Échec et mat

di acchiappanuvole
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** intro-Ouverture ***
Capitolo 2: *** Partita aperta ***
Capitolo 3: *** camposcuro ***
Capitolo 4: *** Shah ***



Capitolo 1
*** intro-Ouverture ***


Gli scacchi non sono come la vita: essi hanno delle regole!
(M.Pasternak)
 
Ouverture
 
“Che cosa l’ha spinta a venire nuovamente a Parigi?”
Era una domanda che non le aveva mai fatto; la fece all’improvviso dopo un lungo silenzio. Era una calda sera parigina ed erano seduti sulla terrasse davanti al Deux Magots, con due bicchieri di Pernod sul tavolino rotondo. Lui aveva aggiunto acqua al liquido trasparente e Beth l’aveva osservato diventare lattiginoso; le piaceva il sapore fresco dell’anice, la sensazione quando arrivava allo stomaco. Si sentiva come una gatta acciambellata al sole, momentaneamente in pace con il mondo.
“Attenta il Pernod è molto forte, Beth.”
Elisabeth aveva sorriso ironica. Provava una certa soddisfazione nel sentirlo pronunciare il suo nome con quell’accento particolare, avrebbe voluto restare lì per sempre a guardare la gente che andava e veniva in un susseguirsi che non pareva casuale, cercare di capire cosa dicevano ai tavoli vicini. “
“Ancora non ha risposto alla mia domanda.”
Beth alzò le spalle con noncuranza “Parigi è l’emblema della mia sconfitta e forse anche della mia rinascita. E poi…mia madre amava Parigi. Ne parlava spesso. E’ un peccato sia morta prima che potessi portarcela.”
Sperava che non le chiedesse altro perché sapeva che avrebbe iniziato ad eludere le domande, ad infastidirsi probabilmente. Era pentita dell’istinto che l’aveva indotta a mentirgli quando si erano incontrati la sera prima, le menzogne possono chiudere in una trappola, una trappola siberiana* nella quale si era infilata da sola come l’ultima delle principianti. Era qualcosa che non avrebbe mai creduto possibile, eppure tutto in quell’uomo la destabilizzava. Dal gentile distacco con cui parlava, all’impettita compostezza, lo sguardo ieratico, incapace di lasciarsi sfuggire anche un solo dettaglio.
“Ho mentito” ripeteva tra sé queste parole, ma quando veniva il momento di pronunciarle perdeva il coraggio e taceva. Ammettere avrebbe comportato dare una spiegazione e doveva esserci una mossa meno rischiosa da poter giocare. Lui sarebbe cambiato se avesse saputo? Beth distolse gli occhi. Sì, era possibile.
 


 

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Capitolo 2
*** Partita aperta ***


La casa di Rostokino affacciava sulla riva grigia del fiume Jauza, le basse finestre incorniciavano vetri sottili attraversati da arabeschi di ghiaccio, dai camini delle case circostanti pulviscoli di fuliggine sporcavano il paesaggio bianco a ridosso dell’acqua. A Vasily quella vista piaceva, era una posizione eccellente per tenere sotto controllo la possibilità di accampamenti tedeschi dall’altra parte del fiume. “Che ci sarà mai di interessante da farti stare tutto il giorno appollaiato a quella finestra!” chiedeva suo padre infastidito e Vasily indicava le fioche luci a oriente “potrebbero essere i tedeschi?” in risposta l'uomo lanciava occhiate distratte sbuffando “gli europei non hanno mai imparato che il generale inverno non lascia passare nessuno. Se laggiù ci fossero veramente i mangia crauti farebbero la fine che hanno fatto tutti quelli che hanno provato a invaderci. Ed ora scendi da lì ed aiuta tua madre.”
Quando Lyubim Borgov parlava del generale inverno, la mente di Vasily proiettava l’immagine di un grosso uomo di ghiaccio vestito con l’uniforme da generale zarista che brandendo una saska faceva scempio delle avanzate nemiche. Fantasticava su questa figura mitica, e non importava che sua madre gli ripetesse che non c’era alcun uomo di ghiaccio ma semplicemente un inverno gelido al quale nessun tedesco sarebbe sopravvissuto.  Kalisa era infatti una donna pratica, per natura poco incline alle fantasie e terribilmente concreta, era sopravvissuta alla fame della rivoluzione, aveva perso i suoi genitori e i suoi fratelli mandati alla morte in una guerra insensata ed ora scandiva il suo tempo in meccanicismi che riguardavano il mantenere la casa e assicurarsi ci fosse un piatto di minestra caldo ogni sera. Aspettava il secondo figlio, il ventre era gonfio dell’ottavo mese e lei toccandolo sorrideva “sarà di certo un altro maschio.” Aveva trenta cinque anni all’epoca, una donna di corporatura esile, il viso pallido ed occhi azzurri, una cascata di capelli rossicci che raccoglieva in una grossa treccia. La sera si accostava sempre al caminetto della piccola sala da pranzo, avvolta in un doppio scialle di lana grezza chiamava accanto a se il figlio pregandolo di leggere per lei. Kalisa non aveva infatti potuto proseguire gli studi, la sua alfabetizzazione era minima, pertanto, quando la stanchezza non le chiudeva gli occhi, spronava Vasily a leggerle qualcosa. “Non prendere quei libroni complicati” diceva “quei fratelli…i Karamazov …parole troppo complesse. Leggimi un dramma teatrale, quello del giardino,” Vasily l’accontentava “il giardino dei ciliegi?” e Kalisa annuiva soddisfatta “quello. mi piace tanto. Un giorno vorrei avere anch’io un bel giardino di ciliegi.” Lo ripeteva ogni volta e ogni volta dopo averlo detto s’incupiva “che sciocchezza. Morirò in queste quattro mura. Dai leggi.” Vasily prendeva il testo teatrale, un regalo del professor Borislav, l’insegnante di letteratura, un’edizione di quarta mano, in alcuni punti strappata e con lettere slavate.
Vasily leggeva, ormai aveva imparato quel testo a memoria, inventandosi parole e situazioni laddove mancava una pagina o il testo risultava incomprensibile, aveva all’epoca un’ottima capacità mnemonica, gli bastava leggere o osservare anche per una sola volta senza sforzo.
“Lo stai facendo diventare una donnetta” Lyubim solitamente non disturbava il momento di lettura, ma in quella sera di gennaio il suo umore era più cupo e dispotico del solito “ a cosa serve leggere tutte quelle sciocchezze.”
“Sei ubriaco?” chiedeva rassegnata Kalisa, notando la tazza fumante, probabilmente latte allungato con vodka, “quell’intruglio ti fa male.”
“Comprerei di meglio se avessi i soldi” sbottava “Vasily da domani verrai con me al lavoro. E’ ora che ti dia da fare anche tu per questa famiglia.”
“E’ un bambino” protestava Kalisa ma senza troppa convinzione.
“Io alla sua età lavoravo.”
“E la scuola?” chiedeva Vasily, stringendo più forte il testo logoro.
“Se ti insegnano quella scemenza è inutile. Oramai sai scrivere e far di conto, è quanto basta sapere.”
“Non voglio lasciare la scuola.”
Lyubim si era drizzato come un gallo “tu fai quello che dico io! E ora a letto.”
Notando il moto di protesta che stava nascendo sulle labbra del bambino, Kalisa pensò di alzarsi e spegnere l’incendio prima che divampasse “hai sentito, andiamo a letto.” Lo prese per mano, trascinandoselo dietro fino allo stanzino dove stava una brandina e uno scaldaletto “questo apparteneva allo Zar in persona” diceva soddisfatta.
“E perché ce l’hai tu?”
“Beh l’ho comprato.”
“E come fai a sapere che era dello Zar?”
“Perché così ha detto la donna che me l’ha venduto. Suo figlio era un bolscevico, quando entrarono nel Palazzo d’Inverno presero tante cose, e questo, mi ha assicurato la babushka, viene dalla stanza dello Zar.”
“Quindi è stato rubato.”
“I bolscevichi non hanno rubato.”
“Se prendi qualcosa dalla casa di qualcun altro si chiama rubare.”
“Tutta quella roba apparteneva al popolo, è sul nostro sangue che lo zar poteva permettersi tante ricchezze. Davvero la scuola non ti serve a nulla se non ti hanno ancora insegnato i valori della rivoluzione.”
“Il professor Borislav dice che le cose bisogne vederle da più angolazioni, che quello che sembra giusto per alcuni non sempre lo è per altri.”
“Dì a Borislav di far quattro chiacchiere con me. A parte questo vedrai che tuo padre cambierà idea sulla scuola, era solo nervoso. Anche se qualche lavoretto male non ti farebbe.” Lo aiutò a sistemarsi sotto le coperte, “domani continuerai a leggere per me?”
“Sono stanco di leggere sempre la stessa cosa, ci sono anche altri drammi sai.”
“Ma a me piace quello,” lo baciava sulla punta del naso “Kalinka, kalinka, kalinka moja! V sadu jagoda malinka, malinka moja!”
Ogni sera Kalisa intonava la kalinka, metteva il viso sul cuscino, accanto a quello di Vasily, e con la voce un po’ rauca ma dolce scandiva le parole finché gli occhi del bambino non si chiudevano.
 
L’indomani alle 6 del mattino, Lyubim l’aveva tirato giù dal letto impartendogli di vestirsi in fretta; assonnato Vasily obbediva, l’acqua fredda con la quale si era lavato il viso l’aveva fatto lacrimare dal freddo. In cucina una tazza di latte e pane, fuori un cielo opaco striato dalle prime schegge di luce del  mattino.
“I tuoi crucchi sono arrivati?” scherzava il padre allacciandosi gli stivali e Vasily lanciava occhiate ansiose alla finestra, l’occhio a scrutare oltre il fiume “non si vede nulla, ieri sera c’erano luci ora non c’è nulla.”
“Figlio mio se laggiù c’era davvero qualcuno ora fa parte integrante della tundra. Su sbrigati dobbiamo andare alla stazione.
“Dov’è mamma?”
“Non ti deve interessare,” e schiacciandogli il colbacco sulla testa l’aveva praticamente spinto fuori l’uscio. Il gelo rattrappiva le dita della mani tanto che Vasily credeva di averne perso la sensibilità; la stazione era un  nembo nero di carbone, parole condensate nell’aria e vestiti rattoppati, facce che guardavano le proprie scarpe e procedevano arrese verso i vagoni lungo i binari. Uomini ubriachi addormentati e addossati agli scompartimenti, donne giovani con fronti solcate troppo prematuramente e con uno o più bambini premuti contro, come chiocce costrette con pulcini pigolanti; gli fu impossibile non pensare a sua madre e al nuovo venuto che di lì a poco avrebbe strillato nelle anguste stanze della loro casa, una nuova bocca da sfamare per Lyubim Borgov.
“Scenderemo  alla prossima, vedi di non stare indietro.”
Incastrato tra il corpo robusto di suo padre ed il vetro sporco del vagone, Vasily osservava la tundra scorrergli sotto gli occhi, il mondo ignoto ai confini di Mosca, di tanto in tanto si scorgeva qualche sovchoz, un estenuante tentativo dell’uomo di ricavare qualcosa di commestibile dal terreno ghiacciato. Sua madre gli ripeteva che la vita dei contadini era la condizione peggiore e che suo padre era fortunato a lavorare come operaio d’acciaieria. Vasily cercava di immaginare come potesse essere una fabbrica d’acciaio, con grandi fornaci spalancate come bocche affamate, talmente affamate d’aver portato via un dito della mano destra di Lyubim e due falangi della sinistra. Osservò le proprie mani lunghe e bianche che fino a quel momento avevano conosciuto solo le pagine dei libri e al massimo la fatica di spaccare qualche ceppo di legna. Kalisa ci teneva che preservasse quelle mani, non tanto per un fatto estetico quanto perché, come era solita borbottare quando lavava i piatti “tieni bene le mani Sily, le mani rovinate spaventano le donne e soprattutto portano grandi dolori” e prendeva ad osservare le sue dita artritiche “io ne son ben qualcosa.”
Dopo quello che parve essere un tempo infinito il treno sostò ad una piccola stazione circondata da basse stamberghe, oltre le costruzioni era possibile scorgere le ciminiere dell’acciaieria. Cercando di mantenere il passo veloce di suo padre, senza badare all’ansia che gli faceva risalire quel poco di latte che era riuscito a bere, Vasily realizzò che quello , da quel momento in poi, sarebbe dovuto essere il suo destino, sepolto fino alla vecchiaia nelle mura di una fabbrica, finendo frustrato e arrabbiato con la vita come suo padre. Un moto di ribellione gli salì al petto da costringerlo a bloccarsi in mezzo alla strada.
“Io voglio continuare ad andare a scuola!”
Lyubim non sembrava averlo sentito così che Vasily lo ripeté a voce più alta “Voglio continuare ad andare a scuola!”
E stavolta il messaggio era arrivato forte e chiaro perché Lyubim si era voltato e senza dire una parola l’aveva strattonato per il giacchetto con violenza “voglio!voglio! Ringrazia il cielo che abbiamo fretta altrimenti un paio di cinghiate sulle gambe non te le levava nessuno. Ci sono i sogni Vasily e poi c’è la realtà e la realtà è che per mangiare bisogna lavorare, la poesia non ti metterà il pane nello stomaco, dovevi nascere figlio di qualcun altro ma mala sorte ha voluta che gravidassi tua madre ed ora siamo qui. Cammina su quelle gambe o ti lasco nel primo fosso che incontriamo.”
 
Quando varcarono i cancelli della fabbrica alcuni uomini sostavano all'esterno sotto la neve, seduti sulla base di vecchi tronchi o copertoni rotti si erano ammassati a ridosso dei muri in cemento per ripararsi dal freddo. Lyubim andò spedito verso il più anziano di loro, un uomo massiccio dalla barba scura e il naso rosso che pareva ustionato.
“Compagno Pavlov ho bisogno di parlarti.”
L’interpellato alzò appena lo sguardo mentre rigirava tra le mani un paio di dadi di mollica di pane, “non ora compagno Borgov, siamo presi da una questione seria qui.”
“E’ per mio figlio, vorrei tu mettessi una buona parola per farlo lavorare qui.”
Pavlov lanciò un’occhiata al bambino e lasciò che una risatina ironica gli ravvivasse il viso “con quelle braccine al massimo può vuotare i cessi.”
“Per favore compagno.”
“Ti è sfuggito che stiamo qui fuori tutti a congelarci lo scroto? Anche volessi non si può fare nulla finché dentro non avranno finito i controlli delle fornaci, pare che qualche fenomeno ci nascondesse l’oppio ed ora siamo tutti qua in attesa di sapere che fine si farà.” Scorgendo lo sguardo sconcertato di Lyubim Pavlov scoppiò a ridere, “allegro compagno, non ci capiterà sorte peggiore di questa. Fa avvicinare il marmocchio che gli diamo un’occhiata.”
Senza proferire altra parla Lyubim spinse il ragazzino verso il gruppo di uomini, odoravano di qualcosa che non riusciva ad identificare, e facevano cerchio attorno a Pavlov e ad un altro uomo intento a concentrarsi su di una scacchiera di fortuna. “Vieni ragazzo, intanto che il nostro amico qui pensa vuoi lanciare dei dadi? Bisogna avere più di un’occupazione nella vita sai.”
Ma Vasily teneva la concentrazione sui pedoni di legno grezzo  “come fate a giocare senza i colori?” chiese a bruciapelo e Pavlov esibì una eloquente smorfia “beh questi qui li ha fatti il compagno Smirnov con gli scarti di uno sgabello, purtroppo mancava la vernice e così vedi” indico la sommità di una torre “ci sono queste strisce di gesso per distinguere il bianco dal nero.” Si grattò l’ampia fronte rugosa “conosci gli scacchi piccolo zaichik*?” e senza aspettare risposta gli afferrò una mano come ad esaminarla “ben poco a che vedere con le nostre” rise. Vasily ritrasse la mano “li conosco dai libri.”
“Ah sì? Abbiamo un lettore compagni!” e schiamazzi irrisori si alzarono senza remore “e dimmi i tuoi libri ti hanno insegnato come si gioca?”
Vasily alzò le spalle senza rispondere.
“compagno lascia il posto al piccolo zaichik, tanto non ne esci da quel trappolone che ti ho preparato” senza nascondere una certa contrarietà l’avversario di Pavlov lasciò il posto al piccolo Borgov.
“Qui si fa sul serio zaichik” e volse poi un’occhiata significativa in direzione di Lyubim “ se il tuo topo da biblioteca riesce a muovere in modo sensato può darsi che ce la metta la buona parola, Borgov.”
 
(*zaichik -leprotto)
 

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Capitolo 3
*** camposcuro ***


Il gioco degli scacchi è la pantomima di una storia di famiglia e del dramma di Edipo.
Alexander Cockburn
 
Povlov alzò lo sguardo dalla scacchiera e lo puntò sullo zaichik, intorno a loro si era creato un sorpreso brusio e nessuno riusciva a decifrare quell’espressione tra il risentito e il divertito che si alternava sulla faccia del più anziano. Se un giorno qualcuno gli avesse detto che un ragazzino dalle braccine smilze lo avrebbe potuto mettere in difficolta non ci avrebbe mai creduto; soprattutto se suddetto ragazzino asseriva di non aver mai visto gli scacchi se non stampati sulla carta di qualche libriciattolo usato. Ciòrt poberì! In cinquantanove anni di vita c’era ancora di che sorprendersi e sorprendersi per Nikanor Povlov non era cosa da poco. In una vita passata era stato parte attiva nella fanteria della Russkaja Imperatorskaja armija, l’esercito dell’impero, seconda brigata reggimento Izmajlovsij, al servizio dello Zar. Il gioco degli scacchi l’aveva conosciuto sul campo di battaglia dove gli alfieri erano di carne e sangue e cadevano come pezzi di una scacchiera predisposta da chi il campo di battaglia non lo aveva visto nemmeno con il binocolo. Quanti amici aveva seppellito e quante cose aveva visto, dalla grande guerra alla rivoluzione di febbraio. Si sentiva un matusa a rievocare ritratti indelebili di tanti giovani immolati alla madre Russia, che fossero di una parte o dell’altra. La mossa della salvezza era stata strapparsi gli ornamenti dall’uniforme e abbracciare la causa bolscevica, non tanto per improvviso senso d’appartenenza quanto più per spirito di conservazione e sopravvivenza, di finir giustiziato per i Romanov non gli era sembrata una conclusione molto allettante. Di certo non era stata una storia da sbandierare, così reinventarsi come semplice operaio nella meccanica ripetitività dell’acciaieria e diventare il compagno Povlov aveva tolto la voglia a quanti, se mai ce ne fossero stati, avessero fatto troppe domande su trascorsi non in linea con il pensiero stalinista.
“Mi hai imbrogliato zaichik” asserì spostando il peso da un lato in modo da poter distendere la gamba destra, offesa ancora al tempo di guerra.
“Si può imbrogliare a scacchi?” gli occhi chiari del giovane Borgov si proiettarono in quelli dell’uomo che con la faccia divertita da orso bonario si grattò la barba scura.
“A tutto si può imbrogliare zaichik e tu” gli puntò l’indice all’altezza del naso “tu mi hai imbrogliato con la lingua. Qualcuno ti ha insegnato a giocare, mh? Questo orso della steppa non crede alla favoletta dei libri:”
Vasily non distolse lo sguardo “se avessi già giocato non avrei avuto motivo di nasconderlo”
“Lo pensi anche tu compagno Borgov!?” e all’unisono tutte le facce presenti si voltarono verso Lyubim fino a quel momento mantenutosi a discreta distanza; “non devi dubitare di mio figlio compagno Povlov, non ha tempo di imparare cose così complicate.”
“D’accordo, allora qui siamo in una posizione di stallo caro il mio zaichik e non te la darò la soddisfazione di sbeffeggiarmi davanti a tutti questi onesti signori, tanto più che mi sto congelando il culo.”
“Però dovete mantenere parola”
Povlov si fece cupo, improvvisamente infastidito da quel bambinetto rigido come un soldatino, gli ricordava un fantasma, un fantasma altrettanto rigido con una baionetta più lunga di lui.
“Tu dici?”
“Avevate detto a mio padre che se vi avessi messo in difficoltà una vostra buona parola sarebbe stata spesa per farmi assumere.”
“Non hai ascoltato bene zaichik perché ricordo benissimo di aver detto un può darsi. Vero compagno Borgov?”
Lyubim si portò alle spalle del figlio “non potete negare che vi ha messo in difficoltà compagno, e so che voi siete un uomo d’onore.”
Povlov avrebbe voluto scoppiare a ridere poiché con l’onore ci si era pulito la suola delle scarpe qualche decennio addietro; passò gli occhi dal padre al bambino e poi di nuovo al padre, non sembravano nemmeno parenti e tuttavia riuscivano ad avere il medesimo sguardo.
“Se vuoi la buona parola compagno l’avrai, ma sei sicuro ti convenga?”
“Vasily sarà un bravo lavoratore e se non dovesse rigar dritto ci penserò io personalmente ad assicurarmene.”
“Non ne dubito ma” grattò più intensamente la barba, a Vasily ricordò un cane tormentato dalle pulci “fossi in te non sprecherei certe convenienze per dare in pasto il tuo piccolo genio ad una qualche fornace.”
Lyubim parve perplesso non capendo dove l’uomo volesse andare a parare, così Povlov si rivolse direttamente al ragazzino “se è vero che gli scacchi li hai visti solo sui libri tu hai un talento marmocchio e di questi tempi avere quel tipo di talento è un biglietto in più per sperare di non far la fine dei topi. Vedi in Russia ci si crogiola quando si può far vedere al mondo che i figli della grande madre sono dei fenomeni, che sia piroettare fino a farsi sanguinare i piedi o divorarsi il cervello per vincere questa battaglia”  batté per tre volte le dita sulla scacchiera “perché questa è una battaglia e le battaglie vanno vinte, l’avversario va annientato con tutte le mosse possibili. Gli scacchi sono la più bella metafora della vita piccolo zaichik.”
“Occorrono soldi per fare quel che dici compagno” Lyubim impose a Vasily di alzarsi “e attualmente non è cosa che mi posso permettere.”
“Come ti pare compagno Borgov il mio era solo un suggerimento su un buon investimento, ci penserebbe lo zaichik a far soldi per te e se così non fosse a metterlo in fabbrica si farà sempre tempo” si alzò a sua volta rivelando a Vasily la reale mole massiccia, un monolitico blocco che sovrastava le teste di tutti gli altri “quanti anni hai?”
“Vado per gli otto”
E un’altra risata si condensò nell’aria “mi prendi in giro ancora zaichik?! Non hai nemmeno otto anni e hai lo sguardo di chi ha attraversato mille anni di vita, un piccolo saggio della tundra cari compagni.”
Vasily si rannicchiò nelle spalle, era certo che quel grosso orso bruno fosse il primo ad aver attraversato mille anni di vita decidendo inspiegabilmente di fermarsi ai margini del mondo, non era per nulla simile agli altri compagni, il modo in cui parlava e scrutava, non gli sembrava possibile associarlo ad un uomo delle fornaci; un sorriso si abbozzò sulle labbra violacee dal freddo, si ritrovò a pensare che il generale inverno fosse davanti a lui sotto le mentite spoglie di un operaio, l’aveva messo alla prova, gli aveva indicato una via, che fosse fantasia o meno.
I pensieri furono interrotti dal suono di una sirena, era il via per poter entrare nella fabbrica. Dolenti gli uomini si avviarono a passo svelto verso le porte, Lyubim volse un’ultima occhiata significativa in direzione di Pavlov, spingendo poi Vasily a seguire il gruppo. Il primo impatto fu deludente per il bambino, la fabbrica era spoglia e grigia come il piombo, un odore forte saliva per le narici facendo girare la testa, si ritrovò a starnutire ripetutamente. Senza tante cerimonie Lyubim sfilò un fazzoletto di stoffa azzurra dalla tasca soffiandogli il naso con vigore. “Ti ci abituerai” disse soltanto.
Gli uomini furono radunati a piedi dell’altoforno, un gigante e ribollente pentolone che lasciò Vasily a bocca aperta, il calore impattava improvviso sui loro visi creando una spiacevole sensazione sulla pelle gelata, Vasily si premette le mani sulle guance impaurito che potessero prendere fuoco da un momento all’altro. Davanti al gruppo un paio di uomini simili a corvi neri e con le mani rigide dietro la schiena scrutavano senza soffermarsi realmente su nessun volto. Si venne a sapere che i responsabili erano stati puniti, e Vasily guardò interrogativo suo padre che invece teneva lo sguardo fisso come un animale che fiuta il pericolo. Di questi responsabili non si seppe nulla, se fossero stati arrestati, o dove fossero portati, di certo si sottolineò che erano un grande disonore per tutti, che simili comportamenti rattristavano il grande cuore del ljubimomu Stalinu padre di tutti i russi.
“Immagino quanto al ljubimomu pianga il cuore per un po’ d’oppio” mormorò tra i denti Pavlov che ben conosceva quale punizione sarebbe spettata ai suoi ormai ex compagni di lavoro. Dopo aver fatto cantare loro l’inno, gli uomini furono mandati ai rispettivi posti di manovra, ordinati e rassegnati come formiche.
“Non ho capito nulla di quel che è successo papà” disse Vasily mentre suo madre immergeva le mani in una bacinella di acqua rossastra.
“C’era poco da capire figliolo, chi fa il furbo la paga. Fine della lezione. Ora immergi le mani qui dentro si scalderanno, intanto io e Pavlov parleremo con i compagni maggiori per farti assumere. E’ probabile che prima vorranno esaminare se hai forza e questo potrebbe richiedere l’intera settimana. Come un esame.”
 
 
“Vuoi una tazza di tè mamma? Preparo il samovar?”
Kalisa era rientrata pochi minuti dopo di loro, sedeva al tavolo della cucina e fissava la tovaglia cerata; Vasily attendeva che alzasse la testa, che chiedesse qualcosa ma non succedeva nulla.
“Cosa? Oh sì, grazie. Ho sete.”
Kalisa non girò neppure la testa, Vasily preparò il samovar rischiando di scottarsi più volte.
“Sily…”
“Sì mamma?”
La donna non aggiunse altro e attese che Vasily gli mettesse il tè davanti, vi aggiunse anche del latte con movimenti distratti, quasi cechi.
“Sily vai in camera da letto e prendi la scatola di latta dentro il cassettone, fa attenzione che tuo padre non veda. Vorrei che mi dicessi…conta quanto c’è.”
Vasily esitava poiché in quello strano comportamento c’era qualcosa che non capiva e questo lo spaventava. Andò a prendere la scatola e contò.
“Allora?”
“cinque rubli mamma”
“Cos..cinque?”
 Il bambino annuì e per tutta risposta Kalisa chinò la testa e iniziò a piangere. Quell’immagine pietrificò Vasily, non aveva mai visto sua madre piangere, nemmeno quando litigava ferocemente con Lyubim. L’abbracciò ma lei non lo strinse a sé, continuò a piangere scossa dai singhiozzi  Poi come aveva cominciato improvvisamente smise.
“Dammi un fazzoletto. Scusami Sily, sono solo stanca e non c’è davvero di che piangere per questo.”
Vasily le portò il fazzoletto e sua madre si asciugò gli occhi e soffiò il naso, il bambino le sedette accanto poggiando una mano sul braccio della donna, era assalito da un senso di desolazione e impotenza.
“Mamma per favore, non fare così, non piangere. Se sei preoccupata, se c’è qualcosa che non va puoi dirmelo. Lo so che sembro piccolo ma diventerò grande mamma, diventerò grande in fretta e ti aiuterò.”
Kalisa trasse un profondo respiro sembrava quasi in collera con se stessa “so che lo farai, ma va tutto bene Sily. Non dire a tuo padre che mi hai vista piangere, va bene? Adesso prepariamo la cena e domani andrà meglio, vuoi leggere per me?”
Vasily deglutì, aveva gli occhi che pesavano di stanchezza e con essi anche il petto sembrava diventare più pesante, come se sua madre vi avesse adagiato sopra una grossa pietra. Non gli chiese nulla della fabbrica, forse l’avrebbe fatto quando si fossero trovati tutti e tre a tavola. Vasily sentiva l’urgenza di raccontargli dell’orso dalla barba scura e degli scacchi, ma Kalisa si muoveva davanti alla stufa con lo sguardo vuoto, di tanto intanto si toccava il ventre scotendo il capo.
“Ach, pod sosną, pod zieloną” Vasily si ritrovò ad intonare la Kalinca, dapprima con voce incerta poi ogni parola venne più convinta e sicura “Spać połóżcie wy mnie! Aj-luli, luli, aj-luli, luli, Spać połóżcie wy mnie!”
Sua madre lo fissò come se realizzasse realmente la sua presenza solo in quel momento, accennò un sorriso senza farlo arrivare agli occhi. Non cantò.
 
Note
Ciòrt poberì! è l’esclamazione russa che potremmo associare al nostro “porca miseria”
Russkaja Imperatorskaja armija – era l’esercito imperiale russo che si sfaldò nel febbraio del 1917 con l’inizio della rivoluzione che vide contrapporsi l’armata bianca all’armata rossa.
Lavoro minorile : -con l’accavallarsi delle prima guerra mondiale alla rivoluzione russa furono molti i bambini che rimasero orfani di entrambi i genitori, un fenomeno molto vasto chiamato besprizornye, ovvero i bambini randagi. Per far fronte a questo il governo russo post rivoluzionario creò delle case lavoro dove gli orfani venivano predisposti appunto al lavoro ma anche all’apprendimento e all’alfabetizzazione, in alcuni casi si trattava di pallidi esempi pedagogici che sfumarono con la crisi economica del 1921 e furono ripresi dopo il 1924. Il lavoro minorile non comprendeva soltanto gli orfani ma anche tutti i bambini in età scolare figli delle situazioni economiche più svantaggiate, era quindi comune che nelle fabbriche, nelle miniere e nei campi si trovassero ragazzini impegnati in estenuanti lavori di fatica.
 ljubimomu Stalinu: traslitterato “amato Stalin” uno dei tanti modi reverenziali con cui i russi si riferivano a Stalin.
Kalinka: scritta nel 1860 è ancora oggi la canzone russa più conosciuta.
Testo tradotto:
O viburno rosso di casa mia,
dove in giardino fioriscono i lamponi.
Bacche di bosco,
lasciatemi dormire,
sotto il pino verde odoroso.
E voi fate piano
non turbate i miei sogni leggeri.
Ma tu dolce fanciulla,
quando accetterai l'amore mio?
Dimmi che mi ami….....

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Capitolo 4
*** Shah ***


Si impara a conoscere bene la gente viaggiandoci insieme e giocandoci a scacchi.
(Proverbio russo)
 
 
      Shah
 
Sotto la tettoia di lamiere adiacente lo stanzone dove gli operai erano soliti consumare il pranzo, Vasily se ne stava seduto raggomitolato accanto ad un tubo tranciato, con la neve sfregava una evidente bruciatura che percorreva in diagonale il palmo della mano sinistra. Distrattamente aveva poggiato la mano su un composto ancora rovente, la bolla violacea che si era creata gli impediva di chiudere la mano, la sensazione era che la pelle si strappasse ad ogni piccola pressione.
Un lieve spostamento d’aria accanto a lui gli rivelò la possente presenza di Povlov, con non poca fatica l’uomo gli si sedette accanto franando come un sacco di cemento a pochi centimetri da lui. Alzò il colbacco di pelo stinto che gli copriva completamente la fronte e con uno schiocco di lingua si rivolse a Vasily ancora intento a comprimere neve contro il palmo della mano.
“Fa vedere” e senza attendere risposta Povlov si portò la mano del ragazzino davanti agli occhi esaminandola per poi lasciarla ricadere con poca gentilezza. Si frugò nelle tasche facendone emergere quel che pareva un barattolo da pomata, una scatola in vetro cilindrico che aprì con fare abitudinario, “ecco mettici sopra questa.”
Vasily prese il vasetto portandoselo al naso, l’odore era forte e pungente, la consistenza pareva oleosa, ritrasse la testa all’indietro “che cos’è?”
“un rimedio zaichik, adesso spalmane un po’ sulla bruciatura e aspetta si asciughi, altrimenti ti resterà un bel segno, e in tutta onestà una bruciatura da lavoro non ha lo stesso onore di una bruciatura da battaglia.”
Vasily alzò le sopracciglia perplesso ma poco dopo obbedì, stringendo i denti e lasciando lacrimare gli occhi, rattrappì le dita forzando l’istinto di non serrare la mano o immergerla nuovamente nella neve.
“Bravo zaichick, vedo che sopporti bene il dolore.”
“Perché mi chiami così?”
“Perché?” Povlov fece finta di pensarci “ti si addice e poi se dovessi chiamare anche te compagno Borgov si creerebbe una certa confusione, non trovi? Oppure dovrei stare a dire compagno Borgov padre e compagno Borgov figlio. Uno spreco di parole e di tempo.”
“Ho un nome, mi chiamo Vasily”
“Come uno dei tre principi dell’uccello di fuoco”
Gli occhi del ragazzino si ravvivarono incuriositi “è un dramma?”
“Bah una favola più che altro, ci sono questi tre principi che devono catturare un grosso uccello dalla piume infuocate. Ma l’eroe è il principe Ivan, Vasily fa più che altro la figura del fesso, quindi non mi entusiasmerei troppo.”
“Mi piacerebbe conoscere questa favola”
“Sono sicuro che ti capiterà tra le mani prima o dopo, noi altri quando si parla di uccello di fuoco ci si riferisce ad altro che a pennuti incendiari, ma la situazione ti sarà più chiara da grande, caro il mio zaichik.”
“Tu come la conosci questa storia?”
“Ogni russo che si rispetti la conosce.”
Vasily si fece pensieroso.
“Allora un po’ di sollievo a quella mano?”
Vasily annuì “sì, grazie compagno Povlov.”
“Ad ogni modo non ti avvicinerai mai più ad una fornace. Sai contare e far calcoli?”
Vasily annuì dubbioso “perché?”
“Affiancherai il compagno Klika nel tener conto della produzione giornaliera, passerai in rassegna il magazzino ogni santo giorno riportando fino alla nausea tutto quello che ci finisce dentro.”
“Mio padre vuole che l’aiuti all’alto forno.”
Povlov trasse un profondo respiro “visto che ti piacciono le storie zaichick eccotene una, lo sai chi era lo Zar vero?”
Vasily annuì “era l’imperatore della Russia.”
Povlov fece un risolino grattandosi la guancia “bene, l’imperatore della Russia. L’ultimo si chiamava Nikolaj e vedi Nikolaj non era proprio nato per fare lo Zar, ma i reali hanno questa idiozia della discendenza, del potere dato da dio e stronzate varie per poi far la fine dei capponi, come quegli altri francesi. Comunque a Nikolaj non piaceva fare lo Zar, probabilmente sarebbe stato più adatto a fare il poeta o il giardiniere, aveva una passione per la letteratura e la potatura. Ironico non trovi?! Ma di prender decisioni giuste per il suo paese proprio non ne era in grado, così si affannava ad ascoltar mille voci diverse, a rincorrere le ambizioni di uno piuttosto che dell’altro ed il risultato” trasse un respiro quasi malinconico “era l’incapacità del ruolo che gli era stato affibbiato, perché dopotutto mica se lo era scelto.”
“Non poteva semplicemente rinunciare?!”
“Eh mai poi chi glielo spiegava all’altissimo? Sarebbe stato massimo disonore.”
Vasily parve riflettere, aveva visto qualche fotografia dello zar, un uomo senza particolare carisma e lo sguardo triste.
“Non capisco cosa c’entra con me”
“Beh pure a tuo padre parrebbe di andare contro il volere della falce e martello se non ti ingabbiasse a guadagnarti il pane in questa acciaieria ai confini del mondo, ma tu” e gli prese nuovamente la mano “guarda? Vedi questa sarà solo una delle tante cicatrici che avrai, a sedici anni le tue mani saranno due moncherini sformarti. E così come lo zar  sarebbe dovuto esser poeta forse tu sei destinato a far altro, zaichick. E in più dalla tua hai il vantaggio di non essere un coglione.”
Vasily zi alzò in piedi, spolverò con una mano i residui di neve del cappotto “credo sia meglio torni al lavoro.”
“Sai da cosa nasce il nome degli scacchi?” e dopo averlo detto Povlov fu ben soddisfatto di veder quegli occhietti chiari ancora colmi di curiosità.
“Da una parola francese” rispose Vasily
“Eh no zaichik! Da quale libriciattolo lo hai letto?”
E per tutta risposta Vasily tornò a sedersi accanto all’orso bonario.
“Deriva dalla parola shah che significa re. E’ una parola persiana o qualcosa del genere.”
“Il re è un pezzo importante degli scacchi…” mormorò Vasily
“Ah a ben guardare il re è appunto il signore degli scacchi, e quindi zaichick tu che vuoi essere? Un re o un operaio? Come ti dicevo c’è gente che nasce per essere una cosa e chi per essere un’altra, la strada difficile è seguire il percorso che ci porterà a capire quella cosa e come realizzarla. Se io alla tua età avessi avuto il tuo talento adesso non me ne starei qui.”
“Ma forse ne avevi un altro, compagno Povlov.”
Povlov pensò alla sua abilità di combattente, la precisione della mira del suo fucile, la resistenza fisica che lo aveva fatto sopravvivere fino a quel momento. Eppure quello era stato un genere di talento che era stato grato di abbandonare.
“Forse zaichik, e come vedi a non averlo coltivato ora sono un vecchio della tundra che tirerà le cuoia seduto in qualche latrina” rise ma di una risata priva di reale ironia “ a ciascuno il suo zaichik. Vedrai che pure tuo padre capirà presto cosa gli converrà fare con te, il problema è che certi uomini sono più lenti di altri.”
“Tu non sei sempre stato operaio, vero compagno? Conosci tante cose, cose che solitamente la gente qui dentro non sa.”
“Frena l’altezzosità marmocchio, qui dentro c’è gente che di cose ne sa parecchie, ma la lingua non è utile a manovrar l’acciaio. Ed ora sì torna al lavoro e sta lontano dalle fornaci.”
 
 
Poco prima che il sole divenisse una linea rossastra sull’orizzonte della sera, Lyubim fu convocato da uno dei compagni più anziani, Vasily lo spiò ascoltare l’uomo che tra una parola e l’altra agitava le mani, poté chiaramente distinguere il viso di suo padre cambiare colore, un pallore improvviso. Si mosse nervosamente nella sua direzione, “andiamo” disse soltanto camminando così velocemente che Vasily dovette correre per stargli dietro.
“Papà cosa è successo?”
“taci e cammina” sussurrò.
 
Sua madre era tornata con il treno dello 17.00 con due ore d’anticipo rispetto al solito, durante il giorno infatti prestava servizio in diverse case vicine al centro città, si occupava delle faccende, del bucato, di rammendare. Era stramazzata sul marciapiedi appena fuori la stazione di Rostokino, una donna che la conosceva l’aveva caricata su di un carretto con l’aiuto del nipote conducendola all’infermeria del popolo, un edificio non poco distante dai binari ferroviari. C’era un ospedale più grande a Rostokino ma non era cosa immediata l’essere ammessi.
“Hanno i posti saturi c’è il rischio che la lascino crepare sulla strada” disse la donna mentre incitava il nipote, appena tredicenne, a farsi carico di Kalisa per portarla fin dentro le porte dell’infermeria. Lì un uomo dal camice latteo aveva chiesto cosa fosse successo, ma non ci volle molto a comprendere poiché sotto il cappotto la gonna di Kalisa era completamente impregnata di sangue. Il medico si fece raggiungere da un’infermiera, non c’era molto tempo e le speranze di successo in quelle condizioni erano scarse.
Quando Lyubim e Vasily arrivano all’infermeria Kalisa era cosciente, c’era una foto di Stalin sopra il suo letto ed un’altra sulla parete opposta, il letto era corto tanto che la donna sembrava starci a stento, immersa tra coperte pareva una bambina. Vasily guardò sua madre, aveva la pelle bianca e tesa sulle ossa, le mani erano posate sulla coperta, respirava lentamente, fuori la neve aveva ricominciato a cadere.
“Un bel giardino di ciliegi, Vasily. Se dio esistesse ora tuo fratello dovrebbe stare in un bel giardino di ciliegi, come quello di cui mi leggi ogni sera. Mi sarebbe bastato qualche rublo in più e avrei potuto andare da un bravo dottore, tutto questo non sarebbe accaduto. No, non sarebbe accaduto.”  Non c’era alcuna inflessione particolare nella voce della donna, parlava in maniera così apatica e spenta che Vasily fu preso dall’impulso di saltare sul letto e scuoterla poiché quella voce non era la voce che conosceva, non era la voce di sua madre.
Lyubim si era intrattenuto a parlare con l’infermiera, una donna corpulenta con gli occhi cerchiati da profonde occhiaie, era stata pratica e solerte a spiegare quanto avvenuto, un aborto forse a causa del freddo, la fatica, qualcosa di pregresso, cose che possono capitare si era affrettata a dire prima di lasciare l’uomo solo sulla soglia della stanza indeciso sul da farsi. Per un istante Lyubim si risentì bambino, l’ultimo di sei fratelli, nascosto sotto il tavolo d’assi di legno dove era stata posta la bara del fratello maggiore Aleksej. Protetto dalle falde della tovaglia dal corpo morto e nuovo di suo fratello, la grande promessa della famiglia, la luce elettrizzante di una casa illuminata da candele. Aleksej Borgov, bravo ragazzo, fisico atletico, buoni voti a scuola, un piccolo re candidato a risollevare le sorti di una famiglia della buona borghesia caduta in disgrazia. Piangevano le donne venute apposta per piangere, e il suono dei loro lamenti era come il canto mortale delle sirene. Lyubim in quel ricordo color seppia ha undici anni ed è negato nello sport, basso di statura, un corpo tozzo. Così diverso da Aleksej. Aleksej che dei sei era il preferito di sua madre, sua madre ritirata nelle sue stanze, con finestre e tende chiuse per non vedere, non sentire nessuno.  Non lascerà il letto nemmeno per deporre un ultimo bacio sulle labbra sempre più azzurre del suo principe preferito. Aleksej il primo genito morto alla vigilia del suo diciassettesimo compleanno in un incidente con la slitta, su una lastra ghiacciata. L’avevano riportato a casa a bordo di quella stessa slitta trainata da un mulo, morto e esteriormente quasi intatto, ma con il collo spezzato e le ossa sparpagliate come per opera di uno di quei turbini di vento e foglie secche che scendono in picchiata per i dirupi siberiani.  Era stato sul far della sera, ricondotto a casa dagli uomini appena usciti dalle filande coperti dal rosso, dal verde e dall’ocra degli enormi barili di tintura. Agli occhi di un bambino era parsa una parata colorata, una processione di aiutanti della Baba jaga.* Lyubim era uscito sull’uscio nascosto dietro le gonne delle sue sorelle, la slitta che solenne  ferma davanti la porta della casa, e suo fratello adagiato su di una coperta rossa come una marionetta alla quale abbiano rubato i fili, Lyubim  corre sotto il tavolo per non vedere sua madre gridare. Se c’è qualcosa di più terribile di un grido è vedere da dove viene, quel grido: le grida trasformano le persone, ne fanno qualcosa di nuovo e terribile e Lyubim non riconosce sua madre fulminata dal lampo del grido. I vetri tremano, fuori un cane abbaia, e qualcun altro grida perché le grida isolate trovano sempre altre grida a cui agganciarsi. Il padre di Lyubim ordina alle figlie di portare la donna nella sua stanza, e nei giorni seguenti e in quelli a venire la casa rimarrà come sospesa nell’aria, ferma in un tempo che non avanza, come se il grido di Olga Borgov avesse alterato per sempre i meccanismi del tempo e dello spazio.
“Papà?”
Lyubim riprese a respirare come se quel richiamo lo avesse fatto riemergere da una lunga apnea, ancora fermo sulla porta fissava il viso di sua moglie, rigida e muta, una mano che di tanto in tanto tastava il grembo alla ricerca di qualcosa che non c’era più.  Lyubim trovò il coraggio di avanzare, ed un passo alla volta la paura di ritrovare sul viso di Kalisa il riflesso di Olga. Ma no, Kalisa si riprenderà, se ne convince poiché Kalisa ha già sofferto, ha già conosciuto la perdita, è una donna che non molla il timone neanche per un minuto, occhi inchiodati sull’orizzonte a cercare la terra ferma.  Lyubim convince se stesso, pianterà un albero accanto alla riva dello Jauza, lo chiamerà con il nome che Kalisa voleva dare a quel loro bambino, un bambino senza volto.
“Non si sente la mancanza o non la si sente troppo di quel che non si è conosciuto e non si è nemmeno riusciti a capire.” borbottò raggiungendo il letto della donna, e in quel momento gli occhi di Kalisa brillarono di un lampo rancoroso, come se una scarica l’avesse attraversata da capo a piedi, ma stavolta Lyubim non aveva tavoli sotto i quali nascondersi.
Vasily arretrò a sua volta spaventato e fu solo allora che sua madre sporgendosi dal letto gli afferrò il braccio tirandolo verso di lei con tale irruenza che il bambino si sbilanciò in avanti rischiando di cadere. Kalisa non parlò ma seguitò a stringergli il braccio e a fissarlo in modo tale che Vasily dovette fare uno sforzo immane per non scoppiare in lacrime.  Sembrava pretendesse da lui una promessa, una promessa che in quell’istante Vasily non era in grado di comprendere.
 
Note:
*Shah : l’origine del nome degli scacchi proviene dalla parola persiana Shah che significa RE. In Persia il famoso “scacco matto” viene tradotto come Shah Mat ovvero Re sconfitto, morto
*Baba Jaga è un personaggio folkloristico russo, una sorta di strega raffigurata a volare a cavallo di un grosso mortaio o di un bastone che usavano nelle filande per miscelare i colori. Baba è vista sia come entità maligna in quanto divoratrice di bambini e portatrice di sventura  sia come dispensatrice di saggi consigli  a seconda delle circostanze. Ha una casa nel fitto nel bosco che si rivela agli occhi degli esseri umani solo se questi conoscono la formula magica con cui evocarla. La sua figura ispirò i fratelli Grimm per la fiaba di Hansel e Gretel.

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