A Million Dreams

di SkyDream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chapter 1 ***
Capitolo 2: *** Chapter 2 ***
Capitolo 3: *** Chapter 3 ***
Capitolo 4: *** Chapter 4 ***
Capitolo 5: *** Chapter 5 ***



Capitolo 1
*** Chapter 1 ***


~ A Million Dreams ~
Chapter 1
[KageHina][+ Lilà]

«Sei proprio sicuro che sia il modo giusto per farla addormentare?».
«Ma sì! Natsu dormiva sempre abbracciata alle sue bambole!».
Tobio rimase seduto sul letto con lo sguardo perplesso rivolto al suo fidanzato. Attorno a se, nella loro nuova casa a Roma, tutto odorava ancora di vernice e legno fresco.
Era una casa luminosa, con ampie finestre che regalavano una vista meravigliosa sui quartieri romani e su un piccolo parco dove, ogni giorno, tanti bambini scendevano felici a giocare.
Tobio si era subito innamorato di quella casa così solare, si sposava benissimo con il suo desiderio di famiglia e con il temperamento di quell’uragano di Shoyo.
Era stato difficile tornare a fidarsi di lui, delle sue parole e dei suoi sorrisi spontanei.
Per le prime settimane, davanti quegli occhi lucidi da bambino, sentiva sempre un brivido lungo la schiena.
Ma ogni volta si ripeteva che, se davvero non fosse stato così spontaneo, non avrebbe adottato Lilà.
Quella bambina aveva totalmente stravolto le loro vite, si erano ritrovati impreparati e ignari su quali fossero i comportamenti di un bravo genitore.
Entrambi - ne avevano parlato più volte - temevano che la piccola potesse patire per la mancanza di una mamma. Nonostante ciò, era innegabile come il loro affetto compensasse qualunque cosa.
Lilà mangiava, cresceva e sembrava venir su sempre allegra e sorridente. Adorava avvicinarsi agli altri bambini per interagire, guardava “Tobio-otosan” con gli occhi colmi di amore e, ogni volta che quest’ultimo tornava dagli allenamenti e rincasava, se la ritrovava a gattonare per il corridoio per lanciarsi poi in un abbraccio.
Tobio, la prima volta, aveva pianto.
Aveva passato due interi anni senza Shoyo al suo fianco e solo, in una casa piccola e angusta al centro di Roma che sembrava colorarsi solo quando il suo ragazzo andava a trovarlo.
Aprire la porta di casa ed essere accolto in quel modo, così genuino e inaspettato, era stato per lui un colpo basso.
Shoyo gli aveva poi scoccato un bacio sulla guancia prima di mostrargli uno dei pochi piatti speziati che aveva imparato a cucinare in Brasile.
Uno dei pochi piatti che sapeva cucinare, in generale.
Era ormai esperto in pastine e semolini, d’altronde da bambino aveva sempre aiutato sua madre con la piccola Natsu, ma con il “cibo da adulti” continuava ad avere numerose difficoltà.
Fortunatamente Roma disponeva di innumerevoli servizi a domicilio, ignari salvatori della gran parte delle loro cene.
Erano passati cinque mesi da quando Shoyo era tornato dal Brasile, dall’ingresso in quella casa e dalla loro nuova vita in tre.
Tobio non aveva ancora ben compreso come far addormentare la piccola Lilà così, quella sera, aveva chiesto aiuto a Shoyo nella speranza che potesse trovare una soluzione.
Effettivamente, conoscendolo, doveva aspettarsi quella soluzione.
«Shoyo, quella non è una bambola. E’ un pallone da pallavolo.» Tobio indicò l’oggetto ingombrante posto nella culla. Lilà lo fissava incuriosita e intimorita allo stesso tempo, provava a stringerlo tra le braccia ma le sue manine non riuscivano a contenerlo tutto.
Era comunque una scena alquanto buffa e tenera, per cui ad entrambi scappò un sorriso.
«Poco importa, basta che riesca a farla stare buona per tutta la notte! Oggi mi hanno steso sul campo, sono stanchissimo.» Shoyo si tuffò sul materasso facendolo cigolare.
Era finalmente stato preso in una squadra di serie B, la Black Crown Lazio, ma con un po’ di impegno un giorno, forse, sarebbe riuscito ad affiancare Tobio nella Ali Roma.
Poco importava, comunque, aveva abbastanza tempo da dedicare alla sua passione e - tremava ancora al pensiero - a sua figlia. Alla loro figlia, quando un giorno Tobio lo avrebbe accettato.
«Com’è il nuovo alzatore della BCL?» Tobio scompigliò i ricci di Lilà, fattasi improvvisamente soporosa, e si sdraiò sul letto portando le mani dietro la testa.
«Non male, anche se sicuramente non può essere considerato un genio. Oltretutto ha un modo strano di esultare quando facciamo punto.» Shoyo portò due dita sotto al mento, quasi cercasse la parola adatta.
«Dacci, Daddi-» Provò, perplesso.
«Daje?» Provò Tobio, senza riuscire a reprimere una risata, era evidente come l’altro avesse ancora enormi difficoltà sia con l’italiano che con il dialetto locale.
«Daje! Sì, lo ripete sempre con una grande energia!» Shoyo scivolò fin sotto le coperte, con quel pigiama verde troppo grande nonostante fosse innegabilmente cresciuto. Sbadigliò vistosamente e portò una mano sulla spalla sinistra del suo ragazzo, poggiandoci poi il viso sopra.
Tobio si era abituato a quella strana consuetudine. Shoyo si addormentava così, anzi, sembrava quasi svenire di botto e rimaneva intere ore immobile prima di scivolare nella sua parte di letto.
Spense la luce, ma non prima di aver gettato un’occhiata alla culla della bambina: Lilà si era addormentata, probabilmente cullata più dalle loro voci che da quel pallone enorme che Shoyo gli aveva poggiato sul lenzuolino.
“A che ora termina l’allenamento domani?”.
 
“Da Tobio: Oggi Lilà mangia da Clara, vado a prenderla più tardi. Vedi di allenarti per bene, boke!”.
Shoyo aggrottò un sopracciglio chiedendosi dove mai potesse andare Tobio dopo gli allenamenti. L’allenatore lo richiamò a gran voce convincendolo a mollare il cellulare e tornare con la mente sul campo da pallavolo.
“Da Shoyo: Okay, ci vediamo pomeriggio! E non chiamarmi boke!!” .
 
Tobio entrò dentro al negozio di giocattoli: vi erano intere pareti colorate, colme di scatole di ogni forma, peluche di ogni dimensione e una distesa di bambole, bambolotti e pupazzetti.
Rimase immobile, sull’uscio, non sapendo cosa fare né cosa dire.
Sapeva solo che non voleva far dormire la figlia di Shoyo con un pallone da pallavolo.
«Posso esserti utile?» La voce di una ragazza della sua età lo ridestò. La commessa sorrise e portò una mano in alto in segno di saluto.
«Io-ehm … io volevo. Cercavo- » Tobio arrossì, non avendo la più pallida idea di cosa dire.
Cosa stava cercando?
«Per bambina o bambino?» Chiese quella capendo le difficoltà e avvicinandosi.
«Bambina, ha undici mesi, si chiama Lilà!» Tobio si accorse solo dopo di aver dato un’informazione superflua, ma vide la ragazza ridere intenerita e riuscì solo ad arrossire ancora di più.
«Cerchi una bambola o un bambolotto? Qualche gioco in scatola? Oppure-» La ragazza si fermò avendo notato di essere rimasta sola.
Gli occhi di Tobio erano stati catturati da un peluche a forma di corvo, era una palla e con una testa abbozzata con due occhietti lucidi, un bel pennacchio sulla testa gli conferiva un’aria comica e tenera allo stesso tempo.
«Prendo quello, assolutamente quello!» Tobio lo indicò con un dito, non seppe spiegare nemmeno a se stesso perché ne fosse così colpito.
Inconsciamente, forse, lo aveva associato ai suoi anni più belli, quelli alla Karasuno.
«Confezione regalo?».
 
«Tobiooo? Lilà, sono tornato a casa!» Shoyo richiuse la porta alle sue spalle e si aspettò un fantastico abbraccio di gruppo che, amaramente, non vide mai arrivare.
«Dai ragazzi, mi avevate promesso un benvenuto più caloroso! Ho pure portato due frittelle zuccherate, le mangerò tutte io!» Shoyo entrò in camera da letto e per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
Tobio era seduto sul letto e ne aveva delimitato i bordi con dei cuscini. Lilà era seduta di fronte a lui, impegnatissima a studiare un peluche nero senza però allontanarsi dal pallone che Shoyo ormai aveva proclamato essere suo.
«Cosa sta succedendo qui?» Chiese con un mezzo sorriso avvicinandosi al suo ragazzo.
«Assolutamente nulla di quello che stai pensando, idiota.» Tagliò corto l’altro voltandosi verso il muro opposto. Arrossì lievemente.
Lilà gli mostrò il suo nuovo giocattolo con entusiasmo e biascicò qualcosa che nessuno dei due capì.
«E’ bellissimo, Lilà, chi te lo ha regalato? E’ stato forse Tobio-otosan, eh? Ecco cosa doveva fare di importante pomeriggio!» Quel sorrisetto felice continuava a rimanere lì, teso verso un Tobio che sprofondava sempre più nell’imbarazzo.
«Sapevo che saresti stato un papà bravissimo.» Shoyo gli diede un bacio sulla guancia senza smettere un momento di sorridere. Vedere il suo ragazzo affezionarsi a Lilà, poco alla volta, e farle addirittura dei regali, era per lui un’emozione grandissima.
Poteva affermare di essersi sentito così solo quando aveva vinto le partite con la Karasuno e poi con la Black Jackals.
«Regalare un pupazzo da mettere nella culla non è essere un papà.» La voce di Tobio era ferma, anzi, quasi ferita nell’affermarlo. Non era ancora pronto, non si sentiva ancora realmente il papà di Lilà.
«Certo che lo è!» Shoyo lo colpì con un cuscino, diede così inizio ad una lotta di piume e risate in cui, in poco tempo, rimase coinvolta anche la bambina.
Tobio scoppiò a ridere e si lasciò torturare un po’ prima di contrattaccare e fermare Shoyo per i polsi.
«Con te farò meglio i conti stanotte, da soli».


Angolo autrice: Oya, Oya, Oya!
Eccomi con una raccolta che doveva essere pubblicata a Dicembre, ed è cominciata che è quasi Febbraio, oya!
Mi dispiace annunciarvi che gli aggiornamenti non saranno regolari, purtroppo la sessione mi terrà impegnata fino a metà Marzo (Oddio, sono all'ultimo anno e la cosa mi fa troppa impressione, aiuto).
Sono schifosamente indietro anche con le recensioni, non vogliatemene, giuro che passerò.
Vi ringrazio tantissimo per essere arrivati fin qui e aver letto le mie storie <3 spero di avervi strappato un sorriso!

A prestissimo, un bacino a tutti ^-^

P.s. mi sono appassionata a My Hero Academia, aiutissimo, vorrei scrivere una valanga di storie ma ho troppa paura del fandom AHAHAHA credo che rimarranno sul mio pc, ma sono tipo innamoratissima di Todoroki *^* Aiutoooo<3

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Capitolo 2
*** Chapter 2 ***


Questo aggiornamento è un regalo per Gaia
Che mi ha tenuto compagnia durante le colazioni del primo semestre
E che sono sicura non mi lascerà pace neanche nel secondo.

Ti voglio bene!
~ A Million Dreams ~
Chapter 2
[KageHina][+ Lilà]

Tobio, dieci anni prima, non avrebbe mai immaginato di vivere una scena così surreale.
Shoyo lo supplicava da giorni di tornare ad Ostia, lì dove lo aveva portato la prima volta che era atterrato a Roma. Voleva far vedere il Mediterraneo a Lilà, farle toccare la sabbia e il mare.
E poi, aveva ammesso arrossendo, gli mancavano le spiagge di Rio.
Non si pentiva della sua scelta di rimanere a Roma con il suo ragazzo e sua figlia, ma il Brasile aveva lasciato sulla sua pelle e sul suo cuore un segno indelebile.
Tobio si era lasciato intenerire da quelle parole e da quello sguardo basso, finendo per cedere e farlo salire sul bus appena finiti gli allenamenti di pallavolo.
Shoyo, stanco da quelle ore infinite di servizi e schiacciate, era crollato sul sedile poggiando la testa sul finestrino e addormentandosi con la bocca aperta.
Tobio, dieci anni prima, avrebbe giurato che Shoyo non sarebbe mai cambiato.
Si era seduto accanto a lui, con Lilà in braccio, e si era perso ad ammirare il paesaggio attorno a loro.
La bambina non aveva smesso un momento di aggrapparsi alla sua maglietta, così come faceva sempre nei luoghi pubblici dove vi erano sconosciuti, e indicava di tanto in tanto le case che scorrevano dietro i vetri.
Aveva da poco compiuto un anno e, da qualche settimana, aveva aggiunto al suo vocabolario dei piccoli versetti che Clara aveva inserito all’interno della “lallazione”.
Era una fase normalissima in cui i bambini imparavano le prime sillabe e le ripetevano.
Lilà assumeva un’espressione buffa quando provava a parlare, sembrava corrucciarsi e le guance si gonfiavano per dar vita alla sua parola preferita “Lalla”.
Per Lilà era tutto “lalla”, soprattutto quando sbucava dalla sua cameretta con il pallone che Shoyo le aveva regalato.
I primi passi erano stati una sorpresa per tutti e due: Lilà gattonava ormai da mesi e riusciva a tirarsi su dal boxe e tenendosi al divano, più di ogni altra cosa quando voleva intrufolarsi tra i due e guardare la tv con loro.
Una sera, però, Tobio era tornato a casa tardi, distrutto dagli allenamenti che lo avrebbero portato, qualche giorno dopo, a giocare un’importante partita.
 
Il setter aveva chiuso la porta con troppa veemenza, suscitando la curiosità del suo ragazzo e della bambina. Aveva poi gettato il borsone a terra e si era seduto, poco dopo, nel bel mezzo del corridoio.
Aveva poggiato la testa sulle ginocchia e si era lasciato andare alla stanchezza e alla frustrazione.
«Ehi, che ti succede?» Shoyo era rincasato da poco con tre pizze fumanti in mano e uscì dalla camera dove si stava cambiando, trovando il ragazzo ai suoi piedi.
«Lasciami stare.» Tobio aveva portato le mani sulla nuca, in un evidente dimostrazione di dolore interiore. Non era da lui abbattersi in quel modo.
Shoyo scivolò al suo fianco e gli cinse la spalle con un braccio, portandolo a poggiare la testa contro la sua spalla.
«Il nostro Re oggi è caduto? Si è fatto male?» Chiese con un mezzo sorriso sperando che non fosse nulla di troppo serio. Non era mai stato bravo a gestire quelle situazioni.
Tobio si strinse un po’ di più contro la spalla del suo ragazzo, contro quel pigiama verde ancora troppo largo.
«Oggi ho fatto davvero schifo all’allenamento. Non ho alzato bene neanche una palla.» Il tono frustrato si sparse per tutto il corridoio, Tobio strinse i pugni fino a far diventare le nocche bianche.
«Forse eri stanco? Non hai mangiato abbastanza?» Shoyo lo coccolò un po’, poggiando il suo viso contro i capelli lisci dell’altro. Tobio chiuse gli occhi e inspirò come se dovesse scoppiare a piangere. Non aveva ancora imparato a non sciogliersi sotto quei gesti d’affetto.
«No. No, Sho, non-» Era un singhiozzo. Shoyo potè sentire un pezzo del suo cuore andare in frantumi.
«Tobio? Che succede?».
«Mi fanno male le dita della mano destra.» La voce risuonò, di nuovo, tra le pareti del corridoio. Fu seguita da alcuni secondi di totale silenzio.
Gli occhi di Shoyo cercarono le mani del suo ragazzo, le trovò pallide come sempre, con i polpastrelli leggermente arrossati.
«Avrai preso una botta, non sarà nulla di che. Domani chiameremo un dottore e ti farai controllare!».
«Mi fanno male da … l’anno scorso, l’inverno scorso il dolore era insopportabile la notte, ma durante il giorno e dopo il riscaldamento non lo sentivo. Oggi però non è bastato nemmeno quello e ho avuto-» Tobio non riuscì a finire la frase. Detestava piangere, un po’ meno quando era da solo con il suo ragazzo, ma lo detestava comunque.
«Hai avuto paura. Anche io ne avrei se dovessero farmi male le mani o le ginocchia. Penserei subito “Cavolo, non potrò più giocare a pallavolo!”».
Tobio annuì e poi rimase in silenzio.
Fu in quel momento che si sentì un rumore strano, di scarpe che strisciano.
Lilà, con il ciuccio in bocca e i capelli disordinati, si stava avvicinando a loro tenendosi con il muro.
Guardava Tobio con un’espressione addolorata e finì per cadere a terra quando tentò di aprire le braccia per avvolgerlo contro di sé.
«Ehi, nanetta! E tu da quando cammini?» Il setter si asciugò le lacrime e le sorrise prima di portarla sulle sue ginocchia e abbracciarla. Shoyo le scompigliò i capelli ricci e si inserì nell’amorevole quadretto riempiendo di baci sia la piccola che il suo ragazzo.
Lilà era riuscita a consolare il suo “Tobio-otosan”, un’impresa titanica di cui ancora non conosceva l’immensità. E, soprattutto, aveva camminato da sola!
«Dobbiamo assolutamente farlo vedere a zia Natsu! Vado a prendere il telefono!».
 
Tobio aveva scoperto di soffrire di un comunissimo disturbo di vasocostrizione chiamato Sindrome di Reynaud. Avrebbe continuato a giocare, come sempre, ma con qualche accortezza in più verso le sue mani e con la consapevolezza che, a volte, avrebbero potuto dargli qualche fastidio.
Aveva stretto Shoyo, quella sera, ringraziandolo per quel supporto che solo lui aveva saputo dargli.
Nonostante fossero fidanzati da diversi anni, tra i due vi era ancora difficoltà con parole come “grazie”, “scusa”, “ti amo”.
Per cui Shoyo aveva reagito con eccessivo entusiasmo a quelle parole, beccandosi qualche pugno in testa e qualche bacio di troppo dopo.
 
Tobio si ridestò dai suoi pensieri e svegliò immediatamente Shoyo, la loro fermata sarebbe stata la successiva.
«Svegliati, idiota, o ci ritroveremo da tutt’altra parte!» Tobio prese in braccio Lilà e tirò il suo ragazzo per un polso.
Shoyo scese dall’autobus ancora con gli occhi chiusi, si ravvivò solo quando i brillanti colori del tramonto gli ricordarono dov’era.
Il mare di Ostia era calmo e si infrangeva lentamente sulla spiaggia fine e desolata.
«Il mare! Lilà questo è il mare!» Shoyo si caricò la bambina sulle spalle e cominciò a correre per poi tuffarsi con i piedi dentro l’acqua.
«Ae! Ae!» Ripeteva la piccola con gli occhi pieni di gioia e curiosità.
Tobio era rimasto alle loro spalle a godersi la scena. Dieci anni prima non avrebbe di certo immaginato di vivere una cosa simile.
Shoyo gli sorrideva felice, una gioia incontenibile che aveva trasmesso anche alla bambina, come fosse realmente figlia sua.
Come poteva aver pensato che fosse sbagliato? Come poteva aver detto a Sho che adottare Lilà era stato uno sbaglio, una forzatura del destino che avrebbe portato solo dolore?
Shoyo si era seduto sulla spiaggia portando le dita di Lilà tra la sabbia umida, sotto gli ultimi raggi del sole.
E tutto era illuminato, tra quelle onde, da due sorrisi genuini rivolti ad un mare infinito che, in qualche modo, li ricollegava a quella terra che li aveva uniti per sempre.
«Lalla?» Lilà guardò Tobio con aria interrogativa e carica di aspettative.
«Sì, ho portato la palla!» Il ragazzo uscì un piccolo pallone e lo tirò alla bambina che lo accolse a braccia aperte. Subito si mise in piedi, ancora instabile, rilanciandola prima ad uno, poi all’altro ragazzo.
E Tobio pensò che non avrebbe mai potuto essere più felice di quel momento.
A Ostia, con un pallone, il suo ragazzo e Lilà.

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Capitolo 3
*** Chapter 3 ***


Dedicato a stefagora,
che ha allertato il numero emergenza fluff!

 
Spero che il tuo pc resusciti <3


~ A Million Dreams ~
Chapter 3

[KageHina][+ Lilà]


«Shoshan? Shoshan?» Lilà lo chiamò più volte tirandolo per la mano che gli teneva stretta durante le loro passeggiate al parco.
Shoyo parve ridestarsi da qualche pensiero, rivolgendo lo sguardo alla bambina.
«Che c’è Lilà? Vuoi giocare?» Il parco era pieno di bambini con aquiloni, palloni e macchinine. La piccola però sembrava pensare ad altro.
«Toosan?» Chiese con sguardo interrogativo e gli occhi lucidi.
«Dov’è Tobio-otosan? E’ ad allenarsi, torna stasera per cena. Oggi ci sono io libero, non ti va di giocare con me?» Shoyo mise su un broncio che spezzò il cuore alla bambina, subito si ritrovò a fargli delle carezze sul viso nel tentativo di consolarlo.
«Cara, cara, Shoshan!» Disse con tono premuroso mentre lo coccolava, Shoyo non riuscì a nascondere un sorriso carico di tenerezza.
«Ti manca Tobio? In effetti negli ultimi giorni è sempre assente per gli allenamenti, torna stanco e dorme sempre. Sai cosa facciamo? Lo andiamo a trovare e gli portiamo una gelatina alla frutta, di quelle che piacciono a lui! Ci stai?».
La bambina scosse la testa felice e indicò il negozio di caramelle poco fuori l’ingresso del parco, saltellava euforica mentre teneva la mano al suo Shoshan.
«Sì, Lilà, una caramella per noi la prendiamo pure».
 
«Vai, Tobio, è tua!» Delle voci dal pesante accento romano rimbombavano per tutta la palestra.
Tobio si allenava con l’Ali Roma ormai da anni, ma non si era ancora abituato all’immensità di quel campo da gioco, a quei palloni sempre nuovi, i pavimenti sempre lucidi. Ricordava con nostalgia i tempi della Karasuno e, per quanto giocare con una squadra formidabile regalasse le sue soddisfazioni, giocare con qualcuno a cui vuoi bene è tutt’altra storia.
Non che i ragazzi dell’AR non fossero simpatici, anzi, ma senza quella testolina rossa di Shoyo e senza l’affiatamento che sentiva con gli altri suoi compagni, non era la stessa cosa.
L’anno più bello, quello che ricordava sempre col batticuore, era stato il primo liceo.
Daichi era un capitano senza precedenti, Asahi e Suga dei meravigliosi senpai e Nishinoya con Tanaka regalavano un po’ di sano trambusto.
Con Tsukki, Yamaguchi e Shoyo aveva condiviso tutti e tre gli anni. Dividersi da loro era stato un colpo ancora più duro.
Soprattutto da quel ragazzo che ora lo guardava dagli spalti con una bambina in braccio.
“Cosa ci fanno qui?” Tobio non riuscì a nascondere un’espressione sorpresa quando Lilà sollevò la manina per salutarlo. Lui ricambiò timidamente poco prima che l’allenatore fischiasse per fare una pausa prima del tre contro tre.
«Vai da Tobio-otosan e dagli la gelatina, ti aspetto qui, okay?» Shoyo si mise comodo e si godette per bene quella divertente visione.
Lilà aveva preso a correre con la caramella ben stretta nel pugno della mano, Tobio le era andata in contro riuscendo - come massimo gesto d’affetto in pubblico - a scompigliarle i capelli.
«Toosan!» Esclamò come per confermare che sì, la gelatina era per lui «Buona!».
«Grazie, nanetta. Sei molto gentile.» Tobio le passò ancora la mano sulla testa, un dito solo riuscì a sfiorarle quella guancia mulatta, facendola sciogliere in un sorriso ancor più grande.
Tobio mangiò la gelatina - rigorosamente al lampone, come piaceva a lui - e diede un ultimo sguardo al suo ragazzo prima di riprendere la partita.
Shoyo era semplicemente bellissimo, seduto tra gli spalti e baciato dal sole del pomeriggio che faceva risaltare i suoi capelli rossi e quelle piccole lentiggini appena accentuate che conosceva così bene.
Che aveva baciato così tante volte.
Che, ancor prima, aveva desiderato baciare così tante volte. Ad ogni allenamento, ad ogni partita e dopo ogni punto insieme.
Sentì qualcosa allo stomaco. Era un desiderio.
«Voglio giocare ancora con lui».
Il fischio d’inizio lo fece fluire all’interno della partita, dissociandolo da ogni pensiero esterno. C’erano solo lui e la palla, i suoi compagni e i suoi momentanei avversari.
Shoyo rimase incantato, come ogni volta, mentre la maglietta di Tobio si sollevava e lui fluttuava a mezz’aria quando preparava i palloni per le schiacciate.
Quel sorriso sornione dopo il punto con il pallonetto.
Quegli occhi carichi di energia e sicurezza durante ogni partita.
Voleva giocare con lui, di nuovo. Voleva schiacciare ogni sua alzata, stringerlo a se in ogni punto, ritrovare la loro complicità sul campo come l’avevano trovata nella vita.
«Toosan, palla, bello. Bello, Toosan!» Lilà rimase a guardare la palla che volava da una parte all’altra del campo con la bocca schiusa.
Shoyo la ammirò, così piccola e piena di energia, e non riuscì a non sorridere.
Lilà era sua figlia, ormai, tanto quanto lo era di Tobio.
Lo dimostrava lui stesso quando tornava a casa con dei pensieri per lei, quando la sera la metteva a letto o le dava da mangiare.
Lo dimostrava lei quando lo cercava, lo abbracciava, si preoccupava anche quando lo vedeva stanco.
«Shoshan?» Lilà gli tirò la maglietta, con gli occhi verdi puntati sui suoi, si arrampicò sulle sue gambe e poggiò la testa sul suo petto.
Rimasero così, ad ammirare la bellezza e la bravura del loro setter.

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Capitolo 4
*** Chapter 4 ***


~ A Million Dreams ~
Chapter 4
[KageHina][+ Lilà]


Il cielo di Roma è pieno di stelle piccolissime, ruotano in mezzo alla notte e accompagnano la luna e i suoi raggi che penetrano nelle stanze delle case mezze addormentate.
Una bambina, però, non dorme affatto. Si mette seduta sul suo letto e alza gli occhi verso quelle lucine brillanti.
Un sacco di volte ha immaginato di potersele mettere tra i capelli per poter brillare come le principesse dei suoi libri.
Sa che non potrà farlo, ma vuole comunque tentare di diventare davvero una principessa.
Poggia i piedi sul pavimento e scappa verso la porta, tira giù la maniglia e sgattaiola per il corridoio facendo attenzione a non inciampare sui suoi stessi giocattoli.
Arriva davanti la porta dei suoi due papà e tentenna. Non vuole svegliarli, ma ha davvero bisogno di loro.
Saltella su un piede, poi sull’altro. Shoshan le ha passato questa brutta abitudine e ora, ogni volta che è nervosa, sembra che debba fare pipì.
«Shoyo! Smettila di tirarmi calci!».
«Fatti un po’ più in là che a momenti cado dal letto!».
«Come fai ad essere così piccolo e occupare così tanto spazio?!».
Gli occhi di Lilà si illuminano di speranza, decide così di bussare sapendo di non disturbarli.
Dall’altro lato della porta si sentono delle frasi confuse che la invitano ad entrare: Shoyo e Tobio sono sdraiati a pancia in giù, tra i due cuscini giace un tablet malandato su cui si intravede il secondo tempo di una partita di pallavolo di chissà quale Paese sconosciuto ai più.
«Lilà, va tutto bene?» Shoyo è il primo a preoccuparsi, scatta seduto e poi abbassa un sopracciglio con aria pensierosa.
Lilà annuisce e mostra loro il libro che tiene tra le mani. Si arrampica sul letto e si accovaccia tra i suoi due papà, ha la faccia scura di chi sta per fare una dichiarazione un po’ scomoda.
«Shoshan, Toosan, domani devo andare all’asilo.» Annuncia con tono solenne, alza gli occhi per assicurarsi di avere tutta la loro attenzione.
«Certo che domani devi andare all’asilo, è lunedì.» Tobio lascia stare la partita e imita il suo ragazzo mettendosi seduto a sua volta. Lilà punta su di lui i suoi occhi magnetici verde smeraldo.
«Domani ci sarà la foto di classe con tutti i miei compagnetti e io voglio sedermi accanto Giorgio!» Ecco la pugnalata.
Tobio si piega in due come se gli avessero dato un pugno nello stomaco. Shoyo si strozza con la sua stessa saliva e si sforza di non imitare una foca con le convulsioni.
Il suo stomaco è decisamente una foca con le convulsioni.
«Lilà, amore mio, perché vuoi sederti accanto Giorgio? E’ un tuo compagnetto di giochi?» Shoyo tenta di salvare capra e cavoli, ovvero se stesso e il suo ragazzo ancora tramortito al suo fianco.
«No, Shoshan, voglio una foto con lui perché presto diventerà il mio fidanzato!».
Tobio smette ufficialmente di respirare, sente una mano di Shoyo sulla schiena.
Probabilmente si sta assicurando che sia ancora vivo.
«Non credo di aver capito bene, amore mio».
«Shoshan! Tu e Toosan mi dite sempre che si può amare chiunque purchè anche l’altro ci voglia bene. Giorgio gioca sempre con me e a volte mi da un po’ della sua merenda e io voglio fidanzarmi con lui, così tutti sapranno che ci vogliamo bene proprio come voi due!».
Tobio si riprende, alza la schiena e vede lo sguardo deciso di Lilà.
Se non fosse che non vi è alcun legame di sangue, non avrebbe dubbi e giurerebbe che quella sia davvero la figlia di Shoyo.
Il broncio corrucciato, le sopracciglia unite e gli occhi saettanti prima su un papà, poi sull’altro.
Persino i capelli riccissimi e indomabili sembrano gonfiarsi per poterle dare una parvenza di leonessa.
Shoyo glieli scompiglia con una mano e la carezza, le lascia un bacio sulla fronte e sorride nel constatare che quei ricciolini profumano ancora di shampoo all’albicocca.
Gli tornano in mente tutti gli istanti in cui temeva di non riuscire a garantirle una vita vera, in cui temeva di non poter avere più Tobio al suo fianco e di aver perso tutto.
Lilà invece e lì, di fronte a lui, con gli occhi identici a quelli di sua madre e mille sogni tra le mani.
«E’ okay, allora, se anche lui ti vuole bene potrai sederti accanto a lui.» Shoyo guarda Tobio e sorride, sente la mano dell’altro raggiungere la sua e stringerla.
Sono riusciti, senza neanche saperlo, ad insegnarle la cosa più importante.
L’amore senza vincoli né etichette.
«Ma io non sono venuta qui per chiederti di potermi sedere con lui, lo avrei fatto lo stesso, Shoshan!».
Una folata gelida si fa spazio dentro la camera e congela i due papà in un’espressione tra lo sconvolto e il colpo apoplettico.
«C-cosa?!».
Lilà ignora la domanda del suo papà e apre il libro di principesse che ha portato dalla sua cameretta, cerca con meticolosità una pagina in particolare e poi la indica con un ditino.
«Ecco! Domani voglio essere bella come una principessa e vorrei i capelli così!» Lilà si scioglie in un sorriso caldo e meraviglioso che – a sua volta – fa sciogliere anche i due papà che si riprendono dallo shock iniziale.
Questo prima di vedere l’immagine indicata dalla bambina.
La principessa che li saluta da quel foglio di carta ha dei bellissimi capelli lunghi e lisci raccolti in due trecce sulle spalle.
Cala il silenzio.
Stavolta è Tobio a prendere in mano le redini della situazione.
«Lilà, tu hai i capelli molto più belli di quelli della princ-».
La bambina torna a mettere il broncio.
«Toosan! Tu mi chiami bushu-chan*!».
«Ma perché i tuoi capelli sono carini come un cespuglio!» Tobio non è mai stato bravo nelle discussioni, men che meno in quelle con i marmocchi.
Peggio di peggio con una marmocchia in particolare.
«Toosan vuole dirti che per noi sei già una principessa e non hai bisogno di somigliare a lei.» Shoyo indica la ragazza sorridente che continua a fissarlo dal libro con sguardo colmo di pena nei suoi confronti.
«Nella foto dell’anno scorso non si vedeva la faccia di Chiara per colpa dei miei capelli troppo alti». La bambina solleva una mano per imitare i capelli gonfi che esplodo dalla testa.
Shoyo e Tobio si guardano arresi, fissano prima il libro e poi la loro bambina.
Annuiscono e con un solo sguardo decidono chi dei due debba alzarsi a preparare un caffè.
«E sia, non ti garantiamo però di riuscirci! Faremo il possibile, okay? Ora fila a dormire che domani mattina dobbiamo svegliarci presto se vuoi fare la principessa!».
Lilà si illumina e salta sul letto per poi fiondarsi tra i suoi due papà e riempirli di baci.
Shoyo ride e la tempesta di baci sulle guance piene dei suoi sorrisi, Tobio le carezza la schiena nel primordiale gesto d’affetto che le ha riservato ormai sei anni prima.
 
Shoyo socchiude la porta della cameretta e si assicura che la figlioletta si sia davvero messa a letto.
Si avvia in cucina e trova Tobio seduto sull’isola del piano cottura con una tazza fumante in mano e le gambe incrociate. Ha gli occhi fissi sullo schermo del tablet e sembra guardare con interesse qualcosa.
«A quanto sta la partita?» Shoyo si avvicina e allunga una mano per prendere il suo caffè, lancia un’occhiata fuggitiva allo schermo.
Si ferma.
Non vi sono pallavolisti né palloni volteggianti, una signora dai capelli riccissimi tiene una spazzola in mano e mostra ad un pubblico invisibile come stirare i capelli per poterli intrecciare.
Tobio sembra non aver neanche notato la sua presenza tanto è coinvolto dalla spiegazione.
Shoyo gli regala un bacio sulla guancia prima di sedersi al suo fianco e poggiare la testa sulla spalla solida del suo ragazzo.
«Ci ha proprio fregati.» Commenta mentre prende appunti mentali su come inumidire i singoli ricci.
«Mi avete fregato entrambi, idiota. Io sono quello che ci ha rimesso di più, ricordalo.» Parole e tono si accordano ben poco – come spesso succede a Tobio quando parla con lui – e lasciano trasparire un amore e una dolcezza senza confini.
«Assumiti le tue colpe, Toosan».
 
Sette giorni dopo.
Tobio è seduto sulla panchina della sua palestra, i giocatori della sua squadra corrono avanti e indietro per cominciare il riscaldamento prima di una partita.
Uno di loro si ferma, stringe gli occhi come a metterlo meglio a fuoco.
«Mister, tutto a posto?» chiede con un accento particolarmente pesante.
Tobio solleva gli occhi, non si è accorto del sorriso che gli ha illuminato il volto.
Annuisce e si affretta a fiondare il telefono dentro il borsone come se lo avessero beccato a rubare.
Si dimentica di bloccarlo, però, così dallo schermo è ancora visibile il messaggio che gli ha mandato Shoyo solo qualche minuto prima.
E’ la foto di una foto stampata, vi è parte della classe di Lilà seduta composta sulle sedioline dell’asilo. Tutti sorridono alla telecamera tranne una bambina dalle trecce gonfie e un po’ goffe che è impegnata a stringere in un abbraccio stritolante un bimbo dalle guance rosse d’imbarazzo. Lei ride con così tanta gioia da aver chiuso gli occhi senza sapere di essere davvero la più bella di tutti.
 
Tobio è riuscito a nascondere le sue emozioni, ma si è dimenticato di quella piccola lacrima incastrata tra le ciglia.
 

*Bushu-chan: Cespuglietto

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Capitolo 5
*** Chapter 5 ***


~ A Million Dreams ~
Chapter 5
[KageHina][+ Lilà]


Piccole gocce d’acqua scendevano lente, ancora calde, lungo il petto scolpito di Tobio. Disegnavano, con una grande precisione, il perimetro di ogni singolo muscolo ora teso, ora rilassato, che seguiva i movimenti di quel corpo alla ricerca di un attimo di refrigerio.
Il rumore dell’asciugacapelli fece ridestare Shoyo – steso sul letto - dai suoi pensieri, scostò gli occhi quel tanto che bastava per poggiarli sulla schiena tonica e flessuosa del suo ragazzo.
Tobio gli lanciò un’occhiata dallo specchio e l’altro potè giurare di vedere ancora un guizzo di quell’amore adolescenziale che tanto li aveva uniti.
Ormai sostituito da un amore più maturo, forte, ma altrettanto carico di desiderio.
Quando Tobio uscì dal bagno con i capelli umidi e le gambe fasciate dai lunghi pantaloni della tuta, Shoyo non potè fare a meno di rivolgergli un sorriso appena malizioso. Si sarebbe aspettato un bacio o – cosa molto più probabile – una rimbrottata su come non fosse il momento adatto per mettersi a fare i piccioncini visto che Lilà sarebbe rimasta fuori casa ancora per poco.
Una cosa sola non si sarebbe mai e poi mai aspettato: Tobio scivolò sul letto al suo fianco e cercò nuovamente i suoi occhi, sembrava volergli chiedere qualcosa senza però averne le parole.
«Va tutto bene?» chiese infatti l’altro, con un sopracciglio appena corrucciato.
«No, decisamente non va bene. Si può sapere a cosa stai pensando? E’ da ieri che ti vedo tra le nuvole.» la mano destra di Tobio si infilò tra i capelli dell’altro ragazzo, ne carezzò le ciocche provocandogli un piccolo mugolio d’assenso.
Shoyo non riuscì a vuotare il sacco, non immediatamente almeno, e si accoccolò contro il petto dell’altro nella speranza che non si discostasse.
Che accogliesse anche quell’altra paura che ora cominciava a mordicchiargli il cuore e la mente.
Tobio, per tutta risposta, lo strinse leggermente a sé e fece scivolare le dita quasi sulla fronte, lì dove le ciocche ramate si allungavano fino a solleticargli le lentiggini.
«Ti vuoi decidere a parlare o ti devo cavare le parole di bocca?».
«Mi sarei aspettato un po’ di tatto in più, è una questione delicata!» Shoyo corrucciò le sopracciglia in un broncio comico e ben poco serio. Tobio sorrise appena, sciogliendosi in quel gesto con una naturalezza che credeva non gli sarebbe mai appartenuta. O, almeno, lo credeva prima di conoscere Shoyo.
«Proprio perché so che è una questione delicata ti sto minacciando di cavarti le parole di bocca». Tobio avvicinò il viso a quello dell’altro sfiorandogli appena le labbra.
Shoyo si avvicinò quel tanto che bastava per saggiarle con le proprie e cercare il coraggio per vuotare il sacco una volta per tutte.
«Si tratta di Lilà.» sussurrò ancora sulle sue labbra, come a volerlo sentire vicino. Ancora più vicino.
A sentire il nome della loro bambina, Tobio percepì un brivido scendere lungo la schiena e gelargli la pelle.
Con uno sguardo lo invitò a parlare ancora.
«Qualche giorno fa la maestra dell’asilo le ha chiesto di raccontare agli altri bambini qualcosa sul Brasile, sui loro usi e costumi e lei mi ha fatto notare che non c’è mai stata. Questa cosa mi ha un po’ ferito, io l’ho comunque strappata alla sua terra e vorrei che lei potesse vederla e viverla anche se di tanto in tanto.» Shoyo venne zittito da una voce bassa che lo chiamava lento, come a volerlo far riemergere nuovamente da quei pensieri fitti e pesanti.
«Shoyo, tu non hai strappato Lilà dalla sua terra, l’hai strappata da una vita di miseria e solitudine.» Tobio si assicurò che il messaggio fosse stato recepito e, solo quando ne fu convinto, lo lasciò continuare.
«Lo so, ma è anche vero che Lilà non ha mai visto il mare in cui sua madre le faceva immergere i piedi quando era solo una neonata. L’ha vissuta solo per pochi mesi, ma non posso fare a meno di pensarci e vorrei davvero portarla lì qualche giorno e farle scoprire da dove viene, dov’è nata ma-» Shoyo sgranò gli occhi quando si rese conto delle mani fredde e sudate che aveva ancora poggiate al petto dell’altro ragazzo.
Aveva paura. Shoyo sentiva davvero di avere paura come poche altre volte.
«Ma?».
«Tobio, ho paura che la trovino».
Shoyo si ritrovò con la schiena contro i cuscini freddi e due mani, a loro volta gelide, avvolte a coppa contro il suo volto.
«Non la troveranno, Shoyo».
Tobio sapeva. Sapeva cosa gli occhi del suo ragazzo avessero visto tra le mura in cartone e i tetti di eternit delle favelas.
Shoyo aveva fatto correre, giocare, ridere, i bambini più poveri. Si era affezionato ad Isabela.
Isabela che si era ritrovata troppo presto da sola, che era stata travolta nei giri di droga e criminalità di quelli che lei chiamava carioca.
Isabela che, nonostante cercasse di lavorare onestamente, non riusciva a scollarsi di dosso il peso delle buste di cocaina che era costretta a spacciare.
Isabela che era riuscita a mettere al mondo una bambina sana e buona d’animo – proprio come lei -, e che poi era morta nel tentativo di strapparla dalle grinfie degli uomini che tante volte avevano osato picchiarla.
Non voleva per Lilà il suo stesso destino, voleva immaginarla libera. Proprio come si sentiva lei su quei campi di beach volley in cui aveva conosciuto Shoyo e la sua vitalità.
E Shoyo stesso lo sapeva cosa si nascondesse nei meandri bui della periferia di Rio, conosceva il brulicare delle organizzazioni che cercavano di uccidersi l’un l’altra mandando in prima linea delle donne innocenti, degli uomini disperati, dei bambini troppo piccoli per capire.
Era stato questo che lo aveva spinto a cercare Lilà e a portarla via appena possibile, prima che si accorgessero che fosse ancora viva. Prima che la reclamassero.
Lasciare il Brasile era stato difficile, dire addio ai suoi pequenos, a Pedro, a Santana – che tanto lo avevano aiutato in quell’impresa -.
Era stato maledettamente difficile ricominciare, ma ci era riuscito per un motivo solo. Lo stesso che ora aveva poggiato la propria fronte contro la sua.
«Sono d’accordo con te, non è saggio portarla in Brasile adesso. Potrà farlo tra vent’anni se vorrà, le spiegheremo tutto quando avrà l’età per capirlo e sarà lei a scegliere cosa fare, se scoprire le sue origini viaggiando o tramite i tuoi racconti. Lasciarle vivere la sua normalità qui non le precluderà la felicità in alcun modo, capito?».
Più che un discorso fatto per convincere il proprio ragazzo, Tobio diede l’idea di una persona che stesse cercando di convincere se stesso. D’altronde entrambi avevano sentito lo stesso brivido di freddo alla sola idea che la loro bambina potesse essere anche solo sfiorata da uno degli uomini carioca.
«Non la troveranno nemmeno qui, non è vero?» Shoyo si lasciò sfuggire quella domanda, quella paura viscerale, senza nemmeno accorgersene. Strinse le proprie mani su quelle dell’altro, ancora poggiate sul suo viso.
«Non la troveranno. Io e te non compariamo in televisione da molti anni, viviamo la nostra vita in una casa modesta, non diamo nell’occhio e Lilà è circondata solo da persone fidate. Non le succederà nulla e – ti giuro Shoyo Hinata – che semmai qualcuno volesse ferirla, dovrà prima vedersela con noi».
Shoyo avrebbe voluto piangere, se per aver finalmente udito quelle rassicurazioni o per quel raro momento di confidenza quasi spirituale, non avrebbe saputo dirlo. Si limitò quindi a chiudere gli occhi e sentì le braccia di Tobio avvolgerlo totalmente.
In quei sei anni avevano avuto alti e bassi, come sempre, ma mai avevano osato dormire distanti. Mai una volta non si erano sostenuti a vicenda e avevano sempre, sempre, tenuto insieme le mani di Lilà.
Quella bambina era riuscita a unirli ancora di più – e non credevano nemmeno loro fosse possibile essere uniti ancora di più – ma ci era riuscita davvero e aveva colorato le loro giornate di glitter arcobaleno e principesse. Aveva realizzato, senza saperlo, il loro sogno di avere una famiglia e il sogno di sua madre di saperla libera da quella schiavitù che portava il nome di favelas. Aveva preso e fatto sue tutte le qualità di Isabela, e Shoyo, che aveva avuto la fortuna di conoscerla, se ne rendeva conto giorno dopo giorno.
Lilà era sorridente, solare, altruista e testarda - tanto testarda - . Ma, sopra ogni altra cosa, Lilà aveva un cuore immenso e pur di aiutare un compagnetto avrebbe venduto tutti i suoi giocattoli.
Mentre erano ancora immersi nei loro pensieri, Tobio e Shoyo udirono due squilli – segno di qualcuno che li reclamava al citofono – e furono costretti a separarsi.
Tobio si sollevò, non prima di avergli regalato una carezza sul viso appena accennata, e afferrò la maglietta sulla sedia cercando di non pensare alle mani ancora tremanti.
La infilò appena in tempo e aprì la porta trovandosi davanti una signora dai capelli corti con una busta in mano, un bambino parecchie spanne più basso di lui e un cespuglio di capelli ricci urlante.
«Toosan! Lui è Giorgio e lei è sua mamma!» Lilà si stava sbracciando per indicarli entrambi con un gesto simile ad un grande abbraccio.
«Oh, salve, sono Tobio il -» si bloccò, la voce spezzata in gola. Gli tornarono in mente le parole di Shoyo, gli sembrò di rivivere in un solo secondo ogni attimo dell’esperienza vissuta dal suo ragazzo in quella terra così distante.
Non poteva ancora appropriarsi di quel nome, per quanto Lilà avesse fuso il suo nome con l’appellativo in giapponese ma –
«Lui è il mio papà!» la bambina lo aveva indicato con il braccio ben steso, come se fosse possibile confondersi in qualche maniera. Tobio abbassò gli occhi e si rese conto di dover dire qualcosa.
E lo avrebbe fatto – giurò – se quella bambina gli avesse lasciato almeno un neurone e una cellula miocardica integra.
«Il tuo papà sembra davvero fichissimo! Signor Tobio, posso venire a giocare a pallavolo qualche volta?» gli occhietti di Giorgio, luminosi come quelli del cespuglio che ancora lo indicava qualche spanna in giù, riuscirono a farlo resuscitare temporaneamente.
Tobio annuì e finalmente si sciolse in un sorriso.
«Oggi abbiamo preparato i biscotti fatti in casa, ecco, questi sono per voi. Ora dobbiamo proprio andare, è stato un piacere averla conosciuta!» La signora gli porse la busta per poi prendere per mano il figlioletto e salutare.
Lilà si allontanò un momento dal suo Toosan per potersi avvicinare a Giorgio e schioccargli un rapido bacio sulla guancia per salutarlo.
Tobio dichiarò deceduti l’ultimo neurone e l’ultima cellula miocardica e si chiese se nell’aldilà si giocasse a pallavolo con le nuvole. Capì di essere rientrato in casa solo quando notò una mano vagamente familiare ondeggiare davanti i suoi occhi.
«Sei vivo? Ehilà, c’è nessuno?!» la voce di Shoyo era tra il divertito e il preoccupato, il volto poco prima contratto in un’espressione di puro dolore era ora appena più disteso – per quanto fosse marcato dai segni inequivocabili delle notti insonni -.
Tobio sbattè un paio di volte le palpebre, ma senza riuscire ancora a parlare.
«Lilà, cos’hai fatto a Toosan?!» la voce di Shoyo era ora quella di sempre, squillante e assordante come solo lui sapeva essere.
La bambina, intenta a trafugare un biscotto da dentro la busta, lo guardò con l’aria di chi non ne sapeva nulla.
«Shoyo, noi due dobbiamo parlare e dobbiamo fare un discorsetto a bushu-chan».
 
Nella camera da letto, intanto, un telefono con dei corvetti stampati continuava a squillare.
Lo schermo si illuminò mostrando una foto di una ragazza dai capelli ramati e dal sorriso raggiante che mostrava fiera due dita in segno di vittoria e tre biglietti aerei.
«Oniichan, prepara le valigie! La settimana prossima comincerete le vacanze forzate!».

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