Le Bizzarre Avventure di JoJo parte 7.1: Dangerous Heritage

di AlsoSprachVelociraptor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Nuove disavventure a Morioh (parte 1) ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Nuove disavventure a Morioh (parte 2) ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Nuove disavventure a Morioh (parte 3) ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Nuove disavventure a Morioh (parte 4) ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Nuove disavventure a Morioh (parte 5) ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Guai alla Città della Moda! (parte 1) ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Guai alla Città della Moda! (parte 2) ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Guai alla Città della Moda! (parte 3) ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 - Guai alla Città della Moda! (parte 4) ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 - Il piano della Banda (parte 1) ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 - Il piano della banda (parte 2) ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 - Il piano della banda (parte 3) ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 - Il piano della Banda (parte 4) ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 - Il piano della Banda (parte 5) ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 - Il piano della Banda (parte 6) ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 - Il piano della Banda (parte 7) ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 - Il piano della Banda (parte 8) ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 - Il piano della Banda (parte 9) ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 - Il volo di Shizuka (parte 1) ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 - Il volo di Shizuka (parte 2) ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 - Il volo di Shizuka (parte 3) ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 - Il volo di Shizuka (parte 4) ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 - Il volo di Shizuka (parte 5) ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 1) ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 2) ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 3) ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 4) ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 5) ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 - Vendetta in Discoteca (parte 1) ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 - Vendetta in Discoteca (parte 2) ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 - Vendetta in Discoteca (parte 3) ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 - Vendetta in Discoteca (parte 4) ***
Capitolo 33: *** Capitolo 33 - Vendetta in Discoteca (parte 5) ***
Capitolo 34: *** Capitolo 34 - Vendetta in Discoteca (parte 6) ***
Capitolo 35: *** Capitolo 35 - Vendetta in Discoteca (parte 7) ***
Capitolo 36: *** Capitolo 36 - Noi e loro, io e te (parte 1) ***
Capitolo 37: *** Capitolo 37 - Noi e loro, io e te (parte 2) ***
Capitolo 38: *** Capitolo 38 - Noi e loro, io e te (parte 3) ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Nuove disavventure a Morioh (parte 1) ***


Capitolo 1 - Nuove disavventure a Morioh (parte 1)

 

Febbraio 2018.

A Morioh è stato da poco riaperto al pubblico il più grande centro commerciale della città, dove diciannove anni prima si trovava un piccolo bar chiamato Deux Magots e appena vicino ad esso un supermarket. 

Le tre ragazze che erano sedute al tavolino del Nouveau Deux Magots non sapevano di questa storia, tuttavia. Solo due di loro esistevano nel 1999, e non erano nella condizione da comprendere cosa significasse quel piccolo bar per gli abitanti della città di Morioh all’epoca, dato che erano solo neonate.

"È una nuova moda dall'Inghilterra, questo brunch?" Chiese la ragazza bionda, l'unica che nel 1999 doveva ancora nascere. Le due ragazze di fronte a lei si lasciarono scappare un vago sorriso, ma solo la più alta delle due, dai capelli di un bianco candido, gli occhi di una sfumatura pallida di rosa e una vistosa coda animalesca che ondeggiava calma tra le gambe della sua sedia rispose. "In realtà li facciamo da qualche anno anche qui in Giappone, ma non ti avevamo mai invitata prima perché avevi scuola."

In effetti la ragazza bionda era l'unica che ancora frequentava le superiori delle tre. L'ultimo anno, il terzo, alle scuole superiori Budoga-oka, le stesse che avevano frequentato i suoi genitori e suo fratello maggiore. Aveva 18 anni, mentre le altre due ne avevano 20 e 21. La ragazza bionda dagli occhi di due colori diversi- uno azzurro e uno castano, sbuffò con finta offesa.

Tutte e tre risero. Ovviamente quel clima gioioso e tranquillo non poteva durare a lungo.

Due ragazze sventolarono le mani in aria, riempiendo il silenzio rilassante di prima con rumore di tacchi sul pavimento nuovo e troppi braccialetti ai polsi che si scontravano tra loro, in quello sbracciarsi tanto esagerato.

"Ma guarda chi c'è!" Gridò una delle due, dai capelli chiari e gli occhi neri e cattivi. Sembrava la capa delle due, la più aggressiva e rumorosa. L'altra stette in silenzio a ridersela alle sue spalle, ben protetta dall’altra, benchè lei fosse molto più alta e spessa della capa, una ragazza decisamente magra e dall’aspetto fragile. "Kawajiri Sachiyo? Non posso crederci che qualcuno esca con te senza vergognarsi, gattina!"

Quella che era rimasta indietro cercò di strappare dalla testa della bionda Sachiyo il cerchietto rosa con le orecchie da gatto da cui non si separava mai.

Presto però il bersaglio delle due bulle virò sulle due amiche di Sachiyo Kawajiri.

"Oh, ma tu sei Mao, quell'albina con la coda! Eri in classe con mia cugina! Che schifo!" disse la capa delle bulle, pestando per sbaglio la coda di Mao.

Altre risate che però non sembrarono scalfire l'ultima delle tre ragazze prese di mira, che era rimasta seduta a sorseggiare il suo earl gray con la svogliatezza e spocchia che erano ben rari lì a Morioh- ma nella città natale della ragazzetta, Liverpool, erano la norma. 

Questo comportamento era inaccettabile per la capa di tutte le bulle della Budoga-oka, Akari Futaba.

"Sachiyo, chi è questa bambina con cui esci? Fai da baby-sitter, ora?"

"Hm, io credo sia quella ragazza inglese strana. Quella figlia del dottore straniero, Joestar qualcosa?" le sussurrò prontamente la sua sottoposta. "Per cui ha vent'anni. Era in terza quando noi eravamo in prima."

Akari si applaudì da sola, sotto lo sguardo poco interessato della silenziosissima ragazza inglese. "Oh! Massí, ora ricordo! La cara JoJo! La piccola, tenera JoJo! Capisci quando parlo, roight? Innit?"

Mao e Sachiyo rimasero immobili. La loro amica continuò a fissare la tazza di thè tra le sue mani attraverso le lenti colorate dei suoi sottili occhiali da sole, senza mai alzare lo sguardo sulle due. Dai suoi occhi blu scuro non si poteva intravedere nessun tipo di paura, e solo un leggero sentimento di fastidio- come se quelle accanto a lei non fossero altro che piccole, fastidiose mosche.

Questo era quello che non voleva la capa delle bulle. Akari afferrò uno dei codini della ragazza e strattonò con tutta la violenza e la rabbia che si celava nel suo corpo, trascinando giù la ragazza inglese, più vecchia ma ben più bassa e delicata di lei. "Sei solo una stronza europea del cazzo! Chi ti credi di essere, mocciosa?!"

La ragazza venne sbilanciata giù dalla sedia e la tazza di thè si infranse sul pavimento del centro commerciale, e la ragazza cadde a sua volta. Mancò poco che Akari iniziasse a prenderla a calci, ma non lo fece solo perché altre persone la stavano guardando spaventati da quel gesto aggressivo.

"Ricordatevi che qua comando io. Io comando ovunque. Ci vediamo lunedì a scuola, Kawajiri."

Mao e Sachiyo non seppero come rispondere a quella violenza ingiustificata. Nessuna delle due era aggressiva o vendicativa, ed entrambe cercavano la pace e la tranquillità.

Mao fece il giro del tavolino per raccattare l'amica che non aveva visto alzarsi, ma si accorse che non c'era più.

Vide solo orme di scarpe macchiate dal the sul pavimento immacolato del centro commerciale, formarsi dal nulla e seguire la pista delle due bulle, appoggiate alla ringhiera delle scale mobili mentre ridacchiavano di altre ragazze.

Accadde tutto in un attimo.

I capelli di Akari vennero strattonati indietro dal nulla. Una forza invisibile premette sulle sue spalle e nel giro di un istante la bulla era oltre il parapetto, caduta nel vuoto della tromba delle scale.

Mao non rimase a guardare la scena. Prese Sachiyo per il polso e la trascinò via, lontana dalla scena del crimine.

Sachiyo rimase a bocca aperta dallo stupore. "Non ci posso credere, l'ha fatto davvero… Shizuka…!"

 

"Non ci posso credere!" Esultò l'uomo dalla carnagione scura e i capelli di due colori, navigando agevolmente nel traffico di Morioh centro con la sua piccola automobile da poco. 

Okuyasu era sempre esagerato, ma era anche l'unico modo che Shizuka aveva per tornare a casa. Odiava le prediche dell'uomo- che era suo vicino di casa, la conosceva da quasi la sua nascita ed era molto intimo col padre di Shizuka, più di quanto lei volesse saperne- ma doveva solo stare zitta e accettare quei venti minuti di tragitto in auto con lui.

Meglio venti minuti di Okuyasu che cercava di farle capire il senso della vita e l'universo piuttosto che un'ora su un'autobus puzzolente e pieno di pezzenti.

"La tizia- quell’errore della natura- non è morta, è solo caduta giù per le scale."

"Caduta o spinta, Shizu?"

Shizuka non rispose. Quella bastarda le aveva rovinato il completo nuovo che aveva comprato poco tempo prima in una boutique a New York. Quel completo valeva più dell'intera vita di quella pidocchiosa bulla, Shizuka era stata anche fin troppo misericordiosa con quella disgustosa inbreed

"Ora quella ragazza è sicuramente in ospedale, e forse nel reparto di tuo padre. E se lei gli dicesse che sei stata tu?"

"Non mi ha visto." Fu la risposta concisa di Shizuka. Papà le aveva detto che "shizuka" vuol dire "silenzio", e il suo carattere mite ma un po' rude e decisamente poco rumoroso era perfetto per quel significato. 

Shizuka aveva usato Achtung Baby, ed era completamente invisibile quando l'aveva fatta inciampare per sbaglio. Nessuno l'avrebbe scoperta.

E poi, anche se papà l'avesse scoperto, non se la sarebbe mai presa con la sua adorata, unica figlia.

Il silenzio che Shizuka agoniava tanto tornò nell'autovettura. 

Okuyasu ci mise poco a romperlo di nuovo, tuttavia.

"Io stavo lavorando, quando mi hai chiamato. Ho mollato il lavoro per venirti a prendere!"

Cosa stavi facendo, potando una siepe? pensò acida Shizuka. Sei un fiorista, non un ingegnere nucleare.

Non rispose. Lasciò che Okuyasu finisse un altro, noioso monologo. Grazie al suo stand Achtung Baby, il palmo della sua mano diventò uno specchio e si guardò per controllare che il suo look non fosse stato troppo rovinato da quell'inconveniente. Non sapeva ancora controllare molto bene il proprio stand e come poteva controllare invisibilità e colori, ma riusciva a diventare invisibile, colorare finti sangue e botte sulla sua pelle e rendere la sua mano un comodo specchietto, e tanto le bastava per ora.

"Non dovevi tornare con le tue amiche?" Continuò inesorabile Okuyasu.

"Mao è scappata via dopo l'incidente con Sachiyo. Mi ha lasciata a piedi."

Codarde del cazzo.

"Tu non avevi una moto?"

Shizuka si lasciò scappare un sospiro di rassegnazione al pensiero della sua defunta moto. Era lilla, il colore preferito di Shizuka, con delle fiamme glitter custom-made sui fianchi. Papà aveva speso un capitale per quella moto. 

"Si è rotta. Papà l'ha mandata a riparare e ci sta mettendo una vita. Bollocks."

La verità è che Shizuka era andata a sbattere e aveva anche sfondato una vetrina. Papà aveva ripagato tutte le spese (più che altro lo shock della proprietaria del negozio), ma la moto era distrutta e aveva deciso di farla riparare piuttosto che prendergliene un'altra. Bollocks. Era una punizione per la sua poca concentrazione alla guida, ne era certa. Perché papà non aveva usato semplicemente i suoi poteri, come li aveva usati per ricostruire la vetrata mandata in frantumi da Shizuka? Era un piano diabolico per punirla ingiustamente, ne era sicura. Utter bollocks!

"Shizuka, forse è ora che tu ti trova un lavoro. Da quando hai finito le scuole superiori non hai iniziato l'università, né hai mai cercato un lavoro. Non dovresti farti pagare tutto da tuo padre, potresti usare i tuoi soldi… Non credi sia ora di dare una svolta alla tua vita?"

Ancora non arrivò nessuna risposta a Okuyasu, e quando si voltò a osservarla, per un istante, vide la stessa espressione di freddo disprezzo che caratterizzava e aveva sempre caratterizzato il padre della ragazza.

"Bollocks." Fu l'unica risposta che Oku ricevette.

Parcheggiò l'auto nel giardino sul retro della grande villa che un tempo era stata dei Nijimura, e ora era una splendida villetta nella periferia ricca di Morioh, divisa in due appartamenti ma con i giardini comunicanti.

Scaricò Shizuka lì, e lei subito si diresse alla sua porta, senza nemmeno ringraziare Okuyasu. A lui non interessava.

"Ci vediamo stasera, allora?" chiese Shizuka, voltandosi un'ultima volta verso il vicino, che stava tornando a piedi al suo negozio di fiori. Shizuka era una ragazza difficile, sotto certi versi, ma a Okuyasu non importava. Andava bene così, era uno sprizzo di vita e gioventù in quella Morioh che sembrava star invecchiare pian piano ma inesorabilmente. 

"Certo, Tonio mi ha insegnato a fare gli spaghetti con le vongole. Tu e Josuke potete venire a cena da me."

Shizuka sorrise con sincerità, annuì e in un turbinio di codini spettinati e gonnelle sporche di thè si chiuse la porta alle spalle e lo salutò con un vago cenno della testa.

 

La vita di Shizuka era stata… complessa. Non difficile da vivere, ma più da accettarla come tale. 

Shizuka era stata ritrovata a Morioh, neonata e abbandonata al suo destino, condannata o forse salvata da quello stand innato che la rendeva completamente invisibile. Fu trovata dall'anziano Joseph Joestar e da suo figlio Josuke nell'estate del 1999, e proprio Joseph se ne prese la responsabilità e la portò a New York. Ma gli anziani Joestar erano troppo avanti con l'età per prendersi cura di lei, e la loro salute stava velocemente degenerando e presto Shizuka divenne un peso per loro, più che un dono. 

Shizuka non li ricordava bene, a dire il vero. Non li aveva quasi mai visti. I primi anni della sua vita erano caratterizzati dal non essere mai nello stesso posto per più di due ore- sempre sballottata a destra e a manca come la pallina di un flipper, passata di mano come un pacco. Assistenti sociali della SPW foundation, baby-sitter varie, parenti lontani. Mai qualcuno di stabile a cui legarsi, tuttavia. Solo una grande confusione di visi nuovi e facce sconosciute che non tornavano più.

Nel 2002 arrivò negli Stati Uniti Josuke, il figlio illegittimo di Joseph, che si prese il compito di badare a quella bambina indifesa e abbandonata più volte. Vi si affezionò anche più di quel che sospettava. A ventuno anni, nel 2004, adottò formalmente Shizuka e le diede una casa stabile- la villa ristrutturata degli antichi Joestar a Liverpool- e un affetto stabile e presente- un padre. 

Shizuka non seppe quasi più nulla di quegli anziani Joestar statunitensi che l'avevano presa da terra e portata a casa come un giocattolo qualunque. Seppe che Suzie era morta, e che Joseph aveva una qualche malattia che lo rendeva completamente incapace di qualsiasi cosa. Josuke era diventato in quegli anni il suo erede legittimo assieme a una certa Holly. Forse Shizuka l'aveva vista una volta o due, non ricordava. Aveva visto solo un paio di volte il figlio di Holly, lo spaventoso Jotaro la cui comparsa non portava mai niente di buono. La notizia della malattia di Joseph, la morte di Suzie o la chiamata a Josuke per fermare l'Apocalisse e quasi rimanerci secco. Shizuka aveva ancora gli incubi, a pensare a quei giorni di marzo del 2012. Inoltre c'era la figlia di Jotaro, la spocchiosa e aggressiva Jolyne. Non le piaceva. L'aveva ignorata tutto il tempo, il giorno in cui l’aveva incontrata.

Josuke era stato sicuramente un padre migliore di Joseph, ma Shizuka era sicura esistessero padri migliori di lui. Padri che avevano più di 15 anni di differenza con i loro figli e padri che facevano altro oltre a studiare e lavorare tutto il giorno. 

Padri che non obbligavano i loro figli da un giorno all'altro, nel 2012, a trasferirsi dalla strabiliante Liverpool alla noiosa e provinciale Morioh.

Padri che salutano quando tornano a casa da lavoro all'ospedale di Morioh.

La porta sul retro sbatté con tanta forza che a Shizuka sembrò che la casa avesse tremato sotto quell'impatto. A passi lunghi, pesanti e ritmati come una marcia di guerra, Josuke Higashikata fece la sua gloriosa entrata in scena, sotto lo sguardo davvero poco stupito di Shizuka, che stava giocando ai videogiochi sul costoso divano di marca in salotto.

"Pa'? Arrabbiato anche oggi?"

Josuke, il padre di Shizuka, era un tipo facilmente irritabile. Quando era arrabbiato, i corti capelli tirati indietro sulla sua fronte schizzavano in alto come un gatto infuriato che drizzava i peli per sembrare più grosso.

Ma i capelli di Josuke erano ben laccati sulla sua fronte, a formare un corto ciuffo tirato indietro.

Non era arrabbiato?

"Pa'?" Chiese ancora Shizuka, un po' più in allerta. Che era successo?

Stava camminando in cerchio in cucina. Shizuka lo chiamò ancora, quasi gridando, e finalmente Josuke si riscosse dai suoi mesti pensieri, posando i suoi occhi azzurro chiaro sulla figlia.

A lunghi passi raggiunse il salotto. Si sedette al fianco di Shizuka sul grosso divano griffato, rigirandosi il cellulare glitterato tra le mani. Shizuka preferiva guardare i riflessi nella cover rosa shocking ricoperta di glitter che gli occhi fissi sul vuoto e stranamente spenti e privi di vita di suo padre. Le faceva paura.

Josuke poteva parlare per ore di idiozie, ma per gli argomenti seri era tutt'altra cosa.

Sospirò. 

Ci mise una vita a farlo e un’altrettanta vita a parlare.

"Jotaro mi ha chiamato…"

Oh no.

Ancora?

 

Note dell'autrice:

Benvenuti a chi è nuovo e bentornato a chi conosce già questa storia, e non vedeva l'ora che tornasse dall'oltretomba in cui era sprofondata nel lontano 2018.

Ebbene sì, DH è finalmente tornata. Non so come sentirmi. È dal 2014 che ci lavoro e, anche se sono cambiate parecchie cose in questi anni, la voglia di fare e finire questa fanpart è sempre quella.

Per chi l'ha già letta sette anni fa e non si ricorda nulla: meglio. Molto meglio. La trama è simile, ma da come avrete potuto intuire da questo primo capitolo, anche profondamente cambiata e, spero, maturata.

(delucidazioni su alcuni personaggi: Mao è apparsa nella novel DNA di Rohan, dunque è un personaggio canonico che, come Shizuka, ho mostrato da adulta. Sachiyo invece è un OC, che ho inventato e non appare nel canon.)

Ci vediamo mercoledì prossimo, il 13, col capitolo 2. I primi capitoli saranno un po' a rilento, ma ne ho bisogno per dare una base ai prossimi capitoli, decisamente molto più frenetici.

Alla prossima!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Nuove disavventure a Morioh (parte 2) ***


All'alba di un nuovo giorno, quando il sole ancora si nasconde nell’oceano Pacifico e il cielo blu scuro inizia a tingersi di rosa e arancione e rosso, Okuyasu si sveglia, si prepara e si dirige a lavoro a piedi.

Era solito andare a lavoro in auto anni prima, ma non aveva nessun senso. Non abitava così lontano dal suo negozio di fiori e piante, e aveva notato che con gli anni di sedentarietà aveva messo su dei chiletti. Il suo ventre non era più piatto come da adolescente, e non voleva finire per diventare un vecchio ciccione con la pancia da birra a soli trentaquattro anni. Un po’ di movimento era necessario, anche se era noioso. Col tempo aveva anche smesso di arrivare al centro di Morioh col fiatone, e si sentiva meglio che mai. Anche se un po’ di pancetta era rimasta comunque.

Solo dopo aver alzato la serranda del suo stesso negozio si accorse che in quello al suo fianco, il salone di bellezza Fairy Grandmother Aya, le luci all’interno erano già accese.

Si voltò a guardare il sole tiepido e poco luminoso, appena sorto in cielo. Erano le sei e quaranta del mattino, e il salone di bellezza non avrebbe aperto prima delle otto.

Okuyasu lasciò perdere il proprio negozio- le nuove camelie avrebbero potuto aspettare un’altra ora nel loro vaso originario, e controllò all’interno, attraverso la grande vetrata frontale. Nel bianco e rosa candido e pulito degli interni dei Fairy Grandmother Aya, una donna dai lunghi capelli neri stava spolverando la scrivania linda e lucida.

Okuyasu batté le nocche contro la vetrata, riscuotendo la donna dalla specie di stato di ipnosi in cui era caduta. Sorrise a Okuyasu e corse ad aprire la porta del negozio.

"Cosa ci fai qui a quest'ora, Yukako?" chiese l'uomo facendosi strada nel salone, dopo essersi tolto le scarpe all'entrata. La pulizia era tutto in quel salone di bellezza. 

Yukako si chiuse la porta di vetro satinato e colorato alle spalle. 

Nei suoi occhi indaco scuro, contornati da un perfetto e affilatissimo segno di matita nera, Okuyasu leggeva tanta preoccupazione. 

"Ieri Jotaro ha chiamato Koichi al telefono. Ha chiamato anche Josuke, giusto?"

Yukako si sedette su una delle morbide poltroncine all'entrata e Okuyasu la seguì, quasi sprofondando nella sedia. Era molto comoda.

"Questa volta si incontreranno al ristorante di Tonio, ci sarà Jotaro e dovranno parlare."

Yukako cercava di mantenere la sua solita facciata di freddezza e disinteresse, ma le sue dita continuavano ad arrotolarsi attorno a quella ciocca bianca nel mare di foltissimi capelli neri- quella ciocca di Love Deluxe che era diventata bianca per lo stress e il continuo uso, ma non era ritornata nera come di solito accadeva. "Tamotsu aveva solo tre anni e ha rischiato di diventare orfano di padre l'ultima volta che Jotaro ha voluto parlare."

Okuyasu ricordava il marzo del 2012. Ricordava il cielo passare da azzurro a nero in istanti, ricordava di essersi preso una bella botta in testa e avere avuto un qualche sogno confuso e spaventoso... 

Okuyasu non seppe come rispondere. Non era bravo con le parole, non lo era mai stato, così semplicemente lasciò che i suoi pensieri, troppo stupidi per quel momento così serio, non intaccassero il clima già distrutto di suo.

Yukako si lasciò scappare un lungo, lamentoso sospiro e appoggiò appena la testa alla spalla dell’amico. “Senza tu e Yuuya qui in negozio ad aiutarmi in quei giorni, credo sarei impazzita.”

Se Yukako non gli fosse stata vicino, pensò invece Okuyasu, lui sarebbe impazzito di solitudine in quegli anni. Ma non lo disse. L’aveva già detto più volte, e Yukako lo sapeva bene, perchè erano diventati migliori amici dopo gli avvenimenti di quell’orribile estate del 1999 e da allora non si erano più separati. Era divertente, da ragazzini, fare le uscite a quattro- Yukako col suo fidanzato Koichi, e Josuke e Okuyasu, qualsiasi cosa fossero stati loro due. Non era mai stato chiaro tra di loro, ed era questo che aveva spinto Josuke al volere disperatamente un cambiamento. E se le cose non fossero cambiate nella sua vita, nei suoi rapporti con la madre e gli amici, allora sarebbe cambiato lui. Tagliarsi i capelli di netto da un giorno all’altro, scappare di casa senza nessun motivo, decidere di lasciare Morioh il giorno dopo essersi diplomato alle scuole superiori. Forse era stata colpa di Okuyasu, che non aveva mai saputo decidersi.

E non lo sapeva nemmeno oggi, che Josuke era tornato ed era cambiato ancora e Okuyasu non sapeva più cosa provare per lui.

“Josuke non mi ha detto niente della chiamata. Me l’ha spifferato Shizuka ieri sera, nel giardino comunicante.” confessò Okuyasu a Yukako, il cui volto era tornato freddo e lo sguardo affilato come coltelli.

“Io non ti capisco Oku, non capisco come tu possa ancora dare man forte a Josuke dopo il modo in cui ti ha lasciato nel 2001, e il modo in cui ti tratta ora.”

“Non lo capisco nemmeno io.” alzò le spalle Okuyasu. 

Non era importante che il rapporto tra Okuyasu e Josuke si fosse rovinato, se Josuke tendesse ormai sempre a far sentire Okuyasu mortificato e allo stesso tempo interessato. Se c’era un’altra apocalisse in corso, le emozioni che scorrevano tra loro due non avevano nessuna importanza sul suo esito.



 

“Capisci che casino? Me la sono ritrovata davanti dal nulla, sul lettino delle visite. Identica a quello psicopatico di suo padre, e psicopatica anche lei. Gridava che era colpa mia e se non l’avessi curata subito sarebbero stati guai per la città e per me e mia figlia. Capisci?! Mi ha minacciato! Ma insomma, cosa puoi aspettarti da una ragazzina i cui genitori sono fratelli?!”

“Fratelli e psicopatici. Combo perfetta!”

I due dottori risero, ma nelle loro risate c’era ben poca gioia. Avevano evitato l’argomento per tutto il giorno, ritrovandosi al distributore di caffè ogni tanto ma mai avendo il coraggio di anche solo iniziare quel discorso. Era difficile anche solo pensarci. Jotaro li aveva chiamati.

“Senti Jos, ho la macchina in panne e sono venuto in bus stamattina, potresti darmi uno strappo a casa?” chiese Koichi, in un modo che non era da Koichi. Si era presentato sulla soglia dell’ufficio del dottor Higashikata poco prima delle cinque del pomeriggio, con due fogli in mano- permessi per tornare a casa prima da lavoro. Se per Josuke, traumatologo a quell’ospedale non era stato un disastro particolare e avevano subito trovato un sostituto, lo psicoanalista Koichi aveva avuto più difficoltà. Aveva spostato gli appuntamenti dei suoi pazienti un po’ prima e il giorno dopo, sperando che dopo quella serata da Tonio ci sarebbero stati altri giorni successivi.

“Certo. Poi non è più sicuro avventurarsi da soli a Morioh ultimamente, visto tutti i casi di violenza che si stanno verificando questa settimana. Abbiamo dovuto comprare delle sacche di sangue dagli ospedali di altre prefetture perchè l’abbiamo quasi finito. Una pazzia. Dicono sia un gruppo di teppisti, chissà.” 

“Dici che anche la figlia di Futaba è stata attaccata da uno di questi malviventi?”

Josuke ridacchiò sottovoce, sembrando quasi rilassarsi a quel pensiero. “Ha parlato di una ‘forza invisibile’ al centro commerciale. A me ricorda qualcuno di familiare.”

Avevano parlato un po’, riso, e Josuke si era tolto il suo solito camice tutt’altro che professionale, ricoperto di stickers e spille e cuciture strategiche e aveva indossato il suo solito chiodo e inforcato i suoi occhiali da guida, il tutto con una rigidità che non gli apparteneva affatto.

Oltre alle solite, banali frasi di cortesia, il tragitto dall’ospedale al suo parcheggio sotterraneo fu estenuante e silenzioso. Josuke aveva gli occhi coperti dagli occhiali da aviatore, dalle lenti azzurre e a specchio, ma il suo viso era tirato e le sue folte sopracciglia -seppur raffinatamente tagliate alla perfezione- erano aggrottate sulla sua fronte sudata. Era febbraio e stava sudando freddo.

Koichi salì con cautela sulla Lamborghini nuova di pacca di Josuke, comprata coi soldi della vendita dell’agenzia immobiliare di suo padre negli Stati Uniti. Non voleva graffiarla o sporcarla, anche se sapeva che Crazy Diamond era capace di riparare graffi e danni alla carrozzeria. Dubitava fosse, tuttavia, capace di riparare danni più seri al motore e all’impianto elettrico dell’auto, dato che Josuke non ci capiva nulla di quelle cose.

Koichi non amava il lusso, come ogni brav'uomo umile e padre di famiglia lì a Morioh. Il modo in cui Josuke ostentava così tanto la sua ricchezza lo metteva a disagio, ma non osava farne parola con l'amico. Forse, era stato lontano troppi anni da Morioh.

Ma non era tempo di cincischiare e perdersi in pensieri del genere.

Koichi sospirò, tentò di prendere coraggio, di darsi una spinta e di dire ciò che lo stava tormentando tanto. Stasera dobbiamo parlare con Jotaro. Ma non lo fece, perchè era un perdente e in quegli anni di tranquillità si era lasciato andare, si era adagiato sulla codardia come fosse un morbido cuscino. E nemmeno Josuke si azzardò a parlare della questione, fino alla fine, fino a quando raggiunse la serie di villette a schiera che davano sul Capo Boing, dove abitava Koichi con la sua famiglia.

Josuke non parlò fino a quando Koichi aprì la portiera della Lamborghini, con la sua valigetta ventiquattrore tra le mani, e i saluti di convenienza sulla punta della lingua.

“Ci vediamo stasera da Tonio. Buona fortuna, amico.”

Le parole di Josuke furono come un pugno nello stomaco a Koichi, forti e inaspettate, che lo lasciarono senza parole e senza respiro. Chiuse la portiera e corse in casa senza voltarsi, con alle sue spalle il potente motore della lamborghini.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Nuove disavventure a Morioh (parte 3) ***


Da quando bussare alla porta di Okuyasu era stato così difficile? I ricordi dell’anno 1999 erano così vividi anche dopo diciannove anni… Scacciandoli con un gesto della mano, come se fossero nemici fisici che gli stavano dando addosso e non pensieri, Josuke riprese a bussare alla pesante porta di legno. Possibile che Okuyasu non avesse mai riparato il campanello della sua casa? Fu sul punto di buttare giù la porta a calci, quando Oku aprì finalmente la porta. Sembrava stanco, più stanco del solito, e poteva vedere con fastidio che le lenti dei suoi occhialetti da vista erano sporchi. Avrebbe voluto strapparglieli dal naso e pulirli, ma avrebbe voluto fare molte altre cose e si trattenne per tutte esse.

“Oku, per stasera…”
“Me ne hanno già parlato.” lo interruppe Oku, fortunatamente, perchè Josuke non sapeva davvero come completare la frase. Perchè parlare con Okuyasu era così difficile, ora!? Josuke si passò una mano tra i capelli, a ravvivarsi il corto ciuffo ribelle sulle sua fronte, che anche se era stato laccato alla perfezione per stare indietro, continuava a scappare e a spuntare in ogni punto. 

“Jotaro ha chiesto anche di te, stasera. Cioè, ha chiesto di tutti i portatori di stand di Morioh, ma ha chiesto specificatamente di te.”

“Oh.” 

Josuke annuì. 

“Già.”

Altro silenzio e cenni della testa. Nessuno parlò più.

Scalciò lievemente il selciato sul retro della villa di Okuyasu, che era lo stesso selciato sul retro della propria villa, dato che era la stessa ma divisa in due. Condividere una villa con qualcuno con cui non si era capaci di parlare doveva essere davvero complesso. Fortunatamente le ville non erano comunicanti.

“Partiamo io e te alle nove. Fatti trovare pronto per quell’ora.” e Josuke quasi scappò da quella situazione, affrettandosi a fargli un cenno della mano più naturale possibile e tornare in casa sua al più presto. 

.

.

E alle nove Okuyasu era pronto ma Josuke ovviamente non lo era. A quell'orario si stava ancora spremendo le meningi su quali scarpe erano più adatte quella serata- eleganti? O sportive?

"Shizu, tu cosa dici?" Chiese Josuke sporgendosi dalla porta della camera della figlia. Shizuka si stava spazzolando i capelli, con addosso il suo vestito preferito a fiori color pastello. "Hmm.. Sportive?" 

Sul suo viso c'era un sorrisetto spavaldo. "Togliti quel sorriso dalla faccia, stasera tu non vieni." 

E in effetti il sorriso scomparve dal viso di Shizuka, sostituito dalla rabbia. Con un grido acuto la sua voce solitamente appena udibile e mite si trasformò nello strillo di guerra di un'arpia. "E perché no?!"

"Perché sono cose che non ti riguardano! Sono cose da guerrieri." 

Josuke usò le stesse parole usate di Jotaro durante quella chiamata. Mi servono i guerrieri più forti. Solo noi- voi potete snodare questo ingarbugliato problema.

"Io sono una guerriera!" Insistette Shizuka, mentre suo padre le dava le spalle. Lo afferrò per un polso ma quei quarantacinque centimetri di differenza tra le loro altezze si faceva sentire. 

"Non capisci? È.. è pericoloso." Sibilò Josuke, come se quella parola non volesse uscire dalle sue labbra. 

"Ho vent'anni!"

"Diciannove, e sei troppo…"

Josuke si morse la lingua. Ora Shizuka era furiosa, e frustrata, e i suoi occhi erano pieni di lacrime e i suoi pugni stretti e semi-trasparenti. Le forti emozioni le causavano questo, di usare quello stand inutile senza volerlo. 

"Dillo." Ringhiò a denti stretti e in tono di sfida, come un animale in gabbia. Josuke era il domatore e doveva schioccare la sua frusta crudele su di lei. E così fece.

"...sei debole. Troppo debole."

Shizuka quasi scomparve col suo potere, e con una mano completamente invisibile chiuse la porta, che fece un rumore sordo e pesante. La maniglia era diventata trasparente a sua volta.

Josuke non proferì più parola, e si infilò le scarpe sportive.

"Hai sentito tutto?" Chiese Josuke a Okuyasu, una volta fuori dalla casa dove l'uomo dai capelli argento e neri lo stava aspettando. Era vestito più o meno elegante, forse meno che più, ma decisamente meglio del solito. La polo blu scura abbracciava bene le sue spalle larghe e Josuke fece di tutto per non farci caso. 

"Sei dimagrito?" tentò di cambiare argomento Josuke, e Okuyasu annuì bonario, decidendo a sua volta di non rispondere alla delicata questione di prima. "Sì- spero almeno!"

I due ridacchiarono salendo nell'auto parcheggiata sul retro. Era la Lamborghini nuova e fiammante di Josuke, comprata poche settimane prima.

"Holly, la mia sorellastra, la madre di Jotaro per intenderci, ha deciso di vendere l'attività di Joseph. Io ho accettato. Ci siamo divisi la somma e guarda che gioiellino ho!"

Okuyasu si sedette sul sedile del passeggero e accarezzò il sedile in Alcantara. "Come mai avete venduto ora l'attività del signor Joestar?"

Josuke alzò le spalle disinteressato. "Eh… sai com'è, il vecchio è vecchio e…"

Dal nulla, con uno scatto degno di un felino, Josuke si sporse verso i sedili posteriori dell'auto e afferrò qualcosa e questo qualcosa di invisibile gridò con un vocino familiare. 

"Ti avevo detto che saresti stata a casa, Shizu!" 

La ragazza si fece visibile sotto il sorriso divertito di Okuyasu e lo sguardo iroso del padre. 

"Dai Jos, lasciala venire. È grande ormai, no?"

Josuke lasciò andare il polso di Shizuka con dubbio, ascoltando però le parole di Okuyasu e sbuffando sonoramente, come se dimostrarsi contrariato fosse una qualche sorta di ribellione. Shizuka e Okuyasu si sorrisero, senza parlare.

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Come previsto, davanti al Ristorante Italiano Trussardi c'era un grande affollamento di auto. Josuke riconobbe la station-wagon di Yukako, due auto della SPWfoundation, e la stramaledetta berlina di Rohan. Josuke prese davvero in considerazione l'idea di passarci sopra, ma la scartó al pensiero di rovinare la sua auto nuova. 

Nel ristorante l'aria era pesante e tesa, e c'era uno strano brusio di sottofondo che si scontrava malamente col solito parlare ad alta voce e ridere che contraddistingueva l'atmosfera dell'unico ristorante italiano di Morioh.

Josuke spinse con gentilezza Shizuka verso il tavolo dei più giovani e senza esperienza, divisi dal tavolo principale. 

Mao e Sachiyo erano lì, come le avevano detto nel loro gruppo privato su WhatsApp, e c'erano anche Manami e Tamotsu Hirose. Era presente anche un altro ragazzo, biondo e riccio e decisamente non della zona, che Shizuka decise di ignorare perché sembrava noioso. 

"Emporio Aln-ah, volevo dire Kujo, piacere." Disse lui in un orribile inglese dall'accento americano, allungando una mano verso di lei. Lei a malapena sfiorò la sua mano con quasi disprezzo. "Shizuka Higashikata." 

Non sapeva Jolyne avesse un fratello minore, ma davvero poco importava, dato che aveva visto Jolyne solo un paio di volte e non le era stata simpatica in nessuna delle occasioni. Vittimista ed egocentrica, rumorosa e una poco di buono da galera, una rompiscatole da cui Shizuka ci teneva a starle alla larga.

Jolyne era, infatti, al tavolo degli adulti. Aveva solo sei anni in più di lei, aveva sviluppato lo stand solo da sette anni, ma Jolyne era forte. Il suo stand tirava pugni, dunque a lei era permesso essere nella cerchia dei forti e non in quella dei deboli e dei bambini.

Tamotsu era il figlio più giovane degli Hirose, aveva otto anni e il suo stand non era altro che una nebbiolina colorata alle sue spalle- era ovvio ne avrebbe presto sviluppato uno, ma era ancora troppo giovane per evocarlo. Manami ne aveva undici e quell'ombra azzurra alle sue spalle poteva già sollevare qualche oggetto, come stava cercando di fare in quel momento con la forchetta.

Lo stand di Mao era legato al suo corpo, e lei aveva deciso di non dargli un nome. Shizuka le aveva consigliato qualche nome figo come Lizard Queen o She-Chameleon, dato che i suoi poteri erano simili a quelli di un rettile- pelle spessa e coriacea, possibilità di arrampicarsi su ogni superficie e una lunga coda prensile. Mao aveva rifiutato perché era una ragazza estremamente noiosa.

Sachiyo non c'è l'aveva nemmeno, uno stand! Eppure papà diceva che lei l'avrebbe sviluppato, prima o poi. Che suo padre era uno dei più forti portatori non solo di Morioh ma del mondo intero, anche se Shizuka non aveva mai sentito parlare di questo tizio. Non aveva nemmeno lo stesso cognome di Sachiyo. E perché il fratello maggiore di Sachi, Hayato, non ce l'aveva lo stand? Era strano, ma Josuke non voleva rispondere. Sembrava un argomento difficile per lui.

Presto fu servita loro la cena. Era un riso condito con salsicce particolari, e sopra esso una grossa costina intera alla griglia.

"Risotto alla pilota labassese con puntél  per voi ragazzi!" Disse Tonio in persona, con un sorriso un po' più tirato del solito. Strano.

Il risotto era buono, un sapore e una consistenza esotici e che Shizuka non aveva mai provato. Ma la curiosità era più forte della fame.

Smangiucchiata la costina, decise che era tempo di agire.

"Vado a lavarmi le mani e incipriarmi il naso." Disse Shizuka alzandosi in piedi tutto ad un tratto.

"Incipirarti il naso come in Pulp Fiction, o vai solo a pisciare?" Chiese Sachiyo. Alla parola pisciare, i giovani Hirose scoppiarono a ridere.

Shizuka non volle rispondere a quella domanda tanto sgarbata. Girò i tacchi e si diresse verso i bagni. Ovvio che non andava a pippare coca in bagno. Non era mica l'ex di suo padre, che era anche il padre del suo babysitter di Liverpool, Bert. Uno strambo e disgustoso avvocato che tirava coca dal naso con così tanta forza che Shizuka poteva udirlo dalla sua cameretta al piano superiore, alla villa a Liverpool. Che schifo.

Preferiva di gran lunga Okuyasu a quel tipo disgustoso e puzzolente con sempre il sangue incrostato nelle narici.

Appena entrata in bagno divenne completamente invisibile, e sfruttando la porta ancora in procinto di chiudersi sgattaiolò fuori e si diresse al tavolo principale, quello dei forti, dove la discussione sembrava essersi accesa.

Si accoccolò vicino al muro, dove era sicura che nessuno le sarebbe andato incontro se si fosse alzato e allontanato dal tavolo. La voce di Jotaro, seppur bassa e debole, le arrivava limpida e comprensibile, e purtroppo poteva sentire bene anche il respiro affannoso dell'anziano al suo fianco.

Era Joseph Joestar, l'uomo che l'aveva trovata diciotto anni prima e le aveva cambiato la vita per sempre. E che non riusciva nemmeno più ad aprire gli occhi. 

Lo sguardo di Shizuka scattò altrove, ovunque tranne che lì, sulle persone che stavano discutendo animatamente, e rimase in attesa, ad ascoltare tutto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Nuove disavventure a Morioh (parte 4) ***


Josuke e Okuyasu invece si sedettero al tavolo principale. Josuke per sua sfortuna si ritrovò esattamente davanti a Jotaro, a un Jotaro che però non aveva mai visto: pallido, scarno e dalle occhiaie nere e gonfie, e le labbra tanto bianche da farlo sembrare un cadavere trovato diversi giorni dopo la morte. Non un gran spettacolo mentre mangiava.

Al fianco di Jotaro c'era un uomo così magro e fermo che sarebbe potuto sembrare un ramoscello secco su una sedia. Josuke, per i primi istanti, non riconobbe che si trattava di suo padre, e capì perché Holly avesse deciso di vendere l'agenzia immobiliare.

Quel pensiero tuttavia non bloccò la sua fame, perché quando il piatto di pasta fumante gli fu appoggiato davanti al naso il suo stomaco divenne una voragine senza fondo.

"Di che piatto si tratta?" Chiese con gran interesse Rohan, pochi posti più avanti, già col naso nel piatto a studiare questa nuova ricetta. Era vero. Era strana, qualcosa che Tonio non aveva mai cucinato, e ben lontano dai suoi standard abituali.

Sembravano ravioli ripieni di qualcosa di color mattone, morbido ma con una certa consistenza.

"Ravioli labassesi di zucca." Rispose lo stesso Tonio, presentandosi alle spalle di Jotaro. Evento raro, dato che di solito non usciva dalle cucine. "Servito con lambrusco labassese D.O.C., in salsa di pomodoro e salamelle labassesi, e ricoperti di Parmigiano Reggiano sempre dal territorio di La Bassa." 

"Dunque un menù spiccatamente incentrato su questa.. città, suppongo? Di nome La Bassa." Continuò Rohan. "Immagino sia stato Jotaro a consigliare il menù. Dunque immagino che il fulcro della discussione di oggi sia su questa fantomatica città."

Josuke non riusciva ancora a farselo stare simpatico, ma doveva ammettere la sua perspicacia.

Koichi fermò la forchetta a mezz'aria. "L'ho già sentita da qualche parte…"

"La Bassa si trova nell'Italia settentrionale." Iniziò Jotaro. Non aveva toccato il cibo davanti a sé, mentre al suo fianco Jolyne era già a metà piatto.

"Si trova in un'insenatura naturale del grande fiume Po e circondata dai suoi affluenti, incastrata tra le regioni italiane Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. È una grande città nella parte meridionale della provincia di Mantova, una ventina di chilometri a sud del capoluogo. Ha una densità di popolazione bassissima, e la sua economia è incentrata sull'agricoltura e sulle industrie."

"Bella lezione di geografia, davvero, grandiosa…" lo interruppe Josuke, sventolandogli davanti al viso un raviolo intinto nel sugo di pomodoro. "..ma ci hai invitati qui, tutti assieme, per spiegarci l'economia di un paesino in Europa? Non potevi semplicemente mandarci un link a Wikipedia, invece che convocare mezza città e prenotare un intero ristorante?"

Jotaro stava allungando le premesse fin troppo, e tutti la pensavano come Josuke.

Via il dente, via il dolore.

Jotaro sospirò, aggiustandosi il tovagliolo sulle sue ginocchia. Al suo fianco, Joseph non si era ancora mosso, con gli occhi chiusi e il respiro così lieve da sembrare immobile.

"Io mi ricordo cos'era successo a La Bassa." Fece una voce un po' più lontana. Un uomo dai lunghi capelli castano chiaro e gli occhi severi prese la parola. Era Hayato Kawajiri, direttore del giornale di Morioh e collaboratore della SPWfoundation. 

"Nel 2012, dopo ciò che era successo a Miami con Pucci, si era verificato un terremoto in Italia, proprio a La Bassa. La crosta di era aperta e sotto di essa erano stati ritrovati reperti importanti. Maschere di pietra e un Uomo del Pilastro, probabilmente deceduto. Ma ricordo anche che la fondazione Speedwagon se ne era occupata personalmente e la zona non era più pericolosa. Come mai, dopo sei anni, si torna a parlare di questa città?"

Jotaro rimase fermo. Il piatto di pasta davanti a lui non fumava più.

"Forse non ce ne siamo presi cura abbastanza bene."

Tirò fuori da una valigia che era appoggiata ai suoi stinchi delle carte. Erano percentuali, calcoli e statistiche. Cose matematiche che Josuke non sopportava.

“Dal 2013, in Italia, hanno iniziato a presentarsi casi isolati di vampirismo. Non è insolito trovare un vampiro ancora oggi, per colpa di… di certi vampiri e altre insolite forme di vita nel passato non così remoto. Tuttavia, incentrati in un solo territorio, questo non è normale.

Dal 2014, tuttavia, le comunicazioni con i nostri collaboratori labassesi, giornalisti della zona, si sono interrotte bruscamente. Sospettiamo che siano morti.”

“Il 2014 è ben quattro anni fa.” insistette Yuuya, seduto di fronte a Yukako e non lontano da Jotaro. “Non capisco cosa centri con ora. Ve ne sarete occupati, no?”

“No.” lo freddò Jotaro. Il silenzio cadde sull’intero ristorante. Si poteva sentire solo il vociare dei ragazzi nell’altro tavolo e un rumore lieve di passi. “No, perchè in quella zona dell’Italia i decessi erano minimi. Appena sopra superiori alla media, e nel 2014 si sono stabilizzati alla media. Non c’era nessun pericolo, perchè anche i vampiri sembravano diminuire, e che il caso si fosse risolto da solo.”

"Hai detto sembravano." Insistette Hayato, che sapeva bene che tasti premere. 

Jotaro impiegò a rispondere, come se deglutire fosse un'impresa strabiliante. "Perché sono aumentati tutto ad un tratto qualche mese fa. I decessi in Europa, Medio Oriente e Nordafrica sono quintuplicati dal mese di novembre del 2017. Ed è un trend in salita, destinato ad aumentare mese dopo mese, a una scadenza regolare. C’è qualcosa sotto, e dovete indagare."

Jotaro indicò una carta, in cui c'erano dei disegni raffazzonati di due esseri. Jotaro batté il dito sul primo disegno, più somigliante a un essere umano rispetto all'altro. "Questo è un vampiro classico, risvegliato dalla maschera di pietra o dal sangue di un altro vampiro. Un essere umano, senza battito cardiaco, dalla pelle bluastra e gli occhi rossi. Niente di sospetto. Quest'altro è un vampiro nuovo, di quelli che vediamo con questa esplosione di vampirismo. Capite la differenza."

La creatura era anch'essa pallida e dal colorito freddo e gli occhi rossi vividi, ma era una bestia deformata e solo vagamente umana, che a malapena si reggeva sulle gambe e i suoi denti sembravano esplodere fuori dalla bocca troppo piccola per contenere quelle zanne.

"Sono stati creati con le maschere di pietra trovate nella faglia? Sono maschere speciali, forse?" Chiese Koichi, guardando con disgusto il foglio che Yukako si stava rigirando tra le mani.

"No. Tutte le maschere sono state confiscate dal sindaco di La Bassa e custodite in un museo ad alta sicurezza, ed erano tutte rotte e inutilizzabili. Inoltre le maschere di pietra non danno nessun potere stand, come invece questa sembrano fare. Si tratta di altro, ma non capiamo cosa."

Jotaro appoggiò finalmente i fogli, con aria avvilita più che coraggiosa. "Vi ho chiamati qui per questo. Dobbiamo intervenire, andare a La Bassa a risolvere questo mistero, e scoprire perché nel mondo il vampirismo sta causando così tante vittime ma a La Bassa, nel centro della proliferazione, la mortalità è stabile. Cercherò di mettermi in contatto di nuovo con le mie fonti labassesi sperando siano ancora in vita. Ma… il compito spetterà a voi. Voi dovete fermare questa nuova Apocalisse. Io sono… sono stanco e debole, ultimamente, e non posso prendermi cura da solo della faccenda. Jolyne si occuperà della fondazione mentre sono via, al sicuro. Josuke, Koichi, Okuyasu, Rohan…"

"No, assolutamente no!" Gridò Rohan dal suo posto a capotavola, sbattendo le mani sul tavolo con rabbia. "Non intendo andare a crepare in un posto dimenticato persino da Google Maps! Non sono nemici, sono vampiri. Cosa posso fare con Heaven's Door?!"

Si alzò in piedi, pugni serrati e tremanti. "No. Non verrò. Vi aiuterò come posso, ma non sarò carne da macello."

Detto questo, se ne andò. 

Anche Yuuya, timidamente, si alzò in piedi. "Mi spiace, ma ora che ho trovato un posto di lavoro stabile al salone di bellezza di Yukako e un appartamento in cui vivere, non ho proprio voglia di morire. Perdonatemi…" e anche lui se ne andò dal ristorante, in silenzio. 

Josuke rimase a guardare i due con un'espressione mesta. "Nemmeno io verrò. Né io, né tantomeno Shizuka."

"No, tu non puoi rifiutarti!" rispose per la prima volta Jolyne, che sembrava sazia ora. Il piatto di fronte a lei era vuoto. 

Sventolò una delle carte del padre quasi in faccia a Josuke, e lui quasi volle tirarle un pugno. "Alla Fondazione sappiamo che l'unica soluzione per sconfiggere i vampiri sono queste “Onde Concentriche”! Tu essendo figlio di Joseph potresti impararle! E Shizuka è una portatrice di stand e ha quasi vent'anni, potresti portarla e..."

Hayato si alzò tutto ad un tratto e portó via sua sorella con sé, dato che nessuno dei due aveva uno stand. Seguí con lo sguardo Josuke, sentendo la sua preoccupazione. Hayato voleva salvare sua sorella minore, e Josuke avrebbe fatto lo stesso con la propria figlia.

"Non imparerò un cazzo. Non metterò in pericolo la vita di mia figlia. Lei rimarrà a Morioh e ci rimarrò anche io, al sicuro da quei vampiri o zombie o qualsiasi cosa siano."

Altri rumori, questa volta di passi rabbiosi e di porte che sbattevano. Altra gente che si alzava dal tavolo.

Mikitaka disse che La Bassa era una parte di pianeta Terra che non gli era mai piaciuta, e a nessuna forma aliena stava simpatica per qualche motivo. Mao, captando qualcosa di oscuro nell'aria, decise di andarsene a sua volta, uscendo dalla sala principale assieme agli altri portatori di stand di Morioh, finché la stanza non si svuotò.

Jotaro negò con convinzione, ora sostenuto anche da sua figlia Jolyne. "Non sarete al sicuro qua a Morioh, perché da un paio di settimane sembra che i vampiri si siano spostati dalla zona intorno al Mediterraneo. Ora sono dilagati in tutto il mondo. Ci sono vampiri a Morioh."

"Quel gruppo di teppisti, lì chiamate così voi qua?" Continuò Jolyne. "Quelli che picchiano la gente. Non la picchiano. Sono i primi vampiri che si sono insediati in Giappone, e se non si agisce subito, chissà quanti diventeranno. Morioh ne sarà sopraffatta. I vostri figli non saranno al sicuro."

Koichi sembrò immobilizzarsi sulla sua sedia, anche se Yukako era già in piedi.

"Koichi, tu verrai, vero?" e il tono di Jotaro sembrava più un'imposizione che una domanda. Yukako lo stava tirando per un braccio. Andiamocene. Rispondi di no, torniamo a casa. Basta apocalissi. Fai che siano altri a risolvere questa faccenda.

Ma Koichi non si muoveva. Annuì mesto, perché non sapeva dire di no a Jotaro e al suo fianco Yukako sembrò diventare una statua di pietra. "Allora verrò anch'io. Non lascerò mio marito, il padre dei miei figli morire."

Josuke si infilò la giacca di pelle e notò che il proprio cellulare, che aveva ignorato fino a pochi istanti prima, stava suonando. Difficile notarlo, con la suoneria così bassa e col parlare ad alta voce tutto attorno, ma per una coincidenza del destino aveva appena iniziato a suonare e poté rispondere subito.

"E tu, Okuyasu?" Chiese Jotaro in tono di sfida.

Manami corse incontro alla madre. "Mamma, dov'è Shizuka? Non è più tornata, aveva detto che andava in bagno!"

Al telefono con Josuke Hayato era in lacrime, iperventilava e le parole sembravano accartocciarsi sulla sua lingua.

"Ero in coda in auto per un incidente e poi ho visto che… Josuke… dio mio, Josuke..! Sono sulla tangenziale, davanti al ristorante di soba e… Josuke, ti prego, fa' presto, Shizuka…!!"

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Nuove disavventure a Morioh (parte 5) ***


In un mondo di calma e di quiete, di luce e di vuoto, Shizuka fluttuava senza gravità.

Shizuka, mi senti?

Sì, lo sentiva. Non ne era certa di come lo sentisse- non sembrava una voce proveniente da fuori, ma più da dentro le sue orecchie.

 Il destino ti ha voluto qui. Che tu ci creda o meno, tu sei destinata a grandi cose.

La voce aveva un qualcosa di familiare, un'intonazione già sentita e un accento che assomigliava a quello di qualcuno che già aveva conosciuto, ma non avrebbe saputo dire a chi. Shizuka si sentiva troppo leggera, come un piumino nel vento, ed i pensieri sembravano sfuggirle dalla mente come acqua tra le dita.

Shizuka, devi imparare a volare. Sarà difficile liberarti dalla gabbia e prendere il volo, sarà un processo lungo e complesso, ma per adesso devi almeno provare a sbattere le ali, ora che qualcuno te ne ha regalate un paio.

Non sapeva cosa la voce stesse dicendo. Era una voce maschile, non sembrava troppo avanti con gli anni ma definire un'età in quel contesto e in quel momento di confusione era impossibile.

Rimase ad ascoltarlo, perchè era l’unica cosa che potesse fare in quel momento.

Svegliati, recati nella Città delle Fenici e svolgi il tuo destino.

E Shizuka si svegliò.

.

.

Si ritrovò ancora immersa nel bianco, ma si accorse che, stavolta, un corpo ce l'aveva. Ed era pesante, dolorante e immobile. Il dolore la colpí in faccia tutto ad un tratto, a tradimento, mentre cercava di cambiare posizione su quel lettino scomodo.

"Shizu!" Gridò una voce. Ah, sarebbe stato meglio il silenzio. Quel grido di donna le perforò i timpani da parte a parte.

Nonna Tomoko era lì, di fianco al suo lettino d'ospedale, con tutto il trucco colato dagli occhi gonfi e rossi. 

Shizuka era in ospedale. Attaccato al suo braccio c'è una flebo di soluzione salina, e una, enorme e ben più grossa completamente vuota, con solo alcune gocce rosse a indicare che lì dentro c'era una quantità sproporzionata di sangue.

"Nonna?" 

"Sì Shizu, sono qui… ora va tutto bene. Andrà tutto bene." rispose Tomoko con una vaga nota di dolore e dolcezza nella sua voce solitamente forte.

Nonna Tomoko non era solita dimostrare molte emozioni, come Josuke e come Shizuka del resto. Doveva essere una caratteristica di tutti loro Higashikata, cercare di sembrare più freddi di quanto non fossero davvero.

"Nonna… cos'è successo?"

Ma Tomoko sembrava poco restia al parlare. Strinse le labbra, abbassò lo sguardo e un'onda di tristezza si infranse sul suo viso. Vide una lacrima nera di mascara scendere dalla sua guancia. 

"Ti sei appena svegliata dopo quattro giorni! Hai avuto un incidente, sulla tangenziale. Ti hanno investita, stavi per…"

Tomoko non riuscí a dire quella parola. Morire, stava per morire.

"Avevi perso tutto il sangue, non avevi più battito, la tua pelle era fredda… e tuo nonno, Joseph, lui… lui…"

Un singhiozzo scappò dalle sue labbra carnose. Shizuka allungò una mano debole verso di lei e Tomoko la strinse con forza ma senza farle del male, in un calore di cui Shizuka sembrava avere disperatamente bisogno.

"Joseph ti ha donato il suo midollo spinale e tutto il suo sangue." Esordì la voce di suo padre, Josuke, vestito col suo solito camice ora macchiato di sangue. Il suo sguardo era duro e freddo ma Shizuka sapeva che dietro di esso si celava un dolore troppo profondo per essere mostrato.

“Joseph è morto. Stava già morendo in verità, ma ha deciso di sacrificarsi. Una eutanasia indolore, e ti ha anche salvato la vita.”

Shizuka non reagì. Non rispose. 

Tutto il sangue di Joseph- di suo nonno Joseph...

Joseph era pur sempre suo nonno. Non era stato un gran nonno come non era stato un gran padre per Josuke, ma… ma era pur sempre suo nonno, no? Era l’uomo che l’aveva trovata per le strade di Morioh e l’aveva portata a casa sua.

Era l’uomo che aveva deciso di sacrificarsi per lei.

Joseph le aveva salvato la vita per ben due volte, e Shizuka non aveva fatto nulla in cambio.

Si voltò appena a guardare nonna Tomoko, che aveva tanto amato quell’uomo e per colpa sua l’aveva perso. 

Scusa, avrebbe voluto dirle. Perdonami.

Ma nonna Tomoko le accarezzò i capelli e anche in quel viso stravolto dalla sofferenza sorrise. “Sono contenta che tu sia ancora qui, Shizu. Sei la mia nipotina…”

Anche Josuke le si avvicinò. Tomoko sembrava tremendamente stanca, assonnata e vestita alla bell’e meglio. Probabilmente aveva vegliato su di lei per chissà quante ore o giorni. Abbracciò velocemente il figlio e salutò entrambi, quasi scappando dalla camera, come se non riuscisse più a contenere quel dolore che, probabilmente, la stava distruggendo dentro.

Josuke si sedette sulla sedia su cui la madre era seduta prima. Anche i suoi occhi erano stanchi, i suoi capelli spettinati e la sua barba un po’ più lunga del solito.

Shizuka lo stava fissando. Non ricambiò lo sguardo, appoggiò una mano sul suo braccio a pochi centimetri dalla flebo e la tenne lì.

“Credo di doverti delle spiegazioni.” disse. 

E Josuke le spiegò tutto, mentre Shizuka ricominciava a ricordare.

.

.

La notte era gelida e Shizuka aveva dimenticato il cappotto nel ristorante. Era scappata in fretta e furia in preda all’ira più estrema nel sentire le parole del padre.

‘Non rischierò la vita di mia figlia’ , così aveva detto quello stronzo. Sei debole, aveva anche detto.

Shizuka non era debole. Certo, Achtung Baby- quello stand di cui non aveva nemmeno deciso il nome per sé- era solo uno stand che le permetteva di diventare invisibile, o parzialmente invisibile, o far diventare per qualche tempo e in un raggio molto ridotto oggetti e persone invisibili. Poteva anche cambiarne i colori, ma era qualcosa che ancora non riusciva bene a fare. Ma con un po’ di pratica sarebbe diventata al livello di Crazy Diamond, ne era sicura! Forse anche il suo stand avrebbe avuto delle braccia, anche il suo stand avrebbe potuto tirare i pugni e afferrare le cose.

Shizuka stava camminando col pilota automatico, senza dare troppe attenzioni a quello che la circondava o verso dove fosse diretta. Liverpool non era una città particolarmente sicura, e Morioh lo era decisamente di più, tuttavia non si sentiva a casa, lì a Morioh.

Socchiuse gli occhi e immaginò di ritrovarsi a Liverpool, a girare per il porto con quello che anni prima era il suo baby-sitter e poi divenne un amico, alto e dinoccolato e dai capelli più neri del cielo intasato di luci della città, mentre le spiegava i segreti dei luoghi nascosti e oscuri in cui lui era cresciuto.

E invece Shizuka riaprì gli occhi e si ritrovò in Giappone, sul marciapiede al fianco della tangenziale, in un posto che non le apparteneva. 

Da sola.

Abitava a Morioh dalla fine del 2012, quando suo padre decise tutto ad un tratto di trasferire la famiglia nella sua città natale. Cinque, quasi sei anni lì e ancora si sentiva un’estranea.

Perchè non torni in Inghilterra, se ti piace tanto? le ripetevano le sue amiche. La verità era che a Liverpool c’era il suo cuore, certo, e la villa in cui aveva abitato, ma non c’erano i soldi di suo padre.

Seppur persa nei suoi pensieri, Shizuka sentì qualcosa alle sue spalle. Si voltò appena e notò che una figura le si stava avvicinando, e anche velocemente. Non le piaceva. Bert, a Liverpool, le aveva insegnato un trucchetto per liberarsi di questi pervertiti del cazzo.

Svoltò bruscamente il primo angolo che trovò e divenne completamente invisibile. Una volta che i passi dell’uomo si fecero più vicini, tirò fuori una gamba invisibile e cercò di fargli lo sgambetto. Funzionava ogni volta.

E invece non funzionò, perchè la mano che spuntò da dietro l’angolo era verdastra e dalle unghie nere e marce. Afferrò la caviglia invisibile di Shizuka e la tirò con forza, tanto da non sentirla più attaccata al proprio corpo. 

Shizuka gridò cercò di tirare calci e pugni ma quella bestia- non era un uomo! Non era nemmeno un essere umano! Aveva la pelle pallida e verdastra e gli occhi rossi, rossi come semafori- le mise le mani al collo e strinse, e sentì le sue unghie dentro la carne, il dolore invaderle il corpo e la sua mente sempre più annebbiata, buia, leggera…

.
.

“...poi il vampiro ti ha trascinata in mezzo alla strada e ha finto un incidente stradale.” finì di raccontare suo padre, e sembrava quasi più pallido di lei in quel momento. Shizuka rimase a fissarlo, quasi senza espressione, con troppi sentimenti da processare in quel momento. 

“Praticamente tutto il sangue nel tuo corpo era stato prelevato, e il tuo midollo osseo era completamente inutilizzabile. A quanto pare, è questo che rende letali gli attacchi dei vampiri. È come se, nel prendere il sangue, rilasciassero anche degli enzimi strani che bloccano alcune funzioni vitali e… non lo so. Davvero.”

Josuke si passò una mano tra i capelli e si premette le dita sugli occhi stanchi. Era stressato, disperato, e sì, felice, ma anche spaventato. Shizuka allungò una mano, tremante e debole, a tirare indietro una ciocca di capelli che era ricaduta sulla fronte di suo padre. Josuke le sorrise, a malapena, ma era comunque un sorriso. Un’emozione che dimostrava.

Sapeva che i diamanti erano le pietre più dure, ma con un po’ troppa pressione applicata su essi si rompevano in mille pezzi.

Ma appena la porta si aprì Josuke tornò il solito freddo Josuke, e Shizuka avrebbe voluto tirargli un calcio in faccia, se solo fosse stata capace di muovere le gambe. Una in realtà si muoveva, l’altra, quella afferrata dal vampiro, sembrava pesante come il piombo. Probabilmente lussata o rotta da quella forza sovrumana.

E nella camera si riversarono i due piccoli Hirose che le si affiancarono al letto ridendo e saltando. Manami toccò la grossa garza alla base del suo collo e vicino alla spalla sinistra, dove il vampiro aveva conficcato le unghie per succhiarle il sangue. Shizuka non l’aveva notata, prima.

“Quella non sono riuscita a guarirla nemmeno con Crazy Diamond” spiegò Josuke agli Hirose e anche a Shizuka. “dovrai tenerti la cicatrice.”

Josuke uscì dalla stanza, e tutti gli altri vi entrarono, portando colore e allegria nella stanzetta bianca e spoglia.

Okuyasu le portò un profumatissimo mazzo di fiori, Yukako le pettinò i capelli mentre Koichi cercava di spiegarle la situazione meglio di come avesse fatto suo padre. 

“Vedi, il sangue di Joseph è… speciale!” iniziò lui, sedendosi al bordo del letto. Era un uomo molto magro, leggero e non particolarmente alto, e stava seduto comodamente al bordo del lettino. 

“Quando i vampiri attaccano gli esseri umani, in alcuni casi succede che una specie di veleno venga iniettato nella vittima. Fin’ora non ne conosciamo le cause, cosa faccia o un antidoto...”

“E a me è stato iniettato questo veleno?”

Koichi era bravo con le parole e sapeva come rendere anche le situazioni più tragiche, almeno a parole, più supportabili. Annuì, mentre Yukako al suo fianco finiva una splendida treccia coi capelli corvini di Shizuka. “Ma sembra che il sangue di Joseph… del signor Joestar, carico di Onde Concentriche, l’abbia contrastato e sconfitto, quasi interamente.”

Quasi interamente? Dunque qualcosa ha comunque fatto?" tagliò corto Shizuka.

Koichi annuì.

“E cosa fa questo veleno? Non posso più camminare? Morirò lentamente?”

“Nulla di tutto questo…” parlottò Koichi, mentre Shizuka si sporgeva per prendere il bicchiere d’acqua che Josuke le aveva lasciato lì prima di andarsene dalla stanza. “...quel veleno solitamente è usato per contagiare gli esseri umani, ucciderli e renderli vampiri a loro volta. A te sembra non aver fatto niente, salvo per un flebile rallentamento del battito cardiaco e qualche leggero cambiamento cromatico…”

Shizuka guardò il proprio riflesso nell’acqua del bicchiere. I suoi occhi erano diventati di un profondo colore rosso scuro, la sua pelle quasi inumanamente pallida. 

L’acqua nel bicchiere si increspò in perfette onde, rompendo quel riflesso.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Guai alla Città della Moda! (parte 1) ***


Dopo una settimana in ospedale e un’altra passata a casa, Shizuka stava meglio.

Certo, era difficile abituarsi a questo nuovo look- i suoi nuovi occhi rossi non passavano di certo inosservati. Se al buio potevano sembrare neri, alla luce, anche solo la più flebile, quella scintilla di rosso vivo- rosso sangue- si faceva evidente e inquietante. 

A dir la verità, Shizuka non la odiava. Shizuka non odiava niente della sua nuova condizione, se così poteva chiamarla. Non odiava quel colore incredibile di occhi, né il colore perlaceo e così raffinato della sua pelle, né il fatto che effettivamente si sentisse più forte. Meglio.

Quel sangue era incredibile. O forse era il veleno vampiro. O forse era la grande forza vitale e gioia di vivere che aveva contraddistinto nonno Joseph per quasi tutta la sua vita, almeno fino a quando sua moglie era viva. in qualsiasi caso, qualsiasi cosa fosse, anche lei ora si sentiva più viva di prima.

“Mi è tornata la moto, ma non posso usarla. Non posso uscire di casa e papà non vuole che vada a sbattere da qualche altra parte o che un altro vampiro mi usi come apericena.” ridacchiò Shizuka al telefono con Mao, mentre si scontravano in un videogioco 1vs1 di guerra alla PlayStation. 

In realtà, Shizuka non aveva così tanta voglia di uscire. Ogni volta che il sole la colpiva in faccia, sentiva la pelle come pizzicare, ed era costretta a ridurre gli occhi a due fessure, perchè ora la luce sembrava molto più luminosa e il buio era un po’ meno buio. 

“Beh, ragione ha.” borbottò Mao. Shizuka sorrise istintivamente mentre il suo personaggio si accovacciava dietro a un muro e aspettava che l’amica facesse un passo falso per spararle. Quando Mao era concentrata su qualcos’altro che non fosse parlare, tornava al suo difetto di pronuncia- dire le frasi al contrario. Solo dopo anni di logopedia era riuscita a dire le parole nell’ordine giusto, ma le bastava solo distrarsi per ritornare in quel vecchio vizio che si portava dietro fin da piccolissima. Non importava. 

Quando vide la sagoma del personaggio di Mao, Shizuka fece saltare il suo. Premette i tasti così velocemente che Mao nemmeno capì cosa stava succedendo. Riuscì ad evitare tutti i colpi che il povero soldato di Mao aveva sparato, e lo headshottò a freddo e a distanza ravvicinata.

Dagli auricolari di Shizuka provenì il grido disperato di Mao che gettava a terra il joystick. “Fai come ma!?!” gridò. 

Shizuka non lo sapeva. Si sentiva semplicemente più agile, anche se l’agilità consisteva nel premere tasti su un aggeggio di plastica.

“GG, Mao.”

“Cazzo col!!”

Shizuka ridacchiò e si preparò a iniziare una nuova partita. Era divertente far arrabbiare Mao quando giocavano. Mao non era particolarmente brava nei videogiochi in quanto lei non faceva quello tutto al giorno- si era trovata un lavoretto, e una volta risparmiati abbastanza soldi avrebbe ricominciato gli studi. Shizuka invece aveva tutto il giorno il tempo da spendere sulle varie console a giocare ai suoi amati FPS, e sognare di essere l’eroina della propria avventura. 

“Shizuka, spegni i videogiochi.”

“Una partita e spengo tutto…”

“No Shizuka, ora.”

Odiava quando suo padre faceva così. Josuke era sempre stato decisamente prepotente da quanto le avevano detto Okuyasu e Koichi, ma quando lo era così tanto, Shizuka avrebbe voluto strozzarlo. Salutò al volo l’amica e fu costretta a spegnere la console mentre Josuke si sedeva al suo fianco sul divano.

Oh no…

“Che c’è?” borbottò Shizuka, poco convinta. Josuke era quasi espressivo, e l’espressione era la preoccupazione. Forse un po’ di tristezza.

“Si sono da poco svolti i funerali di tuo nonno Joseph, a New York”

“E noi non ci siamo andati.”

Josuke negò. Sapevano entrambi che non erano i benvenuti in casa Joestar.

“Ma è arrivato un pacco dagli Stati Uniti ed è indirizzato a te. Vuoi aprirlo?”

Josuke le porse il pacco. Non era particolarmente grosso, né pesante. Shizuka lo ispezionò tra le mani. “L’hai già aperto e poi l’hai richiuso con Crazy Diamond?”
Josuke alzò le spalle. “Ho solo sbirciato.”

Arrivava da New York, aveva una scritta sul fianco e recitava "per Shizuka" con una rosellina stilizzata vicino. La scrittura tutta arzigogolata, molto carina ma appena tremante, e il pacco profumava di fiori esotici e delicati. "Zia Holly?"

"Credo."

Shizuka aprì il pacco con poca difficoltà, ma prima che si aprisse del tutto le sue dita sprofondarono dentro al pacco e colpirono qualcosa di estremamente soffice. Josuke quasi rise all'espressione di pura confusione della figlia.

Tirò fuori il contenuto. Era una sciarpa, lunghissima e così morbida e leggera da sembrare fatta d'aria. Doveva essere molto vecchia, perché il vivido rosso della sciarpa in alcuni punti stava quasi virando sul grigio. Era comunque intrecciata con un punto che Shizuka non aveva mai visto, e anche il materiale le sembrava sconosciuto. 

Sul fondo della scatola c'era anche una lettera.

Sì, era da Holly.

"Questa è la sciarpa di nonna Lisa Lisa- Elisabeth. È stata la più grande guerriera delle Onde Concentriche mai esistita, e questa era la sua sciarpa di una seta speciale con cui trasmetteva le onde. Non so bene come funzioni. Ma papà l'ha custodita per tutti questi anni, e ora io voglio che la abbia tu. Servirà più a te che a me. Buona avventura!"

Shizuka smise di leggere. Il suo sguardo si fece confuso. "Mi servirà? Buona avventura? Cosa intende dire?"

Il sospiro prolungato e pieno di preoccupazione di Josuke le mandò una scossa di euforia lungo la spina dorsale. Potrebbe essere…?

"Jotaro… mi ha chiamato, poco fa. Mi ha detto che tu potresti facilmente sviluppare le onde col sangue del vecchio, e che… che sarebbe meglio se venissi anche tu a La Bassa. Partiamo tra una settimana, il primo di Marzo."

Josuke non riuscì a finire la frase perché il grido di Shizuka di pura felicità ed emozione gli trapassò le orecchie. Lei gli si buttò al collo e saltò sul divano e quasi pianse dall'emozione, mentre Josuke rimase fermo, statuario e immobile. Si morse il labbro inferiore con violenza tra i denti, perché ancora quella sensazione nel fondo del suo stomaco gli diceva che non era la cosa giusta.

.

.

Un volo dall'aeroporto internazionale della città di S. fino all'aeroporto di Villafranca di Verona, il più vicino a La Bassa, durava diciassette ore continue e senza nessuno scalo. Avevano preso un aereo speciale della Fondazione Speedwagon, per destare meno sospetti e viaggiare da soli, senza incorrere in problemi durante il volo. A quanto le aveva detto Josuke, la loro famiglia aveva qualche problema con gli aerei. 

Avevano sorvolato Venezia, le aveva detto Yukako che era seduta assieme a suo marito nei posti dietro al suo. Non che Shizuka l'avesse vista, insonnolita come era. 

L'aereo toccò il suolo quasi al tramonto, e una volta arrivati al terminal dell'aeroporto Catullo di Verona era ormai il crepuscolo.

Shizuka notò, anche se a fatica, che degli inservienti stavano piazzando strane reti metalliche ai muri, e stavano accendendo manualmente delle luci vicino al marciapiede, fuori dall'aeroporto.

"Tranquilli, sono solo precauzioni per quello che succede di notte da queste parti. Siete al sicuro." Rispose la donna che stava controllando i loro biglietti, con un pesantissimo accento strisciante e che sembrava incunearsi nelle parole italiane a forza. 

"C'è un’auto della SPWfoundation che ci aspetta qua fuori, e anche quella sembra 'rinforzata'." Lesse Okuyasu sulla brochure che gli avevano lasciato. "Una certa associazione o banda fa queste modifiche… strano che non ne riportino il nome."

Okuyasu era stato designato come guidatore perché, oltre a essere il più bravo a guidare tra loro, era anche l'unico che aveva dormito beatamente in aereo, e ora sembrava vispo e riposato come una rosa.

Usciti dal terminal, il paesaggio lì colpí.

L'orizzonte era piatto, completamente piatto. Il crepuscolo stava spingendo il rosso del cielo già pronto alla notte contro quell'orizzonte piatto come un mare. Un mare di campagne, case, fiumi, un mare di nulla, un oceano di strade sperdute incastrate nel puzzle di coltivazioni, boschi, minuscoli centri abitati.

La Pianura Padana li accolse così, nel suo vuoto abissale che sembrava volerli trascinare con sé.

Josuke era quello che sembrava esserci rimasto peggio. 

Aveva sempre immaginato l'Italia come un posto glamour, pieno di piccoli borghi tipici e grandi centri abitati alla moda e pieni di persone agiate e modaiole.

Non.. quello.

Inspirò profondamente dal naso.

"Che posto di.."

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Guai alla Città della Moda! (parte 2) ***


Alle quattro del mattino il telefono di Koichi squillò con insistenza.

Rispose a fatica. Con gli occhi ancora semi-chiusi, si sporse dal letto e afferrò a tentoni il cellulare sul comodino, rispondendo dopo un paio di tentativi a schiacciare il tasto di risposta alla chiamata.

"Eh… sì?"

"Koichi."

Ah. Era Jotaro. Koichi si raddrizzò sul letto, notando che anche Yukako al suo fianco si era svegliata. "Dimmi…"

Senza interessarsi minimamente alle condizioni in cui versava Koichi, Jotaro iniziò a spiegare.

"Siamo ancora in America, arriverò da solo il tre marzo in Italia e ci troveremo a La Bassa. Oggi avete la giornata libera."

Jotaro lo aveva chiamato alle quattro del mattino per avvertirlo che avevano la giornata libera?! Koichi avrebbe voluto sbattergli il telefono in faccia.

"Alla mattina recatevi a Forcello, alla cosiddetta Città della Moda. C'è un mio collaboratore là, uno dei giornalisti che mi avevano aiutato nel 2012."

Ah. Allora non era così tanto una giornata libera. Prima che Koichi però potesse obiettare su questa nomenclatura, Jotaro chiuse la chiamata.

.

.

L'hotel in cui stavano soggiornando -e per cui Jotaro aveva prenotato per loro- si chiamava Colori del Tramonto, per la facciata dell'edificio in sfumature vibranti e accese di rosso, arancione, giallo e perfino violetto. Era un albergo splendido e immenso, e si trovava sulla sponda nord dell’enorme fiume Po, non lontano dal lungo ponte che avrebbe portato a sud, verso La Bassa.

Il Colori del Tramonto trovava infatti a nord del fiume, in un paese tranquillo chiamato Roccarolo.

Non distava nemmeno troppo da questa fantomatica cittadina chiamata Forcello, anch'essa a nord del grande fiume.

Shizuka sfogliò il depliant della Città della Moda, mentre vi si stavano recando. Okuyasu guidava la Fiat Multipla che la fondazione aveva procurato loro, Yukako e Koichi erano al suo fianco mentre Josuke e Shizuka erano spaparanzati sul retro a godersi lo spettacolo e le brochure.

"Forcello è un antico insediamento etrusco, e la città è sorta su esso, preservando l'antico centro abitato sotto quello nuovo" lesse Josuke svogliatamente.

"Lo sai che hanno trovato proprio a Forcello dei resti votivi al dio Mantus e a sua moglie Mania?" Si introdusse Koichi nella discussione, tutto emozionato. "Sono gli dèi della morte e della pazzia nella antica e dimenticata religione etrusca, e dèi di questo territorio. Probabilmente era perché le paludi e le foreste del posto conducevano alla follia e alla morte chi vi ci si inoltrava. Mantus ha anche dato il nome al capoluogo della provincia, Mantova."

"Belle premesse per l'inizio di un'avventura, eh?" Borbottò Josuke a Shizuka, che tentò di sorridere ma non ce la fece particolarmente bene. Sapeva che suo padre non la voleva lì, non voleva che lei avesse un'avventura personale, come quasi tutti nella sua famiglia avevano avuto. Perché lei era debole, no? Il suo stand era debole. Lei era debole. Debole debole debole.

Yukako prese a leggere ad alta voce la brochure della Città della Moda, mentre lo sguardo di Shizuka cadeva sulla strada che stavano percorrendo. Era un argine su cui avevano steso del cemento e avevano chiamato strada, a dirla tutta. Maggior parte delle strade lì sembrava essere quello.

Sotto la strada-argine vi era un dislivello, poi un altro argine -questa volta senza strada- e oltre a quello una sterminata distesa di acqua brillante. Era il Grande Fiume, il Po, di un colore di per sé grigio quanto il cielo ma brillante come un diamante. I riflessi lucenti delle onde del fiume sbattevano dolorosamente contro gli occhi di Shizuka. Perché quel fiume sembrava avere quella forza, quella bellezza, quell'atrtazione unica e particolare? Shizuka avrebbe voluto scendere dall'auto e corrervi dentro, essere assorbita in uno dei suoi mortali mulinelli e non tornare più su.

"La Città della Moda è quello che dice il nome: una città-negozio. Al posto delle case vi sono negozi, le ville sono centri commerciali, le abitazioni a più piani boutique esclusive. Le strade lastricate da sanpietrini vi porteranno a negozi-case, o ai parchi in cui rilassarsi, o a splendide fontane in cui trovare sollievo e stare al sicuro. Sembra interessante, no?"

La lettura di Yukako riportò Shizuka alla realtà. 

Sì, a pensarci quella Città della Moda sembrava interessante. E cosa sarebbe potuto andare storto?

Il parcheggio per il l’enorme shopping center- se era possibile chiamarlo tale- era enorme a sua volta, e non particolarmente affollato. Non vuoto, ma non era puro caos. Era venerdì, e questo probabilmente aiutava.

“La brochure dice anche che la zona è sicura. C’è un bollino verde. Credo significhi che questa zona è libera dai vampiri. C’è anche scritto che stanno implementando le strutture di sicurezza, e nel caso di recarsi verso le fontane. Chissà cosa vuol dire?” continuò Yukako, mentre i cinque si avvicinavano all’entrata.

Quattro, perchè Okuyasu era rimasto indietro. Stava fissando un punto nel parcheggio, tra la gente e le auto.

“Oku?” gridò Josuke. “Okuyasu! Che cazzo fai? Sbrigati!”

“Nulla…” borbottò lui a bassa voce come risposta, tornando nel gruppo. “Mi sembrava di aver visto un bagliore rosso nella folla…”

“Bah, te lo sarai immaginato.” 

Okuyasu era d’accordo. Forse era solo un fanale posteriore di un'auto che stava parcheggiando. 

“Dividiamoci e ritroviamoci oggi pomeriggio. Diciamo alle tre? Alle quattro? Prima che il sole tramonti.” spiegò Koichi. Ogni gruppo prese una brochure. Josuke afferrò Shizuka per un polso mentre lei stava cercando di sgattaiolare via. Yukako e Koichi si presero braccetto e decisero di fare un giretto rilassante prima di recarsi dove dovrebbe esserci l’incontro con il collaboratore di Jotaro.

Okuyasu, sfogliando la brochure, si indirizzò da solo verso il giardino orientale. 

“Oku!” lo chiamò Yukako. “Vuoi venire con noi?”

Ma Okuyasu non poteva interferire. Non voleva mettersi in mezzo ed essere il terzo incomodo nel matrimonio degli Hirose, e non faceva parte della famiglia Higashikata. Con un sorriso che sembrava tutto tranne che felice negò lentamente ma con convinzione. “No, grazie! Voglio vedere il negozio di giardinaggio al parco est. Sembra molto interessante! Divertitevi!”

Yukako lo lasciò andare controvoglia.

.

.

“Mi avevi promesso saremmo andati al negozio di trucchi.”

“Non ne hai abbastanza, di trucchi!?”
“E tu non hai abbastanza scarpe!?”

Josuke sbuffò sonoramente mentre camminava a passo spedito per le vie della Città, e Shizuka, con le sue gambe decisamente più corte, doveva quasi correre per stare al suo passo. Le borse piene di scatole di scarpe nuove prese da Josuke lasciavano sul braccio dell’uomo delle righe rossastre. “Va bene, poi andiamo a prendere dei trucchi al negozio che hai visto. Prima pranziamo. Di cosa hai voglia?”

Shizuka aprì la cartina e la girò un paio di volte, non sapendo bene come orientarsi. Era una frana a leggere le mappe, e anche se Rohan li aveva aiutati ad apprendere l’italiano, quella lingua suonava ancora stramba a Shizuka. “Uh… ci siamo persi?”

“No, non ci siamo persi.”

“E allora dove siamo?” 

Josuke non seppe rispondere a quel quesito. Erano in una zona decisamente isolata e non c’era nessuno nei dintorni, strano per quel posto. Era una piazza, quelle con la fontana, ma i sampietrini per terra erano sfaldati e i negozi attorno ad essa erano chiusi. 

Lavori in corso. Prossime aperture. Lo stiamo facendo per la vostra protezione!

Doveva essere una delle zone indicate dalla brochure come in via di restauro, forse per applicare quelle misteriose misure anti-vampiro come all'aeroporto a Verona.

“Torniamo indietro.” borbottò senza darci troppo peso Josuke, ma Shizuka non sembrava muoversi al suo fianco. Tirava indietro il suo braccio e fissava un punto preciso, in una delle viuzze vuote e buie ancora non ristrutturate. 

Occhi rossi e brillanti sbucavano da essi.

Delle figure dalla carnagione fredda e morta e le bocche irte di denti aguzzi e storti si fecero strada da esse, tutto attorno a loro, e Shizuka si sentì rabbrividire dall’interno, il terrore puro a paralizzarla sul posto.

Vampiri.

Josuke prese Shizuka per un braccio, stringendosela con forza al fianco. Shizuka non poté fare altro che aggrapparsi a suo padre, mentre la sua mente andava completamente in black-out per il terrore. Josuke retrocedeva a ogni passo che i vampiri, o zombie che fossero, facevano verso di loro. Potevano uscire perchè la nebbia e le pesanti nuvole grigie nel cielo coprivano la luce del sole.

Josuke arrivò con i talloni a colpire la fontana al centro della piazza, anch’essa non funzionante in quella zona evidentemente a metà del lavoro.

Alle spalle degli Higashikata, dalla fontana che fino a pochi istanti prima era spenta iniziò a sgorgare acqua, che ribolliva con inaudita violenza.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Guai alla Città della Moda! (parte 3) ***


Questa fontana poteva ritenersi… strana. Raffigurava un grosso pesce- un siluro, a quanto diceva la placchetta sul fianco- che saltava in aria, e dalla sua bocca zampillava l’acqua, che poi finiva sulla base da dove il pesce sembrava saltare, dando così l’impressione che il pesce stesse davvero uscendo dall’acqua, con spruzzi annessi.

La targhetta rinrgaziava una certa “Banda” per l’idea e la costruzione. Doveva trattarsi della stessa impresa che aveva reso sicuro l'aeroporto e l’hotel.

“Questo posto è…”

“Inquietante?” la interruppe Koichi, visibilmente a disagio. Yukako alzò le spalle con disinteresse.

“Stavo per dire noioso. Dov’è l’informatore? Aspettiamo da mezz’ora. Saremmo potuti andare a prendere quel gelato famoso che fanno qui con il tempo che abbiamo perso ad aspettarlo.”

Il rombo di un motore colse entrambi di sorpresa. Da una porta sul retro che nessuno dei due aveva notato, oltre la fontana e nel recinto che separava la Città dal mondo esterno, una figura completamente vestita di nero fece il suo ingresso.

Indossava pantaloni in pelle nera, giacca da motociclista nera, guanti e anfibi anch’essi da biker neri e un pesante casco integrale dello stesso colore.

“Voi siete gli alleati di Kujo?” fece la persona. La sua voce era pesante e tagliente come l’acciaio. Koichi annuì appena mentre la figura oscura si levava il casco, lasciando che la lunghissima coda di cavallo color violetto le cadesse lungo la schiena. 

Gli occhi della donna, di un colore ambra intenso, erano taglienti e freddi tanto quanto la sua voce, e il rossetto nero faceva risaltare il non-sorriso perenne che giaceva sul suo viso affilato.

“Sono Minerva Matuzia, e sono la giornalista e collaboratrice della Fondazione Speedwagon. Lavoro alla Gazzetta di La Bassa. Suppongo che il signor Kujo non vi abbia detto nulla su di me.”

Benchè sia Koichi che Yukako avessero imparato alla perfezione l’italiano grazie a Heaven’s Door, e la donna- Minerva parlasse un italiano perfetto, il suo accento labassese era pesantissimo, strascicato e dalle lettere mezze pronunciate, che rendeva ai due giapponesi la comprensione un po’ difficoltosa.

“No, infatti…” borbottò Koichi. Tese una mano verso di lei, come sapeva fosse consuetudine in occidente, e Minerva la prese e diede una veloce e forte scossa di mano. Fece lo stesso con Yukako.

“Noi siamo Koichi e Yukako Hirose, siamo parte del gruppo.”

“Quanti siete?”
“Cinque. Mancano Okuyasu Nijimura e i due Higashikata, Josuke e Shizuka, padre e figlia. Loro due fanno parte della famiglia Joestar.” 

Minerva annuì, con qualcosa che sembrava poca convinzione nello sguardo che continuava a vagare all’orizzonte, verso le viette più oscure tra i negozi. Le persone attorno a loro non erano molte, per lo più ragazzetti con dei gelati in mano (benchè fosse il due marzo) e panini strabordanti. 

Yukako non si fidava particolarmente di lei, e lo si poteva notare dall’espressione tesa e dagli sguardi ambigui che lanciava alla donna. Ad essere sincero, non piaceva nemmeno troppo a Koichi- così fredda e ambigua… Chissà cosa aveva in mente. Chissà cosa doveva dire loro.

“Spero che i vostri tre compagni di viaggio siano al sicuro. Come ben saprete, il numero di vampiri nella zona è decuplicato nel giro di meno di due anni, e grazie alle nebbie e brutte giornate frequenti, i vampiri possono girare anche di giorno. Come oggi.”

Minerva invitò i due, con un gesto che tentava di essere garbato, a sedersi sui gradini della fontana. Koichi poteva sentire le goccioline d’acqua toccargli la nuca.

“Abbiamo notato le… contromisure per i vampiri? Consistono principalmente in fili spinati e barriere, giusto?”

“Sbagliato.” 

Koichi si zittì. Oh. Che modo sgarbato per dirlo.

“I vampiri non provano dolore, e hanno una forza sovrumana. Si stima almeno tre volte la forza di un umano non mutato. Muri, fili, o anche armi sono completamente inutili contro di loro. Ci sono due modi: materiali conducenti carichi di onde Concentriche, o…”

Minerva indicò alla fontana alle loro spalle. “Acqua. I vampiri non possono avvicinarsi all’acqua- o almeno, quest’acqua. L’acqua delle falde sotterranee di La Bassa, la pioggia labassese, il Grande Fiume e i suoi affluenti. I vampiri hanno paura di queste fontane in funzione, ma per la Città ve ne sono alcune ancora non funzionanti. Spero che nessuno sia stato attaccato.”

.
.

Josuke si guardò alle spalle, e solo grazie ai suoi riflessi e al suo conoscimento degli stand capì che qualcosa stava succedendo. Prese Shizuka per il retro della testa e la abbassò, buttandosi a terra a sua volta. Entrambi caddero sui dolorosi sampietrini dissestati, mentre ad appena pochi centimetri dalle loro teste delle potentissime lame d’acqua si staccarono dall’acqua traboccante della fontana a forma di un qualche dio greco-romano. 

Le due lame raggiusero un gruppetto di vampiri, che vennero tranciati a metà. Si impattarono entrambe sui muri delle case, e lasciarono un poderoso segno nel muro, come quello di una sega elettrica su un albero. 

“Sono lame a waterjet… è stata usata la pressione dell’acqua per uccidere i vampiri…” sussurrò Josuke, tirando in piedi Shizuka che ancora sembrava imbambolata sul posto. “Dobbiamo andarcene. Ci sei, Shizu? Ti proteggo io.”

Proprio quella frase riportò Shizuka alla realtà. Perchè lei era da proteggere, da aver cura e tenere in una campana di vetro per il resto della sua vita. Tentò di tirare indietro il braccio ma la presa di Josuke sul suo polso era di ferro.

Un’altra lama spuntò dal vaso che la statua del dio stava portando in spalla, falciando a metà la testa di un vampiro, che bruciò nel nulla nella nebbiolina padana.

“La Banda… la Banda…” sussurrarono i vampiri, quasi con tono spaventato. 

Shizuka notò che quegli esseri erano incredibilmente simili a quello che l'aveva attaccata, meno di un mese prima: anomali, pieni di bubboni e piaghe, che sembravano tutto tranne esseri superiori. Uno di essi aveva tre braccia, e uno non aveva occhi. Deformati, come se la trasformazione fosse andata male.

Uno si avvicinò troppo, ma venne colpito da Crazy Diamond con una tale violenza da quasi farlo a pezzi. Josuke la spinse ancora, dietro la sua schiena, mentre insisteva a proteggerla.

Perchè lei era debole. Perchè lei non era all’altezza.

Shizuka stette al gioco di Josuke, gli si mise alle spalle mentre lui continuava a tirare i suoi pugni velocissimi con il suo potentissimo stand.

Alla prima occasione, Shizuka divenne completamente invisibile. Voleva combattere. Voleva la sua vendetta- sui vampiri, sul destino, su suo padre.

Sgusciò lontana dal padre, attorno  ai vampiri- ce n’era uno che sembrava attratto e spaventato dalla fontana, troppo disattento per finire bene in un combattimento- e gli si avvicinò, convinta di sconfiggerne almeno uno. Magari con un sampietrino.

Quando Shizuka raccolse la pietra e questa si staccò con rumore secco dalla sabbia su cui era appoggiata, il vampiro si voltò a guardarla.

La stava guardando. L'aveva sentita? La vedeva, come l’aveva vista il primo vampiro?

Oh no. Non ci aveva pensato.

Shizuka si gelò ancora in quella posizione, stringendo il sasso tra le dita finchè i polpastrelli non le fecero male.

Il vampiro guardava nella sua direzione, annusava, e poi si guardò attorno.

Non la vedeva? Non la sentiva?

“Shizuka? Shizuka, dove sei andata!?” gridò suo padre, e il vampiro cambiò focus, concentrandosi su di lui. 

Josuke la stava cercando, chiamando, e non fece attenzione al vampiro che, attratto dal suo gridare e dal suo essere non più concentrato nella lotta, gli si fiondò addosso.

Shizuka gridò. 

Non papà. Non lui!

Non si mosse, ma il vampiro volò in aria e atterrò diversi metri più avanti, in un orrendo rumore di ossa rotte.

Shizuka tornò visibile solo una volta tra le braccia di suo padre, scossa almeno quanto lui.

“Sei stata tu?” chiese lui, stremato. Shizuka non lo sapeva. Lei voleva che quel vampiro si allontanasse da suo padre, e il vampiro era stato afferrato da qualche sorta di forza e scagliato via.

Annuí, poi negò, poi alza lo sguardo su Josuke, e infine si guardò attorno. I vampiri colpiti da Crazy Diamond- e anche quello scagliato lontano dalla forza di volontà di Shizuka- si stavano lentamente rialzando. Qualcuno di loro stava raccattando un braccio o la testa staccata dai colpi di Crazy D e se lo rimetteva in posto come se nulla fosse.

Era davvero la fine? Non c’era modo per sconfiggere i vampiri?

“Voi due.” li chiamò una voce. Limpida, cristallina, giovanile ma priva di qualsiasi emozione. “Se volete vivere, buttatevi nella fontana. Ora!”

Josuke non ci pensò due volte, sollevò Shizuka di peso e la buttò nell’acqua gelida della fontana. Josuke seguì.

Lo schizzo colpì un vampiro, e il contatto dell’acqua scatenò scintille sul suo corpo purulento che sembrò sciogliersi. In un grido, divenne polvere.

Un’esplosione, mille aghi neri che si conficcavano nei corpi dei vampiri ed essi che morivano folgorati, si accasciavano sul selciato e lì sparivano nel nulla.

Uno, fortunato sopravvissuto, corse sulle sue gambe instabili verso una vietta oscura, dove non sarebbe più potuto essere trovato. Dall’ombra però la lunga coda nera e metallica di uno stand, irta di enormi spine, lo falciò a metà con un solo, fluido gesto.

Il silenzio cadde di nuovo sulla piazza. L’acqua sotto e attorno ai corpi ancora confusi degli Higashikata si radunò lontano da loro e, affluendo verso l’alto come una cascata al contrario, scomparve alle spalle di una ragazza che era uscita dall’ombra. Era alta, dai lunghi capelli azzurro ghiaccio e una posa quasi marziale, mentre aspettava che un’altra ragazza uscisse dall’ombra. Questa era molto meno femminile, a malapena distinguibile il fatto che fosse una ragazza e non un ragazzino, e molto più bassa, arrivando forse a malapena alla spalla dell’altra.

“Boss, quelli sono portatori. E non sono di La Bassa.” disse la più alta, lisciandosi la divisa azzurra, una via di mezzo tra una divisa da combattimento e un costume rococò. Anche la sua voce era estremamente giovanile, me non era quella che Josuke e Shizuka avevano sentito.

La più bassa, dal giacchetto sportivo anch’esso irto di spine, negò. I suoi capelli erano corti e neri, e sul viso portava degli occhialoni gialli. Dove avrebbe dovuto trovarsi il suo occhio sinistro, proveniva invece una forte luce rossa, come quella di uno scanner.

“Dobbiamo valutare al più presto se sono un pericolo per noi.” disse infine, dopo quello che sembrava un periodo interminabile.  Era la sua voce, quella di prima. Apatica e dura. Le due fecero retrofront, e non si fermarono nemmeno quando Josuke si rivolse a loro. 

“Aspettate!” tentò invano, sporgendosi oltre la fontana in cui era rimasto. “Voi chi siete?!”

La ragazzetta mora non si voltò nemmeno per dargli una risposta. Sparirono nel buio, e la sua voce fu l’unica cosa che rimase di lei.

La Banda.”

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 - Guai alla Città della Moda! (parte 4) ***


Il tragitto di ritorno fu molto più lento ed estenuante dell’andata, o almeno così parve a Shizuka.

Lei era così fiera di sé stessa! Si sentiva forte, invincibile, e aveva sviluppato uno stand fisico, ne era sicura. 

Suo padre aveva sminuito la cosa, anzi, ne sembrava quasi infastidito. 

“Sarà stato uno degli stand di quelle ragazzine a farlo, non tu” aveva sbottato, mentre si stavano dirigendo al punto di ritrovo qualche ora prima. “Non credere che ti lascerò ancora andare in giro dove vuoi, o prendere parte in un combattimento. Tu non sai combattere!”

Shizuka non aveva parlato al padre per tutto il giorno, e in realtà, ora che erano in auto tutti assieme ed erano quasi tornati al Colori del Tramonto, non aveva parlato con nessuno.

Era furiosa. Suo padre ancora la considerava una debole bambina da proteggere- capiva il suo punto di vista, che fosse preoccupato per lei, ma non concepiva come lui potesse ritenerla così inferiore.

Lei non era inferiore. A nessuno.

Eppure si era sempre sentita tale. A scuola a Morioh quando non sapeva né la lingua né le usanze, e ora in quel gruppo, dove era la più giovane e l’unica senza nessuna esperienza nella battaglia. Era stanca.

Avrebbe voluto spalancare le sue nuove ali e volare via… dove l’aveva già sentita quella frase?

“Allora, il collaboratore?” chiese Okuyasu agli Hirose, durante quel lungo e silenzioso tragitto in auto. Prima, molto prima erano arrivati i convenevoli per le escoriazioni sul corpo di Josuke e su quel combattimento, ma la questione di quel giornalista labassese era rimasta sepolta. 

“Collaboratrice.” lo corresse Yukako, concentrata sulla strada. “Una certa Matuzia. Tipa inquietante.”

Detto da Yukako, doveva essere davvero una donna spaventosa.

“Non ci ha spiegato molto, ma ci ha detto che domani ci guiderà per La Bassa e che abbiamo bisogno di una guida, o ci perderemmo. A quanto pare La Bassa è molto labirintica come città.” concluse Koichi.

Ma nessun discorso sembrava attecchire in quel giorno cupo e mesto. Josuke continuava a guardare fuori dal finestrino, a fissare il nulla davanti a sé, quell’Italia che non si aspettava. Vuota, desolata, e oscura. Quel cielo tra il bianco e il grigio e quell’atmosfera nebbiosa che smorzava il verde brillante dell’erba e dei boschi incolti attorno ai fossi, il giallo del grano, il rosso dei mattoni delle antiche abitazioni.

“La Banda…” borbottò tra sé e sé, troppo piano perché potesse essere sentito dagli altri, sotto la radio che dava canzoni pop dal ritmo alcune volte accattivante, alcune volte stucchevole. Cos’era davvero la Banda? La ragazza dai capelli azzurri aveva chiamato l’altra boss, ma sembravano decisamente troppo giovani -dovevano aggirarsi intorno all’età di Shizuka- per far parte di una qualche organizzazione governativa, o di ricerca come la Fondazione Speedwagon. Quando prima aveva chiesto a Koichi se ne aveva mai sentito parlare, aveva risposto che le scritte sulle fontane recitava proprio quello. Gentile concessione della Banda, ma per quanto ne sapesse non c’era nessuna connessione con la SPWfoundation.

Avrebbe chiesto, il giorno dopo, spiegazioni a questa fantomatica collaboratrice labassese.

Ancora assorbito nei suoi pensieri e nei suoi dubbi, quando l’auto parcheggiò nel parcheggio protetto dell’hotel Colori del Tramonto, Josuke si diresse senza salutare nessuno nella sua camera.

Lì le stanze erano spaziose, e la sua era specificamente divisa in due camere da letto, una per sé e una per Shizuka, che si era rifiutata di condividere la camera col padre. Meno male, pensò Josuke spezzando quel treno di congetture che si stava compiendo nella sua mente riguardo i vampiri e la città di La Bassa e un gruppo di ragazzine combattenti. Shizuka non si era nemmeno degnata di guardarlo, nemmeno di tenergli la porta per entrare pur vedendo i grossi tagli sulle braccia del padre. Era furiosa, e anche se lui le fosse morto di fronte sapeva che lei non avrebbe reagito.

“Shizu, vieni qui e aiutami con le garze.” le intimò, indicando la valigetta che Josuke si portava sempre dietro, piena di attrezzi del mestiere e kit del pronto soccorso. Fortunatamente era un dottore e sapeva cavarsela da solo.

Shizuka però continuò a camminare furiosamente, verso la porta che separava le sue camere. 

Sod off.

“Shizuka. Per favore.”

Il per favore di Josuke suonava, però, più come un ringhio rabbioso che una richiesta, e ciò non fece altro che innervosire di più la ragazza. Alzò indice e medio e si chiuse la porta alle spalle, che fece altri due decisivi click- si era chiusa dentro.

No, Shizuka non l’avrebbe aiutato. Sapeva perchè si stava comportando così, per la questione dello stand, della debolezza, del fatto che Josuke non volesse che la figlia prendesse parte a scontri che evidentemente non avrebbe mai potuto vincere. Non importava. Aveva ragione Josuke, e Shizuka prima o poi l’avrebbe capito, con le buone o con le cattive.

I tagli sulle braccia non sanguinavano più grazie all’evoluzione dei poteri di Crazy Diamond, che gli consentiva di guarire molto più rapidamente dalle proprie ferite, ma guarire rapidamente significava dover comunque passare per il doloroso processo di sanguinamento, cicatrizzazione e guarigione. 

E disinfettarsi faceva male nello stesso modo di chiunque altro. 

Qualcuno bussò alla porta.

“Jos? È permesso?”

Josuke strabuzzò gli occhi, e impiegò qualche secondo a rispondere alla voce di Okuyasu. “Oh. Sì, è aperto.”

E Okuyasu fece il suo ingresso nella camera, illuminato solo dalla luce del corridoio alle sue spalle. I capelli argentati, sciolti lungo le sue spalle larghe, lo facevano sembrare avvolto da una luce angelica e Josuke si ritrovò completamente rosso in viso come una ragazzina che pensa al ragazzo per cui ha una cotta. Effettivamente non era tutto così lontano dalla realtà. Quando Okuyasu si sedette al suo fianco sul letto, Josuke si accorse di quanto gli fosse mancato, davvero. Non fisicamente- erano vicini di casa del resto a Morioh- ma emotivamente.

“Hai bisogno aiuto per le medicazioni, vero?”

“Già.”

“E Shizuka non intende aiutarti.”

“Già.”

Josuke, però, non riusciva a rispondere in nessun altro modo. Era così difficile…

Indicò a Okuyasu la stessa valigetta che aveva indicato a Shizuka ma, al contrario della ragazza, lui fu obbediente e la recuperò subito.

Seguì tutte le parole e indicazioni di Josuke, come disinfettare con l’alcohol, come applicare quella crema speciale, in che modo fasciare con le garze e con la sopragarza.

Okuyasu fece, fece tutto quello che gli veniva detto come un bravo vicario. Era sempre stato solo questo per tutti quegli anni, no?

Prima che Josuke si stufasse di quella relazione sbagliata, di quella vita angusta, e partisse per l’occidente e per una nuova vita. 

Okuyasu non lo vedeva come un pari? Lo vedeva come qualcosa di diverso, come tutti gli altri? Okuyasu parlava e discuteva con Yukako e con Yuuya e con tutti gli altri ma obbediva e annuiva solo a Josuke. Non era di compagnia, non era qualcosa in cui Josuke si sentisse alla pari.

Solo un’altra persona che lo considerava un estraneo. 

Senza pensare ad altro- magari al fatto che Josuke stesse pensando qualcosa di sbagliato, che qualche sua azione facesse reagire così Okuyasu- ritornò il freddo e apatico nuovo Josuke che era tornato a Morioh dopo dieci anni di assenza. 

Ora che ci pensava, Okuyasu non gli mancava davvero più.

“Ti ringrazio, Oku, ora vorrei riposare…” borbottò Josuke, facendo un vago cenno con la mano all’altro uomo- di andarsene. Il suo compito era stato svolto.

Nell’ombra, non vide- o fece finta di non vedere l’espressione delusa di Okuyasu. Un’ombra di confusione nel suo sguardo, di sgomento, di qualcuno che si chiede se era stato saggio aspettare per tutti quegli anni.

Oku si alzò, si chiuse la porta alle spalle e il silenzio e l’oscurità tornarono su Josuke, e nella sua testa scoppiò di nuovo il caos.

Al piano inferiore dell’albergo c’era un bar, aperto tutta notte. Avrebbe potuto farci un salto.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 - Il piano della Banda (parte 1) ***


“Per La Bassa ci sono dieci, forse quindici minuti di tragitto. È una strada molto semplice- semplicemente andare dritto, passare il ponte e continuare finché non arriviamo al cartello stradale con scritto ‘La Bassa’.” Disse Koichi, appoggiandosi all’autovettura. “Matuzia, la giornalista, ci ha detto che ci aspetterà lì con la sua moto. Dobbiamo seguirla, e ci porterà alla piazza centrale di La Bassa dove ci spiegherà per filo e per segno cosa sta succedendo in quella città. Chi si offre di guidare? Jos?”

Josuke negò, tenendosi una tempia con nonchalance. Sembrava davvero pallido. “Nah, non credo che abbia il tasso alcolemico giusto per guidare.” Sbottò Shizuka, ancora evidentemente infuriata col padre. Attraverso gli occhiali da sole lilla, messi ancora di più in risalto dal leggero trucco attorno ai suoi occhi affilati, le sue iridi baluginavano di un rosso sangue rabbioso. Josuke non rispose. Koichi non sapeva che Josuke avesse iniziato a bere.

Okuyasu si offrì di guidare, con un sorriso tirato, come a scappare da qualcosa- forse da Josuke stesso. Focalizzarsi sulla strada invece che su quell’uomo che sembrava ormai il vago ricordo del ragazzo modello di Morioh del 1999.

Roccarolo, dove si trovava l’hotel Colori del Tramonto, era un piccolo comune spalmato sul grande fiume Po sotto di esso. A separarlo dall’enorme comune di La Bassa, solo quel fiume. Certo, Shizuka da brava aveva fatto i compiti e si era informata su dove quell’avventura l’avrebbe portata, ma da wikipedia alla realtà c’era una grande differenza.

Il fiume Po, a parole, era un fiume come tanti: trentottesimo fiume più lungo d’Europa- benchè fosse l’undicesimo per portata d’acqua. Le nevi delle Alpi si scioglievano e, attraverso molti affluenti e fiumi minori, giungevano nel Mediterraneo proprio con quel fiume. Un fiume abbastanza potente da essersi scavato una pianura attorno, chiamata anche spesso Val Padana perchè, effettivamente, era la sua valle personale. Conosciuto per le enormi golene ai lati e i diversi argini che servono a contenerlo. 

Sì, sembrava qualcosa di abbastanza imponente, ma quando Shizuka si accorse che quella cosa che baluginava all’orizzonte era proprio il fiume, sentì il respiro fermarsi in gola.

L’auto iniziò il suo lungo cammino sul ponte principale e il più lungo sul fiume Po.

Era forse mezzo chilometro, e l’acqua sotto di loro era… grigia. Non era colorata, era di un colore incredibilmente spento come il cielo e al contrario della fitta vegetazione verde tra gli argini del fiume. Benchè il sole nel cielo giocasse a nascondino e la luce bianca a malapena raggiungesse la terra, riusciva a riflettersi nel fiume, con giochi di luce che qualche volta colpivano Shizuka e quasi le provocavano una fitta di dolore. Non era un dolore vero. Sembrava quasi di essere colpiti da uno stand, da una forza non di questo mondo. Tra le onde grigie e bianche, mulinelli neri come la notte portavano a fondo chissà cosa, in un lento destino.

Il fiume, infine, sembrava perdersi all’orizzonte, senza finire mai, come un lungo serpente velenoso di cui non sai dove si trovi la bocca irta di denti mortali.

E la magia finì com’era iniziata, con l’auto che raggiungeva l’altra sponda del fiume e Shizuka che si rendeva conto di essersi persa in un mare di pensieri inutili. Notò che, tra la boscaglia di pioppi nella golena del fiume, vi erano delle strane impalcature di legno. Difficile dire cosa fossero, dato la velocità con cui stava viaggiando.

Shizuka poi si ritrovò davanti al finestrino distese di verde e giallo, campagna ed erba e qualche sparuto centro abitato lungo il piattissimo orizzonte, e capì che la magia era finita.

Ogni tanto, a interrompere paesi e campagne, piccoli fiumi serpeggiavano nella terra portandosi dietro una lussureggiante vegetazione verde scuro, tutto attorno alle sue sponde, come stretti e lunghissimi boschi.

Vide perfino una lepre, grigia e quasi marrone, correre in un cespuglio. Shizuka sorrise. A Liverpool non aveva mai visto animali selvatici, e a Morioh non aveva mai avuto nessun interesse nel cercarli.

Passando per un’altro piccolo centro abitato e lasciandosi alle spalle cantieri in disuso, case padronali disabitate ricoperte di vegetazioni e vecchi cimiteri in pietra rossa e brillante, finalmente il glorioso cartello di “LA BASSA” fu visibile a tutti. Davanti a esso c’era una donna in una stretta divisa da motociclista su una moto nera e lucida come l’ossidiana, che partì davanti a loro con un sonoro e fortissimo rombo che spaventò Shizuka e, dato il saltello che aveva fatto sul sedile, anche Koichi. Yukako ridacchiò della cosa.

La donna in modo davati a loro sembrava far fatica a stare al loro passo, abbastanza lenta da non essere persa di vista mentre si addentravano nel centro di La Bassa- sempre meno campagna, sempre più case, parchi, alberi, ma ancora le persone sembravano quasi mancare. Non era una città particolarmente abitata, benchè le case- villette a schiera di ceto medio, interrotte da vere e proprie ville moderne- fossero tutti attorno a loro.

Poche persone diedero loro il benvenuto nella città, che non sembrava davvero tale. Sembrava uno di quei paesi che avevano passato, solo poco più affollato e in scala molto maggiore.

Shizuka stava ancora guardando fuori dal finestrino quando notò due figure ferme davanti a quello che sembrava una grossa villa d’epoca, forse un teatro. Avevano dei pacchi ai piedi, ed erano al telefono. Stavano fissando l’auto in cui erano loro, e la ragazza gesticolava animatamente al telefono- Shizuka notò solo, con quella vista che sembrava essere migliorata- che fece un segno particolare: si indicò gli occhi. L’altro ragazzo al suo fianco, più alto e dalla pelle scura, indicò proprio Shizuka, sembrando sbraitare al telefono, gesticolando nello stesso modo esagerato dell’altra. 

Oh no. Sembrava qualcosa di sospetto. Avrebbe dovuto chiamare qualcuno? Dire agli altri dell’accaduto? Forse era solo paranoica, forse l’avventura le stava dando alla testa.

Quando si voltò a guardare, l’auto voltò a un incrocio e Shizuka non fece in tempo a seguire i movimenti, e il vecchio teatro o villa e i due ragazzi sospetti sparirono dal suo campo visivo. Shizuka si agitò sul posto, guardandosi attorno. Suo padre Josuke stava scorrendo la home di Instagram con gli occhi socchiusi, Yukako, Koichi e Okuyasu stavano amabilmente parlottando del più e del meno nei sedili anteriori. Nessuno si era accorto di quei ragazzi?

Nessuno si era nemmeno accorto della sua reazione terrorizzata. Decise di calmarsi, agire con cautela e pensare, soprattutto. Tendeva ad agire senza persare molto, ma doveva cambiare questa sua tendenza se voleva davvero vivere la propria avventura e non creparci.

Si strinse tra le mani la sciarpa che si era messa al collo, non particolarmente calda ma estremamente morbida e leggera, che era appartenuta alla sua bisnonna Elisabeth. Chissà se le sarebbe servita in quella avventura. Chissà se sarebbe stata un’avventura, chissà se avrebbe combinato qualcosa lì in Italia?

L’auto si fermò quando la moto parcheggiò. 

Era un piccolo parcheggio, immerso nel verde a sua volta e contornato da parchi e un grosso edificio in cui persone di ogni tipo entravano- anche se non erano molte. 

“Questa è la grande biblioteca di La Bassa.” disse Minerva Matuzia, indicando l’edificio, una volta che tutti furono fuori dai loro veicoli. Era di una pietra bianca scoperta ed era diviso in tre edifici principali, su più piani, e sopra di esso svettava una pesante torre campanaria. “Un tempo, serviva anche come comune. Ora si è trasferito nella piazza del Castello.”

“C’è un castello a La Bassa?” chiese Okuyasu. Minerva si voltò a guardarlo, e il suo volto duro si incrinò con un sorriso per un attimo. “Beh, c’era. È rimasta solo la torre centrale, ma è uno spettacolo. Vi sto proprio portando lì.”

Anche Okuyasu rispose al sorriso fugace di Minerva, e in tutto ciò Josuke rimase a guardare quella scena con aria disgustata. Forse arrabbiata, o ingelosita.

Josuke all’inizio della camminata che dal parcheggio li avrebbe portati al centro della città era rimasto dietro Shizuka ad osservare ogni suo movimento, ma ora si era quasi dimenticato di lei, sprintando davanti a Yukako e mettendosi quasi tra Okuyasu e Minerva. 

Shizuka era rimasta indietro, in coda al gruppo, e non poteva chiedere di meglio.

La Bassa era una città palesemente antica, con stradine strette e contorte attorno agli edifici che sembravano schiacciarsi per larsciar spazio agli altri. Una casa che un tempo doveva essere stata una villa di campagna, seguita da una piccola e modernissima casetta high-tech con pannelli solari, attaccata a una vecchia casa a schiera anni ottanta. 

E tutte, stranamente, recintate e schermate dall’esterno, con enormi reti e pali metallici, a dividere non solo i giardini l’uno dall’altro ma anche al marciapiede in pavè in cui stavano camminando loro. Anche tra il marciapiede e la strada, praticamente non trafficata benchè fossero quasi in centro, si ergevano dei pali a distanza di circa un metro l’uno dall’altro.

Shizuka ne toccò uno, e le diede una lieve scossa alla punta delle dita. Un lembo della sua sciarpa toccò uno di essi, e lasciò una forte scarica elettrica, che scoppiettò nell’aria. Koichi si voltò a guardare cosa fosse stato a fare quel rumore, ma Shizuka rispose che era stata lei. Nulla di preoccupante. Per qualche motivo, non si sentì di dirgli cosa era stato davvero.

Finalmente, voltato ancora l’angolo, davanti a loro si stagliò qualcosa che doveva essere stato un muro di cinta secoli orsono, e ora era poco più che un arco con un muro diroccato attorno. C'era uno stemma intarsiato poco sopra l'arco da cui stavano entrando, e dentro lo stemma c'era una fenice che prendeva il volo. Il simbolo di La Bassa, la città della fenici.

Oltre ad esso, Piazza Castello.

Era quadrangolare, e al mezzo si ergeva proprio l’enorme torre dell’orologio in tutta la sua imponenza, rosso-dorata contro il cielo argento.

La piazza aveva una pavimentazione di ciottolato, grandi sassi levigati dal potente fiume Po lì vicino, grossa almeno quanto, effettivamente, un castello. Attorno ad esso, delle antichissime case in mattoni simili a quelli della torre, rosso-dorati e grossi.

Minerva indicò gli uomini in giacca fluorescente che stavano prendendo un caffé a uno dei bar incastrati nei portici attorno alla piazza. “Ora sono in pausa, ma mi hanno permesso di farvi vedere il cantiere. Stanno impiantando i fili di alta tensione sotto terra, così che le Onde possano passare sotto la città e collegare tutti i cancelli che avete visto lungo la via.” spiegò velocemente Minerva, accompagnandoli in un angolo più stretto della piazza, dove qualcuno li stava aspettando, avvolto in un cappotto blu notte.

“Ci avete impiegato.” borbottò Jotaro, guardando il gruppo in cagnesco.

Tutti ignorarono quella frecciata.

“Minerva, hai accennato alle Onde… parli di quelle Concentriche?”

Minerva annuì, e la sua lunga coda di cavallo viola si scosse in quel movimento. “Sì, loro provvedono a quella. I fili di alta pressione sotterranei, così come i cancelletti delle case e degli edifici pubblici e le protezioni per i marciapiedi, sono costruiti in una lega unica di Niobio- Tantalio- Manimantio, una lega ultra-resistente, ultra-flessibile e che si trova solo nelle profondità della terra di La Bassa. Questa lega ha la proprietà non solo di condurre le Onde Concentriche al 100%, ma anche di immagazzinarla.”

“Così i vampiri non possono attaccare le persone nelle case o mentre girano per strada, giusto?” chiese Okuyasu a Minerva, che gli sorrise ancora. “Esatto. Ma nelle frazioni più lontane del comune, le onde non arrivano. Così mio padre, il sindaco di La Bassa, assieme a loro, ha deciso di…”

Loro…” la interruppe Josuke, con una nota di aggressività che in quella situazione davvero non serviva. “Per loro intendi la Banda, vero?”

A Minerva parve gelarsi il sangue, e per la prima volta quel muro di freddezza che aveva costruito attorno a lei si sgretolò un po’. “Come li conosci?!” chiese di getto. Josuke alzò le spalle. 

Che te ne frega, strega? avrebbe voluto risponderle. Ma Jotaro lo avrebbe cacciato via, o forse colpito, così decise di collaborare. “Quando i vampiri hanno attaccato me Shizuka alla Città della Moda, due ragazzine ci hanno salvate coi loro stand e hanno detto di far parte della Banda.”

Minerva strinse i pugni e sembrò impallidire. “Non dovete avvicinarvi alla Banda. Saranno pure i paladini della città, ma possono essere davvero, davvero pericolosi. Non dovete avvicinarvici e avere contatti, non finchè sarete in contatto con me e con la Fondazione Speedwagon.”

Il suo tono era cupo, e quasi tremante. Oh no. Questi della Banda sembravano essere tipi tosti. Josuke fece spallucce, anche se sentiva a sua volta i brividi lungo la schiena.

Erano un’organizzazione così preponderante sul territorio? Erano davvero così pericolosi?

“A proposito, Josuke” chiese Jotaro nel silenzio che si era creato. “non hai fatto venire Shizuka con te oggi?”

Sì che era lì. Si voltò e non c’era.

Ah, forse si era allontanata. Era diventata invisibile e aveva deciso di giocare a nascondino nella piazza.

Il cuore iniziò a battere forte nella gola di Josuke, che si diresse fuori dalla via e dentro la piazza. Non sentiva la sua aura. Non sentiva che fosse nemmeno vagamente nelle vicinanze.

“Shizu?!” tentò di gridare, ma si beccò solo qualche occhiataccia dai lavoratori e dagli anziani nei bar e fuori dalle farmacie.

Pestò qualcosa di rumoroso. Sotto la suola delle sue scarpe, un bigliettino.

Josuke lo stritolò tra le dita una volta letto, e lanciò un urlo rabbioso contro al cielo.

 

Voi Joestar e voi traditori della Fondazione Speedwagon avete deciso di schierarvi con il nemico. L’amico del nostro nemico è, ovviamente, a sua volta nostro nemico.

Se le cose stanno così, se avete avuto il coraggio di venire nel nostro territorio e cercare di rovinare la nostra città, allora avrete la punizione che vi spetta.

Grazie per il regalo inaspettato, che ci siamo già presi.

Ora tocca a voi.

Venite alle nostre Scuole e finiremo ciò che avete iniziato.

 

Firmato: la Banda delle Onde Concentriche.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 - Il piano della banda (parte 2) ***


Shizuka non si era mossa, per una volta non era stata colpa sua. Era zitta e buona e ferma dietro agli Hirose e a suo padre che tentava di separare a tutti i costi Okuyasu da quella tipa strana, quando all’improvviso cadde.

Tutto divenne nero, come se fosse caduta in un buco, un tunnel, qualcosa. Shizuka non riusciva a vedere niente, se non l’ombra più buia. Decise di chiudere gli occhi e aspettare che la luce tornasse, perchè cos’altro poteva fare? Sembrava non potersi muovere, che quel tubo in cui era caduta senza muoversi da dove era prima fosse troppo stretto per un qualsiasi movimento.

Dopo un'interminabile sfilata di istanti, il terreno tornò sotto ai suoi piedi e Shizuka cadde a terra. No, non era terra, e non era nemmeno il ciottolato della piazza Castello.

Erano mattonelle bianche.

Quando alzò lo sguardo e riuscì a tornare a ragionare, cercando di spingere in un angolo la paura che l'aveva acciecata fino a poco prima, capì che si trovava in un laboratorio. Neon appesi al soffitto, pareti bianche, e un puzzo insostenibile di sostanze chimiche.

Un'ombra strisció da sotto di lei e si ricongiunse a quella di uno dei ragazzi che la stavano circondando, tutti in piedi attorno a lei.

Quello con l'ombra che si muoveva, palesemente uno stand, era vestito elegantemente di viola scuro e aveva i capelli corvini laccati all'indietro. Le fece un mezzo inchino. "Scusami, il modo per portarti qui non è stato il migliore, ma era l'unico disponibile."

Shizuka notò che tutti i ragazzi attorno a lei erano giovani, almeno quanto lei. Al fianco del ragazzo alto e magro elegante, c'era la ragazzetta vestita di spine che l'aveva salvata il giorno prima alla Città della Moda. Era fredda e distante come il giorno prima, e sul suo viso pallido non c'era nessun tipo di emozione. L'occhio destro sotto gli occhialini gialli che portava ora era una luce fissa rossa, uno scanner che la stava studiando fuori e dentro.

La porta dei laboratori era socchiusa, dunque aperta. Avrebbe potuto diventare invisibile e correre via, ma appena tentò di muoversi quattro potenti braccia la bloccarono sul posto. Era stato un ragazzo- dalla pelle olivastra e abbronzata e i lunghi capelli castani a fermarla. Benché fosse ben più basso dell'altro ragazzo era almeno largo il doppio, e oltre alle sue grosse braccia a tenerla ferma vi si aggiungevano anche un paio di braccia, palesemente stand, sotto le sue ascelle.

Le passò una corda attorno al corpo, a bloccarle le braccia contro i fianchi. "Troppo stretto?" Chiese lui, con un accento ancora più marcato degli altri e forse più stentato, come se l'italiano non fosse la sua lingua natia. 

Shizuka negò. Andavano bene. Lui sorrise. "Neh che queste corde sono più morbide?"

"Piero, siamo in missione, per favore…" lo rimbeccó il ragazzo alto ed elegante. Piero gli rispose qualcosa in una lingua che Shizuka era sicura di non conoscere. Dialetto labassese, sicuramente. 

Piero continuava a tenerle la corda per non lasciarla scappare mentre la ragazza mora fece qualche passo in avanti. Shizuka notò che non era molto più alta di lei, si e no dieci centimetri, e Shizuka era solo un metro e cinquanta d'altezza.

"Io sono Zarathustra Bennutti, e sono il boss della Banda delle Onde Concentriche." iniziò a spiegare lei. Shizuka volle non ascoltarla, ma sembrava emettere un'aura di potenza a cui Shizuka non poteva sottrarsi. Avrebbe potuto dimenarsi, tirarle un calcio, ma non lo fece. Si sentiva oppressa anche solo dalla sua vicinanza.

“Benvenuta nel nostro quartier generale. Queste sono le scuole di La Bassa, un grande polo scolastico che comprende le scuole di tutti i gradi, dall’asilo nido fino all’università. Come puoi notare, ora ci troviamo nel laboratorio di scienze chimiche.”

Le sue parole erano ben scandite, la sua voce cristallina ma gelida. Al suo fianco il ragazzo elegante sembrava voler prendere la parola, e alle loro spalle l’enorme ragazza combattente del giorno prima- che superava entrambi in altezza, e di molto. Doveva essere alta almeno quanto Josuke, pensò Shizuka, con a malapena la forza di alzare gli occhi. Quella doveva essere una guardia del corpo, o qualcosa del genere. Vicino a lei, un ragazzo vestito almeno barocco quanto lei, dall’espressione più concitata e i capelli corti e di diversi colori- dal nero all’oro al platino.

Mentre Zarathustra parlava, Shizuka si guardò un po’ in giro. C’erano altri ragazzi poco lontano, ma loro sembravano decisamente troppo giovani per essere guerrieri- due ragazzini e una ragazzetta, tutti emozionati di far parte di quella strana messa in scena, evidentemente.

Non ti fidare, disse la voce della coscienza nella mente di Shizuka, che però non suonava affatto come la propria voce che affollava la sua mente. Mantieni la calma, studia un piano e non agire finchè non sei sicura di cosa fare. Valuta tutte le opzioni. Aspetta. L’ora giusta arriverà presto, ma non ora.

E Shizuka obbedì e cercò di farsi un’idea della situazione.

“Perchè mi avete rapita, legata e portata qui?”

“Perchè ti vogliamo, Shizuka.” la interruppe Zarathustra. Shizuka non osò controbattere. “Io voglio che tu faccia parte della Banda, ma non voglio i Joestar trai piedi. Tu ci servi nel nostro compito.”

“Non vogliamo farti del male, che sia chiaro. Le corde sono più per il tuo bene che per altro.” aggiunse il ragazzo alto e snello, appoggiandosi elegantemente una mano sul petto. “Io mi chiamo Ludovico Scuvani, piacere di conoscerti, Shizuka. Sono il vice di Zara nella Banda.”

Ludovico sembrava molto più diplomatico di Zarathustra, che invece era grezza e diceva quello che doveva dire senza troppi giri di parole. Ludovico era probabilmente quello che doveva mettere lo zucchero sulle parole del Boss.

“Zara vuole dire che tu sei eccezionale, unica nel tuo genere.” continuò Ludovico, mentre al suo fianco Zarathustra rimaneva ferma e immobile, l’occhio rosso che aveva ricominciato a pulsare. La stava studiando?!

“Il tuo sangue” disse Zarathustra, “il tuo sangue è qualcosa di cui noi abbiamo un assoluto bisogno nella nostra lotta contro i vampiri. Ma non ci serve solo il sangue, ci servi tu. Il tuo sangue contiene tracce del vampiro più potente mai esistito, e delle più forti onde concentriche, tutto assieme. Ciò ti rende immune agli effetti del veleno dei vampiri, e invisibile ai loro sensi. Per loro, il tuo odore non è umano. Il calore del tuo corpo non è umano. E legato alla tua abilità di diventare invisibile, ti rende l’arma perfetta contro il vampirismo.”

Shizuka rimase interdetta. Se non avesse avuto le corde e le braccia di Piero a tenerla ferma, sarebbe caduta sicuramente.

Ecco perchè i vampiri, alla Città della Moda, non l’avevano attaccata al contrario di ciò che era successo a Morioh.

“E tu come sai tutto questo?” borbottò Shizuka, ancora confusa da quella rivelazione inaspettata. 

Zarathustra toccò la lente dell’occhialone che portava sul viso, indicando il bagliore del suo occhio sotto di esso. “Il mio stand, 42. Io vedo tutto. Io so tutto.”

“E con il mio Black or White ti ho portata qui. Spero che il viaggio sia stato abbastanza confortevole.” le sorrise Ludovico.

La porta si aprì appena e una donnina di mezz’età con un tailleur rosa antico bussò alla porta mezza aperta. Indicò l’orologio di oro rosa che portava al polso, uno stranissimo, enorme orologio fatto a più pezzi, e Zarathustra annuì. Lei e Ludovico si scambiarono una veloce occhiata.

“Ovviamente non possiamo obbligarti a far parte della nostra Banda.” iniziò Ludovico, ora vagamente più nervoso. 

“Hai cinque minuti per scegliere, prima che i Joestar siano qui.” tagliò corto Zarathustra. Alzò un braccio, attirando l’attenzione di tutti.

“Regina e Ferdinando all’ala Verde, Anna e Lisa nell’Ala Rossa e ricordati di stare vicino alla classe Forte, Piero e Enrico all’Ala Blu. Veloci.”

I ragazzi si dispersero velocemente, mentre solo uno rimaneva. Piero gli consegnò il lembo di corda che teneva Shizuka e quel ragazzo- alto, biondo e dal fisico abbastanza forte ma il viso di un ragazzino- non ne sembrava particolarmente contento.

“Alex, tu rimani qui con lei. Al mio segnale, dirigiti sul retro della scuola, nell’aula magna. Non uscire nei corridoi, attraversa solo le classi con le porte. Non metterti in pericolo, capito?”

Con lui, il boss sembrava molto più paternalistica. Il ragazzo, che la superava di almeno venti, trenta centimetri d’altezza, annuì con un vago broncio sul viso pallido. “Sì, sorellona.”

Zarathustra fu soddisfatta della reazione che quello che doveva essere suo fratello minore aveva avuto. 

“Zara, perchè non posso partecipare al piano anche io?” chiese però il ragazzo, Alex, con un tono di voce da capriccio. “Sono un allievo, è vero, ma anche Annalisa e Enrico lo sono ma loro combattono. Perchè non mi fai mai combattere?”

Zarathustra si voltò verso il fratello minore, senza nessuna espressione sul suo viso, come sempre. “Perchè sei debole, Alex, e io devo proteggerti al meglio. Annalisa e Enrico hanno sviluppato un po’ il loro stand ed è utile in battaglia, ma il tuo non lo è. Sei debole e il mio compito è difenderti. Sta’ qui e fai il bravo.”

Alex smise di parlare, e Shizuka si sentì mancare un battito al suo cuore già lento. Guardò quell’Alex negli occhi verdi e vide la sua stessa determinazione, e la sua stessa tristezza.

L’ombra di Ludovico cambiò forma e si trasformò in un cerchio, in cui Zarathustra saltò dentro e ne venne inglobata. Ludovico saltò a sua volta, e l’ombra, ridotta a un piccolo cerchio nero delle dimensioni di un pallone da calcio, scivolò sotto la porta e sparì.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 - Il piano della banda (parte 3) ***


Echoes venne evocato nella sua quarta forma, e attivò il suo potere principale: la gravità. Se non l’avesse fatto, se non avesse aumentato di un bel po’ di volte sul corpo di Josuke, lui si sarebbe messo a distruggere tutto ciò che gli stava attorno, perso nella furia cieca com’era ora.

Tutti i presenti- tranne ovviamente Minerva- credevano davvero che quella tremenda parte del carattere di Josuke se ne fosse andata col tempo, per scoprire che invece non aveva fatto altro che peggiorare.

Una volta letto quel fogliettino che aveva trovato per terra al posto della figlia, i suoi capelli scattarono in alto, e nei suoi occhi la ragione sparì per lasciare spazio all’ira più profonda e animalesca. Alle sue spalle, Crazy Diamond brillava di una luce non più rosa ma quasi rosso fuoco, e tutti sapevano che, senza l’intervento di Koichi  e del suo stand, sarebbe finito in tragedia.

“Meglio?” gli borbottò Jotaro, dandogli un colpetto sulla spalla con la punta dello stivale. Josuke grugnì, mezza faccia schiacciata contro i sanpietrini e incapace di rialzarsi in piedi a causa di Echoes che fluttuava sopra di lui. Riuscì in qualche modo a borbottare un sì, anche se poco convinto.

Era ovvio che non andasse meglio. Avevano rapito sua figlia.

“Non è il momento di lasciarsi andare alla rabbia così, Josuke.” gli rinfacciò Okuyasu, meritandosi un sorriso da Minerva. “Ti ha spaventata?” chiese alla donna. Lei alzò le spalle fingendo disinteresse, ma era ovvio che, almeno, ci fosse rimasta male per quello strano scatto d’ira animalesca.

Okuyasu rivolse un sorriso alla donna labassese, quasi a ridere in faccia a Josuke, e Josuke sentì un vuoto in fondo allo stomaco.

Avrebbe voluto vomitare a vedere quella scena. Avrebbe voluto sputare tutta la sua bile acida contro la faccia di Okuyasu, che rideva della disperazione di Josuke e ci stava provando con un’altra davanti a lui, in quel preciso momento.

La rabbia per quella constatazione- che Okuyasu si stava allontanando con lui però non riuscì a farsi troppo strada nella sua mente, annebbiata da un unico pensiero: trovare Shizuka.

“Il biglietto dice di trovarsi alle scuole. Non è una buona notizia.”

“Perchè?”

“Faranno del male a Shizu?” interruppe Josuke, ma l’unica a rispondere e a sembrare interessarsi a quella domanda fu Minerva, che scrollò le spalle. “Non credo. L’hanno portata nella scuola per quel motivo- la sicurezza. Se l’hanno definita regalo forse è per qualche sua abilità che vogliono usare.”

“Forse le Onde Concentriche.” disse solenne Jotaro. 

Minerva aprì le braccia, e alle sue spalle un luminoso stand bianco e dorato apparve. Aveva al posto della testa un elmo corinzio d’oro e di pregiata fattura, e sotto ad esso solo luce. Una leggera armatura a scaglie anch’essa d’oro, un lungo mantello bianco lucente e una sola mano, dato che l’altro braccio era una lancia.

La mano dello stand andò al suo petto, dove due occhi si trovavano, e dagli occhi partì un ologramma che si posò tra le mani aperte di Minerva.

“Il mio Pallas Athena mi permette di creare illusioni ottiche, ologrammi e mappe dettagliate. Questo è il complesso scolastico di La Bassa.”

L’ologramma tra le sue dita era una struttura complessa, lunga e tutta unita e divisa in più sezioni, come un grosso lombrico di pietra.

Nel mezzo vi si trovava un parco- probabilmente per le lezioni di educazione fisica- e così anche tutto attorno. Vi erano altre strutture al fianco, più piccole. Una di foggia molto moderna e un tetto di vetro, e poi diversi campi di vari sport. In un angolo, un grosso parcheggio.

Tutt’attorno, un enorme recinto di metallo e un fossato pieno d’acqua.

“Il complesso è stato costruito nel 2014, e comprende tutti i gradi d’istruzione, dall’asilo nido fino alle università, e comprende anche le palestre e i luoghi di attività fisica. È stato costruito apposta perchè i più giovani e deboli non potessero venire attaccati dai vampiri. Anche la casa di riposo e i circoli per anziani sono costruiti nello stesso modo.”

“Dunque il complesso scolastico è il luogo più sicuro di La Bassa?”

Minerva annuì alla domanda di Koichi. “E perchè proprio nel luogo più sicuro? Non sarebbe stato meglio per loro se ci avessero affrontato in un luogo in cui non avremmo potuto proteggerci dai vampiri?” continuò Koichi. Lo sguardo di Minerva si fece più cupo.

“Purtroppo, il polo scolastico è famoso per essere la loro sede lavorativa principale, nonché il luogo in cui coltivano i prossimi componenti della Banda, insegnano loro a usare gli stand e le Onde Concentriche. Ci vogliono lì perchè saremo in netto svantaggio numerico e in un territorio completamente ostile, in loro completa balia.”

Josuke, con un gesto della mano stizzito, fece svanire il miraggio tra le mani di Minerva. Nei suoi occhi c’era rabbia, determinazione e disperazione.

“Ho sconfitto serial killer, divinità e le forze della natura, non mi spaventano certo un branco di bambinetti. Portami da mia figlia.”

.

Come detto da Minerva, il complesso era protetto da un cancello altissimo in puro metallo, e dietro di esso, alla porta principale, c’era un uomo sulla sessantina che leggeva il giornale e beveva il caffè, seduto nella sua cabina personale.

Alla vista di Minerva il suo sguardo si dilatò, e una vaga nota di divertimento si fece strada sul suo viso peloso. Aprì il cancelletto, e lasciò passare i Joestar.

“Buon divertimento, Minerva, e anche tutti voi.” disse lui, con il tono più calmo del mondo. Notando però gli sguardi degli altri che la accompagnavano, si sentì in dovere di continuare a parlare. “Non preoccupatevi, la Banda ha come regola di non spargere sangue davanti ai bambini.”

Peccato ci siano altri modi per uccidere che non involve spargere sangue, era ciò che non aveva detto il portiere. Non aveva bisogno di dirlo. Tornò a bere il caffè, ignorando il destino crudele verso il quale il gruppo si stava avviando.

Alle finestre, Josuke controllava se poteva vedere sua figlia, se forse era in una di quelle stanze, ma tutti i visi che vedeva- bambini, ragazzi di ogni età- erano sconosciute. Sentiva il cuore tremargli, le gambe rigide in una via di mezzo tra il voler correre e il cedere e farlo capitombolare a terra allo stesso momento. 

Quando varcarono l’ingresso della scuola, la grossa scrivania dotata di svariati schermi della preside iniziò a suonare.

Quella non era una scrivania normale, infatti- era lo stand della donna, Men at Work, che le permetteva di sapere qualsiasi movimento in un’area specifica, nel suo caso il complesso scolastico, anche se si trovava nell’area opposta della scuola, in un abbaino che fungeva da aula insegnanti e ufficio della preside.

“Sono arrivati all’entrata est, come sospettavi.” disse la preside, indicando lo schermo principale. E sullo schermo comparve il gruppo, due donne e quattro uomini, fermi e all’erta. Zarathustra annuì, senza nessuna espressione come al solito. Ludovico era al suo fianco, alle spalle della preside, e al cenno di Zarathustra inviò il segnale al cercapersone dei gruppi che il Boss aveva designato per attaccarli.

“Ora inizia la fase due.” continuò Zarathustra, indicando la mappa luminosa intarsiata nella scrivania-stand i vari sentieri che i gruppi avrebbero compiuto. “Sono sei, due per ogni gruppo. Prenderanno tre direzioni diverse, ma si dirigeranno tutti alle palestre, dove li finiremo lontani dagli studenti.”

“Senza spargimenti di sangue e non nella scuola, come da accordo.” concluse Ludovico, facendo sorridere la preside. 

“Come d’accordo.”

La preside avrebbe preferito che questo combattimento si svolgesse lontano dai suoi studenti, ma non poteva opporsi- del resto, se quella scuola esisteva e se lei era la preside, lo doveva tutto alla Banda e al suo capo e fondatrice, Zarathustra Bennutti.

Zarathustra tirò fuori dalla tasca del suo giacchetto bianco e nero a spine un becher sigillato pieno di polvere blu. “Gli studenti di chimica hanno fatto un lavoro veloce e preciso. Si meritano una lode.”

Con un altro cenno della testa del Boss, Black&White di Ludovico si aprì ancora sotto ai loro piedi. “Andiamo a preparare la palestra, se non le dispiace. Sa, ormai è iniziato il conto alla rovescia. Arrivederci.” le sorrise il sempre gentile ed educato Ludovico.

Il capo e il vice della Banda sparirono ancora nello stand, mentre la preside si preparava a controllare la situazione.

Lanciò il comunicato a ogni classe di prepararsi. Le porte e verande della scuola erano rinforzate in caso di attacco zombie o vampiro, fossero essi dotati di stand o semplici mostri mangia-persone. Ma, nel caso, la preside poteva chiudere a chiave ogni classe con il suo Men at Work, ed era questo quello che fece. 

Tranne per la classe Forte nell’ala rossa, designata alle scuole superiori. Si chiamava forte non per niente.

Controllò con precisione ed ansia che non ci fosse nessuno ad aggirarsi per i corridoi, se non i guerrieri della Banda e i Joestar.

Dagli schermi, vide il gruppo dei Joestar discutere, indicarsi, e infine dividersi in tre gruppi da due, come Zarathustra aveva preannunciato.

Il piano della Banda era iniziato.

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 - Il piano della Banda (parte 4) ***


Se l’ingresso poteva sembrare quello di una tipica scuola, più vi ci si addentrava e meno lo sembrava.

Assomigliava più una scuola adatta ad uno scenario di guerra, in cui gli alunni- bambini in quel caso, come aveva specificato Minerva, quella era l’ala Verde atta a gradi elementari e medie- dovevano essere protetti il più possibile, a discapito dell’ambiente.

I muri erano spessi e armati da metallo che sporgeva da essi, e anche se erano colorati di un verde prato acceso, non sembrava affatto un luogo più divertente.

Anche le piastrelle dei pavimenti erano bordate di metallo, così come le imposte delle finestre. Vetri spessi, che facevano a malapena passare la poca luce del cielo grigio labassese. Vi era qualche disegno sui vetri, fatto da qualche bambino probabilmente. Le porte erano in metallo, pesantissime e anch’esse colorate di verde e intasate con fogli appesi e disegni di bambini, un po’ sbiaditi dal tempo.

Koichi rabbrividì a quella scena. Quel posto non gli piaceva. Era come se volesse piacere a forza, senza riuscirci. Jotaro al suo fianco, invece, non ne sembrava minimamente intaccato. Camminava con il suo passo, vagamente claudicante e non più veloce come una volta, e Koichi non riuscì a leggere nulla nel suo sguardo. Forse perchè era al suo fianco sbagliato, quello dell’occhio tranciato a metà da Pucci nel 2012 e sostituito da uno di vetro. Freddo e asettico come il suo sguardo normale, ma che mancava del fuoco e dalla forza d’animo che contraddistingueva tutti loro Joestar.

Jotaro aveva insistito per recarsi nell’ala Verde, assieme a Koichi. “Qui non si scateneranno con l’uso degli stand, non in mezzo ai bambini.” si era giustificato Jotaro. Josuke l’aveva preso in giro chiedendogli se non fosse spaventato e se sapesse ancora usare il suo Star Platinum, e Jotaro non aveva risposto. Il gruppo si era zittito e Jotaro aveva preso Koichi con sé.

Koichi avrebbe voluto andare con Yukako, sinceramente. O con Josuke. Insieme a Jotaro non si sentiva mai a suo agio, e ora che sembrava così vecchio e debole e misterioso ancora meno.

Ad ogni passo, la zona si faceva sempre più tetra, mesta, la luce filtrava sempre più carente dai vetri sporchi e pieni di polvere, e uno strano puzzo si faceva sempre più forte.

“Che razza di scuole elementari sarebbero queste?!” borbottò Koichi, guardandosi attorno. Per qualche motivo, si sentiva sul punto di svenire dall’orrore.

Era terrorizzato, e avrebbe voluto scappare via. I suoi passi si facevano sempre più lenti e rigidi, mano a mano che l’aria si faceva più fitta in quei corridoi grigi e labirintici. Il verde e i colori erano spariti dalle pareti, sostituiti da grigi e da macchie rosse, vecchie e incrostate. I disegni appesi dei bambini erano pieni di lacrime e sangue.

“Qualcosa non… non quadra.” borbottò ancora Koichi, riuscendo a malapena a parlare attraverso le labbra fredde e tremanti. La temperatura si era abbassata tutto ad un tratto. “Minerva ha detto che non farebbero mai del male ai bambini…”

Jotaro continuava a stare zitto. Koichi notò che nella luce dei neon rotti e rumorosi sopra di lui, il suo viso pallido e troppo magro assomigliava ad un teschio.

Un grido di dolore fece saltare in aria Koichi, e presto ne seguirono altri. Erano grida acute e di bambini, di dolore e di terrore e Koichi dovette coprirsi le orecchie per non lasciarsi andare a una strana disperazione che gli aveva preso il petto. Cosa stavano facendo ai bambini in quelle classi?

Jotaro si avventò contro una porta da cui provenivano le urla, tentando di aprirla ma senza nessun successo.

Liquido rosso iniziò a sgorgare da sotto essa, e Koichi, senza pensarci, corse alla rampa di scale lì vicina. Forse avrebbe potuto distruggere il soffitto ed entrare dall’altro. Forse sarebbe potuto scappare da quell’inferno e sopravvivere.

La scala aveva più curve, ma superata la prima, un getto di liquido rosso e caldo- sangue, quello era sangue!- lo colpì al petto con una forza sovraumana, e Koichi ruzzolò giù per le scale senza forze e senza respiro, iperventilando, terrorizzato come mai nella sua vita.

Koichi aveva ragione. Non aveva senso. Jotaro, in un momento di lucidità, evocò il proprio Star Platinum e fermò il tempo.

Era difficile farlo, e si sentiva i muscoli cedere e dolorare ogni volta che lo faceva, ma ne valse la pena perchè appena il tempo si fermò, anche quell’illusione in cui Koichi e lui erano sprofondati si infranse.

I corridoi erano ancora luminosi e le pareti verdi, i disegni alle pareti non ritraevano morte e torture ma prati fioriti e casette con il camino fumante. Non c’era nessun sangue sotto le porte, e quando Star Platinum guardò sotto la porta, vide solo dei bambini divertiti che facevano finta di gridare.

Era una farsa e una complessa illusione, tutto in quel posto lo era. Il liquido che cospargeva Koichi era solo acqua calda trasparente resa rossa da uno stand che poteva giocare con le loro menti. E questa cosa a Jotaro non piaceva.

Notò due sagome sulla rampa delle scale- probabilmente i portatori di stand contro cui dovevano combattere. Uno di essi, nascosto dietro la rampa, aveva evocato il suo stand fatto d’acqua ed era pronto ad attaccare Koichi, ancora a terra accecato dalla paura. 

Purtroppo, la forza di Jotaro venne a meno e dovette far tornare il tempo a scorrere, ma non perse l’occasione per colpire lo stand liquido che stava colpendo l’amico a terra.

Il pugno di Star Platinum passò attraverso l’acqua di cui era composto lo stand, una figura umanoide vestita con un largo vestito rococò fatto d’acqua spumeggiante. 

“Koichi! È tutta un’illusione!” gridò Jotaro, mentre dalla rampa di scale saltava giù la portatrice di quello stand. Era una delle ragazze descritta da Josuke, alta quasi quanto Jotaro e vestita elegantemente, e stringeva tra le mani dei tonfa- simil-manganelli- metallici dotati di lame e intarsiati di pietre preziose colore dell’acqua cristallina, simili alle altre gemme sul vestito e sulla tiara nei capelli azzurri della ragazza. 

La prima cosa che notò Jotaro è che il colore dei gioielli della ragazza, Regina, iniziarono a mutare, diventando più chiari, quasi bianchi. Solo successivamente si accorse che lo stand alle sue spalle si stava cristallizzando e raffreddando molto velocemente, diventando ghiaccio in pochi istanti.

“Kings & Queens!” gridò Regina, e lo stand di ghiaccio si scagliò su Jotaro ad una velocità disarmante, tanto che non riuscì a evitare il suo pugno, duro come la pietra, contro il suo viso.

La testa di Star Platinum venne ribaltata indietro dall’impatto, e sulle labbra colorate dal rossetto blu di Regina si formò un sorrisetto di soddisfazione. Probabilmente lei era abituata a vincere, data la potenza disarmante del suo stand.

Ma la ragazza non notò in tempo i muscoli del collo di Star Platinum che si irrigidivano, e l’espressione sul viso sanguinante di Jotaro che non era cambiata.

Star Platinum afferrò Kings & Queen per le spalle, e tirando in avanti la testa, la colpì in pieno viso. 

La testa dello stand di ghiaccio si sgretolò in mille pezzi e il naso della ragazza scoppiò nell’impatto, riempiedosi di sangue.

Lo stand si scompose in mille goccioline d’acqua, lasciando la ragazza a terra, con il naso sanguinante e lo sguardo carico di un odio mortale. 

Jotaro, anche se vincente in quel piccolo scontro, era stanco, più stanco del solito. Cadde in ginocchio, al fianco di Koichi, mentre dalle scale scendeva un altro ragazzo, seguito da uno stand nero e informe, solo dalla vaga sagoma umana e con un elmo sulla testa. 

Jotaro scosse Koichi per una spalla, cercando di risvegliarlo senza successo.

“Koichi, è solo un’illusione. Non sei davvero cosparso di sangue. È quello stand a fare le illusioni, Koichi…”

Jotaro si sentiva troppo stanco anche solo per parlare, e Koichi sembrava svenuto, con gli occhi mezzi aperti a fissare il vuoto.

“È inutile.” disse il ragazzo. Indossava un lungo e largo cappotto nero di foggia antica, più da corte di Francia che da scuola elementare, e i suoi occhi dorati e freddi erano coperti da una frangia metà platino e metà corvina. “Il mio stand, One Thousand Forms of Fear, funziona anche se si scopre la sua abilità di creare illusioni e generare terrore.”

La sua voce era fredda e metallica e terrificante tanto quanto quello stand alle sue spalle e i suoi occhi oro. Aiutò la ragazza ad alzarsi in piedi, tenendole la mano sporca di sangue con gentilezza.

“Grazie, Ferdi.” sussurrò la ragazza, con un filo di dolcezza nella voce che durante la battaglia mancava completamente.

“Trasportiamoli fino alla palestra, poi se la caveranno loro là.” Disse il ragazzo, prestando però troppa poca attenzione ai due. Lo stand Kings & Queens ricomparve, sciogliendosì però sul pavimento e diventando ghiaccio sotto Koichi e Jotaro, ancora a terra, ancora senza forze.

Iniziarono a scivolare dolcemente lungo i corridoi, i due ragazzi seguendoli a poca distanza- ma abbastanza lontani da non rientrare nel raggio d’azione di Star Platinum.

“Koichi, svegliati!” tentò ancora Jotaro, ma la paura e la fatica avevano completamente finito le energie dell’uomo, che ora si stava lasciando trasportare sul ghiaccio. Koichi aprì un occhio, guardando di striscio Jotaro.

“Aspetta…” sussurrò lui. 

“Aspetta?”

Ma Jotaro aspettò. Aspettò che i due ragazzi entrassero per sbaglio nei cinque metri di raggio di Echoes, e capì. Koichi aveva preservato le energie per un attacco, anche se molto semplice.

Echoes act 4 sbucò fuori dal nulla, spaventando i due ragazzi che si bloccarono sul posto- a malapena quattro metri da loro. Troppo vicino. Come nei piani di Koichi.

In quei cinque metri di raggio che poteva usare a suo piacimento poteva cambiare la gravità come voleva senza troppo sforzo.

“Gravità 0%!” gridò Echoes, alzando un braccio. Koichi e Jotaro iniziarono a galleggiare nell’aria.

“Gravità 100%!” indicò con l’altro braccio, opposto al primo, nella direzione dei due ragazzi. Come un’incudine sulle loro teste, la gravità li schiacciò a terra, distruggendo il ghiaccio di Kings & Queens e le illusioni di One Thousand Forms of Fear.

E come per magia, Koichi e Jotaro ripresero le loro forze e la loro salute. Koichi atterrò perfettamente sul pavimento, ma si accorse che Jotaro era ancora stanco, e stavolta non era l’effetto dello stand nemico. Era Jotaro, qualcosa dentro di lui che lo stava distruggendo.

Koichi ne aveva fin sopra i capelli- ora irti sulla sua testa, in posizione d’attacco- di aspettare, così cercò di lanciarsi all’attacco dei ragazzi, che però indietreggiarono inaspettatamente.

“Piano B!” gridò Ferdinando, prendendo la mano della ragazza. “B? Non era questo del trasporto il B?”

“Beh sì, volevo dire A. Andiamo!” e la tirò dietro di sé, iniziando a correre. I tacchetti metallici delle loro scarpe faceva un rumore assordante. 

Koichi si fiondò all’inseguimento, ma notò che Jotaro non si era mosso.

“Sbrigati!” gli gridò Koichi, ma ora quello troppo stanco per muoversi sembrava lui. Grazie ad Echoes lo fece galleggiare in aria e se lo portò dietro, in un modo che imbarazzò fin troppo Koichi, e allo stesso tempo lo fece preoccupare in profondità- e stavolta non era quello stand.

Come si aspettava, il pavimento in alcuni tratti era ghiacciato o irto di stalagmiti, ma Koichi le saltò tutte con la gravità di Echoes act 4.

I due ragazzi aprirono una porta sul retro, che dava su un selciato di cemento, e richiudendosela alle spalle Regina fece in modo che si ghiacciasse e rimanesse chiusa.

Star Platinum venne evocato da Jotaro, che ruppe il ghiaccio con facilità.

I due ragazzi sembravano aspettarli davanti a un edificio moderno nel mezzo dell’enorme parco sul retro. Era la palestra.

Quando Koichi e Jotaro -che era tornato a correre anche se in maniera lenta e impacciata- gli si avvicinarono troppo, i due ragazzi saltarono in un cerchio nero all’ingresso e vi sparirono dentro. L’ombra scivolò sotto la porta e fu persa di vista.

Koichi e Jotaro, entrambi stremati, si scambiarono un’occhiata simbolica.

Dovevano entrare in questa fantomatica palestra. Senza indugi, aprirono la porta e piombarono nella palestra con passo fermo e deciso, pronti ad affrontare la prossima sfida.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 - Il piano della Banda (parte 5) ***


“È inutile tentare di aprire ogni porta. Sono tutte chiuse.”

Josuke, però, non sembrava voler collaborare. Yukako non voleva essere lì con lui, ma ci era capitata. Nel senso che Okuyasu non aveva intenzione di staccarsi dalla nuova, ammaliante collaboratrice Minerva, e che Koichi era stato trascinato via da Jotaro e l’unica persona disponibile con cui fare gruppo era l’ingelosito e nervoso Josuke, con in testa solo il trovare la figlia e dimostrarsi migliore della giornalista agli occhi di Okuyasu. Che non si trovava nemmeno lì con loro, dato che si era diretto all’ala Blu, quella universitaria, e loro erano in quella Rossa, le scuole superiori.

Si avventò verso un’altra porta, pesantissima e in metallo colorato di rosso, e tentò di aggredire la maniglia di ferro, ricevendo ancora un’altra scossa, come aveva fatto con la porta prima, e quella prima ancora, e quella ancora, e così via per minuti interminabili.

Yukako era stanca. Era nervosa, spaventata, e non riusciva più a sopportare quello che un tempo era stato suo amico.

Gli afferrò un polso con Love Deluxe e strinse quanto più poteva, e finalmente l’uomo si voltò a degnarla di uno sguardo.

“Mi ascolti?! Dobbiamo andare avanti. Non si trova qui tua figlia e nemmeno quelli della Banda. Muoviti!”

Lui tirò con forza il braccio, strattonandole i capelli. “Non trattarmi come un cazzo di poppante!” gracchiò lui, evidentemente preso alla sprovvista da quella sgridata. 

“E tu non comportarti come un poppante! Dobbiamo collaborare, hai capito?! Dunque se devi dire qualcosa, dimmelo, sennò stai zitto e attieniti al piano di Jotaro di camminare finchè non ci attaccano”

Josuke le riservò uno sguardo carico d’ira. “Io non ho bisogno di collaborare con te. Sono più forte, ce la faccio da solo. Ce l’ho sempre fatta da solo.”

La presa dei capelli di Yukako allentò sul braccio tatuato di Josuke. Beh, era vero. Josuke era sempre stato di gran lunga quello con lo stand più forte del loro gruppo di portatori di stand di Morioh, quello con più tattica e, in generale, il più forte.

Ma prima di lasciare Morioh, non si era mai azzardato a dirlo. Era sempre stato nei suoi pensieri, quello di essere superiore e di non aver bisogno degli altri, o lo era diventato?

“Ma che ti prende?” Gli chiese Yukako, con però una nota di preoccupazione nella sua voce, cercando di ingoiare la rabbia come aveva imparato a fare. “Sei cambiato…”

Nel suo sguardo- occhi color cielo invernale, chiari e freddi, vide per un attimo del risentimento. “Io sono cambiato?”

Le sue dita a malapena toccarono la ciocca perennemente bianca tra i capelli neri di Yukako. “E tu no? Tu credi ancora di essere te stessa?”

Era sé stessa? Forse quella sensazione di essere vicino ad un estraneo la percepiva dal dover convivere con quell’immagine che aveva creato di sé stessa in quegli anni, di brava mamma e perfetta mogliettina e attenta proprietaria di un salone di bellezza. Di trattenere tutta la rabbia e il risentimento dentro di sé, di cercare di domare quel suo carattere sempre irrequieto.

Yukako non seppe rispondere e Josuke sembrò non voler infierire, come colto da un momentaneo senso di colpa, e per un istante fu silenzio.

Fu proprio quel silenzio ad indicare loro una direzione.

Al fondo del corridoio vi era una specie di incrocio: una curva a destra, oppure le scale che continuavano dritte per il corridoio, salendo al primo o al secondo piano.

Dal pianerottolo del secondo piano, continuando per la rampa di scale, arrivavano voci. Erano sussurri, movimenti e fruscii, ma era chiaro che c’era qualcuno, che stava parlando italiano e, a giudicare dall’intonazione, erano molto giovani.

Yukako e Josuke si scambiarono un’occhiata, e seppero cosa fare.

Salirono le scale fino alla prima curva che segnava il primo piano passato, ritrovandosi a metà della scalinata ma abbastanza indietro da non essere visti. Le voci ora erano molto più definibili: due ragazze che parlavano e altri ragazzini che vociavano in sottofondo e con una specie di eco, probabilmente in una classe.

Yukako allungò diversi capelli, filamenti tanto sottili da essere invisibili, per sapere quanto lontana fosse.

“Circa cinque metri.” comunicò telepaticamente via stand a Josuke, che annuì. 

“Riesci ad avvicinarla, almeno di due metri? Se rientra nel mio raggio d’azione, posso colpirla. Così ne rimane solo una da sconfiggere.”

Yukako gli sorrise e annuì, più sollevata nel sapere che, forse, il Josuke che aveva conosciuto quasi vent’anni prima non era del tutto scomparso.

Yukako arrotolò un paio di capelli attorno alla caviglia della ragazza, attorno allo scarponcino. Tre o quattro capelli bastavano, e Yukako tirò con tutta la forza che Love Deluxe le consentiva di usufruire. La ragazza lanciò un grido spaventato, e in un istante Josuke uscì dal nascondiglio, Crazy Diamond estratto e con un pugno già pronto.

Quando però cercò di colpire, il pugno di CD trovò la dura corazza di uno stand rosso fuoco, e si ritrovò schiacciato da esso contro al muro, facendolo gridare dal dolore. La ragazza che aveva trascinato con sé era stata protetta dallo stand.

“È lei! Colpiscila!” gridò lo stand indicando Yukako, e la ragazza, dai capelli biondi a coprirle metà viso, annuì alle parole dello stand. Prese un grosso respiro e la sua gamba si caricò di saette.

Yukako cercò di proteggersi con le braccia e con i capelli, ma il calcio le arrivò dritto su un fianco.

“Sunlight Yellow Overdrive!”

Per un istante a Yukako mancò il respiro e le sembrò di fluttuare in aria, come se il suo corpo non le appartenesse più. La luce attorno a lei era diventata troppo intensa, poi il buio. Yukako cadde giù dalle scale a peso morto, mentre la ragazza e lo stand battevano in ritirata, tornando davanti alla classe dalla porta aperta dove si trovava prima.

“Ah, lo stand di quel tizio è bello forte.” borbottò lo stand rosso con l’armatura spinata, indicando Josuke. “Dobbiamo stare attente.”

“Eh, lo sfracello col mio Sunlight Yellow. Hai visto che potenza?” si rispose la ragazza, parlando al proprio stand. Le voci delle due erano diverse, e anche il loro modo di parlare. 

“Hai imparato solo quello.”
“Sì, ma l’ho imparato bene.”

“Ti mancano altri sette Overdrive da imparare!”

“No, so anche fare lo Scarlet… Ah, Lisa, non ti va mai bene niente!”

Josuke si rialzò a fatica da quel colpo. Era stato sfracellato contro il muro da uno stand da una difesa impenetrabile, tanto da scheggiare i pugni in diamante puro di Crazy Diamond. E ora quello stand e la sua portatrice stavano bisticciando davanti a lui come se niente fosse.

Perchè quella pazza stava parlando con sé stessa!? Perchè ridacchiava mentre la figlia di Josuke era stata rapita?!

“Smettila di parlare da sola! Taci!” gridò Josuke, fuori di sé dalla rabbia. Si sentiva sempre meno in controllo di sé stesso, sempre più furibondo. Corse verso la ragazza e il suo stand, alle sue spalle, brillava di una luce minacciosa. Tirò un pugno ma la ragazza schivò facilmente, mentre la mano di Crazy Diamond rimaneva incastrata nel cemento armato. Quella ragazza era anche tremendamente veloce, non solo dotata di una difesa inespugnabile.

Quando caricò un altro calcio, Josuke riuscì a tirarsi indietro, facendo anche crollare il muro. Ovviamente, lo stand rosso si prodigò a proteggere la portatrice, ma ora era completamente scoperta.

Una massa di capelli, proveniente dal piano inferiore, colpì la ragazza nello stomaco e la fece volare diversi metri prima di adagiarsi a terra più in là.

Josuke tentò di colpirla e farla finita lì, ma venne strattonato indietro. 

Era un enorme braccio robotico di uno stand, che apparteneva a una ragazzina bionda, appoggiata alla porta dell’unica classe aperta. La presa era micidiale sulla sua giacca di pelle, ed era sicuro che non l’avrebbe lasciato andare.

“Dai, Vanni, finiscilo, te lo tengo io!” gridò lei, e un altro ragazzino, pallido e malaticcio, evocò il suo stand anch’esso pallido e malato, che tentò di colpirlo. Josuke non sapeva quale fosse la sua abilità e non voleva saperlo. Strattonò finchè la giacca non si ruppe, e la mano dello stand non toccò nulla e si adagiò sul pavimento. Il tappetino davanti alla classe che aveva sfiorato con i polpastrelli si ritirò su sé stesso e divenne di un colore nero e putrescente, e sotto ad esso il metallo tra le piastrelle del pavimento si arrugginì. 

Josuke si riattaccò la giacca con Crazy Diamond, terrorizzato dal pensiero che se fosse stato toccato sarebbe sicuramente morto.

I ragazzini, che avevano non più di quattordici anni, corsero spaventati dentro l’aula. Non erano nemici, erano solo studenti.

“Anna, Anna rialzati!” gridarono da dentro l’aula. “Lisa, intervieni!”

Quando Yukako finalmente raggiunse Josuke, la ragazza davanti a loro si rialzò. Sembrava diversa. Con una passata di mano tra i capelli cambiò il ciuffo, spostandoselo sull’occhio sinistro, e rivelando i capelli color mattone sotto quelli biondo platino.

Lo stand alle sue spalle ora era azzurro, dai pugni  e gli stinchi pieni di spine. “Abbiamo giocato abbastanza, eh Anna?” disse la ragazza, ora rossa di capelli, e parlava con la voce dello stand rosso. 

“Tornate dentro e chiudetevi a chiave, ok?” disse la ragazza, e i ragazzi, chiamandola Lisa e ringraziandola, chiusero la pesante porta di metallo della classe. 

Lisa non perse un istante, al contrario della sua giocosa personalità precedente. Love Deluxe tentò ancora di avvinghiarsi a lei, ma con un solo gesto della mano, lo stand azzurro tagliò tutti i capelli. Lisa, con una sola gomitata carica di Onde Concentriche diretto al viso di Yukako la mise al tappeto, mentre lo stand azzurro, Anna, colpiva con una serie di pugni velocissima gli avambracci di Crazy Diamond che cercava di difendersi. Con orrore, Josuke notò i tagli sulle proprie braccia e le grosse crepe nell’armatura di diamante del proprio Stand.

“Io sono specializzata nella difesa, ma Anna è un asso dell’attacco e della velocità.” commentò Lisa, tentando contemporaneamente di attaccare Josuke con un calcio carico di Hamon. Prima che potesse attaccare, però, si voltò e parò una frustata che Love Deluxe le stava assestando da dietro.

“Basta, Anna! Dobbiamo andare!” gridò la ragazza rossa al suo stand, e Anna obbedì. Con un grido e un calcio dalla forza fuori dall’ordinario anche per uno stand fisico, Anna colpì Josuke al ventre. La forza fu tale da farlo sbattere contro una vetrata, romperla, e farlo cadere nel vuoto.

Senza l’intervento tempestivo di Love Deluxe, ad afferrarlo nel vuoto e a trascinarlo di nuovo dentro la scuola, non ci sarebbe stato più nessun Josuke Higashikata.

“Lisa, se li ammazziamo il Boss ci farà sicuramente entrare nella Banda- e non più come allieve, ma come guerriere!” disse lo stand con voce emozionata. “No, dobbiamo attenerci al…”

Yukako usò la forza di Love Deluxe per lanciare Josuke verso la ragazza, ma lei fu più veloce. Lo stand da azzurro passò di nuovo a rosso, e la ragazza cambiò ciuffo e nascose ancora i capelli rossi sotto quelli platino. Quasi senza sforzo, Josuke fu sbalzato indietro.

Josuke ruzzolò a terra, ammaccato, e Yukako priva di forze alle sue spalle. 

“Dobbiamo attenerci al piano” continuò Lisa, la sua voce proveniva dallo stand rosso. “L’hai preso?”

Anna, la bionda ora portatrice, sventolò tra le dita un orologio d’oro. “Sì!”

“Il mio orologio!” gridò Josuke, rialzandosi in piedi in fretta e furia, ancora con i capelli di Yukako annodati attorno. Anna gli fece la linguaccia, e iniziò a correre. Josuke la seguì, e Yukako venne strattonata per i capelli mentre l’uomo iniziava la sua corsa sfrenata dietro alla ragazza e al suo costosissimo orologio placcato in oro rosa e diamanti.

La ragazza davanti a loro sembrava non stancarsi mai mentre saltava, correva e scendeva scalinate. Aperta l’ultima porta, Josuke e Yukako si ritrovarono nell’erba di un campetto da sport.

Anna aprì la porta del grande edificio in vetro e cemento grigio, facendo cadere l’orologio sul pavimento, in modo vistoso, per poi chiudere di nuovo la porta.

Josuke la seguì e aprì la porta a sua volta per riavere l’orologio per cui aveva speso fin troppe sterline, e Yukako lo seguì, anche se il suo istinto le diceva di non entrare in quell’edificio.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 - Il piano della Banda (parte 6) ***


Minerva non correva- camminava lentamente, passo dopo passo, sicura e trionfante come una marcia di guerra. Okuyasu le stava a fianco, ma le sarebbe stato volentieri dietro, a seguirla senza nessun indugio in quell’enorme labirinto che era l’Ala Blu della scuola, il polo universitario. Ogni due classi c’era un incrocio da cui due altri corridoi si snodavano, e in quei corridoi altri corridoi si intrecciavano perpendicolarmente, creando un dedalo infinito da cui era difficile districarsi. 

Okuyasu, da solo, non ce l’avrebbe fatta, e sospettava che si sarebbe perso anche con chiunque altro che non fosse stata Minerva, così attenta ai dettagli e dalla mente pronta e veloce. 

“Non ci sono mai stata qui.” iniziò a spiegare Minerva, indicando le strisce di nastro colorato sul pavimento. “Ma posso dedurre dove dobbiamo andare. Queste linee aiutano gli studenti ad orientarsi, ogni sezione al suo colore, e quella bianca sembra arrivare al centro della scuola e…”

Minerva si voltò a guardare Okuyasu, con un velo di dubbio nei suoi occhi color ambra. 

“Ti sto ascoltando. Continua, è interessante!” Le rispose Okuyasu, sorridendole. Lei abbassò lo sguardo. 

“Di solito la gente non regge i miei sproloqui per lungo.”

“E di solito la gente non mi parla per lungo.” continuò Okuyasu, cercando di spronarla. Avere finalmente un discorso tra adulti sembrava un sogno. Yukako non era di molte parole e spesso aveva troppo da fare per stare a parlare con Okuyasu, Josuke era totalmente incapace di intavolare una discussione senza secondi fini e non vedeva quasi mai gli altri che erano suoi amici di scuola vent’anni prima, se non quando si fermavano per salutarlo nel suo negozio di fiori. La vita era spesso silenziosa per Okuyasu, soprattutto ora che aveva fatto ciò per cui suo fratello maggiore era vissuto e morto- porre fine alle sofferenze di loro padre. Nella villa di Okuyasu c’era sempre il silenzio, e quando non c’era era perchè la televisione dei suoi vicini, gli Higashikata, era sparata a tutto volume.

Minerva rivolse un vago sorriso al terreno sotto ai suoi piedi, rivolgendogli un cenno del capo.

“La scuola è stata costruita nel 2015, un anno dopo essermi inamicata la Banda e aver interrotto la collaborazione con la Fondazione.”

“Perchè l’hai fatto?” le chiese Okuyasu, cercando di studiare il suo sguardo. Era quasi impossibile, sotto quella coltre di freddezza che lei tanto ci teneva a perseverare. 

“Il mio collaboratore, Nestore Bennutti, lui è… l’ho lasciato al suo destino quando i vampiri ci hanno attaccato. Sono scappata, sarei morta se non l’avessi fatto. Io avevo- io ho una famiglia, non potevo permettermelo... La Banda non me l’ha perdonato, e non li biasimo. Da allora, sono stata lontana da tutto e tutti, ma ora che la situazione è peggiorata non posso più permettermelo.”

Okuyasu fece per appoggiarle una mano sulla spalla, ma si fermò quando i suoi polpastrelli sfiorarono la giacca in pelle della donna. L’esitazione lo stava divorando. Avrebbe dovuto avvicinarsi a lei? Avrebbe dovuto lasciarsi andare?

Decise di non pensare, e premerle il palmo della mano sulla spallina imbottita della giacca, e sorriderle. 

“Io ho visto mio fratello maggiore morire davanti a me, e non ho fatto nulla per aiutarlo. Ma… se l’avessi fatto, io non sarei qui ora. Non devi sentirti in colpa. Hai fatto quello che potevi.”

I loro sguardi si incrociarono per poco, o forse per troppo, e poi entrambi si sentirono colpevoli e imbarazzati. Minerva si schiarì la gola, e riprese a spiegare, con una vaga incrinazione nel suo timbro. 

“Il metallo tra le piastrelle del pavimento serve come scudo contro i vampiri. Questo metallo, così come le porte e il cancello, e tutte le reti sotterranee che stanno costruendo sono in una speciale lega di platino, argento e manimantio, un metallo che è stato trovato solo ed esclusivamente nel sottosuolo di La Bassa. È un superconduttore, che trasmette al 100% l’elettricità senza disperderne, perfetto per portare le Onde Concentriche ovunque nel territorio, anche a lunghe distanze.”

“Secondo me la Banda sbaglia a trattarti così. Sai così tante cose e sei intelligente e…”

Okuyasu si fermò prima di dire qualcosa di cui si sarebbe potuto pentire, però il messaggio passò chiaro e limpido a Minerva, che tentò di non distogliere lo sguardo dalle mattonelle che stava spiegando. Notò comunque il rossore sulle sue orecchie, e anche quello vago sotto al fondotinta sul suo viso. “Io… io penso che quel Joestar, invece, sbagli a trattare te così.”

“Joestar? Intendi Josuke?”

Minerva annuì, mentre raggiungevano la sala centrale dell’Ala Blu. Era come una minuscola piazzetta tra le aule, punto di congiunzione di tutte le stradine. In effetti, appesi alla parete c’erano le legende dei colori sul pavimento, e quello bianco davvero segnava la piazzola. 

C’erano sedie per aspettare o per studiare, una porta-finestra che dava su un piccolo balconcino, e infine diversi distributori- uno delle merendine, uno del caffè e uno di altre bevande e cibarie.

Ma nessun componente della Banda.

Okuyasu, però, non riusciva davvero pensare alla Banda in quel momento. “Come… come mi tratta Josuke?”

“Male.” rispose amareggiata Minerva, osservando tutti i corridoi vuoti da cui i componenti della Banda sarebbero potuti spuntare. “Come se tu fossi inferiore a lui.”

E non lo sono? pensò Okuyasu. Non sono intelligente quanto lui, né forte né bello come lui. Non ho studiato in una prestigiosa università- non l’ho proprio fatta, l’università. Ho vissuto una vita umile. I miei genitori non erano persone di successo, e sono tutti morti. Non ho una famiglia. Non ho nessun legame. Non valgo niente.

“E non è giusto?”
“No. Perchè non lo sei. E perchè nessuno dovrebbe trattare un’altra persona in questo modo.”

Lo sguardo di Okuyasu si perse fuori dalla porta-finestra, a cercare di scorgere l’orizzonte oltre quella corte di nebbia che stava salendo dalla terra. 

Non lo era?

Qualcosa si mosse, proprio nel suo campo visivo. Spalancò la bocca per avvisare Minerva, ma qualcosa la colpì con forza- tanta forza da produrre un suono secco- e lei cadde a terra, tramortita. Era stato qualcosa di una velocità impressionante, simile a un proiettile, ma potenzialmente più grosso. Okuyasu si voltò a cercare un colpevole, e questa volta fu la sua nuca il bersaglio. Riuscì a malapena a parare con un tempestivo intervento di The Hand, e senza vedere, colpì alla cieca dietro di lui. L’enorme pugno di The Hand, che in quegli anni era cresciuto di stazza fino a diventare quasi il doppio di grandezza e altezza di Okuyasu stesso, colpì effettivamente qualcosa, ma sembrò scontrarsi contro un muro impenetrabile.

Okuyasu rotolò a terra, sentendo le vertebre del collo dolere e voler uscire dalla pelle della nuca. Quando alzò lo sguardo, notò un portatore di stand davanti a sé. Il suo corpo atletico era ricoperto da un pesante stand metallico, di colore rosso e nero e bianco, che lo ricopriva completamente come un’armatura integrale, e gli aggiungeva anche un altro paio di braccia completamente funzionanti sotto le proprie. Vedendo Oku e Minerva rialzarsi, si mise in posizione difensiva.

“E così Zarathustra ci ha scagliato contro il suo miglior combattente fisico, Piero Rossi col suo Seven Nation Army.” lo salutò Minerva, ma lui parve non muoversi, né tantomeno rispondere. I suoi quattro pugni si chiusero, pronti a colpire.

Pallas Athena venne velocemente estratto alle spalle di Minerva, luminoso e imponente, e il suo braccio a forma di lancia cercò di colpire Piero. Come dopo un giro sulle montagne russe, la lancia sembrò dividersi in più lance, sfocate e indistinguibili, opera del potere di Pallas Athena, miraggi e illusioni.

Questa tecnica sarebbe stata più utile su uno stand più lento di Seven Nation Army, e con meno braccia, perchè grazie ai quattro arti a disposizione scansò tutte le lance fino a trovare l’unica vera. La prese in pugno, la afferrò con tutti e quattro e tirò con forza verso di sé, trascinando Minerva verso di lui, dove Piero la stava già aspettando con due pugni alzati pronti a colpirla in pieno.

Okuyasu non pensò più- non poteva permettersi che le venisse fatto del male. The Hand sollevò la sua mano sinistra, e caricò il colpo.

Un lampo di luce verde abbagliò la piazzola, e in una frazione di secondo Okuyasu si sentì mancare l’aria nei polmoni e sentì il corpo andargli a fuoco. L’impatto fu così forte da farlo rotolare sul pavimento per un paio di metri.

Per qualche istante perse conoscenza, solo per riprenderla dopo che il fianco sinistro, completamente ustionato, toccò il pavimento causandogli una fitta di dolore che lo fece gridare.

Un raggio di luce, un laser l’aveva colpito e bruciato.

“Enrico! No!” gridò Piero, colpendo Minerva con un forte calcio sugli stinchi e buttandola a terra, e tenendola ferma con un piede sulla schiena, non tanto forte da farle crudelmente male, ma abbastanza per tenerla ferma e immobile. Da dietro l’angolo, spuntò un ragazzino. Era basso, mingherlino e dall’aspetto delicato, grossi occhialoni da vista rotondi sul naso e capelli verdi scuro, con delle ciocche verdi neon che svolazzavano nell’aria, dello stesso colore dei suoi inquietanti occhi luminosi. E lo stesso colore dell’enorme, possente e tremendo stand alle sue spalle, uno scheletro dalle ossa cangianti e luminose, sempre verdi, e al posto del teschio un simbolo di radiazioni. Lo stand, dopo quel lampo di luce, iniziò a brillare meno.

“Scusa fratellone…” borbottò lui, avvicinandosi a Piero. 

“Non devi scusarti, devi solo non farlo. Lo sai che quando usi Nuclear Device senza pensarci lo depotenzi, e rimarrai senza energie.” lo rimproverò suo fratello maggiore Piero, senza nessuna rabbia nella voce, solo sana preoccupazione. Il ragazzino, Enrico, annuì mesto.

“Dobbiamo portarli alla palestra, ha detto così il Boss. Tu occupati di Minerva, io penso a…”

Piero era sicuro che Okuyasu fosse ancora sdraiato a terra dolorante, ma si accorse troppo tardi che si trattava solo di un miraggio di Pallas Athena. La nebbia illusoria di Pallas Athena svanì quando Okuyasu e il suo grosso The Hand la sorpassarono, e colpirono con un pugno l’elmo di Piero, un pugno tanto forte che avrebbe abbattuto una parete, ma causò solo una lieve crepa nel suo elmo, e un enorme fracasso all’interno.

Piero cadde a terra confuso, mentre Okuyasu prendeva Minerva sottobraccio. 

Il suo stand non era particolarmente forte in battaglia, ma era un incredibile supporto.

Piero provò ad alzarsi, ma l’impatto con il pugno di The Hand era stato così forte e rumoroso che il ragazzo cadde di nuovo a terra, senza più equilibrio. Sul viso del giovane Enrico si formò ancora rabbia, e il suo stand lanciò ancora altri raggi, questa volta alla rinfusa.

Okuyasu tentò di cancellare quelli che arrivavano verso di loro con The Hand, ma si accorse che non potevano essere cancellati. I raggi gamma trapassarono the Hand e colpirono Okuyasu, che si era messo a schermare Minerva con il proprio corpo. Le bruciature facevano male sulla schiena di Okuyasu, ma molto meno rispetto a quella sul suo fianco, finchè non finirono del tutto e sentirono solo un grande tonfo metallico.

Nuclear Device si era solidificato e diventato di piombo, pesante e immobile sul terreno, ed Enrico inginocchiato al suo fianco senza più forze. 

Per ora.

“Andiamo, ora. Scappiamo. Tutti si stanno dirigendo alla palestra, ma noi- ora dobbiamo solo scappare da loro.” borbottò la donna, aggrappandosi al braccio di Okuyasu. “Io… io credo di aver visto un posto in cui potremmo nasconderci, l’ho visto con il mio stand.”

“Guidami.” le rispose Okuyasu, sollevandola di peso senza troppo sforzo. Minerva era una donna alta ma magra, e Okuyasu era un omone con molta forza in corpo.

I due scapparono, più veloce che potevano mentre gli avversari erano senza forze a terra. Sapevano che presto si sarebbero ripresi, e non avevano tempo da perdere.

The Hand allungò la sua mano per cancellare tutto l’aria davanti a sé che poteva, così da andare più veloce possibile e seminarli. 

“Sali tutte le rampe di scale, dobbiamo andare all’ultimo piano!” disse la donna, e Okuyasu, con un semplice gesto della mano, fu in cima alle rampe di scale in un istante.

Minerva zoppicò sulla terrazza della scuola al fianco di Okuyasu, a guidarlo disperatamente verso una grossa bocchetta dell’aria. Era enorme, alta almeno due metri, e si protendeva per diversi metri prima di sprofondare sotto il pavimento. 

“È per l’aria condizionata, ma siamo a marzo e saranno spente fino a maggio, forse giugno. Possiamo nasconderci lì dentro..!”

Okuyasu estrasse il suo The Hand per sradicare la grata che non permetteva l’entrata nel tubo quadrato di metallo, ma Pallas Athena fu più svelto di lui, e con poche mosse le viti saltarono e la grata fu aperta.

I due vi si nascosero dentro, rimettendo la grata a posto alla bell’e meglio. Erano al buio, e i loro respiri affannosi si riverberavano nella struttura larga e d’acciaio. Aspettarono lì per chissà quanto, schiacciati a una parete della struttura con il cuore in gola. Se li avessero trovati, sarebbe stata la fine.

Passarono chissà quanti minuti, con Minerva schiacciata alla schiena di Okuyasu a riprendere le forze e controllare se qualcosa nelle sue gambe si era rotto. No, sembrava tutto ok- forse si era slogata una caviglia, ma nulla di serio.

“Credo non ci abbiano seguiti.” borbottò Oku, e Minerva riuscì a sentire il vibrare della sua cassa toracica sotto le sue mani appoggiate alla schiena dell’uomo. “Dovremmo raggiungere gli altri?”

Si, avrebbero dovuto. Decisero di uscire allo scoperto, ed effettivamente non c’era nessuno. La porta da cui erano arrivati non era più stata aperta, e con una veloce panoramica Pallas Athena rivelò che nessuno era nei paraggi.

Minerva accompagnò velocemente Okuyasu in un'area che si potendeva quasi fino a coprire il tetto della palestra, metri sotto di loro, ben più bassa della scuola.

Attraverso il tetto di vetro opaco, i due potevano ben distinguere forme e colori familiari. Erano davvero tutti lì!

“Come facciamo a raggiungerli?” gli chiese Minerva, davvero aspettandosi un piano da parte di Okuyasu.

Lei credeva in lui. Lei gli dava ascolto. E Okuyasu un’idea, stavolta, ce l’aveva davvero.

“Tu sta’ ferma e preparati ad atterrare.” le disse Okuyasu con un sorriso, prima di spingerla nel vuoto.

Con The Hand calcolò quanti metri mancassero dal terreno, e grazie alla precisione aumentata alle stelle in quegli anni, riuscì a cancellare tutto lo spazio che c’era tra Minerva e il pavimento della palestra. 

Minerva si fidò di Okuyasu e saltò per davvero giù senza pensarci due volte, e atterrò dolorosamente col sedere sul pavimento di marmo della palestra, ma almeno era sana e salva.

Ora toccava ad Okuyasu. Prendendo bene le misure, The Hand cancellò lo spazio tra lui e il tetto della palestra, su cui atterrò agevolmente.

Finchè, senza nessun motivo, il vetro non si infrase sotto ai suoi piedi, e Okuyasu cadde nel vuoto, a chissà quanti metri dal pavimento.

Cercò disperatamente di aggrapparsi al vetro con la sua mano destra, ma il vetro si conficcò a fondo nel suo palmo e Oku con un grido mollò la presa sulla lastra, lasciandosi cadere giù.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 - Il piano della Banda (parte 7) ***


Piero sfondò l’ultima porta con un calcio, portandosi Enrico, sfinito e mezzo svenuto, sulla schiena.

“Non prendere a calci la proprietà pubblica.” lo rimbeccò Ludovico, voltandosi a guardarlo. Non c’era davvero astio nella sua voce, e i suoi occhi viola scuro sembravano più preoccupati che infastiditi dal comportamento rude del ragazzo più basso. “Tutto bene?”

“Sì Ludo, tranquillo.” rispose Piero con un sorriso caloroso. Appoggiò Enrico, mezzo cosciente, sulle poltroncine al fianco di Regina, che si stava pulendo il naso dal sangue che non sembrava voler smettere di sgorgare dalle sue narici. “Credo che quel figlio della merda mi abbia spaccato il naso, diu t’à maladìs…” ringhiò lei sottovoce, tanto rabbiosa da riuscire a malapena a scandire le parole. Al suo fianco nemmeno Ferdinando sembrava passarsela bene.

Piero si mise al fianco di Ludovico, a bordo piscina vicino a lui. Ludovico si concentrò sull’ematoma rosso scuro sulla fronte abbronzata di Piero, ma appena sfiorò la sua pelle il ragazzo per tirare indietro i suoi lunghi capelli castani, lui si tirò indietro. “Non toccare, fa male!”

“Non stavo toccando, stavo controllando.”

“A me sembra proprio che tu abbia toccato!”

Vennero zittiti da Zarathustra, arrivata chissà dove. I tacchetti di metallo delle sue grosse scarpe gialle facevano un rumore inquietante sul marmo al fianco delle piscine, completamente vuote se non per loro. 

Dietro di lei, Annalisa la seguiva come un cagnolino spaventato.

“Annalisa, Enrico, voi due raggiungete Alex nel magazzino della palestra. Qui ce ne occuperemo noi. Ferdinando, se non ti dispiace, vai anche tu con loro.” disse fredda Zarathustra, come di consueto, mettendosi a bordo piscina al fianco di Ludovico e Piero. Regina si alzò in piedi dalle seggiole per raggiungere gli altri tre guerrieri della Banda, salutando il fidanzato.

Ferdinando aiutò Enrico ad alzarsi in piedi, ancora troppo debole per combattere, e si passò il suo braccio dietro alle spalle. Il ragazzo era cosciente almeno, ma i lunghi capelli verde scuro corpivano il suo viso troppo pallido e smunto e stanco e immobile, e capire se era lucido o meno era difficile.

Zarathustra aveva deciso di mettere al sicuro Ferdinando, che non era un guerriero e non aveva la forza di combattimento dei quattro principali della Banda; e i novellini, quelli che ancora non facevano parte della Banda e di solito non combattevano, ma quella era un’occasione speciale e anche un allenamento serio per loro. Ma ora erano al limite e anche Annalisa, la più forte tra loro, sembrava stravolta.

E spaventata, tremendamente spaventata.

Spostandosi il ciuffo dalla parte color platino, la ragazza non si smosse, continuando a fissare Zarathustra con paura.

“E se quella maledizione dovesse ripresentarsi?” chiese al Boss. “Questi sono Joestar, l’hai detto tu… che la maledizione delle morti nella tua famiglia c’entra sempre coi Joestar.”

Zarathustra non sembrò demordere. Non rispose, non guardò nemmeno la ragazza in viso, ma era quello che tutti si stavano chiedendo, e probabilmente il motivo cardine per cui loro erano lì, a difendersi e attaccare e neutralizzare l’avversario.

“Io non sono il mio trisavolo William, né il mio trisnonno Mario e tantomeno mio pro-prozio Caesar. Io non morirò per colpa di un Joestar, puoi starne certa.”

Finalmente si voltò a guardare Annalisa, e l’occhio rosso di Zarathustra brillava sotto gli occhialoni gialli. 

“Sbrigatevi a raggiungere Alex, loro stanno arrivando. Se gli sarà torto anche solo un capello per colpa dei Joestar, vi saranno delle ripercussioni. Su di voi.”

Annalisa si portò una mano alla fronte in una specie di saluto militare abbozzato, e si sbrigò a raggiungere Ferdinando ed Enrico, che si chiusero la porta antipanico alle spalle, lasciando l’unico rumore nella palestra l’eco della porta che si chiudeva e le placide onde nella piscina di fronte a loro.

Nessuno parlava, nessuno osava fiatare. Zarathustra tirò fuori il becher dalla tasca, ferma per qualche istante, per mostrarlo ai suoi colleghi.

“Avete compiuto un ottimo lavoro fin’ora. Con i raggi-X di 42 vedo che quasi tutti i Joestar sono entrati nella palestra, e suppongo i due mancanti arriveranno presto. I quattro stanno cercando di orientarsi per raggiungere le piscine, tra pochi istanti saranno qui.”

Il Boss agitò il becher, muovendo la pesante e fitta polvere blu intenso al suo interno. “Qualcuno vuole fare gli onori?”

Nessuno, ancora, rispose. Piero abbassò la testa, Regina scosse la testa con forza e Ludovico si mise le mani in tasca, molto dubbioso. “No, grazie.”

Zarathustra sembrò soddisfatta di quelle reazioni. Piegò il ginocchio e si mise a bordo piscina, attenta a rimuovere il tappo che rendeva il becher completamente sottovuoto, e la polvere all’interno, a una velocità impressionante, iniziò a cristallizzarsi.

“Questa è Hypercalcantite, fatta apposta per questa occasione.” iniziò a spiegare il Boss, sbrigandosi a far cadere tutto il contenuto del becher nell’acqua della piscina, in cui i cristalli si sciolsero immediatamente. “Talmente potente da cristallizzare anche solo con l’umidità nell’aria. Una volta completamente asciutto, tornerà polvere e non sarà più un pericolo.”

I quattro rimasero ad osservare l’acqua tingersi di una tinta blu, inquietante e ipnotica allo stesso tempo. “Con tutte le proprietà della calcantite, ma portate al massimo. L’arma finale.”

Zarathustra buttò il becher vuoto nella piscina, e sembrò scomparire nelle acque ora opache. O forse era scomparso davvero.

“E ora aspettiamo.” concluse il Boss, con quasi un’espressione soddisfatta sul viso sempre freddo e senza espressione.

 

“Sento l’aura di Koichi, in questa palestra.” esordì Yukako dopo quella che sembrava un’eternità di silenzio. 

“Dove?” chiese Josuke, ma non ebbe una risposta a parole. La donna lo prese per un braccio e corse attraverso i fitti corridoi della palestra, che sembravano più un labirinto che altro. A ogni svolta si poteva capitare in una stanza piena di attrezzi, una sala per lo zumba o degli spogliatoi, ma ora Yukako era sicura di sentire la presenza di suo marito, e sapeva dove andare.

 

Jotaro ora sembrava più lucido, più rinvigorito, il Jotaro che Koichi aveva conosciuto nel 1999 a Morioh.

Ma il Giappone era lontano, e il 1999 era passato da ormai diciannove anni. Koichi, eppure, non si sentiva così cambiato da allora, anche se avrebbe tanto voluto esserlo.

“Senti anche tu la presenza di portatori di Stand molto forti?” gli chiese Koichi. Sì, se si concentrava molto poteva scorgere qualche energia particolare, ma non era facile. Jotaro aveva avuto molto più a che fare con Stand e portatori di quanto Koichi ne avesse mai avuto, e la sua abilità nel sentire gli stand altrui era mostruosa ed allenatissima. Decise di fidarsi di lui, ma di seguire a sua volta quello che lui stesso stava sentendo. Non avrebbe potuto appoggiarsi agli altri per sempre.

Jotaro seguì diversi corridoi che sembravano complessi cunicoli scavati da animali esotici in terre oscure e misteriose. Non si perse mai, come se avesse una bussola in corpo che gli sapeva perfettamente indicare la giusta via, e infine sbucarono su una enorme sala: le piscine.

Le vasche erano talmente lunghe da arrivare da parte a parte, e solo uno stretto corridoio permetteva di passare da una riva all’altra- ma erano bloccate, al momento. Enormi e pesantissimi attrezzi ginnici erano stati posti da ostacoli, a non permettere il passaggio.

Koichi sapeva benissimo il perchè. Sull’altra sponda delle piscine, quattro ragazzi li stavano aspettando.

Non dovevano avere che vent’anni, giovanissimi e all’erta, pericolosi quanto mai. 

La più bassa, al centro del gruppetto, fu l’unica a parlare. “I primi due sono arrivati. Ne mancano quattro.”

Una porta antipanico, non lontana da quella in cui erano entrati Koichi e Jotaro si aprì, e da essa uscirono Yukako e Josuke, confusi quanto loro. Appena Yukako vide il marito, un sorriso si stagliò sul suo volto stanco e gli si buttò al collo, abbracciandolo e stringendolo tra le sue braccia con tutta la forza che era rimasta alla donna, come a proteggerlo, come a non volerlo mai più lasciarlo andare da solo.

“Quattro presenti, due mancanti.” continuò Zarathustra. Ludovico incrociò le braccia al petto, sghignazzando lievemente- forse più per nervosismo che per vero divertimento. “Matuzia è in ritardo. Forse è scappata anche questa volta, eh?”

Josuke indicò il gruppetto. “Voi due ragazzine! Siete voi che avevo visto alla città della Moda!”

Josuke le aveva già viste combattere, ma l’idea che ora il loro avversario era lui stesso lo inquietava un po’. Non avevano avuto remore a distruggere quei vampiri, ed era sicuro non ne avrebbero avuta alcuna nemmeno per fare secco lui. “Dov’è mia figlia!?” chiese comunque, cercando di ignorare il nodo di terrore alla gola che gli faceva tremare la voce in modo patetico.

“Al sicuro.” rispose il ragazzo alto e moro al fianco del Boss. Il suo tono era pacato e educato, ma quasi crudele in ciò. “Dovresti più preoccuparti della tua vita, piuttosto.”

In un istante, i sensi sviluppatissimi di Regina la avvertirono di qualcosa. Alzò la testa, e gli altri tre ragazzi fecero lo stesso.

Un forte rumore di vetro rotto, e dal tetto di vetro arrivò qualcosa. In una via di mezzo tra un teletrasporto finito male e una caduta rallentata, Minerva Matuzia sbatté col sedere sul pavimento di lastre di porcellana della piscina, dalla parte dei Joestar. Alzò la testa, da dove era venuta, e notò che qualcuno si stava buttando giù dalla grossa scuola al fianco dell’edificio della palestra.

“Che strano modo per il piano di compiersi. Andrà bene lo stesso, giusto?” chiese Regina, lievemente divertita dalla faccenda.

“Turquoise o Sunset overdrive?” chiese Piero al Boss.

“Sunset Overdrive per allontanare l’acqua, ma se è possibile usate anche un po’ di Turquoise per reindirizzarla nella piscina. Meno se ne spreca, meglio è.” rispose. 

Una figura, grossa e pesante, sfondò la vetrata già rotta, e cadde proprio nel bel mezzo dell’enorme vasca.

I quattro ragazzi della Banda erano già ricoperti di scariche elettriche, arancioni e azzurre, e quando l’uomo cadde nall’acqua e alzò il liquido, loro non ne vennero nemmeno sfiorati. L’acqua blu sembrò evitare completamente i loro corpi, venne deflessa e ricadde nella piscina, senza bagnarli, nè bagnare il pavimento ai loro piedi. Tra le mattonelle, il metallo sembrava assorbire le onde concentriche che scaturivano dai loro corpi, e cacciava via l’acqua, rituffandola dentro la piscina.

Dall’altro lato, al contrario, i cinque vennero completamente inzuppati d’acqua.

La camicetta rosa di Yukako era diventata viola scuro. “Questa non è acqua. È colorata di blu…” borbottò, lamentandosi.

Josuke accorse a bordo piscina. “Oku!” gridò, e Okuyasu, che a malapena riusciva a stare a galla, gli rivolse un mezzo sorriso con quel poco di viso che rimaneva sopra la superficie.

Josuke allungò una mano verso quella di Okuyasu, che già aveva allungato verso di lui. Quando però Josuke la afferrò, Okuyasu ululò dal dolore e la ritirò indietro. Josuke si accorse con orrore che il palmo della sua mano era intinto di sangue. Senza demordere, allungò ancora la mano e afferrò il polso di Okuyasu, tirandolo verso di sé. Oku non sapeva nuotare, Josuke lo sapeva. Non l’avrebbe lasciato lì.

Minerva si alzò in piedi aiutata da Jotaro, ma quando lui le allungò la mano, bagnata dall’acqua, e lei la afferrò con la sua guantata, sentì qualcosa di strano contro al suo palmo. Jotaro lasciò andare, e notò qualcosa.

Cristalli, blu e bagnati, sul palmo della sua mano. “Minerva, la tua…” mormorò incredulo Jotaro.

Con orrore, il guanto in pelle di Minerva si era sciolto. al suo posto, sulla pelle della donna arrossata e già attaccata dall’acido, cristalli blu taglienti si stavano formando.

“Buon divertimento a diventare cristalli velenosi e acidi di Hypercalcantite.” li salutò Zarathustra, guidando la sua banda fuori dalla porticina alle loro spalle. 

Yukako cercò di prendere per la mano Koichi per dirigersi dalla porta da cui erano venuti, ma i piedi di Koichi erano cristallizzati al pavimento, immobile.

“Vai via, Yukako!” gli disse lui, disperato. “Vai e salvati!”

Ma Yukako non ci pensava proprio. Fuori di sé dalla rabbia, si scagliò contro quei quattro ragazzi che se ne stavano bellamente andando, lasciandolì lì a quel destino. Si sporse al bordo della piscina e allungò Love Deluxe quanto poteva, a colpirli.

Il ragazzo più muscoloso, Piero, con uno scatto quasi disumano si mise però tra lui e gli altri, parando i capelli di Yukako che si avvinghiarono ai suoi avambracci. Yukako tirò, ma il ragazzo parve non muoversi.

Alle sue spalle, Ludovico gli appoggiò una mano sulla spalla. “Vai col piano B.”

Piero ridacchiò. “Lo Scarlet Overdrive è la mia tecnica preferita.”

Le braccia del ragazzo si cosparsero di Onde Concentriche rosse come il fuoco, luminose come il sole, e presto i capelli di Yukako iniziarono a fumare. In pochi istanti, dalle scariche elettriche si sprigionarono una miriade di scintille, e i capelli di Yukako presero fuoco.

Quando Yukako cercò di ritirare Love Deluxe, però, fu Piero ad afferrarle i capelli e tenerli fermi, mentre bruciavano sempre di più, e fumo nero si levava da essi.

Sul tetto, tra le lastre di vetro, nell’armatura di metallo che teneva il tetto dell’edificio sollevato vi erano una ventina di dispositivi antincendio, che, avvertendo la presenza di fumo, si misero in funzione.

Piero a quel punto lasciò perdere i capelli di Yukako, che cadde all’indietro a forza di cercare di ritirarsi. I capelli caddero nella piscina, e Yukako li tagliò prima che si cristallizzassero tutti, fino alla sua testa. Lasciò che quelle ciocche mozzate venissero inglobate da quei cristalli e cadessero a fondo, nell’acqua blu della vasca.

“L’acqua che sta piovendo dai dispostivi antincendio! Anche quella è velenosa e acida!!” gridò Minerva, cercando di ripararsi con il giubbino in pelle che si era tolta. Le gocce che cadevano erano blu, e presto bucarono il suo giubbino. 

Jotaro estrasse Star Platinum e colpì i cristalli sul corpo di Koichi, che si erano fatti strada attraverso i suoi vestiti e stavano attaccando la sua pelle. Non sembravano però corrodere troppo la pelle umana- raggiunto il sangue, si fermava.

Li avrebbe comunque scuoiati vivi, e nessuno voleva fare quella fine.

Okuyasu era ormai a bordo piscina, stava per risalire aiutato da Josuke quando entrambi scivolarono su una pozza di acqua blu che si era formata i loro piedi.

Okuyasu cadde di nuovo in acqua, di schiena, rompendo una sottile lastra blu che si era formata a pelo d’acqua. Josuke gli cadde sopra, ed entrambi affondarono nelle torbide acque azzurre.

“Jos! Oku! salite e andiamo via!” gridò loro Yukako, cercando di proteggere lei e Koichi con i suoi capelli dalla pioggia letale sopra di loro.

Josuke e Okuyasu, però, non risalirono.

Su tutta la superficie piscina si era creata una spessa, durissima lastra di hypercalcantite.

 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 - Il piano della Banda (parte 8) ***


Shizuka era stata incastrata in un angolo, tra un attrezzo da palestra e l’altro. Si era seduta su una palla mezza sgonfia, mentre il suo aguzzino (che sembrava ben poco tale) Alex era seduto su una panca per le flessioni, la corda che stringeva Shizuka legata al suo polso e alla sua mano. Quell’Alex era alto almeno un metro e ottanta, forse ottantacinque, aveva davvero paura che Shizuka, di a malapena un metro e cinquanta, potesse sfuggirgli dalle grinfie? Quel ragazzino era davvero terrorizzato dal deludere sua sorella maggiore.

Alex non aveva parlato per tutto il tempo, e non iniziò nemmeno a parlare quando altri li raggiunsero. 

Erano quelli che Shizuka aveva visto prima- la ragazza che parlava da sola, il ragazzo più grande dai capelli platino e neri e sulla sua schiena quello dai capelli lunghi e verdi scuro, che ora sembrava svenuto.

“Allora?” mugolò Alex, ai ragazzi che sembravano spaventati. Ferdinando alzò le spalle, adagiò Enrico su un attrezzo per le gambe e si sedette al fianco di Alex, tentando di sorridergli. “Stanno per attuare il piano. Presto sarà tutto finito, vedrai.”

Tutto finito!?

“Cosa volete fare loro?!” gridò Shizuka, e la ragazza dai capelli metà biondi e metà rossi la zittì aggressivamente. “Taci! Non sono mica cazzi tuoi!”

Shizuka sentì il suo viso prendere fuoco dalla rabbia. Avrebbe voluto farli tutti a pezzi, avrebbe voluto non essere lì e non essere sé stessa. Se fosse stata qualcun altro, avrebbe potuto facilmente evadere da quel branco di ragazzini. Avrebbe potuto prenderli a pugni, strappare quella ridicola corda attorno al suo corpo e andare a salvare suo padre e gli altri.

Strinse i pugni con così tanta forza da farsi del male, scosse elettriche scorrerle attraverso i nervi e la pelle e venir assorbite dalla corda.

Tutti trafelati, arrivarono altri quattro ragazzi, quelli che sembravano essere i principali fautori della Banda. Il Boss, Zarathustra, era davanti a tutti loro. 

“Fatto, sbrighiamoci e andiamocene. Tra qualche oretta, arriveranno gli altri a pulire.”

Pulire? Fatto?

Shizuka non poteva sopportare di non sapere quale fosse stata la fine di tutti quelli che l’avevano accompagnata lì in Italia. Non poteva immaginare di essere orfana, ancora un’altra volta…

Se solo non fosse debole, se solo fosse forte, se solo…

La corda non cedeva attorno alle sue braccia, per quanto lei tirasse. Con uno sforzo sovrumano, fece uno scatto avanti, tirando la corda tra le mani del grosso Alex, che venne sbalzato in avanti con violenza a sua volta. Lo sentì piagnucolare alle sue spalle.

“È troppo forte per me! Non so se ce la farò a…”

No, non ce la fece a tenerla. Il nodo si sciolse dal suo polso arrossato e la corda gli venne strappata dalle mani, e Shizuka, ora libera, tentò di sprintare verso la porta d’uscita.

Piero evocò Seven Nation Army attorno a sé, e con un balzo animalesco le fu alle calcagna, afferrando con tutte e quattro le sue braccia la fine della corda attorno a Shizuka, che venne strattonata indietro d’un tratto e cadde a terra. La sua fuga era finita.

“Ah, è davvero forte! Quasi quanto un…”

“Vampiro?” finì la sua frase Zarathustra, avvicinandosi a Shizuka. “Forse perchè lo è. Almeno in parte.”

Shizuka si sentì gelare il sangue e i muscoli le si irrigidirono. In parte? Allora quel veleno di cui le aveva parlato Koichi quella volta all’ospedale aveva davvero fatto qualcosa su di lei? Solo lo stand rosso di Annalisa riuscì a rimetterla in piedi, al fianco di Piero, che la teneva ancora sotto sorveglianza e con ben quattro pugni stretti attorno alla corda.

Zarathustra quasi si lasciò scappare un sorriso sulle sue labbra tese e sottili. Fece cenno a tutti di uscire, e, trascinando Shizuka, se ne andarono da quella maledetta palestra. 

Quella in cui tutte le persone importanti per Shizuka ancora erano rinchiuse, in chissà quale orribile destino la Banda li aveva destinati.

“Non ti hanno detto nulla sul sangue vampirico che scorre nelle tue vene, eh?” le chiese il Boss, e Shizuka, a malapena concentrata sulle sue parole, annuì e negò frettolosamente e in modo confuso.

“Noi- io ti ho trovata proprio per questa tua abilità: l’essere completamente invisibile e irrintracciabile ai vampiri. Non solo non possono vederti grazie alla tua abilità stand, ma nel tuo sangue c’è qualcosa che, ai loro sensi, non ti fa risultare umana. Hai sangue di vampiro, sangue antico e puro, non ereditario e non passato da qualche lurido vampiro-zombie. Sei speciale, e potenzialmente la migliore arma contro i vampiri.”

Shizuka si lasciò trasportare sul selciato. Il cielo era grigio e luminoso come quando era arrivata a La Bassa qualche ora prima.

Speciale. La migliore.

Il pensiero di essere speciale, forte e superiore le riportò in mente, ancora, suo padre che invece in lei non sembrava credere per niente.

“Dov’è mio padre?” chiese un’ultima, disperata volta.

Questa volta non risposero. Regina, alta e imponente e dal naso rotto e sanguinolento, le rivolse uno sguardo gelido. “Per spezzare la maledizione degli Zeppeli, i Joestar devono diventare innocui, perchè nel destino della famiglia Zeppeli c’è la morte per mano- o al fianco di un Joestar. C’è scritto nel suo libro delle Onde Concentriche. Basta chiamare tuo padre, non risponderà. Probabilmente, ora, è una statua di cristallo blu.”

Shizuka sentì le lacrime montarle agli occhi e un groppo formarsi nella sua gola. Era morto? Cosa voleva dire?

Calmati.

Nella sua testa, una voce calma si profuse. Era ancora quella voce. Non ricordava bene dove e quando l’aveva già sentita…

Rifletti.

Effettivamente, Shizuka si sentì più tranquilla, come se una pace ultraterrena le avesse invaso il corpo, rendendolo più fluido, leggero, caldo. 

Il tempo per combattere è quasi arrivato. Non ancora. Devi solo essere paziente, ancora per poco. Niente è ancora finito, tutto è appena cominciato. Il tempo di spiegare le ali e imparare a volare è quasi giunto, ma ricorda che per puntare in alto, devi guardare prima in basso. E riflettere.

Shizuka lasciò che la portassero lontana, passando davanti all’entrata della palestra. La porta era serrata, grossi cristalli blu la sigillavano ermeticamente.

Alex si fermò in mezzo al prato, causando Zarathustra di fermarsi a sua volta, attivare il suo 42 e puntarlo verso la palestra.

“Ehi, che succede?” tentò Ludovico, che non poteva né sentire come Alex né vedere come Zarathustra.

Zarathustra alzò una mano, aprendo la bocca per gridare qualcosa. Probabilmente di indietreggiare e allontanarsi, ma non fece in tempo, perchè il muro della palestra esplose in mille pezzi e calcinacci e cristalli blu volarono ovunque.

Un grosso stand nero irto di spine, tra l’umanoide, il robotico e il rettiliano aveva coperto Zarathustra dai calcinacci, e lo stesso aveva fatto un’enorme scatola di metallo davanti ad Alex. Appena ripresi indietreggiarono, fissando le figure nella polvere che uscivano dall’inferno blu alle loro spalle.

Piero trascinò via Shizuka, legandola al palo dell’elettricità dietro l’angolo. Se fossero volate spine o altri calcinacci non sarebbe stata toccata, ma così non poteva vedere chi era che aveva distrutto il muro. Forse papà?

“Sta’ qui, ok?” le fece Piero, nel tono di un fratello maggiore premuroso più che di un aguzzino.

Piero evocò Seven Nation Army e, correndo a sei zampe come uno strano animale, si avventò sulle due figure.

L’enorme mano di The Hand parò il suo colpo e lo scagliò lontano, mentre Josuke al suo fianco stringeva tra le mani un cristallo azzurro pallido.

Tutti i ragazzi della Banda estrassero il loro stand, continuando però ad indietreggiare.

“Qual è il piano B?” borbottò Ludovico a Zarathustra, pugni stretti e lo stand-ombra che girovagava attorno e sotto a lui senza una meta. Zarathustra, protetta dal suo 42 dal viso inespressivo quanto quello della proprietaria- completamente coperto da un gigantesco occhio robotico rosso-, negò. “Nessun piano B. Non me l’aspettavo che sopravvivessero all’hypercalcantite.”

Ai suoi piedi, Josuke lanciò quel brutto cristallo di un azzurrino sporco. Non assomigliava per niente all’ipercalcantite in cui li avevano lasciati.

“Quella è la forma anidra- senza acqua- del vostro cristallo acido del cazzo.” borbottò Josuke. Pian piano, sulla superficie secca del cristallo, iniziò a vedersi una crosta blu elettrico formarsi, il minerale che riassorbiva umidità dall’aria bagnata e pesante di La Bassa. 

“Con Crazy Diamond sono riuscito a modificare la sostanza, dividere acqua e solfato rameico secco negli idranti, così che spruzzassero solo acqua e scogliessero l’hypercalcantite sul terreno.”

Okuyasu alzò una mano, quella destra ancora sanguinolenta. “Grazie al sangue che si è sciolto nell’acqua, attorno a me- a noi non si è formato quel cristallo blu!”

Josuke gli rivolse un lieve cenno del capo, forse un vago sorriso sul suo viso stanco e irritato dall’acqua acida in cui era stato immerso poco prima.

.

.

Da dietro l’angolo, Shizuka sentì chiara la voce di suo padre. Strattonò il palo a cui era legata, senza nessun successo. Scalciò un po’ per terra, disperata, e il suo piede toccò qualcosa di duro e metallico.

.

.

Dall’altra parte dell’angolo, la battaglia iniziò quando cristalli di Ipercalcantite furono lanciati verso i componenti della Banda.

La coda spinosa di 42 e i pugni di Lisa e Seven Nation Army distrussero i cristalli in mille pezzi, ma chi li aveva lanciati in massa, alle spalle di Josuke e Okuyasu, ne aveva ancora.

Echoes act 4 stava facendo galleggiare attorno a lui altri cristalli, e Koichi, anche se la sua pelle era tagliata e strappata in più punti per colpa del minerale, era ancora tutto intero.

“È uno stallo.” borbottò Zarathustra, a voce abbastanza bassa da non farsi sentire dai Joestar che, uno a uno, stavano scavalcando il muro distrutto da Crazy Diamond e The Hand.

“Loro non hanno stand a lungo raggio per colpirci ma solo forti stand fisici, mentre noi siamo più carenti per gli stand fisici ma abbiamo potenti stand a distanza.”

“Non vorrai mica…?” 

Zarathustra annuì. 

“È pericoloso!” continuò Ludovico, che quasi gridò a metà della frase. Se Regina e il suo K&Q non fossero stati lì, probabilmente la testa di Ludovico ora sarebbe in un altro posto. Love Deluxe si era fiondato verso di loro a forma di grande ariete di cheratina, ma il muro di ghiaccio dello stand vestito da dama barocca aveva evitato il disastro. Il muro di ghiaccio era sgretolato, ma aveva anche indebolito e distrutto i capelli, e Yukako li aveva ritirati.

Regina provò il tutto per tutto, buttando il muro di ghiaccio sopra il gruppo di quattro persone che era uscito dalla palestra. Crazy Diamond lo ruppe in mille pezzi con un paio di pugni, ma non era quello il piano di Regina.

Il muro di ghiaccio divenne acqua, che imbevve il terreno sotto di loro. La terra argillosa, memore di essere stata un tempo una fertile palude, tornò tale e assorbì le scarpe e i piedi dei quattro, immobilizzandoli sul posto, almeno momentaneamente. Perfetto per il piano del Boss.

“Anche stare qui ad aspettare di essere fatti fuori è pericoloso. Ora fatevi da parte.”

L’occhio di 42 divenne di un rosso intenso, troppo intenso, mentre i componenti della Banda si allontanavano con rispetto, ammirazione e terrore dalla loro capitana.

.

.

Shizuka scostò col piede l’erba, dove aveva sentito l’impatto di qualcosa di metallico con la suola delle sue scarpe.

Era dorato, grosso e a forma di freccia stilizzata. Un orecchino?

I bordi sembravano taglienti al punto giusto da tagliare la corda attorno alla sua vita e le sue braccia, ma purtroppo era troppo lontano da lei. 

Ricordò come aveva tirato un pugno invisibile al vampiro, alla Città della Moda- perchè era stata lei, ne era sicura!- e pensò che un altro paio di braccia le sarebbe stato comodo. O più di uno, come quel Piero. Strinse gli occhi, cercò di incanalare l’energia dentro di sé, e divenne completamente invisibile. Anche la corda lo divenne, e probabilmente il palo dentro di lei. Era l’energia giusta, quella?

Aprì gli occhi. Fissò l’orecchino dorato a terra, sentì le meningi stringersi e dolere, ma doveva farcela. 

L’orecchino si mosse da solo. No, non da solo. Shizuka sentiva il freddo dell’oggetto sotto i polpastrelli, anche se le sue mani erano strette ai suoi fianchi.

Era uno stand fisico!

L’orecchino venne trascinato indietro, quasi sollevato, e poi abbandonato sulla sua scarpa. Con un po’ di fatica, Shizuka riuscì a portarsi la scarpa ad altezza mani, e finalmente l’orecchino era tra le sue dita.

La superficie era oro e lucida come uno specchio, e rifletteva sia Shizuka sia il bagliore rosso che veniva dall’altra parte dell’angolo.

Tagliò la corda, che si sfaldò sotto la lama, e stringendo tra le dita l’orecchino, attenta a non tagliarsi a sua volta, si sporse dall’angolo, attivando Achtung Baby e diventando completamente invisibile.

Suo padre era vivo! E così anche Okuyasu, che al suo fianco stava cercando di uscire dalle sabbie mobili in cui stavano sprofondando.

Koichi era a galla assieme a Yukako, che però aveva Love Deluxe a sua volta incastrato nelle sabbie mobili, e ancora dentro l’edificio mezzo distrutto Minerva, la nuova tizia di La Bassa, cercava di rimettere in piedi un distrutto Jotaro.

Dall’altra parte, Zarathustra. Il suo 42 era dietro di lei, l’occhio rosso carico di una luce innaturale e tremenda. Si stava caricando di energia, e ormai il tempo era agli sgoccioli.

Stava per attaccare, e se non si fosse sbrigata a fare qualcosa era sicura che avrebbero fatto una brutta fine.

Ora che aveva scoperto che erano vivi, ora che aveva scoperto di essere speciale!

Rifletti Shizuka, rifletti!

L’orecchino tra le sue dita la punse. Lo guardò, e il riflesso della trasparente Shizuka non scalfì la sua superficie a specchio, ma la luce di 42 sì.

.

.

Il laser di 42 era carico. Koichi era caduto stremato nelle sabbie mobili al fianco di sua moglie, mentre Okuyasu tentava di cancellare quanto più delicatamente il fango tra i suoi piedi e quelli di Josuke, cercando di non fare del male involontariamente a nessuno. 

Tutti i componenti della Banda chiusero gli occhi, premendosi le mani sopra essi.

Dall’occhio di 42, la luce divenne insopportabile. 

Josuke cercò di posizionarsi davanti a Okuyasu, per proteggerlo almeno un po’, per schermarlo da quel raggio mortale.

“No!”

La voce di Shizuka risuonò cristallina, e comparve dal nulla in mezzo al prato, tra 42 e i Joestar. Il laser venne sparato, e Shizuka divenne riflettente come uno specchio, aprendo le braccia così da poter riflettere quanto più quel raggio mortale. Riflettere, era questo che avrebbe risolto la situazione!

Il raggio rimbalzò sul corpo magro di Shizuka, che per la potenza dell’imbatto cadde indietro.

Il raggio fu rimbalzato contro la stessa Zarathustra, che buttadosi a terra riuscì ad evitarlo. 

Purtroppo, dietro Zarathustra c’era suo fratello minore Alex, ancora con gli occhi serrati e ignaro che la maledizione degli Zeppeli stava per compiersi.

ALEX!” gridò inutilmente Zarathustra.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 - Il piano della Banda (parte 9) ***


Shizuka si rialzò appena ne ebbe le forze, senza guardare cosa aveva combinato. Si buttò tra le braccia di Josuke, che la strinse tra le proprie, bruciate e tremanti e Shizuka sentì il suo battito del cuore accelerato e lesse il terrore nel suo viso. 

Era tutto finito? O era solo tutto appena incominciato, come aveva detto la voce poco prima?

Il raggio mortale di 42 sfiorò la testa di Alex, che mugolò appena per il calore troppo vicino alla sua pelle. Il raggio rosso sciolse la recinzione dietro Alex e si disperse nel cielo grigio, bucando la nebbia e le nuvole che formavano una cappa sopra di loro.

Il terreno presto tornò più solido sotto i piedi di Josuke e Okuyasu, che però ancora non riuscivano a parlare. Josuke stringeva la figlia tremante tra le braccia, e incrociò per un istante lo sguardo di Okuyasu- stava sorridendo.

Josuke stava per fargli da scudo umano, senza sapere cosa fosse quel laser, cosa avrebbe fatto. Lo avrebbe probabilmente ucciso, ma Josuke, per istinto, aveva comunque cercato di proteggerlo.

Voleva dire che ci teneva a lui? Voleva dire che Josuke lo considerava un inetto da proteggere? Sul momento, a Okuyasu parve un bel gesto. Ma non disse grazie. 

Non ruppe il silenzio spettrale che si era creato attorno a loro.

Zarathustra era accorsa dal fratello, e finalmente le aule e le porte iniziarono ad aprirsi, i ragazzi e i professori a radunarsi attorno alla scena insolita.

I Joestar erano a terra, ma la Banda era stremata. 

Quasi tutti gli alunni sembravano avere uno stand in quella scuola, chi più minaccioso e chi, la maggiorparte, meno. Ma tutti lo estrassero, tutti accerchiando il gruppo di Morioh, tutti pronti a difendere la loro terra e i loro eroi. Tutti zitti, incapaci di proferire parola.

Un applauso scosse l’aria, tutto ad un tratto e senza preavviso. 

Era Zarathustra. Si avvicinò a passi lenti e calcolati al gruppo.

“Il raggio avrebbe potuto colpirmi e uccidermi. O avrebbe potuto sciogliere la testa di mio fratello minore.” iniziò Zarathustra. Josuke strinse istintivamente Shizuka tra le sue braccia, timoroso di una vendetta del Boss. 

“Ma non l’ha fatto. Il destino l’ha fatto volare alto nel cielo, sfiorandolo appena. Forse la maledizione, quella che lega la vostra famiglia e la nostra, non è così forte o così vera in fin dei conti.”

Jotaro sbucò da dietro il muro crollato, con appena il fiato di rivolgersi a Zarathustra.

“La maledizione? Tu… voi due siete degli Zeppeli? Credevo fossero scomparsi con Caesar Zeppeli.”

“Cesare era il fratello maggiore di mia nonna, Medea. Lei era piccola quando suo fratello morì, e ricevette un libro speciale sugli studi degli antichi Zeppeli riguardo alle Onde Concentriche da una donna che si era detta maestra di suo fratello, una certa Elizabeth Joestar, la madre e maestra di Joseph. Suppongo sia vostro parente.”

L’occhio buono di Jotaro sembrò spegnersi, diventare vitreo quanto quello suo finto. “Mio nonno. Morto da poco.”

Jotaro avrebbe dovuto dire altro, spiegare il perchè erano lì, ma non lo fece. Stette in silenzio, forse a pensare alla perdita di suo nonno, e Koichi si sentì in colpa e in dovere di continuare per lui.

“Noi siamo qui per conto della Fondazione Speedwagon, fondata nell’800 per combattere i vampiri da parte di un amico di Jonathan Joestar, antenato di Jotaro e Josuke e Shizuka- e amico anche di William Zeppeli, tuo antenato!” tentò di convincerla Koichi. 

Lei non esprimeva nessuna emozione. Difficile dire se fosse convinta da quella spiegazione o meno.

“I nostri collaboratori- di cui Minerva è parte, ci stavano informando su cosa è successo nel 2012 qui a La Bassa, ma tutto ad un tratto le comunicazioni si erano interrotte. Siamo qui per indagare, non esservi contro.” continuò Koichi.

Okuyasu fece un passo avanti, distogliendo la sua attenzione da Josuke, che ancora non aveva parlato, ma stava davvero provando. Okuyasu, stanco di aspettare, spezzò quel momento per approfittarne, e far parte della discussione con la Banda.

“Perchè odiate Minerva così tanto?” chiese, senza molti giri di parole.

“Perchè ha lasciato morire mio cugino Nestore senza nemmeno aiutarlo, quando si sono introdotti nella zona più pericolosa della Città anche se noi non avevamo dato loro il permesso.” sbottò Zarathustra, una nota di rabbia nella sua voce quasi robotica. 

“Per noi lei è una traditrice, e voi vi siete uniti a lei. Abbiamo supposto fosse questa la vostra posizione nei nostri riguardi.” continuò Ludovico, come suo solito, da interlocutore. Al contrario di Zarathustra, Ludovico sembrava loquace e gentile, ma probabilmente nascondeva un’anima da predatore selvatico dietro quel sorriso educato. “Se non è così, allora il momento per spiegarvi è ora. Solo voi due.”

Il dito guantato di Ludovico puntò solo Koichi e Jotaro. Zarathustra si mosse per prima, allontanandosi dalla folla, e Ludovico li scortò in un angolo più sicuro e tranquillo della scuola, lasciando tutti gli altri, Joestar e Banda, stanchi e confusi e sconvolti l’uno contro l’altro.

Josuke si separò da Shizuka solo per curarle le lievi escoriazioni sulle sue braccia, per colpa della corda. Solo le braccia di Crazy Diamond comparvero, sfiorando delicatamente la pelle cadaverica di Shizuka. Lei si liberò velocemente dalla sua presa- sembrava sconvolta. Aveva bisogno di tempo da sola, per riflettere su quello che era successo, e soprattutto senza essere legata come un salame.

Subito dopo si prodigò a guarire le bruciature di Yukako, che era troppo preoccupata per la situazione e per suo marito per accorgersi che stava sanguinando.

Okuyasu si accostò ancora loro, e Josuke guarì la sua schiena e il suo fianco. Erano strane bruciature, quelle. Purtroppo, la mano non smise di sanguinare nemmeno con l’intervento di Crazy Diamond. Forse era stato il solfato di rame che aveva reagito con la ferita, chissà. Avrebbe presto smesso, comunque.

Oku però non si mosse, una volta guarito, ma continuò a fissare Josuke con un sorriso più… strano. Voleva qualcosa da lui? “Jos, potresti curare Minerva? È stata trattata male da quelli là!”

Proprio non capiva?, pensò Josuke. Oppure lo faceva apposta? Josuke sentì il proprio viso diventare rosso, caldo e aggrottato mentre Minerva rifiutava cordialmente le cure e Okuyasu insisteva, dicendole che non c’era problema! Lo stand di Josuke può curarla! E poi lui  è un dottore!

Da quando Okuyasu osava parlare per lui? I denti di Josuke strisciarono l’uno contro l’altro, ma d’altronde, non poteva davvero sottrarsi. Quel giuramento di Ippocrate lui se l’era dovuto studiare a memoria all’università e l’aveva dovuto recitare alla laurea, dunque tanto valeva mantenerlo.

Impose le mani su Minerva, che però non osò alzare lo sguardo su Josuke, e il sangue rappreso e gli ematomi sparirono dalla sua pelle. Lei ringraziò appena, non capì se con disinteresse o tremendo imbarazzo. Non che a Josuke importasse.

Si sentì tirare una manica. Il ragazzo castano e palestrato, Piero, era al suo fianco. Come ci era arrivato lì così velocemente?

“Tu guarisci, no?” chiese. Non era particolarmente alto per un ventenne, non più di un metro e settanta, e il ragazzino al suo fianco era ancora più basso di lui.

“Puoi curare mio fratello?” chiese.

Oh. 

“E non tu?” si ritrovò a chiedergli Josuke, senza pensarci. La ferita sulla fronte di Piero sembrava molto più grave dei graffietti ed ematomi del ragazzino. Piero alzò le spalle, mentre sorvegliava attentamente che Crazy Diamond non facesse del male a Enrico. “Non importa. Dopo gli altri. Grazie.”

Il ragazzino fu guarito e si risvegliò, ma una volta notato con che vicinanza si trovava ad un Joestar scappò tra le braccia di Piero, che lo consolò appena. Era un bravo fratello maggiore e un bravo compagno d’armi, così decise di curarlo prima degli altri, a sorpresa. Con la velocità di Crazy Diamond, toccò la ferita sulla sua fronte e lo guarì. I suoi riflessi dovevano essere mostruosi, perchè si voltò in tempo per vedere anche il velocissimo Crazy Diamond in azione.

Subito dopo, si avvicinarono anche gli altri. La ragazza più alta, quella che aveva visto combattere alla Città della Moda, camminava con passo marziale trascinandosi dietro il fidanzato.

Si indicò il naso storto e rotto. “Puoi fare qualcosa, per favore? Anche a Ferdinando, se non ti dispiace.”

Il suo tono di superiorità era anche più potenziato dalla corona che portava tra i capelli color cielo, ma Josuke era troppo stanco per attaccare briga con dei ventenni. Lei strinse talmente tanto gli occhi- forse per il timore di dover sentire il proprio naso rotto venir tirato e raddrizzato- che il trucco oro e blu venne impiastricciato sulle sue palpebre. A Josuke bastò tuttavia un tocco, e il suo naso era tornato dritto e perfetto.

“Oh” rispose meravigliata. “Grazie.”

Guarì anche Ferdinando, che non aveva parlato ma Regina parlò anche per lui, e la testa bruciata di Alex, il fratello minore di Zarathustra.

Ultima, arrivò Annalisa.

“Potresti curare anche noi?” chiese.

Yukako e Josuke si guardarono. Avevano combattuto contro di lei prima, e avevano notato questa cosa. “Perchè parli al plurale?” chiese Yukako, mentre Josuke prendeva un suo braccio e curava i graffi. Notò delle brutte cicatrici, vecchissime, attorno ai suoi polsi.

“Perchè siamo in due?” rispose annoiata la ragazza dal ciuffo platino. Alle sue spalle, indipendentemente da lei, lo stand rosso uscì. “Spiega meglio, brutta scema.”

“Ma non ne ho voglia! Spiega tu, tanto sei già fuori!”

Lo stand rosso sospirò. “Io sono Lisa, e lei Anna. Anche se il nostro nome è Annalisa. Siamo sorelle gemelle siamesi.”

Josuke sbatté gli occhi un paio di volte. Eh?

“Ma i nostri corpi si sono uniti talmente bene che ne è rimasto uno solo, anche se le nostre anime sono due ben distinte.” continuò Lisa. Alzò il ciuffo di Anna, rivelando entrambi i lati del viso. “Vedi? Siamo unite perfettamente a metà.”

Era vero. Metà della sua testa aveva capelli rossi attaccati alla radice, e occhi più affusolati e la pelle leggermente più chiara dell’altra metà, più abbronzata e bionda. Anche gli occhi avevano due colori diversi- rosso e blu.

“Di solito una sola anima controlla il corpo, e l’altra è lo stand. Ci possiamo scambiare di posto quando vogliamo!” ridacchiò Anna. Si sporse verso Yukako e Josuke, sussurrando come se Lisa non potesse sentirla. “Io come stand sono molto più forte di Lisa.”

Yukako rimase sconvolta, ma Josuke quasi si mise a ridere.

Era una condizione medica incredibile e affascinante, ma allo stesso tempo spaventosa. 

Ammirava quelle due ragazze, per la forza di volontà magnifica con cui vivevano quella condizione, e per la loro forza- entrambe erano poderose, sia come portatrici che stand. Le diede una lieve pacca sulle spalle, quasi affettuosamente.  “Siete fortissime entrambe, ve lo assicuro.”

.

.

“Noi vogliamo qualcosa da voi, quanto voi volete qualcosa da noi.” disse chiaro e tondo Ludovico, sedendosi sulla scrivania del boss, nell’ufficio della Banda lì nella scuola.

Zarathustra era seduta sulla sedia girevole, ascoltando attentamente Koichi e Jotaro seduti davanti a lei. “Prima noi, poi vi diremo cosa potete darci. Sembrate un po’ confusi, eh?”

Ludovico era, evidentemente, quello che sapeva parlare e cosa dire. Zarathustra era la mente, geniale e cinica, che ascoltava e capiva.

In effetti lo erano, e Jotaro sembrava così stanco e debole da dare l’impressione di dover cadere dalla sedia da un secondo all’altro.

"Agganci, materiali e amicizia." proferì Zarathustra, e Ludovico sembrò godersi le espressioni stupite dei due componenti della Fondazione Speedwagon prima di spiegare.

"Agganci sta per… beh, gli agganci che vi offriremo qui a La Bassa. Praticamente ogni istituzione nella città fa riferimento a noi, e potrete usufruirne gratuitamente.

Materiali… beh, si riferisce al Manimantio, principalmente. Ne saprete di più presto. Vi consigliamo di visitare il Museo Archeologico di La Bassa.

Amicizia è la nostra. Vi aiuteremo con le Onde Concentriche, vi aiuteremo nei vostri studi sui vampiri e sull'Hamon. Saremo vostri amici." 

Ludovico finí di parlare con un sorriso che ricordava da vicino quello di una fiera nascosta nell'ombra, pronta a balzare su di loro al primo segno di difficoltà.

"E ora, alle nostre pretese."

Fondi.” disse Zarathustra, alzando un dito. 

“Ovvero: soldi e tecnologie. Sappiamo che voi della Fondazione Speedwagon siete ricchi marci. E a noi servono soldi per implementare le strutture a La Bassa- d’altronde, siamo solo una piccola città di campagna nel mezzo della Pianura Padana. Questi sono i nostri laboratori- una scuola. Voi avete tecnologie all’avanguardia, più di quanto noi potremmo mai arrivare, come quell’aereo dall’energia continua e sconosciuta con cui siete arrivati in Italia.”

Koichi sbiancò. “E tu come sai del…”

Il sorriso felino di Ludovico lo zittì. La potenza della Banda andava ben oltre quella che tutti loro che erano partiti da Morioh immaginavano.

Zarathustra alzò il secondo dito. “Conoscienza.”

Ludovico continuava a fissarli in maniera quasi inquietante. Koichi voleva solo andarsene, ma Jotaro era fermo e immobile come una grossa statua di sale al suo fianco.

Non l’avrebbe lasciato da solo.

“Voi sapete cosa c’è sotto di noi, sotto questa terra, ma noi no. Semplicemente vogliamo saperne di più, perchè i nostri agganci al Museo Archeologico di La Bassa non sono venuti a capo di niente. Nel libro degli Zeppeli dato a Zara- al Boss da Elizabeth Joestar, i vampiri e gli Uomini del Pilastro sono appena accennati. Ma sappiamo che voi avete le conoscenze che a noi mancano.”

“Manca ancora una cosa.” fece Jotaro. Koichi si voltò verso di lui, inabile di comprendere ciò che Jotaro intendeva, come se tutto ad un tratto si fosse messo a parlare una qualche lingua sconosciuta.

“Voi ci avete offerto tre cose, ma ne avete richieste solo due. La terza, qual è la terza parte dell’accordo?”

Ludovico sorrise. Sì, quel Jotaro aveva capito. Lasciò parlare Zarathustra, perchè non c’era nessun motivo per mediare quella richiesta.

Il Boss delle Onde Concentriche si alzò in piedi.

Shizuka.” disse, semplicemente.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 - Il volo di Shizuka (parte 1) ***


I quattro- Jotaro e Koichi, Ludovico e Zarathustra- ritornarono con passo calmo e lento, senza nessuna fretta. Gli accordi erano stati presi, la tensione era sparita.

Gli altri stavano aspettando sul grosso parco sul retro della scuola, ormai in pochi. Gli studenti e i professori se n’erano andati una volta finito l’orario scolastico, ed erano rimasti solo loro, guerrieri dopo una battaglia finita in pareggio.

Shizuka stava gesticolando spropositatamente verso suo padre quando i quattro la raggiunsero, coprendola dalla luce del sole. Nell’ombra, Shizuka alzò lo sguardo su sette occhi che la stavano fissando incessantemente.

“Che c’è?” chiese aggressivamente Josuke, alzandosi in piedi di scatto, senza lasciar chiedere nulla a Shizuka. Anche lei lo seguì e si alzò in piedi, ma Josuke sembrava sempre coprirla, volontariamente o meno.

“Shizuka, abbiamo qualcosa da chiederti.” fece Jotaro. Josuke tentò di passare ancora una volta avanti, ma Jotaro gli sbatté l’indice contro al petto. “E tu sta’ zitto per una buona volta, ok? Rompipalle.”

Ludovico incrociò le mani dietro alla schiena, cercando di sembrare il più amichevole possibile. Al contrario, al suo fianco Zarathustra fissava Shizuka col suo occhio-lampadina rossa in maniera inquietante.

“Shizuka- o preferisci Jo? Mi hanno detto che il tuo nome si può leggere in entrambi i modi.” iniziò Ludovico. Shizuka fece cenno che no, non le importava come veniva chiamata.

“Vedi, noi stavamo pensando che…”

Jotaro sbuffò rumorosamente, pensando che quel Ludovico ci stesse impiegando troppo tempo a spiegare. “Il vecchiaccio- Joseph, mio… nostro nonno. Nel suo sangue non c’era, effettivamente, solo il suo sangue. Nel 1987, quando io e lui e altri nostri… compagni di viaggio ci siamo recati in Egitto e abbiamo sconfitto Dio, non è finita bene. Dio, il vampiro originario, il fratello adottivo del nostro antenato Jonathan Joestar, era riuscito ad assorbire tutto il suo sangue, ma lo abbiamo preso e rimesso nel corpo del nonno. Ma Dio aveva preso il corpo di Jonathan, dunque nel sangue di Dio non c’era solo quello del nonno, ma anche quello di Jonathan, anche lui guerriero delle Onde Concentriche.” continuò Jotaro.

Ludovico non si diede per vinto. 

“Inoltre, sia Jonathan che Joseph hanno ricevuto, quando combattevano, l’intera forza vitale e tutte le onde concentriche dei loro compagni di viaggio, entrambi Zeppeli. Dentro di te ci sono quattro tipi di Hamon diversi, più il sangue vampirico di Dio in persona.” disse il ragazzo labassese.

“Il potere di cinque persone nel tuo sangue, più la tua potenza naturale e il tuo stand ancora da sviluppare e già potente così sottosviluppato.” concluse Jotaro, in una amichevole gara di spiegazioni tra lui e Ludovico.

“Io sono potente?” chiese Shizuka, sotto shock. Josuke non diede a nessuno il tempo di rispondere. 

“So cosa cazzo avete in mente.”

Josuke aveva già previsto cosa volevano. Il suo sguardo si era fatto glaciale, i suoi lineamenti del viso di solito così armoniosi si erano trasformati in una maschera d’odio. “Io non ci sto. Io non voglio.”

“Non mi sembra ti abbiano chiesto direttamente qualcosa, Josuke.” lo ammonì Jotaro, che sembrava particolarmente preso dalla questione. Koichi lesse qualcosa come senso di colpa nell’unico occhio che gli era rimasto.

“Shizuka, noi ti vogliamo nella Banda. Ad allenarti con noi e a sconfiggere la piaga dei vampiri assieme a noi.” continuò Zarathustra, ignorando i due Joestar. Anche se Shizuka non poteva vedere gli occhi del boss, celati sotto i suoi occhialoni, percepiva il suo sguardo trapassarla da parte a parte. 

“Jotaro ha ragione riguardo al tuo stand. Già così sei la rovina dei vampiri. Quella minima percentuale di sangue vampiro ti rende immune alla vista a infrarossi e al fiuto dei vampiri, e l’invisibilità anche ai loro occhi. Con ben quattro tipi di sangue predisposti alle Onde Concentriche dentro di te, le tue onde saranno decisamente potenti. Prendi la tua scelta, quando- o se- ti sentirai pronta, ci troverai nella nostra villa in Via Zucca, a nord-est di La Bassa.”

No.”

Josuke prese Shizuka per il polso e la trascinò via, senza nemmeno lasciarle il tempo di rispondere. Ovvio che Shizuka avrebbe risposto di sì. L’avrebbe gridato se le fosse stato concesso il tempo per processare tutte le informazioni che le avevano sbattuto in faccia.

Jotaro fece per afferrare Josuke per la giacca, ma lui scacciò via la mano e lo guardò negli occhi furente. “Tu non osare dirmi come cazzo devo fare il padre, Jotaro. Tu sei l’ultima persona al mondo che può dirmelo.”

La mandibola di Jotaro rimase semi-aperta, ciondolante come se l’avessero appena colpito e dovesse riprendere i sensi. Non riuscì a dire nulla, si abbassò il cappello sul viso e lasciò che Josuke trascinasse via la figlia, lontano dalla sua personale avventura.

.

.

Shizuka decise di non dire nulla durante il viaggio di ritorno, di calcolare le parole che avrebbe detto al padre. Era stanco, ferito, e su di giri dalla rabbia. Fissava Okuyasu con sguardo torvo e offeso, le braccia incrociate al petto e piene di ustioni che stavano pian piano guarendo, ma che lui continuava a grattare con nervosismo. 

Non le piaceva discutere con suo padre, perchè no, non era un uomo violento o aggressivo, ma quando si arrabbiava gridava e aveva la brutta abitudine di rompere tutto ciò che aveva attorno a lui, senza nessuna remora. Una volta aveva spaccato a calci la televisione. Non gli importava, perchè tutto ciò che rompeva, Crazy Diamond lo aggiustava, come se nulla fosse. Shizuka pensava che il motivo per cui lo faceva era che, fin da quando era bambino, il suo stand aveva sempre rimesso a posto tutto ciò che lui rompeva durante i suoi capricci e scatti d’ira. Shizuka però ne era terrorizzata, e anche se sapeva che non correva rischi, odiava sentirsi urlare contro.

Era qualcosa di viscerale dentro di lei, le grida la facevano rabbrividire, le accendevano quella parte del cervello che le dicevano di fuggire, nascondersi, diventare invisibile e aspettare che le acque passassero. 

E succedeva sempre così, infatti- Josuke si arrabbiava, lei si arrabbiava, lui gridava e distruggeva cose e lei diventava invisibile e scappava in camera sua a sfogare la rabbia contro i cuscini. 

No, non sarebbe successo stavolta.

Appena Koichi parcheggiò l’auto noleggiata sul retro dell’hotel, Shizuka saltò giù dal sedile e corse dentro, scappando da tutti.

Rubò le chiavi dalla portineria e corse su per le scale fino al terzo piano, dove si trovavano le loro camere. Aprì la porta, vi si fiondò dentro e scappò nell’altra camera, la sua personale.

E aspettò.

Sentì i passi pesanti di Josuke dietro la porta a cui era appoggiata, nella camera comunicante dietro la porta. Lo sentì imprecare e gettare qualcosa a terra, che si infranse. Sentì i cocci riattaccarsi l’uno all’altro con Crazy Diamond, e poi il silenzio.

“Shizu” la chiamò suo padre, e Shizuka non rispose.

“Shizu, io lo faccio per te. Io ci tengo a te. Sei mia figlia, io voglio solo che tu stia bene, come cazzo devo fartelo capire!?”

C’era ancora una vena di risentimento nella sua voce. 

Non voleva sentirlo. Non voleva ascoltare nessuna delle sue stupide idiozie, delle sue manfrine e delle sue grida di rabbia.

Shizuka non poteva crederci. Era qualcosa di completamente fuori di testa. Assurdo. Orribile. Impensabile. 

Bonkers! Bollocks! Rubbish! Pants!

Nella sua stanza, Shizuka poteva sentire il proprio sangue ribollirle nelle vene, i palmi delle mani rossa e bollenti dalla rabbia, e sempre più traslucide , le dita ormai trasparenti come il vetro.

Non poteva davvero credere a cos’era successo solo qualche ora prima. Non poteva credere che suo padre ancora giustificasse quel comportamento, quella decisione fatta al suo posto, quella libertà che le aveva sottratto.

Il solo ripensarci la faceva andare su tutte le furie. 

Strinse le coperte sotto i palmi delle sue mani, lasciando un’impronta trasparente su esse, e tornarono visibili quando Shizuka le lasciò andare e sfogò la sua rabbia sul cuscino, che a sua volta sparì di vista. 

Shizuka sapeva, però, che la colpa non era del povero cuscino dell’hotel Colori del Tramonto, tanto più dell’uomo che ce l’aveva effettivamente riportata quel pomeriggio, e che ora si trovava dall’altra parte del muro. 

Shizuka non avrebbe mai perdonato suo padre Josuke, continuava a ripetersi. 

Con l’odio nel cuore spezzato, scalciò le scarpe e si buttò nel letto così com’era, vestita con gli abiti sporchi di erba e polvere.

Shizuka chiuse gli occhi, in quel tormento di emozioni e pensieri che l’avevano stancata e distrutta, e sognò di imparare a volare.

.

.

Il cielo era grigio e uniforme sopra di lei, una cupola monocromatica irraggiungibile. Il granoturco le solleticava le caviglie mentre avanzava a fatica nel mare dorato davanti a sé. Si trovava in un enorme campo di grano maturo, le spighe che danzavano nel placido vento di fine primavera. In cielo, gli uccelli la deridevano.

Lei non sapeva volare, non ancora almeno. 

Il sole era pallido e dorato nel cielo, minaccioso e luminoso ma estremamente freddo. Sentiva i brividi lungo la schiena ogni volta che volgeva lo sguardo nella sua direzione.

Seguì le ombre lunghe che lanciava sul campo di grano, la guidò verso un'alta scogliera. Avvicinandosi, Shizuka notò che non era fatta di roccia, ma di oggetti. Una marea di oggetti, accumulati l’uno sull’altro, e Shizuka alcuni nemmeno ricordava di averli mai posseduti, ma era come se qualcuno avesse scavato nel  profondo della sua mente e li avesse riportati tutti a galla, uno a uno.

Doveva scalare quella scogliera, lasciarsi alle spalle quegli oggetti.

Si aggrappò a un paio di occhiali da sole, vecchi e neri, troppo piccoli per lei ma della grandezza giusta per un neonato.

Un passeggino a metà.

Un braccio robotico.

Una cuffia del Liverpool, che Bert le aveva regalato quando si era trasferita in quella città e lui era da poco diventato suo babysitter.

Una divisa scolastica vecchia e sgualcita, con spille di cui non conosceva la storia ma a cui erano state attaccate comunque.

Un piatto di patate fumante ma già putrefatto.

Una motocicletta rotta.

Era arrivata in cima, e le sembrava di aver scalato una montagna. Beh, in fondo era quello che aveva fatto, no?

Ai suoi piedi c’erano due orecchini, come quello che aveva trovato tra l’erba in quella pazza mattinata- dorati, di freddo metallo. Erano ricoperti di fuliggine, e puntavano verso il dirupo, verso il cielo. 

Doveva volare, no? Era questo che doveva fare. Era quello il suo destino.

Shizuka prese la rincorsa e iniziò a correre, ma a pochi metri dalla fine del precipizio si fermò. Rimase in piedi sull'orlo, in bilico, a osservare il vuoto sotto di lei. 

Non doveva farlo, non doveva volare. E se fosse caduta? E se si fosse frantumata al suolo in mille pezzi, senza nessuno a raccoglierla e a rimetterla insieme?

Fece un passo indietro e andò a sbattere contro qualcuno dietro di sé. Le appoggiò le mani sulle spalle. Erano fredde come quelle di un cadavere.

Non poteva vederlo, ma riusciva a scorgere una grande luce dorata alle proprie spalle.

“Cosa stai facendo?” le sussurrò, con un tono così calmo da farla rabbrividire. Shizuka non riuscì a parlare. Era una voce che aveva già sentito, ma a cui non riusciva ad associare nessun viso. 

“Tu vuoi volare, no? Tu vuoi combattere, tu vuoi essere forte, essere te stessa, giusto? Tu vuoi compiere il tuo destino, no?” Shizuka annuì. Sbirciando al suo fianco, vide gli orecchini dorati che pendevano dalle sue orecchie, coperte da capelli dello stesso colore del grano sotto quel dirupo.

“Non avere paura. È il destino che ti ha dato le ali, è ora di lasciare il nido una volta per tutte. Non deludermi.”

La sua voce era luminosa e fredda, calma e impersonale.

Le mani fecero pressione sulle sue spalle e tutto ad un tratto la spinsero giù, nel burrone.

“Apri le braccia e vola! Vola! VOLA!”

.

.

Shizuka si svegliò di soprassalto, con la brutta sensazione di star cadendo. Uno di quegli strani sogni in cui il corpo si sente cadere, Shizuka li odiava. Beh, in realtà doveva ancora conoscere qualcuno a cui piacevano.

Non ricordava bene il sogno o l’incubo che aveva fatto, ricordava solo luce, grano, volare…

Si sedette sul letto.

Lasciare il nido e volare. Una frase dal sogno, che ricordava distintamente. Era il suo subconscio che le stava dicendo di raggiungere la Banda? Zarathustra aveva dato un indirizzo, Via Zucca a nord-qualcosa di La Bassa. L’avrebbe cercato su Google Maps più tardi, non importava.

Avrebbe compiuto il suo destino, sarebbe diventata una componente della Banda. Se non l’avesse fatto in quel momento, se non se ne fosse andata istantaneamente ci avrebbe ripensato, avrebbe perso il treno e avrebbe rovinato la propria vita.

Era ora di agire. Ora o mai più.

Era già vestita- pantaloncini e maglietta, pesanti leggings di pizzo lilla che aiutavano solo vagamente in quel clima umido e freddo, ma quanto erano carini! Si infilò le scarpe da tennis sporche d’erba e decise che era ora di andarsene.

Fortunatamente non aveva disfatto la valigia. Era ancora intatta su una sedia, e in cima ai vestiti impacchettati per bene dentro essa c’era la sciarpa rosso sangue della bisnonna Elizabeth.

Lei aveva combattuto i vampiri, o qualcosa del genere. Sperò nell’aldilà e che la sua forte anima vegliasse su di lei quella spaventosa notte, mentre si allacciava la lunga sciarpa rosso sangue al collo, troppo lunga per lei e fatta per una donna ben più alta del suo metro e cinquantacinque.

Trolley pronto, luci spente e Achtung Baby attivato, Shizuka si lasciò alle spalle la camera completamente spoglia e si affacciò su quella del padre, che aveva l’uscita sul corridoio e sulla libertà. Sul destino. Sulla vita.

Nel buio, solo la luce che veniva dalla lampadina dimenticata accesa nel bagno delineava le figure della notte. Suo padre Josuke era steso a pancia in giù sul letto, vestito come quella mattina e con le scarpe ancora addosso.

Al suo fianco, sul comodino, una bottiglia di alcol. 

Josuke aveva preso a bere in Inghilterra, ma raramente ci si dava così pesantemente da svenire.

Odiava quei rari momenti, come adesso. Shizuka si morse un labbro, sentì il rimorso crescerle nel petto. 

No, doveva andare.

Accontentò quel peso sul suo cuore strappando un pezzo di brochure dal mobile vicino alla porta e, con una penna appoggiata lì vicino, scrisse una specie di lettera di arrivederci al padre, sperando non si trattasse di un addio.

La appoggiò sul comodino, vicino alla bottiglia vuota.

A passi lenti ma troppo rumorosi in quella notte spenta e silenziosa, si diresse alla porta. 

La aprì e, senza più guardarsi alle spalle, uscì dalla stanza.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 - Il volo di Shizuka (parte 2) ***


Shizuka calcolò l’opzione di prendere l’ascensore per arrivare tre piani più in basso, ma scartò l’idea. L’ascensore non era particolarmente nuovo in quell’hotel e faceva un rumore assordante che di sicuro non l’avrebbe aiutata nella sua fuga notturna, e avrebbe attirato fin troppo l’attenzione.

Nell’ascensore avrebbe potuto esserci una telecamera, e se avesse ripreso le porte aprirsi e i tasti premersi da soli sarebbe successo chissà cosa.

Suo nonno l’aveva fatta sempre studiare a casa da bambina per un motivo- la segretezza. Gli stand erano un segreto, al mondo.

Avere i poteri dei supereroi dei fumetti? Una pazzia, ai più. E per questo una bambina troppo piccola per controllare il suo stand invisibile sarebbe stato un problema in una scuola pubblica, e anche in una scuola privata. Shizuka ricordava di aver passato la sua infanzia da sola e in casa o nel giardino, che fosse a New York coi suoi nonni anziani o a Liverpool con suo padre e il suo babysitter.

A Liverpool le era permesso andare in una scuola privata, che però apparteneva alla Fondazione Speedwagon- la cui sede principale era proprio in quella città. 

A Morioh, invece, le era stato permesso di finire le scuole nello stesso edificio che aveva frequentato suo padre Josuke, la Budoga-Oka, ma poco le sembrava davvero cambiato. Era un ambiente circospetto, regolato e controllato, dove lei non avrebbe dato nell’occhio. Sempre messa da parte, controllata e guardata dall’alto al basso.

Quella parte della sua vita era finita, una volta per tutte.

Chissà cosa avrebbe pensato nonno Joseph della sua scelta di scappare, di avere una sua personale avventura con gli Zeppeli e onde concentriche a combattere vampiri, come lui stesso aveva affrontato. In fondo, era tutto merito suo: lui l’aveva trovata, adottata, e salvato dandole la sua stessa vita- il suo sangue.

Shizuka pensò che sì, nonno Joseph sarebbe stato dalla sua parte, e quell’avventura non era altro che rendergli omaggio, e fargli sapere che quel sangue non era stato sprecato in una debole, inutile ragazzina, ma apparteneva ora ad una guerriera che avrebbe salvato il mondo.

Sollevando la valigia con entrambe le braccia, decise di correre quei tre piani di scale a piedi. Avrebbe corso fino a La Bassa, un po’ di riscaldamento le serviva. Lei era forte.

Quasi arrivata al piano terra, però, decise di tornare visibile. Se un portinaio fosse stato lì gli sarebbe sicuramente sembrato come minimo sospetto vedere una porta aprirsi e chiudersi da sola.

E poi nel novembre di quell’anno, il 2018, Shizuka avrebbe compiuto vent’anni. Poteva andare dove le pareva, ne aveva l’età e tutti i diritti per farlo!

Appoggiò i piedi, ora visibili, sul parquet del piano terra. La hall era silenziosa, vasta e, per quanto poteva vedere, deserta.

Prese coraggio, inspirò profondamente per le narici e fece un simbolico primo passo verso la porta d’uscita del Colori del Tramonto.

Che fu interrotto da una voce familiare.

“Cosa ci fai qui, Shizuka?”

Il sangue nelle vene della ragazza si gelò di colpo. Sentì le punta delle dita formicolare e diventare invisibile mentre si voltava di scatto a fissare Okuyasu, seduto su un divano in un angolo della hall. Tra le sue mani, un asciugamano rosso.

Con orrore, Shizuka si accorse che l’asciugamano era bianco, e il rosso era il colore del sangue che sgorgava dal palmo della mano destra dell’uomo.

Shizuka deglutì, e decise di rispondere a tono. “Che ci fai tu, qui?” gli chiese.

Okuyasu le rivolse un sorriso- triste, spento, senza nessuna energia. Nulla che le ricordasse Okuyasu. “Bella domanda.”

I due rimasero lì, fermi immobili, senza né guardarsi né parlarsi. Shizuka non aveva tempo da perdere, tuttavia.

Era l’una di notte, e non avrebbe aspettato l’alba per andarsene.

“Non lo dirai a mio padre, vero?” chiese Shizuka, e ancora sul viso stanco, troppo stanco e strano di Okuyasu si disegnò un sorriso rassegnato. 

“Non credo gli dirò più niente. Tuo padre non vuole più ascoltarmi. Non l’ha mai voluto fare, d’altronde.”

Distaccato, disinteressato e pallido. Shizuka si stava davvero chiedendo chi avesse davanti- se Okuyasu o una sua replica, dall’aspetto identico e dal carattere così opposto.

Shizuka non rimase lì a farsi delle domande, tuttavia, il destino la attendeva. Si voltò e tornò a camminare verso la porta.

Tirò la maniglia fredda come l’aria invernale, quasi primaverile della bassa Pianura Padana, e alle sue spalle Okuyasu le parlò ancora.

“Buon viaggio.” disse, e quella voce proveniva da lontano, da luoghi oscuri come incubi.

Con i brividi alla schiena per la sensazione di essere al cospetto di un estraneo, Shizuka scappò fuori dall’hotel.

.

.

Una volta superato il cancelletto d’entrata del Colori del Tramonto, Shizuka tornò invisibile. 

Decise di seguire la strada principale, la statale che dal capoluogo di provincia portava fino a La Bassa. Era la strada più sicura, perchè aveva tutt’attorno quegli strani paletti intrisi di Onde Concentriche, che non permettevano ai vampiri di avvicinarsi al marciapiede. E sembravano aver imparato, perchè non ce n’era nemmeno uno per strada. Poteva vedere qualche vago bagliore rosso nei vicoli e nelle stradine secondarie, ma erano occhi lontani, che non le si sarebbero avvicinati e che non la potevano vedere.

Come quella mattina, Shizuka sfiorò un paletto con la mano. Come quella mattina, ne scaturì una lieve scarica elettrica, che però, al contrario di quella mattina, passò attraverso il suo braccio senza fare il rumore inopportuno della volta precedente e finì nella sciarpa al suo collo.

Allora quella sciarpa faceva davvero qualcosa!

Dopo meno di cinque minuti di cammino, anche con le sue corte gambe, Shizuka si ritrovò già al cospetto del lunghissimo ponte che dava sul Grande Fiume, il Po.

Shizuka sentì ancora i brividi lungo la schiena, ma si convinse che fosse per l’aria fredda che il vento portava con sé.

Si mosse nella leggera foschia, il suo corpo trasparente che spostava la lieve nebbia a ogni passo.

Shizuka riusciva a vedersi, da invisibile. Notava il lieve spostamento della luce quando entrava nel suo corpo invisibile, come la rifrazione nell’acqua e quell’esperimento della matita nel bicchiere d’acqua dove sembrava spezzata in due. Gli altri non sembravano vederla quella rifrazione, tuttavia.

Forse nessuno le aveva dato troppo caso, bollandola come debole.

Il marciapiede era proprio contro il bordo del ponte, a picco sul fiume. Shizuka decise di darvi un’occhiata, ma forse non avrebbe dovuto farlo.

Il fiume era nero. Nero come la pece, come un fiume d’olio che lentamente scorreva e avvelenava la terra.

Un lento flusso di rabbia, dove solo i mulinelli scintillavano nella notte, portando a fondo chissà cosa.

Shizuka si premette contro il parapetto, senza pensarci, per studiare meglio quel fiume.

Le sue correnti nere, invitanti e spaventose allo stesso tempo… le onde sembravano corde vocali, e il loro scrosciare erano voci che la chiamavano. 

Il rumore del ferro che si muoveva la riportò violentemente alla realtà, alla realizzazione che stava premendo contro il parapetto.

Se avesse continuato a premere, chissà cosa sarebbe successo. In realtà lo sapeva benissimo: sarebbe caduta e annegata.

Distolse lo sguardo e iniziò a correre lungo il fiume, più spaventata dal fiume stesso che dai vampiri.

Sul ponte, non c’era nemmeno un vampiro, né uno zombie. Che anche loro avessero paura del fiume Po?

Alla mente di Shizuka, mentre cercava di percorrere più velocemente che poteva e con un bagaglio quel ponte di mezzo chilometro, vennero in mente le parole della brochure che Yukako lesse qualche giorno prima. 

Gli dèi della morte e della pazzia, che avevano dato il nome a quel territorio. Forse quegli antichi popoli sapevano qualcosa che lei stava solo ora iniziando a comprendere. 

Fortunatamente, Shizuka riuscì a lasciarsi il ponte alle spalle in poco tempo, anche se una ruota del suo trolley iniziava a fare i capricci, cigolare e strascicarsi sul cemento umidiccio. Pazienza.

Prese il cellulare invisibile dalla tasca invisibile dei suoi pantaloni invisibili, e ne accese lo schermo.

Con un sofisticato sistema di trasparenze e modifiche dei colori, Shizuka riusciva a guardare lo schermo del suo cellulare anche da invisibile.

Gli occhiali, che Shizuka portava sempre, erano lì per due ragioni: perchè aveva un lieve difetto di vista e per vedere meglio quando Achtung Baby era attivato. Li portava sempre colorati, con colori pastello ma decisi- lilla, la maggior parte delle volte, il suo colore preferito.

Facendoli diventare appena visibili, così come lo schermo del cellulare, era in grado tramite la differenza di colori di leggere perfettamente lo schermo del cellulare. Ed era poco più che una leggera macchia di luce agli altri. Se si metteva vicino a un muro, sembrava solo una macchia inconfondibile su un muro sporco. Di notte, probabilmente, non si vedeva niente.

Con le mappe online riuscì a trovare Via Zucca, e constatò che doveva percorrere una strada dritta e orizzontale che l’avrebbe portata a destinazione. C’erano solo un paio di case in tutta la via, e una era almeno il doppio dell’altra, che sembrava addirittura diroccata. Era probabilmente quella. 

Con orrore si accorse che la strada si chiamava “argine”.

Shizuka aveva dimenticato che quasi tutte le strade, a La Bassa, erano argini di qualche fiume- La Bassa ne aveva addirittura quattro.

Il Grande Fiume Po che ne disegnava i confini a nord, lo Zara che segnava il confine sud, il Lirone quello est e l’ultimo fiume, il Maior. che si inoltrava nel bel mezzo della città.

Via Zucca si trovava vicino al Lirone, o forse a uno dei suoi tanti affluenti- Shizuka non ci capiva niente delle mappe.

Con rassegnazione, passò la strada e si incamminò per l’argine. Si accorse che non vedeva il fiume da lì, e che tra l’argine e il fiume c’erano in realtà un terreno basso e coperto da alberi e boscaglia- la golena- e oltre ad essa un altro argine. Nel bosco, metri sotto l’altissimo argine, c’era qualche costruzione in legno, ma non riusciva a vedere bene.

Chissà per quanto avrebbe camminato quella notte.

.

.

Era passata mezz’ora, forse un ora, e Shizuka stava ancora camminando. Aveva rallentato il passo, e le ruote del trolley dietro di sé avevano iniziato a cigolare poco prima. Non le importava.

Aveva sonno, era stanca e i piedi le facevano male. Le punte delle dita iniziavano a formicolarle- era l’effetto di tenere il suo stand attivato per così tanto tempo. Nel giro di un’ora, tutto il suo corpo avrebbe formicolato, e sarebbe stato molto fastidioso.

Shizuka sospettava che, se si fosse allenata di più, sarebbe riuscita a rimanere molto più tempo invisibile di quanto non potesse fare ora. Suo padre le diceva che, fino ai quattro anni di vita, Shizuka non era mai stata visibile. Se era riuscita a rimanere invisibile per quattro anni e passa, perchè ora non poteva più farlo per nemmeno un paio di ore?

Shizuka si lasciò scappare un pesante sospiro. Bollocks.

Pochi istanti dopo aver fatto un rumore, qualcosa venne scaraventato ai suoi piedi. Saltò in aria dal terrore e osservò quella cosa che si era conficcata nel vecchio asfalto, a pochi centimetri dai suoi piedi- una sciarpa.

No, non era una sciarpa.

Era dura, lunghissima e incastrata nel terreno, e sembrava ancora muoversi sotto di lei. Si scansò appena in tempo, perchè ricomparve, spaccando ancora il pavimento stradale, e alla fine della sciarpa c’era una bocca che le ricordava quel brutto film con i brutti vermoni- come si chiamava? Tremors?

“Red Tide!” 

La sciarpa si ritirò attorno al collo del proprietario dello stand, un ragazzo sulla trentina che stava evidentemente seguendo Shizuka.

“Ero sicuro ci fosse un essere umano qui, ho sentito qualcosa, ne sono certo…” disse lui, tirandosi indietro il ciuffo castano che gli era caduto sul viso pallido e disumano, gli occhi rossi che scintillavano nel buio.

Non assomigliava minimamente ai vampiri della Città della Moda, né a quello che l’aveva attaccata a Morioh.

Questo vampiro era quasi umano. Era alto e dal fisico asciutto, la pelle bianca come la neve e il viso che si poteva definire addirittura attraente. Forse, questo tipo di vampiro era anche più spaventoso dei classici mostri-zombie.

Si sistemò l’auricolare all’orecchio, lievemente a punta e ricoperto di metallo. “No Manero, non stavo parlando con te. Stavo parlando tra me e me. C’è un essere umano qui, ma non riesco a vederlo… ho sentito i passi. Ma non vedo nessuno. Sì, ho usato la vista termica, mi prendi per cretino?”

Shizuka si mosse mentre l’uomo parlava al telefono. I suoi passi erano rumorosi, lo sapeva, ma se camminava mentre lui faceva rumore forse non l’avrebbe sentita…

Con uno scatto, disumano come tutto in lui, l’uomo si avvicinò e le colpì di striscio una gamba, che sembrò coprirsi di un qualche materiale duro. Shizuka scartò a sinistra trascinandosi dietro il trolley, e decise che era ora di scappare.

E anche velocemente.

Diobo’, Manero, c’è qualcuno! C’è qualcosa che non vedo e non sento!” gridò il vampiro, sconvolto quasi più di Shizuka.

Tirandosi dietro una gamba che non voleva più muoversi e sembrava pesare il doppio, corse verso il precipizio, verso la golena.

Lo stand dell’uomo- del vampiro era ancora sotto terra, a scavare dei tunnel sotto l’asfalto, e chissà dove avrebbe colpito questa volta.

Forse proprio sotto ai piedi di Shizuka, a finirla definitivamente.

Si spinse fino al bordo della strada, al bordo dell’argine, dove il rilievo di terra finiva e iniziava un altissimo dirupo sotto di lei, buio e spaventoso.

Apri le braccia e vola! 

Vola! 

VOLA!

Shizuka strinse il trolley con un braccio e, aprendo l’altro, si spinse oltre l’argine con tutte le forze nelle sue gambe stanche, la sensazione di due mani lucenti sulle sue scapole che la spingeva giù, in basso, in fondo al dirupo…

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 - Il volo di Shizuka (parte 3) ***


Shizuka strinse il trolley tra le braccia come se fosse una scialuppa di salvataggio, e quella caduta fosse una tempesta da cui sarebbe potuta si salvarsi, oppure annegare miseramente.

Si constrinse a tenere gli occhi chiusi e il viso premuto contro il tessuto della valigia, mentre il mondo attorno a lei ruotava vorticosamente- o semplicemente lei stava capitombolando giù da un argine.

Con un gesto che non capì, decise di fermarsi dal cadere così rovinosamente.

I suoi piedi sbatterono contro una superficie dura, di legno, e Shizuka, non sapeva come, si ritrovò in piedi su una struttura di legno metri sotto l’argine, tra i boschi della golena.

La valigia rotolò a terra tornando visibile, e anche Shizuka, stremata, abbandonò l’inivibilità.

Cadde in ginocchio, distrutta. Il vampiro l’avrebbe seguita? Era la fine?

Rumore di passi attorno a lei, sulla costruzione sopraelevata di legno.

Una mano gentile sulla sua spalla.

“Sei ferita?” le chiese una vocina, acuta e gentile e dal forte accento labassese. Quando Shizuka alzò lo sguardo, si ritrovò il viso tondo e gioviale di una ragazza poco più vecchia di lei, dai capelli morbidi e boccolosi color pesca chiusi in uno chignon sbrigativo.

Era vestita con una specie di camice ospedaliero, e guanti che più che da dottore sembravano da metalmeccanico.

Shizuka alzò lo sguardo sulla ragazza, che doveva avere all’incirca ai venticinque anni, e poi finalmente si guardò attorno e notò di non trovarsi su una semplice struttura in legno, ma in un lunghissimo e tortuoso complesso di palafitte in legno e tendoni di plastica.

La struttura era stabile, ma decisamente povera. Niente di costoso. Erano diverse palafitte, tra i boschi che coprivano la golena, piantate nella terra argillosa e paludosa che costeggiava il Grande Fiume, e tutte contornate da pesanti parapetti metallici, probabilmente più per proteggerli da intrusioni esterne che dal cadere giù, nella melma sottostante. Le palafitte erano coperte da tendoni da tensostruttura, e ben illuminate da neon e calde lampadine giallognole, e tra essi, tante persone vestite con gli stessi camici bianchi correvano e camminavano frettolosamente.

La ragazza aiutò Shizuka a rialzarsi in piedi, e notò che dovevano essere alte più o meno uguali. In quell’attimo di realizzazione e stordimento, Shizuka s’era dimenticata del vampiro che la inseguiva, ma quando la sua mente si schiarì scattò in avanti, stringendo i pugni come se potesse fare qualcosa contro un vampiro. “Scappate, c’è un…!”

“Vampiro?” chiese la ragazza, con tutta la calma del mondo. Shizuka annuì, e lei ridacchiò per niente stupita. “Già, ce ne sono parecchi lungo l’argine. Ma qua non possono venire, sei al sicuro!”

Shizuka seguì la ragazza, che la stava guidando tra un labirinto di lettini ospedalieri, cabine formate da tendine di plastica e sdraio convertite a poltroncine, per aspettare o per il prelievo del sangue.

Sembrava davvero una specie di pronto soccorso raffazzonato, a pochi metri da un enorme fiume. Pazzesco…

“Tu devi essere una dei nuovi amici della Banda, vero?” chiese la ragazza, accomodandola su una di quelle sdraio. Shizuka vi si sedette di peso, realizzando solo una volta rilassata su essa che le gambe le dolevano da impazzire. Doveva essersi sbucciata entrambe le ginocchia e i gomiti ruzzolando giù dall’argine, e forse si era fatta male a una caviglia scappando via dal vampiro. La pelle che lo stand-sciarpa del vampiro aveva toccato ora sembrava lievemente bruciata, e il leggings rotto. Fantastico. Erano nuovi...

“Li conosci?” chiese di getto Shizuka. La ragazza annuì, versando dell’alcol etilico sulle ginocchia sanguinanti di Shizuka. Lei borbottò qualche parolaccia in inglese, senza riuscire più a esprimersi in altro modo, quasi dimenticandosi che altre parole esistevano. Da quando faceva così male?

“Certo! Ne faccio parte! Beh, circa. E poi andavo a scuola con Eriol, quella che si occupa del Museo. La conosci, Eriol?”

Shizuka negò, sibilando ancora dal dolore mentre il sangue le veniva pulito via dalle ferite aperte.

“Comunque mi chiamo Cri, sono un’infermiera qui al Pronto Soccorso in Golena. Tutti noi dottori e infermieri qui in Golena facciamo parte della Banda, anche se siamo considerati il gruppo più esterno. La Banda è divisa in diverse unità: i quattro combattenti principali, gli apprendisti combattenti, noi medici e infermieri, i ragazzi al museo e alla scuola...”

Cri applicò un cerotto carino sopra il ginocchio di Shizuka. Le fece segno di allungare il braccio verso di lei, così che potesse curare anche quello.

Shizuka lanciò un gridolino di dolore quando quello strano alcol le finì nei tagli sui palmi delle mani.

“Scusa, questo è alcol speciale- è in parte alcol e in parte acqua delle falde sotterranee di La Bassa. Ha delle proprietà speciali di rigenerazione, anche se fa più male dell’alcol classico!”

Alle spalle di Cri comparve un ragazzone, alto e dai capelli biondo-rossicci a spazzola, tenendo una cartelletta in mano. “Kri, sono arrivati La Banda.” disse lui, con un accento palesemente non italiano né labassese- forse tedesco, per come pronunciava con forza il nome di Cri. “Portali qui Falco, per favore!” rispose lei con il suo solito tono così armonioso e felice, come il cinguettare di un uccellino.

A passi lenti e calcolati, due facce familiari le si palesarono davanti, e loro sembravano sorpresi quanto Shizuka.

Regina e Alex erano in piedi davanti a lei, Alex quasi felice della cosa. Si trattenne dal sorridere troppo.

“Oh! Ma tu sei Shizuka?” chiese la ragazza alta e dai lunghi capelli azzurri chiari, che ora sembravano ben più scompigliati del giorno prima. “Hai fatto presto a cambiare idea!”

Sul viso austero di Regina, le sue labbra colorate di blu si inarcarono in un mezzo sorriso.

Shizuka decise di rispondere. Avrebbe dovuto imparare a parlare, ora che era completamente da sola in quell’avventura. Non avrebbe più potuto nascondersi dietro al suo imponente padre, ora.

E allora Shizuka annuì, si alzò in piedi e si avvicinò a loro, constatando che entrambi erano molto, molto più alti di lei. Non importava. “Io voglio… far parte della Banda. Sì. Accetto. Ho accettato.”

Regina annuì, mentre spingeva Alex verso la sdraio su cui prima era seduta Shizuka. 

“Ti porteremo noi alla Villa, questa zona è molto pericolosa di notte e da sola. Alex, hai avuto un tempismo perfetto per ferirti!”

Shizuka notò solo dopo le parole di Regina che Alex aveva un taglio lungo il braccio. Anche lui lanciò un mezzo grido quando l’alcol speciale venne a contatto con la ferita.

Notò anche che Regina aveva le dita e le nocche sanguinanti, a sua volta. Shizuka si indicò le nocche, facendo per chiederle qualcosa, ma Regina con un sorrisetto mostrò il suo trucchetto a Shizuka.

Mise un palmo della mano sopra le nocche, e da esso scaturirono delle scosse verdi. Erano Onde Concentriche, Shizuka ne era sicura. Ma erano verdi, non il solito colore bianco neutro che Shizuka aveva visto quando le sue dita avevano toccato una delle difese metalliche dei marciapiedi labassesi.

Fern Green Overdrive” recitò Regina, e in pochi istanti le ferite pulsanti sulle sue nocche si trasformarono in tagli sottili e asciutti. 

Onde concentriche dai poteri benefici, spiegò Regina. 

“Ogni tipo di Hamon ha la sua particolarità: qualcuna scotta, qualcuna si propaga nei metalli, e qualcuna cura. Le imparerai, assieme agli altri apprendisti come Alex.”

In effetti anche Alex si stava facendo curare da Cri, e notò, con attenzione, che anche l’infermiera stava sprigionando onde verdi, il Fern Green Overdrive. Minuscole, calcolate al millimetro, per non sprecare energia.

Una volta finita la procedura Alex prese la valigia di Shizuka, ed evitò il contatto fisico. Era davvero timido, per essere il fratello minore del capo di un’organizzazione così grossa e potente come la Banda.

“La Golena è una zona sicura, qua i vampiri non possono venirci. Hanno il terrore del Po, sai? Le sue acque li scioglie. Non ne sappiamo il motivo.” le spiegò Regina, guidandola per un labirinto di palafitte e ponticelli che le collegava, inoltrandosi tra i fitti boschi di pioppi che abitavano quella zona, sempre più scura e sempre più protetta. Era come avere una cappa di foglie scure sopra la testa, un rifugio sicuro da quelle bestie pericolose che erano i vampiri. “È per questo che hanno costruito qui questo pronto soccorso.”

Chissà per quanto continuava, quel lungo percorso di legno e di barelle? Le persone sui lettini erano tante, alcune più pallide di altre, ma i medici non sembravano molti. Era una situazione sull’orlo del collasso, era palese, ma tutti non sembravano farci caso- semplicemente, facevano. Lavoravano. Si assicuravano che quel castello di carte non crollasse rovinosamente nel fiume sotto di loro.

Scesero delle scale, e si ritrovarono sul ciglio di una strada di terra battuta sopraelevata, che portava, seguendo un percorso a zig-zag, sulla cima dell’argine.

C’erano due mezzi parcheggiati lì, una bicicletta e un grosso skateboard, che assomigliava molto a una tavola da surf, anche per i disegni di onde oro e blu. 

Regina, come pensato da Shizuka prese lo skateboard, e Alex legò la valigia di Shizuka sul portapacchi posteriore della sua bicicletta argentata. 

Alex salì a bordo della sua bicicletta, e Regina mise un piede sul proprio skateboard. 

Shizuka rimase ferma.

“Sali, tieniti stretta a me e andiamo. Questo è uno skateboard speciale, non ti va di provarlo?” le chiese giocosamente Regina. Vedendola così, quell’aura di gelido cinismo che le aveva attribuito quella mattina si stava sciogliendo come ghiaccio al sole. Shizuka annuì, salì a fatica sul grosso skateboard e si aggrappò ai suoi fianchi larghi, appoggiando la faccia contro i suoi lunghissimi capelli azzurri. 

Un paio le finirono contro al naso, e quasi le venne da starnutire.

Sentì il mondo muoversi sotto alla tavola, il vento muovere quei capelli che ora le svolazzavano attorno come una tenda color ghiaccio, e ai bordi del suo campo visivo c’era solo grigio.

La nebbia era così fitta che non riusciva nemmeno a vedere il cemento sotto allo skateboard. Sembrava di volare, galleggiare su nuvole tempestose e solcare i cieli grigi di La Bassa…

Ovviamente, le belle sensazioni durarono poco. 

Lo skateobard sbandò pericolosamente, e un paio di gelide braccia sollevarono Shizuka e la lanciarono in aria, per recuperarla istanti dopo. Shizuka si accorse che era stato lo stand di Regina, Kings&Queens, a sollevarla di peso. La riappoggiò a terra e si mise davanti a lei, come la sua proprietaria.

Shizuka notò, nella nebbia, che lo skateboard era conficcato in una sostanza rocciosa e semi-trasparente, che lo stava divorando quasi completamente.

La bicicletta di Alex era nella stessa posizione, con la ruota posteriore sollevata e quella inferiore inghiottita dai cristalli.

Alex si era messo al fianco di Regina, ma sembrava meno convinto di lei.

Erano voltati verso un punto della strada e, oltre le loro spalle, Shizuka vide la nebbia e un paio di occhi rossi illuminare la notte.

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 - Il volo di Shizuka (parte 4) ***


Regina tirò fuori dai suoi stivali un paio di bastoncini dorati e ricoperti di gemme, simili a bastoni da rabdomante se non fossero stati più appiattiti e dalla fine a forma di lama.

Le gemme sulla sua corona, collana e bastoni si erano illuminate e avevano cambiato colore. Ora erano di un freddissimo bianco ghiaccio, lo stesso colore del suo stand ghiacciato alle sue spalle.

“Dimmi quanti.” impartì Regina ad Alex, che annuì, vagamente incerto. L’aura argentata alle sue spalle prese la forma di uno scatolone metallico, un’enorme cassa di risonanza a cui erano attaccati, come arti, altre due casse.

“Una decina di zombie e un solo vampiro.” disse lui, ascoltando attraverso le cuffie che portava al collo, e che erano collegate al suo stand.

Shizuka, alle loro spalle, ne approfittò per diventare invisibile. Non sapeva come sarebbe potuta evolversi la situazione, e non aveva voglia di essere vista.

Poi, se fosse rimasta ferma e invisibile, i vampiri non avrebbero avuto modo di trovarla, no?

Kings&Queens tornò fatto d’acqua corrente, e le gemme di Regina cambiarono ancora colore, trasformandosi in pietre trasparenti e turchesi.

“Uno a ore 2! Due a 6 e 5! Gli altri, tutti tra 8 e 11!” disse Alex, col terrore nella voce, mentre lo stand dietro di lui emetteva flebili ronzii- onde sonore, che gli permettevano di sapere esattamente dove si trovavano i nemici anche nella nebbia più fitta grazie a quella che doveva essere una sorta di ecolocalizzazione. 

Regina puntò un bastoncino alla sua destra, e K&Q, con una velocità a malapena percettibile dall’occhio umano, schizzò in quella direzione, colpendo qualcosa nell’ombra.

“Turquoise overdrive!” gridò Regina, e dall’ombra vennero scosse azzurre e grida animalesche. Lo stand schizzò dietro di loro emanando sempre onde azzurre, poi al loro fianco, verso lo strapiombo che dall’argine portava alla campagna e a La Bassa.

In pochi istanti, l’impareggiabile Kings&Queens fece strage di zombie, e come se niente fosse, tornò ad attorcigliarsi ai bastoncini di Regina e al suo fianco, in un movimento elegante e fluido.

“Ah, che sfiga stasera.” disse il vampiro castano, facendo qualche passo fuori dall’ombra. Sembrava più scocciato che spaventato o arrabbiato. “Proprio la più forte mi doveva capitare, stasera? Beh, vorrà dire che farò fuori la combattente migliore della Banda e il fratellino del Boss.” 

Era lo stesso che l’aveva attaccata prima, la sua sciarpa che fluttuava attorno al suo collo.

Red Tide si tuffò sotto il manto stradale, rompendolo come un biscotto, e si intrufolò sotto terra, aspettando solo di attaccare.

“Sotto di te, Regina!” gridò Alex, ma fu troppo tardi. Regina riuscì appena a scartare, ma il manto stradale si ruppe e venne colpita in pieno ad una gamba e sollevata in aria.

Atterrò qualche metro indietro, con una gamba ricoperta di quella roccia bianca e cristallina, che avanzava lungo il suo polpaccio, indurendole tutto l’arto.

“Vi trasformerò in statue di sale, e poi vi porterò dai Gemelli Vampiri. O magari vi scioglierò nel vostro amato fiume del cazzo.” disse lui, ridacchiando.

Quella roccia era sale. Tutto ciò che il suo Red Tide toccava, veniva prima ricoperto da una durissima crosta di sale, e poi si trasformava in esso. 

Shizuka decise di allontanarsi, perchè era rimasta al fianco di Alex e completamente allo scoperto.

Anche se lo scatolone di metallo al suo fianco non sembrava uno stand completamente evoluto, era sempre meglio che il nulla di Shizuka. Se la sarebbe cavato da solo.

A passi leggeri cercò di allontanarsi, avvicinarsi al bordo della strada e, eventualmente, scappare di nuovo in Golena. 

I suoi passi però attirarono la sciarpa, che emerse a pochi centimetri dietro di lei, terrorizzandola.

Non si mosse. 

Lui sentiva i suoi movimenti, sotto terra.

“Siete in due o in tre?!” gridò il vampiro.

“Non sai contare, Zaccaria?” ringhiò Regina, mentre il suo K&Q cercava di sciogliere il sale sulla sua gamba, creando una pozza d’acqua ai suoi piedi, che pian piano si stava espandendo su tutta la strada.

Alex, con la suola metallica delle sue scarpe, colpì a tradimento Red Tide mentre Zaccaria era impegnato a cercare dove si trovasse Shizuka. Le suole metalliche delle scarpe di Alex erano ricoperte di onde concentriche, e fu in grado, grazie ad esse, di colpire lo Stand, e Zaccaria gridò dal dolore metri più avanti.

Shizuka ne approfittò per buttarsi sull’erba dell’argine, in attesa di cosa sarebbe successo.

Zaccaria ritirò il suo stand, e decise che ne aveva a sufficienza. Una parte del suo viso si era bruciata per il contatto con la scarpa di Alex, ed ora sembrava davvero infuriato.

Red Tide si lanciò verso Alex, che però non riuscì a parare col suo stand, troppo lento, e finì per afferrarlo per un braccio. Alex gridò, il suo braccio divenne bianco e cristallino e lo stand sembrava mordere lungo la sua carne ora pietrificata. Provò a colpirlo con l’altra mano, ma appena le sue nocche entrarono in contatto con la sciarpa, si trasformarono anch’esse in sale.

Regina accorse verso di lui, usando solo un braccio del suo stand ghiacciato per tagliare la sciarpa- senza successo. Il ghiaccio si sciolse istantaneamente a contatto con il sale di Red Tide.

Zaccaria ritirò lo stand, quasi godendosi lo spettacolo in un atto sadico. Un braccio di Regina era ferito, entrambe le braccia di Alex erano fuori uso.

In un ultimo tentativo, Regina sollevò delle lame d’acqua e tentò di colpirlo, ma Zaccaria costruì un muro di sale di fronte a sé, fermandole senza fatica.

“Probabilmente non lo sapete perchè siete solo dei mocciosi idioti, ma il sale è igroscopico. La tua acqua non mi fa niente- anzi, la assorbo e divento più forte!”

Fece per fare un passo in avanti, ma si fermò. Smise di ridere, quando notò che gli attacchi di K&Q erano molto più deboli solo per il fatto che quasi tutto lo stand era sciolto sotto di loro, a formargli una trappola d’acqua in cui Regina sperava che il vampriro, senza accorgersene, sarebbe caduto. Trappola cui lui, purtroppo, Zaccaria si accorse.

“Davvero credevate che io fossi così stupido da cascare nella pozzanghera?” ringhiò lui, fuori di sé dalla rabbia ora. “Mi prendete tutti per uno stupido, ma io sono molto più forte e intelligente di voi. Sarò proprio io ad ammazzarvi, così mi daranno tutti il rispetto che merito! Red Tide, finiscili!”

La sciarpa si alzò sopra di lui, ricoprendosi di sale. Stava preparando un qualche sorta d’attacco, che Shizuka però non voleva vedere.

Era riuscita a strisciare nell’erba senza fare rumore, fino ad arrivare quasi dietro di lui.

Stava sbraitando così tanto forte che non la sentì rialzarsi in piedi e raggiungerlo alle sue spalle.

Shizuka alzò un braccio, e cercò di rifare quello che aveva fatto quella mattina. Aveva incanalato lo stand in un qualcosa di fisico, forse una mano, e ora doveva provare con un braccio.

Ce la doveva fare. Ce la doveva fare…

Con tutta la sua forza, colpì il retro delle ginocchia di Zaccaria, e sentì che, assieme al proprio braccio, c’era anche quello di uno stand.

Del suo stand.

Zaccaria gridò più dalla sorpresa che dal dolore, accasciandosi a pochi centimetri dalla pozzanghera con le ginocchia quasi squarciate da quell’attacco fisico inaspettato, e anche Red Tide cadde, ricoperto di sale, nel bel mezzo della pozzanghera.

“Zaccaria, sei proprio un cretino” borbottò Regina, alzandosi in piedi. L’alto tacco metallico e dorato del suo stivale venne ricoperto di onde concentriche azzurre.

“Lo sai che il sale sciolto nell’acqua è un incredibile conduttore di elettricità? O forse non lo sai perchè sei troppo stupido?”

Con il suo Turquoise Blue Overdrive, Regina lanciò un’Onda Concentrica potentissima che venne indirizzata e catturata proprio dallo stand ricoperto di sale, e con una specie di esplosione, finì la battaglia.

La testa di Zaccaria atterrò sul battistrada, davanti a Shizuka, mentre il suo corpo stava fumando nell’acqua piena di onde concentriche, i due divisi proprio dalla sciarpa che era esplosa al suo collo.

Shizuka tornò visibile e voltò lo sguardo per non guardare il pezzo del cadavere dismembrato davanti a lei, e gli occhi del vampiro si sgranarono. 

Era ancora vivo?!

“Eri tu! Brutta stronza, eri TU!” gridò lui, ma non poteva muoversi. Nel tentare di avvicinarsi a lei, rotolò a faccia in giù sul cemento.

Il sale si stava staccando ed evaporando dai corpi dei due combattenti, e presto la testa parlante di Zaccaria venne chiuso in un cubo di ghiaccio da Kings&Queens.

Regina le sorrise. “Il Boss aveva ragione a volerti parte della nostra squadra. Sei formidabile.”

Alex era al fianco di Regina, e anche lui le sorrise, senza però alzare lo sguardo dalle proprie scarpe. “Grazie” borbottò tutto imbarazzato.

Shizuka era ancora spaventata e sconvolta dall’azione, ma riuscì a sorridere e ad essere fiera di sé.

Ora era una guerriera a tutti gli effetti.

.

.

.

“Uno in meno per noi.” borbottò la gemella, seduta al fianco del fratello in cima al campanile. “E uno in più per loro.” disse il gemello.

Stavano osservando la scena dal campanile di una delle frazioni di La Bassa, a centinaia di metri dal luogo del combattimento. I vampiri avevano una vista sovrannaturale, limitata solo dalla curvatura terrestre. Appollaiandosi su un campanile, questo svantaggio fisico scompariva.

“Non è un nuovo ragazzino come tutti gli altri, questo.” borbottò il gemello, dall’atteggiamento molto più calmo e freddo di quello della sorella. “Non ha solo il potere dell’invisibilità…”

“Il suo corpo non è visibile alla vista termica dei vampiri, il suo odore non è umano, ma non è né uno zombie né un vampiro. Ha sprigionato lievi Onde Concentriche quando ha colpito Zaccaria.” continuò la sorella. 

I due si guardarono e scoppiarono a ridere, sguaiatamente e mostrando per bene gli enormi canini.

“Scommetto che al capo piacerà molto questa notizia!”

“Andiamo subito a riferirgliela!”

I due si sfilarono i nastri che erano infiocchettati ai loro capelli turchesi.

Scuotendoli all’aria e all’unisono, crearono una forte corrente d’aria che li portò dolcemente al suolo, e si persero nel buio della notte.

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 - Il volo di Shizuka (parte 5) ***


Dopo chissà quanti minuti- o decine di minuti!- stretta alla schiena di Regina, la nebbia sembrò dissiparsi e i due rallentarono, fino a fermarsi.

Regina smontò dallo skateboard e Shizuka fece lo stesso, parandosi gli occhi con un braccio allo spettacolo luminoso che si trovava davanti.

Un cancello, altissimo e completamente illuminato da un mix di luci bianche e blu- UV-, nella stessa strana lega di platino, argento e mantumanio, quello strano metallo dalle proprietà conduttive incredibili ritracciabile solo nella roccia sotto La Bassa.

Per accedere al cancello, tuttavia, bisognava passare un canale che fungeva da fossato tutt’attorno.

Oltre a quello, Shizuka lo sapeva, c’era la villa della Banda. La nebbia e la luce, però, le impedivano di vederla.

Regina, con un piede ancora sullo skateboard, si lanciò nel canale, la cui acqua era a pelo della strada. Usando l’Hamon, lo skateboard passò il canale come se l’acqua fosse cemento.

Shizuka non risciva, però, a camminare sopra l’acqua. Il canale era tre, quattro metri di lunghezza, e anche se avesse saltato non ce l’avrebbe fatta. Beh, suppose Shizuka, era fatto apposta per non essere saltato.

Alex le si affiancò, la bicicletta sollevata in un braccio. Ancora faceva fatica a guardarla in viso.

“Uh…” iniziò tremendamente lui. “Posso aiutare…?”

Non riusciva a parlare, era evidente. Si abbassò un po’ e fece segno a Shizuka di saltargli in groppa sulla schiena, cosa che Shizuka fece senza nessun imbarazzo o aspettare altro. Sentì Alex mugolare dalla vergogna davanti a lei, e a passi incerti passò quel larghissimo fossato.

Shizuka smontò dal suo nuovo cavallo e si accorse che Alex era diventato completamente rosso in viso.

Non che Shizuka ne fosse particolarmente interessata, perchè la sua mente era più attratta da quello che si era trovata davanti agli occhi.

La Villa della Banda, che prima era poc’altro che una sagoma nella fitta nebbia padana, ora era ben visibile davanti a lei: un imponente casermone padronale a forma di U, formato dalla massiccia parte centrale, la casa vera e propria quadrata e dall’aspetto massiccio e pesante, e le due sezioni perpendicolari, che in passato dovevano essere stati stalle, magazzini per il fieno e altro che Shizuka non conosceva.

I mattoni rossi erano ben visibili, squadrati e di grezza fattura, che non facevano altro che accentuare le migliorie e le difese in lega di metallo, scintillante sotto i fari UV (una riproduzione perfetta della luce solare) che illuminavano la Villa.

Regina invitò Shizuka a seguirli dentro. Camminarono lungo il sentiero che li portava verso la porta d’ingresso senza dover camminare nell’erba umida dell’enorme giardino- o forse campagna non coltivata- che circondava l’intero edificio. Il sentiero era ciottolato e carino, sempre contornato da pali metallici, e illuminato a giorno.

“Chissà quanto spendete per queste illuminazioni, eh?” ridacchiò Shizuka, ma Regina negò. “Solo il costo delle lampadine. Il manimantio ha la proprietà di non rilasciare mai energia, dunque basta immettere elettricità una volta sola per far andare il circuito all’infinito. Le lampadine non sono eterne, però. Ci stiamo ancora lavorando.”

Alex e Regina riposero i loro mezzi nel garage, costruito al piano inferiore di uno dei due edifici laterali, e al suo interno Shizuka scorse altri quattro skate e qualche bici, oltre che un furgoncino- o forse era un’auto particolarmente spaziosa, non vedeva bene nell’oscurità, attraverso le feritoie della grata in legno che chiudeva lo spazio interno. In origine, era probabilmente aperta, e reso un muro in quella maniera.

Salirono le scale che conducevano all’ingresso, in puro stile delle case rustiche del posto, e Regina aprì il grosso portone in legno per lasciar passare i due ragazzi.

L’interno della Villa era caldo e tradizionale come l’esterno. Il pavimento in granito coperto da lunghi e caldi tappeti in lana, e grosse assi di legno sopra la loro testa. Ogni porta aveva un arco arrotondato sopra essa, e le pareti erano colorate con colori vivaci ma tenui.

Era un bel posto, e Shizuka si sentì tutto ad un tratto tranquilla. Dava un enorme senso di tranquillità e stabilità, in quella città tanto sconvolta dagli eventi. Forse quello era il modo della Banda per cercare sollievo in una vita di combattimenti, mostri e sacrificio.

“Vedo che mi avete portato una sorpresa.”

La voce di Zarathustra arrivò dura e limpida dall’altra parte del muro dell’andito su cui erano affacciati. Come aveva fatto? pensò Shizuka. Forse con quell’occhio speciale- e i suoi raggi X o gamma o in qualsiasi modo si chiamassero. Forse sesto senso.

Shizuka aveva un po’ paura del Boss.

Regina e Alex si tolsero rispettivamente stivali e scarpe, e Shizuka li imitò, appoggiando le sue converse glitterate lilla all’entrata. Regina accompagnò Shizuka alla porta della sala in cui Zarathustra si trovava, seduta a una poltrona vicina al camino mentre leggeva un vecchissimo, enorme librone.

Non aveva i suoi soliti occhialoni gialli a specchio. Invece portava solo un paio di occhiali da aviatore, dalle lenti gialle come quelle degli occhialoni ma trasparenti, a mostrare il suo viso inerte. Il suo occhio destro, quello in cui il suo stand 42 si trovava, era completamente rosso. Niente sclera o iride: solo una macchia di rosso, sempre più luminoso man mano che si avvicinava al centro dell’occhio, e ai bordi quasi nero e spento. L’altro occhio, invece, era un occhio normale, dall’iride nera come la pece e inespressivo quanto i suoi occhialoni soliti. Non cambiava molto, in realtà. Sembrava comunque molto più giovane di quanto doveva essere davvero.

“Mi avete portato l’ultimo ingrediente, e ora possiamo iniziare a mescolare il tutto e mettere tutto in forno. La torta sarà pronta domani, e sarà buonissima.” disse Zarathustra, distogliendo appena lo sguardo da quel libro.

Il silenzio calò sui tre appena arrivati.

“Era una battuta?” chiese suo fratello Alex. Nemmeno Regina dava l’impressione di sapere di cosa stesse parlando il Boss della Banda.

Zarathustra quasi sospirò, cacciandoli via con una mano. “Vuol dire che dovete riposarvi e andare a dormire. Domani metteremo tutto a posto. Annalisa e Ludovico vi stanno per dare il cambio.”

E infatti i due spuntarono fuori da una porta, fissando Shizuka come se fosse un mostro a dodici teste.

“Oh!” bofonchiò Ludovico, con un mezzo sorriso. “Un’altra pivellina!”

Annalisa, in quel momento coi capelli biondi, la salutò con un cenno della mano.

Shizuka non capì bene a cos’era riferito quel commento. L’avrebbe scoperto il giorno dopo, immaginava. Ora era stanca, e tutta l’adrenalina e l’emozione erano spariti dal suo corpo, lasciandola appesantita e affaticata e stanca, tremendamente stanca.

“Alex, accompagnala alla sua stanza.”

Il biondo sbadigliò e annuì, gesticolando a Shizuka di seguirlo. “Ok.. ‘notte, sorellona…”

Zarathustra gli fece un cenno della testa, e tornò a immergere il naso nel libro che stava leggendo con tanto interesse.

Regina li salutò entrambi, e sparì da un’altra porta a sinistra, a specchio rispetto a quella che presero Alex e Shizuka, che conduceva su una rampa di scale. La salirono, e si ritrovarono davanti a un corridoio sul quale si affacciavano cinque porte.

“La prima a destra è la mia, quella dopo è di Enrico, la prima a sinistra è di Annalisa e l’ultima credo sia la tua? Uhm.” Alex si massaggiò il mento, cercando di pensare nel fumo della sua mente annebbiata dal sonno. “E vicino alle scale c’è il bagno. C’è il lavandino per tutti e poi è diviso in due per maschi e femmine per… l’altra roba.”

Stava tornando un po’ rosso in viso- solo per aver parlato della toilette?!- ma cercò, quella volta, di mantenere un po’ di immagine. Salutò Shizuka con un sorrisetto imbarazzato, augurandole buonanotte, e strisciò verso la propria camera, che si chiuse a chiave alle spalle.

Shizuka, trascinandosi di nuovo la valigia dietro di sé, aprì la porta con la chiave appesa alla serratura.

La camera all’interno era spaziosa, più della mezza camera d’hotel che aveva a Roccarolo. E soprattutto, lì non c’era nessun Josuke. 

Era più uno studio che una camera d’albergo- c’era un armadio, una grossa e pesante scrivania in mogano con molti scaffali vuoti, e al lato opposto della lunga camera c’era un letto fatto e intoccato, contornato da morbidi tappeti. 

A Shizuka piaceva sentire il legno del parquet sotto i piedi, nelle zone che non erano coperte da tappeti. Suo padre Josuke aveva deciso di ripudiare tutto ciò che era il suo passato giapponese, al punto da mettere pavimenti in pietra nella loro casa a Morioh, camminandoci più volte su con le scarpe. 

Le sarebbe piaciuto sapere un po’ di più sulle tradizioni giapponesi, se solo Josuke gliele avesse insegnate. 

Doveva smettere di pensare a suo padre, a Morioh o a Liverpool- non era il momento. Lei ora era a La Bassa, e anche la sua mente e il suo cuore dovevano esserlo.

Si infilò il pigiama e decise di dormire. Lasciò le tende semi-aperte, così che la luce dei fari esterni potesse entrare attraverso le finestre e illuminare un po’ quella notte grigia e piena di incertezze.

Le lenzuola erano nuove, mai usate, e forse lì da un po’ dato che vi si era posato un sottilissimo strato di polvere su. Meglio polverose che usate, pensò Shizuka mentre fissava le travi sopra la sua testa.

Un nuovo letto, una nuova casa, una nuova vita per lei.

.

“Shizuka. Apri gli occhi, su.”

Era una voce calda, familiare e che aveva già sognato, quella che la stava risvegliando da un sonno in cui non ricordava di essere caduta. Una voce dura e dolce allo stesso tempo, marziale e comprensiva.

Shizuka obbedì, aprì gli occhi e vide la luce.

Era coricata su un prato verde e rigoglioso, comodo oltre l’inverosimile. Si mise a sedere, e si accorse di star sognando quando si ritrovò in quel luogo ameno e limpido, il cielo terso sopra di lei e un laghetto cristallino davanti a sé.

Al suo fianco, una figura luminosa, le cui mani avevano premuto sulle sue spalle quella notte. Lo riconosceva, dagli orecchini a forma di freccia appesi alle sue orecchie ai boccoli lunghi e dorati che coprivano le larghe spalle, e gli occhi verdi che la scrutavano con qualcosa di ultraterreno in loro. 

Un sentimento di malinconia e paura del futuro attanagliava quel luogo tanto splendido, e quella figura, quel ragazzo che non doveva essere più vecchio di lei, ma sembrava celare segreti vecchi secoli in sé.

“Dove sono?” chiese Shizuka, sedendosi meglio al fianco del ragazzo. Come lui, era vestita con una lunga tunica bianca e candida, troppo luminosa come tutto il resto, come le rovine di una civiltà antica che li circondava, come le nuvole in cielo.

“Da nessuna parte.” rispose lui. “Nella tua testa.”

“Credevo sarebbe stato un posto molto più incasinato.” ammise Shizuka, ripensando alla sua complicata esistenza. 

“Lo era, ma io l’ho ripulito. Era un posto molto più tetro e pieno di cose brutte. Ho pensato di dargli una sistemata, per il tuo grande volo.”

Già, era lui che l’aveva fatta volare. 

“Perchè vuoi che io voli?” gli chiese Shizuka, ma lui non sembrò degnarla di una risposta sulle prime, quasi infastidito dalla domanda.

“Tu pensa a battere le ali e a non cascare giù, mentre io ti insegno a farlo.” sbottò quasi, come a rivelare una natura molto meno pacata e tranquilla di quella che voleva dare a vedere.

Shizuka doveva sentirsi convinta da quella risposta, in un modo o nell’altro. 

Aveva tante domande nella sua testa. Chi sei tu? Perchè proprio io? Questo è tutto un tuo piano?

“Perchè?” chiese, tuttavia.

Il ragazzo dai lunghi capelli biondi quasi si infuriò, ma la sua espressione mutò diverse volte, fino quasi a trasformarsi in una smorfia di dolore.

“Il destino, Shizuka. Ricordati del destino.”

Shizuka aveva la netta sensazione di essere scappata da una gabbia per ritrovarsi in un’altra.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 1) ***


La sala colazione del B&B Colori del Tramonto era molto carina, anche se non enorme.

Non c’era la macchina del caffé, in quanto i proprietari in persona offrivano personalmente il caffè alle poche persone che abitavano quell’hotel, e preparavano qualsiasi cosa gli ospiti volessero.

Jotaro aveva voluto provare un classico caffè espresso all’italiana, Yukako aveva optato per un cappuccino e Koichi non si era fatto sfuggire la possibilità di provare un cappuccino con un velo di cioccolata a coprirlo, mentre Okuyasu non aveva preso niente. 

Strano.

“Secondo me, potrebbe piacerti molto il cioccocino!” esultò Koichi all’amico, per risvegliarlo un po’, ma Okuyasu pareva perso nei suoi pensieri. Di solito era sempre così allegro e gioviale la mattina! Ma quel giorno, sembrava spento. Chiuso. Come se Okuyasu non fosse davvero lì, e quello fosse solo il suo guscio. 

C’era solo un gruppetto di turisti olandesi, biondissimi e sorridenti, pochi tavoli più in là rispetto a loro.

“Josuke e Shizuka non si sono ancora fatti vedere.” borbottò Jotaro, facendo un’attenzione e serietà quasi ridicola nello spalmare tutta la marmellata sulla fetta biscottata che teneva tra le mani. Aveva una benda sull’occhio e non il solito vetrino. Probabilmente pensava che fosse più comodo combattere senza una palla di vetro finta dentro l’orbita. “Staranno dormendo.”

Passi pesanti giù per le scale smentirono l’ipotesi di Jotaro, perchè davanti a loro si presentò un furioso Josuke, dal viso rosso dalla rabbia- o dalla paura?- e una brochure strappata tra le mani. Era vestito ancora come il giorno prima, la maglia sgualcita e gli scarponcini slacciati, i capelli in disordine che schizzavano verso l’alto.

Senza Shizuka nei dintorni.

Nessuno fece in tempo a chiedere, perchè lui sbatté sul tavolo il bigliettino. “Non c’è!! Lei- Shizu- Lei..!!”

Josuke non riusciva a trovare le parole, solo un nodo nella gola e la rabbia nella testa.

Yukako prese il bigliettino, e benché fosse scritto in un inglese decisamente pieno di slang e madrelingua strettissimo, capì che Shizuka si era recata alla villa della Banda, sfuggendo agli ordini del padre.

“Ieri verso le due di notte, dopo che tu te ne sei andato a letto dopo aver bevuto al bar tutta sera.” lo ammonì Okuyasu. 

Okuyasu!?

Il silenzio calò sulla sala. I turisti olandesi finirono in fretta e furia i loro succhi di frutta, impacchettarono il resto della loro colazione e se la svignarono dall’uscita posteriore dell’albergo.

Cosa intendi dire?” ringhiò Josuke, non dissimile da un cane con la rabbia. Mancava solo la schiuma alle fauci, i denti già digrignati e pronto a morderlo. Okuyasu però non demorse, determinazione e qualcosa di strano nello sguardo. 

“Che forse non ha fatto così male! Ha vent’anni! E non puoi controllare le persone come se fossero oggetti! Le persone che ti sono vicino non sono di tua proprietà.”

Non era ben chiaro se intendesse parlare di Shizuka o di sé stesso, ma fatto stava che questo aveva fermato le ire di Josuke. O, probabilmente, quelle fiamme si erano solo coperte sotto i carboni ardenti, e le braci erano pronte a riprendere a fumare e bruciare in qualsiasi momento, più forti di prima.

Jotaro si alzò in piedi, dopo essere stato fissato per diversi minuti dai coniugi Hirose. Fa’ qualcosa! gli stavano intimando, silenziosamente.

“Josuke, va’ a prepararti, alle nove dobbiamo essere al museo archeologico di La Bassa, e sono ben oltre le otto e mezza.”

Jotaro aveva tentato di mantenere un tono gentile con Josuke e con la sua situazione, ma era risultato, come al solito, rude e scortese.

Jotaro poteva capire la sua situazione, di avere una figlia ribelle che potenzialmente avrebbe potuto mettersi in seri guai. Ma se Jotaro era sempre stato un padre completamente assente e indaffarato, Josuke era stato sempre un’ombra opprimente sulle spalle di Shizuka. Non a coprirla fisicamente, ma emotivamente pesante, scostante ma quasi asfissiante.

“...Shizuka è forte, so che se la sta cavando bene.”

Nella voce di Jotaro, un filo di senso di colpa. Di aver odiato Shizuka per la morte di Joseph, e di quanto ingiusto fosse stato dalla parte sua.

Joseph era il nonno di Jotaro, sì, ma anche di Shizuka. Non doveva odiarla. Doveva sostenerla, perché, in fondo, tutto ciò che era rimasto del vecchiaccio era in lei.

Josuke seguì il consiglio di Jotaro. Girò i tacchi e risalì le scale, i suoi piedi che battevano pesanti sui gradini in marmo.

Okuyasu sembrava stravolto da quell’incontro, e Yukako rivide quel ragazzino triste che, diciassette anni prima, aveva scoperto che Josuke se n’era andato da Morioh senza salutare nessuno e che non sapeva se sarebbe mai più tornato. 

Sembrava di no, vedendo quel Josuke.

“Oku, va tutto bene? Vuoi parlare?” gli chiese Koichi. Okuyasu sembrò quasi sul punto di dire di sì, ma negò alla fine, stringendosi un panno sulla mano destra. Yukako, coi suoi modi sempre poco gentili, strappò il panno dalla mano, indicandogli il palmo stagliuzzato e sanguinolento. 

“Non è normale, sanguina da un giorno intero. Ha sanguinato anche tutta notte?”

“Credo…” borbottò lui, senza energie. 

“Hai chiesto a…”

“Sì, l’ha già curato due volte. Ma non funziona. Ieri notte al bar mi ha detto di non rompere perchè continuano a riaprirsi e che non vuole più provare a guarirle.” la interruppe Okuyasu, con un’espressione dura sul viso- un’espressione che Koichi conosceva, ma che non apparteneva a Okuyasu. Come un flash, qualcosa che Koichi credeva di aver dimenticato, quel viso- pieno di sofferenza e rancore e stanchezza- gli ricordò quello del fratello maggiore di Okuyasu, morto diciannove anni prima e di cui non ricordava nemmeno più il nome. 

Sperò che Okuyasu non volesse intraprendere la strada del fratello. Era questo quello che l’aveva tenuto in vita, che l’aveva fatto diventare una delle persone più amate a Morioh.

Ma a La Bassa, le cose sembravano funzionare in un modo completamente diverso.

.

.

Josuke, più che vestirsi, si tirò i vestiti addosso. Strappò anche la maglietta nell’indossarla, fortunatamente il suo stand poteva riparare ciò che lui rompeva nella rabbia. Era fortunato ad avere quello stand- o forse ce l’aveva proprio per il fatto che il suo carattere fosse tremendamente distruttivo, e, in contrapposizione, il suo stand potesse rimettere a posto gli oggetti.

Sfortunatamente, Crazy Diamond non poteva rimettere a posto i rapporti che Josuke riusciva, sempre e comunque, a spezzare.

Controllò il cellulare un’ultima volta, forse a vedere se Shizuka si era decisa a rispondere alle sue chiamate, ma ancora nessuna risposta da parte sua.

Invece, sorprendentemente, aveva ricevuto un messaggio. Era da parte di Bert, il babysitter di Shizuka a Liverpool.

Ho notizie su Shizuka. Suppongo lei non ti abbia detto niente. Chiamami quando puoi. Niente di grave. diceva il messaggio. Era rincuorante, ma anche spaventoso.

“Ciao Jos.” lo salutò il ragazzo di Liverpool, col suo solito accento fin troppo marcato nel pronunciare il nome sfigurato di Josuke. 

“Hai notizie su Shizu?” lo incalzò invece Josuke, senza nemmeno salutarlo, o fargli finire di parlare. Non gli importava di lui. Voleva solo sapere di sua figlia.

Sentì il ragazzo sospirare dall’altro capo della cornetta, e poi riprese a parlare, con il suo solito tono accelerato, di chi tentava di mantenere la calma e non ci riusciva molto. 

“Questa mattina presto mi ha chiamato Shizuka. Lei sta bene, mi ha raccontato che è in Italia per una… un’avventura, così l’ha chiamata lei. E che è scappata da te, perchè non gliela stavi permettendo.”

Josuke strinse il cellulare tra le dita, e avrebbe voluto gridare, ma la voce del ragazzo continuò.

“Shizuka sta più che bene, è felice come mai. Da quando ve ne siete andati da qua, non l’ho mai sentita così piena di vita e speranze! In questi giorni si allenerà con loro e non avrà molto tempo per chiamarmi, ma mi ha rassicurato che sta bene ed è al sicuro. Non so perchè siate lì o cosa state facendo, non mi sono mai immischiato nelle vostre faccende sovrannaturali, ma so qualcosa. Ti prego, Jos. Ascoltami.”

“Ti sto ascoltando.” gli rispose secco. Sentì un sospiro pesantissimo. “Ascoltami per davvero. Non come fai tu di solito, e come evidentemente hai fatto con Shizuka.”

Sulle prime, Josuke si sentì ferito da quella frase. Avrebbe voluto spegnere il cellulare e andarsene. Cosa cazzo voleva insegnargli, questo ragazzino bastardo senza padre?

Poi ricordò di essere a sua volta un bastardo senza padre, e allora realizzò che avrebbe dovuto davvero iniziare ad ascoltare sul serio.

“Sì, ti ascolto.” ripeté Josuke, evidentemente con un’altro modo di porsi, perchè Bert ricominciò finalmente a parlare.

“Ti ho chiamato perchè pensavo non fosse giusto che tu, il padre di Shizuka, rimanessi all’oscuro di come se la sta cavando. Shizuka è arrabbiata, forse ferita, non lo so… ma non è qualcosa che non si può più riparare! Vi prego, parlatevi. Ascoltatevi. Capitevi. Non rovinate la vostra famiglia solo perchè siete troppo testoni per accettarvi.”

Josuke non sapeva di preciso perchè Bert avesse tagliato i ponti con entrambi i genitori- o meglio, perchè i suoi genitori decisero di farsi una loro nuova famiglia in cui lui non era incluso. Ma sapeva che lui parlava per esperienza, e che non voleva che si ripetesse quello che aveva già visto accadergli in prima persona.

“Io… ti ringrazio, Bertie. Non so come avrei fatto senza di te.” e questa volta Josuke era sincero. Sentì il sorriso di Bert anche senza vederlo- il suo sorriso infantile su quel viso lungo, magro e pallido. 

Dopo quella chiamata, Josuke si sentiva sollevato e triste allo stesso tempo. Shizuka stava bene, si era integrata bene nel suo nuovo gruppo e sapeva che quelle erano persone che l’avrebbero tenuta al sicuro dai vampiri meglio di quanto lui stesso avrebbe mai potuto fare, ma allo stesso tempo, Shizuka aveva preferito la Banda a suo padre. Aveva chiamato Bert il babysitter invece di informare Josuke. 

Ultimamente, tutti sembravano preferire gli altri a lui. Koichi pendeva dalle labbra di Jotaro, Jotaro era dalla parte di Shizuka in questa decisione, Okuyasu… Okuyasu non aveva occhi che per quella donna labassese dai capelli viola. Minerva Matuzia.

Josuke odiava Minerva. 

Cos’aveva lei che Josuke non aveva? Perchè lei era ascoltata e amata e seguita, ma Josuke no?

Josuke si sentiva ferito. Tremendamente ferito.

Prese le scale invece che l’ascensore, pensando che un cornetto e cappuccino l’avrebbero tirato su di morale. Quando arrivò alla fine della rampa, però, un paio di occhi color miele lo gelarono sul posto.

“In ritardo?” gli chiese Minerva Matuzia, il casco nero e oro della sua moto sotto il braccio e uno sguardo di giocosa sfida. Lui la ignorò, ma anche solo il fatto che lei avesse osato rivolgergli la parola in quel modo l’aveva mandato in bestia, e probabilmente lei se n’era accorta. Fece per avviarsi verso il tavolo in cui servivano il caffè, ma la mano di Jotaro sulla sua spalla lo fermò. “Josuke, non c’è più tempo per fare colazione. Dobbiamo andare al Museo prima che aprano al pubblico.”

Josuke avrebbe davvero voluto gridare e fare a pezzi tutti in quel momento, ma invece si scrollò di dosso la mano di Jotaro e fece il broncio, seguendo gli altri che si dirigevano all’auto parcheggiata sul retro dell’hotel.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 2) ***


Dopo i soliti quindici minuti di viaggio tra l’hotel e la Città, la moto di Minerva e l’auto del gruppetto dei Joestar si ritrovò davanti a un ennesimo cancello in metallo scintillante che si aprì cigolando appena. Lasciò passare le due vetture e si richiuse subito, con fretta. Il cielo sopra di loro era grigio, la luce poca. Sembrava quasi tardo pomeriggio, quando il sole era già sceso oltre l’orizzonte ma la luce, testardamente, non voleva ancora cedere alla notte.

Il Museo Archeologico di La Bassa era una struttura vecchia ma rimodernata di recente, la figura squadrata e oblunga tipica della città e murales colorati alle pareti. Un murales stava venendo dipinto in quell’esatto momento, un mucchio di ragazzetti e ragazzi più grandi stipati tutti in un angolo con bombolette di colore e pennelli tra le mani. Vedendo l’auto sconosciuta parcheggiare non lontano da loro, si voltarono e rimasero all’erta, tutti stretti tra loro come un gruppo di pulcini spaventati. 

Appena Minerva si tolse il casco di dosso, i ragazzini parvero più rilassati. “Buongiorno prof Minerva!” gracchiò un paio di loro, le voci ancora incrinate dalla pubertà non proprio conclusa. Lei li salutò con un cenno di mano guantata, un vago sorriso a dipingersi sul rossetto nero.

“Il museo è anche un centro di ritrovo per ragazzi, dato che La Bassa è una città un po’ noiosa e molto pericolosa. Ogni tanto insegno qui, leggo loro qualche libro.” Spiegò lei, accompagnando i Joestar all’ingresso dell’edificio, su per le scale. Il museo si trovava in realtà sopraelevato rispetto all’edificio- cosa non strana lì a La Bassa specialmente nelle ville così ampie, forse per proteggerlo dai frequenti allagamenti a cui era sottoposta la città in passato.

Una volta aperta la prima porta, ci si trovava in un bivio: a destra, l’entrata vera e propria al museo, attraverso un corridoio che conduceva all’interno del percorso museale vero e proprio, e a sinistra la porta d’uscita, una delle classiche antincendio.

“È un’azione molto bella.” le rispose Okuyasu una volta dentro, e Josuke, che già non voleva essere lì e non voleva sentire quelle manfrine inutili, spostò Okuyasu con una spallata e si allontanò dal gruppo. 

Il museo era immenso. Aperta la porta finale, si ritrovarono in un’enorme sala, piena di teche e di diagrammi e spiegazioni appese al soffitto e alle pareti. 

Una mappa digitale  della città che si muoveva come una gif svettava su tutta una parete- anche se, più della città, sembrava incentrarsi su quattro fiumi principali che la attraversavano: il gigantesco Po a segnare il confine nord e ovest, quello denominato “po vecchio”  quello sud, il Lirone a est e Zara a tagliarla a metà, ramificandosi in più fiumiciattoli secondari all’interno della città. A quanto pareva, il percorso partiva dalle origini della città fino all’epoca moderna- non che Josuke stesse ascoltando. 

Un cartello verde e retroilluminato appeso alla parete indicava sia i bagni sia il ristoro, e Josuke vi ci fiondò senza nemmeno pensarci. Il suo stomaco sottosopra e annodato gorgogliava dalla chiamata del ragazzo di Liverpool, e non sapeva se più per fame o per paura, o forse addirittura rabbia.

Al gruppo rimasto nel bel mezzo del museo non rimaneva che aspettare. Fortunatamente l’attesa durò poco, perchè lo scalpicciare energetico di un paio di suole di scarpe sul pavimento di pietra.

“Benvenuti al museo! Ah, vi avevo riconosciuti dalla macchina.” disse la ragazza che si avvicinò loro. Era alta all’incirca quanto Koichi- dunque forse poco più che un metro e sessanta, dai capelli color mogano corti e arruffati sulla testa e lunghi raccolti in una svolazzante coda di cavallo alla base del collo. Era completamente vestita color khaki- o forse era solo polvere e terra. Allungò loro una mano, dal guanto ricoperto di polvere di argilla- ma quando nessuno la prese, con velocità si tolse il guanto e proseguì a dare la mano a tutti, tranne a Minerva, che salutò con un cenno della testa- non in modo irrispettoso, ma più come qualcuno che conosce fin troppo bene da salutare in modo formale.

“Io sono Eriol Dumanti, sono la vice-direttrice del Museo Archeologico e Naturale di La Bassa. Lui è…”

Si voltò verso il nulla. In effetti, un ragazzo era rimasto indietro, tra le braccia sottili una grossa cassa di legno. La sistemò per bene in un angolo, poi tutto di corsa raggiunse la ragazza, spingendosi i corti capelli blu indietro sulla fronte scura madida di sudore.

“Uh, io? Io sono Gianni Singh, sono il vice-vice-direttore.”

“Non esiste il vice-vice-direttore” lo corresse Eriol, con una nota di scherno nella voce. 

“Sì che esiste” insistette il ragazzo. “L’ha detto il direttore!”

Un colpo di tosse di Minerva riportò i due alla realtà- dato che non sembravano ragazzi particolarmente seri.

Eriol si ricompose, battendosi la mano coperta dal pesante guanto di lavoro sulla casacca. “Noi due siamo ex guerrieri della Banda delle Onde Concentriche, e ora, pur rimanendo membri importanti della Banda, non combattiamo più. Lavoriamo come archeologi qui al Museo, ma sappiamo usare sia lo stand che una vasta varietà di Onde Concentriche, dunque siete al sicuro con noi!”

“E poi…” continuò Gianni, gli occhi che gli brillavano dall’emozione. “...il direttore è l’uomo più forte di La Bassa- anzi, dell’Italia intera! Ma che dico? È il portatore di stand più forte che sia mai esistito! È un portento!”

Minerva cercò di minimizzare quello che il ragazzo stava dicendo, quasi un po’ a disagio, o forse imbarazzata da quelle affermazioni. “La Bassa ha un tasso spropositato di portatori di Stand, che va oltre l’75% sull’intera popolazione. Alcuni di essi possono sviluppare stand particolarmente abili, è statisticamente possibile.”

Josuke aveva già raggiunto il bar in quel momento e, seduto a uno sgabello che era sì imbottito ma troppo piccolo per la sua stazza, aveva appena ordinato un cornetto e cappuccino. 

Ah, diobò, propria adés al ghea da inisià a pioar!

Josuke non riconobbe la lingua in cui l’uomo tutto fradicio appena entrato stava parlando, ma la barista ridacchiò e rispose qualcos’altro, sempre in quella strana parlata. Labassese?

L’uomo- abbondantemente oltre la sessantina e dai capelli e barba ormai quasi completamente ingrigiti, appena colorati da un accenno di indaco, si mise a ridere in modo bonario e si tolse il cappotto fradicio di dosso, buttandolo alla bell’e meglio sul portaombrelli.

L’uomo, alto e statuario e per nulla intaccato dall’età, si sedette allo sgabello al fianco di Josuke, gli occhi dorati accesi da una vitalità incredibile. 

“Sei nuovo? Turista? Non ti ho mai visto in giro.” fece l’uomo, allungandogli una mano. Josuke gli porse la sua, stringedola con tanta forza quanto quella dell’uomo. “Alan.”

“Josuke. No, per lavoro.” sbuffò Josuke, indicando con un cenno svogliato della testa verso il gruppo non troppo lontano, il cui chiacchiericcio rimbombava fin lì. Lui si voltò e continuò a sorridere, bevendo il caffè che aveva ordinato poco prima. “Ah, roba pallosa eh?”
“Puoi dirlo forte.”

Alan, finì il suo caffè ed estrasse una fiaschetta da sotto il giubbotto. “Vuoi una grappina? Come ammazzacaffé.”

“Alle nove di mattina?” gli rispose Josuke con un sorriso divertito. Quell’uomo era davvero simpatico, e soprattutto, pazzoide. Alan ridacchiò sotto ai baffi. “Bemma dai, il tempo è solo un concetto.”

Senza che nessuno dei due se ne accorgesse, mentre Alan si stava portando alle labbra la tazzina di caffè piena di grappa e Josuke aveva la bocca impastata dalla brioche alla crema pasticcera, Minerva apparve dietro di loro, strappando di mano la tazzina di caffè all’uomo.

“Niente alcol sul lavoro, papà. Quante volte te lo devo ripetere? E poi sei in ritardissimo! Ancora!”

Josuke sentì la brioche fermarsi in mezzo alla sua gola.

Alan era il padre di Minerva!?

Lui si voltò verso Josuke, quasi incurante dal tono autoritario della donna. “Minni ha preso tutto da sua madre. Autoritaria come pochi.”

Papà.”

Alan si alzò con un sospiro, appoggiando le larghe mani sulle proprie ginocchia per fare leva ed alzarsi. 

Alan era un uomo imponente- non alto come un Joestar, ma poco mancava, ed altrettanto largo e massiccio.

Diede velocemente la mano a tutti gli altri componenti del gruppo che si erano avvicinati, scuotendo la mano di Koichi con così tanta violenza da quasi farlo cadere a terra. Invece, per Jotaro fu riservata una manata amichevole sulla spalla. “Piacere di rivederti dopo… quanti anni?”

“Cinque.” rispose Jotaro, scosso da quella manata improvvisa. “Io e la Fondazione siamo venuti qui nel 2013.”

Alan ridacchiò e borbottò che ormai non riusciva più a contare bene gli anni, ma poi decise che forse era meglio presentarsi agli altri componenti del gruppo, che non avevano davvero idea di chi lui fosse.

“Sono Alan Matuzia, sindaco di La Bassa e direttore e fondatore del Museo. E il papà di Minerva, ovviamente!”

Si rivolse ai suoi due adoranti dipendenti, con un sorriso largo e gentile. “Da cosa volete far partire i nostri ospiti?”

“Il sottosuolo Labassese e i popoli sconosciuti che hanno costruito la grotta attorno al meteorite!” gracchiò Eriol.

“La potenza militare e stand di La Bassa durante il rinascimento italiano!” bofonchiò Gianni.

Lui calmò entrambi con un gesto della mano.

“Perchè non partiamo dall’inizio?”

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 3) ***


 

Tra i 60 e i 50 milioni di anni fa, dopo che l’epoca dei dinosauri lasciò il passo al quella dei mammiferi, qualcosa cadde dal cielo. 

La Bassa non era altro che il fondale argilloso di un mare basso e tiepido che sarebbe presto diventato la Pianura Padana, schiacciato verso il basso da Alpi e Appennini che si stavano innalzando attorno ad essa fin dal Cretaceo.

L’Eocene era un periodo di tumulto, in cui impatti meteorici erano frequenti in tutto il mondo, ma quella terra ancora doveva subire il più grande stravolgimento che avrebbe mai visto nella sua storia.

Dal cielo, un bolide scintillante cadde. 

Era diversi metri di diametro, metallico e mortale, e decise di cadere in quella pozza d’acqua tra due catene montuose appena nate.

Cadde, e il suo corpo metallico si contorse e spezzò nell’impatto e si scavò la propria fossa da solo, chilometri e chilometri fino a raggiungere la crosta sottile di quel mare.

Poi, come un perfetto funerale, i sedimenti che il meteorite metallico aveva lanciato in aria ricaddero su di lui, seppellendolo per sempre.

Quell’asteroide non veniva da nessuna parte dell’universo che gli umani- che ancora all’epoca dovevano fare la loro comparsa- conoscessero, e tutt’ora è un mistero cosa fosse, da dove venisse e perchè avesse deciso di colpire la Terra in particolare.

Non importava. Ora quel souvenir da mondi sconosciuti giaceva tra la sottile crosta marina sotto e i sedimenti sopra di lui, ma non inerte: infatti, quel metallo non era qualcosa che la Terra conosceva. 

Era un elemento nuovo, straniero e sconosciuto, che pian piano si diluì alle paludi fangose e acque stagnanti che gli si formarono sopra, impregnò le piante e gli animali, e quel metallo conteneva qualcosa.

Gli animali si comportavano strano, in quel territorio. Le piante sembravano posizionarsi strategicamente e seguendo una logica che apparteneva a organismi molto più elevati di quelli che sarebbero dovuti esseri. Gli animali, anche i più miti e piccoli, si rivelavano mortali.

I primi uomini a raggiungere quelle terre immerse nel fango e nella nebbia provenivano dalle montagne della vasta eurasia, o dal profondo sud della terra madre che era l’Africa. E tutti essi calpestarono quelle acque pregne di un elemento alieno e sconosciuto e ne sentirono le forze, ne morirono, e scapparono e mai vi rimisero piedi, e così i loro antenati ve ne stettero alla larga.

Coi secoli e i millenni altri popoli arrivarono dalle Alpi, e sulle ossa dei più deboli costruirono le loro palafitte, dove quei miasmi extraterrestri e quella natura selvaggia e autoconservatrice non poteva prenderli- o almeno così credevano.

Aravano le terre emerse abbastanza sopraelevate da non venire costantemente sotterrate dal grande fiume che lentamente si stava formando, e ciò che coltivavano poteva ucciderli, o fortificarli.

Le generazioni che nascevano lì bevevano il latte delle madri contaminato dell’elemento, respiravano la nebbia pregna di quel metallo, mangiavano i frutti di una terra ricca di qualcosa che non doveva esserci, e presto svilupparono un potere: lo stand.

Ora erano anche loro forti e selvaggi come quelle acque che avevano deciso di donare il suo più grande segreto a quell’umanità che, forse, ritenne degna.

E quel popolo crebbe, divenne forte, pieno di guerrieri di stand ma sempre più isolato in sé stesso, su quegli scogli di fango isolati da un micidiale fiume. Quei guerrieri ritenuti poco più che barbari erano pressoché inespugnabili, con il fiume dalla loro parte a proteggerli e i loro stand a renderli macchine da guerra perfette.

Roma non riuscì mai a batterli- riuscì ad annettere quelle terre basse solo dopo aver conquistato tutti i loro vicini, e senza mai dominarli. Grandi condottieri e incredibili saggi e poeti nacquero tra quelle acque, e Roma fu costretta ad accettarne la superiorità- e che mai avrebbero potuto farli inginocchiare.

Durante questo periodo, una razza sovrannaturale di umanoidi- ribattezzata, millenni più avanti, “Uomini del Pilastro” dalla Fondazione Speedwagon per la loro abilità di pietrificarsi e unirsi al materiale roccioso, visitarono la zona, cercando qualcosa nel sottosuolo di ancora indefinito. Lasciarono tuttavia una traccia del loro passaggio: un’enorme grotta scavata sotto chilometri di sedimenti, esattamente sulle rocce tardo cretaciche che erano state la base dell’impatto meteorico millenni prima, e al suo interno una miriade di maschere di pietra e un esemplare della loro stessa razza a fare da guardia. Tuttoggi, non sappiamo bene a cosa.

Coi secoli Roma cadde, e per la Terra Bassa così denominata non cambiò molto. Le loro fortificazioni e la loro tremenda forza li difese da ogni assalto e invasione, e il terreno fertile e speciale li rese ricchi. Presto, l’epoca dei comuni arrivò, e una famiglia nobile della terra Bassa sviluppò un potere stand fuori dall’immaginazione, i Gonzaga. Conquistarono la grande città Mantova con una sola battaglia, e divennero presto la più grande e influente famiglia di duchi che l’Italia e, forse, l’Europa intera avesse mai incontrato.

I mercenari di quella terra, che ormai aveva cambiato nome e veniva chiamata solo La Bassa, erano i più ricercati. Si diceva che da soli potessero sconfiggere un intero esercito, e così dimostrò un generale labassese che era vero. 

Ma coi secoli i soli stand non potevano sconfiggere il progresso tecnologico, e La Bassa, che non aveva mai avuto bisogno di evolversi, rimase indietro. Altre città e altre famiglie presero il sopravvento, divennero ricche e industrializzate, e La Bassa rimaneva lì, chiusa nelle sue campagne bagnaticce e quasi paludose, persa nella nebbia fitta che l’aveva sempre contraddistinta.

Finchè arrivò il ventesimo secolo, e l’industrializzazione, e La Bassa piena di persone dallo spirito d’acciaio e forza sovrumana sfruttò l’avanzamento tecnologico questa volta, diventando uno dei più grandi poli industriali della Lombardia, a cui era stata annessa da poco. 

La Bassa era sempre andata a suo ritmo, senza seguire ciò che il mondo le diceva di fare. La Bassa viveva a suo tempo, e un passo nella città è come entrare in un universo parallelo in cui è facile perdersi, dalle vie labirintiche e la nebbia fitta e grigia che non permette di vedere a un palmo dal naso.

Per un centinaio d’anni, non era successo nulla. Le acque dei fiumi che la irrigavano avevano scorso lenti e mortali per gli invasori, che fossero soldati austro-ungarici o tedeschi. Avevano dato energia alla città con la loro forza idroelettrica, e irrigato i campi, e continuato a far nascere guerrieri potentissimi.

Fino al 21 marzo dell’anno 2012, quando…

 

“Quando noi abbiamo fermato il reset dell’universo messo in moto da padre Pucci, e un terremoto a La Bassa ha aperto la terra in due rivelando la grotta degli Uomini del Pilastro.” tagliò corto Jotaro che, benchè interessato al documentario a cui avevano appena assistito, sembrava avere fin troppa fretta.

Alan era seduto al fianco del maxischermo su cui era stato proiettato il documentario, appena illuminato dalle foto satellitari dei tagli nel terreno che venivano proiettati. Annuì vigorosamente.

Quel documentario, in realtà, aveva lasciato più domande che risposte al gruppo dei Joestar, ma prima che potessero formulare i loro dubbi, Eriol e Gianni fecero cenno loro di alzarsi, e di proseguire il tour del museo.

“C’è davvero bisogno di fare tappa per tappa?” chiese Yukako, leggermente stizzita. “Sappiamo già cosa sono gli stand e l’Hamon.”

“Tutti quelli che vivono a La Bassa lo sanno.” tagliò corto Eriol, portandoli fino a una serie di teche di un vetro speciale non lontane dalla saletta delle proiezioni. 

Il vetro attorno ad essi era limpido, ma estremamente spesso e dall’aria decisamente robusta. All’interno delle varie teche, disposte l’una al fianco dell’altra su mobili in metallo, vi erano dei reperti dal sottosuolo di La Bassa.

Una era una statuina in una roccia sporca e semi-metallica, evidentemente antica, raffigurante quelli che dovevano essere due esseri umani, ma probabilmente non lo erano affatto. Uno era colorato dalla terracotta, mentre l’altra, quella che sembrava una donna, era stato lasciato il colore metallizzato della pietra in cui erano stati scavati. Tenevano entrambi un’arma abbozzata tra le mani, fatta in un materiale diverso dalla pietra- metallo.

“Il dio Mantus e la dea Mania, da cui deriva il nome dell’elemento Manimantio. Erano gli antichi dèi etruschi dell’oltretomba e del caos rispettivamente, e La Bassa era considerata proprio la porta all’inferno. La città di Mantova prende il nome dal dio Mantus.”

Koichi tentò la sorte, e prese la parola. “Pensavano questo del posto sempre per il fatto del meteorite?”

“Crediamo.” gli rispose Gianni, alzando le spalle. “Sappiamo poco e niente dell’epoca etrusca nella zona. L’insediamento più grande era Forcello, dove oggi sorge la Città della Moda, e infatti questa statuetta l’abbiamo trovata lì.”

“E questo è...?” chiese Okuyasu tutto ad un tratto, toccando con l’indice la vetrinetta, che rilasciò una scarica improvvisa. Okuyasu guaì dalla paura e dal dolore e ritrasse la mano. Minerva, che era al suo fianco, quasi gli si avventò contro. “Attento! Le teche sono caricate a onde concentriche, danno la scossa per proteggerle!”

Minerva prese la sua mano tra le proprie, ben più piccole e pallide e delicate. Okuyasu le sorrise appena, forse imbarazzato o forse ancora un po’ confuso dalla scossa elettrica appena subita. Josuke sbuffò sonoramente, cercando di interrompere il momento- era proprio di cattivo umore, quel giorno.

“Stavi chiedendo del coltellino che abbiamo ritrovato? Questo proviene sempre da Forcello, ma è evidente che sia stato costruito qui a La Bassa.” continuò Alan. 

Eriol scoccò un’occhiata di sfida a Jotaro. “Non è un coltello da combattimento, dato che sembra quasi uno stiletto piatto senza lama. Non è nemmeno un pugnale sacrificale, dato che sì, la punta è affilata, ma non è fatta per penetrare in profondità. Signor Joestar, lei mi saprebbe dire cos’è?”

Tutti si voltarono verso Jotaro. Il suo sguardo era mutato, diventato più serio e quasi sofferente. Il suo unico occhio era inespressivo come quello di vetro.

“Tu come fai a saperlo.”

Eriol alzò le spalle, scrollandosi la lunga treccia-coda di cavallo dalla spalla. “Cinque anni fa, al secondo anno di università, stavo facendo uno stage qui al museo. Quando vi siete presentati voi della fondazione Speedwagon, per intenderci. E c’era anche lei, e con lei c’era un oggetto particolare…”

Tutti nel gruppo dei provenienti di Morioh, allora, intesero. Jotaro sembrava appesantito da quel ricordo, tuttavia.

“La freccia.” disse infine.

Eriol appoggiò una mano sulla teca, e le scariche elettriche aderirono alla sua mano senza nessun dolore o reazione esagerata. Lei era una guerriera delle Onde Concentriche, quelle onde erano probabilmente sue.

“Questo coltellino era forse usato per innescare lo Stand a chi ne fosse nato senza nel territorio. Forse erano pezzi di meteorite che si erano incastrati negli strati meno profondi del terreno labassese, a cui i popoli indigeni sono arrivati scavando coi loro attrezzi rudimentali e di cui hanno scoperto il potere.”

“Le frecce provengono da qui, ma non sembrano di fattura labassese.” continuò Gianni. “Qualcuno deve aver trafugato del metallo dalla zona e deve averlo portato da qualche parte, dove ha costruito quelle frecce- che funzionano molto meglio dei coltellini che invece facevano qui!”

“Possono essere stati gli Uomini del Pilastro ad averli fatti?” azzardò Josuke, dopo un bel po’ di silenzio. Suo padre li aveva combattuti, d’altronde. Quella faccenda spettava a lui, più che a tutti gli altri. E Okuyasu aveva già parlato, e si era fatto notare, e lui era rimasto in silenzio e bevuto la grappa nella tazzina sporca di caffè e nient’altro.

Alan negò. “Non ne siamo certi, ma personalmente non credo. Loro si sono interessati ad altro nel sottosuolo, ma non sappiamo bene cosa.”

Il suo broncio si rivoltò prestissimo in un sorriso. “Ehi, volete vedere l’uomo del Pilastro che abbiamo trovato qua sotto?”

“È qui?” chiese Koichi, spaventato.

Alan fece un cenno della testa. Indicò dietro di loro.

Attoniti, il gruppo si girò verso l’altra parete, che non avevano minimamente calcolato. Erano pezzi appesi e legati da fil di ferro di quella che a primo acchito poteva sembrare normale pietra, ma se osservata bene sembrava più un puzzle vero e proprio. Muscoli, vene, capelli e lineamenti del viso, tutti in pietra. Due grosse corna sulla testa, in un materiale metallico. Un gigantesco uomo del Pilastro, proprio dietro di loro. 

Morto, o almeno così sembrava.

“Non è pericoloso, qua in mezzo a tutti!?” gracchiò Koichi, quasi nascondendosi dietro i capelli di Yukako, che non rimase particolarmente impressa dal comportamento del marito.

Alan li rassicurò con una risata bonaria. “Nah, abbiamo provato in tutti i modi a rianimarlo, ma non c’è stato nessun verso! Vero Jotaro?”

Jotaro, cinque anni prima, era andato lì proprio per controllare quelle cose- l’uomo del pilastro, il vampirismo che al tempo sembrava quasi completamente svanito, i suoi assistenti labassesi- che erano due al tempo.

“È vero. Abbiamo fatto diversi test, e nessuno è servito. L’abbiamo lasciato al buio, abbiamo riunito i pezzi, nulla. Al contrario del soggetto che si trova alla base della SPWfoundation a Washington, questo non reagisce a nulla. Nella roccia di cui è formato abbiamo ritrovato praticamente tutti gli elementi della Terra, compreso il Manimantio, ma nessun enzima che rilevasse vita. È proprio morto.”

Yukako non era rimasta particolarmente convinta di tale spiegazione e, a dire il vero, ne era pure annoiata. Alan era sicuramente un uomo carismatico e amava davvero il suo lavoro, così come i suoi due giovani assistenti, ma la lezione di storia che stavano dando non era la più interessante.

Jotaro era preoccupato e interessato invece, e Koichi stava facendo finta di esserlo per far colpo su Jotaro, o qualcosa del genere. Okuyasu non toglieva lo sguardo da Minerva, e lei con imbarazzo di tanto in tanto lo ricambiava. Josuke li stava tenendo d’occhio, come una sentinella rabbiosa. 

Qualcosa scosse la punta dei lunghi capelli di Yukako, che scendevano quasi fino alle sue ginocchia. Si voltò, e notò che una mattonella del pavimento era scostata. Strano.

Da sotto essa, proveniva dell’aria.

Un’altra mattonella si scostò. Un’altra ancora.

Prima che Yukako potesse chiedere cosa stesse succedendo, qualcosa scoppiò sotto ai loro piedi, in una rumorosissima esplosione.

 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 4) ***


 

Nel bel mezzo della sala principale del museo, ora c’era un buco nel pavimento.

Yukako era riuscita a malapena a proteggersi chiudendosi in un bozzolo di capelli con Love Deluxe, e trovandosi davanti a Koichi era riuscita a proteggere anche lui. Erano tutti a terra storditi, tranne Eriol e Gianni, che, da bravi combattenti esperti e preparati si erano già schierati davanti al gruppo di Morioh, tra loro e la voragine.

Eriol raggiunse con una mano la sua cintura, aprendo una boccetta appesa ad essa. Una polverina di mille colori volteggiò nell’aria, attorno e dietro di lei, mentre dalle mani di Gianni si stava formando una sostanza trasparente e brillante.

“Cos’è successo?!” gridò Minerva, rialzandosi in piedi, aiutata dal padre. 

Dalla voragine, una miriade di mani comparve, e presto, scalando quel buco nel terreno, comparvero figure umanoidi, zoppicanti e dalla pelle verdastra e le fauci irte di denti aguzzi.

“Zombie!” gridò Eriol, lanciando in aria la polverina-stand, mentre Gianni corse verso di essi. Quella sostanza-vetro!- ricoprì il suo braccio, formando un bracciale di cristallo dalla lama tagliente. Tranciò con un singolo fendente tre di essi, che si sciolsero come neve al sole grazie alle Onde Concentriche di cui era impregnato il cristallo.

Gli sforzi dei ragazzi, tuttavia, non fermarono quella massa indistinta di troppi zombie. Uno quasi raggiunse Koichi che, come fermo in uno strano stato di tranche, a malapena si accorse del pericolo. Yukako fu svelta a stritolare quell’essere con Love Deluxe e lanciarlo lontano, dove i guerrieri dell’Hamon lo sistemarono.

“Che cazzo ti prende, Koi!” gridò Yukako al marito, ma nel suo sguardo lesse solo paura.

Okuyasu estrasse a sua volta il suo The Hand, pronto a fare a pezzi qualche zombie, ma ogni volta che gliene si avvicinava qualcuno i velocissimi pugni di Crazy Diamond li finivano al suo posto. 

“Non mi ringrazi nemmeno?” borbottò Josuke al suo fianco, il suo sguardo pieno d’ira.

“Perchè dovrei?! Io so combattere da solo!”

Josuke evidentemente non si aspettava una risposta da Okuyasu, perchè il suo sguardo si fece più rabbioso e il suo viso più rosso. “Perchè io so come reagisci, ovvero stai lì impalato! Ti ho salvato così tante volte il culo che ormai so che questo è il mio compito!”

Okuyasu si sentì quasi mancare il fiato in gola da tutti quei sentimenti che stava provando in quel momento. Rabbia. Tristezza. Delusione. Josuke l’aveva abbandonato a Morioh senza una spiegazione, ed era stato via senza mai farsi sentire per una decina di anni. Okuyasu aveva vissuto la sua vita, sempre aspettando quel ragazzo che non tornò mai davvero. Aveva fatto tutto da solo nella sua solitaria vita, eppure per Josuke lui era ancora quel ragazzino debole e incapace, una persona inferiore a lui…

Perchè avrebbe ancora dovuto fidarsi di Josuke?

Mentre parlavano, non si erano accorti di due zombie che li aveva raggiunti. Solo la mano purulenta di uno di loro sul braccio di Josuke li fece tornare alla realtà, ma fortunatamente Pallas Athena, in un movimento fluido del suo braccio-lancia, li fece fuori entrambi.

“La lancia del mio stand è fatta in palladio, metallo che i vampiri e zombie non sopportano.” disse Minerva, e sembrava un po’ scocciata nel mentre. Forse perchè si erano messi a bisticciare nel bel mezzo di un attacco zombie.

“Presto, tutti dietro di me, sul fondo della stanza!” li chiamò Alan, mentre Jotaro era già al suo fianco. Yukako trascinò Koichi là senza farselo ripetere due volte, Minerva accompagnava Okuyasu nella zona designata, mentre Josuke non aveva intenzione di ritirarsi.

Sentì qualcosa tirarlo indietro per il braccio. Era Minerva, determinata come non mai.

“Vuoi morire? Fai quello che ha detto mio padre!” sbuffò lei, mentre Josuke non intendeva muoversi di un passo. “Io so difendermi da solo!”

“Sei un bel testone! Andiamo!”

Quando le pareti e le vetrinette iniziarono a tremare, Josuke si convinse a seguire Minerva sul lato più illuminato e lontano della stanza, confuso e poco convinto.

Lì gli zombie non li seguivano.

Alzò una lamina di ferro che era appesa al muro, e tirò su una levetta sotto di essa. Delle luci speciali si accesero tutto attorno alla sala, neon blu appesi ai muri, e gli zombie che vi ci si trovavano direttamente sotto fecero una brutta fine, mentre tutti gli altri sembrarono indebolirsi, fino a fermarsi quasi completamente sul posto.

“Sono luci UV queste, apposta per contrastare quelle creature. Se si avvicinano troppo, si squagliano!” spiegò Alan cercando di mantenere un tono gioviale, ma evidentemente a disagio e preoccupato in quella situazione. 

Dalla voragine continuavano ad emergere zombie, anche se molto più lentamente ora che le luci erano attivate, e finalmente si fecero avanti due persone che sembravano esseri umani, tranne che per gli occhi, rossi e brillanti come stelle.

La ragazza, stretta in un abito nero di velluto e pizzo in stile vittoriano, era coperta da un parasole fatto degli stessi materiali. “Voi e le vostre lampade UV, credete che saranno quelle a farci paura?” borbottò lei, evidentemente irritata. Posò i suoi occhi rossi su Eriol, sbuffando. “Chi non muore ci si rivede purtroppo, eh Eriol?”

“Edvige!” la salutò Eriol, con un sorrisetto di scherno. “Non ti vedo dalle scuole superiori! Ecco cosa fai nella vita ora, la vampira.”

“Vi conoscete?” borbottò il ragazzo occhialuto e vestito di abiti larghi e sformati al fianco di Edvige, abbassandosi la visiera del cappellino che portava sugli occhi. Si erano preparati bene a quell’invasione, dato che entrambi erano protetti dalle luci UV del museo. “Eravamo compagne di classe.” borbottò Edvige, per nulla propensa a parlarne. “Eriol non ucciderebbe mai una sua vecchia compagna di classe, no?”

“Uccidere no, tagliarti la testa e inscatolarla forse!” le rispose Eriol, mentre la polverina olografica alle sue spalle scompariva. 

Edvige sbuffò sonoramente, un broncio si formò sulle sue labbra rosse. “Fede, vai a cercare qualcosa di interessante, dobbiamo riportarlo entro stasera.” ordinò lei, mentre il ragazzino riccio e dal viso bonario sembrava abbastanza confuso. “Ma cos’è, di preciso?”

Il viso bianco cadavere di Edvige sembrò colorarsi appena. “Io… non lo so, di preciso, ma qualcosa di importante! Tu cerca e sta’ zitto!”

Fede annuì spaventato e corse verso le teche, e inciampò sul nulla. Quando si guardò i piedi, notò che non c’erano più, recisi di netto da una lama tanto affilata da non fare nemmeno male. Gianni era dietro di lui, ricoperto da una scintillante armatura di vetro e cristallo, e stringeva tra le mani un’enorme spada di ossidiana.

“L’ossidiana è un vetro vulcanico ed è la lama più affilata che esiste, sai?” lo schernì lui, un sorrisaccio strafottente sul suo volto scuro. “Suppongo che tu ora lo sappia.”

Fede, riverso a terra, non ebbe subito una reazione. Il suo volto bonario, con lentezza, si trasformò in una maschera d’odio, e dalla sua schiena, strappando la maglietta che portava, spuntarono enormi ali metalliche.

Fede si alzò in volo, a pochi centimetri da terra, e con una sferzata d’ali lanciò delle piume metalliche contro Gianni.

Lui alzò lo scudo di cristallo e si protesse dall’attacco, ma infranse la lastra di vetro. Gianni non perse tempo a lanciare quelle schegge contro Fede, che lo colpirono in pieno viso, sfigurandolo.

La sua espressione divenne ancora più rabbiosa. Si mise a gridare, a scuotersi dalla rabbia, e dai tagli causati dal vetro di Gianni uscirono delle piume di ferro nero. 

“Più mi fai arrabbiare, più il mio King of Pain diventa forte!!” gridò lui, a malapena comprensibile in mezzo alle sue grida di rabbia. Dai tagli alle sue caviglie uscirono cavi metallici attorcigliati, che andarono a formare delle zampe mostruose e artigliate. Gianni rimase sorpreso, ma non si diede per vinto. 

Scattò in avanti, impugnando la sua spada d’ossidiana. Tentò di tranciagli il collo di netto, come era prassi fare coi vampiri, ma le lame-ali di King of Pain penetrarono il vetro e nella sua carne appena gli si avvicinò, facendolo gridare dal dolore. Tentò di sventolare la spada, ma a malapena provocò un taglio sulla sua gola. Gianni scartò indietro, lasciando la spada incastrata nella sua gola prima che le piume di Fede potessero provocargli seri danni. 

Fede con uno scatto iroso lanciò in aria la spada, mentre il suo collo si strappava e sotto alla pelle tagliata se ne formava una più dura e metallica. Il suo collo si allungò e si piegò a S come quello di un uccello, e le ali avevano inglobato le braccia stagliuzzate dal vetro rotto di Gianni e sulla sua fronte si era creata una grossa corona allungata e simile a una brutta cresta, facendolo sembrare più un orribile, mostruoso pterosauro che un elegante cigno nero. 

Purtroppo, King of Pain non lo rendeva solo più brutto, ma anche più veloce. In un attimo, gli fu addosso.

Castle of Glass!” gridò Gianni, creando una cupola sopra di lui di vetro, prima che Fede gli piombasse addosso.

Le piume di ferro di King of Pain stridevano contro la piccola cupola di vetro che lo ricopriva, e il peso della creatura che una volta era stata Fede stava creando delle crepe sulla volta. Non sarebbe durata a lungo.

Fede si appoggiò col petto gonfio da uccello sulla fragile cupola, graffiandola con le ali e le zampe metalliche, gridando fuori di sé dalla rabbia. 

Sì, era più forte e veloce e incredibilmente resistente, ma la rabbia lo rendeva un essere completamente illogico e in balia delle emozioni.

“Non ti sei dimenticato qualcosa, stupido uccellaccio?!” gridò Gianni, lasciando che la cupola di Castle of Glass si rompesse sopra di lui. Le schegge si incastrarono nel petto gonfio e ricoperto di piume metalliche di Fede, ma ancora fatto di carne sotto, e Gianni caricò il suo pugno di hamon.

“Io sono un guerriero della Banda, e tu sei un vampiro, e ti sei ricoperto di ferro! Non avresti dovuto avvicinarti così tanto a me! SCARLET FIRE OVERDRIVE!”

Scintille rosso fuoco uscirono dal suo pugno che si schiantò contro al suo petto, e le onde brillanti si propagarono in tutto il suo corpo metallico. Fede gridò dalla rabbia e si sbilanciò indietro, starnazzando dal dolore mentre la sua carne bruciava e veniva cotta dal metallo incandescente da cui era ricoperta.

Gianni si rialzò in piedi, allungando una mano, ricoperta dal vetro di Castle of Glass. “È ora che la mia spada ritorni da me! Ghigliottina!”

La lama di ossidiana era ancora incastrata nel soffitto, esattamente qualche metro sopra il collo fumante e ciondolante di Fede.

Richiamata da Castle of Glass, la lama si staccò dal soffitto e, attirata dalla forza dello stand di cui faceva parte, cadde tra il collo metallico di King of Pain e la testa vampiresca di Fede, tranciandola. La spada tornò in mano a Gianni e la testa di Fede, ancora gridante, cadde ai suoi piedi.

Gianni fuse di nuovo la sua spada, creando una teca di vetro attorno alla testa di Fede che continuava a dimenarsi. 

“Uno preso!” esultò il ragazzo, stanco e sanguinolento ma felice di aver sconfitto un vampiro così potente.

“Bravissimo Gianni!” si congratulò Alan, portando il ragazzo al sicuro sotto la luce ultravioletta e afferrando la teca con la testa del vampiro, allontanandosi dal resto del corpo che continuava a contorcersi e bruciare su sé stesso.

Edvige era rimasta a osservare la scena con disgusto e paura. Fede era uno dei vampiri più forti, e benchè ancora giovane aveva un futuro. Non più evidentemente, e lei era rimasta da sola.

Eriol era davanti a lei, non si muoveva, ma del suo stand nemmeno l’ombra.

Forse…

“Phantasmagoria!” gridò Edvige, e un velo comparve alle sue spalle. Infilò le mani nei guanti del velo, appena in tempo prima che una grossa alabarda attraversasse il suo corpo.

Fortunatamente Phantasmagoria aveva il potere di renderla intangibile, perchè quell’arma carica di Hamon l’avrebbe decisamente uccisa.

Si voltò e notò che era stata un’armatura inanimata a colpirla. No, guardando meglio, non era completamente inanimata e vuota- al suo interno, una polverina di tutti i colori che la muoveva.

“Hai sviluppato bene il tuo Memory for Evermore, Eriol.” la schernì Edvige, sprofondando in un muro. “Ma io ho sviluppato il mio grazie alla Maschera che mi ha resa vampira, e tu non puoi fare niente per contrastarmi.”

Sparì nel muro, e uno a uno, i neon UV appesi alle pareti si ruppero. Una mano guantata uscì da essi, dimostrando che si trattava proprio di Phantasmagoria.

Gli zombie a terra si rialzarono, ed Edvige ricomparve da un’altra parte della stanza, lontana da Eriol.

“Attaccateli, uccideteli tutti!” gridò agli zombie e loro, come lucertole appena riscaldate su una roccia al sole, rirpesero a camminare e strisciare e avventarsi sul gruppo dei Joestar che era rimasto in un angolo, ora buio.

Edvige fissò negli occhi Eriol e l’armatura vicina a lei, rigirandosi il suo ombrello tra le mani. “Quale sarà la tua prossima mossa?” le chiese.

Pochi istanti dopo aver detto quella frase, la troppo sicura di sè Edvige sentì una forza travolgente colpirla alle spalle, e un impatto tanto potente da frantumarle tutte le vertebre e farla volare diversi metri. Riuscì ad evitare l’impatto col pavimento solo grazie a Phantasmagoria, ma rimase comunque a terra dolorante e agonizzante. Alle sue spalle, il gigantesco Uomo del Pilastro si era staccato dal muro, e il suo unico pugno era pronto a colpirla di nuovo.

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 - Museo Archeologico di La Bassa (parte 5) ***


Nell’angolo dall’altra parte del Museo, i Joestar si guardavano attorno con terrore, come pesci incastrati in una rete da pesca. Cos’altro potevano fare, se non aspettare che i vampiri li mangiassero tutti uno a uno?

Josuke e Okuyasu estrassero i loro stand fisici, mentre Yukako si preparava a usare Love Deluxe come scudo raffazzonato alla bell’e meglio. Sapeva non sarebbe durato, e gli stand non sarebbero contati nulla contro una schiera di vampiri.

“Non puoi cancellarli tutti, Oku?” chiese speranzoso Josuke all’uomo al suo fianco, che negò con disagio. “The Hand ha un tempo di ricarica appena cancella qualcosa, e non riuscirei a cancellarne più di uno alla volta… non ha un raggio molto grande.” borbottò, sentendosi addosso gli occhi adirati di Josuke. Non era colpa sua. Il suo stand aveva dei limiti, come quello di tutti- Crazy Diamond non era nemmeno capace di ucciderne uno! Okuyasu non voleva sentirsi in colpa per qualcosa di cui non aveva nessuna colpa.

Sentì la mano minuta di Minerva appoggiarglisi all’avambraccio e tirarlo indietro. Tentò lo stesso con Josuke, ma lui, tutto rancoroso e nervoso, se la scrollò di dosso.

“Non c’è bisogno di usare i vostri stand.” disse la donna a tutto il gruppo, ma guardando solo Okuyasu negli occhi, e lui ricambiò lo sguardo con un sorriso. Disgustoso, pensò Josuke.

“In che senso?” chiese Koichi, che era bianco come un cencio e appoggiato al muro, al fianco dello stremato Gianni. Sembrava dovesse venirgli un infarto da un momento all’altro.

“Alan, ci penserai tu, non è così?” interruppe Jotaro, che era stato fin troppo calmo e silenzioso fino a quel momento. Forse perchè aveva già capito tutto.

Il modo tranquillo e quasi strafottente dell’uomo dai lunghi capelli lilla-grigiastri l’aveva insospettito subito. Ma se la Banda, piena di così incredibilmente potenti combattenti si fidava ciecamente di Alan, doveva essere perchè anche lui era un combattente straordinario.

E infatti Alan sorrise, bonario ma con estrema sicurezza in sé.

“Voltatevi tutti dall’altra parte, verso l’angolo! E proteggetevi gli occhi, se possibile.” spiegò loro ridacchiando, mentre gli zombie erano ormai a meno di qualche metro da loro. E così tutti fecero. Minerva fu la prima, schiacciandosi contro il muro con le mani sugli occhi, con una fretta allarmante che incitò tutti gli altri a seguire il loro esempio. Yukako coprì i suoi occhi con una folta ciocca di capelli e così fece anche con Koichi, che non sembrò apprezzare molto il gesto. Josuke fece per provare a spiare oltre le proprie spalle, ma Okuyasu con una mezza gomitata lo rimise in fila. “Non sbirciare!” borbottò tutto spaventato.

Gianni si era schiacciato con la faccia contro l’angolo, facendo bene attenzione a coprire col proprio corpo anche la testa di Fede nella teca, rivolto verso il muro a sua volta. Fede, che era tornato calmo e bonario come all’inizio, sussurrò un grazie imbarazzato a Gianni.

Per istanti interminabili, non successe nulla. Si sentì l’ultima vampira, Edvige, ridere, tra un colpo di tosse e l’altro. “Cosa fai, Eriol, giochi a nascondino e lasci il tuo giocattolo fare il lavoro sporco per te?” disse. Probabilmente anche Eriol si era coperta gli occhi e messa in un angolo. 

L’unico altro rumore udibile in quei secondi di terrore puro erano i gorgoglii degli zombie, i loro passi strascicati che si avvicinavano, sempre di più…

E poi, luce. 

Una luce intensa, calda e avvolgente, che anche con gli occhi serrati e le mani sopra esse e gli sguardi rivolti nella direzione imposta era dolorosa, tremenda e letale. Okuyasu sentì i suoi occhi bruciare, anche se le sue mani premevano forte sugli occhi, e gli occhiali da vista erano sempre più caldi sulla sua testa, dove li aveva spostati momentaneamente.

Luce e silenzio e quando la luce diminuì, Alan disse loro che potevano girarsi a vedere il bel lavoro che aveva fatto.

E così fecero, e così notarono tutti i cadaveri degli zombie sul terreno che si stavano polverizzando, e dietro ad Alan, petto in fuori e sguardo soddisfatto, una figura di luce pura, avvolta da anelli simili a quelli di Saturno che vi giravano attorno, assieme a stelline a cinque punte. 

“Questo è il mio Starman, e, non per vantarmi, lo stand più forte di tutta La Bassa!” ridacchiò l’uomo, e anche lo stand candido dietro di lui sembrava soddisfatto.

Assomigliava vagamente a Pallas Athena, nella forma del corpo e l’essere fatti di una luce pallida, ma questo era completamente bianco- il corpo, che arrivava fino alla vita, e attorno al suo petto una decina di anelli formati da piccoli granuli di luce e stelline fatte anch’esse di luce. Il suo viso era luce a sua volta- ma due stelline gialle scintillavano dove avrebbero dovuto essere i suoi occhi.

“Il suo potere è la luce?” si chiese Jotaro, ma Alan negò. “Questa era un emissione di fotoni e plasma. Il potere di Starman è essere una stella.”

Non sembrava particolarmente soddisfatto, tuttavia. Indicò una macchia scura sul muro. “L’attacco di Starman non ha funzionato del tutto.”

Dalla macchia scura spuntò Edvige, dagli occhi fuori dalle orbite anche nella sua forma incorporea. “Sei un mostro!” gridò, cadendo al suolo senza forze. Le mancavano le gambe dal ginocchio in giù, ma si stavano già ricostruendo, anche se molto lentamente. 

In pochissimi istanti, l’uomo del Pilastro fu su di lei, colpendola con un pugno. Edvige, però, non stava più sorridendo.

Sulle sue labbra dal rossetto nero ormai sbavato si formò un grigno di rabbia. invece di schivare il colpo, afferrò l’enorme pugno dell’uomo del Pilastro, facendolo diventare a sua volta intangibile. Lo tirò fin sotto il pavimento, dove lo fece di nuovo tornare normale, disintegrandosi in mille pezzi.

Eriol gridò dal dolore, tenendosi la mano sanguinante e ritirando il suo stand dall’uomo di pietra, che si sgretolò su sé stesso, almeno quello che era rimasto intatto.

Edvige annaspava ogni volta che tornava tangibile, come se non potesse farlo troppo a lungo. 

“Il suo punto debole. Non può rimanere intangibile per troppo a lungo senza perdere le forze.” sentenziò Jotaro, strisciando lungo la parete ed estraendo il suo Star Platinum, che non era più del solito viola brillante- sembrava quasi grigio. “Dobbiamo colpirla quando torna toccabile, e sappiamo che ogni tanto deve farlo.”

“Ma può far diventare intangibili anche noi!” sbraitò Koichi, che non aveva intenzione di buttarsi nella mischia. “E farci a pezzi!”

“Crazy Diamond ti rimetterà a posto.” rispose Josuke. Ma Koichi continuava a non muoversi. 

Edvige si lanciò verso una sezione specifica del museo, quella dei reperti antichi di La Bassa. 

Verso il pugnale in Manimantio.

“Anche Dio voleva le frecce! Vuole le frecce!” gridò Jotaro, che rimase quasi subito senza voce. Non riusciva a stare in piedi senza doversi tenere almeno con una mano contro il muro.

Tutti rimasero immobili, incapaci di ragionare in una situazione così veloce- ma Yukako non aveva bisogno di ragionare.

Afferrò una lancia appesa lì vicino e, con la propulsione di Love Deluxe che si era arpionato al terreno, afferrò saldamente la lancia. Il suo braccio minuto si ricoprì di capelli, che lo triplicarono di spessore e di forza- e tirò la lancia con tutta la sua forza.

Edvige, che ancora zoppicava, dovette interrompere la guarigione alle gambe per tornare intangibile ed evitare la lancia di Yukako- ma appena tornò nella sua forma toccabile, si accorse che la lancia era ricoperta di capelli, e questi le si attorcigliarono alle gambe in guarigione. Edvige venne lanciata in aria, con violenza, ma non sbatté contro al soffitto perchè era già diventata immateriale. Aveva trapassato il soffitto, ed era alla stanza superiore.

“Cosa c’è lassù?” chiese Josuke, ma Alan alzò le spalle. “Assolutamente nulla. Materiale per imballare. Polistirolo. Colla e oggetti per il restauro. Nulla che potrebbe interessare a un vampiro.”

Si udirono passi.

“Sta per scendere.” sussurrò Eriol, che si era aggrappata a Yukako, che la stava aiutando a rialzarsi. “Sta escogitando qualcosa…”

I rumori cessarono. Qualcosa di impalpabile come l’aria trapassò il soffitto- ma non era Edvige.

Erano lame.

“I taglierini!” gridò Gianni, riconoscendoli, ma era troppo tardi.

Su di loro cadde una pioggia di lame di taglierini, una mera scusa per Edvige per uscire allo scoperto, scivolando al di sotto ricoperta da Phantasmagoria, dritta sulla teca in cui la statua e il coltello di Manimantio giacevano inosservati, mentre tutti gli altri cercavano di proteggersi dalle lame sopra le loro teste. Koichi con il suo Echoes act 4 cancellò la gravità, rendendole innocue e galleggianti nell’aria. Starman con un getto di energia le spinse lontano, e Minerva col suo Pallas Athena e Yukako con Love Deluxe fecero lo stesso. Josuke si era semplicemente protetto con l’armatura del proprio stand, fatta di diamante puro, nemmeno scalfita da quelle lame di acciaio.

Okuyasu estrasse The Hand, ma non per proteggersi a sua volta. 

Non avrebbe alcun senso provare a cancellare qualcosa di intangibile come Phantasmagoria, ma avrebbe potuto strapparle di mano la teca.

The Hand cancellò in un istante tutto lo spazio tra lui e la teca, teletrasportandola tra le sue braccia, al sicuro. Sopra di lui, la lancia di Pallas Athena l’aveva protetto dalle lame che cadevano dal soffitto.

Okuyasu su inginocchiò su essa, proteggendola e tenendola ben salda. Edvige non avrebbe potuto renderlo intangibile senza rendere la teca e il coltellino intoccabili a sua volta.

Edvige, il volto sfigurato dalla rabbia, rimase a fissare ciò che le era appena sfuggito dalle mani. Ormai era talmente debole da riuscire a stare a malapena in piedi, su un solo piede dato che l’altro aveva abbandonato nel rigenerarlo. Le sarebbe servita troppa energia, e quella le era indispensabile per Phantasmagoria per funzionare.

Con uno sprint che quasi le prosciugò le energie, corse verso Okuyasu, nella confusione generale. 

Divenne impalpabile un’ultima volta, e si avventò su Okuyasu.

Lui sentì qualcosa di gelido passargli per lo stomaco, e poi purtroppo, da un vago sentore di temperatura, si trasformò in un dolore lancinante.

Edvige aveva fatto passare il suo braccio intoccabile attraverso il corpo di Okuyasu e il vetro, prendendo tra le dita il coltello in Manimantio.

“Perchè questo coso non diventa intangibile?! Non riesco a prenderlo!” gridò lei nella disperazione, mentre il sangue di Okuyasu scorreva sul suo braccio, dandole un po’ di forze- giusto quello che le serviva per tentare di far diventare impalpabile il pugnale. 

Niente. Scivolò ancora tra le sue dita, ogni volta che attivava il suo stand.

Nel panico, non si accorse della grossa figura sopra di sé, né del pugno di Crazy Diamond sotto la sua mandibola, un colpo tanto forte da frantumarle tutte le ossa del cranio e staccare la sua testa e un paio di vertebre cervicali dal resto della colonna vertebrale, che caddero qualche metro più avanti con un suono di ossa frantumate in mille pezzi.

Il corpo decapitato di Edvige era addossato mollemente sulla schiena di Okuyasu, che tremava dal dolore, il sangue che colava dentro la teca. Il coltello, tuttavia, rimaneva completamente pulito.

Il corpo di Edvige fu trapassato da un laser di Starman, e si dissolse senza lasciare traccia. Josuke, con tutta la fretta del mondo, impose le sue mani sull’orribile ferita di Okuyasu, che guarì in un istante. 

“Tu e le tue idee del cazzo! Finisci sempre mezzo morto, sei un idiota!” gli gridò Josuke con qualcosa tra la rabbia e la disperazione negli occhi, e Okuyasu, ancora frastornato e indolenzito, non riuscì a rispondere. Josuke girò i tacchi e si allontanò da lui, lasciandolo a terra, debole e stremato e ancora sotto shock. Minerva e Alan lo aiutarono ad alzarsi, mentre Gianni si sbrigava a prendere la testa di Edvige e porla in una teca di vetro creato dal suo stand.

“Non ti uccideremo, Edvige. Per voi che avete voluto diventare vampiri c’è un supplizio peggiore della morte.” le ringhiò contro Eriol, tutta arrabbiata- strano per lei, sempre così solare e gioviale. “Ti studieremo, e useremo la tua testa per fare esperimenti mentre sei ancora viva. Sarai una delle tante cavie alla nostra base, e studiarti porterà noi un passo avanti nel capirvi meglio e, un giorno, farvi fuori tutti. E lo stesso è accaduto per Zaccaria, l’altro giorno.”

A quel nome, Edvige sorrise coi denti che le erano rimasti, ben pochi. “Zaccaria… Manero vi sta cercando. Vuole vendetta per il suo compagno, e la otterrà molto presto…”

Tási e sborat.” tagliò corto Gianni, affossandole la testa contro la teca troppo stretta e chiudendola. Nessuno aveva più voglia di sentirla parlare.

.
.

Josuke si prodigò per aiutare a rimettere tutto a posto, dopo avere curato i guerrieri. Rimise a posto l’uomo del Pilastro, accorgendosi che alcune crepe proprio non volevano tornare assieme, probabilmente spezzate millenni orsono o semplicemente durante il terremoto di sei anni prima. The Hand e Echoes raccolsero tutte le lamette che erano cadute a terra, Love Deluxe e Star Platinum rimisero in piedi le statue e le teche cadute a terra, mentre Gianni e Minerva erano al bar a preparare e portare loro dei caffè rinvigorenti. Lo staff del bar si era rifugiato nella camera antipanico (e antivampiro) costruita apposta per loro in caso di attacco, ed aveva funzionato più che bene, e per ringraziare i loro grandi salvatori guerrieri stavano cucinando loro dei dolci di ringraziamento, aiutati da Eriol, il cui hobby preferito era proprio la pasticceria.

“Perchè voleva il coltello, secondo voi?” chiese Josuke, confuso dalla situazione. “Insomma, ha già uno stand. Dio negli anni Ottanta voleva uno stand ed è per questo che ha ricercato la freccia, ma questi vampiri hanno già uno stand, dunque hanno già una freccia. Perchè anche il pugnale?”

Lo sguardo di Alan si fece più cupo, e parve invecchiare di dieci anni in un solo istante. Anche Minerva, che stava distribuendo i caffè al gruppo dei Joestar, parve scurirsi, le mani tremare. “Forse… forse non ce l’ha una freccia, lui.” rispose lei, con una voce funebre.

Prima che Jotaro o Josuke potessero fare altre domande, Alan continuò a parlare per la figlia. 

“Nel nostro sottosuolo c’è un tesoro. Non frecce, ma qualcosa di impensabile, che noi ancora non conosciamo. Però, chi ha la possibilità di scavare sottoterra sa molto più di noi, e forse sta nascondendo dei segreti di cui noi non sappiamo nemmeno l’esistenza. E quei segreti li sta usando a suo vantaggio. Contro di noi.”

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 - Vendetta in Discoteca (parte 1) ***


 

Le campane svegliarono di soprassalto Shizuka, che era sicura di star sognando qualcosa, ma purtroppo non ricordava cosa.
Qualcosa di importante. Un qualcosa di luminoso e dorato e…
Shizuka si sedette sul bordo del letto, stropicciandosi gli occhi. La torre campanara di fianco alla vecchia stalla suonava insistentemente, dando sette rintocchi- dunque erano le sette di mattina. Shizuka non si svegliava così presto da quando andava a scuola, ma purtroppo, aveva capito che quella sarebbe stata la sua routine a La Bassa.
Ancora persa nei suoi pensieri, sentì bussare alla porta della sua camera.
“Sono io!” disse una voce femminile, che però Shizuka non riuscì ad associare ad un viso specifico. 
A fatica si scostò le coperte dal corpo e scese dal letto, infilandosi le sue pantofole in finta pelliccia lilla fluo e glitterate- ovviamente regalo di suo padre- e aprì la porta, trovandosi davanti la alta ragazza dai capelli di due colori. Quel giorno erano sulla parte rossa,  mostrando un occhio solo dalla iride arancio fuoco. Stava sorridendo.
“Oh, buongiorno… Uh...” 
Shizuka rimase qualche istante a pensare. Era appena sveglia, e non ricordava il nome di quella ragazza.
“...Annalisa?”
La ragazza piegò la testa da una parte. “In parte. Oggi sono Lisa. Sono qui per insegnarti come funziona qua alla Villa.”
Lisa aveva un modo di porsi decisamente diverso da quello della giornata prima, più calcolato e serio, e Shizuka si ricordò della spiegazione data il giorno prima a Josuke, che quella ragazza erano in realtà due sorelle distinte in un corpo fuso in uno solo.
Lisa le indicò la porta in fondo al corridoio, vicino alle scale. “Quello è il bagno. In questo edificio, che è solo per le reclute della Banda, usiamo il bagno delle femmine solo noi e te, e abbiamo pensato di farlo usare prima a te. Noi ci impieghiamo un po’ di più, perchè ci laviamo due volte- una a testa.”
“Perchè due volte?” borbottò Shizuka, allontanandosi dalla porta solo per avvicinarsi alla sua valigia malconcia e aperta, estraendone il beauty-case contenente le sue costose creme per i suoi rituali mattutini di bellezza.
Lisa non le aveva ancora risposto. Ora sul suo viso c’era un sorriso triste. “Ci piace essere pulite, tutto qui.”
Quella frase nascondeva un segreto profondo, Shizuka lo sapeva, ma non voleva scavare oltre. Non sembrava qualcosa di piacevole.
Passò Lisa e si diresse verso il bagno, prima di voltarsi ancora verso di lei. “Grazie, Lisa.” disse, ricordandosi le buone maniere che le avevano insegnato a Liverpool, alla antica villa dei Joestar in cui aveva passato tutta l’infanzia, senza amici o parenti stretti.
Lisa le sorrise amabilmente, come una buona sorella maggiore, e quel sorriso le ricordò a sua volta di Liverpool, di Bert, della città di notte, di tutto ciò che aveva lasciato. Pensò a suo padre, che l’aveva trascinata a Morioh, l’aveva trattata come una debole poppante, e che ieri era scappata da lui per avere un briciolo di libertà e potere.
Scappò in bagno. Dopo essersi pulita per bene, ancora ricordandosi di quanto schifo aveva fatto rotolare giù per un argine in argillosa terra battuta, e dopo i diversi strati di creme di ogni genere sul suo viso, pensò che, forse, non era proprio adatto truccarsi. Chissà quali allenamenti avrebbe dovuto intraprendere, chissà quanto avrebbe sudato- e chissà come orribilmente sarebbe colato tutto il trucco dal suo viso! 
Corse di nuovo in camera sua, sapendo che, dietro la porta aperta di Annalisa in fondo al corridoio, Lisa la stava aspettando. Si infilò di nuovo canottiera nera e crop-top lilla del giorno precedente, cambiandosi i pantaloncini che si erano macchiati di terra proprio sul sedere. Purtroppo i leggings in pizzo erano andati, la gamba destra presentava un grosso buco proprio sul ginocchio e dietro la coscia. Uffa, erano il suo paio preferito, e non c'era più nessuno che col suo potere magico avrebbe potuto rimetterli assieme.
Rimase a fissare i leggings per un po', quasi rammaricata. 
Non riusciva nemmeno ad affrontare la difficoltà di un vestito rotto, come avrebbe potuto affrontare una massa di vampiri?
Qualcosa, nel petto di Shizuka, bruciò con ardore. 
Fanculo. Fanculo suo padre e il suo Crazy Diamond, fanculo i vampiri e fanculo pure quei leggings.
Li indossò lo stesso.
Bollocks.
Infilandosi le pantofole glitterate e col suo telefonino in tasca- miracolosamente intatto dopo la serata precedente- uscì dalla stanza, trovando Lisa intenta a sgridare il suo stand azzurro, Anna, che stava sbadigliando.
Anna salutó con la mano Shizuka, e annuí a Lisa, sparendo nell'aria calda della villa della Banda.
"Andiamo?" le chiese Lisa, accompagnandola al piano inferiore. Nel grosso andito centrale, Lisa la portò fino alla prima porta sulla destra, affacciata alla sala- la cucina.
"Buongiorno JoJo!" La salutó Ludovico, che sinceramente coi capelli non laccati indietro sembrava tutt'altro ragazzo. Stava bevendo un cappuccino, appoggiato al lungo tavolo in legno massiccio a cui erano seduti tutti i componenti della Banda per fare colazione. Zarathustra gli era seduta a fianco, sorseggiando caffè nerissimo da una grossa tazza. Portava ancora quel paio di normali occhiali da sole dalle lenti gialle. Shizuka cercò di non guardarla negli occhi, un po' inquietata perchè quell’occhio non era dissimile al fanale freddo di un robot. Anche l'espressione sempre neutrale e sprezzante di Zarathustra aveva un non so chè di robotico, a pensarci. Le ricordava un terminator. 
"Lisa, ieri notte tua sorella ha svolto la pattuglia assieme a Ludovico. Puoi riposare oggi, se vuoi." La rimbeccò aridamente il Boss, ma Lisa negò con convinzione. "Esatto! Anna ha fatto la ronda, ma io sto bene! Non voglio perdermi l'allenamento! Poi, anche Ludo è sveglio."
Ludovico quasi si mise a ridere, pulendosi il baffo di panna sul labbro superiore. "Io faccio questa vita dal 2012, non ho bisogno di riposare. Ma voi siete novellini per una ragione."
Shizuka riconobbe che, sotto suo modo gentile e nelle sue parole calcolate, Ludovico era molto meno mansueto di quanto desse a vedere.
Ferdinando stava trafficando ai fornelli, versando qualche liquido nella padella. One Thousand Forms of Fear era evocato al suo fianco, una macchia nera informe fatta eccezione per un braccio munito di mani e dita, con cui rigirava il contenuto della padella e poi, una volta cotto, lo spostava dentro un piatto di terracotta coperto da un panno.
"Oggi crepes!" ridacchiò Piero, seduto dall'altra parte di Ludovico, tutto sorridente. "Spero ti piacciano, JoJo!"
Poi il ragazzo aggrottò le sopracciglia, più pensieroso. "Ma ti chiamano JoJo perché di nome fai Jo e di cognome Joestar?" 
Shizuka annuì. "Si legge o Jo o Shizuka… ma Jo è più facile da pronunciare." borbottò, ancora insicura su come parlare loro. Era tremendamente in imbarazzo. Regina, seduta dall'altra parte del tavolo, spostò una sedia vuota e la invitò a sedersi al suo fianco, con un sorrisone felice e quasi materno sulle labbra perennemente truccate di azzurro.
"Beh, come Gianni. Lui ha un nome troppo complesso e allora lo chiamiamo Gianni. O Zara. Anche lei ha un nome stranino. Ma tutti la chiamano boss. Io non lo faccio perché siamo cresciuti assieme e fa strano chiamare boss qualcuno che conosci dall'asilo." Continuò Piero, che a quanto pare amava parlare anche di prima mattina. Shizuka riusciva a malapena a decifrare quello che Piero stava dicendo, dato il suo pesantissimo accento labassese tutto strascicato e cantilenante.
Shizuka si sedette al posto che Regina le aveva lasciato, tra lei e Alex. Sembrava anche lui un po' stanco, i capelli biondi spettinati che ricadevano sulla parte rasata della sua testa.
Alex e Enrico erano gli unici che ancora non avevano parlato, ma non sembravano essere due ragazzi particolarmente espressivi o volenterosi di scambiare due chiacchiere a cuor leggero.
Ferdinando appoggiò il contenitore in terracotta al centro del tavolo e tolse da sopra la pezza di tessuto come se fosse stato un mantello che celava un tesoro.
Era solo una grossa pila di crèpes, ma i ragazzi seduti attorno al tavolo sembravano emozionati nello stesso modo.
Piero si aiutò con le due mani aggiuntive del suo stand Seven Nation Army a svitare il barattolo di marmellata scura e violacea.
Alex prese il barattolo di Nutella, versandone un po' dentro la crepe che aveva trafugato dal contenitore. Si voltò verso Shizuka, aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole gli morirono in bocca. Le allungò comunque il grosso barattolo.
"Sì, grazie." gli rispose comunque lei. Quell'Alex, per essere il fratello minore del Boss della Banda, era davvero timido e impacciato…
“Cosa vuoi da bere, tu?” le chiese Ferdinando, col suo tono basso e gentile e a malapena udibile. 
“Uh” borbottò Shizuka, ancora insonnolita. “Thè?”
“E thè sia.”
Ferdinando riempì una moka pulita di acqua, ma si fermò quando Zarathustra alzò un braccio. “Fallo bollire a Piero. Mostriamo a JoJo di cosa siamo capaci, e di cosa lo sarà presto anche lei.”
Piero prese tra le sue forti e sicure mani la moka in metallo, mostrandola per bene alla ragazza.
Prese un gran respiro, e poi dalle sue dita esplosero scintille rosse e azzurre, che illuminarono tutta la stanza- ma solo le quattro reclute rimasero ammaliate da quello spettacolo.
In pochi istanti la moka era fumante, e Piero si affettò a prenderla per la maniglia che non bolliva come il resto della moka. Ferdinando fu veloce a passargli una tazza, e vi versò dentro l’acqua bollente.
Scarlet e Turquoise overdrive, usati assieme, scaldano l’acqua.” spiegò Ferdinando, mettendo infine il filtro del thè dentro l’acqua fumante della tazza, che passò a Shizuka. “Piero è specializzato soprattutto nella tecnica dello Scarlet e quelle più d’attacco. Le sue onde sono fortissime, anche se la sua tecnica è un po’ carente.”
Piero gli riservò uno sguardo fulminante e un broncio, mentre tutti al tavolo si misero a ridere, e addirittura Zarathustra, l’imperscrutabile Boss, si lasciò scappare un sorriso. “Ok, professorino, tu hai la migliore tecnica di tutti noi, ma non dovresti andare a preparare la lezione di oggi ai marmocchi?” lo rimbeccò Piero, e alla sua frase Ferdinando quasi saltò sul posto, picchiandosi una mano sulla fronte coperta dalla frangia di diversi colori. “Me diu, è vero!”
Marmocchi, Piero? La nostra nuova amica JoJo ha un anno più di te, la stessa età di Regina.” concluse Ludovico, zittendo il ragazzo castano una volta per tutte.
Shizuka rimase sbalordita da quella frase. Davvero, quei ragazzi erano estremamente giovani, eppure così straordinariamente forti… Strinse i pugni sotto al tavolo, perdendosi nei suoi pensieri. Aveva quasi vent’anni, e ancora non aveva raggiunto nessun obiettivo nella vita. Quei ragazzi avevano la sua stessa età, eppure avevano già affrontato così tante sfide, erano già così potenti e i loro stand erano straordinari. Forse lei non era abbastanza speciale? Forse quel sangue estremamente potente non era abbastanza per renderla qualcuno. Cos’era lei, senza il sangue di quel vampiro vittoriano, del suo trisavolo e di suo nonno? Cosa c’era di utile, rinomato o importante in lei, che fosse frutto dei suoi sacrifici e non del destino?
Quei pesanti pensieri vennero affossati quando due ragazzi, che Shizuka era sicura di aver già visto, corsero dentro la cucina in fretta e furia, cartelline e fogli che volavano ovunque.
“Ecco la colazione, già farciti! In uno ci ho messo il burro d’arachidi per Gianni, gli altri sono tutti alla marmellata e alla nutella.” disse Ferdinando tutto frettoloso quanto loro, passando alla ragazza dai lunghissimi capelli mogano legati in una coda arruffata una scatola di plastica, contenente fogli d’alluminio. 
La ragazza e il ragazzo si fermarono solo un istante, per controllare la nuova arrivata. Il ragazzo, dalla carnagione scura e i lineamenti sud-asiatici e i capelli azzurri tutti sparati in aria, indicò Shizuka. “Ehi, tu sei la nuova arrivata, eh?” fece. “Non sei mica quella che ci ha visti in macchina, mentre voi e la Matuzia visitavate il nuovo impianto anti-vampiro in centro a La Bassa?” spiegò Gianni, più a Eriol che a Shizuka stessa. “Sì, sì è lei!” rise la ragazza, che prese di forza una mano a Shizuka e la scosse con prepotenza, fin troppo piena di energie a quell’orario tremendo. “Piacere, io sono Eriol Dumanti! Lui è Gianni Singh, facciamo entrambi parte della Banda e lavoriamo al Museo Archeologico! Scusaci, siamo proprio in ritardo, dobbiamo aprire noi il Museo perchè Alan sicuramente starà ancora dormendo e i Joestar arriveranno puntuali…”
I due, con la stessa prorompenza di una tempesta estiva, portarono caos sulla camera e poi sparirono nel nulla, sbattendo la porta d’ingresso nell’uscire.
Il resto della colazione continuò rumoroso come prima, ma questa volta era Shizuka a sentirsi sveglia, ma pensierosa, forse anche un po’ malinconica. Quei due ragazzi si sarebbero incontrati coi Joestar. Forse… Shizuka sentì il cuore stringersi, tutto ad un tratto la sensazione di essere sola. Le sarebbe piaciuto avere qualcuno di familiare lì, a consolarla, a dire che sarebbe andato tutto bene, che la scelta che aveva fatto era giusta, che quel destino era il più adatto a lei.
Zarathustra si alzò dal tavolo, e così anche Ludovico, sempre al suo fianco.
“Se avete finito la colazione, per voi reclute è arrivato il momento di andarvi a preparare, perchè alle 8 in punto partirete assieme a Regina, e compirete l’addestramento con l’aiuto di Ferdinando. Il primo, nel caso di JoJo.” disse Zarathustra, col suo solito tono freddo e monotono. 
Ludovico sospirò pesantemente, fissando Lisa con uno sguardo più preoccupato che infastidito. “Lisa sei davvero sicura di non essere stanca? Puoi ancora prenderti la mattinata libera.”
“Mai!” sbraitò lei, alzandosi di scatto in una posa molto militare. “Io ho dormito beatamente tutta notte, sono fresca come una rosa! E poi devo allenarmi, non so ancora quale sia l’abilità del mio stand e devo saperlo al più presto! Che recluta della Banda sono?”
Ludovico e il Boss si scambiarono una vaga occhiata, incomprensibile se non a loro due. “Beh, nessuno di voi quattro ha ben chiaro le abilità del loro stand. È per questo che siete reclute.”
“Ma l’entusiasmo è sempre ben accetto.” concluse Zarathustra. “Preparati anche tu. Avete mezz’ora.”
Enrico e Alex si alzarono a loro volta, lentamente e non così entusiasti a loro volta.
Ferdinando salutò tutti e uscì dalla casa quasi correndo, come suo solito. Sembrava un tipo decisamente nervoso e perfezionista.
Shizuka sentì un brivido freddo correrle lungo la spina dorsale- tensione? paura? pressione?- e non si alzò subito dal tavolo. Venne raggiunta da Regina e Piero, che la guardavano dall’alto al basso, e per un istante ricordò quanto temibili fossero come avversari, nemmeno un giorno prima.
“Senza permesso abbiamo modificato le tue scarpe.” cominciò Regina, con un sorriso gentile sulle labbra azzurre. “Non è niente di ché, tranquilla. Abbiamo sostituito le vecchie, inutili suole in gomma con suole metalliche, in lega di manimantio e oro, che ti permetteranno di camminare sull’acqua come abbiamo fatto ieri, o convogliare le Onde Concentriche in altri modi. Ti servirà per l’allenamento di oggi.”
Mentre Regina parlava, Piero estrasse le due braccia aggiuntive di Seven Nation Army e prese senza troppi indugi un braccio di Shizuka, iniziando a misurarlo con un metro da sarta. 
“Piero, che maleducato!” lo sgridò Regina. “Almeno spiegale cosa stai facendo!”
“Sto prendendo le misure per i guanti!” rispose Piero con tutta la naturalezza del mondo, e un sorriso idiota sul viso. “Uh.. per le Onde Concentriche! Tutti abbiamo dei guanti, vedi? Servono anche a te. Io cucisco.”
Cucio.”
“Stessa roba dai, valà.”
Shizuka ebbe un’illuminazione. Si indicò i leggings in pizzo, o quello che ne rimaneva. “Puoi ripararli?”
Piero constatò l’entità dei danni di quel tessuto, tirandolo un po’ tra le dita e capendo che no, era tutto sfilacciato, e impossibile da riparare.
“Ma posso farne un guanto, con questa gamba rovinata. Così avresti una manica dei pantaloni e una manica della maglia!”
Shizuka annuì convinta. 
Bollocks.
Sentì come una soffiata di vento sulle gambe, e si accorse che Piero, col suo stand Seven Nation Army, aveva tagliato quella manica del leggings dalla sua gamba con una delicatezza e velocità allarmante, e ora la teneva tra le mani. Che maleducato!
Alex, Enrico e Lisa uscirono dalla stanza, stiracchiandosi e borbottando. Shizuka fu fermata da Ludovico.
“Senti…” mugugnò lui, perdendo un po’ quella sua solita aria di superiorità e sicurezza. Sembrava un po’ a disagio, così scoperto. “...ieri notte sei scappata, per quanto ho capito. Tuo padre sembrava molto contrario al fatto di unirti alla Banda. Vuoi telefonare a qualcuno, prima di iniziare l’allenamento? Fino a stasera non avrai molto altro tempo libero, e al primo momento libero vorrai solo dormire, te l’assicuro.”
Ludovico le sorrise, accompagnandola fuori dalla cucina. “E poi, se sarai stata convincente durante gli allenamenti dei prossimi giorni, ti assegneremo una missione.”
Shizuka però rimase un po’ contrariata a quel suo slancio di empatia. “Perchè mi dici questo? Cioè… ok per l’allenamento, ma il chiamare la mia famiglia?”
Ludovico alzò lo sguardo, cercando di distanziarsi ancora, come suo solito. “Ti ho vista reagire male quando Eriol e Gianni hanno menzionato i Joestar, e… questa era la villa di mio nonno, sai? Ma poi è morto, ed è rimasta solo mia nonna, ma è anziana e non voleva vivere in una villona tutta da sola, così l’ha affidata a noi ragazzi della Banda nel 2013. Mia nonna ora vive in centro a La Bassa e da allora non ho quasi mai più avuto tempo di vederla. Posso solo chiamarla ogni tanto, ed è l’unica parente che mi è rimasta.”
Ludovico sospirò, mettendosi le mani in tasca. Un sorrisetto si formò sulle sue labbra sottili. “Ti stai chiedendo che è successo al resto della tua famiglia?, eh? Ho solo nominato che mio nonno è morto, non altri parenti.”
Shizuka storse il naso, però si impose di non reagire oltre. Ludovico era fastidioso, a dir poco. Giocava a fare il mentalista, a leggere le persone e cercare di anticipare i loro pensieri. Non aveva visto il suo stand fare molto, se non aprire buchi nel terreno e trasportare persone. Forse, il suo stand non poteva fare molto altro, e aveva dovuto inventarsi altri modi per sconfiggere gli avversari. Quel Ludovico si credeva davvero un genio, e forse lo era, ma a Shizuka non piacevano le persone che si credevano più intelligenti di lei. 
Annuì, assecondandolo. Era pur sempre il suo vice-capo, ora.
Ludovico aprì ancora la bocca, ma Zarathustra, arrivata da chissà dove, lo interruppe. “La madre di Ludovico, il fratello maggiore di Piero, entrambi i genitori di Regina ed entrambi quelli miei e di Alex stanno lavorando. Giorno e notte, ventiquattr’ore su ventiquattro alla fabbrica, la Age of Plastic. Basta con queste inutilità, Ludo. Ti rimangono 20 minuti, JoJo, fa’ la tua telefonata.”
Ludovico guardò l’amica e Boss tornare nel salotto, e si lasciò scappare un sospirone, mentre usciva dalla porta d’ingresso, vicina alla porta della cucina. 
Shizuka ringraziò mentalmente il Boss per averla salvata dalla parlantina di Ludovico, e anche per averle concesso quei venti minuti di chiamata.
Ma a chi?
Shizuka si diresse di nuovo in camera sua, si sedette sul letto e fissò il cellulare lilla glitterato, mentre scorreva la rubrica inutilmente.
Chi, chi? Non papà. Forse avrebbe dovuto ringraziare il signor Kujo per aver tentato di aiutarla, ma non voleva spendere venti minuti a parlare con un uomo che a malapena spiaccicava parola.
Le sue amiche? No, le avrebbe contattate più tardi, per spiegare loro la situazione e ingigantirla abbastanza da farle cadere ai suoi piedi.
Il primo numero in elenco, in ordine alfabetico, era Bert. Il babysitter di Liverpool.
Un improvviso magone di tristezza chiuse la gola a Shizuka, mentre si decideva a premere sul suo contatto.
“Jo! Stai bene!” rispose il ragazzo all’altro capo del telefono, squillante e preoccupato e con tanto affetto nella sua voce emozionata, e Shizuka scoppiò a piangere.
 

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 - Vendetta in Discoteca (parte 2) ***


 

Shizuka si sciacquò gli occhi gonfi e lucidi dopo aver pianto per venti minuti buoni, costantemente, mentre la voce gentile e amorevole di Bert la confortava e le diceva esattamente quello di cui aveva bisogno di sentirsi dire. Che era forte, che ce l’avrebbe fatta, che era sicuro che lei sarebbe volata in alto un giorno. E cose che voleva sentire un po’ meno, come il fatto che era stata imprudente, che avrebbe dovuto chiarirsi con suo padre. Ma, alla fine, Bert concordò che la decisione sul suo destino spettava a lei, e lei soltanto.

Lavandosi il viso con l’acqua più fredda che poteva uscire dal lavandino, si accorse con soddisfazione che gli occhi, tutti arrossati e gonfi, stavano tornando freschi come una rosa ad una velocità impressionante. 

Le iridi, però, continuavano a rimanere rosse, e alla luce del sole già alto nel cielo che entrava dalla finestra alla sua sinistra, sembravano andare a fuoco.

Questa è la nuova Shizuka, si disse tra sé e sé. 

Questa è la nuova JoJo.

Ben stretti gli elastici dei codini e assicurati gli occhiali lilla con l’elastico dietro alla testa, Shizuka sprintò giù dalle scale, dove Enrico si stava allacciando i suoi stivaletti marroni, tirando per bene le stringhe verde acido sui suoi stinchi magri. Era un ragazzetto basso e magrolino, tutto ginocchia e gomiti, ed era evidentemente il più giovane dell’intera Banda. 

Lui alzò la testa per guardarla, notando che gli si stava avvicinando, ma i grossi occhiali da vista dalla lente rotonda e ampia gli scivolarono quasi giù dal naso.

Shizuka gli offrì una mano per rialzarsi, ma Enrico non reagì. Rimase fermo immobile, a fissarla coi suoi occhioni verdi un po’ spaventati. Shizuka ritirò la mano. Bollocks, fare amicizia con questi tipi sarebbe stato arduo. Non che lei fosse particolarmente brava, data la sua vita un po’ solitaria.

Dietro di lei arrivarono anche Annalisa- sempre con i capelli rossi- e Alex, vestiti in maniera sportiva- pantaloncini a righe, leggings, Dr.Martins scure e una maglietta stropicciata e tutta strappata violetta per Lisa, una canottiera bianca e menta, pantaloni grigi al ginocchio (molto simili a quelli della sorella Zarathustra) e scarpe da ginnastica blu per Alex. 

Uscirono tutti e quattro assieme dalla grossa villa, e il paesaggio davanti a loro non era particolarmente mutato dalla notte precedente: i fari, che la notte precedente facevano così tanta luce da rendere il sentiero illuminato a giorno, erano ora quasi spenti e rilasciavano solo una vaga lucina bluastra- UV. Ma la nebbia ancora regnava sovrana sull’orizzonte, rendendolo non più lontano di cinque metri, ben prima dell enorme recinto in Manimantio che circondava la Villa. L’erba che cresceva oltre l’aia in cemento e al lato del sentiero era così verde da brillare a confronto del grigio del cielo e della nebbia, e le portulache crescevano rigogliose a bordo del cemento, i loro fiori fucsia e arancioni accesi già sbocciati. 

Piero, che sembrava andare di fretta, si avvicinò a Shizuka, con un sorrisone stampato sulla faccia abbronzata e un paio di guanti nuovi di zecca per lei. 

“Le rifiniture sono in lega d’oro e manimantio!” spiegò lui mentre la ragazza li indossava, notando che l’elastico di lega dorata e brillante le stringeva confortevolmente il braccio, adagiato appena sopra il gomito. 

“Il manimantio è un metallo del gruppo 11 della tavola degli elementi, la stessa di cui fanno parte rame, argento e oro, con cui forma facilmente leghe metalliche.” disse il Boss, che si era avvicinata ad osservare Shizuka, l’occhio rosso che lampeggiava più del solito, scannerizzando Shizuka probabilmente.

La ragazza inglese si sentì un brivido freddo passarle lungo la spina dorsale, come ogni volta che si sentiva osservata da 42. Si sentiva un calzino rigirato, guardato in ogni ricamo, senza nessuna privacy- e nessun diritto di essa. 

“Era conosciuto come Unununio, prima di essere scoperto nelle profondità di La Bassa. È uno dei metalli più pesanti che si conoscano, e le sue proprietà, oltre che il suo aspetto, assomigliano molto più a quelle dell’argento che all’oro. Per te, abbiamo optato per una lega oro-manimantio perchè più efficace con forti onde concentriche, come sembri specializzarti tu. Anche Regina ed Eriol usano quel tipo di lega, sia fisica che a lungo raggio.”

Zarathustra alzò un braccio, mostrandole il proprio guanto giallo dai diversi fili argentati che percorrevano tutta la lunghezza delle dita. “Io, così come Alex e Ludovico e Ferdinando, abbiamo la lega manimantio-argento, buona per attacchi a lungo raggio, e non a contatto diretto. Ottimo per l’uso di Hamon senza contatto fisico.”

Piero alzò i suoi guantoni neri senza dita, le nocche bordate di un metallo rossiccio e brillante. “E la lega rame-manimantio per Onde esplosive per puro contatto fisico.”

“Sei venuta fin qui per fare lo spiegone sulla chimica, Zara?” ridacchiò Piero, finendo di aiutare Shizuka a indossare sia i guanti neri e dorati appena cucitegli che quel pezzo di leggings rimodellato per coprire il resto del braccio destro scoperto.

Zara estrasse dalla tasca della giacca bianca e nera ricoperta di spine una specie di uncino metallico dalla punta arrotondata, color argento scuro dalle sfumature fredde e quasi bluastro- manimantio puro.

Oleander Indigo Overdrive.” sussurrò Zarathustra, e l’uncino si ricoprì di onde blu-viola che Shizuka non aveva mai visto.

Un sussulto di preoccupazione si levò su quel gruppetto. I ragazzi erano sbiancati, e Piero era rimasto per un attimo stupito, poi si era messo a ridere. “Ahia. Buon divertimento, JoJo.” disse, prima che Zarathustra appoggiasse una mano guantata, pesante e ferma come una statua sulla spalla di Shizuka, e con un colpo deciso la accoltellasse al petto.

Per un istante, Shizuka vide solo buio e dolore, stelline che le volavano davanti agli occhi e nient’altro. Il dolore era lancinante, sembrava averla perforata da parte a parte, quando si accorse che l’uncino si era infilato sotto la gabbia toracica, non forando la pelle ma sembrando tale.

Shizuka rimase completamente senza fiato, le gambe deboli, le ginocchia tremolanti, e il dolore tanto forte da non permetterle nemmeno di parlare. Era estremamente simile al morso del vampiro, poco meno di un mese prima…

Shizuka crollò a terra, le ginocchia le cedettero definitivamente. Quando prese il primo respiro dopo quel supplizio che sembrava essere durato secoli- mentre invece era stato nemmeno due secondi-, i polmoni di Shizuka si riempirono come mai prima. Respirò talmente forte che si mise a tossire, il suo sistema non abituato a respirare così bene.

“Tirati su, la pratica per permettere al tuo diaframma al respiro dell’Hamon è riuscita.” disse Zarathustra, fredda come sempre. Si rimise l’uncino in tasca. “Seguite ciò che dicono Regina e Ferdinando, fo’ bel. Fate i bravi.”

E Shizuka si ritirò in piedi, fresca e pimpante come non mai. I suoi muscoli si sentivano svegli, nuovi, pieni di ossigeno, e quasi saltò in piedi, con una forza nuova in corpo.

“Andiamo al campetto?” chiese Enrico, che non ne sembrava troppo soddisfatto. Regina, i capelli chiusi in un alto e larghissimo chignon azzurro ghiaccio, annuì tutta felice. 

“Sì, Ferdi ci sta aspettando, siamo in ritardo. Prendete le biciclette. Ce n’è una anche per te, JoJo, tranquilla.”

Dal garage sotto l’edificio dove dormivano i ragazzi, i tre allievi ne uscirono con tre biciclette, e Regina, borsone appoggiato su un braccio, ne portava una nera e piccola a Shizuka.

“Bicicletta? Non posso andarci in moto? Ho la patente.” borbottò Shizuka, sulle prime non accettando la bicicletta che Regina le stava, cordialmente o meno, offrendo.

“Ehi, Eriol ne aveva 19 quando è entrata nella Banda, nel 2013. Aveva già patente e auto, ma ha dovuto sorbirsi i viaggi in bicicletta lo stesso.” borbottò Piero, che li stava ancora osservando. 

“Le biciclette sono un allenamento speciale, inventato dal boss Zarathustra in persona!” esordì Regina, chiamando a sé tutti i ragazzi. “Dovete usare la respirazione dell’Hamon, o i pedali non si muoveranno. Ripassiamo la respirazione per JoJo, vi va?”

Regina inspirò con il naso, ed espirò con la bocca. Ripetè il gesto, più pesantemente questa volta, e dalle sue nocche ricoperte d’oro e manimantio si sprigionarono delle scintille di Onde Concentriche.

Alex, Lisa, Enrico e Shizuka la imitarono, e Shizuka dovette respirare un paio di volte in più degli altri prima di sentire la sensazione di essere trapassata piacevolmente, da parte a parte, da una scarica elettrica continua, una carica estinguibile.

Le Onde Concentriche!

Regina, soddisfatta per la respirazione dei ragazzi, decise che era finalmente ora di partire. Montò sul suo mezzo, che non era una bicicletta ma lo skateboard della notte precedente a forma di tavola da surf con le ruote, che, caricate da scosse elettriche, spinsero Regina in avanti, seguita dai quattro ragazzi.

Shizuka trovò il seggiolino della bicicletta un po’ consunto e duro, lei che era abituata al sellino in materasso speciale della sua moto custom-made su misura per lei, ma pensò che avrebbe sempre potuto cambiarlo. Ora la bicicletta le apparteneva, no?

Spinse sui pedali, e per poco non cascò a terra.

Non si mossero.

Ah, già, la respirazione, pensò Shizuka dopo pochi istanti, e quando applicò la respirazione che Regina le aveva insegnato, sentì anche i pedali della bicicletta funzionare, e le ruote girare, scariche elettriche che passavano tra i raggi in manimantio.

Il grosso portone, perso tra le nebbie labassesi, si aprì in un tripudio di luci e riflessi e lo skateboard di regina scivolò sull’acqua del canale che circondava la villa come se fosse davvero una tavola da surf che cavalcava elegantemente un’onda. La bicicletta argentata di Alex camminò miracolosamente sull’acqua a sua volta, seguita da quella verde neon di Enrico e quella tutta impiastricciata di colori di Lisa.

Infine, venne il turno di Shizuka. Non aveva proprio voglia di bagnarsi, così respirò più profondamente che potè, credendo davvero in quella magia che erano le Onde Concentriche… e la ruota anteriore della bicicletta si adagiò sul pelo dell’acqua come fosse fatto di marmo, e così fece anche la posteriore, e infine passò sana e salva e asciutta il largo fosso, e si ritrovò in strada, diretta verso il posto in cui avrebbe preso parte al suo primo allenamento.

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 31 - Vendetta in Discoteca (parte 3) ***


Peccato che nessuno avesse riferito a Shizuka che il campetto di La Bassa si trovava a sei chilometri dalla Villa, in pieno centro della città, a differenza della frazione in cui la Banda abitava.

La Bassa era davvero una città gigantesca, resa ancora più grossa dai tratti di campagna che separavano le frazioni e i quartieri l’une dalle altre. 

Dopo una mezz’ora che sembrava interminabile per i quattro ragazzi (e per Shizuka soprattutto) a percorrere vie di campagna e zone cittadine, Regina si incanalò in una viuzza sottile in centro città e, seguendola, sbucarono tutti in un enorme campetto sportivo attrezzato per ogni evenienza, comprese reti da calcio, un canestro da basket, un sentiero per la corsa e una zona cementata adatta all’allenamento con biciclette e skateboard.

Anche il campetto, immerso in un tranquillo sobborgo luminoso e accogliente, era circondato da una rete di manimantio che arrivava quasi fino al cielo, e lo chiudeva come una scatola. Aprendo la porticina metallica elettrizzata, i cinque entrarono, e Ferdinando li stava aspettando con degli strani manichini di pezza ai piedi, dall’aspetto usurato e decisamente maltrattato.

“Finalmente!” rise lui, che era partito mezz’ora prima di loro e probabilmente aveva impiegato molto meno di mezz’ora ad arrivare lì col suo skateboard lungo e sottile come un proiettile di fucile, e probabilmente veloce nello stesso modo, appoggiato alla rete metallica vicino alla porta.

Regina aprì il borsone che si era tenuta sulla spalla per tutto il tragitto, estraendo quattro strani oggetti, una strana via di mezzo tra un tamburo e una racchetta da tennis.

“Si chiama tamburello, è lo sport principale di La Bassa.” spiegò Regina, passandone uno a ognuno dei ragazzi. “Questi tamburelli, ovviamente, non sono normali. La membrana con cui si colpisce è formata da fili intrecciati di manimantio e un materiale completamente isolante, e questo intreccio è adatto a far rimbalzare onde concentriche e scagliarle lontano. Questi saranno le vostre armi, oggi.”

“Armi contro cosa? I manichini?” chiese Lisa, poco convinta, mentre si rigirava lo strumento tra le dita, e Regina le sorrise, indicando Ferdinando, che si trovava proprio sopra il grande ammasso di manichini. 

Il ragazzo alzò un pugno, prese un gran respiro, e si caricò di onde arancioni. 

Solar Wind Overdrive, una tecnica che ha a che fare col magnetismo.” spiegò Ferdinando.

Alzò l’altro braccio, ma impiegò molto di più a caricarlo, lo sguardo fisso e concentrato come mai. Poi pian piano, dal palmo della sua mano, scariche di un magenta brillantissimo si estesero su tutto il suo braccio.

“La tecnica impossibile, l’Impossible Overdrive, creata da Medea Zeppeli, la nonna del Boss e di Alex! Questa è la tecnica più forte e distruttiva che si possa ottenere usando le Onde Concentriche, in grado di paralizzare i nemici e manipolarne corpo e mente!”

Ferdinando colpì il mucchio di manichini con entrambi i pugni contemporaneamente, causando scintille così forti che tutti e quattro gli allievi dovettero chiudere gli occhi o volgere lo sguardo.

Il magenta non era un colore sullo spettro visivo, Shizuka lo sapeva bene. Le era impossibile da replicare col suo stand, mentre il lilla- dal lavanda al pervinca passando per il glicine, tutti viola bluastri pallidi- era il colore che le veniva più facile da replicare, e anche il suo colore preferito, del resto. Le Onde Concentriche si basavano esclusivamente sulla luce, e si chiedeva come fosse possibile un’onda di luce magenta… ma anche il nome, impossibile, ne esplicava quanto difficile quella tecnica dovesse essere da imparare e usare.

I manichini incassarono il colpo, senza muoversi. Beh, in fondo erano manichini, non dovevano muoversi.

E invece si mossero.

Prima erano solo singulti, fremiti, e poi si alzarono in piedi, uno a uno. Dovevano essere una dozzina. I loro movimenti non erano agili né coordinati, e si muovevano davvero come gli zombie, o quei vampiri malformati come quello che aveva attaccato Shizuka a Morioh, mesi prima.

Dietro Ferdinando, One Thousand Forms of Fear apparì come una nube malefica alla sua schiena, e grazie al potere del suo stand, i manichini presero le sembianze di veri zombie e vampiri malformati.

Ora la faccenda sembrava seria.

“Possiamo usare gli stand?” chiese Enrico, che evidentemente non sperava altro di bruciare i manichini e tornarsene a casa il più velocemente possibile.

“Sarebbe meglio di no.” lo sgridò Regina, cogliendo al volo quello che il ragazzino voleva fare. “Potete usare i poteri secondari dei vostri stand, senza estrarli.”

Dunque Shizuka poteva diventare invisibile, perfetto.

“E come li combattiamo? Colpendoli con i tamburelli?” chiese Lisa, che scattò indietro quando uno le si avvicinò troppo.

Regina estrasse quattro bottigliette di vetro riutilizzate e riempite di acqua, che lanciò poco delicatamente ai quattro ragazzi.

“L’acqua, con le Onde Concentriche, può essere come solidificata utilizzando l’Hamon sulla tensione superficiale dell’acqua, e le si può dare la forma che si vuole. È il primo passo per sviluppare il Turquoise Blue Overdrive, su cui si ha il controllo perfetto su qualsiasi liquido.” spiegò Regina, stappando una bottiglia a sua volta e versandosela su una mano, ma invece che bagnarle il guanto blu e sgocciolare a terra, l’acqua si adagiò solida sulla sua mano, prendendo la forma di una sfera perfetta.

Con un sorriso quasi felino, Regina saltò in aria e, con una movenza perfetta, compì una schiacciata da pallavolo, lanciando la palla-acqua con una forza impressionante contro un manichino, che cadde a terra come… il manichino che era.

“Facevo pallavolo!” disse Regina tutta sorridente. 

“Ma tornando a noi…” ricominciò Ferdinando. “...se colpiti dall’acqua piena di Onde Concentriche, i manichini torneranno tali, immobili e inanimati. Se vi afferrano, siete morti e il gioco per voi finisce. Pronti?”

No, avrebbe voluto rispondere Shizuka, ma sapeva che non poteva sottrarsi stavolta.

.

.

L’allenamento, dal punto di vista di Shizuka, era stato rovinoso. A malapena era riuscita a creare un’ovaloide tra le mani, e quando l’aveva lanciato contro lo zombie-manichino, non riuscì a colpirlo bene con la membrana del tamburello e finì per bagnare sia lei che il vampiro che le era quasi addosso. 

Quando aveva deciso di diventare invisibile, per qualche motivo, gli zombie avevano continuato ad inseguirla, e non era riuscita a seminarli nemmeno correndo a caso e stando ferma. Ma i vampiri non avrebbero dovuto ignorarla? E quelli, che erano controllati da Ferdinando che non aveva i super-sensi delle creature della notte, come avevano fatto a scovarla ogni volta?

Alex aveva fatto lo stesso errore di Shizuka, colpendo la palla d’acqua con il bordo in plastica invece che la membrana del tamburello, ma la sua palla si era distrutta ed era tornata liquida, perdendo tutte le Onde. Il vampiro-manichino l’aveva aggredito, e Alex era stato eliminato quasi subito dai giochi.

Lisa sembrava una leonessa, saltando di qua e di là come una scatenata, e avendo pure la grande idea di scaraventarne uno contro la recinzione elettrificata. Era stata squalificata alla seconda volta che aveva usato quella tecnica.

Enrico era di una precisione mostruosa, ma estremamente lento. Calcolava con minuzia quanta acqua usare, e le sue sfere d’acqua erano perfette e solidissime, ma la forza con cui le tirava col suo tamburello era esigua.

Shizuka aveva dalla sua una buona forza fisica, amplificata dal sangue vampirico e di Joestar nelle sue vene, ma la sua precisione era pessima, e le sue onde ancora non sviluppate a dovere- era la prima volta che le usava per davvero!

Alla fine, lei ed Enrico ne fecero fuori diversi, ma non tutti, e Enrico fu agguantato perchè era stato fermo immobile a calcolare come colpire un vampiro senza accorgersi di uno alle sue spalle, e Shizuka era diventata invisibile e, sicura di non essere vista, aveva tentato di creare una sfera decente come quelle di Enrico, ma era stata raggiunta da diversi vampiri tutti assieme.

“Ma come hanno fatto a prendermi!” si lamentò Shizuka tra sé e sé, tutta infuriata. Diventare invisibile e sparire dalle situazioni era la sua specialità!

“Forse per tutto il rumore che fai camminando?” le disse Ferdinando, mentre stava aiutando Regina a rimettere a posto gli oggetti che avevano usato durante quel disastroso allenamento. Shizuka aggrottò le sopracciglia a quella frase. Impossibile. Lei non si sentiva fare tutto quel rumore! Aveva la capacità di diventare invisibile da quando era neonata, non aveva bisogno che qualcuno le dicesse come muoversi quando era invisibile.

“E non guardarmi così- ecco, questi sono i tuoi due problemi. Fai troppo rumore, e sei troppo sicura di te.” la rimbeccò Ferdinando di nuovo, quasi a segno di sfida. “E io sono il tuo allenatore, combatto i vampiri da cinque anni, so quel che dico. Non conta niente essere invisibili agli occhi dei vampiri e ai loro nasi, se alle loro orecchie arrivano tutti i tuoi goffi movimenti.”

Regina sospirò, accarezzando un braccio al fidanzato per calmarlo. 

“Non posso permettere che un altro mio compagno faccia una brutta fine solo perchè impreparato al combattimento.” borbottò Ferdinando, ora più cupo, meno rabbioso.

Shizuka immaginò che la Banda fosse ben più numerosa, anni prima. Tutti quegli allenamenti, quella sicurezza che avevano acquisito al giorno d’oggi dovevano arrivare da previe situazioni tremendamente negative, e da compagni caduti.

Shizuka ripensò a suo nonno Joseph- lei aveva perso solo lui, per ora. E non poteva accettare di perdere altre persone amate.

Ringraziò Ferdinando, che le mostrò un sorriso stanco. “Preparatevi, torniamo a casa. E continuate a respirare nel modo dell’Hamon, o i vostri muscoli cederanno!”

Shizuka si sentiva stanca, ma non eccessivamente come credeva. Era capace di fare ancora quei chilometri per tornare a casa, ne era sicura- l’unica pecca era il dover respirare in quel modo, inspirando profondamente dal naso ed espirando dalla bocca, molto innaturale e noioso.

Chissà cosa sarebbe successo, se avesse respirato normalmente…

Si sedette di nuovo sullo scomodissimo seggiolino della sua nuova, vecchia bicicletta di seconda mano, e stavolta pedalare le fu molto più semplice- forse i suoi muscoli si stavano abituando a trasmettere le Onde Concentriche.

Mentre Regina e Ferdinando li guidavano attraverso le viuzze di La Bassa, Shizuka si perse nel paesaggio labassese.

Gli edifici, rigorosamente protetti da alte reti o cancelli metallici, avevano tutti stili e colori diversi, un amalgama di tradizioni ed epoche diverse condensate in una città dalla storia e cultura nebbiosa e sconfinate come le sue campagne. Ora che era quasi pomeriggio, l’una e qualcosa dallo scorcio di cellulare che Shizuka aveva dato prima di mettersi sulla sua bicicletta, il sole aveva deciso di fare capolino da dietro la perenne cappa di nuvole che ricopriva la città, dando più forza ai ragazzi stremati che stavano tornando alla loro nuova casa.

Le case si diradarono man mano, sempre più lontane le une dalle altre, sempre più erba e piante e fiori e verde tra di loro, finchè il paesaggio non mutò in uno di campagna, le case ora tutte simili tra loro- case padronali di campagna, spesso accompagnate da stalle piene di animali e aie di cemento nei giardini e galline che scorrazzavano dietro agli onnipresenti cancelli anti-vampiro.

La strada di ritorno sembrò più breve di quella dell’andata, forse perchè tutti i ragazzi Shizuka compresa non vedevano l’ora di tornare a casa e rilassarsi.

Prima che smontassero dalle loro biciclette, però, Ferdinando li ammonì severamente.

“Ricordatevi di NON smettere di respirare con la tecnica dell’Hamon finchè non siete in camera vostra, capito?”

E poi si voltò verso Shizuka, un po’ più preoccupato che arcigno ora. “JoJo, tu… non smettere di respirare con la tecnica finchè non sei sopra il tuo letto, ok? Usare per le prime volte le Onde con così tanta intensità come hai fatto oggi, potrebbe causarti un po’ di dolore ai muscoli, ma dovresti addormentarti subito. Non so come reagirà il tuo sangue vampirico… se hai bisogno chiamaci, ok?”

Oh. Ora Shizuka era un po’ spaventata. Annuì comunque, continuò con premura a inspirare dal naso ed espirare dalla bocca e seguì le altre reclute che riponevano le loro biciclette sotto ai loro dormitori, e anche loro erano tutti impegnati a respirare in modo strano.

“Pennichella fino alle quattro del pomeriggio, doccia, poi avete il pomeriggio libero e stasera, dopo cena, serata film.”

“Che film?” chiese Enrico. “Sorpresa. Ora a nanna!” lo rimbeccò scherzosamente Regina, che aveva parlato anche prima.

Alex fu sul punto di dire qualcosa a Shizuka dopo aver salito la rampa di scale che portava al corridoio dei loro dormitori, e prima di dividersi per entrare nelle loro camere.

“Sei… stata forte.” borbottò lui, tutto rosso in viso e non solo per la fatica, non lasciando a Shizuka il tempo di rispondere e scappando come un coniglio nella sua stanza.

Shizuka non ci diede troppo peso. Salutò gli altri due ragazzi ed entrò nella sua di camere, stando attenta a respirare ancora con quella nuova tecnica. 

Si tolse le scarpe e gli occhiali e si sedette sul bordo del letto, un po’ spaventata.

Avrebbe dovuto ricominciare a respirare normalmente, perchè sapeva che, durante il sonno, non si poteva usare la Tecnica delle Onde Concentriche.

E così fece. 

In un istante, il mondo le si capovolse sotto agli occhi, e mille aghi perforarle tutti i muscoli, in un dolore straziante e lancinante che Shizuka era sicura di non aver mai provato, nemmeno durante l’attacco vampiro.

Avrebbe voluto gridare, ma anche la gola le sembrava chiusa, i polmoni e perfino il cuore saltò un battito, ne era certa!

Poi, come era arrivato, sparì, e tutti i suoi muscoli si rilassarono in modo comfortevole, ma preoccupante.

Cadde mollemente sul materasso, e si addormentò quasi istantaneamente, rilassata come mai nella sua vita, per trovarsi di nuovo nella radura luminosa dei suoi sogni.

 

Le colonne dell’antico porticato, bianche e lucenti, erano spezzate e rotte, come se qualcosa le avesse intenzionalmente distrutte.

Si guardò intorno, non vedendo nessun movimento sospetto, e nemmeno il fantomatico ragazzo di luce.

Alle sue spalle sentì un rumore. Ed eccola, una creatura d’oscurità in quel mare di luce, una bestia dall’aspetto incalcolabile e indescrivibile, che Shizuka, anche se lo vedeva coi suoi occhi, non capiva che forma avesse. Una creatura degli incubi, macchie di ombra indistinguibili e pericolose.

Presa dal panico, corse via, tra l’erba e le rovine. Il porticato in stile greco e classico era distrutto dal pesante corpo dell’enorme mostro, il laghetto sporcato di sangue- di chi era, quel sangue? Suo? Non importava, ora era tutto distrutto.

Il mostro aveva distrutto tutto ciò che Shizuka aveva costruito. Ma l’ho costruito davvero io, tutto questo? si chiese. L’ho voluto io?

Il mostro dagli occhi rossi la inseguiva, buttandosi contro le colonne e i porticati, col solo intento di distruggerli.

Stanca di scappare, si fermò e si voltò verso la bestia, che continuava a inseguirla, con chissà quale intento. Shizuka non sarebbe più scappata, avrebbe affrontato i suoi demoni faccia a faccia, non come una debole vigliacca ma come una forte combattente.

“Sono qui” le disse una voce fin troppo familiare. Si voltò e dietro di sé c’era lui, avvolto nella sua solita, calorosa luce. Nemmeno sapeva il suo nome, ora che ci pensava. Si lisciò i lunghi capelli dorati su una spalla e le sorrise, gli occhi verdi troppo profondi e intensi per dare loro una parvenza di quiete che tanto voleva far fingere. 

Prese la mano di Shizuka tra le proprie e vi depositò qualcosa di freddo e pesante. Shizuka abbassò lo sguardo, e tra le sue mani c’era un grosso coltello da caccia, con una incisione in kanji sul manico di cuoio e acciaio che Shizuka non riuscì a leggere. Nei sogni non si riesce a leggere, del resto.

Riconobbe a fatica solo un kanji di arcobaleno, ma bestia non le dava tregua, e non aveva tempo di pensare cosa quei simboli avrebbero voluto dire.

“Devi uccidere la Bestia, Shizuka. Devi ricostruire questo posto. Il tuo posto. Uccidi la Bestia, fai rinascere la nuova te. Con lei, tu non puoi andare avanti. Ti blocca la via, non vedi? Vuole solo fermarti. Uccidila, o lei ucciderà te.”

Il ragazzo dorato le strinse il polso, con forza e dolorosamente, senza che lei potesse in alcun modo ritirarsi, e Shizuka alzò il coltellaccio e lo puntò verso la Bestia. 

Shizuka le corse incontro, tenendo il pugnale con entrambe le mani, e lo affondò nella carne d’ombra della Bestia, che lanciò uno strillo così tremendo da farle male alle orecchie. 

Ma la Bestia doveva morire! Doveva!

Alzò il coltello e aprì la sua pancia, cadendo indietro dalla forza del gesto. Dal taglio uscirono mille stelline, schegge dalle cinque punte affilate, che la sommersero, tagliandola e conficcandosi nella sua pelle. Tentò di gridare, ma le schegge le si conficcarono nella lingua e nella gola e negli occhi.

Ho fatto quello che mi hai detto tu, perché mi sta succedendo questo? avrebbe voluto gridare. Ma non poteva. 

La Bestia scosse il capo coperto da capelli neri, chiusi in due codini alla base della sua nuca, gli occhi doloranti rossi e luminosi coperti da occhialetti da sole lilla.

Su di sé, sopra la valanga di schegge, vide un’ombra luminosa, un viso bruciato tanto da apparire nero, carbonizzato, un sorriso contorto in una poltiglia di sangue.

“Shizuka, per rinascere bisogna prima morire.”

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Capitolo 32
*** Capitolo 32 - Vendetta in Discoteca (parte 4) ***


Quando la campana scoccò il suo primo rintocco, Shizuka si svegliò, ma non di soprassalto. Ormai si era abituata a quella rumorosa campanaccia come sua sveglia.
Era passata più di una settimana dal suo primo allenamento, e tutti quelli che erano seguiti erano sempre stati migliori. O quasi. Shizuka era rimasta estremamente rumorosa, ma le sue onde si erano decisamente sviluppate.
Prese un gran respiro, riempiendo completamente i propri polmoni. Osservando la punta delle sue dita, generò pallide scariche elettriche tra le sue dita, che ora sapeva padroneggiare abbastanza bene. Non era ancora un genio degli overdrive come Ferdinando o un capo come Zarathustra, ma sentiva il proprio sangue -quello di Joseph e Jonathan Joestar- essere abituato a quelle Onde Concentriche che avevano tanto usato nelle loro antiche vite. Era incredibile, il pensiero che ormai quel sangue le appartenesse da un mese esatto.
Si vestì velocemente come ormai faceva tutti i giorni e scese le scale, scorgendo l’oscurità fuori dalle finestre. Non conosceva più il buio assoluto, da quando era a La Bassa. Anche la notte, nella sua camera, lucine UV appese negli angoli della sua camera si accendevano, così che i vampiri e zombie, anche se miracolosamente fossero riusciti ad entrare nella Villa della Banda, non avrebbero potuto fare molti danni.
Le luci UV così deboli possono solo paralizzare i vampiri e non ucciderli del tutto, nello stesso modo della pioggia labassese, che lasciava cadere sul suolo l’acqua del Grande Fiume, che era letale per i vampiri.
A mezzanotte, i ragazzi più giovani, gli allievi della Banda, si erano svegliati ed erano stati radunati nella sala principale della Villa, al cospetto del Boss, la fredda Zarathustra, e al suo fianco il sempre fedele amico e vice-boss Ludovico. 
“Ho notato notevoli progressi in questa settimana di allenamenti. Complimenti.” iniziò il Boss, con il suo solito tono neutro che non sembrava davvero compiaciuto.
“Stanotte è particolare. In condizioni normali non mi verrebbe mai in mente di mandarvi in perlustrazione da soli, così presto. Ma i vostri miglioramenti nelle tecniche di combattimento, e la situazione di stanotte, non mi lasciano scelta.”
“Che succede?” chiese Alex, tutto spaventato, seduto a terra come gli altri tre ragazzi sul morbido e imbottito tappeto su cui di solito tutti si sedevano per ascoltare Zarathustra parlare, appollaiata sulla sua personale vecchia poltrona in pelle.
“Abbiamo ricevuto diverse segnalazioni dai cittadini, ci sono molti più vampiri in giro del solito.” rispose Ludovico, stranamente concentrato e preoccupato. “E ammassati in punti particolari come generatori di corrente, e ad aggirarsi attorno ai cancelli.”
“I nostri sospetti sono che vogliano attaccare i generatori, interrompere l’elettricità di cancelli, porte e luci UV protettive.”
“E come mai stasera? Cosa c’è di così speciale?” chiese Lisa, dai capelli platino. Shizuka credeva di sapere il perchè, le mani che le tremavano.
Zarathustra e Ludovico notarono il cambiamento di atteggiamento di Shizuka, e, anche se la ragazza non l’aveva notato, anche di Alex.
“Alex e JoJo hanno notato i cartelloni appesi a La Bassa, e tu, come al solito, non ti sei accorta di nulla.” ridacchiò Ludovico.
“Stanotte si terrà un grande spettacolo alla discoteca ‘Vaca ’d Maìn’ di La Bassa, con uno dei DJ che ha fatto la storia della musica techno e house. Unica tappa europea del suo tour mondiale. Si riuniranno un numero esagerato di persone, del tutto ignare dei pericoli dei vampiri e zombie.” rispose il Boss. “E dobbiamo assicurarci della loro salute.”
“Inoltre, questa sera si terrà anche la Notte Bianca, tutti i negozi e musei rimarranno aperti e un sacco di turisti affolleranno la piazza centrale in cui si svolgerà un mercato all’aperto, edizione speciale.” Ludovico sospirò. “Nottataccia per noi.”
“Io e Ludovico ci occuperemo dei generatori di case e hotel, Eriol e Gianni del Museo e della biblioteca, Piero e Regina pattuglieranno le strade principali della città.”
Indicò Annalisa e Enrico, che scattarono in piedi come delle molle. “Voi due, Lisa ed Enrico. A voi spetta il mercato all’aperto in Piazza Garibaldi. Con l’attenzione ai dettagli di Enrico e la forza e velocità di Lisa, non sarà un problema per voi controllare tutta quella gente. Inoltre, vi sarà dato anche un piccolo budget per comprarvi quello che volete, se sarete bravi.” 
I due ragazzi sorrisero, e si diedero il cinque. Non vedevano l’ora di fare compere!
Shizuka si alzò in piedi con le gambe tremolanti, tremando quasi più di Alex al suo fianco.
Non ci credeva. Non poteva crederci.
Un sorrisaccio solcò le labbra sottili di Ludovico, e una scintilla di divertimento baluginò negli occhi freddi del Boss.
“JoJo e Alex, avrete già capito che a voi tocca la discoteca Vaca’d Maìn, a tenere al sicuro sia gli spettatori, sia il DJ, il signor Wilde.”
“Voi due siete perfetti per questo ruolo.” Spiegò Ludovico. “JoJo è inglese e non avrà alcun problema a parlare con lo staff del DJ londinese, e Alex, tu vuoi fare il DJ da grande, no? Ti intendi di discoteche.”
Shizuka quasi cadde in ginocchio, le punta delle dita le divennero completamente invisibili e impallidì ancora di più del solito suo pallore naturale.
Frankie Wilde era il più grande DJ al mondo!!! Lei amava tutte le sue canzoni!! E, benchè un incidente l’avesse reso sordo qualche anno addietro, lui non si era dato per vinto ma anzi, grazie alla sua forza di volontà, aveva sviluppato un modo nuovo per fare musica senza sentirla! Shizuka aveva sempre voluto assistere ad un suo concerto, che tutti definivano come spettacolari e coloratissimi, ma suo padre Josuke l’aveva sempre ritenuta troppo piccola per assistere ad un concerto in discoteca. Quando abitava ancora a Liverpool, l’aveva lasciata a casa con il babysitter Bert mentre lui e i suoi amici di università se l’erano goduto.
Una ventata d’ira solcò la sua mente, ma fu presto soppiantata dalla consapevolezza che ora vi avrebbe assistito, alla facciaccia di suo padre!
Aveva voglia di prenderlo in giro, mandargli un selfie mentre lei era lì e lui no, ma poi si ricordò che non lo contattava da una settimana, e non se la sentiva davvero di risentirlo.
Shizuka si riscosse da quei pensieri quando Ludovico le allungò un foglietto plastificato colorato, su cui spiccava il viso lungo e scarno del DJ Wilde.
“Quelli sono i pass per il backstage, dovrete controllare le prese elettriche.” disse il vice-boss. “Divertitevi… ma non troppo.”
.
.
Dopo quaranta minuti di sbiciclettata attraverso tutta La Bassa, Alex e Shizuka finalmente raggiunsero la discoteca Vaca ’d Maìn, un edificio squadrato dal tetto ondulato con qualche sorta di struttura a renderlo spettacolare, imponente immerso in un enorme parco illuminato a giorno da luci bianche e UV antivampiri nascoste in mezzo a diverse luci stroboscopiche.
La discoteca si trovava nella punta sud-ovest di La Bassa, vicino al confine emiliano, in un insenatura naturale del Po laddove il PoVecchio si divideva dal ramo principale del fiume. La discoteca era circondata da alti argini, rinforzati con palizzate di lega di manimantio che la rendeva un'oasi sicura dai vampiri. Almeno finchè le luci antivampiro e i cancelli caricati a Onde Concentriche funzionavano.
Il concerto stava per iniziare, visto l’influsso di persone che si stava ammassando dentro la discoteca e dai suoni di prova che venivano dall’interno dell’edificio.
Entrambi i ragazzi notarono bagliori rossastri attorno alla cancellata e dietro agli argini. 
Vampiri, zombie e altre creature della notte, i loro occhi rossi e luminosi. Stavano già aspettando di entrare. Chissà quale sarebbe stato il loro piano? Sicuramente dovevano averne uno. Di solito, da quanto aveva appreso, i vampiri dall’aspetto più umano e dotati di intelligenza e stand erano capaci di controllare gli altri, chiamati impropriamente zombie, dall’aspetto malato, bitorzoluto e malmesso, e senza ragione. Questa distinzione c’era solo a La Bassa, ed era ancora un’incognita il perchè. Ma se tanti zombie circolavano attorno alla discoteca, voleva dire che c’era un vampiro a controllarli.
“Ehm…” iniziò a parlare Alex, imbarazzato e insicuro come sempre. “..qual è la tua canzone preferita di Wilde?”
Oh! Una domanda da Alex? Che occasione rara!
Shizuka scrollò le spalle. “Musak, credo? Ha un bel ritmo. La tua?”
Alex rimase un po’ a pensare, tutto assorto nei suoi pensieri, gli occhi verdi fissi sulla sua bicicletta mentre si accingeva a posteggiarla nei posti a loro dedicati, sul fianco della discoteca. “Credo Blue Water. No, I Will Rise Again. No- uhm…”
Blue Water è anche una delle mie preferite!” lo incoraggiò Shizuka, e Alex le rivolse un vago sorriso, sghembo e insicuro.
I due si recarono sull’entrata laterale della discoteca, privata e vicina ai parcheggi VIP e alle loro biciclette. Alex indicò una limousine argentata con disegnate fantasie dorate e fucsia sulla fiancata, l’auto del DJ sicuramente, anche perchè la targa era proprio W1LDE. Lui era un tipo decisamente sopra le righe e colorito.
Il bodyguard all’entrata era un tipo non particolarmente grosso, ma dietro alle sue spalle uno stand imponente e muscoloso spiccava. Sorrise ad Alex.
“Oh, il Boss ha mandato il suo fratellino! Mi ha detto che sei un appassionato di musica house.”
Il bodyguard era un amico della Banda. Alex arrossì un po’ e annuì. “E tu devi essere la nuova arrivata, JoJo! Prego, entrate, Loredana vi spiegherà dove andare.”
Accompagnati da una donna tutta sorridente dai capelli blu, anche lei una bodyguard, furono portati proprio nei backstage, dietro al DJ!
Erano nella stanzetta che precedeva la plancia da DJ. La discoteca, all’interno, aveva la forma di una spigolosa clessidra, e una specie di passaggio sopraelevato diversi metri portava al posto in cui il DJ suonava la sua musica nel centro della clessidra, e sotto, dietro e attorno, le persone potevano ballare o riposarsi ai tavolini e poltroncine agli angoli della clessidra.
Shizuka e Alex erano proprio dietro il ponte sopraelevato, dove la piattaforma al di sopra della pista da ballo si collegava al resto della discoteca. Loredana indicò loro, attaccato al muro, il generatore di corrente e le varie levette e leve più grosse e il loro ruolo. I cannoni del fumo, le luci stroboscopiche, l’apertura della botola sul soffitto piena di palloncini, e anche i generatori di intense luci UV come difesa contro i vampiri. Loredana spiegò loro che c’era anche il classico bunker anti-vampiro posizionato proprio sotto la piattaforma ed esattamente sotto ai bagni privati, le porte si aprivano manualmente e aveva un generatore di corrente proprio all’interno. C’era anche un modo per entrarvi attraverso i bagni che si trovavano nel backstage, ma Loredana non sapeva bene come, dato che non l’avevano mai usato.
Davanti a loro, il mito
L’uomo che più si avvicinava a un Dio, Frankie Wilde.
Dava loro la schiena, illuminato da dietro così da dargli una parvenza mistica, la sua sagoma alta e atletica come un’ombra sul mixer e sulla folla scalpitante e illuminata dalle luci. Dietro a lui, un quartetto di bodyguard, tre donne- le solite, enormi donnone che lo seguivano ovunque, vestite con canotte militari e cappellini da esercito- e uno in giacca e cravatta e dagli occhiali scuri.
Alex si abbassò su Shizuka per parlarle, ma lei non sentì nulla. Il DJ già stava provando le sue canzoni, tutto assorto nel fissare lo schermo del suo computer, che usava al posto delle orecchie, il volume già altissimo.
Alex evocò il suo stand senza nome, creando un altro paio di cuffie argentate, collegate con un cavo a quelle che portava lui sempre al collo, e se le infilò a sua volta. Le cuffie erano completamente insonorizzate!
“Mi senti?” chiese il ragazzo biondo, e Shizuka annuì. “Perfettamente! Non sapevo potessi fare anche questo!”
“Beh, posso fare un sacco di robe… col mio stand, intendo.” borbottò lui tutto imbarazzato, di nuovo. “Isolare i rumori o usare il sonar è quello più semplice. In realtà.. non so quante funzionalità abbia ancora.”
Ti capisco bene, avrebbe voluto dire Shizuka. Nemmeno lei sapeva fin dove il suo stand poteva spingersi.
“Sai cosa sta facendo Wilde? Controllando le vibrazioni emesse dal suo mixer. Lui ha perso l’udito, ma è capace di suonare lo stesso comprendendo che la musica è fatta di vibrazioni, e che il suono, davvero, non esiste. È un genio.”
Gli occhi di Alex risplendevano nelle luci stroboscopiche della discoteca, brillanti nell’ammirazione per quel DJ. 
“Anche tu riuscirai a controllare i suoni e le vibrazioni come lui, ne sono sicura.” gli rispose Shizuka, il cuore un po’ più leggero. Alex si voltò a guardarla, intontito. Non in molti credevano in lui così sinceramente. Le rispose con un sorriso.
Il DJ alla plancia sorrise e gridò qualcosa al pubblico, che scoppiò un un grido talmente rumoroso che i due ragazzi riuscirono a sentirlo anche con le loro orecchie completamente insonorizzate dallo stand senza nome di Alex.
Uno dei bodyguard, l’unico uomo, si strinse l’auricolare nero all’orecchio e corse via, forse per un emergenza, ma nessuno gli diede troppo caso, come ipnotizzati dal DJ e le sue movenze e le luci che si riflettevano come diamanti sulla sua pelle pallida e sudata. 
Il giovane Zeppeli decise di rendere la canzone di Wilde ascoltabile, anche se a volume molto più basso. Il concerto era iniziato con Hear No Evil, la sua prima canzone composta da completamente sordo, diversi anni prima. Shizuka e Alex esultarono.
Tuttavia, il clima felice e di festa durò ben poco.
“Non senti?”
“Sento cosa?”
Le cuffie di Alex respingevano quasi tutti i rumori, ma non del tutto. Il pubblico era diventato silenziosissimo.
“Le persone non stanno ballando!” osservò Shizuka, ma non era quello che Alex aveva notato.
Estrasse il suo stand- quello scatolone di metallo alto sui due metri, con due grosse braccia che fungevano da casse e zampette da ragno sotto lo scatolone principale, e attaccò le sue cuffie al corpo principale dello stand. Sullo schermo che fungeva da viso dello stand, apparvero delle linee spezzate a zig zag.
“La musica! Le onde sonore della canzone sono distorte in un modo strano!”
Alex si voltò ad osservare lo schermo del computer di Wilde, con cui suonava. 
Le onde non avevano la stessa forma. La frequenza era diversa!
Mentre i ragazzi parlottavano tra loro, tutti confusi, il bodyguard vestito di nero fece la sua comparsa dietro di loro, nello stage, dove si trovavano le casse.
Non aveva gli occhiali, e i suoi occhi erano rossi e luminosi e la sua pelle bianca come la morte.
Vide lo stand, e digrignò i denti, mostrando i canini bianchi sotto le sue labbra pallide.
“Non c’è più tempo, eh? Disco Inferno, vai!” ringhiò lui, e dalle sue mani si generarono delle specie di sticker, che si piegarono in aeroplanini di carta. L’uomo li lanciò contro di loro, ma Shizuka riuscì a scansarli con facilità. Alex ritirò il suo stand e cadde a terra, e gli aeroplanini planarono nell’aria, conficcandosi nelle casse principali, al fianco del DJ, che tremarono visibilmente.
Alex si premette le mani sulle orecchie, sopra le cuffie, e anche Shizuka quasi gridò dal dolore alle orecchie. Le casse, tutte assieme, avevano preso a fischiare a volume altissimo, dolorosamente.
Shizuka si sentì meglio quando Alex riuscì ad insonorizzare completamente le cuffie-stand, pochi secondi dopo l’attacco.
Ma avevano perso troppo tempo, perchè ormai erano circondati dalle bodyguard, dagli addetti ai suoni e luci e persino da Loredana, i loro occhi vuoti e le loro menti ipnotizzate da Disco Inferno.
 

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Capitolo 33
*** Capitolo 33 - Vendetta in Discoteca (parte 5) ***


Shizuka e Alex si misero schiena contro schiena, ad osservare la folla che si era formata attorno a loro.

I loro sguardi erano vuoti, velati, come se nessuno fosse dietro quegli occhi.

Eppure non erano zombie, non erano vampiri! I loro movimenti erano goffi, ma umani; i loro occhi erano vitrei, ma non rossi.

Shizuka prese un gran respiro, le sue mani dalle dita trasparenti per la paura si caricarono di Onde Concentriche, anche se non sarebbero servite comunque a niente, se si trattava davvero di esseri umani.

“Sembra gli sia stato fatto il lavaggio del cervello!” le sussurrò Alex, spingendo contro la sua schiena, ancora più terrorizzato di lei. Non era un ragazzo particolarmente coraggioso.

Una delle grosse bodyguard del DJ ringhiò, bava che colava dalle sue fauci come quelle di un animale. Un tecnico delle luci lanciò un grido disumano, sbattendo i piedi come un animale affamato.

“Questi sono i miei animaletti, Guerrieri.” disse il vampiro, i capelli neri laccati all’indietro e lo sguardo di scherno verso i due ragazzi della Banda. Era un uomo di bell’aspetto sui trent’anni, dal fisico possente e il viso curato, eppure tremendamente malvagio. “Eh sì! Il fratellino del Boss ha ragione. Il mio stand, Disco Inferno, è capace di manipolare le inferiori menti degli esseri umani, che non sono altro che animali che fingono di essere qualcosa d’altro. Non lo sono. Noi vampiri siamo la nuova frontiera dell’evoluzione.”

L’uomo si spolverò il completo bianco laccato, sospirando perchè si era sporcato di polvere. “Io tolgo quel finto velo di superiorità con cui si coprivano. Scopro i loro istinti animali, e li uso a mio vantaggio.”

“Li controlli attraverso le onde sonore sprigionate dalle casse della discoteca.” continuò Alex, che ormai aveva capito tutto. “Dobbiamo distruggere le casse, JoJo!” fece il giovane Zeppeli alla ragazza al suo fianco, che non lo stava ascoltando e si mise un braccio dietro la schiena.

“Ehi, tu!” gridò il vampiro, indicando Shizuka. “Togli la mano da lì dietro, o vi faccio sbranare istantaneamente dai miei animali!”

Shizuka, lentamente, tirò indietro il braccio, ma troppo tardi il vampiro si accorse che Shizuka non aveva messo il braccio dietro la schiena, bensì aveva fatto diventare l’avambraccio invisibile. Con un veloce movimento dell’arto invisibile, Shizuka tirò qualcosa in pieno viso al vampiro, che quasi cadde all’indietro dalla sorpresa. Nulla l’aveva colpito, ma qualcosa era davvero rimbalzato contro la sua faccia, causandogli un gran dolore.

A terra, ora di nuovo visibili, caddero un paio di centesimi, ancora ricoperti di scariche di Hamon.

Shizuka diventò completamente invisibile, pensando che fosse il suo gran momento. Rotolò tra le gambe delle persone attorno a loro, fece per correre verso la scaletta che portava alle casse dietro alla plancia da DJ, ma il tecnico delle luci si buttò su di lei, mentre gli altri tendevano le orecchie, acquattati ora a quattro zampe come un cane. Shizuka schivò per un pelo l’uomo, cadendo a terra. Quando era ferma, era completamente inarrivabile. Quando si muoveva, il rumore che i suoi passi facevano attirava gli uomini-animali.

Cosa poteva fare?

“Alex, mi senti?” chiese Shizuka, occhi stretti e concentrata a parlare in via telepatica grazie agli stand. Sapeva farlo, ma non era molto brava. Non aveva mai avuto un gran bisogno di farlo, se non per fare qualche battutina con suo padre o le sue amiche.

“Sì.” rispose il ragazzo, che sembrava più abituato. “Dove sei?”

“Vicino ai bagni, non mi sono allontanata molto. Sentono quando cammino.”

Shizuka rimase immobile, osservando da lontano Alex e il suo grosso stand metallico mentre il gruppetto di persone-animali si disperdeva attorno a lui, alla ricerca di Shizuka.

“Dobbiamo prima sbarazzarci delle persone-animali, e poi ci occuperemo delle casse, e infine del vampiro.” continuò Shizuka.

“Tu… tu sei diventata invisibile, e non riesco a vederti nemmeno con la visione termica.” disse il vampiro, tutto ad un tratto serio, uno sguardo di puro odio nel viso ferito. “Come ha detto Zaccaria, quella notte sull’argine.”

Un attimo di silenzio, prima che il suo viso affascinante si trasformasse in una maschera d’odio, solo vagamente umana, talmente disfigurata dalla rabbia da far paura. “Tu hai ucciso Zaccaria, stronza! Sei stata TU!”

Shizuka realizzò che lui doveva essere il “partner” con cui stava parlando al telefono! Come si chiamava? Manero!

“E c’eri anche tu, fratello minore del capo della Banda, e anche la stronza col potere del ghiaccio! Animali, ammazzatelo, sbranatelo! Vendicate Zaccaria!” gridò Manero, fuori di sé dalla rabbia ormai.

“Alex, fai una qualche sorta di onda sonora! Sbrigati!” gli gridò Shizuka, osservando senza poter agire il ragazzo venir chiuso in una folla ancora più stretta attorno a lui.

“Che tipo?!”
“Che ne so! Una! Sbrigati!”

Alex si strinse al suo stand freddo e di ferro, iniziando a ragionare. Animali, ha detto il vampiro. Anche attraverso le cuffie-stand che portava alle orecchie, sentiva che le onde sonore che provenivano sia dagli altoparlanti, sia dalla voce di Manero erano… sbagliate. Strane. E gli uomini-animali reagivano a quelle, come…

I fischietti per i cani!

Erano onde animali, onde sonore non rilevabili dall’orecchio umano!

E così Alex comandò, appoggiandosi al suo stand con la fronte e occhi serrati, di lanciare un’onda acustica più alta rispetto allo spettro udibile dall’essere umano.

Il suono che partì dal suo stand non fu così alto, ma abbastanza acuto e forte da perforare i timpani di tutti i presenti.

Gli uomini-animali caddero a terra storditi, sembrando dall’udito molto più delicato che una persona normale, e così fece Manero, il cui finissimo udito vampiresco non aveva aiutato molto.

Shizuka e Alex furono i più fortunati, ma quel suono fece male anche a loro, benchè indossassero cuffie insonorizzate.

What the FUCK was that, you wanker!” gridò Shizuka, dimenticandosi anche che lingua doveva parlare.

“Scusa! Io… volevo provare a creare un’onda sonora sopra lo spettro udibile! Credo siano quelle che usa Disco Inferno!”

Shizuka si riprese quasi istantaneamente grazie al sangue vampirico, ma anche Manero fu svelto a rimettersi in piedi, alla ricerca di Shizuka. 

Se solo il suo stand fosse servito a qualcosa.... 

Ripensò alle parole di Alex. Onde sonore sopra lo spettro udibile umano, udibili però dagli animali. Gli esseri umani avevano anche uno spettro visibile, colori che le persone non vedevano, ma gli animali sì.

Ricordò di una stranamente calda giornata inglese, di una farfalla che girava attorno ad un fiore. Era piccola, non sapeva ancora usare bene quello stand con cui era nata, e, maneggiando un po’ con i suoi inseparabili occhiali da sole, era riuscita a trasformarli in una sorta di visori di colori ultravioletti o infrarossi, non sapeva bene. E davanti a lei, un nuovo mondo aveva aperto i battenti: i fiori erano colorati di mille colori che non esistevano, e la farfalla vi era così attratta da non poter far altro che volarci attorno, e anche Shizuka, ora che riusciva a vederlo, non avrebbe più voluto distaccarvi lo sguardo.

Sì, quel vecchio ricordo le sarebbe servito utile, ora.

Toccò le lenti dei suoi nuovi occhiali da sole, cercando di riprodurre ciò che aveva fatto anni e anni prima.

E, davanti a lei, quel mondo di colori alieni ricomparve.

Manero ne era ricoperto, e così era il soffitto proprio sopra il pubblico, che non stava esultando per il DJ che continuava imperterrito a suonare i suoi pezzi, ma stavano alzando le mani al cielo per raggiungere il soffitto!

Purtroppo, osservando il DJ che ancora era intento a seguire lo schermo del suo computer e girare i dischi, notò che diversi bottoni sulla plancia erano colorati.

Notò che il pattern sul soffitto e sulla plancia era diverso da quello sul vestito bianco di Manero, e i colori erano diversi- anche se Shizuka non avrebbe saputo dire quali colori fossero.

Shizuka si guardò attorno, notando la porta spalancata del bagno. 

Era un piano folle, ma doveva provarci!

Il suo stand sarebbe contato qualcosa, lei avrebbe finalmente salvato la situazione!

Shizuka si alzò in piedi, concentrandosi il più possibile nel riprodurre il patten del soffitto, il pattern sui petali del fiore anni prima, a rendere il suo corpo, da invisibile a ricoperto di colori infrarossi e ultravioletti.

Quando gli uomini-animali si voltarono a fissarla, la bava alla bocca, seppe di aver fatto centro.

“Alex!” gridò Shizuka, iniziando a muoversi all’indietro, attirando quelle persone che non ragionavano più come tali. “Proteggi il DJ! Continua con quei suoni!”

“Dove vai?!” le gridò lui, il terrore negli occhi, ma Shizuka non fece in tempo a rispondergli, perchè l’orda di persone-animali le fu addosso in pochi istanti.

Shizuka scartò indietro, e si mise a correre, entrando nel bagno. Gli uomini-animali la seguirono, e da dentro il bagno un rumore sordo e pesantissimo rimbombò per tutta la discoteca, sotto lo sguardo disperato di Alex e sconvolto di Manero.

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Capitolo 34
*** Capitolo 34 - Vendetta in Discoteca (parte 6) ***


 

“JoJo!” gridò Alex con tutta l’aria che aveva nei polmoni, inutilmente. Shizuka non gli rispose. Cosa le era successo? Cosa le avevano fatto le persone-animali?

Quando Manero si mosse verso Alex, lui lanciò un’onda sonora ancora più alta di prima, che fece ancora inginocchiare Manero dal dolore. “Basta! Fatti ammazzare e basta, che cazzo!” gridò l’uomo vampiro, davvero stanco di quei giochetti.

Il suo lavoretto avrebbe dovuto essere veloce e indolore.

“Continua con questi suoni quanto vuoi, ma ormai il mio piano è concluso!” disse lui, alzandosi in piedi di nuovo. Indicò dietro Alex, il DJ. 

“Con Disco Inferno, ho colorato un tastino speciale della plancia, quello che apre la botola sul soffitto, e di solito rilascia coriandoli o palloncini. Di solito, perchè stavolta è pieno zeppo di maschere.”

Maschere?!

Alex fece l’errore di voltarsi a guardare il soffitto, che Manero scattò in avanti, bloccando Alex a terra.

Strinse le mani sulla gola dello Zeppeli, i canini affilati che spuntavano dalle sue labbra con una luce malefica. “Berrò il sangue del fratellino del capo della Banda, e diventerò il vampiro più forte di tutti, mi piazzerò in una posizione più alta persino di Armir ed Etna! Spero che i miei animaletti non abbiano perso troppo sangue della tua amica Joestar, il Padrone ha piani più importanti per lei…”

Alzò la testa, osservando la schiena del DJ, a pochi metri da lui. “DJ! Ora! Premi quel tasto!”

Ma nulla cambiò.

“DJ! Cazzo, ubbidisci, sporco animale!”

Prima che potesse rendersene conto, le mani di Alex, ricoperte di Onde Concentriche, si premettero sulle sue spalle, tenendolo in posizione. Dal nulla, qualcosa come una pedata lo colpì in pieno viso, la pelle che iniziò a fischiare e bollire come una teiera bollente di té.

Come dal nulla, Shizuka era riapparsa, e aveva spinto Manero lontano, contro la ringhiera che delimitava il limite della pedana.

“Sei viva!?” chiese Manero, tenendosi il volto e il collo ustionati.

Shizuka gli sorrise, nemmeno un graffio su di lei.

Quando era corsa nel bagno prima degli altri, aveva avvertito un vuoto sotto ai suoi piedi. La botola per scendere nel bunker anti-vampiro.

Prese tutta la forza che aveva in corpo in quel momento di disperazione e, con un grido di guerra che assomigliava non poco al DORAH di Crazy Diamond, sfondò con un pugno il pavimento. Sentiva la sua mano completamente ricoperta di qualcosa, ma non onde concentriche.

Il suo stand fisico.

Come sospettava, cadeva per un paio di metri nel vuoto nel bunker anti-vampiro.

Aspettò lì, immobile, che gli uomini-animali la raggiungessero. Un istante prima che la potessero afferrare si lanciò in aria, aggrappandosi ai neon sopra di lei, e sopra il buco nel pavimento che aveva causato col suo stand. Gli uomini-animali non avevano più capacità logiche, dunque continuarono ad allungarsi verso di lei, e a cadere nel buco.

Quando anche l’ultimo cadde, ritornò coi piedi per terra e di nuovo invisibile, e ora era lì, ad aiutare un Alex adorante a rialzarsi da terra.

“Sei proprio scemo, vero?” chiese Shizuka, fin troppo sicura di sé, e anche Alex sorrise.

Manero tornò infuriato come prima, rialzandosi in piedi, confuso tanto quanto arrabbiato. Ed era parecchio arrabbiato.

“Hai scelto proprio la serata sbagliata, per questo tuo piano.” sorrise Alex, massaggiandosi il collo dolorante.

“Non conosci la storia di Frankie Wilde, il leggendario DJ sordo?”

Manero cambiò completamente espressione. La rabbia era colata giù dal suo viso come olio, lasciando la disperazione più totale sul suo viso. “Sordo? Vuol dire che…”

In un istante, Manero fu sui due ragazzi, che si erano dimenticati di avere davanti un vero e proprio vampiro, dotato di stand e dalla forza sovrumana, e loro due erano solo due allievi.

“...dovrò uccidere tutti e tre!” e colpì Shizuka con un pugno nello stomaco che la fece rotolare diversi metri indietro, sbattendo con la nuca contro la plancia del DJ, sentendo le caviglie dell’uomo premergli contro la schiena.

Oi, you alright?

Il tempo sembrò fermarsi.

Wilde si era accorto di tutto.

Manero stringeva ancora il bordo della canottiera di Alex, che scoppiò a piangere non appena Wilde aprì bocca- lacrime di tensione, paura e ora anche perchè il suo idolo gli stava parlando!

Tu, che cazzo stai facendo a questi ragazzini?” Continuò Frankie Wilde, sempre esprimendosi in inglese, prima di inginocchiarsi su Shizuka, tenendole una spalla.

Shizuka sapeva cosa doveva fare. Si coprì il viso con le mani e scoppiò in un pianto fragoroso e lucidamente studiato, per poi svelare il viso al DJ, e rivelare un volto tumefatto e sanguinolento, creato col suo stand.

Quell’uomo…!” pianse Shizuka, parlandogli in un inglese perfetto dal forte accento di Liverpool. “Io e il mio amico eravamo qui a sentire la tua musica- siamo tuoi grandi fan- e quell’uomo ci ha…!” e un singhiozzo fermò la sua pantomima.

Frankie, gli occhi azzurri che pungevano come il ghiaccio, rimase a fissarla. Non stava credendo a una singola parola di quello che aveva detto? Il suo sguardo era tremendamente gelido e sembrava perforarla da parte a parte, in un modo strano, non normale, vederle attraverso come se lei fosse ancora invisibile.

“Ci penso io. Sta’ tranquilla.” le rispose lui, il viso lentigginoso che si ammorbidì in un sorriso.

Shizuka parve più confusa di lui, e pensò sarebbe dovuto essere il contrario. Si chiese se Frankie Wilde fosse davvero stato ignaro per tutto questo tempo di ciò che gli stava accadendo alle spalle, o se solo stesse aspettando il momento giusto.

Manero mollò a terra Alex, che strisciò lontano dal vampiro, vicino a Shizuka. La pancia le faceva ancora male, e Alex aveva dei graffi sul collo, dove il vampiro aveva ancora cercato di prendergli il sangue.

“Tu sei quel bodyguard offerto dalla discoteca, uh?” continuò il DJ, schiacciando Manero contro la ringhiera. “Scommetto che non lavori nemmeno qui. Dove sono le mie ragazze di guardia?”

Manero gli sorrise, non intenzionato a rispondergli, ma facendo finta di trovare le parole giuste. Allungò una mano verso di lui, aggrappandosi alla canottiera dell’uomo londinese, cercando di trascinarlo verso di sé, i canini esposti. Le sue unghie si scavarono una via nella pelle del costato dell’uomo, sentendo il suo sangue, bollente, incredibile, potente...

Qualcosa lo colpì di nuovo in viso, questa volta era una scarpa.

Shizuka, una scarpa sì e una no, si era alzata in ginocchio per colpirlo.

Cosa voleva fare quella ragazzina? Sarebbero morti tutti e tre in pochi minuti. Alzò un braccio per colpirla, ma il Dj, con una forza che non credeva che un inferiore essere umano potesse avere, fermò il suo polso a metà strada, per aria, prima che potesse colpire la Shizuka.

Si accorse solo in quell’istante che la sua mano, e il suo braccio e i suoi vestiti e tutto il suo corpo era ricoperto da pattern strani, colori mutevoli- colori infrarossi e ultravioletti! Shizuka aveva ricoperto la propria scarpa del suo stand, e, dato che le bastava toccare qualsiasi cosa per renderla invisibile o trasmettere l'invisibilità, aveva fatto lo stesso con le frequenze di colore.

Si voltò verso l’uomo che gli stava ancora saldamente tenendo il polso, e lo stava spingendo sempre di più verso il baratro, la ringhiera che gli premeva contro la spina dorsale, le persone-uomini metri sotto di lui che fremevano nel vederlo ricoperto di quei colori che Disco Inferno aveva reso così interessanti per loro.

Wilde, le luci stroboscopiche dietro la testa a generargli una sorta di aureola attorno agli spettinati capelli rossi e gli occhi azzurri che sembravano andare a fuoco nelle luci soffuse della discoteca, gli sembrò meno umano e inferiore che mai.

“È ora del tuo giudizio.” disse solo Frankie Wilde, prima di sollevarlo di peso e scaraventarlo giù dalla balaustra, mentre mani fameliche lo trascinavano nella folla e lui gridava, disperato, e si aggrappava a tutto e tutti per non essere fatto a pezzi dalle bestie che aveva creato lui stesso.

Shizuka e Alex rimasero a guardare il mucchio di persone-ma-non-proprio sopra quello che doveva essere rimasto di Manero affollarsi e poi dissiparsi pian piano, e poi ognuno di loro riprendersi pian piano, parlare tra loro, tornare umani.

La porta del bunker si aprì, le bodyguard e i tecnici che uscivano sani e salvi ma estremamente confusi.

Frankie si voltò verso i ragazzi, un sorriso misterioso sulle sue labbra sottili. “Bel lavoro. Aspettatemi nel mio camerino, ho uno spettacolo da riprendere. Ci vediamo dopo.”

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 35 - Vendetta in Discoteca (parte 7) ***


 

“Sai quando è tornato, dopo essere diventato sordo, qualche anno fa? E aveva detto god is again among us, o qualcosa del genere? Magari non scherzava. Magari è davvero Dio!” borbottò Shizuka, infilandosi in bocca un’altra pastina, un dolcetto di pasta sfoglia, dalla grossa teglia che il comune di La Bassa aveva regalato al DJ e piazzato nel suo camerino. Alex la fissava poco convinto. “Ma valà… Smettila di mangiargli i dolci!”

Alex non sembrava felice quanto Shizuka, che era su di giri. Aveva sconfitto il suo primo vampiro quasi da sola, aveva scoperto altre potenzialità del suo stand, e aveva incontrato un VIP che sognava di vedere da anni e anni, e ora lo stava aspettando nel suo camerino personale!

“E perchè dovrei smettere? Ce li siamo meritati. Tieni, mangiane uno anche tu, sono buonissimi!” e Shizuka gliene porse uno, ma Alex non si allungò per prenderlo. Rimase seduto sulla sedia ricoperta di paiette e un po’ ridicola, le mani tra le ginocchia e la testa china. Aveva ancora dei graffi rossi sul collo, e qualche escoriazione sulle braccia scoperte, ma quello che più colpì Shizuka era il suo sguardo, spento e rattristito.

“Non lo merito.” rispose, i capelli biondi scompigliati sul viso. 

“Non ho saputo usare nemmeno una singola Onda, non ho saputo usare il mio stand, sono stato fermo a piagnucolare e basta-!” sputò Alex, trattenendosi sul finale per non scoppiare a piangere.

Era questo quello che lo affliggeva? Shizuka non era un granchè empatica, ma in quel momento, le dispiaceva davvero per il ragazzo. Coi giorni si era creato una sorta di legame tra i due, forse nato proprio quel giorno alla scuola, e Shizuka si sentiva in dovere di farlo sentire meglio, per un motivo o per l’altro.

“Ti prego… non dirlo a mia sorella.” continuò Alex. “Non dirle quanto sono stato patetico e inutile…”

Shizuka si alzò in piedi, abbandonando il pouf morbido pieno di sabbia su cui era affondata per piantarsi in piedi davanti ad Alex. “Sei davvero uno scemo! Non capisci che se sono viva è grazie a te?! Il tuo stand è potenzialmente un portento, tu sei forte, l’Hamon che hai ereditato è potente, ma- ma non credi in te stesso! Liberati! Vola!” 

Vola?”

Questa volta, quella in difficoltà era Shizuka. Come avrebbe dovuto spiegarglielo?

Si sedette di nuovo sulla poltroncina morbida, rubando un’altra pastina. “Sai, quando mi hai trovato all’Ospedale in Golena, tu e Regina quella notte? Io ero scappata dall’hotel, perchè… un angelo in un sogno me l’aveva detto!”

“Un angelo?” ripetè ancora Alex, in quel modo sognante e confuso che aveva ogni volta che non capiva qualcosa.

Shizuka ricordava poco di quei sogni, e quasi ogni volta se li dimenticava appena sveglia, ma qualche ricordo le rimaneva ben piantato nella memoria, o riaffiorava più avanti, quando ne aveva bisogno.

“Massì! Era questo angelo dorato che mi ha detto che mi erano state date delle ali, e con quelle avrei dovuto volare, ma dovevo imparare a sbatterle. Le ali devono essere il sangue di mio nonno che contiene l’Hamon, e imparare a sbattere le ali è imparare ad usare i miei nuovi poteri. E volare è… essere libera, essere mia stessa! Essere leggera, forte, sfogare i miei veri poteri, e tu devi fare lo stesso! Fregatene di cosa dice tua sorella, anche se è il boss. Sii te stesso, e fregatene di cosa gli altri si aspettano da te.”

Alex sospirò. “È più facile a dirsi che a farsi, JoJo. Mia sorella maggiore è il Boss della Banda, mio cugino Nestore aveva da solo scoperto le rovine dell’Uomo del Pilastro e il Manimantio, mia nonna è Medea Zeppeli, colei che ha rivoluzionato l’uso delle Onde Concentriche, e il mio antenato, il conte Zeppeli di Castel Paradiso del Garda, è stato il più forte guerriero mai esistito… e io? Cosa sono, io?”

Shizuka si allungò e prese con forza una mano di Alex, stringendola nella propria, piccolina ma piena di energie. “Tu sei Alex Bennutti, e hai appena salvato assieme a me un’intera folla e il Dj da un fortissimo vampiro!”

Alex si lasciò scappare un flebile sorriso, stringendo appena la sua mano. 

“Grazie, JoJo. Vorrei avere la tua stessa forza d’animo…”

“Oh! Ho interrotto qualcosa?” fece una voce, dal pesante accento londinese. Come apparso dal nulla, silenzioso come un felino a caccia, ecco Frankie Wilde sull’uscio, il DJ che aveva appena finito di fare il suo concerto e il proprietario del camerino. 

Era sudato fradicio, i capelli rossi appicicaticci sulla fronte e la matita nera colata dagli occhi azzurro ghiaccio, dandogli un’aria vagamente spettrale, accentuata- se possibile- ancora di più dalla canottiera sudata e fradicia attillata sul corpo atletico, e strappata e macchiata di sangue appena sotto le costole, dove Manero aveva cercato di dissanguarlo.

Wilde ridacchiò, notando Alex che ritirava violentemente la mano da quella di Shizuka e arrossiva furiosamente. 

Sempre silenziosamente, si incamminò alla sua poltrona, che sembrava davvero più un trono che altro- grossa e massiccia, di un velluto rosso vivo e incastonata di smeraldi, che producevano piccoli arcobaleni ogni volta che venivano colpiti dalle luci del grosso specchio appeso alla parete, e si mise a fissare i due ragazzi, che lo guardavano un po’ intontiti.

Cosa dici, a una celebrità del genere?!

“Non fate quelle facce! Volevo solo ringraziarvi.” continuò l’uomo, facendosi aria con una brochure turistica di La Bassa trovato sul bancone lì vicino. “Siete davvero stati fenomenali. Superlativi! Quell’uomo… beh, non era un uomo vero e proprio, non è così?”

Shizuka e Alex si scambiarono un altro sguardo, questa volta di panico. Avrebbero dovuto rivelargli il segreto dei vampiri, potevano farlo? La Fondazione Speedwagon, assieme alla Banda, non avevano il ruolo di mantenere vampirismo e stand un segreto alle masse, al normale popolino?

Ma, del resto, Frankie Wilde poteva essere considerato un uomo normale?

Fortunatamente, Loredana e il manager del locale entrarono nella stanza in quel momento, tutti affiatati. “Oh! Siete qui!” fece lei, a sua volta un po’ intimorita dal DJ che li osservava dall’alto del suo trono di diaspro e smeraldi.

“Voi siete i giovani apprendisti della Banda, vero?” chiese il manager, un uomo dai capelli sale-e-pepe dalla carnagione abbronzata, ma ora completamente smunto e sbiancato dalla tensione. “Avete sconfitto voi il vam- ehm.. l’uomo pericoloso di prima?”

Alex e Shizuka annuirono, e il ragazzo, prendendo un gran respiro e raccogliendo tutto il coraggio nel suo grosso corpo, si mise a rispondere da solo. “Sì, io… Io sono Alex Bennutti, il fratello minore del Boss. Manero, quell’uomo, stava progettando una strage qui in discoteca- e ha detto che c’è qualcosa di molto pericoloso nel soffitto! Dovete subito chiamare la Banda e mia sorella, perchè persone specializzate si occupino di quel carico pericolosissimo!”

Shizuka sorrise ad Alex, che arrossì ancora, ma mantenne il contato visivo. Era addirittura riuscito a dire ad alta voce un paio di frasi complete, senza quasi mai balbettare!

Il gestore sembrò un po’ meno sollevato, ma non meno pallido. Ringraziò, si scusò, e corse fuori, ordinando a Loredana di chiamare immediatamente al telefono la Banda, e la ragazza, affrettandosi a seguirlo ad ampie falcate, rispose che lo avrebbe subito fatto.

La Banda…” sussurrò Frankie Wilde, che era rimasto lì ad apprendere le loro parole e a leggere il loro labiale durante quella conversazione. “Per tutto il tempo che ho passato in questa stramba cittadina, mi è stata menzionata spesso. La Banda. E voi ne fate parte?”

“Ehm… sì, siamo apprendisti. La Banda delle Onde Concentriche è un’importante associazione qui a…” iniziò Shizuka, ma Wilde la stava guardando dritta negli occhi, senza degnarsi di leggerle le labbra.

“Un’associazione paranormale che si occupa dei vampiri e superpoteri, innit? Come quello che ci ha attaccati prima.”

Shizuka spalancò la bocca, esterrefatta. E lui come faceva a saperlo?

“Voglio aiutarvi, anzi! Voglio farne parte! Fin da bambino sapevo che queste robe esistevano davvero, soprattutto per le strade di Londra!” continuò l’uomo, battendosi un pugno sulla mano, con un sorrisone a scoprire i denti d’oro e d’argento. “Vi serve un patron, vero? Qualche strambo riccone che finanzi le vostre ricerche, o i vostri combattimenti? Beh, eccomi!”

Il suo tono si fece un po’ più serio, ma c’era sempre pura elettricità nella sua voce. “E magari potreste migliorare nei vostri superpoteri- se così sono. Potrei insegnare al biondino a usare meglio le onde sonore- chi meglio di me?- e a te a muoverti senza far rumore. Che ne dite? Ci state, per questo scambio?”

Shizuka e Alex si guardarono negli occhi, stringendo i pugni, ancora più spaventati ora che contro il vampiro.

Chi avevano davanti? Chi era, davvero, Frankie Wilde, e cosa sapeva di tutta quella storia?

“Tu cosa vuoi, in cambio?” gli chiese Shizuka, e Wilde sorrise, il suo sguardo raggelante.

“Voglio volare.”

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 36 - Noi e loro, io e te (parte 1) ***


Il rumore delle ruote metalliche degli skateboard e le scintille dell’Hamon che le faceva girare a tutta velocità erano gli unici suoni nel tetro e innaturale silenzio in cui La Bassa era caduta quella notte.

Non era normale, nemmeno per gli standard della grossa e desolata La Bassa.

“Mai più niente è stato normale, da allora?” chiese Ludovico all’amica d’infanzia e capo, una domanda retorica. Indicò con un cenno della testa la sagoma della grande Age of Plastic, la fabbrica più ricca e grande della città. 

I quattro camini eruttavano continuamente fumo nero, da mattina a sera, e gli operai, chimici e ingenieri che vi lavoravano non erano mai più tornati a casa dal 2013, per “tenerli al sicuro nei confini della fabbrica”, dicevano i comunicati.

Balle, e Zarathustra lo sapeva bene. I suoi genitori mancavano da casa da cinque anni, e tutti i tentativi del comune e della Banda di installare le grate anti-vampiro attorno ai cancelli della fabbrica erano falliti, negati dall’imprenditore proprietario della fabbrica. Per tutti gli altri cittadini era stato imposto, ma la fabbrica poteva scegliere. Beh, gli altri cittadini non avevano quella relazione col sindaco come quell’imprenditore aveva, del resto.

No, niente era più stato lo stesso da allora.

Zarathustra era abituata alla follia, ormai, ma quella serata rasentava il normale.

Pressò il piede sul suo skateboard nero e giallo, scintille oro e argento che partirono dalla suola delle sue scarpe- Sunlight Overdrive per dare potenza e far muovere le ruote dello skateboard e Silver Overdrive per trasmettere meglio l’energia attraverso i cavi in manimantio.

Gli skateboard che si muovono da soli grazie alle Onde Concentriche e i vari overdrive erano il mezzo di trasporto migliore per i guerrieri dell’Hamon, inventato diversi anni prima da Nestore Bennutti, il geniale cugino di Zarathustra e Alex, quando era ancora vivo.

Prima che Minerva lo abbandonasse al suo destino, oltre i cancelli della Age of Plastic.

“I vampiri si stanno nascondendo, o forse si stanno radunando da qualche parte. All’ultimo generatore, quello della periferia nord non c’era nessuno, ma forse perchè sapevano sarebbe stato il primo che avremmo controllato, dato che nella periferia nord ci abitiamo noi.” borbottò tra sé e sé Ludovico, facendo compiere piccoli e pigri slalom al suo lungo skateboard viola e argentato. “Al mercato tutto ok, come ci hanno riferito Annalisa ed Enrico… dalla discoteca Vaca’d Maìn, tuttavia, non sono ancora giunte notizie. Dici che JoJo e Alex…?”

“JoJo ha dimostrato di essere un’ottima allieva, le sue onde si stanno sviluppando a una velocità elevata, e sono molto forti. Inoltre sta prendendo sempre più il controllo del suo stand, sono sicura siano entrambi al sicuro, qualsiasi cosa succeda.” rispose fredda Zara, sotto lo sguardo contrariato di Ludo.

“E Alex?”

Zarathustra tenne lo sguardo fisso davanti a sé. “Non è ancora all’altezza. Ha una buona chimica con JoJo, con qualcuno di forte e testarda come lei al fianco non dovrebbe fare la fine di Nestore o Camilla o Sid.”

“Dovresti credere un po’ di più in tuo fratello.” la rimbeccò Ludovico, uno strano tono preoccupato nella voce. “Non crescerà mai se tu continui a non dargli nessuna possibilità, e non credere in lui!”

42, all’occhio destro di Zarathustra, si illuminò di un rosso intenso nel buio della notte labassese. 

“Vampiri.”

“Mi stai ignorando o stai cercando di cambiare argomento?!”

“Ci sono dei vampiri, al generatore del quartiere Alipranda. Tanti. Stanno attaccando qualcuno.”

“Qualcuno?!”

Zarathustra si voltò a guardare l’amico e vice, più con una smorfia di risentimento che di fretta del salvare delle vite. “Qualcuno, Ludovico.”

Entrambi generarono le scosse arancioni del Sunset Overdrive, massimizzando, grazie al magnetismo che quell’overdrive creava, la velocità dei loro skateboard e, quando un lampione si spense, capirono che la faccenda era grave.

Zarathustra impennò il proprio skateboard, e in un’esplosione di fortissime scariche elettriche saltò in aria, evocando il proprio stand, 42, alle sue spalle, le mani irte di spine incoccate e pronte a far fuoco su quell’ammasso di vampiri e persone che cercavano di combatterli, nel buio più buio, mentre tutte le luci si spegnevano.

Ludovico evocò il suo Black or White a distanza di sicurezza, la sua ombra si allungò fino a dove le persone si stavano schiacciando, in un angolo. C’erano degli uomini a terra, uno stretto in un cappotto blu sembrava a malapena vivo e troppo pallido, alcuni erano ricoperti di sangue e botte. 

“Saltate dentro l’ombra, vi porto in salvo!”

Sperando non sia troppo tardi, si trattenne dall’aggiungere Ludovico.

Un paio di occhi dorati brillarono con terrore nella notte, sotto l’occhio rosso brillante di disprezzo di Zarathustra.

“Minerva Matuzia… ma lo fai apposta a metterti nei guai?”

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Capitolo 37
*** Capitolo 37 - Noi e loro, io e te (parte 2) ***


Vi devo delle spiegazioni, e delle scuse. Vi andrebbe di venire a cena da me, a casa mia? Oggi è festa.
Così aveva scritto loro Minerva, qualche giorno dopo gli avvenimenti al Museo Archeologico di La Bassa. 
Nessuno sapeva di cosa si sarebbe dovuta scusare, in fondo l’attacco al museo da parte di quei due vampiri non era stata colpa sua, no?
“Vuoi vedere che c’entra davvero?” ringhiò Josuke a denti stretti, lo sguardo fisso su Okuyasu, che invece non lo guardava. Minerva aveva mandato a lui il messaggio per invitare tutti loro alla cena- ma non era così sicuro che Minerva volesse invitare tutti, o solo Okuyasu.
Josuke sentiva la competizione della donna su Okuyasu, competizione che non aveva mai sentito di avere su di lui- chi avrebbe mai voluto Okuyasu, pensava Josuke? Eppure, qualcuno c’era.
“Smettila, Josuke.” lo zittì Yukako, che era ancora più nervosa e il suo tono era ancora più duro di quello di Josuke. La ciocca bianca tra i suoi capelli si era allargata, e benchè lei provasse a nasconderla sotto la restante folta massa di capelli neri.
“E se lo fosse?” bisbigliò Koichi, le occhiaie sempre più neri sotto gli occhi perennemente stravolti in un’espressione di terrore.
“Non lo è! Basta!” gridò Yukako, spaventando tutte le poche persone rimaste nella hall dell’hotel Colori del Tramonto. “Io vado a cambiarmi, fatelo anche voi.” e detto ciò, in un impeto di collera, girò i tacchi e quasi corse su per le scale.
Perchè erano tutti così diversi, lì a La Bassa?
Cosa stava succedendo loro?
“Il dieci marzo è una data importante, qui a La Bassa?” chiese Jotaro con un filo di voce a Minerva, che aveva fatto parcheggiare la loro auto a noleggio sul retro della villetta in cui abitava.
Era una bella casetta monofamiliare, ma ci viveva solo lei. Il giardino non era particolarmente curato, e non c’erano molti addobbi decorativi attorno alla casa- solo lo stretto necessario. Muri perfettamente bianchi, ma spogli. Imposte di un colore neutro. 
“Ah- sì.” Rispose Minerva, che, ogni volta che le si rivolgeva la parola, sembrava sempre stupita. “Sì, oggi è la ricorrenza di una storica battaglia. La città fu rasa al suolo, e il castello con lei, ma la torre rimase in piedi, e, come una fenice, la città risorse dalle sue ceneri. Oggi è la Notte delle Fenici.”
Nel cielo scuro di La Bassa- non così scuro, dato che tantissime luci UV anti-vampiro erano accese per la città- piccole mongolfiere di carta svolazzavano, esibendosi in coreografie infuocate. Tante piccole fenici.
La casa, all’interno, non era così dissimile dall’esterno. Una casa spoglia, arredata come un catalogo dell’Ikea, mobili squadrati e dai colori spenti, nessun quadro alle pareti, anche se, appesi a quei muri bianchi, c’erano i segni di chiodi passati.
“Un po’ freddina come casa, eh?” sorrise Okuyasu a Minerva, che alzò le spalle, cercando di rimanere la più distaccata possibile. “Io sono raramente a casa e non ci abita più nessuno ormai, non ho interesse a renderla confortevole.”
“Hai famiglia?” le chiese Yukako, mentre si radunavano attorno a un tavolino di marmo, in un grosso open-space che da un lato faceva da sala da pranzo, e dall’altro una cucina vera e propria.
Sul tavolo, erano adagiati diversi antipasti labassesi, tra cui cicciole, schiacciatine e fette di salame casalino. 
“Sì… in un certo senso. Vado abbastanza d’accordo con i miei, ma con mio fratello… io…. ehm, mia figlia studia e non abbiamo un buon rapporto, e mio marito… non c’è più.”
Koichi sgranò gli occhi, e Yukako non si scompose più di tanto. “Oh, mi dispiace.” fece, senza scusarsi davvero. Non era davvero dispiaciuta di averle fatto un paio di domande. 
Minerva tirò un sorriso, negando forte con la testa, l’unico lungo ciuffo di capelli viola che ricadeva dall’alto chichon in cui erano stretti i suoi lunghissimi capelli che si mosse con lei. “Non scusarti. Sono passati tanti anni, nostra figlia era piccola. Faceva il pittore… ho ancora il suo dipinto non finito di nostra figlia, in cantina.”
Okuyasu, che quella sera per l’occasione aveva i capelli sciolti e solo i capelli neri raccolti in una treccia, toccò un braccio di Minerva. “Meglio se parliamo di cose più leggere! Loro due hanno due figli, due pesti- ma sono molto carini!” sorrise, e al pensiero dei figli, il viso degli Hirose si riempì di luce. Koichi tirò fuori il cellulare e mostrò tutte le foto di Manami e Tamotsu a Minerva, il cui sorriso le si allargava sempre di più a ogni adorabile foto di famiglia che Koichi teneva religiosamente da parte sul telefono.
“Ci mancano tanto.”
“Oggi Manami ha detto di aver scritto un tema su di noi! “Mamma e papà sono dei supereroi!” Non è adorabile?”
“Anche tu hai una figlia, Jotaro, vero?” chiese Minerva, ora più calorosa ed espansiva. “La ricordo, cinque anni fa. Una bella peperina, vero?”
Jotaro, che stava mangiando gli antipasti in silenzio, alzò appena lo sguardo su Minerva, il suo viso si rilassò un po’. “Jolyne. Ha 26 anni, ora. E non si è calmata.”
“Chissà che presto non arrivino i nipotini, eh Jotaro? Mi sembra affiatata con quel suo boytoy rosa!” mugugnò Josuke, abbastanza a voce alta perchè tutti sentissero, e Jotaro si strozzasse con la cicciola che stava mangiando causando una risata generale di tutti uomini e donne lì presenti. 
“E tu, Josuke, tua figlia è Shizuka, no?” tentò Minerva, incontrandosi il muro gelido che era sempre stato Josuke con lei. Non le rispose.
“Ehm-” tentò la donna labassese, di nuovo a disagio. “-vi accompagno a tavola. Ho preparato il risotto alla pilota.”
Il risotto alla pilota era un tipico piatto labassese. Riso al dente, adornato da grassissima, deliziosa salamella mantovana.
“L’hai cucinato davvero tu?” chiese Okuyasu, che era seduto proprio al fianco di Minerva, il cui viso divenne di una tonalità intera più rosso. “In realtà no. L’ha cucinato mia mamma. Ho mentito.” e una risatina generale scosse il tavolo.
“Lei è di Villimpenta, dove, si dice, facciano il miglior risotto alla pilota dell’intera provincia di Mantova. Mio padre l’ha conosciuta là, da giovane, mentre studiava ancora Beni Culturali all’università e indagava il castello diroccato di Villimpenta e gli insediamenti calcolitici vicini. E si è innamorato della sua cucina.”
“Come non innamorarsi, in effetti?” ridacchiò Okuyasu, e Minerva divenne ancora più rossa, questa volta per un altro motivo.
Josuke sbuffò così forte da coprire tutte le altre voci, e Koichi, seduto al suo fianco, colpì il ginocchio col suo. “Jos, basta, ma che ti prende?” gli sussurrò, preoccupato per l’amico. Non l’aveva mai visto così.
“Secondo te?! Non dovresti essere uno psicologo  del cazzo?” gli ringhiò l’uomo più alto, rabbioso come mai.
“Io..!” pigolò Koichi, preso alla sprovvista. “Io sono… uno psicoanalista?”
Josuke sbatté le mani sul tavolo, zittendo tutti gli altri. “Credi che me ne freghi qualcosa!?”
“Non parlare così a mio marito!” saltò su Yukako. 
“Jotaro, posso parlarti in privato?” chiese Minerva a bassa voce a Jotaro, e lui, odiando profondamente quella situazione, si sbrigò ad alzarsi, anche se le forze sembravano mancare alle tremanti ginocchia.
Jotaro si appoggiò con forza alla sedia di Koichi, piegandosi appena per chiedergli di seguirlo. Ogni volta che Jotaro gli si avvicinava tanto, lo sguardo di Koichi cadeva sul labbro martoriato di Jotaro, solcato da una lunga cicatrice che tagliava entrambe le labbra, e le rendeva rigide e immobili- Koichi non amava le cicatrici. “Vieni anche tu.”
Ma cos’è quest’ossessione per me?, pensò Koichi, facendo per alzarsi. 
“Koichi, vai pure, ci penso io qui.” disse sua moglie Yukako, cercando di mandarlo via, di proteggerlo come se fosse fatto di cartapesta e dovesse strapparsi da un istante all’altro.
Josuke, ora arrabbiato con Jotaro evidentemente, decise di parlare e rovinare la serata anche a lui.
“Intendi dire la verità a Koichi, invece di sballottarlo in giro come una bambola di pezza?”
Jotaro lo fulminò con lo sguardo. 
“Me l’ha detto Holly nella lettera allegata al pacco per Shizuka. Sai. Tua madre. Mia sorella.”
Jotaro mollò la presa sulla sedia di Koichi, come se fosse diventata incandescente tutto ad un tratto, e sbalzò indietro, seguendo Minerva fuori dalla cucina, su per le scale, nel suo studio.
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Lo studio, come il resto della casa, era bianco, ma non immacolato. Alle pareti erano appesi fogli, mappe, fotocopie scarabocchiate. 
La scrivania, grossa e di compensato bianco, ricoperta da libri, e due PC e un computer fisso erano riversi su esso.
Non dissimile dallo studio di Jotaro, pensò l’uomo sorridendo. Il suo studio all’università di Miami, dove conduceva ricerche di oceanografia e biologia marina, e, prima del 2012, stava anche cercando di costruire un drone sottomarino per studiare le profondità dell’oceano Pacifico.
Prima che accadesse tutto ciò. Prima che arrivassero i vampiri. Prima che quella malattia…
Minerva indicò la finestra, stranamente spalancata e da lì, al primo piano, la figura tetra e demoniaca della fabbrica più grande di La Bassa spiccava sul cielo costellato da stelle di fuoco e carta.
“Quella è la disgrazia della città, e del mondo intero. Quella, la Age of Plastic, è la causa per cui voi siete qui. Tre anni fa io e il mio assistente e collaboratore, Nestore Bennutti, cugino del boss della Banda, abbiamo provato ad indagare sul vampirismo, sul perchè le famiglie di quegli operai e lavoratori non potessero più vedere i loro cari che vi lavoravano, sul perchè i vampiri sembravano proprio venire da lì. E Nestore è morto, là.”
“E perchè me lo stai dicendo?” le rispose Jotaro, mani nelle tasche e occhio sano a guardare ogni suo movimento. Minerva sembrava tremare, nel vento gelido che entrava dalla finestra e nel raccontare qualcosa che non avrebbe dovuto.
Sospirò. “Dentro la fabbrica sono rimasti i dati di Nestore, conservati post-mortem dal suo stand, Delta Machine. Uno stand capace di analizzare qualsiasi cosa vedesse, e conoscerne ogni dettaglio. Lui si era spinto più all’interno della fabbrica di me, e per questo lui ne ha scoperti i segreti- e per questo non ho potuto proteggerlo, ed è morto.”
Un silenzio strano calò su quella camera, le luci fredde che segnavano ancora di più il volto stanco di Minerva.
“E perchè tu non sei morta? C’è qualcosa che devi dirmi?”
La donna annuì. “Prima o poi la verità verrà a galla comunque, ma, finchè ho tempo, vorrei rimanesse un segreto. Ma so che devo riferirtelo, almeno a te, al più presto possibile.”
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“Ma perchè devi sempre rispondere per me, Yu?” mugugnò Koichi all’orecchio della moglie, più ferito che offeso. Lei era su di giri, le braccia incrociate sopra il seno e lo sguardo torvo. 
“Perchè tu non rispondi mai! Ma dov’è finito il ragazzo coraggioso di cui mi ero innamorata!?”
“Avevo quindici anni, Yukako, per Dio! Non ero coraggioso, ero stupido!”
Josuke aveva bevuto quasi tutta la bottiglia di lambrusco delle colline mantovane che era stata sfortunatamente appoggiata vicino a lui, mentre combatteva Okuyasu in una stramba battaglia di sguardi. Era davvero una situazione penosa e fastidiosa quella calata sulla sala da pranzo di Minerva.
Per sfortuna o forse per fortuna, a interrompere quella sceneggiata fu un improvviso black-out.
Tutte le luci, sia quelle della casa che quelle dei luminosissimi lampioni esterni si spensero, con un suono elettrico.
I quattro abitanti di Morioh fermarono di fare qualsiasi cosa stessero facendo, e si alzarono in piedi di scatto.
Un black-out a La Bassa non era qualcosa di normale, né un buon segno. Tutto il contrario.
Minerva e Jotaro corsero giù per le scale, ora illuminate solo da fioche luci UV che erano sparse per la casa.
C’era un faretto in ogni camera, ma era davvero minuscolo, e non serviva davvero a difenderli dai vampiri.
Minerva, tutta trafelata, corse incontro al gruppo. “Ehm- ogni casa attorno ha un cancello di protezione, un circuito chiuso indipendente dal generatore di quartiere. Ma tutta l’elettricità nella casa sì. Ho un bunker anti-vampiro sul retro, che ha un generatore proprio, se volete noi… noi dovremmo…!”
“Tutto il quartiere è al buio, centinaia di persone sono in pericolo di vita.” la interruppe Jotaro, abbassandosi la visiera del cappello sul viso. “Io non voglio nascondermi.”
Yukako scoccò un ultimo sguardo arrabbiato a Koichi, prima di fare un passo avanti. “Sono con te, Jotaro. Minerva, hai detto che c’è un generatore del quartiere, no? Andiamo a controllarlo. Noi siamo forti.”
Okuyasu annuì, un sorrisone sul viso. “Io ci sto!”
Josuke sbuffò e alzò le spalle, fintamente disinteressato, e Koichi  sentì un brivido gelido passargli la spina dorsale- non era la scelta giusta da fare, ma aveva qualcosa da dimostrare a sua moglie.
Minerva osservò quel gruppo, e poi un minuscolo sorriso si formò sulle sue labbra nere. “Va bene, andiamo a controllare.”
 

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Capitolo 38
*** Capitolo 38 - Noi e loro, io e te (parte 3) ***


I sei si avventurarono per le strade stranamente buie della città. Il posto in cui abitava Minerva, il quartiere Alipranda, era un ricco quartiere di villette separate dai grandi giardini e alberi quasi in fiore, ora che la primavera si stava avvicinando. Ognuno di loro stringeva in mano una torcia a raggi UV per contrastare i vampiri che gli fossero andati addosso, in dotazione a chiunque avesse un bunker anti-vampiro. Le torce UV non uccidevano i vampiri, per quello serviva il sole o le Onde Concentriche, ma faceva in modo di ferirli e di paralizzarli completamente, dando modo al possessore della torcia di scappare, o attaccarlo.

Pallas Athena, lo stand luminosissimo di Minerva, guidava loro il cammino, il suo braccio-picca in palladio che riusciva a colpire i radi vampiri che li attaccavano di tanto in tanto.

Okuyasu, che era chiudifila, sentì un rumore dietro di lui.

“Attento, uno zombie!” gracchiò Koichi. Okuyasu, sentendosi lo sguardo preoccupato di Minerva addosso, gonfiò il petto ed evocò il suo The Hand, la mano destra già pronta ad agire.

Lo zombie zoppicava vistosamente, tirandosi dietro una gamba accessoria che chissà come gli era spuntata. The Hand se lo teletrasportò vicino poi, quando fu finalmente nel suo raggio, cancellò il suo intero corpo. Okuyasu esagerò un po’, però, perchè cancellò con esso almeno dieci centimetri di manto stradale.

“Gradassone.” lo rimbeccò Josuke.

Attratti da un’altro rumore, corsero  incontro a un gruppetto di zombie deformati che avevano scavato nel terreno, rompendosi mani e braccia che ora penzolavano ai loro fianchi, fino a raggiungere i cavi sotto l’asfalto della strada, e stavano rosicchiando dei fili.

“Cosa stanno facendo?” chiese Yukako.

“Credo stiano cercando di staccare ogni corrente rimasta.”

Jotaro, che era stato estremamente silenzioso e fermo fino a quel momento, mani in tasca e il cappello a coprirgli il viso pallido e scavato, decise di parlare. “Non importa. Li fermeremo e Josuke riparerà i cavi. Nessuno deve morire, stanotte.”

Josuke storse il naso, digrignò i denti, ma stavolta non si azzardò a controbattere. No, non voleva aiutare Minerva, e non voleva importarsene di quella città che odiava. Ma nel profondo della sua anima, per quanto lui rifiutasse quella sua natura che riteneva debole, che aveva tentato di domare negli anni… lui non voleva che persone innocenti diventassero vittime di quelle creature. Non aveva studiato quasi dieci anni di medicina per diventare un dottore ricco, ma un dottore competente, che potesse salvare e guarire più persone possibili.

Strinse i pugni. Annuì quando gli altri componenti del suo gruppo si voltarono a guardarlo. Sì, avrebbe salvato le persone di quel quartiere. Avrebbe salvato Minerva che tentava quasi di sostituirlo, Jotaro che parlava per lui, Koichi senza spina dorsale, Okuyasu gradassone traditore, Yukako bastian contraria. Avrebbe salvato il suo gruppo, anche se controvoglia.

Crazy Diamond, enorme e scintillante alle spalle di Josuke, pronto, come prima, a distruggere quegli zombie senza mente.

"Ma quello è uno steeende?"

Dalla massa di vampiri e zombie, una dall'espressione accesa e un paio di spessi occhiali da vista sulla fronte si avvicinò a Josuke. I suoi occhi erano rosso vivo, di una tonalità più chiara di quella di Shizuka, che bruciavano nell'oscurità come un fuoco.

Shizuka… chissà dov'era la sua bambina, ora? Chissà se anche lei stava girando le strade di quella maledetta città, in quello stesso momento?

La ragazza si abbassò gli occhiali sul naso, avvicinandosi senza paura a lui. "Sembri forte! Perché non provi a colpirmi?"

"Josuke, non credo tu debba farlo." mugugnò Okuyasu. Certo che Josuke sapeva che era una stupida trappola, ma ora che quell'idiota di Okuyasu l'aveva detto, Josuke non voleva sottostare ai suoi ordini.

Crazy Diamond sferrò un pugno dritto sul muso della vampira, che però non reagì.

"Wow, sei allo stesso tempo veloce e molto forte." continuò la vampira, facendo un passo indietro, sotto lo sguardo attonito di Josuke. Tirò fuori un blocchetto dalla tasca dei jeans strappati e iniziò a scrivere qualcosa con la penna che teneva dietro l'orecchio.

"Hmm… la forza distruttiva del tuo stand deve essere una A, ma anche la velocità non scherza. Credo una A a sua volta. Hmm, quale strategia potrei applicare con te?"

La vampira, una ragazza poco più bassa di Koichi e dall'aspetto quasi fragile e innocuo, si sedette sul marciapiede davanti a loro, sfogliando tra i propri appunti. 

"Ah, quasi dimenticavo! Prendeteli!" fece agli zombie che stavano prima distruggendo il fondo stradale, che come per magia di accorsero ora del gruppo dei Joestar, e presero ad accerchiarli.

"Scappiamo?" fece Josuke.

"E dove? Non esiste più nessun posto sicuro in questo quartiere!" gli rispose Koichi, che, se avesse potuto, sarebbe sicuramente scappato.

“Credo prenderò la velocità! E ora forza, Better Harder Faster Stronger !” esultò la ragazza saltando in piedi. Davanti a lei, una creatura umanoide, della consistenza del mercurio e dai colori cangianti, si rivelò davanti a tutti loro. Ad una velocità disarmante si scagliò su di loro, in mezzo a loro, passando come acqua tra i loro corpi.

“Non male eh?” disse dietro di loro. “Il mio stand ha la capacità di assorbire le potenzialità di chiunque mi tocchi, e amplificarle, e usarle a mio vantaggio!”

“E perchè ce lo stai dicendo?” le rispose Jotaro, di fronte a lei. 

L’espressione di contagiosa ilarità che prima traspariva dal viso della ragazza mutò in una rabbia profonda.

“Perchè, una volta che vi avrò sterminati, voglio che Zarathustra sappia che Ovidia è migliore di lei. La migliore.

Josuke spintonò Okuyasu indietro, ma stavolta, l’uomo dai capelli neri e bianchi sbottò.

“Smettila!”

“Cosa?”

Okuyasu gesticolò un po’, puntando prima sé stesso e poi Josuke. “..Questo! Questo! Che cazzo fai?”

“Ti proteggo?” gli rispose annoiato e innervosito Josuke, come si risponderebbe a un bambino piccolo che fa qualche domanda scema. Ma Okuyasu non era un bambino.

Strinse il pugno così tanto che sentì il sangue dal suo palmo destro, che mai aveva smesso di scorrere dalle ferite aperte, uscire a fiotti lungo le sue dita serrate e tremanti. 

“Basta! Non ce n’è nessun bisogno, io- io non sono stupido e inferiore come tu credi che io sia! Sono stanco di aspettarti, stanco di stare ai tuoi capricci! Tu sei il bambino! Sei un cazzo di marmocchio capriccioso che non è mai cresciuto!” gli gridò contro Okuyasu, la gola che gli bruciava dall’urlo e dall’odio. 

Tutto quello che avrebbe voluto dirgli in questi lunghi diciotto anni, e tutto quello che si era tenuto dentro, celato nel profondo del suo animo. Quell’orribile capodanno del 2000 passato al fianco di un giovane Josuke dallo sguardo torvo, quelle continue lamentele di ho salvato la città da un serial killer e non interessa a nessuno!, e Okuyasu che si sentiva di doversi scusare se non poteva sempre uscire con lui, se doveva stare a casa a fare i compiti, calcolare le tasse al posto dei suoi genitori morti, badare a quel padre malformato e mostruoso. Quella partenza improvvisa, le accuse di Josuke di non essere abbastanza presente, di non amarlo abbastanza- e poi quegli anni di silenzi, di vivere da solo in quella casa in cui suo fratello era morto, e in cui aveva deciso che anche suo padre meritava una morte degna. Trovare un lavoro, crescere, maturare, doversela cavare solo ed esclusivamente con le proprie forze, sperare che un giorno Josuke sarebbe tornato, avrebbe capito, avrebbe sorriso di nuovo.

Ma quello che era tornato era un Josuke ancora capriccioso, ancora alla disperata ricerca di attenzioni, ma con ora una lamborghini, una laurea, e una figlia.

Okuyasu aveva speso diciassette anni a sperare, a perdere tempo, a perdere opportunità. 

“Sono stanco di TE!” gli gridò Okuyasu, spingendolo indietro, e Josuke capitombolò contro Yukako che era alle sue spalle, mentre tendeva un orecchio verso la litigata furibonda dei due uomini, ma rimaneva concentrata sui vampiri attorno a loro.

“Smettetela, voi due idioti-” ringhiò. “I vampiri attorno a noi!”

Yukako aveva circondato tutti loro con i suoi capelli, una vistosa ciocca bianca tra essi. Appena un vampiro tentava di avvicinarsi Yukako lo scagliava lontano, ma poi si rialzavano sempre, e le loro mani fameliche si aggrappavano alle sue ciocche, tiravano, strappavano.

“Stai attenta-!” gli pigolò Koichi, che non riusciva a fare nulla in quella situazione. L’occhio di Jotaro era fisso sulla vampira dotata di stand, Ovidia, che stava guardando particolarmente lui.

Minerva tentò di mettersi in mezzo tra i due, ma si ritrovò sotto lo sguardo rabbioso di Josuke.

“Sei stata tu a mettergli in testa certe stronzate, eh?”  le disse Josuke, pungolandola per una spalla.

“Io so pensare da solo, sai? Ho un cervello!” fu la risposta di Okuyasu, che ormai aveva gli occhi lucidi dalle lacrime di rabbia. Il viso di Josuke era tirato, rosso peperone, ma tentava lo stesso di sorridere, di guardarlo con quel senso di superiorità che aveva sempre avuto verso chiunque, ma in particolare verso Okuyasu.

“Ah sì? Tu? Un cervello? Ah, questa mi è nuova!”

Fu un istante.

Okuyasu si buttò su Josuke, sferrandogli un pugno così forte sul viso da generare un orribile suono secco di nocche contro la mandibola.

Josuke fu a terra in un tonfo, e Okuyasu sopra di lui, un ginocchio nello stomaco e la mano sinistra attorno al suo spesso collo.

La mano destra, che ormai colava sangue a fiotti, era alzata sopra di lui, la lattea mano del suo stand, The Hand, che si stava sovrapponendo alla sua.

“NO-!” e Yukako scattò, abbandonando la sua inefficace muraglia attorno a loro, per afferrare il braccio di Okuyasu. 

Attorno a loro il caos dei vampiri scoppiò come una bomba quando le luci dei lampioni si spensero definitivamente, e lo stand di Minerva, Pallas Athena, a malapena riusciva a contenere quella massa di mani fameliche verso di loro, la lancia dello stand dorato che tranciava arti di zombie, ma sembrava non tagliare mai abbastanza.

Koichi evocò Echoes act 4, ma prima che potesse ordinargli qualsiasi mossa, si sentì afferrare per un braccio. Era Jotaro, piegato su di lui, il viso scarno e magro e malato davanti al proprio.

“Koichi, io devo dirti una cosa.”
“Adesso?” gridò Koichi, che non si era accorto di star gridando. “Oku sta per ammazzare Jos e i vampiri stanno per ammazzare noi! Stiamo per morire, ti sembra il momento-?”

“Sì. Sì, perchè io sto morendo, in tutti i modi.”

Prese le spalle di Koichi con entrambe le mani, parlando a voce bassa, ferma, e debole. Ora Koichi non era più irrequieto per la storia dei vampiri.

“In che…?”

“Ascoltami. Io voglio che tu faccia qualcosa per me. Ti ho mentito, ho mentito a tutti. Mi rimane poco tempo, perchè a me, così come a mio nonno Joseph…”

 

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