu …”
 
“No, Rin, deve capire. Perché se non lo fa ora andrà veramente tutto una merda.” Si girò verso Motoya con un’espressione d’acciaio e Motoya si ritrovò paralizzato al bancone della cucina, la schiena perforata e tutta la sua spinta aggressiva scivolata via dal suo corpo. “Ci sta che tu sia spaventato. Ci sta anche che tu non voglia. Ma non provare a dire che abbiamo preso una decisione alla leggera.”
 
“Non volevo dire …”
 
“L’hai fatto, però.” Stavolta fu Suna a parlare e Motoya girò gli occhi verso di lui, la testa ancora puntata verso Osamu. “Sono state settimane e mesi difficili. Ma proviamo qualcosa per te e vorremmo farti capire che non è un esperimento strano.”
 
Fece un sorriso storto, avvicinandosi ad Osamu e battendo la spalla con lui. “Sei importante per noi. Davvero davvero importante. E vorremmo uscire con te.”
 
Motoya era ancora fermo, immobile. Sentiva i polmoni come vuoti, l’aria appena rarefatta e non capiva bene cosa stava succedendo.
 
State sbagliando, pensò, ma la voce nella sua testa non era piena di panico come aveva pensato. Era calma, rilassata. Forse anche lei stava cercando di convincerlo diversamente, stanca quanto il suo inconscio. Forse erano la stessa entità.
 
Uscire con loro avrebbe significato un sacco di cose. Le aveva pensate, ovviamente, aveva passate giorni interi a pensarle. Immaginando qualcosa di privato ed impossibile, qualcosa che poteva esistere solo nella sua mente. Ed erano fantasie stupende.
 
Ma voleva dire anche segreti. Omissioni. Scelte di vita che avrebbero potuto significare distruzione totale per tutto: lavoro, carriera, amicizie. Amore stesso.
 
Pensò all’anello nel suo armadio, quel simbolo che significava tutto per Rin e di cui ancora Osamu non conosceva l’esistenza. Ricordava ancora quel pomeriggio, gli occhi di Rintarou lucidi ma ostinati, rabbia svanita davanti la possibilità di una vita con il proprio amore.  
 
Si chiese se fosse giusto. Si chiese se non fosse egoista, se stava vedendo davvero tutto sbagliato come diceva Kiyoomi o era quello con lo sguardo più limpido tra tutti.
 
Chiuse le palpebre e prese un respiro profondo. Rilassò le spalle e allontanò di poco il corpo dal piano di lavoro, facendo un passo verso di loro.
 
Li guardò. Aveva paura ma al tempo stesso provava una calma anormale che gli riempiva le vene e rallentava il suo battito. Vide Suna prendere la mano di Osamu e stringerla, vide la guancia di Osamu guizzare leggermente, vide la loro ansia e le loro aspettative.
 
Aprì la bocca e, forse, disse le ultime parole che stavano aspettando.
 
“Datemi tempo per pensare.”
 
 
*
 
 
Iizuna Tsukasa era una dannata macchina.
 
Quel bastardo non aveva ceduto di un millimetro, inserendosi sempre nel punto più preciso per l’azione ed in perfetta posizione, dando sfoggio di alzate talmente pulite e precise che ad Atsumu era quasi venuta l’orticaria.
 
Dopo averlo guardato come se avesse appeso le stelle nel cielo, ma questo non lo doveva sapere nessuno.
 
Non aveva neanche reagito ai suoi innocenti tentativi di conversazione sotto rete e sì, quello se lo aspettava. Sapeva che parlava regolarmente con Omi e Komo-kun, a volte anche contemporaneamente, ed aveva avuto la sfortuna di partecipare ad una conversazione con loro: il ragazzo aveva una pazienza inumana.  
 
Vedere l’ex squadra di Itachiyama incontrarsi via Skype aveva distrutto tutte le sue convinzioni sulla loro alterigia e natura robotica che lo aveva portato a non sopportarli alle superiori. Se non fosse che, dopo attente, meticolose e profonde sessioni di studio del corpo di Omi, sapesse perfettamente che l’unica cosa anormale nel suo ragazzo era la sua reazione pericolosa, isterica e dannatamente esagerata a qualsiasi tipo di insetto e un innamoramento immediato per ogni specie di cane esistente nonostante il loro aspetto (perché Samu aveva ragione, Toya-chan sembrava essersi schiantato addosso a un muro senza più riprendersi, era inutile che Omi continuasse ad affermare con cieca sicurezza che fosse il cucciolo più bello del mondo), sarebbe rimasto irrimediabilmente scioccato e deluso.
 
Iizuna aveva resistito ad ogni sua provocazione e, anzi, gli aveva fatto intendere di darsi da fare di più, se voleva davvero vederlo agitato.
 
Lo rispettava. Soprattutto perché aveva provato per lui una cieca antipatia fino a poco tempo prima, stupidamente.
 
Aveva pensato seriamente che il suo Omi potesse scegliere Iizuna. Era stato il suo ex capitano, in fondo, si conoscevano dentro e fuori dal campo in un modo che Atsumu poteva solo sognare, erano consapevoli delle forze e dei punti deboli dell’altro e sapevano come sfruttarli in modo completo e sempre vincente.
 
Il loro lavoro, alla fine, era una competizione continua e lui e Omi avevano messo in chiaro sin dall’inizio che il primo posto nel loro cuore sarebbe stato solo della pallavolo, mirando a puntare solamente sui propri obiettivi.
 
Parole a vuoto.
 
Perché Omi si era appropriato del punto di alto del suo podio emotivo con una facilità pazzesca. Ed era stato naturale vederlo spodestare la pallavolo con il suo solo essere sé stesso, concedendole comunque di essere così vicina da fargli pensare che, forse, fossero un’unica entità.
 
Omi e la pallavolo. La pallavolo e Omi. A volte non sapeva dove cominciava l’uno e finiva l’altra.
 
Vedere Iizuna dall’altra parte della rete gli ricordò il viso pieno di delusione del suo ragazzo quella sera di qualche settimana prima, la tristezza e la rabbia insieme nel suo sguardo solitamente calmo.
 
Le chiavi erano sul suo comodino, a ricordargli, ogni mattina quando si svegliava in un letto vuoto ed ogni sera quando andava a dormire con il pensiero di lui in testa, la cazzata che aveva fatto.
 
Omi aveva scelto lui. E Atsumu aveva mandato tutto a puttane.
 
Sapeva di aver detto cose orribili, ma in quel momento le pensava veramente.
 
Una relazione a distanza era impensabile. Vedeva Osamu esaurirsi ogni giorno per quella lontananza dovuta alle loro vite, più che ai chilometri. Perché Sunarin aveva ragione: due ore di Shinkansen non erano un sacrificio così grande, ma dovevano fare i conti con gli orari differenti, gli impegni, le priorità lavorative. Erano quelle le cose che portavano a distruggere una relazione.
 
Osamu aveva sofferto come un cane, ma era stato d’acciaio. Lo era ancora, a cercare di combattere un mostro invisibile per avvicinarsi in ogni maniera al suo amore.
 
Ed ora avevano anche il pensiero di Komo-kun. Perché sì, se ne era accorto, non era cieco. E non era sordo, Samu aspettava sempre che fosse impegnato per poter alzare l’argomento con Suna, ma a volte era capitato fuori dalla sua stanza per avvertirlo della cena e, beh, era successo.
 
Secondo il suo modesto parere, Samu e Sunarin dovevano solo ricordarsi di essere fottute volpi. E che erano i predatori naturali di quelle donnole scivolose e troppo carine per il loro bene. Dovevano darsi una svegliata, mettere Komo-kun all’angolo e azzannarlo finché ancora non riusciva a fiutare il pericolo.
 
Ma Samu era sempre stato il più forte tra i due, malgrado quello che faceva vedere.
 
Aveva preso in mano la sua vita, scegliendo di allontanarsi da ciò che conosceva, dalla strada già battuta. Si era dato da fare ed aveva sfondato pregiudizi e critiche, facendosi valere in più di un modo. Era un grande, aveva un ragazzo che stravedeva per lui ed era riuscito a mantenere quella relazione perfetta come agli inizi. I momenti di sconforto erano stati solo uno spunto per rialzarsi e puntare ancora più in alto.
 
Lui non avrebbe resistito. Il solo pensiero di Omi in un’altra città, quando avevano passato così poco tempo insieme, lo distruggeva. E non era solo il fattore di non poterlo nemmeno toccare o respirare la sua stessa aria sanificata con le sue diavolerie, ma la situazione in cui il suo egoismo lo avrebbe inevitabilmente costretto.
 
Omi doveva volare, ovunque fosse andato, senza alcun tipo di condizionamento. Men che meno un ragazzo fisso in un’altra città. Tagliare le corde della loro relazione era il solo modo che vedeva per non farlo sentire legato, per consentirgli di muoversi senza vincoli e renderlo libero di scegliere, proprio come aveva fatto lui anni prima, secondo la propria volontà.
 
Ma era del tutto inutile rimuginarci su: era uno smidollato innamorato quando si trattava di Omi.
 
Sapeva che non avrebbe mai potuto dividersi da lui, non di sua iniziativa. Non sarebbe mai riuscito a far uscire fuori quelle parole, ci si sarebbe strozzato. Buttare all’aria quella cosa così bella tra di loro, giocarsi l’ultima possibilità per stargli accanto, seppur a chilometri di distanza, no, non avrebbe avuto le palle per farlo.
 
Avrebbe aspettato che Omi facesse la sua mossa e si stufasse di sopportarlo, conscio che una situazione del genere fosse difficile, drenante e frustrante.
 
Era stato un grandissimo coglione a pensare che il sentimento fosse a senso unico. Le chiavi buttate sul suo grembo pesavano come un macigno a distanza di giorni.
 
Si tolse la maglia sudata prima ancora di arrivare all’armadietto, sentendola tirare la pelle, appiccicata alla schiena. Sbuffò, sfilandosela dalle braccia faticosamente e ricevette a tradimento una pacca assassina in mezzo alle scapole. “Bella pensata all’ultima azione.” Meian-san gli passò la mano tra i capelli umidi e schifosi e li scompigliò più volte. “Li hai sbaragliati.”
 
“Ryousei-kun è riuscito a intercettarla.” Mugugnò sedendosi sulla panca. “Fottuto centrale ossessivo.”
 
“Ma erano fuori posizione e ci ha permesso di vincere.” Barnes-san gli fece un sorriso enorme. “Datti un po’ di credito.”
 
“Si è lasciato con Sakusa.”
 
“Fottiti Wan-san, non mi sono mollato con Omi.” Mugugnò contrariato.
 
Perché era quella la cosa strana, Omi lo stava aspettando. Nonostante l’avesse minacciato di tagliare i ponti, nonostante tutti gli insulti velati che gli rivolgeva costantemente, gli stava dando il suo spazio e gli aveva fatto intendere di darsi una mossa.
 
Perché lo accettava. Perché gli faceva saltare i nervi un giorno sì e l’altro pure. Perché era la vita che lui stesso aveva scelto per sé.
 
Era ancora là, a lottare per lui e, da quello che gli aveva raccontato l’allenatore ridacchiando e prendendolo in giro, con lui.
 
Doveva trovare un modo per farsi perdonare perché cazzo, non l’avrebbe più lasciato andare.
 
“E allora cos’è quel muso?” Continuò Inunaki, mettendo la divisa sudata in una busta e prendendo il necessario per la doccia nel borsone. “Dovrei avercelo io, ho sforato di pochi giorni la scommessa.”
 
Si alzò un coro di lamenti da tutta la squadra e Atsumu si girò verso di lui, ghignandogli in faccia. “Vi sta bene, stronzi.”
 
“TSUM!” Bokkun entrò in quel momento nello spogliatoio, urlando e sbattendo con la spalla sulla porta con così tanta forza da farla rimbalzare contro il muro. “L’HAI SAPUTO?”
 
“Che la mia caduta al Fan Meet è diventata virale? Sì.” E non gli andava per niente bene, Sunarin gli aveva spammato qualunque cosa lo facesse vedere con la faccia a terra e il culo all’aria, era un’onta da lavare col sangue quella.
 
Ovviamente ricominciarono tutti a ridere, fregandosene altamente della sua espressione rabbuiata e della sua vanità in frantumi, ma Bokkun lo raggiunse trafelato. “Prendi il cellulare, subito.” Ordinò, cominciando a rovistare nel suo borsone. “Dov’è?”
 
“Bokkun, calmati! Hai di nuovo preso gli energizzanti?” Ma non lo ascoltava, troppo impegnato a buttare per terra i suoi vestiti puliti. “Merda, ragazzi, l’avete visto bere qualcosa di fosforescente?”
 
“Bokuto, è successo qualcosa di grave?” Tomas-san gli mise una mano sulla spalla per tranquillizzarlo, ma Bokuto si girò verso Atsumu, i suoi occhi gialli spalancati. “Oggi c’era la finale di Sakkun, vero?”
 
Atsumu fece una smorfia. Come il ragazzo di merda che era, aveva dovuto saltare l’ultima partita da universitario di Omi. Era stato brutto, più per lui che per Omi, che era tranquillamente consapevole del campionato e gli aveva augurato buona fortuna con una foto completa dei suoi addominali insieme all’inizio stuzzicante della sua zona pelvica e il meme più cattivo prodotto da mente umana del suo episodio imbarazzante al Fan Meet.
 
Avrebbe voluto esserci per poterlo festeggiare come volevano entrambi e come meritava. “Sì, perché?” Bokkun si rituffò nel suo borsone e Atsumu cominciò a preoccuparsi. “È successo qualcosa?” Domandò e l’agitazione nella sua voce spinse i suoi compagni a fermare ogni attività per girarsi verso di loro con espressioni apprensive. “Bokkun, cazzo, è successo qualcosa?”
 
“Sakkun ci ha battuti!” Aveva la testa quasi del tutto affondata nella borsa, scavandoci dentro finché non afferrò qualcosa e la mano scattò in aria, il pugno stretto rivolto verso di lui. “Presto, sbloccalo!”
 
“Bokuto, calmati.” Cercò di intervenire Meian-san, ma Bokkun vibrava, un sorriso enorme che quasi gli spaccava la faccia.
 
Atsumu guardò le diecimila notifiche che intasavano lo schermo con espressione confusa, ma come un radar si fiondò sui messaggi del suo ragazzo con urgenza.
 
Erano solo due foto, notò velocemente. Le aprì svelto e, dopo un lunghissimo secondo di assorbimento, cominciò a ridere come un matto. “Quel fottuto bastardo!”
 
Una fotografia rappresentava una medaglia e un attestato di MVP poggiati su un tavolo che non riconosceva, assieme ai due portachiavi che aveva rubato dal suo mazzo.
 
L’altra, invece, era lui che gli mostrava il dito medio, la stessa medaglia al collo e la faccia libera dalla mascherina, con su un’odiosa espressione di soddisfazione che da sola sembrava dire “Riesci a fare di meglio?”.
 
“È vero allora?” Chiese Bokkun rubandogli il cellulare. “Cazzo, è vero! Questa non la possiamo vincere!”
 
“Cosa state dicendo?” Chiese Meian-san con voce da capitano. “Ci spiegate?”
 
Atsumu continuò a ridere, buttandosi sulla panchina e portandosi le mani dietro la nuca mentre Bokuto girò lo schermo verso di loro. “Non sono mai stato MVP!”
 
Era comico, seriamente. Vedere quei bestioni tutti raggruppati a guardare nella mano di Bokkun come se tenesse il Santo Graal lo fece solo ridere di più.
 
“Santissimo cazzo.” Alitò Wan-san con gli occhi spalancati, passando gli occhi dal cellulare ad un Asumu ridacchiante. “Ha rotto Atsumu.”
 
“Penso fosse così da prima, ma questo è notevole!” Approvò Meian-san toccando lo schermo per illuminare di nuovo la foto. “MVP. Cavolo, ha fatto un ottimo lavoro!”
 
“Posso diventare MVP anche nel professionismo, vero?” Domandò Bokuto facendo ridere Barnes-san.
 
“Potrebbe diventarlo di nuovo anche lui.” Gli sorrise Tomas vedendolo sgonfiarsi. Gli passò un biscotto proteico per consolarlo. “Fai del tuo meglio.”
 
“Batterò chiunque!” Promise passando il cellulare di nuovo ad Atsumu, che lo prese e guardò di nuovo le foto come se non riuscisse a crederci. Mosse il pollice per rispondere velocemente, ma nel momento in cui stava inviando il messaggio si rese conto di una cosa molto importante.
 
Era a Nagoya. E voleva raggiungere Omi con tutto sé stesso.
 
“Capitano, devo andare.” Informò in fretta, cominciando a mettere tutta la roba buttata da Bokuto all’interno del borsone, gettandola alla rinfusa.
 
“Torneremo domani, puoi aspettare.”
 
“No, davvero, non posso. La partita è finita e ho fatto un casino e ho bisogno …” Si girò a guardarlo, il respiro agitato e la borsa a malapena appoggiata sulla spalla. “Per favore.”
 
Atsumu vide il capitano stringere le labbra, ma una gomitata leggera di Barnes-san e un’alzata di sopracciglia lo fece sospirare, guardandolo severo con un sorriso appena accennato. “Fagli i complimenti da parte nostra. E stai attento per strada.”
 
Non riuscì nemmeno a terminare la frase che Atsumu stava già correndo, ringraziando e salutando a ripetizione. “Hai ancora la divisa!” Gli urlò dietro.
 
“Mi cambierò in taxi!”
 
 
*
 
 
Quando sentì i colpi rapidi sulla porta, frantumando l’atmosfera pigra e comoda che aveva costruito con tanto sforzo, Sakusa ne fu profondamente contrariato.
 
Erano le undici di sera passate, andasse al diavolo chiunque avesse deciso si trattasse di un orario decente per rompere l’anima alla gente perbene.
 
Si raggomitolò sul divano, sistemando il plaid morbido meglio al livello delle gambe, alzando il volume della televisione per far capire al maleducato di turno che non aveva intenzione di aprire nemmeno se si fosse trattato di Vabo-chan in tutta la sua gloria di palla sudata pronto a portargli la cena gratis.
 
Era arrabbiato. Era deluso.
 
Soltanto quella mattina la sua squadra aveva vinto il campionato collegiale, il suo ultimo campionato collegiale, era stato nominato MVP e, dopo ore, aveva solo voglia di essere assorbito dal suo sofà nuovo e non uscire più di casa.
 
Atsumu aveva visto il messaggio e non aveva risposto.
 
Non sapeva che pensare.
 
Ricordava ancora le scuse sussurrate per la sua assenza, chiedendo perdono con baci anche troppo morbidi, ma Sakusa non ne aveva fatto per niente un dramma. Non era un problema, alla fine, era solo una partita. A livello di importanza, era molto più grave se Atsumu avesse saltato la sua a causa di una semplice finale universitaria.
 
Lo aveva rassicurato, gli aveva mandato un buongiorno a cui aveva risposto con lamenti e promesse, ma non capiva perché non avesse detto nulla. Erano passate ore dalla fine della sua partita contro i DESEO Hornets.
 
Sakusa strinse l’interno della guancia tra i denti, sospirando nervosamente. Si stava esaurendo come un idiota, ma non si aspettava un comportamento del genere dal suo cazzo di ragazzo.
 
Aveva passato l’intera giornata attaccato al cellulare come un tredicenne con la sua prima cotta ossessiva (e sapeva riconoscerli: Maki-chan era adorabile, ma era fuori di testa), aspettando una chiamata, una notifica, qualsiasi cosa che potesse fargli sentire Atsumu.
 
In fin dei conti, quella era una cosa importante per loro. Così importante che, addirittura, aveva pensato fosse successo qualcosa di grave.
 
Osamu l’aveva chiamato appena possibile per congratularsi, da lui aveva saputo che Atsumu aveva vinto la partita e aveva cominciato a prenderlo in giro per non sapeva quale motivo, così si vide giustificato dall’attaccargli il telefono in faccia. Niente tragedie, quindi.
 
Solo che lo stronzo aveva deciso di sparire.
 
Scosse la testa, cercando di non intasare il suo cervello con pensieri negativi. Era il cazzo di MVP, avrebbe festeggiato come aveva sempre fatto prima di un ragazzo: ignorando Motoya, ordinando da asporto la sua cena preferita, mettendosi comodo davanti la televisione a vedere un film che lo incuriosiva e che non aveva mai avuto il tempo di godersi, permettendosi di stare alzato fino a tardi perché aveva deciso di prendersi un paio di giorni tutti per sé stesso.
 
Era diverso ora che c’era Atsumu. Ma fosse dannato se gli avrebbe permesso di rovinargli il momento in quel modo.
 
I colpi alla porta si fecero più insistenti, più forti e Sakusa occhieggiò l’ingresso con sguardo truce. Alzò il volume ancora di più.
 
Passarono solo pochi secondi e si aggiunse un altro rumore, come se la porta venisse presa a calci e Sakusa decise di averne abbastanza.
 
Non era dell’umore per qualunque cafone avesse pensato di passare la serata a dargli il tormento, quindi quando raggiunse la porta e la aprì si sarebbe aspettato chiunque colto sul fatto.
 
Vedere Atsumu con la mano in alto e la gamba pronta a calciare, gli occhi spalancati come cervo colpito dai fari, lo stupì in più di un modo. Prima di tutto perché non gli aveva mai detto dove abitasse.
 
Era vestito con la tuta ufficiale del Black Jackals, aveva i capelli stravolti e si sentiva un fortissimo odore di deodorante su tutta la sua persona. Il borsone, abbandonato senza pensieri di lato, gli fece pensare che non fosse passato per nulla a casa sua.
 
“Ciao Omi.” Mormorò piano, abbassando mani e gambe con un sorriso che gli fioriva sul viso.
 
Voleva chiedergli come fosse riuscito a conoscere quell’indirizzo ma non era sicuro di volerlo sapere. Poteva immaginare due o tre modi, ma l’aiuto di Osamu o qualcun altro era fuori discussione: l’avrebbero vista come l’occasione per una presa in giro fuori programma e l’avrebbero colta come un pesce con l’esca.
 
Voleva chiedergli anche cosa diavolo ci facesse a quell’ora infame sul suo zerbino, ma aveva come l’impressione che non sarebbe riuscito a sopravvivere a qualunque risposta gli avrebbe dato.
 
Voleva chiedergli perché sembrasse uno scappato di casa e perché non si era ovviamente fatto una doccia, ma il suo cervello e la sua lingua avevano deciso di non collaborare.
 
“Perché cerchi di rompere la mia porta?” Chiese invece e forse la domanda era più che legittima. Abitava lì da pochi giorni, non voleva già sostituire cose.
 
Vide il sorriso di Atsumu congelarsi. “Non rispondevi.”
 
“E prendi a calci la porta?”
 
“Beh, evidentemente non riuscivi a capire che dovevi aprire!”
 
“Abito in un fottuto condominio.” Sibilò. “Ho dei dannati vicini ed è quasi mezzanotte. Ti sembra normale quello che hai fatto?”
 
Lo vide rabbuiarsi e non capì, assolutamente. Sentì la rabbia salirgli fino alla testa.
 
“Cosa vuoi?” Domandò quindi, perché bruciava ancora. Bruciavano le sue frasi che sottintendevano una sicura rottura, bruciavano le chiavi non accettate, bruciava l’attesa di una risposta su quel cellulare che aveva nascosto sotto i cuscini del divano per toglierselo da davanti gli occhi.
 
Bruciava dentro, perché combatteva con queste cose, questi sentimenti rampicanti e inutili che lo spingevano ad allungare la mano per toccarlo, per vedere se era veramente lì, e a fare qualcosa, a metà strada tra il prenderlo e baciarlo e l’affondare i pollici nella sua trachea.
 
“Non mi fai entrare?”
 
“Cosa vuoi?” Ripeté secco.
 
Atsumu sbuffò dal naso e strinse gli occhi, mordendosi il labbro con forza. “Sei arrabbiato.” Constatò e, davvero, era l’illuminazione del secolo, quella. “Mi dispiace veramente tanto, sul serio.” Lo guardò morbido e Sakusa sentì l’irritazione camminargli nelle vene. “Avrei voluto esserci.”
 
“Di tutte le cose di cui dovresti scusarti, hai scelto l’unica per cui non c’era motivo.” Disse a voce bassa, spostandosi di lato e invitandolo ad entrare con un gesto del capo. Atsumu si accigliò, ma prese la borsa e lo seguì a testa bassa.
 
Fu solo quando la porta si chiuse che Atsumu si girò ad affrontarlo. “Che vorresti dire?” Domandò e c’era un tono aggressivo di sottofondo nella sua voce. “In che senso l’unica cosa?”
 
“Stai chiedendo scusa per qualcosa che non dipende da te.” Sibilò Sakusa superandolo e sedendosi sul divano, prendendo il plaid abbandonato sui cuscini e cercando di allargarlo. “Comincia a farlo per le cose che hai effettivamente combinato.”
 
“E cosa avrei fatto?” Atsumu era ancora davanti la porta, le mani ancora ad artigliare il borsone come se volessero strapparlo. Sakusa gli scoccò un’occhiata raggelante ed ebbe il piacere di vederlo imbarazzato. “Se intendi la stronzata della firma … beh … sì, ok, ho sbagliato e ho esagerato. Contento?”
 
Mantenne il suo sguardo fermo e Atsumu cominciò ad arrossire. “Anche per le chiavi, sono stato uno stronzo.” Lo vide passarsi una mano tra i capelli sporchi, mandandoli all’aria e camminando sul posto come un soldatino demente. “Seriamente, che cazzo ci fai ancora con me?”
 
“Mi piacciono i casi umani.” Se ne uscì con voce piatta, sistemando il plaid sulle gambe e girandosi verso la televisione.
 
Sentì il tonfo del borsone per terra e le scarpe che venivano lanciate direttamente dai piedi, senza essere slacciate. Un paio di passi pesanti si fecero avanti. “Non farmi incazzare di più e metti a posto quelle scarpe.”
 
Gli arrivò alle orecchie un sospiro esasperato e il tonfo dei talloni di Atsumu che scavavano il pavimento, ma fu soddisfatto quando sentì il cigolio della scarpiera che veniva aperta dopo qualche secondo.
 
Lo fu un po’ meno quando Atsumu quasi si buttò sul divano in quello stato di doccia mancata, ma la sua espressione dispiaciuta appianò un po’ dei suoi nervi. “Mi scuso per tutto.” Mormorò piano, allungandosi verso di lui. “Sono veramente dispiaciuto e potrai farmela pagare quanto ti pare. Ma cazzo, Omi, sei il fottuto MVP!”
 
“Perché non ti sei fatto vivo tutto oggi?” Sbottò finalmente, perché lo stava consumando dentro.
 
Avrebbe potuto capire se fosse rimasto a Nagoya, ma era là, davanti a lui, a insozzare il suo divano con sudore secco e deodorante scadente. Ci doveva essere un motivo.
 
Lo guardò battere le palpebre lentamente, piano e confuso. “Cosa?” Domandò con un filo di voce e sentì una scintilla di irritazione scoppiargli nel petto.
 
“Ho dovuto sapere da Osamu che avevate vinto. E che non ti avevano picchiato dietro un Izakaya di pessima reputazione.”
 
“Che stai dicendo? Ti ho risposto alle foto!”
 
“No, non l’hai fatto.” Sakusa portò di nuovo il suo sguardo sulla televisione, sentendo gli occhi pizzicare per qualcosa che aveva trattenuto da ore.
 
“Omi, ti ho risposto subito!”
 
Non l’hai fatto.” Sibilò grave. Atsumu si alzò di scatto e quasi si scapicollò verso l’ingresso, buttandosi sul borsone e cercando al suo interno come un disperato. “Sono sicuro di aver- Oh! Eccolo!”
 
Qualche secondo di silenzio, poi un “Merda!” furioso che quasi lo convinse a girarsi. Non lo fece, ma solo perché Atsumu si buttò ai piedi del divano mettendogli il cellulare sotto il naso con la faccia più disperata del mondo. “Ho dimenticato di inviarlo!”
 
Sakusa si ritrasse d’istinto, perché quel telefonino era stato in un fottuto borsone pieno di roba sporca, non lo avrebbe toccato nemmeno se pagato, ma Atsumu la prese come se volesse scostarsi da lui. Si buttò sulle ginocchia con un lamento frustrato, stando ben attento a non toccarlo. “Ti giuro, credevo ti averlo inviato! Davvero, ne ero sicuro!”
 
Sullo schermo c’era scritto “Fai schifo. Ti amo!”, nella riga del testo. Sakusa sentì qualcosa di caldo strisciargli su per lo stomaco e, cazzo no, non poteva cedere così. Aveva fottutamente ragione e voleva rimanere arrabbiato per tutto il tempo di cui aveva bisogno. “Quando sei partito?” Domandò a voce bassa, gli occhi ancora fissi su quelle parole.
 
“Immediatamente.” Rispose svelto, il tono di voce urgente. “Non mi sono neanche lavato.”
 
Spostò lo sguardo su di lui, pensoso. “Quando è finita la partita?” Lo vide boccheggiare, cercando di ricordare. “Non ne ho idea, 18:00? 18:30? Non lo so!” Atsumu si portò la mani ai capelli, spostando la frangia indietro e quel gesto aveva un ché di disperato. “È stato un incubo trovare un taxi che non mi lasciasse a piedi, pensa quando scoprivano che dovevo cambiarmi in auto! Ne ho cambiati tre, pensavano fossi un barbone.”
 
Sakusa si lasciò sfuggire un mezzo sorriso divertito e Atsumu riuscì a rilassarsi, avvicinandosi alle sue gambe senza toccarlo. “Avevano un po’ ragione.” Mormorò e lo vide fare una smorfia.
 
“Quale barbone indossa quelle scarpe?” Ribatté, indicando con il mento la scarpiera. “Non sono ancora sul mercato, abbiamo finito le riprese per la pubblicità due settimane fa.”
 
“Come se importasse a qualcuno.” Si leccò il labbro inferiore e lo prese tra i denti, masticandolo pensoso. Atsumu lo notò e lanciò il cellulare sul divano, allungando la mano per prendere la sua. “Omi, sono stato un grandissimo cazzone per settimane. Lo riconosco, lo ammetto e ti chiedo scusa. Ma non puoi capire quanto ti amo e sì, voglio trasferirmi con te.”
 
Sakusa aggrottò lo sguardo, preso contropiede. “Cosa?” La nota di panico nella sua voce era ben percepibile, ma Atsumu ormai era lanciato.
 
“Lo so che non mi sono comportato bene per la faccenda dell’appartamento, ma avevo veramente paura che andassi a vivere da un’altra parte. Ed è stata un po’ una sorpresa quando hai tirato fuori quelle chiavi e …”
 
“Non ti ho mai chiesto di vivere con me.” Scandì secco e chiaro e Atsumu si bloccò, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta. “Non voglio vivere con te, sarà la prima volta che lavoriamo insieme. Dovremmo sopportarci sia al lavoro che a casa?” Fece un verso di scherno e tolse la mano dalla sua presa. “Non se ne parla.”
 
Atsumu rimase un attimo congelato ad assorbire quelle parole, lo sguardo perso e un’espressione che non riusciva a riconoscere.
 
Ma a Sakusa non interessava se ci fosse rimasto male, seriamente. Svegliarsi, mangiare, allenarsi, tornare a casa e dormire con lui. E di nuovo, ogni cazzo di giorno. No, non era tempo per una cosa del genere.
 
Stavano ancora cercando di funzionare, di mettere in moto il motore. Quando gli ingranaggi avrebbero cominciato ad incastrarsi senza olio e senza spintarelle, superando intoppi senza tutto il caos che erano riusciti a portarsi dietro fino a quel momento, allora sì, potevano pensarci. Trasferirsi nel loro attuale stato avrebbe significato il suicidio di tutta la loro relazione.
 
Ci furono ancora attimi statici, finché Atsumu non prese un respiro veloce, socchiuse gli occhi ed alitò “Oh grazie a Dio.” Cosa che, suo malgrado, gli fece uscire una risatina sbuffante. “Ero terrorizzato, mi sono ritrovato con queste chiavi senza capirci niente e tu eri arrabbiatissimo!”
 
“Sì, perché ti sei comportato da stronzo.” Ribatté, ma la rabbia era ormai svanita, evaporata. Atsumu crollò con la fronte sulle sue ginocchia coperte dal plaid, le mani abbandonate sui lati delle sue cosce ad accarezzarle piano.
 
“Sarebbe un incubo.” Mugugnò e sì, non aveva tutti i torti. “Cioè, sei la ragione della mia vita, ma ancora non sono pronto a passare dalla palestra al letto e guardarti disinfettare qualsiasi cosa ogni minuto, urlandomi inevitabilmente addosso. Scatterei e non sarebbe per niente piacevole.”
 
“Ti prenderei a pugni a metà del secondo giorno.” Accettò tranquillamente Sakusa passandogli le dita tra i capelli sporchi, massaggiandogli la cute con i polpastrelli e con il graffio occasionale delle sue unghie.
 
Atsumu alzò il capo e poggiò il mento sulle sue gambe, guardandolo con un sorriso malizioso e gli occhi brillanti. “Ti amo.” Disse piano e appassionato e Sakusa si sentì le guance leggermente calde.
 
“Vedo che sei veramente in colpa, l’hai ripetuto sedici volte.”
 
“Ti amo. E sono così orgoglioso di te.”
 
“Diciassette. E quello che chiami orgoglio è invidia.”
 
“Non è invidia, è fottuta gelosia. E vanità.” Si sporse per baciarlo e Sakusa lo lasciò fare, perché gli era veramente mancato. “Sto per fare sesso con il signor MVP.”
 
“Sono ancora incazzato e puzzi.” Lo vide alzare gli occhi al cielo e gli venne in mente una cosa importante. “Hai mangiato qualcosa?”
 
“Ho saccheggiato un distributore.” Risposa Atsumu e, davvero, non era una cena quella. Non una per un atleta dopo una partita.
 
“Potrei cucinarti roba decente, ma sarebbe meglio se ci pensassi tu.” Atsumu ridacchiò e Sakusa storse il naso. “C’è del cibo da asporto avanzato.”
 
“Voglio mangiare altro.” Mormorò malizioso e, davvero, non doveva. Sakusa aveva dei principi ben impiantati nel suo essere, delle priorità ferme, granitiche.
 
Si tolse il plaid di dosso, spense la televisione e si alzò, vedendolo spostarsi per lasciarlo passare. “Vieni con me, ti mostro dov’è il bagno.”
 
“È un modo gentile per dirmi che non ci divertiremo finché non profumo?” Atsumu aveva il suo sorriso furbo, quello un po’ laterale e molto infimo che prometteva ed esaudiva la giusta quantità di attenzioni che suggeriva. Era diventato un po’ troppo dipendente da quell’espressione. La scorgeva appena e avvertiva i brividi di anticipazione lungo la sua spina dorsale.
 
“Non ho bisogno di modi gentili.” Sbottò appena cominciando a camminare, perché doveva darsi un contegno. “Ti ho detto che puzzi da quando sei entrato.”
 
“Ti fai la doccia con me?” Domandò Atsumu sornione, raggiungendolo e cingendogli la vita con le braccia, mento sulla spalla e petto contro schiena. Sentiva il suo respiro sulla pelle, nella curva sensibile del collo e, se non voleva inciampare ed uccidersi per terra, sarebbe stato più produttivo non far venire a Sakusa le gambe di gelatina.
 
Allungò quindi una mano all’indietro e gli spinse forte la fronte, allontanandolo.“Mi hai toccato.” Sibilò, avanzando goffamente ed incespicando con le loro gambe troppo lunghe. “Sento i germi di taxi camminare su per le braccia. Chissà dove sono arrivati.”
 
Atsumu scoppiò a ridere e gli scoccò un bacio bagnato sulla guancia, vedendolo arricciare il naso alla sensazione umida. “C’è  bisogno di una pulizia approfondita, allora.”
 
“Ci sarà doccia e cena.” Lo avvertì con uno sguardo laterale. “Sono ancora arrabbiato.”
 
Lo sentì stringere un po’ di più alla vita, affondando il naso sulla sua pelle. “Sì, lo so. Me lo merito.” Il suo mormorio dispiaciuto, soffocato contro la maglia, lo fece sbuffare. Portò la mano sulla sua, contro il suo stomaco, schiacciandola forte.
 
Inclinò la testa poggiando la tempia sul suo capo, aprendo la porta del bagno. “Andiamo a lavarti il cervello con lo shampoo giusto.” Gli disse e sentì il suo sorriso contro la spalla. “Con un po’ di fortuna riusciamo a togliere tutti quei pensieri stupidi una volta per tutte.”
 
 
*
 
 
“Dobbiamo parlare.”
 
Osamu alzò gli occhi dalla piastra per guardare Sakusa dritto davanti a lui, serio come lo vedeva sempre e leggermente sfocato dal fumo chiaro dal profumo stuzzicante che saliva dalla carne che stava cuocendo.
 
Pessima scelta di parole, davvero.
 
Dall’esperienza personale della persona media, le parole “dobbiamo” e “parlare” accostate, insieme a quell’aria grave generale, preannunciavano ansia, disperazione e un voluto o meno proseguo da single. Nella più felice delle ipotesi.
 
Ma lui e Sakusa, ringraziando tutti gli dèi esistenti e no, non stavano insieme. Decisamente, era l’ultima persona che potrebbe sopportare per una relazione romantica e, considerando la ponderata e riflessiva scelta di Sakusa di rovinarsi la vita con suo fratello, quello era un sentimento reciproco. Quindi la frase era decisamente ambigua.
 
Aggrottò le sopracciglia, confuso.
 
Il servizio era agli sgoccioli. Si stavano avvicinando all’orario di chiusura ma c’era ancora qualche cliente e, davvero, dov’era il suo dannato tempismo?
 
“Ti sembra il momento?” Domandò ironico, lavorando veloce di spatola per girare dei bocconcini di maiale. Qualunque cosa dovesse dirgli poteva aspettare.
 
“Direi di sì, hai assunto un aiuto-cuoco apposta. E c’è poca gente.” Sakusa sapeva affondare i denti e non mollare se sentiva di avere ragione, doveva dargliene atto. Ma erano ancora al lavoro.
 
“Il tavolo otto voleva altre bevande.”
 
“Ho rifornito tutti.” Rispose secco e rapido. Osamu riconobbe il tono leggermente offeso e strinse le labbra per fermare il sorriso soddisfatto per l’inconsapevole fastidio. “So fare il mio lavoro.”
 
“Inoue-san non può …”
 
“Inoue-san è stato più che felice di poter controllare i miei tavoli.” Alzò lo sguardo stretto verso la sala e sì, i tavoli erano quasi tutti vuoti. Inoue-san lo guardava, sorridendo ed agitando la mano in segno di saluto, giusto per prenderlo in giro.
 
Storse la bocca e scoccò un’occhiata a Kaneko-kun accanto a lui, che gli rivolse un piccolo ghigno storto. “Avete segreti tutti vostri?” Chiocciò derisoria. “Oooh per favore, posso spettegolare con voi?”
 
“Parleremo di contrattazione e infimi mezzi di riscatto e ricatto.” Le spiegò Sakusa con tono uniforme, facendogli alzare gli occhi al cielo.
 
“Sakusa-kun, mi avevi già conquistata stando lì e sembrando malignamente edibile in quei pantaloni grigi.” Gli fece l’occhiolino e spinse Osamu con un colpo di fianco, rubandogli la postazione alla piastra. “Non esagerare, altrimenti passerò la notte a soddisfarmi con fantasie strane.”
 
“Sì, ecco, non dire queste cose davanti a Tsumu. Mai.” Suo fratello aveva già troppi problemi mentali creati da sé stesso a cui far fronte, non capire le prese in giro di Kaneko-kun era soltanto l’ultima spalata di merda su una montagna di dimensioni industriali.
 
“Dille pure, non è un mio problema se dà di matto.” Intervenne Sakusa inutilmente.
 
“Vivo solo per quello.” Kaneko-kun sogghignò, allungandosi verso i fornelli per saltare le verdure nel wok.
 
Kaneko-kun adorava Atsumu e Atsumu stravedeva per lei. Forse perché avevano una passione simile per lo styling dei capelli, forse per lo stesso gusto negli uomini, che si manifestava nel loro divertimento comune nel commentare la linea incazzata di Sakusa durante la pulizia dei tavoli e nel loro appuntamento fisso nello scegliere con chi dovesse uscire quella settimana Kaneko-kun tra tutti i suoi stranamente numerosi pretendenti, o forse, ancora, perché erano entrambi stronzi, più semplicemente.
 
Ma la passione di Kaneko-kun nel far impazzire Atsumu con gli argomenti più vari era esemplare. Rin e Motoya l’avrebbero amata.
 
Appuntò mentalmente di non farli mai incontrare, perché il genere umano non era ancora pronto per una riunione del genere e, ad essere sinceri, non lo sarebbe mai stato.
 
Kaneko-kun gli diede una leggera gomitata. “Vai pure, grande capo. Farò un lavoro migliore del tuo.”
 
“Ti piacerebbe.” Mormorò Osamu, lasciandole il posto e andando a pulirsi le mani. “Non bruciare il maiale.”
 
“È successo solo una volta!” Si lamentò Kaneko-kun alzando gli occhi al cielo. “Ed era totalmente colpa di Atsumu.”
 
“Abbrustolito è più buono.” La difese Sakusa cominciando ad avviarsi verso la zona dipendenti.
 
“Sei vissuto con il cibo dell’università, avrai le papille gustative polverizzate.” Sakusa non rispose ma alzò le spalle in un muto assenso.
 
Non era da Sakusa interrompere il servizio per qualcosa di personale. Osamu ormai lo conosceva abbastanza da sapere che, le voci che giravano alle superiori, erano in parte vere: Sakusa Kiyoomi era un robot mandato dal pianeta pallavolo con una missione e non avrebbe abbandonato la terra finché non avesse raggiunto il suo obiettivo.
 
Atsumu, all’epoca, ci aveva creduto. Ora non più, a giudicare dal sorriso schifoso che aveva in faccia ogni volta che tornava da un appuntamento con lui.
 
Una cosa, però, era vera: quando Sakusa iniziava qualcosa, l’avrebbe finita.
 
Quindi il suo avvicinamento era dovuto a qualcosa di importante, di urgente, che non avrebbe potuto aspettare ulteriormente. Il suo atteggiamento flemmatico e tranquillo, però, lo spinse a non strapparsi i capelli e ragionare su una cosa molto precisa.
 
Osamu sospirò, rassegnato.
 
Sapeva perfettamente cosa volesse Sakusa da lui: era ora di lasciare il nido.
 
Era pronto da settimane per quel giorno. Mesi. Anni, in realtà. Da quando aveva messo piede dentro il locale, sapeva già che non sarebbe rimasto.
 
Doveva arrivare quel giorno, prima o poi. Ed eccolo qui, a guardare quella schiena ampia occupata ad aprirgli la strada per il suo ufficio. Era dispiaciuto e commosso al tempo stesso, perché Sakusa era entrato nella sua vita inaspettatamente ma, doveva ammetterlo, ne era stato felice. Alla fine, però, perché gli inizi erano stati un po’ rocciosi.
 
Gli sarebbero mancate le sue risposte odiose, sempre pronte a distruggere l’anima delle persone con quella voce monotona e ironica, come avrebbe fatto il suo sguardo incattivito ogni volta che puliva il bancone con qualcosa di meno che accettabile per la sua stessa esistenza sensibile, o anche la sua stazza da atleta e l’espressione aggrottata, particolarmente utile per allontanare quegli idioti malintenzionati che decidevano di rischiare e di mettere piede entro suo raggio di azione, non riuscendo ad arrivare nemmeno al bancone.
 
Sorrise, ripensando ai loro pomeriggi tranquilli a rimettersi in pari con le partite, gli snack e le discussioni appassionate che andavano avanti per ore, le lezioni teoriche di pallavolo ad Inoue-san e, adesso, Kaneko-kun, perché non era minimamente pensabile che i suoi dipendenti non avessero almeno un’infarinatura generale dell’argomento. I consigli sempre sentiti, le “riunioni di bilancio” in cui entravano pieni di buone intenzioni e uscivano con il cervello fuso strabordante di numeri, gli insulti amorevoli e le prese in giro più o meno mirate.
 
Erano stati anni fantastici, quelli.
 
Un rivale diventato un amico.
 
Il suo primo dipendente.
 
Sentì gli occhi pizzicare di botto, sicuramente per la polvere inesistente che era volata fin sulla sua faccia.
 
Entrò nel suo ufficio e si sedette sulla poltrona girevole, lasciando a Sakusa il posto davanti alla scrivania. Lo vide guardarlo un po’ male per quello e se ne compiacque.
 
“Allora,” Cominciò, tamburellando le dita tra loro come un cattivo di serie B. “Sakusa Kiyoomi.”
 
“Smettila.” Sakusa lo fissò con sguardo stretto. “Devo dirti una cosa.”
 
“Prima io.” Osamu prese da sotto il tavolo un raccoglitore, buttandolo sulla scrivania con un tonfo pesante. Dei fogli fuggirono con uno sbuffo cartaceo. “Ho parlato con Kosaku-kun, non preoccuparti per il preavviso, considerati licenziato.”
 
Lo vide battere le palpebre più volte, poi chiuderle strette e aggrottare le sopracciglia. La sua espressione era simile a quella che assumeva quando Atsumu o Motoya dicevano qualcosa di particolarmente stupido e, seriamente, era del tutto fuori luogo. “Di cosa stai parlando?” Gli uscì fuori e c’era pura sofferenza nella sua voce.
 
“Stai dando le dimissioni e ti spetta la liquidazione.” Evidenziò l’ovvio Osamu, cominciando a tirare fuori i fogli interessati. “Ma non hai dato il preavviso, quindi ti licenzio io così non ci sono problemi. Perché cazzo, c’è un iter da seguire, stronzo.”
 
“Non mi serve la tua liquidazione e non voglio dimettermi.” Sibilò Sakusa cercando di bloccarlo. “Almeno non ancora. Metti questa roba dentro.”
 
“Ma ho fatto i conti!”
 
“Bravissimo. Ora smetti di dire stronzate e ascoltami.”
 
“Ho preparato tutto.” Continuò Osamu mettendo dei documenti fitti di scrittura davanti al suo naso. “Tu ora firmi qua e nessuno si farà male.”
 
Lo vide buttare un’occhiata sul foglio e sbuffare. “Non è la data di oggi.”
 
“Non ti deve interessare.”
 
Sakusa prese il foglio, lo lesse velocemente e lo accartocciò davanti il suo sguardo incazzato. “Non voglio ancora licenziarmi.” Sibilò, buttando la palla nel cestino. “Ho una proposta per te.”
 
Osamu era allibito. “Sai quanto ci ho messo per scrivere quel documento?”
 
“È una forma standard e, anche se fosse, l’ha fatto Kosaku-san. Ora concentrati.” Osamu sbuffò forte dal naso e si appoggiò allo schienale della sedia, braccia conserte e palpebre pesanti sugli occhi.
 
Sakusa era serio, davvero serio. E lo aveva preso contropiede, perché si stava preparando da settimane a quel giorno che, evidentemente, non era proprio quel giorno.
 
Avrebbe dovuto far stampare a Kosaku-kun un nuovo documento.
 
“Stai cercando di arrivare a Tokyo.” Cominciò Sakusa, calcando la parola “cercando” con così tanta cattiveria che gli fece salire i nervi. “Non ci stai riuscendo.”
 
“Sei venuto qui per fare lo stronzo?”
 
Lo vide sospirare. “Non puntare ad altre città.” Disse, ignorandolo totalmente. “Scegli qualcuno per sponsorizzarti.”
 
Osamu aggrottò le sopracciglia. “Cosa?”
 
“Se riesci a contrattare, avrai via libera in qualunque stadio, arena o palazzo dello sport. Ovunque si vada.” Spiegò facilmente e, cazzo, non ci aveva mai pensato. “Puoi farti conoscere ovunque. Lasci Kaneko-san qua al ristorante, assumi un altro cameriere, ti porti dietro Inoue-san e fai il tuo lavoro fuori da Osaka. O fai come ti pare, il locale è tuo, sai meglio di tutti cosa fare e chi lasciare.”
 
Era … buono, pensò, un fremito di anticipazione che si spandeva nel petto. Molto buono.
 
Avrebbe preso uno stand, avrebbe portato il suo cibo, sarebbe uscito da quel circolo che sentiva stretto. Avrebbe potuto esplorare gusti diversi, poteva fare accostamenti a cui non aveva pensato, avrebbe preso ispirazione dal cibo locale.
 
Ma c’era un problema grosso come un grattacielo.
 
“Mirare ad un atleta di un certo livello sarebbe …”
 
“Dispendioso.” Sakusa sospirò, accettando con un rapido ragionamento. “Sì, non ti converrebbe adesso.”
 
Osamu storse il naso, dispiaciuto per l’occasione persa. Perché ovviamente c’era sempre il problema dei soldi, ovunque guardasse.
 
La sua, in fondo, era una piccola attività. Un semplice ristorante specializzato in onigiri. Aveva pensato di cercare locali più piccoli, più concentrati, ma aveva comunque bisogno di elementi base già presenti per la cucina, la pulizia, il magazzino e quei posti non erano per niente economici.
 
Sembrava quasi che quei dannati soldi lo stessero prendendo in giro.
 
“Hai pensato ad Atsumu?” Domandò Sakusa inclinando la testa. “È un atleta, è conosciuto ed è tuo fratello.”
 
“Tsumu mi ha già aiutato con il ristorante e lo pubblicizza in continuazione sui social.” Lo bloccò immediatamente, lo sguardo basso ma deciso. “Non se ne parla, deve pensare anche a sé stesso. Non sto nella merda come all’inizio, troverò qualcosa.”
 
Atsumu aveva la sua vita a cui pensare, non poteva sempre correre a tappare le sue mancanze.
 
Poteva prenderlo in giro, deriderlo, sostituirgli il deodorante con l’olio spray quando non prestava attenzione, ma se non fosse stato per lui non sapeva se avrebbe potuto aprire il suo locale.
 
Atsumu aveva investito sulla sua felicità, quella che non aveva accettato quel pomeriggio del liceo e ancora dopo, per settimane. Quella contro cui combatteva, la scommessa della loro vita in corso finché uno dei due non fosse morto. Quella che aveva visto nascere, dalle sopracciglia bruciate per una fiamma troppo alta agli esperimenti rischiosi con gli avanzi della domenica, e crescere, in quel ristorante che era il suo orgoglio e la sua dannazione al tempo stesso.
 
Doveva tutto ad Atsumu e non gli avrebbe dato un’altra cosa di cui occuparsi. Doveva andare avanti da solo.
 
“Ovviamente.” Disse Sakusa, e dal tono sembrava intendesse che Osamu avesse il cervello leso. “Ti rimango io.”
 
Osamu batté le palpebre lentamente, poi alzò lo sguardo per guardare Sakusa davanti a lui. Era serissimo. “Cosa stai proponendo esattamente? Perché non sei proprio uno alle prime armi.”
 
“Lo sono nel mondo professionistico. Sulla carta, almeno.” Prese un foglio piegato in un quadrato dalla tasca dei pantaloni, aprendolo con dita sicure e precise. “Ho parlato con Fukuda-san e con Jirou-san.”
 
“Chi diavolo è Jirou-san?”
 
“Il mio PR manager.” Gli scoccò un’occhiata velenosa e Osamu si morse la lingua. Spinse il foglio sotto la sua faccia, battendo su una riga particolare. “Sono un novellino, praticamente nessuno. Finché non vengo presentato e introdotto in partita valgo pochissimo.”
 
“Cazzo, Sakusa, non mi stai dicendo quello che penso.” Perché sarebbe stato ridicolo. Folle.
 
Perché sarebbe scoppiato a piangere e non voleva, porca miseria, aveva una reputazione da mantenere.
 
“Non voglio soldi. Non voglio liquidazione. Investi tutto in un furgoncino refrigerato.” Sentiva gli occhi pizzicare sempre di più, il naso cominciare a prudere. Strinse le palpebre e soffiò forte, il respiro appena tremulo e bagnato. “Quando ti porterò il documento originale, lo dovrai firmare. Anzi, organizzo un incontro. Ti va bene mercoledì?”  
 
“Non posso.” Uscì di poco, un filo di voce trattenuto, perché se avesse parlato sarebbe scoppiato.
 
“Non mi frega niente, lo firmi.” Lo sentì muoversi e la sedia scricchiolare, quindi doveva essersi di nuovo poggiato allo schienale. “Atsumu sa falsificare la tua firma.”
 
Era illegale, avrebbe dovuto ricordarglielo.
 
Aprì gli occhi e vide quasi sfocato. Si morse il labbro, affondando i denti fino a fargli male perché doveva capire se era davvero tutto vero.
 
Sakusa prese un respiro. “Osamu, mi hai dato una possibilità quando altri non mi hanno nemmeno guardato due volte.” Spostò lo sguardo su di lui e la vista si fece ancora meno nitida. “Non ero un buon acquisto, ma mi hai assunto comunque.”
 
“Mi serviva aiuto.” La voce era gracchiante e se la schiarì, più volte. “Non è stato così speciale.”
 
“Potevi prendere chiunque altro, più qualificato e meno problematico.” Lo guardò con le sopracciglia alzate. “Soprattutto meno problematico.”
 
“Non sei il problema che pensi, sai? C’è gente molto più rompicoglioni di te.” Si passò le dita sulle palpebre, perché le sentiva umide. “Atsumu, ad esempio.”
 
“Avrei detto Motoya.”
 
Osamu sbuffò una risata. “Anche, ma per motivi diversi.” Sospirò e spinse il foglio verso di lui. “Non posso accettare.”
 
“Non mi interessa.”
 
“Non puoi fare questa cosa gratuitamente, che cazzo.” Osamu riprese il foglio e lo lesse velocemente, senza capirci veramente nulla. “Devo pagarti in qualche modo.”
 
“Non hai detto ad Atsumu dove abitavo, mi basta.” Sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Lo avrei fatto anche se non me lo avessi chiesto. Davvero credevi mi sarei lasciato scappare l’occasione per vederlo brancolare?”
 
Lo vide alzare le spalle. “Per me è ripagato.”
 
“Ti ha detto che ti ha seguito come uno stalker quella sera che avete litigato?” Sakusa annuì corrucciato, ma le orecchie si arrossarono leggermente. “Ha preso la macchina e, quanto ha fatto, sei metri?”
 
“Abito a quattro isolati da voi.”
 
“Beh, è tornato a casa con delle cascate che gli uscivano dagli occhi dicendo di aver rovinato tutto e che lo avresti mollato per qualcuno meno patetico di lui.” Sogghignò tremulo e il cipiglio di Sakusa si fece più profondo. “Almeno da quanto ho potuto capire.”
 
“Smettila.” Gli strappò il foglio dalle mani e lo ripiegò, rimettendolo in tasca. “Avverto Jirou-san di cominciare a compilare i documenti originali.”
 
“Ho detto di no.”
 
“Mi ripagherai nutrendomi fino a che non decido di convivere. Poi vedremo.” Lo vide alzarsi dalla sedia e Osamu lo fissò con gli occhi enormi. “Aspetta, Tsumu lo sa?”
 
“Non ho intenzione di farlo adesso, se la cosa ti preoccupa.” Lo guardò male, come se fosse stupido. “Non sono matto.”
 
Quello era tutto da vedere, ma ancora non aveva ben compreso la cosa più importante. Osamu scattò dalla sua sedia, sbattendo le mani sul tavolo. “Non posso darti onigiri in cambio del mondo, non è la stessa cosa. Lo capisci?”
 
Sakusa sospirò stancamente. “Fammi mangiare gratis a vita, allora.”
 
Davvero, era troppo.
 
Osamu fece il giro del tavolo, si bloccò un attimo davanti a lui e fece una cosa che non aveva mai pensato di fare in tutta la sua vita.
 
Lo abbracciò.
 
Sentì Sakusa rigido attorno alla sua presa, le spalle tese, le braccia lungo i fianchi e il respiro come paralizzato. Rimasero fermi così, per alcuni secondi, finché non lo sentì espirare lento e caldo sulla spalla e sul collo, le membra che si rilassavano un po’ di più, sempre di più ad ogni respiro, e le sue mani che si poggiavano piano sulla vita, prendendogli la maglia a manciate.
 
“Mi stai bagnando la felpa.” Lo sentì mormorare e Osamu lo strinse di più, accorgendosi solo in quel momento di stare piangendo.
 
“Non è vero.” Singhiozzò, schiacciando la faccia sulla sua spalla.
 
“Spero siano solo lacrime.” Si allontanò leggermente tirando su con il naso e no, non erano solo lacrime. Si fece sfuggire un singulto e si ributtò su di lui. Sakusa sospirò. “Dopo voglio un cambio.” Lo informò spietato. “È stata un’idea di Atsumu. Sapeva che saresti stato troppo orgoglioso per chiederlo a lui.”
 
Grandissimo bastardo.
 
L’avrebbe pagata, le avrebbe pagate tutte. Dopo, però.
 
Ora voleva starsene in quel modo con il suo quasi cognato, ad insozzargli la felpa con moccio e chissà cos’altro e a fargli capire che per lui era diventato più che un semplice dipendente.
 
“Grazie.” Uscì soffocato e bagnato, ma bastò. Sakusa afferrò meglio la maglia a livello della sua schiena, forte, le dita affondate nella stoffa. Affondò il naso nella sua spalla, stringendolo forte.
 
“Grazie a te. Per tutto.”   
 
 
*
 
 
“Dobbiamo parlare.”
 
“Sai, l’ultima volta che uno della tua famiglia ha detto una cosa del genere, Inoue-san ha assistito a qualcosa di molto spiacevole.”
 
Motoya strinse le palpebre e allargò il suo sorriso verso Osamu, un luccichio negli occhi che prometteva guai.
 
Era ora di pranzo e, sinceramente, Suna non pensava di dover dividere l’attenzione tra il boccone di noodles che cercava di portare in bocca senza sbrodolare e l’uscita malvagia di Motoya. Pensava desse loro almeno il tempo di digerire prima di dire qualsiasi cosa potenzialmente distruttiva.
 
“Ho sentito che ci sono state lacrime coinvolte.” Canticchiò Motoya, giocherellando con le bacchette tra le dita, dondolandole con fare subdolo. “Scommetto che Kiyoomi ha pianto.”
 
“Qualcuno ha pianto.” Sogghignò Suna, guardando Osamu aggrottare le sopracciglia profondamente offeso. “Non era Sakusa.”
 
“Mi era entrato un elicottero nell’occhio.” Brontolò, agganciando una manciata enorme di noodles con le bacchette e ficcandoseli in bocca neanche stesse morendo di fame, il vapore che gli inumidiva la parte di pelle subito sotto il naso.
 
“Un elicottero riccio con una cattiva personalità?” Domandò Suna oziosamente e ridacchiò, beccandosi un dito medio in faccia.
 
Motoya scoppiò a ridere, alzandosi in piedi di scatto come se si fosse ricordato di qualcosa giusto in quel momento e muovendosi verso l’ingresso velocemente. Il sorriso di Suna congelò e cominciò ad avvertire una strana sensazione alla bocca dello stomaco. “Che stai facendo?” Domandò piano e, davvero, non aveva un buon presentimento. Non dopo quello che era successo l’ultima volta, almeno.
 
A volte ci ripensava, ritornando a quei momenti tesi che lo lasciavano agitato e ansioso. Col senno di poi, non era stata un’idea geniale affrontare la questione. Forse avrebbero dovuto lasciarla così com’era, in quel limbo antipatico e rigido ma stranamente sicuro, con la certezza che le cose non sarebbero state definite in alcun modo mantenendo la loro amicizia intatta.
 
Lo aveva pensato spesso: forse era stato tutto un errore.
 
“Devo prendere una cosa.” Sentì mugugnare Motoya, adoperandosi a cercare nelle mille tasche del suo cappotto appeso all’attaccapanni. “È qualcosa di importante.”
 
Osamu deglutì il suo boccone rumorosamente, allargandosi il colletto della maglia per il calore del brodo che lo aveva investito di getto. “Non starai cercando di ucciderci, vero?” Chiese con voce cruda e Suna non era sicuro fosse dovuto solo al liquido troppo caldo.
 
“Una pistola non entra in una tasca.” Mormorò, cercando di spezzare la tensione. Osamu gli scoccò un’occhiata saputa dall’alto della sua nulla esperienza per thriller e polizieschi. “Non nelle sue, almeno.” Convenne allora Suna e questo sembrò essere accettato.
 
Motoya tornò indietro e Suna occhieggiò le sue mani. Niente pistola. Erano salvi.
 
Lo vide sospirare profondamente e poi guardarli. Nei suoi occhi c’era una fermezza precisa che fece scattare i suoi campanelli di allarme come fossero impazziti. “Ragazzi, ho pensato.”  
 
Non erano salvi per niente.
 
Quelle erano le ultime parole che stava aspettando ed avevano il potere di gelargli il sangue nelle vene. Poteva sentirlo vagare ghiacciato, circolare lento prima nelle braccia, poi nel petto, bloccandogli i polmoni con un respiro trattenuto. Sentì la mano tremolare, le dita agitate e le strinse forte in un pugno per non renderle visibili.
 
Era presto, pensò. Non era pronto.
 
Avevano decisamente fatto un errore.
 
Sentì il panico inondarlo, mille pensieri al secondo che gli investivano il cervello e nessuno che spiccasse con chiarezza, una confusione di domande agitate e rumore bianco.
 
Lui e Osamu avrebbero dovuto farsi gli affari propri, continuare la loro relazione magnifica e non andare avanti con … con … con cosa? Qualcosa di impossibile, ecco.
 
Impossibile, perché chi diavolo avrebbe accettato una situazione del genere? Motoya stava cercando di scapparne, per Dio, cercava qualcuno che non fossero loro, farsi una vita con una persona sola che gli avrebbe dato tutto, perché se lo meritava, si meritava tutto il bello di questo mondo.
 
Gli arrivò un colpo al fianco e si risvegliò dai suoi pensieri di botto. Alzò la testa che non si era accorto di aver abbassato, battendo le palpebre piano e lento, la vista piena di Osamu intento a guardarlo serio e di Motoya con un debole sorriso sulle labbra.
 
“Ho riflettuto tanto.” Disse morbidamente Motoya, la mano sul tavolo stretta in un pugno. “Sono mesi che penso. Perché, nonostante quello di cui siete convinti, tengo tantissimo a voi.”
 
“Quindi?” Chiese Osamu e la sua posa era cambiata. Si era appoggiato allo schienale della sedia, aveva adagiato le mani sulla pancia e sul viso c’era la solita espressione scazzata: palpebre pesanti e occhi un po’ vuoti.
 
Suna lo conosceva come le sue tasche e quella era la classica facciata che metteva su nei momenti critici. Dentro, ne era sicuro, stava tremando quanto lui.
 
Motoya si morse forte l’angolo delle labbra e abbassò lo sguardo sulla sua mano. La aprì e dentro c’erano due chiavi.
 
Non capì subito cosa stesse guardando. Non aveva ben presente, in un primo momento, a cosa servissero e perché le tenesse lì, adagiate sul suo palmo leggermente sudato. Poi, Motoya parlò e le cose si fecero ancora più complicate. “Ho deciso di trasferirmi.”
 
Cazzo. Cazzo cazzo cazzo cazzo. Avevano rovinato ogni cosa, sarebbe andato via e tutto sarebbe cambiato.
 
Suna si passò una mano tra i capelli, un sospiro scontento e tremante che gli usciva dal naso.
 
Non doveva andare così. Non doveva assolutamente andare così.
 
Era tutto sbagliato, tutto sbagliato, tutto sbagliato.
 
Se lo ripeté come un mantra. Tutto sbagliato, tutto sbagliato. Non riusciva a pensare ad altro che a quelle parole, una maledizione continua e perentoria.
 
Spostò lo sguardo di lato, guardando il profilo di Osamu pensando di trovarlo distrutto come lui.
 
Ma Osamu era furioso. Lo vedeva nel lampi nelle sue pupille, nelle narici strette e le labbra schiacciate tra loro. “Perché?” Sibilò a bassa voce e Suna alzò preoccupato gli occhi su Motoya.
 
Stava sorridendo.
 
Era solare, era spensierato, era divertito. Era come al solito, allegramente sicuro di sé stesso. Perché?
 
“Se te le dico, smetterai di ringhiare?” Cinguettò, facendo slittare con un colpo le chiavi fino al centro del tavolo. Nessuno di loro due allungò la mano per prenderle. “E tu di tremare, davvero Rin, calmati. E respira, non c’è niente di preoccupante.”
 
Non si era accorto di aver trattenuto il respiro così a lungo finché non dovette pensare di liberare i polmoni. Samu agganciò una gamba con la sua e il contatto fermo  e un po’ duro lo portò a rilassarsi, a riconnettersi. Faceva un po’ male, perché Samu non era delicato con queste cose, ma gli serviva.
 
Samu sapeva sempre cosa gli serviva.
 
“Ragazzi, questa cosa è grossa.” Iniziò Motoya piano. “E mi sono distrutto il cervello per riuscire a cercare qualcosa di sbagliato a cui potevo appigliarmi. Qualsiasi cosa, anche la più stupida.” Tamburellò le dita sul tavolo e il sorriso divenne più ampio, più bello. Li guardò con un calore così forte, così potente, che riuscì a sentirlo sulla pelle e sembrò attenuare leggermente l’agitazione che l’aveva invaso.“Non ci sono riuscito. Non ne ho trovata nemmeno una. A parte quelle ovvie, ma pensandoci bene è più un problema di altri che mio. E diciamocelo, degli altri non me ne è mai fregato niente.”
 
Ma si trasferiva.
 
Si trasferiva, cavolo, quindi doveva per forza aver trovato un qualcosa che non andava bene, qualcosa che non voleva affrontare o per cui non aveva forza o coraggio o chissà cosa.
 
Perché cazzo si trasferiva?
 
“Siete stati molto carini a concedermi il tempo che mi serviva. Meno a farmi sentire tutto il sesso bollente che fate in camera.”
 
“Ha funzionato?” Domandò Osamu e Suna si girò a guardarlo, vedendolo calmo e sornione e non capiva come potesse aver potuto cambiare stato d’animo dopo solo una manciata di secondi. La presa sulla sua gamba, però, lo stava schiacciando, e solo da lì seppe che era tutta facciata.
 
“Altroché, sono curioso di cosa hai fatto ieri a Rin a circa sette minuti dall’inizio.” Chiocciò Motoya e Osamu ridacchiò. “È uscito un suono che mi ha decisamente interessato.”
 
“Cazzo.” Sibilò Suna, ma stranamente sentiva l’inizio di una risata in gola e scosse la testa per non farsi vedere divertito. “Non dovevi essere in casa.” Si sentiva più calmo, adesso. Le dita avevano bloccato il loro tremolio e si fidò di lasciarle libere dalla stretta che si era imposto.
 
“Sono rientrato quasi subito, avevo deciso di affrontare la questione ma avevate cose più divertenti da fare.”
 
“Potevi unirti.” Sorrise Osamu. “Fidati, non ti avremmo per niente cacciato.”
 
“Oh, lo immagino. Ma, ecco, forse è meglio parlare prima di fare qualcosa.” Stette zitto per un paio di secondi. “Ho comunque contribuito a modo mio.”
 
“Quindi non erano i vicini, stavolta.” Mormorò Suna con un pallido ghigno. “Mi sembrava troppo forte.”
 
“Oh no, ero totalmente io!”
 
“Non li sento da un po’, adesso che ci penso.”
 
Motoya si passò la lingua sul labbro inferiore. “A tal proposito, dobbiamo rendere la situazione meno opprimente.” Cominciò a spiegare e stavolta l’ansia che sentiva era solo una patina, solo un accenno di insicurezza. “Devo renderci liberi di agire come credete e come credo io. E andarmene da qua è la soluzione migliore.”
 
Prese un respiro profondo, mise su un ghigno dispettoso e disse. “Voglio che mi corteggiate.”
 
Se Suna scoppiò a ridere, Osamu batté le palpebre allibito. “E questi mesi cosa avremmo fatto?”
 
“Oh, è facile farlo quando cerco di darvi spazio e vedendomi girare in mutande dentro la stessa casa.” Il luccichio negli occhi di Motoya era malvagio e sentì Samu sbuffare. “Fatelo come se fossi un tizio qualunque che avete incontrato qualche tempo fa. Rimanete in questo stesso appartamento, scopate quando volete, pensate al mio strabiliante fascino sotto la doccia …”
 
“Quello già lo facciamo.” Lo informò Suna piacevolmente. Motoya non si scompose. “Perfetto, fatelo di più. Fatevelo a vicenda.”
 
“Quello lo dobbiamo provare.” Gli sussurrò forte Osamu.
 
“Ma siete una coppia da anni, state facendo di tutto per riunirvi e siete pronti per una convivenza.” Suna lo vide mordere il labbro un po’ insicuro. “ Io no. Non voglio cominciare qualcosa di così serio quando non sappiamo nemmeno se funzioneranno le cose più stupide.”
 
“Tutti questi anni …” Iniziò Osamu ma Motoya lo sbloccò.
 
“Tutti questi anni non ero niente per voi, solo il coinquilino di Rin.” Vide Osamu rimanere fermo per un secondo e poi annuire, accettando. “Voglio uscire con voi, voglio conoscervi dentro e fuori, voglio avere il tempo di fantasticare su come apparite quando siete incazzati, al mattino dentro al letto, come siete nudi e insieme, voglio sapere le cose belle e le cose brutte. Voglio una relazione.”
 
“Allora esci con noi.” Mormorò Suna ed era davvero felice. Scosse la gamba ingabbiata, non sopportando più la pressione e Samu lo liberò, sentendolo finalmente calmo. “Andiamo da qualche parte che ti piace o che piace a me o a Samu, andiamo al karaoke.”
 
“Tu odi il karaoke.” Ridacchiò Motoya.
 
“Tutti noi odiamo il karaoke.” Borbottò Osamu con un sorriso.
 
“E allora decidete voi dove cazzo andare, ma facciamo questo appuntamento.” Prese un sospiro tremante, ma stavolta era pura anticipazione. “Toya, questa cosa è nuova anche per noi. Ci sei praticamente entrato in scivolata sul crociato, ti rendi conto di quanto è stato terrificante? Samu ha pianto!”
 
“Sì, certo, buttiamo la merda su di me.” Brontolò Osamu.
 
“Samu piange un po’ troppo questo periodo.” Lo prese in giro Motoya.
 
“Siete due stronzi e non voglio più giocare con voi.” Osamu si alzò tra le risate di Motoya e Suna, aprendo il frigorifero. “Invece di darmi il tormento, dicci dove ti dobbiamo venire a prendere.”
 
“È lontano?” Domandò Suna, versandosi un bicchiere d’acqua.
 
Il sogghigno di Motoya si allargò. “Due passi contati.”
 
 
*
 
 
“Quindi abita alla porta accanto? Cioè, esci da lì e te lo ritrovi davanti?”
 
“Già.”
 
“Comodo così.”
 
Osamu scoccò a suo fratello uno sguardo omicida, vedendolo entrare nel locale e spalmarsi sul bancone con le braccia a mo’ di stella marina, la guancia schiacciata sul piano in legno.
 
Lasciò cadere la cassa che tratteneva sul bancone con un tonfo pesante a qualche millimetro dalle sue dita spalancate. Nemmeno un tremito, nessuno spasmo, cieca fiducia nel non distruggere le sue armi di lavoro. O, forse, era semplicemente stanco.
 
Il Kurowashiki mieteva vittime ogni anno. Per la prima volta da quando aveva aperto il ristorante, Osamu aveva potuto unire l’utile e il dilettevole come sponsor di Sakusa per tutti i giorni previsti, godendo in maniera quasi orgasmica per la visione in prima linea della rovinosa caduta di culo di suo fratello di quella sera, avvenuta immediatamente dopo aver fatto il figo senza diritto, il tutto mentre i suoi onigiri terminavano nei suoi espositori e finivano tra le fauci goduriose dei clienti alla velocità della luce.
 
Caduta di culo metaforica, ovviamente. Mancava solo fosse reale e quella sarebbe stata la giornata migliore della sua vita.
 
“Perché sei qua e non da Sakusa?” Si costrinse a chiedere, perché non voleva avere a che fare con il broncio di Atsumu dopo una sconfitta. Era compito di Sakusa, quello, se ne era preso la responsabilità diretta nel momento in cui aveva deciso che uscire con suo fratello non era poi un’idea così malvagia.
 
Atsumu si rabbuiò. “Omi mi ha cacciato.”
 
Davvero, non stentava a crederlo.
 
Sakusa era uscito dal campo con un’espressione talmente nera che non ebbe il coraggio di prenderlo in giro o cercare di tirarlo su di morale. Perdere contro gli Adlers era stato pesante e Sakusa aveva più di un conto aperto con Ushiwaka.
 
Sakusa aveva salutato lui e Inoue-san con un secco cenno del capo, poi si era allontanato verso lo spogliatoio con gli occhi fissi davanti a sé, la mente ancora concentrata sulla partita.
 
“Ha chiesto all’allenatore i video di oggi.” Spiegò Atsumu con tono cupo. “Si è messo in pigiama, si è messo una di quelle sue maschere di bellezza in faccia, si è preso quel barattolo di umeboshi che continui a riempirgli e ha programmato di vedersi la partita in loop finché non avrà finito di segarsi su Ushiwaka, probabilmente.” La guancia schiacciata non bloccava suo fratello dal borbottare ininterrottamente, per sua sfortuna. La gelosia immotivata era solo la ciliegina finale su una giornata di merda.
 
“Non potevi vederla con lui?”
 
“Ci ho provato.” Mugugnò scontento. “Appena ho cominciato a prendere in giro Tobio-kun per quei capelli da sfigato che si è fatto, mi ha detto che lo disturbavo e mi ha ordinato di tornarmene a casa mia.”
 
A Sakusa invidiava solo il fatto che riusciva a farsi ascoltare da Atsumu nonostante tutto. Avrebbe potuto sibilargli sgarbatamente di andare a contare i chicchi di riso nel campo infinito di Kita-san ed Atsumu ci si sarebbe fiondato, borbottando e lamentandosi, ma comunque facendolo contento fino allo schifo.
 
Osamu sospirò. Sarebbe piaciuto anche a lui quel superpotere. 
 
Invece no, era costretto a sentirlo lanciare maledizioni contro Hoshiumi e i suoi salti contro natura.
 
“Almeno renditi utile, idiota.” Osamu gli diede un calcio che quasi lo fece slittare fuori dallo sgabello. “Aiutami a scaricare la roba.”
 
“Sono stanco. E avevo in programma di consolarmi con Omi.” La sua faccia si rabbuiò ancora di più. “Non voglio aiutarti, voglio una maschera al cetriolo.”
 
“Il tempo che scarichiamo la roba Sakusa sarà abbastanza calmo da potertene andare affanculo da lui, quindi alza il culo.”
 
“Stronzo.” Bofonchiò, ma si avviò verso il furgoncino refrigerato che aveva comprato qualche tempo prima e che gli stava salvando la vita. “Perché hai mandato via Inoue-san?”
 
“Perché il suo orario era finito da un pezzo e non ho l’hobby di sequestrare il personale.”
 
Osamu vide suo fratello fare una smorfia nel prendere uno scatolone. Forse gli doleva qualcosa, pensò un pizzico preoccupato. Sembrava la spalla destra, almeno da come caricava il lato opposto. “Tutto ok?” Domandò, perché era uno stronzo ma non voleva che Atsumu si sforzasse troppo dopo una partita di quel calibro. “Dai, sono due scatole, posso farlo io.”
 
“Non ho niente, sto solo pensando.” Borbottò e Osamu capì tutto. “Ancora quella battuta?”
 
“Non riesco a capire cosa sbaglio.” Ammise, poggiando il carico per terra. “Ci passo quasi tutte le ore di extra, sto diventando scemo.”
 
“Hai pensato di riprenderti? Per avere una visione esterna.”
 
“Sì, Bokkun ha fatto un video col cellulare.” Sospirò, sedendosi di nuovo sullo sgabello e passandosi una mano tra i capelli. “Non ne vengo a capo.”
 
“Forse devi solo insistere.” Osamu sorrise strofinandosi la faccia con gesti stanchi. “Con la float ha funzionato.”
 
“O non sarò mai capace.” Mugugnò Atsumu nel pieno del suo umore nero. “E quella palla del cazzo non aiuta.”
 
“Giochi da cinquant’anni da professionista, ti dovrai abituare prima o poi.”
 
“Parli bene tu, devo essere all’altezza di quei mostri. Non posso sbagliare.” Si portò una mano sulla spalla, massaggiandola con pressione forte.
 
Atsumu era fatto così, si lamentava in continuazione ma si immergeva nel suo compito con l’unico obiettivo di risolvere qualunque cosa gli si parasse davanti.
 
Ad Osamu piaceva essere quello con cui suo fratello si sfogava, si lamentava, si scopriva. Lo riportava ai tempi dei letti a castello, dove i segreti e le preoccupazioni venivano fuori a luci spente, tra un calcio al materasso di sopra e una scoreggia tirata a tradimento.
 
Erano cresciuti, ma alcune cose non cambiavano mai. Ci sarebbe sempre stato il pensiero che veniva fuori solo tra di loro e che gli altri potevano solo scorgere, se abbastanza bravi a leggerli. Fortunatamente, si erano trovati dei ragazzi a cui piaceva fingere di non interessarsi, ma che sapevano prenderli come nessun altro.
 
Squillò il cellulare e Atsumu allungò il collo. “È Omi.” Mormorò prendendolo svelto, confermando senza volerlo il suo pensiero. Una sola occhiata alla sua faccia e ad Osamu vennero le carie. “Dimmi che non ti ha mandato nudi.” Si lamentò, chiudendo il furgone e bloccando la porta del ristorante.
 
Atsumu si morse il labbro e le guance gli si fecero più rosee. Doveva essere roba schifosa, quella. “Mi ha mandato un pezzo del video del mio allenamento.” Girò il telefonino verso di lui e sì, Sakusa era decisamente partito per suo fratello. “Dice che devo rallentare l’alzata.”
 
Osamu guardò critico quel video sgranato, vedendo Atsumu lanciare in aria la palla e saltare di getto, quasi senza respiro. Fece una smorfia, perché quello era stato l’approccio tipo di Atsumu per ogni cosa, dalla float studiata agli esperimenti fatti direttamente in partita. “Ha ragione.” Approvò, guardandolo male. “Perché tanta fretta?”
 
“Quattro passi per un cannone mi mette ansia, ok?” Blaterò, cominciando a rispondere con qualcosa con troppi cuori e melanzane per essere accettata dai suoi occhi innocenti. “Non riesco a rallentare, sento che non ci arriverò se sono troppo lento.”
 
“Provaci comunque.” La risposta ringhiata non incontrò la replica astiosa sicura di suo fratello, ma un sorrisone e degli occhi lucidi che non riuscivano ad andare via. Osamu sospirò. “Sistemo qua, mi accompagni a casa e torni da lui, ok?”
 
“Non mi vuole, lo distraggo.” Mormorò rimettendosi il cellulare in tasca.
 
“Tsumu, era incazzato. L’hai visto.”
 
“Lo ero anche io, ma non l’ho cacciato via.”
 
“Ci mancherebbe, era casa sua.” Sistemò i sacchi di riso dietro il bancone con uno sbuffo affaticato, poi si appoggiò sul piano con i gomiti. “Senti, lo sai che è in fissa con Ushiwaka, è entrato da titolare praticamente oggi. Dagli tregua.”
 
Atsumu lo guardò con gli occhi stretti. “Da quando lo difendi?”
 
“Dal momento in cui ti tiene lontano da me.” Sogghignò davanti il suo sguardo truce. “Se non ti avesse voluto, non avrebbe cominciato a vedere i tuoi video di allenamento, no?”
 
Atsumu fece una smorfia. “Si stava annoiando.”
 
“Danno le repliche di quel k-drama che segue, a quest’ora.” Rispose velocemente prendendo le chiavi del locale. “Col cazzo che l’avrebbe perso per te se si annoiava.”
 
 “Avrà letto le anticipazioni su qualche sito.” Bofonchiò, ma la sua convinzione stava cedendo.
 
“Odia Kyung-Soon con tutto sé stesso, ti pare che non l’avrebbe insultata in diretta?”
 
Atsumu si girò lentamente a guardarlo, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta. Osamu aggrottò lo sguardo. “Che c’è?”
 
“Conosci i nomi dei personaggi.” Sussurrò quasi mentre un lento sorriso gli tirava gli angoli della bocca.
 
Cazzo, l’aveva scoperto.
 
“Ti sbagli.” Disse svelto guardandosi attorno per qualcosa da mettere a posto, la faccia che stava diventando calda.
 
“Lo vedi anche tu!” E scoppiò a ridere, additandolo neanche avesse cinque anni.
 
“Stai zitto! Non è vero!”
 
“Oh mio Dio, è il drama più sconclusionato del mondo, come fa a piacerti?”
 
“Senti, lo vedono Rin e Toya, ok?” Spiegò con tono agitato, passandosi le mani tra i capelli. “Stanno sempre con quella roba in tv, ti giuro, sembra che non passino altro!”
 
“Il cuoco ha perso l’olfatto! Il cuoco! Tra tutte le persone!” Si asciugò una lacrima, continuando a sghignazzare. “Ti sembra normale?”
 
“È scientificamente valido, ha avuto un colpo forte sul naso e …” Atsumu cominciò a singhiozzare veramente  scuotendo la testa e Osamu stava sentendo la testa in fiamme. “Non giudicare! Mi ero preoccupato, e se succedesse a me?”
 
“Cazzo, è la cosa più divertente del mondo!” Lo vide ansimare, praticamente piangendo. “Non riesco a respirare!”
 
“Fosse vero.” Sibilò Osamu con gli occhi stretti. Lo abbandonò nel suo stato degenerato, sistemando gli scatoloni nel magazzino e chiudendo tutte le finestre del locale. Quando tornò, diversi minuti dopo, Atsumu si era ripreso, anche se dei piccoli scoppi di risate si facevano vivi ad intermittenza.
 
“Hai finito?” Domandò retorico.
 
“Ho finito.” Assicurò Atsumu con ancora un sorriso enorme in bocca. “Chiuso tutto?”
 
“Hai un musone da consolare e ho un appuntamento in cam.” Uscì  dal ristorante e lo guardò malissimo. “Sbrigati!”
 
Atsumu scosse la testa, afferrando le chiavi della macchina dalla giacca. “Potevi dirlo subito che non mi volevi a casa.”
 
 
*
 
 
“Hai preso gli onigiri per Hinata?”
 
“Li ho qua davanti.” Inoue-san, seduto sul sedile del passeggero, alzò la borsa termica sistemata ai suoi piedi. “Eccoli.”
 
“E quelli di Bokuto per Akaashi-san? Dice che oggi deve venire.”
 
“Erano un po’ di più, li ho sistemati nel retro.”
 
“Ci sono tutti gli ingredienti? Gli onigiri già pronti? Il riso? Secondo te può bastare? La vaporiera si trova tra i sacchi, ma forse dovrei prenderne una più grande per la prossima volta e …”
 
“Capo, calmati.” Kaneko-kun lo guardò da sotto la sua frangia, le palpebre abbassate in un atteggiamento strafottente e un sorriso pigro sul viso. “Prenditi due gocce di valeriana.”
 
Osamu spostò l’attenzione su di lei, socchiudendo gli occhi per studiarla e sperare di metterle un po’ di terrore, inutilmente. “Hai iniziato le preparazioni?”
 
“Ovviamente no, vuoi che vada tutto a fuoco mentre parlo con te?”
 
 “Fila in cucina.” Sibilò con il solo effetto di farla scoppiare a ridere.
 
Fino a quel momento aveva seguito Sakusa in tutte le partite che aveva giocato da titolare. Ma, da quando Sakusa era entrato nei MSBY Black Jackals, non c’erano stati scontri al di fuori della città, per cui quell’animosità di “trasferta” era stata molto più tranquilla e rilassata.
 
Osamu aveva potuto prendere uno stand (in un punto così fottutamente buono che aveva potuto vedere addirittura le gocce di sudore sulla pelle dei giocatori) solo durante il Kurowashiki che, però, si teneva ad Osaka, a qualche centinaia di metri dal suo ristorante.
 
Quel giorno si era svegliato, al solito, ad un’ora empia del mattino, aveva fatto il giro dei fornitori, era andato a sfogare la sua agitazione al mercato del pesce, facendo a gara a chi urlava di più in quel covo di malati mentali, e adesso si trovava davanti il suo ristorante, ancora chiusa al pubblico, pronto a fare il punto della situazione.
 
Osamu e Inoue-san avrebbero viaggiato fino a Sendai, dove sarebbe iniziato il campionato della V. League.
 
Schweiden Adlers vs MSBY Black Jackals. Un’inaugurazione col botto.
 
Era a dir poco eccitato. E anche fottutamente nervoso, come carinamente gli aveva fatto intendere Kaneko-kun.
 
“Ho tagliato tutto il tagliabile. Carote, rafano, salmone, spigola.” Chiocciò Kaneko-kun contando sulle dita. “Mi manca il tonno, ma l’hai portato poco fa, e devo cuocere il riso, ma Yucchan ha un po’ paura della vaporiera e non volevo abbandonarlo al suo destino.”
 
“Fa rumori strani!” Si difese l’ultimo acquisto nella famiglia Onigiri Miya, Oshiro Yuma, un energumeno stranamente terrorizzato da qualsiasi cosa producesse un suono che non lo convinceva. Era davvero molto gentile ed efficiente e la sua stazza rivaleggiava e batteva quella di Sakusa. Aveva dovuto ammetterlo, era utile qualcuno che potesse appianare gli animi più impetuosi con la sua sola presenza ingombrante.
 
Ed era molto più tranquillo a lasciare Kaneko-kun con qualcuno che la potesse difendere senza problemi. Non che non ci riuscisse da sola, ma a volte aveva la lingua più veloce delle mani ed era meglio mettere qualcuno come Oshiro-kun a farle da scudo.
 
“È una vaporiera, Yucchan, sibila un pochino.”
 
“Non è normale!”
 
“Dovrei fidarmi a lasciarli così e andarmene fino a Sendai?” Chiese retorico Osamu a Inoue-san, che li guardava ridacchiando.
 
“Ho cambiato l’appuntamento con il barbiere per questo, direi di sì.” Rispose Inoue-san, che si era rivelato sempre più sfacciato man mano che si andava avanti con gli anni.
 
Osamu caricò gli ultimi ingredienti nel retro del furgone refrigerato, controllandone l’equilibrio e la sicurezza, perché avrebbe sicuramente ammazzato qualcuno se fosse caduto qualcosa. “Non rispondere male ai clienti.” Cominciò ad avvertire, la testa ancora dentro il furgone.
 
“Osamu-san, non l’ho mai fatto.” Il tono di voce di Oshiro-kun era preoccupatissimo. “L’ho fatto e non me ne sono accorto? Giuro, non volevo!”
 
“Ce l’ho con lei.” Rispose piatto Osamu affacciandosi, scoccando un’occhiata laterale ad un’impudente Kaneko-kun. “Niente parolacce.”
 
“Andiamo, questa è cattiveria!” Si lamentò Kaneko-kun sbuffando. “E se mi faccio male? Sai che imprecare aiuta ad affrontare il dolore?”
 
“Perché dovresti farti male?” Domandò Inoue-san incuriosito.
 
“Niente parolacce.” Insistette categorico Osamu con un ultimo sguardo al carico. Sospirando, chiuse lo sportello con un tonfo. “Attenti ad Ojiisan, il suo posto è quello vicino il muro, davanti la televisione. Sua moglie ci ha avvertiti, tre onigiri come vuole e poi potete inondarlo di edamame. Niente alcolici.”
 
“Posso guardare il drama con lui?” Domandò Oshiro-kun speranzoso. “Sta succedendo qualcosa alla signora cattiva, stiamo scommettendo se è stata avvelenata.”
 
Osamu sibilò un “No.” mentre Inoue-san chiocciò “Oooh, mandami un messaggio!”. Osamu aveva voglia di fare una strage.
 
Salì nel furgoncino e inserì le chiavi, mettendo in moto con lo sportello ancora aperto. “Ragazzi, per ogni problema ho il cellulare vicino.”
 
“Capo, ho una richiesta importantissima.” Kaneko-kun si avvicinò e la vide seria come non lo era mai stata. Osamu le prestò attenzione seriamente preoccupato. “Mandami tantissime foto di Sakusa-kun, voglio qualcosa autografata da lui.”
 
“Lo vedi tutti i giorni!” Ridacchiò Inoue-san mentre Osamu le scoccava uno sguardo talmente cattivo che Oshiro-kun si ritrasse istintivamente. Sbatté lo sportello più forte del necessario per segnare un punto. Kaneko-kun non lo colse.
 
“Non lo vedrò a Sendai, magari là è più figo del solito.” Spiegò convincente. “Digli di scrivere ‘Ad Hoshi-kun, il tuo sorriso splende nel mio cuore anche quando non ci sei. Sposami.’”
 
“Penso tu voglia veramente morire per mano di Atsumu-san.” Intervenne placidamente Oshiro-kun, guardandola come se le fossero spuntate le antenne.
 
“Hai ragione.” Convenne lei con tono ragionevole. “Togli ‘Sposami.’ e metti ‘Ti aspetto stasera. Nudo.’ Fai in modo che Atsumu ascolti tutto. Vuoi che te lo scriva?”
 
“Partiamo prima che decida di investirla e ripassarle sopra in retromarcia.” Sibilò Osamu mettendo la prima. Inoue-san lo vide divertito e più rilassato, quindi si sistemò sul sedile con un sorriso soddisfatto. “Non fate casino.” Avvertì Osamu cominciando a muoversi. “Ci vediamo domani.”
 
La strada era chiara delle prime luci del sole e Osamu si ritrovò a sorridere.
 
Pensò a suo fratello e al suo praticamente cognato. Pensò a Bokuto, ad Hinata, a tutta la squadra.
 
Ridacchiò, entrando nella strada principale, i raggi del sole che invadevano il paesaggio.
 
Era una bella giornata per vincere.
 
 
*
 
 
Le mattine fresche e luminose erano sempre di buon auspicio.
 
I raggi del sole filtravano timidi alle prime ore del giorno, rischiarando la notte di colori rossastri che tingevano il buio di viola e rosa, colpivano le nuvole scure facendole d’oro, allungavano le ombre e le rendevano dense, entravano nelle stanze dalle finestre e lo avvertivano della splendida giornata all’orizzonte.
 
L’aria frizzante di ottobre rendeva tutto più suggestivo, entrandogli nelle narici e riempiendolo di vita e bellezza. Era fresca, era pulita dallo smog del giorno, era carica delle prime essenze autunnali.
 
“Sentite.” Disse Atsumu appassionato inspirando a pieni polmoni. Bokuto e Hinata lo imitarono, allargando il petto per raccogliere quanto più vento possibile. “Sentite bene l’autunno.”
 
“Tsumu-san, è così bello.” Mormorò estatico Hinata, la pelle dorata d’abbronzatura che sembrava brillare.
 
“Assapora, Shou-kun. È l’odore della vittoria.”
 
“È l’odore di foglie morte in decomposizione.” Li informò piatto Sakusa facendo scoppiare a ridere Bokuto.
 
Atsumu si girò a guardarlo malissimo. “Devi rovinare tutto.”
 
“È ottobre.” Spiegò semplicemente mentre Bokuto annuiva. “Lo dice sempre anche Akaashi.”
 
“Sono nato ad ottobre.” Il lento ghigno di Hinata e Bokuto, seguito dallo sguardo impassibile di Sakusa lo mandò in bestia. “Quando cazzo partiamo?” Si ritrovò a domandare con un ringhio a Meian-san, che lo guardò divertito.
 
Erano davanti il pullman dei Black Jackals da secoli, ormai.
 
Si era dovuto sorbire il suo ragazzo rispondere a mugugni e minacce perché odiava svegliarsi presto e non aveva ancora preso il suo caffè per diventare l’essere umano stronzo che tutti conoscevano, ci aveva messo venti minuti per trovare un cazzo di parcheggio inesistente, perché era un’ora infame e la gente era ancora nel magico mondo dei sogni, aveva già fame perché qualsiasi viaggio gli apriva lo stomaco in modo disturbante e si era beccato cinque foto da uno sghignazzante Wan-san prima che qualcuno lo avvertisse di avere uno sbuffo di dentifricio secco sulla guancia.
 
Omi gli si avvicinò, infagottato nel suo cappotto firmato MSBY Black Jackals, toccandolo leggero con il gomito, le mani affondate in profondità nelle tasche. “Non agitarti.” Cercò di calmarlo con un sorriso leggero. “Ti ho portato un po’ di snack per il viaggio.”
 
Atsumu sentì un moto di affetto inondarlo.
 
Come faceva a non amarlo?
 
“Oooh, ci sono anche per me?” Domandò Bokuto, sentendo quelle parole con il suo udito sovrannaturale.
 
“No.” Rispose secco Omi con un cipiglio profondo.
 
Bokuto si vendicò. “Capitano! Stanno di nuovo facendo i piccioncini!”
 
“Fottuta spia.” Sibilò Atsumu tirando fuori dalla tasca la mano congelata del suo ragazzo e mettendola in quella del suo cappotto, scaldandola con il suo calore naturale. “Capitano, non dargli retta! È solo geloso perché il suo ragazzo è a Tokyo!”
 
“La smettete di urlare?” Li rimproverò Meian. “Filate dentro, tra cinque minuti si parte.”
 
“Akaashi verrà a vedermi giocare e lo sai benissimo.” Ridacchiò Bokuto prendendo subito posto. Hinata si sedette accanto a lui.
 
“Vedrà quante volte sbaglierai in battuta.”
 
“Vedrà il tuo ridicolo Bokuto Beam.” Lo appoggiò Omi facendolo sedere vicino al finestrino, perché lui non lo avrebbe toccato nemmeno se pagato. “Perché dovevi chiamarlo in modo così stupido?”
 
“Omi-san, non essere invidioso.” Disse Hinata con un sorriso, facendolo scurire per l’insinuazione. “Puoi nominare anche tu una tua schiacciata.”
 
“Non voglio farlo.”
 
“Non ha fantasia.” Spiegò Bokuto prendendo le sue cuffie antirumore.
 
“Ho molta fantasia.” Rispose Omi con tono atono.
 
“Questo è vero.” Intervenì Atsumu e tutti cominciarono a lamentarsi. “Cosa? Non intendevo roba sexy!”
 
“Non ti crede nessuno!” Rispose Tomas facendo ridere mezzo pullman. Omi decise di soprassedere, infagottandosi nel suo plaid personale e facendo finta che Atsumu fosse rimasto in silenzio, ormai abituato. “Tanto non riuscirai comunque a fare un ace.” Mormorò da sotto lo strato di pile, facendo rizzare le orecchie agli altri tre mostri.
 
“Omi, cosa ti dà questa sicurezza?” Domandò Atsumu carico.
 
“Scommetto che riuscirò a fare un ace prima di tutti.” Lo sfidò Bokuto affacciandosi dal sedile.
 
“Sarò io che batterò tutti voi.” Promise Hinata eccitato.
 
“Pensate quello che vi pare.” Borbottò Omi mettendosi la mascherina sugli occhi. “In battuta partite in sordina e non siete costanti, pulirò il campo con la vostra faccia incazzata.”
 
“Lo vedremo!” Esclamarono Bokuto e Hinata, dandosi il cinque.
 
“Ci sto!” Atsumu ghignò, pregustando il broncio di Omi quando avrebbe fatto punto sotto il suo naso. “Non venire a piangere quando ti umilierò.”
 
 “Ti piacerebbe.”
 
Il motore del pullman rombò e Atsumu vide Bokuto sistemarsi sul suo sedile, le cuffie antirumore infilate con cura, e Omi accoccolarsi sotto il plaid come un gattone, uno sbuffo che uscì dal naso e la bocca serrata. Tempo cinque minuti e, ormai lo sapeva, si sarebbero addormentati entrambi come bambini.
 
Atsumu guardò fuori dal finestrino, la città illuminata dalla luce pallida dell’alba e la vita che stava cominciando ad invadere le vie.
 
Sì, si disse, le mattine luminose erano di buon auspicio.
 
Era una bella giornata per vincere.
 
 
***
 
Salve a tutti!
 
Un’unica nota: il cuoco che perde l’olfatto dopo un colpo al viso è successo veramente in una soap che seguivo qualche anno fa. Dal momento che la trovavo esilarante, e la trovo ancora esilarante, l’ho inserita per far capire l’assurdità di k-drama che guardano tutti in questa storia. Se questo fatto offende la sensibilità di qualcuno, avvertitemi anche in privato e provvederò a toglierlo.
 
 
 
Ci siamo, è finita. È stato emozionante, perché per cinque capitoli ci ho messo la bellezza di quasi 11 mesi e dovrei  veramente vergognarmi, ma sono commossa. È la prima storia “seria” (le virgolette sono d’obbligo) che scrivo e vederla arrivare alla fine mi ha leggermente destabilizzata.
 
Ho cominciato a piagnucolare a metà, devo essere sincera.
 
Grazie a tutti, a chi mi ha fatto sapere cosa ne pensava, a chi che ha letto e basta, a chi è passato per sfuggita o per sbaglio, a chi passerà, a tutti!  
 
Un bacione!!!
 
 

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