Racconto di un narcisista

di Tottaaax
(/viewuser.php?uid=1174121)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2. Damian ***



Capitolo 2
*** Prologo ***


Damian camminava irrequieto per la maestosa stanza da ballo, la camicia bianca immacolata fino a un'ora prima, era ormai visibilmente imbrattata. Macchioline viola sul petto sembravano lo schizzo del pennello di qualche artista dispettoso, ma non erano altro che il risultato di un bicchiere di vino versato con noncuranza. Il calice era ,infatti, stretto tra il medio e l'indice di Damian che lo rigirava nervosamente nel palmo della mano affusolata. La camicia non era più stretta nel jeans chiaro dalla cintura di cuoio, ma scappava dall'indumento mostrando così la congiunzione asimmetrica dei bottoni. Qualsiasi invitato notando le schiocche rosse sotto gli occhi azzurri contrasto del giovane uomo non si sarebbe posto molte domande a riguardo, ma egli non era un ospite qualunque, era Damian Gantly, uno degli uomini più desiderati dell’ambiente Newyorkese, giovane scrittore inglese che aveva ottenuto un fortunato successo con il suo primo libro, uscito già cinque anni prima, che da allora non era più riuscito a mettere le mani sulla tastiera della sua macchina per scrivere verde oliva,e che a questo proposito ora giaceva sulla scrivania in ebano ricoperta da uno spesso strato di polvere. Damian era passato dall' essere un brillante emergente scrittore ad essere un giovane poeta fallito,aveva voluto pubblicare,nonostante l’avversione della sua casa editrice,una raccolta di rime adolescenziali che a causa della loro banalità non avevano fatto altro che riscuotere i commenti sarcastici della critica giornalistica. Esistevano come consueto quei pochi elementi che lo consideravano un genio di fine tempo definendo la sua poesia una risposta concreta alla crisi empatica del nostro secolo. Quest'ultimo atteggiamento però non faceva che relegarlo ad una cerchia ristretta ed elitaria di artisti a cui lui non voleva in alcun modo appartenere. Non aveva mai nutrito infatti una profonda,ma nemmeno superficiale,stima, per quel branco di buoni a nulla,pigri e scioperati che amano definirsi 'poeti maledetti'. Nonostante fosse uno stacanovista impegnato,non poteva evitare l'imminente crollo nell'oblio dei libri dimenticati che gli conferiva comunque una tale aura di perdizione astratta da renderlo esasperatamente irresistibile agli occhi delle donne. Probabilmente non era un buon partito,ma profumava terribilmente di peccato . Damian ora sedeva vicino alla finestra con il calice mezzo vuoto nella mano sinistra e la sigaretta consumata nella destra. Gli sguardi erano tutti su di lui,ma, abituato,gli erano totalmente indifferenti. La rabbia gli pressava lo sterno,gli occhi languidi guardavano agli eventi accaduti un'ora prima,le gambe divaricate sulla sedia,i polsi poggiati sulle ginocchia e il piede sinistro rivestito dalla scarpa classica era mosso da un'incessante tremore . Sentiva ancora le mani di Chaima allentargli la cravatta e buttarla per terra mentre gli baciava il collo e stringeva tra le sue lunghe dita i capelli neri di lui. Percepiva la sua stessa mano,dove ora bruciava il mozzicone dell'ultima sigaretta della serata,poggiata sotto il seno della donna che gli infiammava l'anima e il corpo. Se chiudeva gli occhi sentiva ancora il naso ricoperto dai capelli scuri e riccissimi di lei, mentre velocemente la completava. Il loro riflesso nello specchio dello spogliatoio guardaroba resisteva anche sul fondo del calice di Chardonnay ,vedeva gli occhi ardenti della donna,la sua bocca carnosa leggermente aperta nascosta dietro la sua grossa mano che non le permetteva di gemere. A Damian non sembrava il caso di farsi scoprire durante il galà di beneficenza,lei invece sembrava del tutto incurante della situazione. Poi tutto finì, l'adrenalina si consumò,gli occhi ora freddi di Chaima si puntarono nei suoi e con un sorriso malizioso lo ringraziò per averle allietato la noiosa serata. Aveva quindi aperto la porta, sceso lo scalone mastodontico e raggiunto suo marito. Damian invece era rimasto lì, senza cravatta e con le dita sporche di un rossetto color vinaccio. *** La pioggia si riversava su Damian con violenza, i capelli mossi, ora intrisi, erano attaccati alla sua fronte, il viso non tradiva più la poca lucidità, ma era molto pallido, gli occhi pieni di venature rossastre richiamavano le macchie di vino sulla giacca. Damian era nervoso, l’autista del taxi si era rifiutato di riaccompagnarlo a casa, e barcollando tra gli isolati di New York non poté fare a meno di chiedersi perchè un uomo ubriaco fosse in grado di spaventare le persone, pensò allora se fosse colpa di tutte quelle nuove serie tv sui vampiri o se semplicemente l’essere umano avesse una tale paura delle emozioni da evitarle in qualsiasi forma. Cos’è d’altronde un uomo ubriaco, se non un’anima nuda che non ha paura di urlare, piangere, ridere e dire la propria senza nascondersi dietro ad un falso e ipocrita perbenismo? Tornato a casa non si preoccupò nemmeno di togliersi i vestiti, lanciò la giacca sul pavimento e accese quella che sarebbe stata la prima sigaretta del mattino, erano le cinque e mezzo, ma fuori era ancora buio pesto, aveva i gomiti appoggiati al davanzale bagnato e mentre l’umidità gli penetrava le ossa, il fumo gli riempiva i polmoni. Fumare era solo una delle sue cattive abitudini, tuttavia era anche quella meno pericolosa e meno dolorosa,infatti se Damian poteva definirsi dipendente da qualcosa, quel qualcosa era sicuramente l’amore. Questo poeta fallito non poteva certo considerarsi un uomo tutto d’un pezzo, al contrario, era un’anima tutta frammentata, spezzettata, un bellissimo bicchiere di cristallo lanciato per gioco in una società malsana, calpestato per anni da superficiali newyorkesi. Gli piaceva pensare di essere una sottospecie di sfida divina, immaginava un dio perverso ridere di lui dopo aver scoperto che in fin dei conti, l’essere umano, non ci mette poi tanto a rompersi. Sì, Damian Gantly poteva sembrare un egocentrico narcisista, convinto di essere la vittima del caotico gioco dell’universo e, in effetti, lo era davvero,ma dire che era solo questo,no, sarebbe troppo facile. Se la sua anima è rotta in mille pezzi,questo aspetto del suo carattere non è altro che una delle mille facciate del frammento più esterno,quello che permette a chiunque di vedere,a tutti, ma non a lei. Herica si svegliò di soprassalto, il rumore sordo dell’anta della finestra che andava a colpire il telescopio di fianco al letto l’aveva spaventata, sussultò alla vista dell’ombra di Damian davanti al divano letto e solo quando i suoi occhi si abituarono all’oscurità gli rivolse un sorriso dolce, agitò la mano e spostò le coperte pesanti, era il suo modo di chiamarlo a sé silenziosamente, un tenero invito a stendersi di fianco lei,senza il bisogno di alcuna domanda, non erano necessarie le parole tra loro per comprendersi, non esistono lingue utili alle anime affini. Damian si sfilò velocemente i vestiti bagnati,le si stese affianco e percepì immediatamente il calore del suo corpo, Herica si era addormentata sul divano aspettando che tornasse dal galà, era abituata ai suoi rientri notturni, all’odore del alcol e del fumo che lo precedeva, al suo corpo nudo impregnato dal profumo di un’altra donna. Certo, i primi anni aveva sofferto molto con Damian, litigavano di continuo , lui non le chiedeva mai scusa per essere andato con altre donne o per non averla invitata alle feste a cui partecipava tantomeno per non amarla come qualunque uomo degno di lei avrebbe fatto, l’unica cosa che le ripeteva era che lui era questo , che non poteva cambiare, che non voleva farlo. “Accettami ed io accetterò te,sempre” le diceva con l’espressione di chi riponeva tutta la propria fiducia in una sola persona, e fu così che Herica rimase, non seppe mai spiegare a nessuno cosa non andava in lui, ma non seppe nemmeno mai andarsene , si abituò al suo amore e imparò ad amarlo follemente. A sua volta Damian non le chiese mai se anche lei assaggiava la bocca di altri uomini o se si facesse amare da qualcun altro nello stesso modo in cui permetteva a lui , infondo non gli importava , nessuno avrebbe mai saputo baciare il suo corpo e le sue labbra corallo come le baciava lui, come desiderava lei e di questo erano ben consapevoli entrambi. Ci sono amori che non possono nemmeno definirsi tali... ma che non possono essere altro.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 1 ***


Capitolo uno

Un bar grezzo, buio e pieno di alcol, di quello aveva bisogno Damian alle 11 di quel martedì sera. Una giornata insoddisfacente, come tutte del resto, oramai non ricordava nemmeno quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che era collassato sul letto sentendosi felice ,soddisfatto o quanto meno sobrio, a dire il vero non sapeva neppure  se fosse mai successo, di una cosa però era certo…  non lo avrebbe ricordato neanche con qualche  bicchiere di whiskey in meno.
Erano già due ore che sedeva su quello sgabello scomodo, la finta pelle si attaccava ai pantaloni sgualciti indossati sedici ore prima , la trovava estremamente fastidiosa, di un rosso così spento da angosciare anche un personaggio come lui, che dell’angoscia aveva fatto un libro, un lavoro e un’arte.Per non parlare del rumore poi , non era libero di aggiustarsi su quello sgabello scomodo, macchiato e di pessimo gusto che lo strillo infernale della pelle sintetica attirava l’attenzione del barista che immediatamente  gli puntava gli occhi addosso. Si dice che i baristi a volte possano sostituire gli psicologi, altre invece non sono che i migliori amici di notti infinite, ma non sempre è così. Nel caso di Damian infatti quel barista rozzo e dall’occhio sbilenco, in quel bar prossimo alla chiusura nascosto in un sottoscala di Brooklyn, dietro quel bancone pieno di alcol scadente, lo riempiva di inquietudine e di fastidio scriteriato.
Cosa aveva da guardare tanto quell’omone cresciuto troppo in altezza? Cosa aveva da puntargli contro quel suo occhio malandato mentre puliva quei boccali di birra opachi con un sudicio straccio? Damian aveva paura di perdere il controllo e di sfogargli addosso tutta la sua frustrazione. Essere fissati da una donna va bene, è eccitante, intrigante, ma un uomo no, un uomo che ti fissa di continuo con la chiara intenzione di analizzarti, non solo è inquietante, ma anche inopportuno, se avesse voluto sapere il motivo della sua disperazione avrebbe potuto semplicemente chiedere. Certo è che lo avrebbe risposto in modo poco garbato o magari lo avrebbe addirittura ignorato facendosi riempire nuovamente il bicchiere di bourbon , ma almeno non starebbe ancora subendo quell’occhio pendente fissato su di lui.
Damian odiava ricevere attenzioni, gliene avevano date per tutta la vita, anche troppe, era stato un bambino oppresso dai genitori  e ancora oggi si sentiva così ,nonostante non li avesse  più al suo fianco.
Il padre, Henry Gantly, ,un pezzo grosso della medicina, centinaia di articoli scientifici approvati e pubblicati, decine di premi vinti grazie agli studi condotti sui vaccini contro le malattie del terzo mondo, era considerato una delle persone più influenti in ambito medico, alcuni reparti ospedalieri prendevano il suo nome  per l’enorme quantità di beneficienza fatta, eppure nessuno si sarebbe mai aspettato che il Dottor Gantly fosse un pessimo padre, e mai avrebbero potuto credere che non comunicava con il suo stesso figlio da anni.
Al college Damian era stato considerato un raccomandato , aveva intrapreso una laurea in medicina, proprio come il padre, e non importa quanto fosse bravo, portato o semplicemente quanto studiasse, l’esito di ogni esame veniva deciso dopo pochi secondi, giusto il tempo che il professore in questione collegasse il suo cognome a quello del padre.
Voti brillanti, complimenti portati all’esasperazione tanto da indurlo a mettere alla prova gli insegnanti che lo valutavano, smise allora di dare il meglio di sé, ma il risultato non cambiò. Un giorno provò a mentire riguardo alla propria famiglia : “ No Professor Carter, non appartengo al chirurgo Gantly” così aveva risposto al suo insegnante di anatomia, ma la situazione peggiorò addirittura, non solo aveva ricevuto il massimo dei voti con tanto di elogi per la sua umiltà e correttezza nel non voler ricevere particolari attenzioni, ma gli venne ingenuamente rivelato che il padre da circa due anni era diventato il maggior finanziatore di quell’istituto, così che ogni professore non solo conosceva il chirurgo Henry Gantly, ma anche il suo figlioletto prodigio.
Fu quel giorno di sette anni prima che Damian si rese conto che non importava quante risposte esatte avesse dato in un test, quanti libri leggesse o quanto si impegnasse, non sarebbe mai stato giudicato in quanto Damian, ma in quanto Gantly e soprattutto non sarebbe mai stato bocciato… infondo quale direttore permette al figlio del maggior cliente che possiede di abbandonare l’università ? Considerando che i college privati si basano su un semplice rapporto venditore-cliente, assolutamente nessuno.
Dopo poche ore un Damian furioso  discuteva animatamente con il padre.
Fu l’ultima volta in cui mise piede nella casa dove era cresciuto.
L’ultima in cui lo vide.
“Abbandono medicina,casa,te”.
Suo padre, un’espressione tirata in viso, la palpebra fissa penzolante segno dell’imminente vecchiaia  e gli occhi fissi nei suoi, condividevano il colore, probabilmente l’unico tratto che li avesse mai accomunati.
L’ultimo ricordo che Damian aveva di suo padre.
L’inizio della fine pensò Damian svuotando il bicchiere, il ricordo del dottore lo aveva innervosito, avrebbe voluto sfogare sul barista che continuava ad osservarlo mentre puliva il bancone, in fondo era colpa sua…sua e del suo dannatissimo occhio pendente così simile a quello del padre.
“ Cosa ha da guardare?” sbottò Damian, gli occhi fissi sul bancone, temeva di poter scattare semplicemente guardandolo dritto in quell’occhio acciaccato .
“In verità ho l’impressione di conoscerti ragazzo” rispose il barista, un uomo grosso, di una certa età, il viso incorniciato da una folta barba bianca in contrasto con la pelle scura,sotto i baffi un sorriso divertito. Damian stava per perdere la pazienza. “Sarà perché vengo qui tutte le sere,che dice?” domandò Damian infastidito.
“ Perché collassi qui tutte le sere vorrai dire, comunque no, non sei forse tu lo scrittore che fece scalpore qualche anno fa?” chiese l’uomo soffocando una risata.
“Cosa la  fa ridere? Che passo tutte le sere in un bar o che uno così abbia scritto un libro?”chiese a sua volta e fece segno di riempirgli nuovamente il bicchiere, ora che sapeva il perché di quello sguardo insistente era più calmo,più triste.
“In verità trovo banale che uno come lei, che passa le sue serate in un bar di Brooklyn, sia uno scrittore,  ma comunque non più di me che suonavo jazz nei locali e ora faccio il barista,non trovi? Gli stereotipi non vanno poi così sottovalutati come si dice” spiegò il barista versando il bourbon prima a Damian e poi a sé stesso “Se vuoi affogare la banalità nell’alcol tanto vale farlo in compagnia” strizzò l’occhio sano e toccò il bicchiere del ragazzo con il suo, a Damian non infastidiva più così tanto quel barista dall’occhio sbilenco.
Mentre sorseggiava il suo ultimo whiskey prima di tornare a casa,Damian, non potè fare a meno di notare un gruppo di ragazze che non sembravano appartenere per niente a quell’ambiente, se avesse dovuto indovinare chi fossero e da dove venissero avrebbe senza alcun dubbio  puntato sulle classiche figlie di papà ,viziate e ovviamente di Manhattan. In fondo lui quel genere di ragazze le conosceva bene, ci aveva a che fare tutti i giorni per lavoro.
Volendo avrebbe potuto anche lui vivere tranquillamente in un attico nello skyline più famoso al mondo, ma si era ripromesso di non dimenticare tutta la strada che aveva fatto, partendo dall’essere egli stesso un viziato figlio di papà,  fino a raggiungere l’indipendenza totale passando per infinite strade buie, buche e vicoli ciechi…no, non avrebbe buttato tutto questo nel dimenticatoio per tuffarsi nel lusso,nello sfarzo e nella superficialità estrema.
Damian non riusciva nemmeno a immaginare di vivere in quel mondo dove l’essere umano era schiavo dell’immagine e dell’eccesso o almeno non era quello il tipo di eccesso a cui intendeva sottomettersi . Al finire in prima pagina su riviste scandalistiche e alla cocaina ,,infatti  prediligeva di gran lunga serate sprecate nei bar e tabacco, per questo motivo aveva acquistato un appartamento a Brooklyn così lontano da quell’ambiente tossico che sapeva, prima o poi, lo avrebbe distrutto.
Chi può odiare tanto un ambiente se non colui che lo ritrae in tutte le sue sfumature? Damian Gantly non era solo uno scrittore fallito, un essere umano fragile e allo stesso tempo intoccabile, era il direttore di uno dei giornali più importanti di New York, noto in particolare per le sue rubriche scandalistiche , l’M.S Journal.
C’erano voluti sette anni per arrivare a quel risultato, sette anni dall’aver sbattuto la porta di paglia dietro le sue  spalle  all’affermarsi come direttore di un giornale di successo , sette anni passati poi tutt’altro che velocemente. Aveva sempre immaginato che raggiunto questo tipo di obiettivo si sarebbe sentito pienamente appagato, ma non era nemmeno lontanamente vicino a una sensazione del genere.
Sopraffatto da pensieri , ricordi e alcol Damian uscì dal bar,poggiò la schiena al muro umido e accese una sigaretta.
 Sento  qualcosa di insoddisfatto nel mio cuore sempre  pensò buttando fuori il fumo della bocca , le parole di un vecchio poeta studiato a scuola gli tornarono con dolcezza alla mente,sorrise resosi conto di quanto fossero ridicoli i suoi stessi pensieri.
“Ciao,me ne dai una?”.






¤Ciao a tutti questo è il primo capitolo della storia,è la prima volta che pubblico su questo sito nonostante sia una lettrice da anni e finalmente ho trovato il coraggio di farlo. :)
Spero vi piaccia, vi prego se avete voglia di esprimere la vostra opinione che sia negativa o positiva fatelo, sarei contentissima.
Se siete arrivati fino a qui grazie mille per avermi letta.. xoxo

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 2. Damian ***


Capitolo Due
Damian






Mi giro di scatto sorpreso, davanti ai miei occhi una ragazza che mi guarda sorridente.
“Tieni” non ricambio il sorriso, ma le porgo l’accendino.
“Ho il mio, grazie” smette di sorridere.
Trovo ironico che abbia l’accendino, ma non le sigarette, la solita scusa, mi dico. Adesso sorrido io.
La osservo di nascosto, non per timidezza, non per rispetto, per noia.
Stanotte non ho voglia di infilarmi in un letto sconosciuto, di innamorarmi per qualche ora, non ho voglia di conoscere la bellissima e inutile intimità di qualcuno che non rivedrò.
Questa notte ho voglia di tornare a casa, fare l’amore, dormire accanto a lei.
Questa ragazza però è bella, bella davvero, e io sono ubriaco…e triste.
Fuma in silenzio, la mano sinistra nel cappotto, si stringe nelle spalle e trema leggermente ,ha freddo.
Ogni tanto mi rivolge lo sguardo, ha notato che la sto studiando, probabilmente aspetta parli di qualcosa, qualunque cosa che le permetta di tornare a casa con la consapevolezza di essere bella, di essere sexy, al punto di  non poter chiedere una sigaretta a un uomo , che si ritrova costretta a doversi sottrarre all’ennesimo flirt. Ma stanotte no, non ho proprio voglia.
Non si trova a suo agio qui, si vede che non è il suo posto, fa parte del gruppo di ragazze che sedeva alle mie spalle, probabilmente non viene spesso a Brooklyn, sarà qui per nascondersi dagli occhi giudicanti di Manhattan, lo intuisco  dal fatto che festeggiavano  come delle liceali scolando decine di cicchetti.
Mi sorprende che stia in piedi in effetti, uscendo mi sono scontrato con alcune di loro che barcollavano verso il bagno, mentre lei sembra essere completamente sobria, perfettamente rigida  nei suoi jeans a zampa, il tessuto che tocca l’asfalto umido e si annerisce copre le lunghe gambe, niente tacchi vertiginosi, indossa un paio di sneakers basse ai piedi, mi incuriosisce.
Espira l’ultima boccata di fumo , butta la sigaretta a terra e punta i suoi occhi neri nei miei, due pozzi.
“Grazie di nuovo” dice aprendo la porta del bar.
I capelli ricci e scuri  le coprono il viso a causa del vento e  le sfiorano le labbra ricoperte di rossetto rosso, ormai rovinato a causa del fumo e dell’alcol, non le rispondo , ma la osservo rientrare.
Mi accendo un’altra sigaretta.



Devo chiamare un taxi e tornare a casa, un forte senso di disagio mi opprime il petto, vorrei fosse il whiskey, ma non è così, lo so.
Osservo la sigaretta a terra, è sporca di trucco.
Un filtro macchiato sull’asfalto come unico testimone dell’intersezione di due vite, non ci sono foto né persone che ricorderanno questo momento, solo un mozzicone accartocciato come fantasma di un incontro.
Una breve conversazione, sempre se si possa definire tale un semplice scambio di battute, per giunta banale.
Probabilmente ce ne sono state a milioni , in milioni di identiche strade, tra milioni di persone, nello stesso preciso momento, in tutto il mondo.
Questo pensiero mi deprime, sto scivolando nella banalità, mi ci sto avvolgendo dentro come in una coperta, l’autenticità che ho ricercato per tutti questi anni ora mi annoia, sarebbe bastata una parola in più, una battuta buttata così a caso, un sorriso da parte mia e sarebbe stato tutto diverso. Chissà forse staremmo ora parlando, o magari sarebbe rientrata ugualmente, o forse ancora la starei baciando dietro l’angolo prima di raggiungere casa sua, d’altronde era quello che cercava.  In tutti i casi avrei aggiunto qualcosa alla mia esistenza, qualche parola, un rifiuto, una notte di sesso…qualsiasi cosa, non importa, mi sarebbe andato bene tutto, eppure questa sera non ho nemmeno avuto la forza di rispondere ad un ‘grazie’, il solo pensiero di scambiare qualche frase, di stabilire un contatto, mi dava la nausea.
Ci vuole sempre un  secondo  a cambiare tutto il resto, esso scandisce il tempo, non il contrario, nello stesso istante una rosa può sbocciare oppure essere calpestata, ciò che avviene dopo è inevitabilmente determinato da quel secondo.
In un secondo un professore mi ha rivelato la verità su mio padre.
In un secondo ho lasciato tutto, sono rimasto solo.
In un solo ,interminabile,  secondo lei mi ha salvato.
Una strana ansia mi stringe la gola mentre continuo ad osservare quel mozzicone bagnato, mi sento imprigionato nella mia mente, per qualche assurdo motivo non riesco a distogliere lo sguardo.
Dovrei proprio tornare a casa ripeto a me stesso, ma diventa sempre più difficile, mi sento a disagio, scoperto.
Allora capisco, non è stata l’effimerità di quella sigaretta, né tantomeno  la banalità del momento, nonostante essa mi sia nemica, è stato il suo sguardo.
Ha incastrato i suoi occhi nei miei e non ho sentito nulla, due occhi infiniti e…vuoti.
Pensavo che quelle poche inutili parole mi avessero turbato, invece è stato quel silenzio a farlo, un silenzio che aveva il suono dell’intimità e il profumo del sesso, un silenzio erotico.
Un ultimo bicchiere, per calmarmi , poi torno da lei.
Prendo il cellulare e scrivo un messaggio, “sto per arrivare”.
Entro nuovamente nel bar, l’ambiente caldo mi mette quasi a mio agio.  Noto subito Arthur, il barista, che versa da bere proprio alla ragazza che mi ha costretto a rientrare qui dentro. Mi avvicino al bancone e mi siedo, lo sguardo di entrambi si posa su di me, quello di lei solo per un secondo, Arthur invece scuote la testa con espressione divertita.
“Ti mancavo già?” mi dice poggiando un bicchiere vuoto davanti a me.
“Terribilmente” gli rispondo sorridendo.
 Fa per versarmi un bicchiere di bourbon, ma lo fermo “Prendo quello che prende lei”, indico la ragazza accanto a me che continua a fissare il suo drink finito.
Gira il viso verso di me e immerge i suoi occhi nei miei, mi svuotano, di nuovo, due interminabili buchi neri, la sensazione di disagio si impossessa del mio corpo ancora una volta.
“Un Martini, grazie.” Si rivolge ad Arthur, che mi osserva incuriosito. Pochi secondi dopo ci passa due coppe , per poi allontanarsi a servire altri clienti, siamo soli in mezzo alle persone, di nuovo.
“Come ti chiami?” le chiedo
Sorseggia il suo cocktail e mi guarda, un mezzo sorriso sul volto “Mi sembravi di così poche  parole lì fuori.”.
Mi infastidisce il suo atteggiamento da ragazza viziata, avverto il modo in cui sente superiore a tutti all’intero di questo bar, sente di poter avere chiunque e qualsiasi cosa voglia qui dentro.
“Mi sembravi così poco interessante lì fuori” ribatto.
 Sembra sorpresa, smette di sorridere,  ma solo per un secondo “E cosa ti ha fatto cambiare idea?”.
“Il fatto che bevi qui da sola mentre le tue amiche starnazzano dietro di noi probabilmente” le dico sistemandomi meglio sullo sgabello in modo da guardarla in viso .
Si lascia scappare una risata “Sono completamente andate, non sono più abituate a serate del genere” confessa.
Mi stupisce e mi secca allo stesso tempo il fatto che mi abbia detto una cosa del genere, sembra una confidenza, non è intima, ma non mi interessa, mi annoia. Inoltre so bene cosa intende, avevo visto giusto, classica élite di Manhattan che per divertirsi davvero scappa da qualsiasi obiettivo digitale.
Ad ogni modo bastano poche parole a far sì che il mio interesse nei suoi confronti inizi a scemare, a volte occorre una sola informazione di troppo, non richiesta, per far crollare tutto.
“Non mi dire” rispondo disinteressato, ora sì che è il momento di tornare a casa.
 Deve aver notato  il mio cambio di atteggiamento e sembra nascondere un sorriso divertito nel bicchiere, mi irrita.
Mi alzo e poso i soldi dei drink sul bancone, le do le spalle e mi incammino verso la porta, ho bisogno solo di lei stanotte.
“Il mio nome è Chaima comunque”  quasi urla con tono beffardo, non mi guarda nemmeno, ne sono sicuro, avrà gli occhi puntati sul fondo del gin, non c’è bisogno che mi giri per scoprire che tiene ancora stampato  quel sorriso irrisorio sul  volto.
Mi fermo, vorrei dirle che è inutile che fa  la stronza se poi mi grida dietro il suo nome, siete tutta apparenza , tutte uguali, che palle.
Mi volto leggermente verso di lei, “Non mi interessa più, adesso.”

                                                                       ***





Apro la porta di casa e getto la giacca sul divano, ho l’impressione di essere stato svuotato, non sento niente, non penso a niente, nemmeno i pensieri che solitamente si rincorrono all’interno della mia testa hanno voglia di far la guerra.
La cerco.
E la trovo.
Herica è lì, rannicchiata sul letto accanto alla finestra aperta, dorme senza nemmeno coprirsi, probabilmente si è lasciata sorprendere dal sonno mentre mi aspettava, questo pensiero mi conforta.
La guardo tutta accartocciata nel suo completino di raso, così corto da non lasciare spazio all’immaginazione, è stupenda, bellissima, sexy…eppure niente riesce a scalfire la sua innocenza, non importa se si veste, quanto si veste o se non lo fa per niente, appare ugualmente perfetta, irraggiungibile, angelica.
Mi avvicino alla finestra per chiuderla, non c’è bisogno che mi avvicini a lei per notare i brividi di freddo sulla sua pelle. Il mio piede colpisce qualcosa e scopro il pacchetto di sigarette a terra, mi fa sorridere e scuotere la testa allo stesso tempo, non riesco a toglierle il vizio di fumare sul pavimento, “è più poetico non trovi? E poi riesco a guardar meglio le stelle. Non ti farebbe male tornare con il culo per terra ogni tanto Dam, perché non provi anche tu?”, mi viene da ridere al ricordo della sua risposta la prima volta che le ho chiesto perché lo facesse, era anche la prima volta che dormivamo in questa casa e quello era il suo modo goffo di dirmi di non montarmi la testa.
Improvvisamente la sua voce mi riporta alla realtà “Non stavi per tornare qualche ora fa?” mi chiede con voce assonnata, ma non è infastidita. Non lo è mai.
“Ho deciso di tornare a piedi piuttosto che in taxi, volevo prendere un po’ d’aria, la solita serata di merda.” le dico mentre mi spoglio.
Herica si siede sul letto e si stiracchia, “il bar non è così lontano da qua” replica tra gli sbadigli.
“Ho bevuto prima un cocktail con una ragazzina viziata di Manhattan in verità” le spiego stendendomi accanto a lei e poggiando la testa nell’incavo del suo collo.
“Solito insomma” dice alzando gli occhi al cielo.
“Sì, solito.”
Lei conosce ogni mia debolezza, ogni punto di forza, ogni vizio.
Io lei ce l’ho dentro, incastrata tra le costole, è parte di me, non c’è niente di lei che non conosco e che non amo.
Non sono necessarie parole tra noi, esse, spesso, feriscono più dei fatti.
“Quindi la ragazzina ti ha rovinato la serata?” mi chiede fingendo un po’ di gelosia.
“No, lei non c’entra niente, stasera era tutto così…banale” le confesso.
“Hai una fissa per la banalità Dam” mi dice ridendo.
“Non è vero” protesto  mordendole il collo.
“Ma se ci hai scritto un libro!” ride ancora e si gira verso di me, punta i suoi occhi nei miei, occhi pieni di luce, occhi che arrivano dove nessuno è mai arrivato. Mi bacia.
“Penso che se smettessi di analizzare ogni momento tramite un’assurda scala che va dalla banalità assoluta all’autenticità irraggiungibile vivresti meglio sai? E magari berresti anche di meno, i baci con te sanno sempre di whiskey” mi canzona con dolcezza.
“Her baciami, di parlare stanotte non ho proprio voglia.”
 Le accarezzo il viso, bacio i suoi occhi verdi, le mordo il labbro per insinuarmi nella sua bocca, lei   per risposta la socchiude leggermente, poggia le mani sulla mia schiena, rabbrividisco.
Mentre la bacio le sfilo il completino e la stringo a me , contro il mio petto, percepisco i suoi seni e la  stringo più forte, se potessi diventare tutt’uno con lei lo farei, ora, qui.
Herica respira forte, mi desidera quanto io desidero lei, avvolge le sue piccole gambe attorno al mio bacino e posa le mani sulle mie spalle. Mi fermo un secondo prima di entrare, fondo i miei occhi con i suoi, sono a casa. Geme dolcemente sotto di me mentre piano la completo, la osservo godere, i lunghi capelli biondi le coprono i capezzoli, le bacio il collo, poi il seno, mi muovo sempre più veloce finché tutto non si conclude con un ultimo gemito, la bacio. Mi lascio andare su di lei, mi accarezza i capelli mentre il suo respiro si regolarizza.
Stanotte non avevo voglia di niente, se non di te.

 









 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3958718