You can always come home

di Artemys22
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Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La strana scomparsa di Cinque Hargreeves ***
Capitolo 2: *** Accecato dalla luce ***
Capitolo 3: *** Non con un botto ***
Capitolo 4: *** Familia ante omnia ***
Capitolo 5: *** La stanza che non esisteva ***
Capitolo 6: *** Ero qui ***
Capitolo 7: *** Il cuore ricorda ***
Capitolo 8: *** Occhio del ciclone ***
Capitolo 9: *** Il custode di mio fratello ***
Capitolo 10: *** La fine del Tempo ***



Capitolo 1
*** La strana scomparsa di Cinque Hargreeves ***


Questa fanfiction non mi appartiene. Ma l'ho trovata affascinante abbastanza da chiedere all'autrice di permettermi di tradurla e condividerla!
La storia originale è scritta in inglese (del tutto comprendibile anche per chi non ha delle conoscenze vaste della lingua, al massimo google translate potrà aiutare a comprendere un paio di parole) e appartiene a Wayward_Unicorn (realizzo ora che significa unicorno ribelle. Non centra niente, lo so). La potete trovare su Archive Of Our Own, AO3 per gli appassionati. Questo il link diretto al primo capitolo per chi volesse dare un'occhiata:

https://archiveofourown.org/works/27057064/chapters/66059797

Per chi volesse, ho pubblicato la stessa traduzione anche su Wattpad, dove, mentre aspetto che esca l'ultimo capitolo da tradurre, ho proposto un'iniziativa che risulterebbe di difficile praticabilità qui su Efp. A voi il link diretto:

https://my.w.tt/FvrAYKW0Kbb

Questo è il mio primo tentativo di traduzione. Chiederei di essere clementi, ma così non imparo niente. Se dovesse capitare a qualcuno di leggere anche l'originale e notare degli errori nella traduzione, non si faccia problemi a riferirmelo.


 

Dicono che

essere dimenticati

sia peggio

della morte

Dove sono?

 La mia famiglia.

Dov'era?

 Sono solo. Soltanto oscurità.

Chi era?

 Il mio nome... è Numero Cinque.

Perché?

 Il Tempo reclama sempre ciò che gli appartiene.

Esisteva ancora?

 Esisto ancora?

_____________________


Vanya ansimò rabbrividendo quando atterrarono in quello che sembrava l'ingresso oscurato dell'Accademia.

"Oh, buon Dio" grugnì Diego, barcollando dopo il brusco atterraggio.

Casa. Erano a casa, ce l'avevano fatta.

C'era un giornale sul tavolo accanto, e Cinque lo sfilò da sotto la statuetta decorata.

"C-Che giorno è?" chiese Luther, il senso di nausea traspariva nella voce.

Vanya sentì le vertigini. Si dovette sedere.

"Due Aprile, 2019" constatò il fratello. "Il giorno dopo l'apocalisse"

Un coro di sospiri sollevati e risate nervose riempì lo spazio.

"Oh mio Dio" ridacchiò Klaus. "Siamo davvero riusciti a combinare qualcosa? È incredibile!"

Vanya ne fu talmente sollevata da sentirsi girare la testa. Sentì le braccia di Klaus avvolgersi intorno a lei, e ricambiò volentieri l'abbraccio.

Era bello essere abbracciati da qualcuno.

Lui propose un drink. Lei era assolutamente, totalmente d'accordo.

Iniziarono a spostarsi tutti lentamente nel salotto.

"Il whiskey irlandese di papà" Klaus tirò fuori una fantasiosa bottiglia dall'aspetto costoso da dietro il bancone. "Ha più di cinquant'anni. Solo per le occasioni speciali."

Aprì il tappo e annusò l'aroma. Vanya ridacchiò quando alzò teatralmente gli occhi al cielo.

Cinque grugnì qualcosa nella sua direzione. Klaus gli versò un bicchiere, e il ragazzo lo versò immediatamente giù per la gola.

"Ancora, per favore."

"Cinque" Allison si accigliò. "Il tuo corpo ha tredici anni. Ti rovinerai il fegato prima di arrivare ai venti."

Alzò gli occhi al cielo. "Per l'ultima volta, Allison, non sono un alcolizzato. Cominci a parlare come Dolores."

Vanya li osservò litigare, un tiepido sorriso le si formò in viso. Era così piena di emozioni, così piena di amore verso quelle persone, che credeva sarebbe scoppiata.

La sua famiglia. Stavano finalmente bene. Anche se era solo questo momento, solo questo minuto... loro stavano bene.

 

_____________________


Cinque si guardò allo specchio. Qualcosa non quadrava.

Era passata appena un'ora da quando erano tornati a casa. Era bastato questo – un'ora di pace e tranquillità, esattamente un'ora senza doversi preoccupare di qualche fine del mondo, poi qualcosa era andato storto.

Cinque non riusciva a capire cosa fosse. Non si sentiva bene. Poteva essere tutta la faccenda del tempo? Forse il suo corpo stava ancora abituandosi a non avere proiettili dentro?

No, questo non aveva proprio senso.

Il ragazzo si strofinò gli occhi stanchi, portandosi sul lavandino.

Improvvisamente, una rabbiosa ondata di energia azzurra sfrigolò nelle sue vene, facendo sobbalzare violentemente il suo corpo all'indietro. Ansimando, Cinque tornò a fissarsi.

Quindi era la sua abilità. Stava avendo un comportamento anomalo. Si stava microsistemando, forse. È così. Per il momento si sarebbe astenuto dall'uso dei suoi poteri, aspettando che l'anomalia si risolvesse da sola.

Cinque era ben consapevole di stare solo cercando di calmarsi. C'era qualcosa di molto sbagliato. I suoi poteri non avevano mai fatto così, non li aveva mai usati involontariamente.

Finì di asciugarsi i capelli con un asciugamano e si infilò in dei nuovi vestiti freschi e puliti.

Sarebbe sceso al piano di sotto a controllare che i suoi fratelli stessero bene. Forse anche le loro abilità stavano agendo in modo altrettanto strano.

Quando Cinque raggiunse la scalinata principale, successe di nuovo.

Sentì la sua energia bruciare dentro di lui, l'elettricità bluastra scoppiettare nel sangue, l'anomalia fece gemere le sue cellule in agonia.

 Che cos'è?

Cinque realizzò di trovarsi carponi, collassato ai piedi delle scale.

Questi non erano microsalti. No, non poteva essere. Questo era qualcos'altro.

La sua testa martellava. Il pavimento sembrava oscillare sotto i suoi piedi, gli angoli del suo mondo diventavano lentamente grigi.

Cinque scosse la testa. Non adesso. Doveva assicurarsi che stessero tutti bene.

Questo non era niente.

Si alzò in piedi appoggiandosi al corrimano, trascinando lentamente le gambe per muoversi.

Apparentemente, la maggior parte dei suoi fratelli si era già ritirata nelle proprie stanze, ma Allison e Luther erano ancora nel salotto. Stavano entrambi godendosi un bicchiere di vino davanti al caminetto, la risata della donna faceva eco nel corridoio a qualche osservazione di Luther.

Cinque si lasciò a un sospiro di sollievo. Grazie a Dio, sembravano stare bene.

Allison lo vide e, con grande confusione del ragazzo, la sua espressione si fece... arrabbiata.

Irritata. Confusa.

Si alzò in piedi, posando il bicchiere di vino.

Cinque non capì. Perché lo stava guardando in quel modo?

"Chi sei?" domandò lei. "Come sei entrato?"

Ora, questo non aveva davvero alcun senso. La gola di Cinque si fece d'un tratto secca e chiusa.

Non poteva respirare. Non poteva parlare. Per un momento, non fu nemmeno sicuro che il suo cuore stesse battendo.

Stava morendo?

"Hey", Luther la affiancò, il tono del gigante egualmente adirato. "Non puoi stare qui."

Entrambi lo avvicinarono e Cinque mosse istintivamente pochi passi traballanti indietro.

Luther gli afferrò il braccio. Non stringeva forte, ma la sua presa era probabilmente forte abbastanza da trattenere chiunque.

"Te ne devi andare" disse. "È già successo che dei fans tentassero di entrare prima, ed è ridicolo. Questa è casa nostra."

"Lasciami andare, Luther, cretino" fece infine Cinque, spingendosi lontano dall'uomo. Allison alzò le sopracciglia alla reazione.

"Seriamente, chi credi di essere per piombare qui in questo modo?" osservò lei. "Dove sono i tuoi genitori? Forse dovremmo chiamarli."

No.

No, no, no.

"Ragazzi, potete smetterla con questo scherzo, chiaramente non mi diverte" ringhiò Cinque.

"Ne ho abbastanza" decise Luther, muovendosi per prendergli il braccio di nuovo, più probabilmente per trascinarlo fuori casa.

 Questo non sta succedendo davvero.

Cinque si sentì affogare, il battito del suo cuore incredibilmente assordante nelle sue orecchie.

"Hey, ragazzino, stai bene?" un'improvvisa preoccupazione si era insinuata nella voce di Allison, i suoi occhi scuri mutarono da duri a un tono morbido. "Sul serio, forse dovei chiamare i tuoi genitori. Non dovresti essere qui, ma sembri piuttosto pallido."

"Smettila" ansimò Cinque cercando di mantenere il tono supplichevole fuori dalla sua voce irregolare. "Solo... smettila."

"Ragazzino, per l'ultima volta, non puoi-"

Cinque fissò i loro volti sbalorditi, per poi voltarsi e sparire da un'altra parte. Il salto lo fece vacillare di nausea, ma la ignorò. Allison e Luther urlavano entrambi in confusione, senza dubbio guardandosi intorno per vedere dove fosse sparito.

Questo non può accadere. Non po' essere reale.

Semplicemente non può.

Cinque non riusciva a pensare lucidamente. Era sull'orlo di un attacco di panico, e preferiva tenerlo per dopo.

Vanya. Lei non sarebbe mai stata a scherzi del genere, doveva trovarla.

Doveva parlarle.

Cinque sentì dei rumori dal corridoio. Da essi riconobbe Diego – l'uomo stava probabilmente parlando con la loro madre.

Loro sapevano sicuramente chi fosse.

Cinque corse verso i rumori, ma in un istantanea e agonizzante impennata dei suoi poteri, tremolanti attraverso il suo corpo come un fulmine, le sue ginocchia si bloccarono e cadde faccia a terra.

Respirò pesantemente, tutto il suo corpo in preda a spasmi e brividi mentre l'energia volatile tentava di stabilirsi in esso.

Che cazzo. Che cazzo. Che caz-

"Diego?" la sua voce suonò sottile come un foglio di carta.

L'uomo in questione era profondamente immerso in una conversazione con la loro madre robot. Stavano osservando i dipinti nel piccolo angolo di lei, parlando piano.

Entrambe le loro teste si voltarono in direzione del ragazzo.

Diego si accigliò in confusione, alzandosi lentamente.

Non sembrava arrabbiato.

Forse era un buon segno.

Cinque voleva porgli una domanda, ma tutto ciò che gli uscì fu un incoerente sconclusionato parlottio.

La mamma si alzò, le sue meravigliose forme incurvate in un cipiglio preoccupato.

"Andiamo, tesoro, rallenta" lo zittì poggiando una mano sulla sua spalla, "Di cosa stai parlando? Non sembri stare bene."

"Oh, grazie al cielo" Cinque quasi gridò. "Mi conoscete. Certo che mi conoscete. Sono solo... Sono solo ridicolo. Voglio dire, perché tutti dovrebbero dimenticare tutto, eh? Non avrebbe alcun senso, ora potre-"

"Hey" Diego fermò il suo divagare, gesticolando verso di lui per calmarlo, come fosse stato un qualche animale impaurito. "Calmati. Stai bene? Sei in qualche guaio?"

Cinque lo fissò, la bocca leggermente aperta. "No, no, non sto bene, io-"

"Perché non ti siedi?" sua madre lo guidò verso la sedia. Cinque avvertì un altro moto di nausea colpirlo come un treno merci e il pavimento sembrò terribilmente invitante. Le sue gambe sembravano dover cedere sotto il suo peso da un momento all'altro.

"Va bene, okay" Cinque si obbligò a sedersi, strofinandosi il volto con le dita tremolanti. "Okay."

Grace si chinò di fronte a lui rivolgendogli un sorriso rassicurante. Oh, era così bello vederla di nuovo, e non aveva neanche realizzato quanto gli fosse mancata la donna che li aveva cresciuti.

Benedetta, pensò Cinque.

"Ora" parlò lei stringendogli la mano. "Perché non inizi dicendoci il tuo nome?"

 No.

Si sentiva cadere.

 Ti prego, no.

Gli fischiavano le orecchie.

 Non può accadere.

Qualcuno gli teneva la spalla. Stavano parlando.

Cinque non riusciva ad ascoltare.

Fissava soltanto Diago in faccia, guardando i suoi occhi marroni scuri studiare il suo volto e realizzando che suo fratello non aveva assolutamente idea di chi fosse.

Si sentì come se si stesse muovendo nella sabbia quando li allontanò allungando il passo.

Sentì Diego urlare. Saltò.

Le stanze di Klaus e di Vanya erano completamente vuote. Dovevano essere usciti a fare una passeggiata o altro. Cinque poteva ancora trovarli.

Erano la sua ultima speranza. Perché se loro non si ricordavano di lui, allora...

Allora tutto era perduto.

La sua schiena si inarcò quando l'energia, spietata, colpì il suo corpo ancora una volta. Questa volta era abbastanza sicuro di aver gridato. Era anche durato più a lungo di prima.

Cinque si abbandonò a terra rabbrividendo. Non poteva muoversi.

Era terrorizzato.

C'erano passi affrettati da qualche parte sotto di lui. Cinque ingoiò un groppo, gli occhi puntati sul telefono sulla parete.

Con la mera forza di volontà, riuscì a fare leva sul pavimento fino al telefono.

Piangeva. Non gli importava.

Ingoiando le lacrime, Cinque digitò frettolosamente il numero di Vanya, portandosi lentamente la cornetta all'orecchio.

 Per favore. Per favore. Per favore.

 Rispondi.

Non lo fece. La chiamata terminò dopo non aver ricevuto risposta.

Cinque tirò su col naso, rifiutandosi ancora di gettare la spugna.

Anche Klaus aveva un cellulare, e il ragazzo aveva memorizzato tutti i loro numeri in cinque minuti.

Il telefono squillò ancora una volta.

Due.

Tre.

"Prontooo?"

Cinque non era mai stato più sollevato il tutta la sua vita di sentire la voce di qualcuno.

Klaus aveva davvero risposto. Il cellulare di Vanya doveva essere in silenzioso.

"Klaus?"

"Hey!"

"D-Dove sei?" chiese Cinque, la voce vacillante. "Dove sei in questo momento?"

"Chi è?"

Perché il suo cuore batteva così forte?

"Oh, sei un fantasma o qualcosa del genere? Mi è già capitato a volte di ricevere chiamate da voi bastardi morti, ma devo dirlo, l'ultima è stata piuttosto inquietante..."

Udì una voce familiare in sottofondo che chiedeva a Klaus chi fosse al telefono.

"Vanya..." sussurrò fra sé e sé, fissando il muro nell'oscurità.

Klaus riattaccò.

Tutti quegli anni nell'apocalisse, tutto quel tempo alla Commissione, e alla fine...

Non si era mai sentito così profondamente solo.
 

_____________________


Vanya guardò suo fratello, le sopracciglia alzate in procinto di domandare.

"Sembrava Cinque" disse. "È successo qualcosa?"

Klaus la guardò per alcuni secondi, togliendosi la sigaretta dalla bocca. "Eh?"

Vanya si accigliò e ripeté la domanda.

"Sorella, non ho idea di cosa tu stia parlando" Klaus alzò le spalle. "Quello era solo un qualche bambino morto che mi telefonava. Non so come facciano i fantasmi ad avere sempre il mio numero, ma hey – succede."

Ingoiando, Vanya scosse leggermente la testa. "No, era decisamente Cinque. Ho sentito la sua voce. Il tuo volume era così alto."

Klaus la guardò confuso, sbuffando una nuvola di fumo dalle labbra. "Chi è Cinque?"

Vanya sbatté le palpebre più volte, il suo battito aumentava un poco di velocità. "Smettila di scherzare, Klaus. Lo sai chi è Cinque. Non sei divertente."

Klaus aveva smesso di camminare e la stava guardando con uno sguardo divertito. "Lo giuro, no so chi sia."

"Nostro fratello" la voce di Vanya tremò apena. Non le piaceva la cupa sensazione di paura che cresceva alla bocca dello stomaco.

"Vediamo" Klaus alzò le dita. "Abbiamo il fratello Numero Uno. Il fratelo Numero Due. La sorella Numero Tre. Io. Il deceduto fratello Numero Sei. E te."

"Hai saltato Cinque" sussurrò. "T-Ti sei dimenticato, dovrebbe essere fra te e Ben."

Klaus corrugò la fronte mordendosi il labbro. "Già, suppongo sia un po' strano come il vecchio l'abbia lasciato fuori. Chi lo sa – magari non gli piaceva il numero? Forse porta sfortuna in qualche cultura."

Vanya sentì le ginocchia deboli. Klaus non avrebbe scherzato in quel modo.

"Dobbiamo tornare all'Accademia" gli disse, mandando giù la bile che le si era accumulata in gola. "Ho un orribile presentimento."

Klaus alzò le sopracciglia, ma annuì piano. "Sì, certo. Sembri un po' pallida. È un po' freschino qui fuori."

La testa di Vanya martellava. Le luci della città sfocavano nello sfondo, le voci diventavano squilli.

 Come ha fatto Klaus a dimenticare Cinque?

 Amnesia selettiva?

Iniziò a correre.

I polmoni faticavano ad espandersi, l'aria non riusciva a fornire l'apporto di ossigeno richiesto.

Il suo cuore batteva così forte che credette le sarebbe schizzato fuori dal petto. Sentiva i suoi poteri sguazzare irrequieti sotto la sua pelle cercando un bersaglio per la sua angoscia, implorando di essere liberati.

L'Accademia si fece sempre più vicina. Klaus faticava a starle dietro, ma a Vanya non importava. Doveva sbrigarsi.

Ci fu un flash bluastro dietro la finestra dell'ultimo piano.

"Cinque" bisbigliò correndo ad aprire il cancello.

I polmoni pungevano.

L'ingresso era buio. "Cinque?" urlò, salendo tre gradini alla volta.

Diego stava chiacchierando con Grace nel corridoio del secondo piano ed entrambi alzarono lo sguardo quando lei arrivò.

"Woah, tutto okay Vanya?" suo fratello sembrò cauto, chiaramente alla ricerca di segni di un altro guasto potenzialmente epocale.

"Cinque" soffiò lei. "È di sopra?"

"Chi?" Grace chinò la testa confusa.

"Non c'è mai stato nessun Cinque, lo sai" la sostenne Diego, sollevando le sopracciglia mentre guardava Vanya.

Lei mandò giù a vuoto, scuotendo la testa.

Doveva trovarlo. Mentre saltava le scale cominciò a sentire strani rumori dal fondo del pavimento.

Vanya vide la luce blu brillare da sotto la porta, creando ombre danzanti nel corridoio buio.

Ingoiando, aprì la porta.

 Cinque.

Sembrava così piccolo, così fragile, affranto contro la parete, le ginocchia premute contro il petto.

Il ragazzo stava risplendendo. No, era più come-

"Cinque, stai... sfarfallando" sussurrò lei, cadendo in ginocchio accanto a lui, esitante nel chiedersi se avesse dovuto toccarlo o no.

Come se si fosse ripreso da una trance, la testa del ragazzo guizzò in su. Le sue iridi verdi illuminate dall'energia che danzava sotto la sua pelle, lo sguardo nei suoi occhi cerchiati di rosso a dir poco torturato.

"Mi conosci" soffocò lui.

Il cuore di Vanya parve spezzarsi al suono della sua voce. Così persa. Così piccola. "Ti conosco" gli disse in un singhiozzo, afferrandogli le mani. "Ma tutti gli altri..."

L'energia era immensa. Era volatile, ribelle e le bruciava i palmi.

Non le importava.

"Già" la voce di Cinque era appena udibile sopra il suono sfrigolante e scoppiettante dell'elettricità bluastra che strisciava sotto le sue membra.

Il tremolio si fece più rapido, come una lampadina appena prima che si spenga.

"Cosa ti sta succedendo?" pianse Vanya, grosse lacrime scivolavano sulle sue guance.

Cinque lasciò una breve e sospirata risata completamente priva di umorismo. "Credo che la linea temporale si stia aggiustando da sola" disse poi, e Vanya era terrorizzata da come la sua voce cominciasse a suonare distorta. "Sono un paradosso, Vanya. Un'anomalia."

"C-Cosa dovrebbe voler dire?" implorò e, per l'amor del cielo, stava iniziando a sembrare che la luce stesse svanendo.

 (Fallo smettere.)

"Mettila così" Cinque si avvicinò, gemendo sottovoce quando una scarica di energia particolarmente violenta lo fece sussultare.. "Abbiamo impedito che l'apocalisse si verificasse. Perché? Perché ve l'ho detto io. Perché ho passato quarant'anni in un mondo post-apocalittico. Ma cosa accade" si concesse una breve pausa per inspirare a fondo, sfarfallando sempre di più, "se questo non fosse mai successo in primo luogo? Normalmente, quando la linea temporale cambia, si crea un nuovo ramo... ma questa volta qualcosa è andato storto. Troppi paradossi. Troppe anomalie."

Sorrise malinconico alzando una mano brillate per asciugare le lacrime della sorella. "Il tempo si sta solo aggiustando. Mi sta... cancellando."

 (NO.)

"No, no, no" Vanya scosse la testa, i suoi stessi poteri ronzavano sottopelle. Non riusciva a respirare. "Non puoi... non puoi fermarlo?"

Gli occhi di Cinque erano così grandi e tristi quando la guardarono, e lui non disse niente.

 (Questo non può succedere.)

"Ti prego, non andartene, non di nuovo" implorò Vanya. Sapeva che non era giusto, ma Cinque non poteva semplicemente arrendersi, non poteva semplicemente starsene lì e lasciare che accadesse, se ne sarebbe dovuto uscire con qualche piano pazzo per impedire che tutto quanto accadesse. "Ti abbiamo appena ritrovato, per l'amor di..."

La sua voce si spezzò, e non riuscì a trattenere un singhiozzo.

La stava soffocando.

 (Non riesco a respirare.)

Cinque emise un sospiro tremante, alzò una mano per allineare lo sguardo con fascino malato.

La sua mano si dissipava nell'aria – non diversamente dal modo in cui lo spirito di Ben si dissolse in fiocchi di energia, portati via dal vento.

Vanya cercò istintivamente di afferrarla, le dita non raggiunsero altro che aria.

Cinque inclinò la testa, cercando i suoi occhi. "Tu mi dimenticherai."

Lei lo guardò, un'ondata di nausea la investì. "No, non lo farò" mandò giù la bile.

 (Non lo farò.)

Cinque la guardò con pietà, con disperazione. "Oh, Vanya, lo farai."

Boccheggiando in cerca di aria, incontrollabili e dolorosi singhiozzi le scuotevano il petto, Vanya tirò Cinque fra le sue braccia e lo tene stretto come un'ancora di salvezza.

Lo sentì affondare il volto nell'incavo del suo collo, ricambiando l'abbraccio.

Era freddo. L'aria intorno a lui s'increspava.

"Cerca di trovare un modo per ricordarti di me, okay?" sussurrò al suo orecchio. La voce gli tremava.

 (Ti prego, non andare. Non andare. Non andare.)

Oddio, era così spaventata.

Stava svanendo proprio fra le sue dita. Proprio come Ben.

"Ti prego, resta" supplicò Vanya, ma sapeva che non c'era modo di fermarlo.

 (Non mi lasciare.)

Chiuse gli occhi, stretti.

"Ricorda" disse Cinque, la voce dissolta verso la fine.

Il viso di Vanya si gelò in un grido senza fiato e sena voce.

 (Ricorda-)

Era andato.

E improvvisamente non riusciva più a ricordare per quale motivo si sentisse così sconvolta. Non era del tutto sicura di cosa stesse facendo lì, comunque – seduta in un angolo buio, tutta sola?

Confusa, Vanya si rimise sulle sue gambe tremolanti. Aveva camminato nel sonno?

L'aria sapeva di fulmine. Come di elettricità.

Che strano.

 

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Capitolo 2
*** Accecato dalla luce ***


Allison si svegliò con un fastidioso mal di testa. Borbottò sommessamente scendendo le scale in punta di piedi per farsi una tazza di tè. Erano quasi le otto, solitamente avrebbe dormito più a lungo.

Entrò in cucina, raggiungere il baratolo dell'aspirina era il suo obiettivo attuale. La donna si sorprese nel vedere che qualcun altro era già lì.

"Vanya?" salutò con uno sbadiglio. Sua sorella stava facendosi un sandwich sul tavolo e idossava un adorabile pigiama che sembrava andarle ancora bene dopo diciassete anni.

"Giorno" le sorrise guardandola oltre la spalla. Allison si accigliò. Perché i suoi occhi erano umidi?

"Stai bene?" le chiese in tono delicato, riducendo lentamente la distanza fra loro.

"Perché non dovrei esserlo?" chiese confusa.

Allison alzò un sopracciglio. "Stai piangendo."

La sorella posò il coltello ricoperto di burro di arachidi e portò una mano al viso. Sentì lacrime bagnate sui polpastrelli, corrugò la fronte con fare interrogativo.

"Non lo so" disse infine, piano.

Allison ingoiò saliva e raggiunse il barattolo dell'aspirina. "Forse dovresti sederti."

"Forse" Vanya alzò le spalle tornando al suo sandwich. "Onestamente? Non sono neanche sicura del perché stia facendo un panino al burro di arachidi. Non mi piace neanche un gran che."

"Forse sei sonnambula" suggerì Allison.

Con sua sorpresa, la donna rise e si sedette per mangiare il suo sandwich.

"In realtà ho avuto un'esperienza simile l'altra sera" ammise.

"Oh?"

Vanya la guardò di sfuggita, mandando giù un boccone. "Sì, sono piuttosto sicura di aver avuto un episodio di sonnambulismo ieri notte. Ero seduta in un angolo al piano di sopra, fissavo un muro. Ricordo che ero molto agitata per qualcosa... ma poi credo di essermi svegliata."

Allison ingoiò la sua pillola, chiudendo gli occhi per un secondo. "Devi aver sognato qualcosa. Però non ricordavo che fossi sonnambula da bambina."

"Sì, non credo di averlo mai fatto prima" alzò le spalle. "Ma d'altra parte, come potrei saperlo, giusto? Forse sono stata sonnambula per anni e semplicemente non ne sapevo niente."

Allison mormorò in risposta, gli occhi vagavano verso la finestra dove i primi raggi del sole mattutino si spingevano entro la cucina ombrosa.

"Quindi, che si fa?" chiese a bassa voce, più a se stessa che a Vanya.

Lei rispose lo stesso. "Quello che vogliamo. Ma preferirei se stessimo insieme questa volta. Niente più silenzio radio, sai?"

Allison le diede un'occhiata in ritorno, ricambiando il suo sorriso. "Proprio ora, tutto ciò su cui voglio concentrarmi è riavere Clair nella mia vita. Non l'ho vista per due anni."

Prese un sorso del suo caffè, poi storse il naso in sorpresa – era così amaro che lo stava per sputare. Chi aveva portato quella miscela?

E perché si era dimenticata di aggiungere lo zucchero e il latte? Non beveva mai il caffè nero.

Allison ci passò sopra pensando di essere solo assente al momento, troppo impegnata a pensare a sua figlia.

"Lo sai, sei una persona molto diversa ora da com'eri due anni fa" disse Vanya sorseggiando il suo succo d'arancia. "Otterrai i diritti di visita in un batter d'occhio."

Aveva ragione, Allison lo sapeva. Il tempo speso nel passato l'aveva davvero resa una persona migliore e aveva imparato ad amare la nuova lei.

"Già" rispose. "Vorrei solo... che Ray potesse essere qui."

Il sorriso di Vanya vacillò, e un dolore tanto profondo da ferire fisicamente il cuore di Allison si palesò nei suoi occhi marroni.

"Lo capisco" disse piano.

Pensava a Sissy, ovviamente.

Entrambe si erano innamorate là, ed entrambe erano state costrette a lasciare andare.

E faceva male. Allison non aveva mai amato un uomo quanto aveva amato Ray – ed era così tremendamente ingiusto che non avrebbe passato il resto della sua vita con lui.

"Ce la faremo" disse poi, posando la sua mano su quella di Vanya.

Sua sorella voltò la testa, guardandola da sotto le ciglia.

"Sei cambiata anche tu" osservò Allison, e non mentiva. Vanya era una persona molto diversa ora che aveva smesso di prendere le medicine, ora che aveva davvero trovato se stessa. C'era una luce nei suoi occhi che non c'era prima – era stata offuscata dal suo passato abusivo, ma ora era tornata.

"Hai perso Sissy e Harlan, sì, ma... sei molto più forte e molto più aperta" aggiunse. "Hai già provato a suonare il tuo violino?"

Il dolore negli occhi di Vanya si dissipò. "Probabilmente è al mio appartamento. Dovrei andarci."

Allison versò il latte nel suo caffè. "Vuoi andarci insieme?"

"Sì, mi piacerebbe."

_____________________
 

Diego passò le dita sul tavolo nella sala da pranzo. Il legno era molto curato, ma vecchi solchi ancora narravano la sua storia. Sorrise lievemente ad uno particolarmente distintivo – sembrava che fosse stato fatto da uno dei suoi coltelli, anche se non ricordava fosse successo. Non sedeva nemmeno in quel posto – era... un posto vuoto. È così, nessuno sedeva lì.

Buffo, pensò Diego. Come si fosse dimenticato così tanto di ciò che era successo fra quelle mura, di tutti gli anni che aveva vissuto lì.

Diego ricordò una domenica pomeriggio particolarmente soleggiata, in cui loro padre era di umore particolarmente buono. Aveva concesso loro di andare in spiaggia con Grace, e quel pomeriggio fu una delle cose migliori di tutta la sua infanzia. A sette bambini che a malapena mettevano il naso fuori casa era stata finalmente concessa la libertà di essere semplicemente bambini per un po'.

...Nah, sei.

Proprio così. Sei bambini. Lui e Luther volevano vedere in una competizione chi poteva nuotare fino al ponte più veloce – Diego era sempre stato un gran nuotatore, perciò aveva vinto. Allison, Klaus e Vanya avevano lavorato ad un maestoso castello di sabbia, e Ben aveva raccolto conchiglie con... nessuno. Da solo. Giusto. O forse aiutato da Grace.

"Heyy" Diego alzò la testa sentendo Klaus salutarlo dalla porta. "Che fai?"

"Sto solo pensando" ammise. "Per caso ti ricordi come ci è finito qui questo?"

Passò le dita sulla profonda ammaccatura nel legno e Klaus si avvicinò per dare un'occhiata.

"Huh" sorrise. "Quella è da un coltello. Ora fammi pensare – chi in questa casa ha una morbosa ossessione per i coltelli?"

Diego roteò gli occhi. "Te lo sto dicendo, non ricordo di averlo fatto."

Klaus alzò le spalle. "Beh, ragazzo dei coltelli... A dire il vero stavo per chiederti se avevi in mente di sbarazzarti di quei tuoi, uh, capelli?"

Il vigilante portò le mani alla testa, carezzandosi le ciocche sulla difensiva. "No. Mi piacciono. Antonio Banderas."

Diego adocchiò il fratello, sospettoso. "Tu taglierai i tuoi?"

"No. È boemo. Li adoro."

"Hey ragazzi?" Luther spuntò sulla porta, facendoli saltare entrambi. "Scusate."

"Hey, ragazzone" lo salutò Klaus. "Dormito bene?"

"Il mio letto è troppo piccolo" ammise l'uomo corrugando la fronte.

Diego sbuffò. "Hai provato la cheto?"

"Per l'ultima volta, non sono grasso" ringhiò Luther, i suoi occhi dardeggiavano contro il fratello.

Sentirono delle risatine dal corridoio e girandosi videro che Allison e Vanya stavano salendo su per le scale. Le notarono e cambiarono direzione.

"Che sta succedendo qui?" chiese Allison incuriosita.

"Niente" rispose Diego con un ghigno. "Ci stiamo solo scambiando i 'buongiorno'."

Vanya alzò le sopracciglia, scettica.

"Hey, uh, che facciamo adesso?" Klaus riempì il silenzio. "Tipo... abbiamo appena fermato l'apocalisse – per la seconda volta – e siamo tornati dagli anni '60. Ma adesso?"

Diego ripensò alla sua passione di vigilante, proprio quello che amava fare. Era ciò che lo faceva alzare dal letto la mattina, ciò che gli faceva fare un giro di piegamenti in più, ciò che lo faceva dormire ogni notte con un coltello sotto il cuscino.

Ripensò alla angusta stanza sul retro della palestra, i muri sporchi, i pochi beni matriali che possedeva.

"Immagino che torneremo dove eravamo" disse lentamente, il pensiero lo rese sorprendentemente depresso.

Klaus si morse un labbro senza dire niente, lanciando invece un'occhiata alle ragazze.

"Ho una penthouse a Manhattan" disse Allison fissando un punto lontano. "Ci vado stasera e penserò a cosa fare dopo."

"Io devo tornare all'orchestra" annuì Vanya. "Sono primo leggio adesso e questo comporta molte responsabilità. Non mi sono esercitata per un mese."

Gli altri annuirono lievemente all'unisono.

"Klaus?" lo interogò Diego. "Hai un posto dove andare?"

L'uomo si risvegliò da pensieri profondi, scuotendosi sotto il suo sguardo. "Io? Oh, sììì, certamente. Certo."

"Bene."

Allison allora gettò uno sguardo a Luther. "E tu?"

Il loro Numero Uno rimase silenzioso per un po'. "Beh, sono sicurissimo che non tornerò sulla luna, quindi... Credo che starò qui per ora."

"Bene, allora" Klaus sospirò cercando di alleggerire l'atmosfera improvvisamente molto pesante nella stanza. "Restiamo in contatto, va bene? Facciamo un brunch qualche volta?"
 

_____________________
 

Klaus fissò l'ingresso del rifugio per senzatetto in cui aveva speso la maggior parte nelle notti. Era strano vederlo da sobrio.

Erano passati tre anni da quando era stato lì. Questo posto, per lui, non era altro che un brutto ricordo. Era stato in un posto molto migliore nella sua testa negli ultimi anni, non aveva toccato droghe durante gli anni trascorsi nel passato e non ne aveva sentito il desiderio dal 1961.

"Come butta, Klaus" un uomo familiare lo salutò con un soriso a trentadue denti prima di entrare.

"Non mi lamento" sorrise debolmente.

Questa era la sua vita. Da un senzatetto a un altro. Un uomo disperato in un postaccio, che combatte i suoi demoni, lungo un infinito percorso di autodistruzione.

Klaus aveva fondato qualcos'altro durante il suo tempo a Dallas. La sua setta era strana e l'atteggiamento dei suoi seguaci nei suoi confronti gli davano leggermente il voltastomaco, ma quelle persone non erano state altro che gentili con lui. Lo avevano accettato con tutte le sue stranezze e le sue stronzate, come aveva menzionato Diego una volta.

La vita per strada era dura. Conosceva un sacco di persone, e aveva fatto del suo meglio per evitare quelle peggiori. Per lo più ci era riuscito.

"Non so cosa fare" bisbigliò prima di realizzare che Ben non era più lì.

Giuso. Era da solo ora. Dopo aver goduto della costante compagnia del fratello morto negli ultimi diciassette anni, fino all'irritazione, non si sorprese di vedere che gli faceva male dentro in un modo che gli ricordava il giorno in cui perse Dave.

Dave.

Klaus sarebbe dovuto tornare a fare una visita al bar dei veterani. Per vedere se la fotografia di Dave era ancora lì. Per vedere se... era stato ascoltato.
 

_____________________
 

L'appartamento di Vanya era così silenzioso, adesso che Allison se n'era andata. Avevano parlato per un'ora, l'aveva ascoltata suonare, poi era andata a casa sua. Aveva detto qualcosa sul fissare un appuntamento con il terapista ordinato dal tribunale.

Le sue dita scorrevano sulle corde del violino, la loro famigliarità provocava una delicata sensazione tiepida al suo addome. Portò lo strumento alla spalla, chiudendo gli occhi.

Quel violino era stato suo amico quando nessun altro lo era. Ci aveva messo anima e cuore in esso, perfezionando le sue abilità con passione e ambizione. Quello strumento era così amato, così curato.

Aveva scoperto scoperto nuovi aspeti di se stessa durante il tempo passato con Sissy – come quanto sia meglio stare con le donne che con gli uomini, che era sorprendentemente brava con i bambini e che le piacevano tantissimo i cavalli.

Ma era questo che le era mancato. Il suo violino. La sua musica.

Vanya appoggiò l'archetto sulle corde iniziando lentamente a suonare la melodia. Le sue mani erano salde e precise – come se non avesse mai smesso.

La sua mail conteneva gli spartiti del Capriccio n.24 di Paganini e mentre seguiva le note avvertì la famigliare eccitazione montarle nel petto.

Le era mancato. Davvero.

La pratica la tenne impegnata per ore, e non aveva voglia di smettere – ma dovette prendersi una pausa per il benessere del suo collo. Faceva un male cane e strofinò suo tendini con il pollice.

Vanya si avvicinò alla poltrona guardandosi intorno nel suo appartamento vuoto, sentendo una tale ondata di solitudine che quasi le chiuse la gola ostruendo il flusso d'aria.

Ricordò di essersi seduta lì, sul divano, pensando di aver ucciso sua sorella.

Sembrava fosse successo anni fa, in un altro tempo. Quasi un brutto sogno.

Ma era successo. E Allison l'aveva perdonata. E i suoi fratelli l'avevano accettata.

Le dita di Vanya catturarono una piccola macchia sulla sedia e abbassò lo sguardo per vedere qualcosa che assomigliava in modo sospetto a del sangue assorbito dal tessuto.

Non sapeva da dove venisse, ma per qualche ragione la rese molto triste.

Guardandosi intorno nell'appartamento silenzioso, coccolando il suo violino contro il petto come un bambino, si chiese perché non sentisse più quel posto come casa.
 

_____________________
 

Diego aprì cautamente la porta della palestra. Ragazzi muscolosi combattevano l'uno contro l'altro sul ring, come sempre, e Al urlava contro di loro – come sempre.

Le solite cose.

Tranne che quando si mostrò, Al fischiò per interrompere il combattimento. Il vecchio uomo irascibile si affrettò verso di lui, uno sguardo cupo in volto.

Diego si preparò a una lavata di testa.

"Hai fino a domani pomeriggio per portare la tua roba fuori di qui" dichiarò Al come un dato di fatto non appena furono faccia a faccia.

Diego non era sicuro di aver sentito bene. "Cosa?"

"Mi hai sentito, ragazzo" brontolò. "Sei sparito per giorni. Ti avevo avvertito di non fare questo genere di cazzate, ma non ascolti. Ne ho abbastanza."

"Okay, sì, ma in mia difesa," Diego alzò le mani con calma, "avevo delle ottime ragioni. Ho dovuto fermare un paio di apocalissi. Emergenze famigliari."

Al scosse lentamente la testa. "Che è la parrucca?"

"Non preoccuparti di questo."

L'uomo sospirò guardando in basso. "Mi dispiace, Diego. Ma quando è troppo, è troppo. Continui a sparire Dio sa dove. E un giorno qualcuno con dei rancori nei tuoi confronti piomberà qui e brucerà l'intero dannato palazzo. Devi andartene."

Diego sgranò gli occhi. "Davvero?"

"Sì. Ti voglio fuori. Scusa."

Allison spinse la chiave nella toppa. Il suo appartamento era al centosettesimo piano del più alto palazzo a Manhattan in una zona incontaminata con la vista sulla città.

Una volta amava questo posto – quando era ancora vanitosa, egocentrica e materialista. All'interno il design moderno era alla moda, certo, ma il posto era freddo.

Era privo di qualsiasi personalità. Allison si rese conto che le mancava la splendida casa nella zona sud di Dallas che condivideva con Ray. Forse avrebbe dovuto cercarlo e trovarlo – scoprire cosa gli era successo.

Allison entrò, lanciando il cappotto sulla sedia vicina. Trovò il suo portatile e quello tornò a ronzare con velocità.

La tecnologia era una cosa che aveva perso negli anni '60 – tutto era molto più semplice in quei giorni. Decise di iniziare cercando il suo nome su Google.

 Raymond Chestnut.

I risultati della ricerca le portarono un sorriso sul volto. Numerosi articoli di cronaca parlavano dei suoi successi come organizzatore dei diritti civili. Più tardi nella sua vita aveva insegnato all'università. Aveva parlato di Rosa Parks, di come aveva incontrato e sostenuto Marin Luther King...

C'era una pagina di Wikipedia su Ray. Allison deglutì, cliccandoci sopra con riservo.

 Raymond Emmet Chestnut (7/5/1928 – 1/12/2008) fu un attivista per i diritti umani di successo e un professore. È conosciuto soprattutto per l'organizzazione del famoso sit-in allo Stadtler's café nel 1963 e per il suo lavoro con Martin Luther King Jr.

Era morto.

Certo che lo era.

Allison si asciugò una lacrima solitaria dalla guancia. Aveva sperato di poterlo vedere... un'ultima volta.

Scorrendo per leggere della sua vita privata, scoprì che si era risposato nel 1969 e che era padre di quattro figli.

La sua prima figlia si chiamava Alice.

Rise fra le lacrime. Ray aveva vissuto una bella e lunga vita, aveva avuto tutto ciò che aveva sempre sognato.

Era stato felice.

Poteva Allison lamentarsi? Non proprio. Una vita come quella era qualcosa cui poteva soltanto anelare – ma sapeva infondo che una vita normale era fuori portata per loro.

I fratelli Hargreeves non potevano avere cose come quelle.

Allison ascoltò il silenzio nela spaziosa penthouse e un velato brivido le corse lungo la spina dorsale.

Era sola, realizzò. Non le dava molto fastidio prima – certo, le mancava Claire ogni singolo giorno, pensava a lei ogni notte quando andava a dormire, ed era sempre la prima cosa nei suoi pensieri quando si svegliava.

Ma quello era diverso. Ad Allison mancava parlare con qualcuno, le mancava la compagnia delle persone. Le mancavano le persone che amava. Le mancavano Luther, Vanya, Diego. Ben. Le mancavano la mamma e Pogo.

RayClaire.

Le mancava qualcosa di vitale.
 

_____________________
 

Luther si sedette sul suo letto abbassando lo sguardo sulle sue ruvide, grandi mani. Come ci era finito lì? Di nuovo in quella grande casa solitaria?

Papà se n'era andato adesso, certo. Ma anche i suoi fratelli.

Se ne erano andati tutti. Di nuovo.

La mamma e Pogo erano lì per lui qualora avesse voluto parlare, ma non potevano riempire l'immenso spazio vuoto nel suo petto.

Lo aveva fatto Allison. La notte precedente, solo loro due, a guardare il fuoco e a bere vino e a parlare della vita e del futuro e del passato, anche degli eventi della sera prima (incluso tutti loro che giocavano a Monopoly, poi a Uno, finendo le scorte dei liquori costosi di papà, litigando con Diego, Allison aveva fatto così tante foto che aveva perso il conto) era esattamente ciò di cui aveva bisogno per riempire quel vuoto.

La sua famiglia. La sua incasinata, disfunzionale, ostinata, impossibile famiglia.

Non c'era nulla al mondo che Luther non avrebbe fatto per loro.

Si sdraiò, sospirando mentre guardava fuori dalla finestra. Odiava essere solo.

Lo odiava.

Luther ci era abituato, è vero, ma ci sono cose a cui un uomo non dovrebbe abituarsi. Lui voleva la sua famiglia nella sua vita.

Si calmò pensando che i suoi fratelli non se ne sarebbero andati per sempre. Allison gli aveva promesso che, una volta ottenuti i diritti di visita, lo avrebbe portato a conoscere Claire.

Non vedeva l'ora.

Sospirando, Luther si alzò e si diresse verso la cucina. Aveva bisogno di un po' di cibo di conforto, dal momento che non c'era altro per riempire il vuoto. Mezzo chilo di gelato avrebbe fatto il suo dovere.

Camminando lungo il corridoio, si fermò davanti a una porta. Aveva una sensazione strana.

Che stanza era quella, pure? Luther trovò la maniglia polverosa dal poco uso.

Questo non era normale. Conosceva ogni singola stanza nella casa, perciò com'era possibile che si fosse dimenticato di questa? Esitante, Lither mise la mano sul pomello e lo girò.

Nulla successe. La porta sembrava bloccata. Luther sapeva che spesso sottovalutava i suoi poteri, e decise di non forzarne l'apertura. Avrebbe potuto chiedere a Pogo in proposito.

Luther mise la porta misteriosa in secondo piano nei suoi pensieri e tornò a pensare al gelato. Nel momento in cui raggiunse il primo piano, fu allertato da stridii di gomme nel vialetto. Sorpreso, tornò verso l'ingresso e sbirciò all'esterno.

Era Diego. Portava con sé una borsa da hockey, sembrava molto piena. Camminava lentamente e con passo pesante – qualcosa che Luther non aveva mai visto prima.

Un'ombra rabbuiò il volto dell'uomo mentre si avvicinava alla porta principale.

Luther l'aprì prima ancora che bussasse.

"Diego?"

L'uomo saltò, agitato. "Accidenti, amico."

"Cosa ci fai qui?"

Diego sembrò a disagio. "Al mi ha cacciato perché non facevo il mio lavoro. Salvare il mondo non era una ragione sufficiente, a quanto pare."

Luther deglutì e lo fece entrare.

Diego andò drito in soggiorno e sedette sul divano con un pesante sospiro.

"Come mai così giù di morale?" chiese Luther.

"Il vigilante gli lanciò un'occhiata da sopra la spalla. "Non volevo tornare qui. C'è troppo papà in questo posto."

"È morto."

Diego mormorò in risposta, assente. "Già. Credo di non averlo ancora elaborato."

"Lo sai, a questo posto servirebbe una ristrutturazione" fece Luther sedendosi accanto a lui. "È tutto un po' vecchio, non trovi?"

Diego sbuffò. "Ristrutturazione?"

"Sì. Hai detto che c'è troppo papà qui. Ora è morto, no?" Luther alzò le spalle. "Rendiamolo più come... beh, noi. Allison adorerebbe dare un po' di vita a questo posto."

Lo rese felice vedere un sorriso attraversare il volto del fratello. "Devo ammetterlo, quello spazio vuoto sopra il caminetto mi dà davvero fastidio. Ci si potrebbe mettere un dipinto o qualcosa."

Luther concordò. "Sì, ma niente di noioso però."

"Allison ha fatto molte belle foto ieri sera" pensò Diego ad alta voce. "Forse potremmo incorniciarne una."

"Questa è un'ottima idea."

Luther e Diego saltarono sorpresi quando, girandosi, videro proprio Allison, in piedi all'ingresso, sembrava un cucciolo smarrito.

Si morse il labbro.

"Hey" il tono di Luther era ruvido, e il suo stomaco fece quello sfarfallio che faceva sempre quando Allison faceva un ingresso. C'era qualcosa di semplicemente accattivante in lei.

"Che ci fai qui?" chiese Diego, ma il suo tono era puramente curioso, non accusatorio.

"Non potevo stare alla penthouse" mormorò Allison posando a terra la sua ventiquattrore. "Mi ricorda la vita che ho lasciato. Qualcuno che non sono più."

"Beh, questa sarà sempre casa tua" disse Luther tranquillamente, toccandole la spalla gentilmente quando si sedette accanto a loro. "Stai tutto il tempo che vuoi."

Lei si accomodò in mezzo ai due e, dopo anni a studiarle il volto, Luther sapeva che c'era qualcos'altro.

"Cosa c'è che non va?" chiese dolcemente.

"Ho visitato la tomba di Ray" rispose. "Ha visuto una bella vita. Una vita felice. Ha avuto quattro figli."

"Beh, è bello, no?" disse Diego esitante.

Allison emise un mormorio in assenso. "Sì. Mi fa chiedere perché nessuno di noi può averla. Perché tutte le nostre vite sono delle tali schifezze."

Quelle parole li zittirono per un momento.

Non aveva torto, non del tuto.

"Potrebbe andare peggio" osservò Luther prendendole una mano fra le sue e stringendola gentile. "Almeno abbiamo l'un l'altro, giusto?"

Allison lo guardò e v'era un sorriso a stirarle le labbra. "Già. Immagino di sì."

"C'è nessuno?"

Una voce chiamò dall'ingresso. Si voltarono per vedere Klaus addentrarsi.

"Siamo qui" lo richimò Allison. "Unisciti a noi."

Prima che Klaus potesse entrare nel salotto, le porte si aprirono di nuovo. Klaus lanciò uno sguardo oltre la spalla e vide Vanya entrare con la custodia del suo violino. La sorpresa le ricoprì il volto quando li vide tutti.

"Oh" disse soltanto.

Luther si appogiò sul divano giungendo a una sciocca conclusione. Queste persone, queste sorprendenti, distrutte persone, la sua famiglia, erano perse tanto quanto lui.

E sembrava che non fosse così solo come pensava.

Klaus e Vanya entrarono nel soggiorno. L'uomo magrolino si levò il cappello da cowboy e lo lanciò sul bancone del bar.

"Non c'era un dipinto lì?" si accigliò vedendo lo spazio vuoto sul caminetto.

"Nah, sono abbastanza sicuro che sia sempre stato vuoto" dichiarò Luther. "Ma avevamo l'idea di metterci una foto di famiglia. Una vera. Fra quelle che ha fatto Allison ieri sera."

"Rendiamo questo posto una casa?" propose Vanya con un piccolo sorriso, ma la voce piena di speranza.

"Esattamente" le rispose.

Allison tirò fuori il cellulare con un sorrisetto. Aprì la galleria e tutti si avvicinarono per vedere le foto che aveva fatto.

Erano bellissime. Stavano ridendo, erano felici, sembravano...

Una famiglia. Dei veri fratelli.

"Ugh, perché le migliori hanno sempre questo strano spazio vuoto?" si lamentò Allison. "Guardate questa. Sarebbe perfetta. Perché tieni le braccia così, Klaus?"

"Sembra ridicolo" ammise Diego.

"Fottiti, coltellomane" Klaus suonò offeso. "Torna indietro. Vedi, lo fai anche tu."

Il vigilante si avvicinò, ed era abbastanza sicuro – sembrava avere un braccio su qualcosa di invisibile.

"Gesù, quanto abbiamo bevuto l'altra sera?" aggrottò la fronte.

Luther non riusciva a togliersi di dosso la spiacevole sensazione che ebbe da quelle foto. C'erano troppi spazi vuoti in quelle immagini perché fosse una coincidenza.

Si sorpresero quando Pogo si palesò all'entrata. Sembrava a sua volta egualmente sorpreso di vederli tutti lì.

"Oh" la vecchia espressione tesa sul suo volto tramutò in un sorriso. "Siete tutti qui."

"È okay?" chiese Vanya timidamente.

"Come ho già detto, miss Vanya" le disse Pogo, "questa è casa sua."

Strinse la presa sul suo bastone. "Ma devo chiedervi – qualcuno di voi ha fatto qualcosa ai video di sorveglianza di vostro padre? Ho controllato la stanza oggi, e..."

I suoi occhi si rabbuiarono. "I nastri... erano tutti distrutti. Bruciati. Sciolti dall'interno."

"Com'è possibile?" Allison si alzò lentamente. "Non siamo stati noi, Pogo, lo giuro."

"Le credo" la rassicurò. "Ma... qualcuno lo ha fatto. E sono preoccupato."

Stavano per arrangiare un brainstorming quando un forte suono scricchiolante riempì la stanza. Una luce blu si accese nel centro del salotto facendoli barcollare tutti all'indietro, in allerta. Un forte odore di elettricità impregnò l'aria.

Quando la luce svanì, un piccolo uomo paffuto in un impermeabile se ne stava in piedi al centro. Portava con sé due valigette, una identica a quella attualmente nascosta nella cassaforte di papà.

"Herb?" tossì Diego fissandolo in confusione. "Che ci fai qui?"

L'uomo sembrava esausto; occhiaie scure sotto gli occhi, le sue palpebre si abbassarono e il suo respiro era pesante e affannato.

"Cosa diavolo" la voce di Herb tremò, "avete fatto?"

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Capitolo 3
*** Non con un botto ***


Herb svenne prontamente esattamente dodici secondi dopo il suo arrivo, lasciando cadere entrambe le valigette al suolo.

Grace era stata tanto premurosa da preparargli un letto e lo curò mentre Diego e i suoi fratelli cercavano di capire cosa cavolo stesse succedendo.

"Forse dovremmo guardare nella sua valigetta" Allison annuì in direzione della valigia di pelle marrone accanto a quella nera e ingombrante. "Potrebbero esserci indizi."

"Ha ragione" concordò Luther. "Non si sarebbe teletrasportato nel nostro sogiorno, con un aspetto infernale, se non avesse avuto una buona ragione per essere qui."

"Va bene" schioccò Diego. "Diamo un'occhiata."

Klaus afferrò la valigetta e la portò al bancone del bar. Diego era riluttante all'idea di ficcare il naso negli affari dell'uomo, ma questa era una questione di grande importanza, ovviamente. Non lo stavano facendo spensieratamente.

Le lunghe dita dell'ex drogato armeggiarono sulla valigetta per aprirla in pochi secondi. Rivelò quella che sembrava una collezione di file e rapporti, ognuno con il logo della Commissione a decoro.

Accigliato, Diego prese il primo e iniziò a girare le pagine.

"Questo è... un rapporto su un paradosso?" alzò un sopracciglio con aria interrogativa. "Uh, classificato Disastroso."

"Beh, non suona bene" ribatté Vanya prendendo un altro file. "Anche questo dice disastroso."

"Okay, bene" Allison si schiarì la gola, saltellando a sedere su uno sgabello. "Da qui posiamo trarre alcune conclusioni. Ci sono tanti paradossi disastrosi che stanno accadendo e Herb pensa che sia colpa nostra."

Lanciò teatralmente un braccio in aria, increspando le labbra in una smorfia scontenta.

"Huh" mormorò Diego chiudendo il plico. "Perché penserebbe che sia colpa nostra?"

"Uhh" Luther alzò un sopracciglio. "Seriamente? Hai almeno visto cosa abbiamo combinato negli anni '60?"

Vanya annuì con lui. "Stalkerato Lee Harvey Oswald" chiosò, gli occhi dondolavano verso Diego che le rivolse uno sguardo rude. Lei lo ignorò, puntando un dito verso Luther. "Lavorato per Jack Ruby come pugile."

Vanya spostò la sua attenzione su Allison. "Attivista per i diritti civili." Poi si rivolse a Klaus con un cipiglio. "Capo di una setta."

"È Profeta per te, mortale" Klaus si finse offeso.

Diego sospirò profondamente, resistendo al bisogno di alzare gli occhi al cielo, e saltellò sul posto. "Io vado a dormire. Non avremo nessuna risposta prima che Herb si svegli."

Luther si unì a lui. "Ha ragione. Dovremmo tutti riposare e sono sicuro che quell'uomo ci dirà tutto dopo una sana notte di sonno."

Allison li ignorò, ancora immersa nella lettura di un plico particolarmente spesso. "Voi ragazzi andate, io starò qui ancora per un po'."

 

_____________________

 

Vanya sognò che il mondo era vuoto.

Ovunque guardasse c'era soltanto fuoco e distruzione. Fiocchi di cenere volteggiavano nel vento, simili a neve cadente nelle fredde notti di Dicembre.

Ad ogni respiro inalava altra cenere. L'aria tossica bruciava nei suoi polmoni, infilzandole le viscere come pugnali.

Non voleva stare lì. Che posto era?

Il vento scuoteva un giornale. Vanya sbatté le palpebre velocemente, correndo verso di esso con una sensazione angusta; come se quel giornale le avesse potuto offrire tutte le risposte ai misteri del mondo.

Doveva prendere quel giornale. Così corse.

Le sua dita si arpionarono alle pagine, artigliandole come un felino. La cenere le pungeva gli occhi, e da dietro il velo acquoso che li copriva guardò la prima pagina.

Era del tutto incomprensibile. Non capiva.

Il terrore si aggrappò al petto di Vanya e lei voltò pagina.

Le lettere scivolavano giù dalla carta come gocce d'acqua sul finestrino di un'auto, le parole si dissolvevano nel nulla.

Un sussulto soffocato sfiggì al suo controllo mentre girava un'altra pagina.

Il suo cuore saltò alla vista.

Poteva leggere la pagina cinque. Era piena di scarabocchi, scritti talmente in piccolo che dovette srofinarsi gli occhi e aguzzare la vista per leggerli.

Ripeteva la stessa parola.
 

Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda.
Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda.
Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda.
Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda.
Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda. Ricorda.

 

Vanya si svegliò di soprassalto, la lingue asciutta e pesante in bocca. Respirava aria fresca, non cenere. Era...

... non nel suo letto.

Il cuore sembrò affondare quando lo realizzò. Dov'era?

 Ho camminato di nuovo nel sonno, vero?

Tirando su col naso frugò intorno a sé nel buio fra le pareti. I suoi occhi si abituarono infine all'oscurità e iniziò a distinguere le forme intorno a lei.

Un tavolo. Un angolo. Un... telefono appeso al muro.

Vanya sentì il piatto, costante segnale acustico della suoneria.

 Cosa ci faccio qui?

Tirò su col naso ancora una volta, asciugandosi il volto con le maniche e facendo lavorare le sue ginocchia traballanti.

Si alzò e vagò alla ricerca dell'interruttore.

Lo premette. Non accadde nulla. La lampadina probabilmente doveva essere cambiata.

Gli occhi di Vanya guizzarono all'angolo nord-ovest.

 Ricorda.

Era successo qualcosa lì. In quella stanza. Qualcosa di terribile.

Ma non riusciva a capire cosa.

Sospirando, Vanya aprì la porta e uscì nel corridoio debolmente illuminato. Le gambe le parevano di ferro mentre scendeva le scale, dirigendosi verso la cucina per prendersi un bicchiere d'acqua.

Cos'era quel sogno? Sembrava che il mondo fosse stato completamente annientato.

 Apocalisse.

Vanya deglutì. L'ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento era di provocare un altra fine del mondo, e davvero sperava che quel sogno non fosse un qualche tipo di presagio o un segno.

Era il suo cervello che cercava inconsciamente di ricordarle cosa aveva causato? Di ricordarle di non perdere il controllo, o il mondo sarebbe stato distrutto di nuovo?

C'era qualcun altro in cucina – la luce giallognola dilagava nel corridoio e lei si accigliò. Chi altro poteva essere sveglio così tardi?

Allison sedeva al tavolo con i capelli arruffati e una mezza tazza di caffè, attorcigliando una ciocca di capelli neri mentre gli occhi rastrellavano il rapporto.

"Allison?" gracchiò Vanya, facendo sussultare violentemente la donna.

"Gesù" esalò la sorella.

"Che ci fai ancora in piedi?" chiese Vanya andandole incontro. Necessitava davvero di quel bicchiere d'acqua – la sua gola tanto riarsa che avrebbe potuto aver inalato davvero fumo e cenere.

"Sto solo leggendo i file" sospirò Allison scuotendo debolmente la testa. "Questoùa roba è... strana. Ci sono rapporti di paradossi in centinaia di punti diversi nel tempo. Questo è del 15 Aprile, 1912."

Vanya alzò le sopracciglia. "Non sono un'appassionata di storia."

"La notte in cui affondò il Titanic" chiarì Allison. "E questo?" prese un altro file, girando la prima pagina. "26 Aprile, 1989. L'incidente di Chernobyl."

Si accasciò sullo schienale strofinandosi gli occhi. Vanya ingurgitò l'intero bicchiere di acqua in un sorso, il liquido fresco stemperò il fastidio alla gola.

"Disastri?" azzardò.

Allison alzò le spalle. "Solo... date importanti, tutto qui. Alcune erano meno significative e ho dovuto fare alcune ricerche per scoprire cos'era successo, ma... qualcosa è sempre andato storto in quei giorni."

"Sì, e allora?" Vanya si sedette, confusa di come Allison fosse tanto coinvolta. "Herb lavora per una compagnia che monitora la linea temporale. Probabilmente queste sono date importanti che la Commissione deve sorvegliare."

"Esattamente" Allison perseverò. "Ma questi sono tutti avvertimenti. Vedi?"

Picchiettò su una scritta rossa che riportava disastroso.

"Non sono classificati disastrosi per ciò che è successo in quelle date" gli occhi stanchi di Allison brillarono. "Questi sono tutti allarmi di paradossi. Disastroso è la classificazione che hanno dato alla severità del paradosso."

Un brivido corse lungo la schiena di Vanya, e per un momento il respiro le si bloccò in gola. Le ci volle un momento per ritrovare la voce. "Ne sei sicura?"

"Abbastanza" Allison fece spallucce. "È per questo che Herb è qui. Crede che noi in qualche modo... lo abbiamo causato."

"Lui crede che noi, cosa, abbiamo rotto il tempo?" rise Vanya. "Come se fossimo delle specie di terroristi?"

Allison sbuffò passandosi una mano fra i capelli. "Non lo so. Dovrà dircelo lui stesso."

Poi appoggiò il mento sul palmo della mano, gli occhi improvvisamente curiosi. "Cosa ci fa tu in piedi?"

Vanya deglutì guardandosi le ginocchia. Prese un altro sorso d'acqua.

"Hai avuto un altro episodio di sonnambulismo?" chiese gentilmente la sorella.

Non rispose, ma guardò invece fuori dalla finestra. Era tutto buio fuori, ma quella città non dormiva mai davvero. Luci in lontananza lampeggiavano, le macchine passavano vicine, le persone camminavano lì accanto, strette insieme sotto ombrelli condivisi.

Stava piovendo.

"Hai mai questa sensazione... " iniziò lentamente, "che dovresti fare qualcosa, ma di non riuscire a ricordare che cosa?"

 

_____________________

 

Luther si svegliò con un fastidioso mal di testa. Grugnì in lamento e si sedette sul letto, sfregandosi gli occhi doloranti.

Se fosse dipeso da lui, sarebe rimasto a letto fino a mezzogiorno, ma lo stress, il senso del dovere e l'urgenza lo spronarono ad alzarsi e vestirsi.

L'apparizione di Herb li aveva spinti tutti al limite, e Luther era a tanto così dal marciare nella stanza degli ospiti e scuotere quel piccolo uomo gracile fino a svegliarlo.

A loro servivano risposte.

Con un mormorio scontroso camminò attraverso il corridoio verso le scale, ma si fermò a metà strada.

Ebbe una sensazione.

Come se avesse dimenticato qualcosa.

Si era lavato i denti la sera prima? Si era dimenticato di cambiarsi d'intimo?

Si era dimenticato di dare la buonanotte ad Allison?

Luther sospirò sfregandosi la faccia frustrato. Questo non migliorava il suo mal di testa. Forse la colazione gli avrebbe chiarito le idee.

Marciò lungo il corridoio e svoltò l'angolo.

Immediatamente i suoi occhi si inchiodarono alla parete opposta alla stanza di Ben.

 Aspetta un attimo.

C'era qualcosa di sbagliato lì, pensò, un cipiglio profondo a ricoprirgli il viso.

C'era una porta qui, ricordò Luther. Ne era certo. Era polverosa, in disuso e lo confondeva perché non ricordava che fosse mai eststita.

Ora non c'era altro che la vecchia carta da parati. Luther deglutì, il pulsante mal di testa aumentato di tono.

Questo non aveva senso.

Cautamente, Luther portò una mano al muro, passando lentamente le dita sulla parete logora.

Non era stata rinnovata di recente, quella carta da parati era lì anche prima.

C'era mai stata una porta, innanzi tutto?

Luther scosse la testa, confuso. Certo che c'era una porta. Non era diventato pazzo, no?

Sbatté le palpebre lentamente alla vista di una crepa nella carta. La sia mano si mosse, una strana sensazione lo esortava a strapparla.

Le sue dita presero il bordo e lentamente cominciò a tirare.

"Signor Luther!" una voce scioccata e sbalordita lo chiamò dalle scale. "Cosa sta facendo?"

Guardandosi intorno impanicato, gli occhi di Luther arrivarono alla figura di Pogo che zoppicava su per le scale. Stava guardando la carta da parati decorata con orecchie di cane a bocca aperta, mormorando qualcosa che suonava come 'incredibile'.

Le dita di Pogo corsero lungo lo strappo, cercando di appiattirlo.

"Mi dispiace" disse Luther sottovoce scuotendo la testa. "Non avrei dovuto farlo. Non so cosa mi stia prendendo."

 

_____________________

 

Klaus calciò il sasso a terra mentre barcollava lentamente verso il bar per veterani. Distava un miglio a piedi, e non aveva voglia di portare nessun con sé.

No, questa era una cosa che doveva fare da solo.

Klaus inalò a fondo dalla sua sigaretta, rabbrividendo per l'umidità sul suo volto. C'era odore di pioggia nell'aria.

Più si avvicinava al bar, più il suo passo si faceva lento. Quasi non volle entrare.

E se la foto di Dave fosse stata ancora sul muro?

E se non ci fosse stata?

Klaus non sapeva cosa fosse peggio.

Decise di fermarsi per un'altra fumata e si sedette vicino ad un negozio di abbigliamento esclusivo. Le sue gambe facevano su e giù – una cosa che faceva spesso quando era nervoso o ansioso per qualcosa.

I suoi occhi si fermarono su un manichino in posa per i passanti. Era vestito con una pomposa maglia stringata, che lui sapeva sarebbe stata mozzafiato su di lui.

Ma non fu questo a catturare la sua attenzione.

Fu il manichino. C'era qualcosa a riguardo su cui non riusciva a raccapezzarsi. Era come incontrare una persona a una festa e riconoscere la sua faccia, ma non essere in grado di posizionarla. O cercare di ricordare una certa parola e averla proprio sulla punta della lingua.

Ma era solo un manichino e nulla di speciale. Klaus mormorò pensieroso. Stavano succedendo un sacco di cose strane ultimamente. Fece spallucce fra sé e sé e cercò una nuova canzone nella sua playlist.

The Man Who Shot Liberty Valance.

Ma certo. Le sue dita aleggiarono sul tasto play per alcuni secondi, una strana sensazione di torsione alla bocca dello stomaco.

Klaus premette il tasto.

Poteva farcela.

La sua voce tremava mentre canticchiava sottovoce la melodia, mormorando le parole a malincuore.

Oh, Dave.

Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa? Com'era possibile che dopo tre anni la sua pena, il suo dolore e il suo rimorso fossero ancora freschi come se fosse morto ieri?

Klaus si sentì perso.

 

_____________________

 

Diego stava affilando il suo coltello preferito con colpi nervosi e violenti. Era ansioso. Impaziente. Sapeva che qualcosa stava andando molto male – tutto sembrava a posto all'esterno, ma lui sapeva. Sotto la superficie, qualcosa non andava.

Fu avvertito da un distintivo trotterellìo ansimante e frenetico che arrivava dal corridoio. Diego girò il volto verso la porta del salotto per vedere (finalmente) Herb presentarsi con la camicia abbottonata a casaccio, la faccia rossa e gli occhiali leggermente storti sul naso.

Herb si guardava intorno come un animale impaurito, borbottando qualcosa di incomprensibile a passo irregolare.

"Finalmente" Diego alzò le braccia al cielo. Allison si svgliò dal suo pisolino con un guaito, quasi cadendo dal divano.

"Per quanto tempo ho dormito?" chiese Herb senza nemmeno preoccuparsi di nascondere l'angoscia nella sua voce.

Diego diede un'occhiata all'orologio sul muro. "Quattordici ore, credici o no."

"Quattordici... " mormorò Herb, la voce dissipata quando serrò i denti. "Dobbiamo sbrigarci. Non c'è molto tempo."

"Per favore, illuminaci su quello che pensi abbiamo fatto" Diego alzò il mento e incrociò le braccia. Non apprezzava le accuse infondate.

"Ho bisogno di tutti voi" Herb si guardò intorno. "Dove sono gli altri?"

"Klaus è uscito un'ora fa" sbadigliò Allison. "Vanya è di sopra. Si stava esercitando fino a poco fa, ma non sento più niente da un po'. E Luther è in cucina."

"Non ce n'è un altro?" il piccolo uomo si accigliò, contando sulle dita e mormorando sommessamente.

"Intendi Ben?" Diego alzò un sopracciglio. "È morto."

"Oh" Herb lasciò cadere le mani. "Mi dispiace."

"Chiamo Klaus" si offrì Allison. "Vai a prendere Vanya e Luther."

"Certo" Diego fece spallucce. "Andiamo, Herbie."

 

_____________________

 

Klaus fissò la foto. Eccolo lì, giovane e vagamente terrorizzato, e accanto a lui era... non Dave.

Era un soldato che riconobbe essere Hernandez. Ma non Dave.

Poteva essere... che lo avesse ascoltato? Che avesse deciso di non andare?

Klaus agrottò la fronte con sforzo, tracciando i contorni della cornice con le dita. Un sorriso attraversò improvvisamente il suo volto.

Era andata. Ce l'aveva fatta, giusto? Lui... lui aveva salvato Dave.

Significava che la loro relazione, la loro storia d'amore non era mai accaduta. Significava che aveva passato quei dieci mesi senza di lui. Significava che non si erano conosciuti in Vietnam.

Non poteva essere giusto, pensò Klaus. Lui ricordava, quindi era successo.

Ma Dave non lo avrebbe fatto. Glielo aveva rubato.

Klaus decise che ne era decisamente valsa la pena. Quindi, cosa, Dave non sarebbe stato in grado di ricordare? Almeno sarebbe vissuto.

Almeno era vivo.

Giusto?

Klaus fu strappato ai suoi pensieri da I Knew You Were Trouble When You Walked In a un volume sacrilegiosamente alto, la suoneria esplodeva nelle sue orecchie dagli auricolari.

Imprecando sottovoce, schiacciò velocemente il tasto verde quando vide il nome di Allison.

"Hey" disse piano portandosi il cellulare all'orecchio e pregando che la sua voce non tremasse.

"Abbiamo bisogno che torni all'Accademia" chiosò sua sorella. "Herb si è svegliato."

 

_____________________

 

"Inizia a parlare, Herb" lo esortò Diego, sedendosi e incrociando le braccia.

Tutti gli occhi si incollarono improvvisamente al facente funzione di presidente della Commissione, che attualmente camminava nel salotto. Li guardò nervosamente, borbottando qualcosa fra sé e sé.

"Herb?" lo richiamò Luther, l'impazienza trapelava nel tono.

Diego condivideva il sentimento.

Herb infine si sedette e incrociò nervosamente le dita. "Ho passato due settimane a organizzare il controllo dei danni" iniziò. "Appena avete lasciato il 1963 c'è stato un... incidente al quartier generale della Commissione."

"Un incidente?" ripeté Diego, appoggiando le gambe sul tavolo.

"Tutti i nostri Quadranti del Tempo sono esplosi" lo riportò come dato di fatto. "Sciolti, per essere precisi. Non c'è stato alcun sabotaggio, si sono semplicemente surriscaldati."

"Com'è possibile?" fece Diego, ricordandosi dell'immenso e complicato macchinario che usava la Commissione per monitorare la linea temporale.

Herb gli rivolse un veloce cenno di assenso. "Tutto ciò che abbiamo al momento sono teorie, ma..."

Klaus inspirò a fondo. "È un'altra apocalisse? Sono così stanco di salvare il mondo."

"La fine del tempo stesso" mormorò Herb cupo. "La linea temporale sta collassando."

Diego cercò di contenere il giramento di testa mentre ascoltava il capo ad interim della Commissione. Doveva essere un qualche tipo di scherzo. Due apocalissi poteva gestirle. Ma una terza?

"Ha qualcosa a che fare con il nostro viaggio nel tempo?" chiese Allison.

"Beh, l'anno 1963 è disseminato di nodi paradossali come non ho mai visto prima" Herb alzò le spalle. "Lasciate che vi spieghi cosa sta succedendo."

Si chinò in avanti e accettò il drink che gli offrì Klaus, trangugiando il bicchiere di whiskey in un sorso.

"Grazie. Dunque" incrociò le dita. "Il mondo sta finendo. Tutto in una volta. Attraverso tutta la storia stanno avvenendo apocalissi. In centinaia di punti diversi nel tempo."

Il cuore di Diego mancò decisamente alcuni battiti. "Uhm" la sua voce suonò piccola, affaticata. "Cosa intendi con... tutto in una volta?"

Herb si piegò indietro sulla sua sedia, sembrava più vecchio che mai. "Lo scopo della Commissione è sempre stato quello che creare pilastri di supporto per la linea temporale" spiegò con calma, guardando un punto nel vuoto. "Mandare agenti in loco, fare cose che aiutino a mantenere gli eventi necessari che devono accadere. Il tempo è una cosa delicata e ha bisogno di manutenzione."

Scosse la testa. "Riuscite a realizzare quante persone hanno viaggiato nel tempo nel 1963 per fermare l'assassinio di Kennedy? Perché te lo dico, Diego, non eri sicuramente il primo."

Diego deglutì ma non disse niente. Aveva una una sensazione nello stomaco come se affondasse e gli sembrava che se avesse aperto bocca, avrebbe vomitato.

Herb continuò con tono greve. "I pilastri che abbiamo creato sono gli unici a mantenere intatta la corretta successione degli eventi. Questi pilastri sono stati creati dal solo lavoro dei nostri agenti sul campo."

A questo punto l'uomo iniziò a sfregarsi le tempie e chiuse gli occhi, chiaramente affrontando un mal di testa così forte che anche parlare sembrava opprimente. Herb sospirò.

"Ma il tempo può anche difendersi" disse piano. "La Commissione cerca di evitare di mandare troppe persone in un singolo punto del tempo, per evitare la possibilità che si verifichino paradossi ed effetti farfalla. C'è una cosa che chiamiamo Effetto Richiamo, per cui qualora un punto nel tempo divenisse troppo complesso, la linea temporale si sistema da sola eliminando l'anomalia – i viaggiatori del tempo, in questo caso, da quel punto del tempo."

Bevve un sorso del caffè che gli era stato offerto, leccandosi le labbra pensieroso. "Tuttavia, ciò che sospettiamo stia causando questa rottura è che una o più persone siano state in qualche modo cancellate dall'esistenza tutte insieme. Da qualsiasi istanza di tempo, da qualsiasi punto in cui essi siano esistiti."

"Questo non ha senso" fece Allison. "Se il meccanismo di difesa del tempo sta togliendo i viaggiatori del tempo da un punto pieno di anomalie, allora non dovrebbe causare danni ancora maggiori? Voglio dire, cancellare le persone – davvero?"

"Invece è così" le disse Herb. "Non dovrebbe accadere. Qualcosa è andato storto e sembra che non riusciamo a capire cosa sia successo. Qualcuno ha sabotato la linea temporale, involontariamente o di proposito, e in risposta il naturale meccanismo del tempo è proprio ciò che adesso lo sta facendo a pezzi."

"Tutto questo mi da alla testa" ammise Diego, e Luther concordò.

"Perciò, gli agenti della Commissione stanno venendo eliminati dalla linea temporale?" Vanya chiese conferma sfregandosi le fronte. "Essenzialmente quindi non sono mai esistiti?"

"Esattamente" annuì Herb. "Normalmente, l'Effetto Richiamo riporta semplicemente i viaggiatori del tempo al loro appropriato stato di esistenza. Al tempo a cui appartengono." Fece una smorfia. "Li sputa fuori da quella sbagliata, se preferisci."

"E questo è causato da troppi paradossi ammucchati un sull'altro, corretto?" Klaus si pizzicò il naso.

"Sì" confermò Herb. "Il viaggio nel tempo è innaturale. Non dovrebbe verificarsi affatto, ma è un male necessario. Non tutti i viagiatori rispettano le leggi del tempo come la Commissione."

"Allora perché la linea temporale non può semplicemente sistemarsi da sola questa volta?" chiese Luther. "Perché sta collassando?"

"Ricordate i pilastri di supporto?" Herb inarcò le sopracciglia. "Gli agenti della Commissione sono i pilastri. Ora, cosa succede se i pilastri cessano di esistere?"

"Tutto va in pezzi" disse Vanya a fior di labbra. "Adesso capisco. Più o meno."

"Cosa dovrebbe significare?" Klaus arricciò le labbra. "Cioè, in pratica?"

"Significa che le linee temporali cancellate si stanno sovrapponendo a quella corretta" chiarì Herb, la sua espressione si fece nuovamente buia. "Significa che gli eventi apocalittici stanno verificandosi attraverso tutta la linea temporale, causati dalle anomalie. Significa che persone che dovrebbero esistere, non esistono. Diversi punti del tempo si uniscono insieme e si sovra avvolgono."

"Se questo è vero, allora perché noi siamo ancora qui?" chiese Diego a bassa voce. "Se il mondo sta finendo nel passato, come siamo qui?"

"Cosa credi che abbia fatto nelle scorse settimane?" chiese Herb con aria stanca. "Vedi questa?"

L'uomo si chinò per picchiettare la valigetta, identica a quella che loro avevano usato per tornare nel loro giusto tempo.

"Questa," disse Herb, "è una valigetta direzionale. È dotata di funzionalità che i nostri agenti operativi non possono avere."

"Quali sono?" Allison mise su un'espressione interrogativa.

"Bloccare il tempo, per esempio" fece spallucce. "Non sono molte le valigette di questo tipo ad essere state prodotte, dal momento che costruirle è molto costoso. Tuttavia si sono rivelate molto utili nel tentativo di contenere la situazione. Abbiamo inviato agenti ai punti di collasso, e lì abbiamo congelato il tempo. Funziona essenzialmente come una paratoia."

"Cazzo" sbuffò Diego. "Herbie, è geniale."

"Grazie" un rapido sorriso gli balenò in volto. "Comunque, questa non è una soluzione. Ci sta solo dando tempo per risolvere il problema."

Fu terrificante, davvero, quando Diego ci pensò.

Certo, avevano già fermato un'apocalisse prima, ma... questo era diverso.

"Non si possono semplicemente cancellare le persone" disse Vanya all'improvviso. "Voglio dire, le persone lasciano dei segni dietro di loro. Impronte. Briciole di pane."

"Infatti" disse Herb con calma. "Gli agenti della Commissione che sono stati eliminati dalla linea temporale sono anche stati, logicamente, rimossi dalle nostre memorie."

"Quindi aspetta," Diego si piegò in avanti togliendo le gambe dal tavolo. "Tutta questa roba è solo in teoria? Non sai davvero se è questo che sta succedendo?"

Herb sembrò insoddisfatto di questa domanda. "È la sola assunzione logica. Abbiamo grandi buchi nelle nostre memorie. Dovreste averne anche voi. Spazi vuoti che dovrebbero essere riempiti da persone."

"Io sto facendo sogni strani ultimamente" ammise Vanya. "E continuo ad avere questa sensazione di aver dimenticato qualcosa di molto importante. "

"È tragico, davvero" Herb annuì comprensivo. "Potresti aver perso un compagno. Una persona cara. Un a figura genitoriale. Un amico. E non lo sapresti mai."

 

_____________________

 

"Allora, da dove iniziamo?" chiese Luther. La cosa migliore che potesse fare per i suoi fratelli era cercare di essere un leader esemplare e guidarli.

Fermare l'apocalisse era ciò che facevano meglio – tranne che questa era la prima volta che non era causata da loro sorella.

Herb prese un grande respiro. "L'unico modo in cui possiamo risolvere questo problema è scoprire chi cosa ha causato l'anomalia in primo luogo."

"Come dovremmo scoprirlo, se abbiamo dimenticato che la persona che l'ha causata è addirittura esistita?" chiese Klaus, e Luther dovette ammettere che aveva ragione.

"Beh," sospirò Herb, "Sarà meglio trovare un modo per ricordare."

 

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Capitolo 4
*** Familia ante omnia ***


La famiglia prima di tutto.


 

“Devo avvertirvi” disse Herb. “Potremmo non essere capaci di accedere a queste memorie, non importa quanto ci impegniamo. Queste persone sono state completamente eliminate dall'esistenza.”

“Dovremmo iniziare ricapitolando le nostre storie” decise Allison. “Nel senso, non siamo stati coinvolti negli affari della Commissione fino alla prima volta che abbiamo cercato di fermare l'Apocalisse.”

“Hazel e Cha-Cha” annuì Diego.

“Già. Quindi se ripercorriamo gli eventi che sono avvenuti dovremmo essere in grado di trovare dei buchi nella storia” continuò lei, incoraggiata. “Possiamo iniziare a riempire i vuoti.”

“È una buona idea” annuì Herb tirando fuori un piccolo blocco appunti e una penna.

“D'accordo” sospirò Luther. “Ci siamo ritrovati tutti qui perché papà era morto, giusto?”

Ricevette piccoli cenni d'assenso.

“Abbiamo fatto il funerale. Io e Diego ci siamo azzuffati.”

Diego fece spallucce. “Colpa tua.”

Luther strinse gli occhi ma si morse la lingua e decise di ignorare la provocazione. Ad un buon buon leader serve pazienza e temperamento. Qualcosa su cui doveva lavorare.

“C'è stata una sparatoria al Griddy's” improvvisamente Diego saltò su dalla sedia. “Un gruppo di tizi morti pagati dalla Commissione. Ma cosa stavano facendo là?”

Cadde il silenzio.

“Dovevano stare inseguendo qualcuno” si accigliò Luther. “Sono morti tutti. Qualcuno li ha uccisi.”

Ma chi? Aveva come la sensazione che avrebbe dovuto saperlo.

“Molto bene” espirò Herb scrivendo sul suo blocco. “Abbiamo il nostro primo buco nella trama.”

Questo disturbò chiaramente tutti nella stanza. Luther odiava il pensiero che i suoi ricordi fossero stati manomessi a quel modo. Odiava il fatto che non importava quanto sforzasse la sua mente, c'era uno spazio vuoto che non poteva riempire.

Klaus si schiarì la voce. “Uhm, io ero andato in questo posto per chiedere in giro di un occhio di vetro. Dovevo rintracciare il suo proprietario, perché doveva essere importante per fermare l'apocalisse. È venuto fuori che non era nemmeno stato ancora costruito, perciò...”

“Doveva essere?” Luther borbottò fra sé e sé. “Veniva dal futuro, lo tenevo in mano da morto, ma non sono esattamente sicuro di come faccio a saperlo.”

Alzò la testa. “Come facevamo ad avere quell'occhio?”

Una cupa sensazione si annidò nel suo petto quando realizzò che nessuno aveva una risposta.

“Ce lo abbiamo ancora?” chiese Vanya cautamente, ma Klaus scosse la testa.

“Sono abbastanza sicuro che sia stato distrutto. Anche se non ricordo come.”

Herb scriveva come un maniaco e Diego si piegò curioso verso di lui per leggere da sopra la sua spalla.

“Pensiamo che abbiamo avuto l'occhio da una persona che è stata cancellata?” rifletté Allison. “Un agente della Commissione?”

“Mi fa male la testa” disse Klaus.

“È normale” gli rispose Herb con stanchezza. “Il tuo cervello protesta il fatto che stai cercando di pensare a qualcosa a cui è essenzialmente impossibile pensare.”

“Okay, okay” Diego agitò la mani impazientemente. “Quindi, questo significherebbe che eravamo in contatto con un agente della Commissione e che cosa… abbiamo stretto un'alleanza o qualcosa?”

Luther soffiò, “Sembra improbabile. Senza offesa, Herb.”

“Nessuna offesa” lo rassicurò. “Ma devo dissentire. Dal mio punto di vista, sembra una conclusione piuttosto logica. A meno che non abbiate ricevuto l'occhio dall'agente per sbaglio.”

“Perché un agente della Commissione avrebbe dovuto avere l'occhio, tanto per cominciare?” Vanya si unì alla conversazione dopo essere rimasta in silenzio e pensierosa per un lungo tempo. “Voglio dire, voi eravate molto pro apocalisse, giusto? L'occhio era un indizio per fermarla.”

“Questo è un ottimo punto” fece Allison voltandosi verso Herb. “È possibile che questo agente facesse il doppio gioco?”

“Per me ha senso” osservò Luther. “Non vedo perché qualcuno dovrebbe volere che il mondo finisca.”

Herb rimase pensieroso. “È possibile, sì. Forse avete ragione.”

“Quindi una delle nostre persone cancellate è un agente imbroglione” annuì Allison. “Grandioso.”

“E poi ho iniziato a investigare sulla sparatoria con…” gli occhi di Diego si offuscarono un poco. “Patch.” Si schiarì la gola.

“Io ho conosciuto Leonard” aggiunse Vanya, il tono algido. “Scusate, Harold.”

“Quel ragazzo era uno stronzo” bisbigliò Klaus in accordo.

“Che mi dite della sparatoria al Grimbel Brothers?” interrogò Diego improvvisamente. “Quelli erano Hazel e Cha-Cha.”

“Deve essere stato di nuovo l'agente doppiogiochista” mormorò Herb appuntandoselo. “Si davano molto da fare, chiunque fossero.”

“Potrebbe essere che questo agente fosse lo stesso che ci ha avvisati dell'apocalisse all'inizio?” meditò Allison ricevendo per lo più mormorii affermativi in risposta.

“È molto probabile” ammise Herb. “Gli incarichi di Hazel e Cha-Cha sono stati eliminati dalle anomalie. Così come migliaia di altri rapporti dal nostro database.”

“Allora perché Hazel e Cha-Cha erano venuti qui?” chiese Luther facendo crollare il silenzio. “All'Accademia?”

“Forse pensavano che fossimo colpevoli per associazione?” suggerì Vanya.

“La Commissione non opera in questo modo” intervenne Herb. “Dovevano aver pensato che l'agente traditore fosse qui. Il che era assai probabile, dato che sembra che lavoraste insieme.”

“Beh, non lo avevano trovato, così avevano preso me al suo posto” annunciò Klaus ricordando di quando fu rapito dai due assassini. “Mi hanno torturato. Non ricordo nemmeno cosa volessero.”

Fece accapponare la pelle di Luther il pensiero di ciò che era successo al fratello, e che nessuno lo aveva nemmeno notato. Klaus aveva la tendenza a sparire per giorni, ma non scusava il fatto che lo avessero tutti deluso. Luther avrebbe dovuto prestare più attenzione. Avrebbe dovuto capire che qualcosa non andava.

Aveva giurato che non avrebbe mai deluso così nessuno della sua famiglia.

“La tua amica” Klaus guardò Diego, “era venuta a salvarmi. Sono strisciato fuori dai condotti dell'aria. Ho preso la valigietta di Hazel e Cha-Cha.”

Aveva uno sguardo vuoto negli occhi verdi mentre fissava un punto lontano. Luther sapeva che era tormentato dai fantasmi del suo passato, più di tutti loro, e spesso lo dimenticava.

“Mi ha portato alla guerra del Vietnam, dove ho incontrato Dave. Dieci mesi dopo sono tornato” Klaus alzò le spalle, la vice più disinvolta del solito. “Ho distrutto la valigetta e… beh, casa dolce casa.”

“Sì, dopo di che io e lui siamo andati a prenderci una piccola vendetta e abbiamo cercato di assaltare Hazel e Cha-Cha” proseguì Diego. I suoi occhi erano ancora fissi su Klaus, ma c'era uno sguardo comprensivo in essi.

“Un momento” mormorò Luther. “È per questo che avete rovinato il nostro incontro con Hazel e Cha-Cha.”

“Nostro?” ripeté Allison.

“Sì, ero con qualcuno” constatò. “Doveva essere l'agente che abbiamo dimenticato.”

“Sono confuso” Klaus si intromise all'improvviso agitando una mano. “Tutto quello che abbiamo è questo personaggio di agente delinquente, ma non hai detto che più persone della Commissione sono state cancellate dalla linea temporale?”

“È corretto” Herb si sistemò gli occhiali sul naso. “Le anomalie sono troppo gravi per essere state causate da un solo agente.”

Si schiarì la gola per poi tornare a Luther. “Perché avevate organizzato l'incontro?”

Luther sospirò appoggiandosi sulla sedia. “Io, ehm. Non ne sono sicuro.”

“Non ricordi proprio niente?”

D'un tratto un lampo di dolore attraversò la testa di Luther, così violento e inaspettato che quasi vomitò. Fu come se un proiettile gli fosse stato sparato dritto nel cervello. Un gemito sorpreso evase le sue labbra e, in preda a un panico frenetico, si rese conto che la sua vista si stava offuscando.

Qualcuno gli toccò la spalla. La voce di Allison stava urlando qualcosa, ma era come se la sentisse da sott'acqua. O dal fondo di un pozzo.

“Sto bene, sto bene” farfugliò infine spingendo via le mani tremolanti.

“Cosa diavolo era quello?” ansimò Diego, gli occhi pieni di adrenalina.

Herb deglutì nervosamente. “Credo che stiate iniziando a risentire degli effetti del paradosso.”

“Sentiti libero di approfondire” Vanya alzò il mento suonando più esigente del solito.

“Io ho sofferto della sua influenza da quando è iniziato l'incubo” ammise Herb, “Il vostro cervello non riesce a gestire lo stress. È comprensibile. Nel peggiore dei casi, potrebbe portare a un'emorragia cerebrale.”

A Luther si gelò il sangue nelle vene. Il dolore era svanito così come era apparso – sicuramente non era così grave.

“Comunque possiamo trarre una conclusione da questo” annunciò Herb cercando di deviare la loro attenzione lontano dal fatto che sarebbero potuti morire investigando più a fondo. “Qualcun altro che è stato eliminato era qui. Il tuo piccolo episodio lo dimostra.”

“Aspetta, questo è un progresso” annuì Klaus cercando di sembrare rincuorato.

Herb sospirò. “Sospettavamo già che uno dei nostri esecutivi fosse stato cancellato. Troppi rapporti completi che dovevano riportare una firma non erano siglati.”

“Pensi che l'agente criminale abbia organizzato l'incontro per mettersi in contatto con un esecutivo?” domandò Allison. “Un esecutivo che è stato anche cancellato?”

“È precisamente ciò a cui sto pensando” Herb annuì un paio di volte con più energia, la sua penna ondeggiava aggressivamente mentre riportava i loro progressi. “Questo è buono. Continuiamo.”

“Aspetta” ringhiò Diego. “Vuoi che continuiamo anche se potrebbe portarci a… a…” indicò Luther, ma sembrò aver dimenticato la parola.

“Un'emorragia cerebrale?” Vanya finì la frase per lui e Diego annuì furiosamente.

“Nel peggiore dei casi” si affrettò a dire Herb. “Non preoccuparti, non lascerò che succeda. Ma devo avvisarvi di potenziali episodi. Emicranie del maggior calibro.”

“Sei sicuro?” Diego si avvicinò di un passo, sembrando leggermente minaccioso. Herb deglutì.

“Sono sicuro.”

“L'agente fuggitivo deve averci portato anche le informazioni su Harold Jenkins” mormorò Allison. “È l'unico modo.”

“Anche Cha-Cha ha molti vuoti di memoria” fece Herb. “Ordini che non ricordava di aver mai ricevuto.”

Sospirò piegandosi per stropicciarsi gli occhi. “Il numero di paradossi è assurdo.”

Diego si chinò verso di lui per dargli una pacca sulla spalla. “Dai, Herbie. Lo scopriremo. Abbiamo già un agente fuggitivo e un esecutivo che sappiamo essere esistiti. Ce ne sono altri?”

“Probabilmente, almeno tre” ammise Herb.

“Quindi dobbiamo solo identificare l'ultimo.”

Allison annuì lentamente. “Io e Diego eravamo andati a controllare casa di Harold. Qualcosa ci aveva fatti uscire, ma non ricordo cosa.”

Sembrava che anche Diego non ne avesse idea.

“Lo segnerò come un altro punto interrogativo” disse Herb.

“Dopo sono stato arrestato” puntualizzò Diego. “E Allison ha guidato fino al nascondiglio di Harold, e…”

La stanza cadde nel silenzio.

Il volto di Vanya si volse al pavimento. Una famigliare ondata di rabbia attraversò il cuore di Luther, ma sapeva che era fuori luogo.

“Sappiamo cos'è successo” sospirò Klaus. “Abbiamo cercato di fermare Vanya dal fare esplodere il mondo, ma abbiamo fallito. Abbiamo viaggiato nel tempo fino agli anni '60 per darci il tempo di sistemare le cose.”

“Di chi era stata l'idea comunque?” rise Luther in un soffio.

“Non ci stiamo facendo la domanda giusta” osservò Allison. “Come abbiamo viaggiato nel tempo?”

“Avremo usato una valigetta, no?” Diego fece spallucce. “Il fuggitivo doveva averne una. L'ha usata per portarci, giusto?”

“Ma perché ci ha sparpagliati per la linea temporale?” domandò Luther. “Voglio dire, la valigetta che abbiamo usato per tornare qui ha funzionato beissimo.”

“Ottima domanda” disse Herb. “È possibile che la valigetta avesse subito dei malfunzionamenti in qualche modo.”

Da quel momento in poi, rimasero perplessi.

“Prendiamoci una pausa” brontolò Luther.

Nessuno protestò.

 

____________________

 

Vanya sospirò, le gambe le parvero pesanti mentre camminava verso la stanza di Luther. Era passata un'ora da quando avevano concordato per una pausa, ed era ora di riunirsi.

Era a cinque passi dalla vecchia stanza di Ben, stava per imboccare le scale lì accanto, quando qualcosa la bloccò lungo il cammino.

 Cos'è?

 Perché mi sono fermata?

Vanya deglutì, il suo sguardo si aggirava minaccioso.

Aveva… una sensazione.

Voltandosi lentamente per guardare alla sua destra, vide una porta. Era lì, davanti ai suoi occhi, chiaro some il sole.

Ma era certa che non fosse lì prima.

Vanya prese un respiro profondo, posizionando cautamente la sua mano sulla maniglia. Fiocchi di polvere le macchiarono il palmo quando la girò.

Non successe niete. La porta emise un forte scricchioliò, ma non si mosse. Per un breve momento Vanya si chiese se non avesse dovuto usare i suoi poteri per forzare l'apertura di quella dannata porta.

C'era qualcosa di importante dietro quella porta. Lo sapeva.

“Vanya?”

Fu sorpresa dalla voce di Luther che la chiamava. Era spuntato da dietro l'angolo e ora la stava fissando.

Vanya sbatté rapidamente gli occhi tornando a guardare la porta misteriosa.

Il suo cuore affondò come un sacco di sassi.

 Dov'è andata?

Non c'era nessuna porta. Nessuna maniglia impolverata. Niente.

C'era invece una carta da parati ammuffita a ricoprire il muro. Uno degli angoli era leggermente strappato.

“Cosa…” mormorò muovendo alcuni passi scioccati all'indietro.

Stava sognando?

Era un qualche sogno particolarmente elaborato?

 Sto impazzendo?

Deglutì, poi lanciò un'occhiata a Luther i cui occhi non l'avevano lasciata. Non sembrava confuso però – più pensieroso.

“Scusa, stavo solo...” Vanya cercò le parole giuste. “Stavo solo…”

“L'hai vista anche tu, non è vero?” la interruppe. “La porta?”

Oh, grazie a Dio.

Non era pazza.

“Sì” bisbigliò Vanya. “Ma ora è sparita.”

“Stanno succedendo cose strane in questa casa” disse Luther sottovoce. “Posso solo immaginare che abbia a che fare con il disfacimento della linea temporale.”

“Ma non capisco” mormorò Vanya. “Perché una qualunque porta in casa nostra dovrebbe essere connessa con la sparizione degli agenti della Commissione?”

“Non lo so” confessò Luther avvicinandosi. “Ma lo scopriremo. Torniamo di sotto.”

“Sì.”

Vanya si allontanò dal muro ed entrambi tornarono nel corridoio. Passarono dalla stanza di Allison, e si sorprese di vedere che sua sorella fosse in effetti all'interno.

Era circondata da file sparpagliati, le sopracciglia aggrottate in un'espressione concentrata.

Luther si fermò e l'avvertì bussando sulla porta aperta per annunciare la loro presenza.

“Stavamo tornando di sotto” disse dolcemente. Vanya non poté ignorare una sensazione tiepida per il modo in cui la voce rigida di Luther si addolciva quando parlava ad Allison.

Teneva così tanto a lei.

Allison alzò la testa, risvegliata dai suoi pensieri. “Oh. Sì, arrivo tra un minuto. Voi ragazzi andate avanti.”

Luther annuì e andò avanti, ma Vanya si sentì curiosa. Fece qualche passo dentro la stanza sedendosi accanto al letto di Allison. Il fatto che non stesse cercando di scacciarla via le diede abbastanza fiducia per rimanere.

“Cosa stai guardando?”

Allison aveva usato un evidenziatore giallo per risaltare certe frasi sul rapporto.

“Solo cose che non hanno senso, credo” fece spallucce. “Pensavo che forse si sarebbero rivelate utili quando avremo cercato di unire i punti.”

Vanya annuì, gli occhi si aggiravano fra gli appunti della donna. Quello era sull'incidente del Titanc.

Si accigliò.

… Prestare particolare attenzione ai cinque uomini che suoneranno sul ponte quando affonerà la nave. Non dovranno essere toccati.

Allison aveva usato una penna rossa per sottolineare la parola 'cinque'.

“Cinque” sussurrò Vanya, la parola riecheggiava nella sua mente in un modo che non si sarebbe aspettata. Quel numero voleva dire qualcosa.

Si schiarì la voce. “Uhm, Allison?”

“Hm?” la sorella alzò la testa.

“Perché hai usato il rosso per evidenziare questo?”

Vanya colpì il foglio con il dito, guardandola interrogativamente. Allison aggrottò la fronte facendo schioccare la lingua.

“Io...” iniziò. “Sinceramente non ne sono sicura. Forse ho pensato che il numero di musicisti fosse importante.”

Allison, tuttavia, parve visibilmente turbata.

“Allison” sussurrò Vanya. “Nel mio sogno, ero nell'apocalisse.”

Sua sorella sembrò congelarsi, appoggiando lentamente la penna. Stava ascoltando.

“C'era un giornale” continò, le lacrime iniziavano a riempirle gli occhi. “Provavo a leggerlo, ma tutte le parole erano ridotte in poltiglia.”

“Sì, sono piuttosto sicura che non si possa leggere nei sogni” fece notare Allison con gentilezza.

Vanya scosse la testa. “No, io… io ho guardato alcune pagine più avanti e ho realizzato che potevo leggere la pagina cinque.”

Allison si accigliò, gli occhi si spostarono sulla parola brillante ed evidenziata che ostentava il foglio.

“Okay” disse lentamente riportando lo sguardo su di lei. “Cosa diceva?”

“Ricorda” disse Vanya piano, e chiuse gli occhi. Poteva vederlo davanti a lei, chiaro come il sole. “C'erano cinque righe di testo. E in ogni riga la parola ricorda era scritta cinque volte.”

Allison ritrasse un respiro tagliente. “Okay. Comincio a vedere lo schema.”

Vanya annuì rapidamente. “Sappiamo tutti che non abbiamo mai avuto un Numero Cinque in famiglia. Papà l'ha lasciato fuori. Klaus pensava che fosse per superstizione. Ma…” deglutì, il cuore galoppava come un cavallo da corsa nel petto. “E se non lo fosse? E se noi avessimo un Numero Cinque?”

 

____________________

 

“È come un arto fantasma” spiegò Vanya. Allison stava proprio dietro di lei mentre appoggiava una mano sulla maniglia aprendo la porta scricchiolante.

La stanza era buia. Nessuno aveva cambiato la lampadina. Non era più stata usata molto per alcunché, la luce dall'esterno disegnava ombre tutt'intorno.

“Un arto fantasma?” ripeté piano Allison. “Cosa intendi?”

“È comune in guerra” Vanya si schiarì la voce. “Gli amputati hanno la sensazione di avere un prurito che non possono grattare via, o un dolore che semplicemente non può esserci.”

“Okay.”

“L'arto mancante è così importante che il cervello agisce come se fosse ancora lì” continuò voltandosi a guardare Allison.

“Credi che il nostro subconscio stia cercando di dirci cosa manca” dichiarò lentamente, annuendo pensierosa.

“Forse” Vanya fece spallucce. “Cioè, potrei sbagliarmi, ma… se avessimo avuto un altro fratello che è stato cancellato come gli operativi della Commissione?”

“Non è impossibile, suppongo” Allison sospirò incrociando le braccia. “Ma non lo so, Vanya. Solo il numero cinque? Potrebbe voler dire qualsiasi cosa.”

“È una bella coincidenza però, non credi?” alzò le sopracciglia. “Che non abbiamo un Numero Cinque in famiglia.”

“Il numero significa qualcosa, sono d'accordo” disse Allison fermamente. “Ma non possiamo essere certi di cosa.”

“Ma-”

"Voglio dire, un settimo fratello?” sgranò gli occhi. “Sono abbastanza sicura che più cose non tornerebbero. Avrebbero fatto parte di tutto questo. Ma dove si ineriscono?”

Vanya si guardò intorno, gli occhi sfiorarono ancora l'angolo più lontano, indugiando sul telefono, poi tornarono sul volto preoccupato della sorella.

“Già” accettò la sconfitta. “Forse hai ragione.”

 

____________________

 

Cinque alzò lentamente le palpebre. Delle ombre danzavano sui muri della piccola e angusta stanza. Sbatté gli occhi alcune volte per abituarsi alla luce, mettendosi a sedere con lentezza.

Conosceva questa stanza. Qui era dove… dove era stato cancellato. Qui era dov'era scomparso. Dove Vanya lo aveva implorato di restare, ma non aveva potuto.

Cos'era successo dopo?

Cinque non riusciva a ricordare. Aveva galleggiato nell'oscurità, come un pezzo di legno alla deriva nel mezzo dell'oceano.

Era almeno cosciente?

Non sarebbe dovuto essere possibile.

Lui avrebbe dovuto… non sarebbe dovuto esistere.

Con lentezza, i movimenti affaticati, Cinque si alzò.

Deglutendo incespicò fino alla porta. Poteva uscire?

La maniglia era fredda come ghiaccio sotto il suo tocco. La porta non si spostò. Grugnendo, spinse di più.

Niente.

Attingendo ai suoi poteri cercò di saltare dall'altra parte.

Quando le sue cellule si riordinarono fra gli atomi, la sua mente si gelò dal terrore.

Non c'era niente dall'altra parte. Assolutamente niente. Un vuoto, un abisso talmente vasto che il suo cuore si rifiutò di battere per due buoni secondi.

Ansimante, Cinque tornò nella camera, inciampando all'indietro. Cadde.

(Non posso uscire.)

Terrorizzato, fissò la porta aspettandosi che quella terribile materia oscura lo ingoiasse filtrando all'interno attraverso la crepa nella porta.

Ma non successe niente. Si sedette lì, in iperventilazione, il respiro si bloccava nella gola e la chiudeva in modo che non potesse inspirare abbastanza aria.

 Come faccio ad avere aria? Pensò istericamente.

 (Perché sono qui?)

Questa stanza non avrebbe dovuto essere lì.

Lui non avrebbe dovuto essere lì.

Cinque si era sempre sentito orgoglioso di essere un tipo razionale, in ogni situazione. Sapeva qual'era l'obbiettivo, si atteneva al compito, era determinato.

Ma ora la sua mente si stava sgretolando. Paura, panico, confusione stravolgevano i suoi pensieri.

Non riusciva a respirare lì. Non riusciva a pensare.

Doveva uscire.

 (Non posso uscire.)

Gli occhi di Cinque saettarono rapidi da una parte all'altra della stanza finché non finirono sul -

Il telefono. Il telefono che aveva usato per chiamare Vanya e Klaus.

Si affrettò freneticamente verso di esso. Cinque inspirò sibilando in cerca di aria, le mani tremavano a tal punto che la cornetta gli sfuggì quasi di mano.

 (Per favore. Non posso uscire.)

Non ci fu niente se non il silenzio dal telefono. Nessuna suoneria, nessun niente. Un singhiozzo frustrato gli sfuggì dalle labbra e sbatté il telefono al muro.

Era lì da solo.

 

Era da solo e non poteva uscire.

 

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Capitolo 5
*** La stanza che non esisteva ***


Ogni storia mai raccontata è realmente successa.

Le storie è dove vanno i ricordi,

quando sono dimenticati.

 

 

Vanya sognò l'estate 2002. Era eccezionalmente caldo e teneva la finestra aperta quasi ogni notte.

Sognò di essere di nuovo una ragazzina. Allora non suonava il violino da più di tre anni, ma sapeva già che sarebbe stata la sua passione da molto tempo.

La fece sorridere. Vanya incalzò le sue soffici ciabatte rosa appoggiando il violino e uscì dalla camera. Si fece strada silenziosamente verso il piano di sotto, sentendo Grace mormorare piano da qualche parte nella stanza accanto.

Vanya raggiunse un piatto. Dovette arrampicarsi sulla mensola per arrivarci, ma andava bene.

Con mani esperte afferrò un coltello e spalmò il burro di arachidi su delle fette di pane che aveva posizionato sul piatto. Lasciò il coltello nel lavandino e prese il barattolo dei marshmallow.

Quando fu pronta portò il piatto di sopra. Le sue ciabatte non facevano rumore mentre camminava nel corridoio pieno di porte chiuse. Si assicurò di accendere le luci del corridoio e si infilò nella camera di fianco a quella di Luther.

Dentro era buio, ma Vanya conosceva la strada. Lasciò il piatto accanto alla finestra e guardò fuori. I rumori distanti del traffico le giunsero alle orecchie.

Non riusciva a vedere le stelle in città.

 

Vanya si svegliò con un sussulto.

Fissò l'oscurità. I polmoni pizzicavano per il rantolo soffocato che lasciò uscire, e si affrettò fuori da quella maledetta, fottuta stanza.

Sapeva che i suoi sogni stavano cercando di dirle qualcosa, ma semplicemente non riusciva a capire.

La sensazione soffocante di perdita intrappolava il suo respiro e lei dovette uscire.

(Non riesco a ricordare cosa ho perso.)

Questa stanza, questa stanza in cui continuava a svegliarsi la faceva soffocare. Vanya singhiozzò artigliandosi il petto, le dita corsero sui bottoni del pigiama.

I polmoni non si espandevano.

(Cinque.)

Era reale. Doveva esserlo.

Oppure no?

Vanya non poteva più sopportarlo. Non poteva e basta. Chiuse la porta dietro di sé, i singhiozzi scuotevano la sua figura minuta.

Era troppo. Si lasciò cadere andare, le ginocchia deboli, scivolando lentamente a terra.

"Non so cosa fare" pianse, i singhiozzi rubavano aria dai suoi polmoni. "Per favore, dimmi cosa devo fare."

I suoi respiri si fecero disperati mentre si appoggiava alla porta.

Per favore, non so cosa fare.

____________________
 

Non so cosa fare, realizzò Cinque ansimando, appoggiando la testa contro la parete. Aveva calciato e colpito tutto ciò che aveva trovato in quella stanza dimenticata da Dio. Si era scatenato a causa della disperazione e della frustrazione e della rabbia, ma aveva finito il carburante.

Non voleva essere di nuovo solo.

Quello era solo un altro mondo vuoto. Stava fluttuando da qualche parte nel mezzo dell'abisso, fuori dalla realtà, nel non-spazio. Il suo corpo probabilmente non era nemmeno corporeo.

Cinque non avrebbe dovuto svegliarsi. Non lì.

Quella stanza non esisteva nemmeno. Era solo la sua coscienza che proteggeva se stessa.

Ma era sveglio. E non sapeva cosa fare.

Cinque esalò un sospiro tremante, troppo esausto per essere arrabbiato con l'universo. Invece era triste. Il suo dolore era così profondo da rosicchiargli le ossa dall'interno. Si accasciò contro la porta chiusa, scivolando lentamente sul pavimento.

Cinque non piangeva spesso. Non era il tipo. Ma ora le sue guance erano bagnate di calde lacrime gonfie che rotolavano giù lasciando impronte sulla pelle.

Gli mancavano. La sua famiglia. Gli sfuggì un sospiro, tremante e struggente, e premette la testa contro la porta chiudendo gli occhi.

Un'altra lacrima cadde.

Cinque era così vicino. Così vicino ad avere una seconda possibilità.

Così vicino.

Voleva esserci per la sua famiglia – non lasciarli mai più. Glielo doveva.

E si era promesso che non se ne sarebbe mai andato, qualunque cosa sarebbe accaduta.

Ma lo aveva fatto.

Per quello che valeva, i suoi fratelli non l'avrebbero nemmeno ricordato. Cinque non sarebbe stato altro che una storia nelle loro teste, una figura nei loro sogni. Un'ombra nei loro ricordi.

Ma Cinque era reale, aveva vissuto ed era esistito.

E loro non lo avrebbero mai ricordato.

Certo, non poteva sapere che da qualche parte molto al di fuori della sua portata, sua sorella stava appoggiata alla stessa esatta porta, asciugandosi le lacrime fatte della stessa acqua e sale, il cuore batteva allo stesso ritmo del suo.
 

____________________
 

Allison si stropicciò gli occhi ripensando agli eventi della giornata.

Avevano esaminato il resto delle loro storie. Molti conti non tornavano.

Incongruenze. Diego aveva sofferto di un episodio simile a quello di Luther della giornata precedente, ed era andato a letto presto.

Sbadigliando pensò che fosse ora di seguire il suo esempio. Era rimasta sveglia abbastanza.

Pogo le passò accanto e sembrò percepire i suoi intenti.

"Buonanotte, miss Allison" disse gentilmente spegnendo le luci del salotto.

Vederlo le diede un'idea.

Come aveva fatto a non pensarci prima?

"Pogo" lo chiamò girandosi lentamente. "Potrei magari dare un'occhiata ai video di sorveglianza che ha lasciato papà?"

Pogo si girò, accigliato. "A quest'ora? Certo, ma..."

Allison allungò il braccio e aprì la mano. Pogo sospirò e le diede il suo mazzo di chiavi. Lo mise sul suo palmo aperto e lei le strinse fra le dita mimando un 'grazie'.

"Riporti le chiavi prima di andare a letto" l'avvertì Pogo.

Allison sfrecciò su per le scale. Doveva testare la teoria di Vanya, di certo.

E se avessero davvero avuto il settimo fratello?

Numero Cinque?

Aveva respinto la bizzarra teoria prima, ma l'aveva menzionata di sfuggita al resto dei suoi fratelli. Erano più concentrati nel capire chi fossero le altre persone cancellate.

Non avevano avuto fortuna. Non ancora.

Allison era senza fiato quando raggiunse la porta che stava cercando. Tutti i video di papà, tutta la loro infanzia... prendendo un respiro profondo, aprì la porta. Era la loro chance di provare la teoria di Vanya.

Quando Allison entrò fu travolta dal fetore.

Sapeva di plastica bruciata. Arricciò il naso e accese le luci.

Le si gelò il sangue.

L'armadio delle cassette era zuppo di un liquido nero e spumeggiante. Colava lungo le pareti spingendosi attraverso le fessure.

Ripreso il fiato, Allison cercò di aprire l'armadio. Ciò che ottenne fu un veemente scoppiettio di scintille.

Com'è successo?

Allison deglutì nervosamente e si ritrovò completamente perplessa. Era intontita.

Più della metà dei nastri erano sciolti. Completamente rovinati. Esplosi nei loro contenitori. Vanya aveva ragione? Era questo il risultato della perdita di un fratello, cancellato dall'esistenza?

Alison sedette sulla sedia, congelata.

Cosa voleva dire?

____________________
 

Klaus stirò le braccia in uno sbadiglio. Era mattino – quasi le otto. Di solito non era molto mattiniero, così si sorprese di essersi alzato per primo.

Naturalmente, Klaus svegliò anche Diego. Gli serviva compagnia quella mattina, e visto quanto Diego fosse ansioso e scontroso dopo l'episodio di emicrania del giorno precedente, Klaus pensò che gli avrebbe fatto bene uscire un po'.

Aria fresca e tutto il resto.

Non aveva nemmeno realizzato di stare parlando ad alta voce finché Diego non gli schiaffeggiò la spalla.

"Ho già capito" grugnì. "Cosa mangiamo?"

"Panda express" dichiarò Klaus. "So che è il preferito di Allison e Vanya, ma non so quello di Luther. Tu?"

"Non mangia niente di piccante" lo informò. "Però seriamente. Quell'uomo inizia a sudare come un matto. Sono abbastanza sicuro che anche il ketchup sia troppo piccante per lui."

"Tragico" rispose Klaus scuotendo lentamente la testa. "Gli troveremo qualcosa. Riso bianco?"

"Andrà bene."

"Herb invece?" sospirò Klaus. Si era totalmente dimenticato di Herb.

Diego sbuffò. "I suoi pasti devono essere senza glutine. È anche intollerante al lattosio."

"Accidenti" fece Klaus con una smorfia. "Beh, immagino che gli-"

La sua voce morì d'un tratto.

Klaus fissò il vuoto.

Era scomparso. Il manichino al Grimble Brother's. Era scomparso.

Era stato qualche giorno prima, quando si era fumato una sigaretta dietro l'angolo. Era proprio lì, ed era importante.

Gli cadde la mascella. Quel manichino era una parte di tutto quello. Lo sapeva.

Perché non lo aveva realizzato prima?

"Klaus?" Diego lo richiamò confuso vedendolo saettare verso l'entrata. "Aspetta!"

Sentì i passi di suo fratello affrettarsi.

Klaus fu accolto dall'odore di vestiti puliti e nuovi di zecca. Era piacevole come sempre, ma non aveva tempo per provarseli.

Non in quel momento.

"Dov'è?" borbottò fra sé e sé, dolorosamente consapevole del fatto che Diego lo stesse fissando. "Dov'è?"

"Klaus, se sei di nuovo fatto, giuro che-"

"Non sono fatto" sbottò irritato. Perché le persone pensavano sempre quello?

Era rimasto sobrio per anni.

Klaus si portò verso l'impiegato più vicino, gli occhi guizzavano intorno alla ricerca di uno specifico manichino. Non era lì.

"Mi scusi, salve" disse trafelato. "Mi chiedevo se, per caso, avesse visto un manichino con una camicia di pizzo bianca. Aveva anche un cappello, uno di quelli con la visiera, il tipo che usano tutte le lesbiche-"

"Uhm, non sono sicuro di capire cosa chiede, signore" rispose l'impiegato arretrando. "Ehm, posso aiutarla a trovare alcuni di quegli articoli, se vuole."

"No, no, no" Klaus scosse la testa impaziente. "Il manichino. Dov'è il manichino?" afferrò il giovane per le spalle.

"Klaus" Diego si schiarì la voce prendendogli un braccio.

"Ne abbiamo buttato via uno ieri mattina" balbettò l'impiegato, apparentemente un tantino terrorizzato, e Klaus credette che fosse a tanto così da chiamare la sicurezza.

"Cosa?" Klaus sgranò gli occhi. "Perché l'avete buttato via?"

"Ne abbiamo di nuovi" l'impiegato deglutì. "E quello che abbiamo buttato aveva un'ammaccatura sulla testa."

"Va bene allora" Klaus farfugliò leggendo il nome dell'uomo sulla targhetta. "Dan. Avrò bisogno che scopri dove viene portata la vostra spazzatura. Adesso."

Il suo pomo d'Adamo saltellò su e giù. "Posso farlo, signore. Solo un attimo."

Klaus lasciò la presa e l'impiegato se ne andò in tutta fretta.

Diego lo fissava. "Che cazzo stai facendo, Klaus?"

"È importante" mormorò. "Devo trovarlo. Quel manichino. È connesso a tutto questo, lo so."

"Ne sei sicuro?"

Klaus prese un respiro profondo. Doveva calmarsi. "Sì, ne sono sicuro."

"Okay, allora."

Diego incrociò le braccia, lo sguardo puntava nella direzione in cui era scappato Dan. Gli caddero improvvisamente le mani e strinse gli occhi.

Klaus guardò nella stessa direzione, curioso. "Cos'è?"

Diego mosse un passo in avanti. Poi un altro. E poi, ciò che vide Klaus subito dopo, fu suo fratello camminare a tutta velocità verso un ragazzino con una giacca blu, seduto di fronte a un camerino. Diego gli afferrò la spalla e il ragazzino si girò sorpreso.

Klaus osservò come suo fratello sembrò sgonfiarsi e ritrasse immediatamente la mano. "Scusa" mormorò. "Credevo fossi qualcun altro."

Klaus cercò di fargli domande, ma tutto quello che gli disse fu che era un errore.

Dan tornò cinque minuti dopo.

"Ecco l'indirizzo della discarica" mise il foglio fra le dita di Klaus.

"Grazie, ci vediamo fuori" borbottò Klaus che già correva verso le porte.
 

____________________
 

"Non posso credere che facciamo questo quando il mondo finirà in meno di una settimana" sospirò Luther mentre si lanciava un altro materasso rotto dietro le spalle.

"Entrambi" si aggiunse Allison. I suoi capelli erano un disastro e Luther era ben consapevole che lei avesse dormito solo poche ore.

"Smettetela di piagnucolare!" la voce di Klaus emerse da qualche parte lì vicino. Era dall'altra parte della montagna di immondizia che Luther stava correntemente smontando.

"Tutto questo è senza speranza" borbottò Vanya. "Questa è la più grande discarica di tutta la città. Come faremo a trovare un singolo manichino?"

"Continua a cercare" intervenne Diego, la voce seguita dal suono di qualcosa che si schiantò rumorosamente. Luther distinse qualche silenziosa imprecazione.

"Klaus" Luther camminò verso suo fratello. Klaus scrutava il mucchio di immondizia, e l'uomo dovete ammettere che quella era l'espressione più concentrata che gli avesse mai visto fare.

Era determinato. Irremovibile.

"Voi ragazzi siete liberi di andare se volete" rispose. "Ma io resto. E so che è importante."

"Come?" la domanda che pose Luther era ottima e lo sapeva. Anche Klaus lo sapeva.

"Lo so e basta" rispose il fratello sottovoce. "Dovrai fidarti di me, Numero Uno."

Klaus ripescò il suo cellulare dalla tasca. Luther non riuscì a vedere chi chiamava. "Heyy" salutò, un largo sorriso gli illuminò il volto. "Sono Klaus. Ascolta, Tatiana cara, ho bisogno che mandi un messaggio ai ragazzi del rifugio" si schiarì la voce. "Di' loro di prendere l'autobus fino alla discarica Fresh Kill. Digli che se mi aiutano a trovare una cosa gli pago da bere."

Klaus terminò la chiamata e rivolse a Luther un ghigno soddisfatto.

"E con io, intendo Allison" girò la testa.

Lei gli rispose con un rude gesto della mano.

"Klaus" lo sgridò Luther. "Non puoi farlo. Sono i suoi soldi."

"Lo sai che è milionaria, vero?" Klaus alzò le sopracciglia. "Sta solo zitto e torna a scavare. Abbiamo una lunga giornata davanti."
 

____________________
 

Sei ore. Sei sudate, orribili, puzzolenti ore alla discarica i cui lavoratori furono poco soddisfatti di persone che scavavano nei loro terreni.

Allison aveva a malincuore pagato i drink ai diciassette senzatetto.

E ora? Klaus aveva fissato gli occhi brillanti dipinti di blu di quel manichino per quasi un'ora filata.

Assolutamente niente.

Forse erano i suoi fratelli. Non lo avevano lasciato, egualmente curiosi sia di lui che del manichino.

Perciò in realtà, c'erano tre uomini adulti e due donne adulte, tutti a fissare uno sporco manichino.

Il manichino, anch'essa li fissava. Era un mistero. Un mistero che si sbeffeggiava di Klaus per non averlo ancora risolto.

"Chiudi il becco" le ringhiò contro. Non aveva bisogno che qualcuno si prendesse gioco di lui al momento.

"Andiamo" mormorò avvicinandosi. "Cosa sei? Una qualche reliquia, eh? Sei infestata? Hm?"

Klaus attinse al suo potere, ma non percepì niente di soprannaturale in quell'oggetto. Poteva essere che si fosse sbagliato?

"Non ha niente di speciale" Allison lanciò le braccia in aria. "Ti sbagliavi."

Klaus deglutì alzando la testa per rispondere, ma si congelò alla vista di non cinque, ma sette persone che lo guardavano.

Batté le palpebre. Klaus si tirò velocemente in piedi e tossì per schiarirsi la gola.

V'era una coppia di mezza età in piedi dietro Diego. L'uomo aveva uno sguardo annoiato e vuoto in volto, sembrava completamente ignaro di essere osservato.

Klaus prese un respiro profondo.

Puoi farcela, si disse.

I fori di proiettile nelle loro teste non avevano importanza.

Chi se ne importava che erano morti?

"Uhm, salve" si schiarì ancora la voce. La donna lo guardò con grandi occhi marroni, solchi di lacrime impressi per sempre sulle guance.

Lei iniziò a parlare, la sua bocca si muoveva, ma Klaus non riuscì a sentire niente. L'uomo accanto a lei annuiva e diceva qualcosa ugualmente inudibile.

"Mi dispiace, ma non riesco a sentirvi" spiegò Klaus con voce tentennante. A malapena faceva caso agli sguardi che attirava su di sé – c'era abituato.

La donna annuì con un'espressione cupa, portando la sua attenzione a Diego.

Più precisamente, al polso di Diego.

Klaus si accigliò e la risposta gli apparì chiara. Balzò in avanti e prese il fratello per il braccio.

"Hey!" esclamò quando Klaus gli sfilò il braccialetto.

Era marrone, fatto con perle di legno. Lo mostrò alla donna.

"Questo?" domandò. "Significa qualcosa per te?"

Sbattè le palpebre sorpreso quando la coppia di fantasmi scomparve per alcuni istanti dalla sua vista. Girò la testa alla loro ricerca.

Klaus si concentrò nuovamente sui suoi poteri, sforzandosi così tanto che quasi gli scoppiò una vena.

Niente.

"Seriamente?" grugnì tornando a sedere. Diego lo guardò arrabbiato, ma a Klaus non poteva dare fastidio.

Era quella la risposta?

Si lasciò sfuggire un grido sorpreso quando la donna si materializzò proprio davanti ai suoi occhi, veloce come era scomparsa. Il suo volto si sciolse in un sorriso e disse ancora qualcosa. Parlava inglese, di sicuro, ma Klaus non era mai stato bravo a leggere il labiale.

Ma ci fu una parola che colse.

"Figlia?" spalancò gli occhi. "Diego, come lo hai avuto questo?"

"L'ho fatto al manicomio, negli anni '60" incrociò le braccia aggrottando la fronte. "Io..."

Diego batté le palpebre alcune volte interrompendo bruscamente la frase. "Aspetta. No, non è vero. Io... Non ho mai fatto niente durante le attività creative."

"Te lo ha dato qualcuno?" chiese Klaus con febbrile determinazione.

Lui doveva saperlo.

"Forse" l'uomo aveva un cipiglio confuso in volto e fissò il braccialetto di perle lignee a lungo. "Deve essere così."

"Ora, non mi sembri molto un tipo che indossa gioielli" osservò Klaus. "Perciò deve avere un valore sentimentale."

La donna scomparve di nuovo.

"Klaus, chi vedi?" chiese Vanya facendo un passo nella sua direzione. "Con chi stai parlando?"

"Una donna e suo marito" sospirò lui, adagiandosi pensieroso mentre guardava la donna tremolare e sparire dalla sua vista.

Avanti e indietro.

Non era normale. Nessun fantasma normale lo faceva.

"Sono fantasmi, ma..." guardò di nuovo il braccialetto. "Hanno qualcosa che non va."

"Cosa vuoi dire?" Luther si guardò intorno nervosamente, anche se sapeva perfettamente di non essere in grado di percepirli.

Solo Klaus poteva. Era il suo personale fardello da portare.

"Continuano a sparire e riapparire" bisbigliò. "E non riesco a sentirli. Posso sempre sentirli."

"Sei sicuro che siano fantasmi, allora?" chiese Vanya.

A Klaus non piacque quella domanda, così la ignorò. "Sono piuttosto sicuro che questo braccialetto appartenesse alla loro figlia. E quando dico piuttosto sicuro, intendo che... è una possibilità."

____________________
 

Luther aveva lasciato il salotto dopo la fine del piccolo teatrino di Klaus. Erano rimasti seduti lì per ora, facendo teorie su cosa potesse significare il braccialetto, dove si inseriva nella linea temporale di Diego, e Luther era sicuro che ci fosse qualcos'altro che avrebbe dovuto fare piuttosto che ascoltare quelle infinite stronzate da emicrania.

Così Luther era uscito e si era preparato dei popcorn, si era preso una coperta e si era seduto nel corridoio, davanti al muro, appoggiato alla porta che conduceva alla camera di Ben.

La carta da parati strappata era lì, a fissarlo. Luther strinse gli occhi.

Fantasmi che c'erano solo per un certo tempo?

Allora perché non porte che esistevano solo per un certo tempo?

Luther prese un pugno di popcorn e se li cacciò in bocca. Non se ne sarebbe andato finché non avesse rivisto quella porta.

"Luther?" la soffice voce di Vanya lo chiamò mentre saliva le scale. "Che stai facendo?"

Luther voltò la testa. "Testo una teoria" decise che era la migliore risposta che potesse darle.

Vanya si avvicinò avvolgendosi più stretta nel suo cardigan.

"La porta" sussurrò.

"La porta."

"Ti sipace se mi unisco?" chiese infine guardandolo dall'alto.

Luther sollevò la coperta invitandola. Non gli dispiaceva della compagnia.

E, considerata la loro storia, era bello che Vanya volesse ancora passare del tempo con lui innanzitutto.

Dopo tutto quel tempo, dopo tutto quello che era successo, era ancora suo fratello e lei era ancora sua sorella.
 

____________________
 

"Cosa credi che ci sia dietro?" chiese Vanya. Avevano aspettato per più di un'ora. Lei era tremendamente stanca di fissare la parete lignea scheggiata e la carta da parati del medesimo colore a rivestirla.

Quella casa era piena di tanti segreti. Piena di così tanti ricordi, non importa quanto incompleti potessero essere in quel momento.

Le storie che poteva raccontare.

"Non ne ho idea" confessò Luther. "Probabilmente ha qualcosa a che fare con la morte della linea temporale e tutto il resto."

"Già" mormorò Vanya. "Io ho una teoria."

"Teoria?" fece Luther voltandosi verso di lei.

"Sulla stanza dietro la porta" disse. "E a chi poteva appartenere."

Luther spalancò gli occhi. "Dimmi."

"Allison pensava che fossi pazza" dichiarò. Allison non aveva detto esattamente quello, ma lei sapeva cosa pensava sua sorella.

Aveva una mente razionale e vedeva le cose da un'altra prospettiva. Anche Vanya dovette ammettere che aveva valide argomentazioni. Abbastanza da farle dubitare del suo stesso intuito.

"Me la dici lo stesso?" domandò Luther, gli occhi azzurri la guardavano dolci.

Vanya gli sorrise. "Credo che la stanza appartenesse a un fratello che potremmo aver dimenticato" fece spallucce. "Numero Cinque."

"Non abbiamo mai avuto un Numero Cinque" disse Luther. "Papà non ci ha mai detto perché, però."

"E se anche lui fosse stato cancellato?" lo sfidò Vanya ingoiando popcorn. "Non è del tutto bizzarro, no? Le persone stanno venendo cancellate e noi siamo stati piuttosto coinvolti nel viaggio nel tempo. Non è possibile?"

"Suppongo" disse Luther. "Questa... tua supposizione ha qualcosa a che fare con i sogni che stai facendo?"

Vanya guardò in basso, deglutendo il groppo che aveva in gola.

Voleva parlarne?

Non proprio.

"Si potrebbe dire così" disse infine sospirando.

Un'ora più tardi si era quasi addormentata sulla spalla di Luther. Non era comoda, considerato quanto fosse alto l'uomo in confronto a lei, ma non le interessava.

Non aveva dormito molto bene.

Stava per scivolare nella beatitudine del sonno quando Luther si mosse all'improvviso.

"Vanny" le scosse una spalla, e lei aprì gli occhi riluttante.

"È qui" sibilò.

Ogni traccia di sonno sparì all'istante e il cervello di Vanya si inondò di adrenalina.

Saltarono in piedi.

La porta stava lì, vecchia e polverosa com'era prima, gettando ombre sui due. Vanya deglutì – era la riposta?

È questo che vuoi che trovi?

Sei qui, Cinque?

Il suo cuore correva, i battiti facevano eco nella sua testa.

Con sua sorpresa, Luther camminò diretto verso la porta e senza dubitare un secondo l'aprì calciandola. I cardini si piegarono e pigolarono e infine si spezzarono sotto la forza.

Quando la porta cadde con un tonfo assordante, una gigantesca nube di polvere li fece indietreggiare.

Gli occhi di Vanya si riempirono di lacrime quando la polvere penetrò nei suoi polmoni, provocandole un violento attacco di tosse.

Passarono alcuni secondi, e la polvere si depositò. Si prese del tempo per riprendere il fiato scambiando sguardi con suo fratello.

Lui annuì.

Vanya entrò nella stanza buia. Guardò la finestra infondo, e lo sapeva.

Era già stata lì prima. Quella era la finestra del suo sogno. Aveva lasciato un piatto lì – un piatto con un panino al burro d'arachidi. Aveva lasciato le luci accese.

Fiocchi di polvere danzavano nell'aria.

Vanya sbattè le palpebre, asciugandosi le lacrime. Setacciò la stanza, gli occhi si adattavano lentamente all'oscurità.

Non c'era niente lì.

La stanza era completamente vuota.

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Capitolo 6
*** Ero qui ***


Voglio lasciare la mia impronta

nelle sabbie del tempo;

sapevo che c'era qualcosa che

aveva un significato,

che ho lasciato indietro;

Lascia qualcosa da ricordare,

così non si dimenticheranno;

Io ero qui.

 

Il tempo non esiste davvero nel vuoto.

Cinque era arrivato a quella conclusione quasi nel momento stesso in cui aveva ripreso conoscenza. Quanto era passato per i suoi fratelli?

Quanti giorni?

O erano state settimane?

Mesi?

(... Anni?)

Cinque era già stato triste prima di allora. Aveva rimpianto la vita che gli era stata sottratta – rimpiangeva che gli fosse stata sottratta la possibilità di essere felice.

Ancora e ancora.

Adesso? Era fuori. Non poteva disturbarsi a sentire.

Invece era intorpidito. Fissava il muro per quelli che sembravano eoni, i suoi pensieri offuscati da una foschia grigia.

Così era quel mondo.

(Grigio.)

La mezza esistenza di Cinque era senza senso.

Fu in quel momento che, contro ogni previsione, sentì un suono.

Un suono che non aveva prodotto lui. Un suono che non avrebbe dovuto esserci davvero.

Era lo scricchiolio di vecchi cardini arrugginiti. Cinque voltò lentamente la testa, muovendosi pigramente.

La porta era spaccata.

Cinque deglutì. C'era qualcosa là fuori? Qualche sconosciuta entità fluttuante nell'abisso?

Ma no, non era quello. Si alzò in piedi e adocchiò la porta sospetto. Centinaia di scenari si prospettarono nella sua mente, uno più terrificante dell'altro.

Il battito del suo cuore si fece assordante.

Cinque emise un calmo e furtivo sospiro prima di avvicinarsi alla porta e aprirla.

Ciò che trovò non fu quello che si aspettava.

Per alcuni lunghi, agonizzanti istanti, Cinque se ne stette in piedi e batté le palpebre in soggezione.

Non aveva molto senso. Perché quella porta avrebbe dovuto condurre alla sua camera?

Questa di certo non rappresentava l'architettura dell'Accademia. Quelle stanze non avrebbero neanche dovuto essere adiacenti.

Esitante, Cinque mosse un passo in avanti. La sua camera sembrava intatta – coperta da uno spesso strato di polvere. Tutte le sue cose, i mobili, le lavagne sulle pareti circondavano l'intera stanza.

Vecchi giocattoli che non usava da quando aveva nove anni. Libri che aveva ricevuto per Natale ma che non si era mai preoccupato di leggere. E il vecchio bersaglio per freccette sul muro con cui giocavano lui e Diego.

Il respiro gli si bloccò in gola mentre quando passò le dita sui vecchi segni sul muro intorno al bersaglio.

Conversazioni di giorni passati fecero eco nella sua mente.

"L-Lo sai che n-n-non puoi v-vincere, Cinque", ghignava Diego. "A-Arrenditi."

"Oh, davvero?" rispondeva. "Non essere così sicuro di te, bambinone."

Cinque chiuse gli occhi e appoggiò la testa contro il muro ricoperto di polvere.

(Fa male.)

Tirò su col naso e allontanò il dolore agonizzante che gli artigliava il cuore. Si girò e prese un profondo, tremante respiro per calmarsi.

Aprì gli occhi e scandagliò la stanza oscura e ombrosa. Il giradischi era ancora nell'angolo. Il fantasma di un sorriso gli tirò le labbra e si avvicinò per ispezionarlo.

C'era ancora un vinile all'interno. Mormorò pensieroso e aprì il coperchio per prenderlo. Soffiò via la polvere meglio che poté e un colpo di tosse lo scosse quando ne inalò una parte.

Funzionava?

C'era un solo modo per scoprirlo.

Cinque sistemò il vinile nel giradischi e posizionò attentamente l'ago sulla sua superficie.

Sentì il famigliare rumore gracchiante prima che iniziasse la musica.

Un sorriso gli montò in volto quando la sentì.

Era l'ultima canzone che aveva ascoltato prima di saltare nel futuro.

Prima che iniziasse il suo incubo.

Ironico come l'ultima canzone che avesse sentito fosse Time Waits for No One.

Cinque avrebbe riso se ne avesse avuto la forza. Invece, lasciò che la musica gli riempisse la testa e girovagò per la stanza. Gli occhi gli caddero su un pezzo di gesso abbandonato frettolosamente sul lato del tavolo.

Cinque non era del tutto sicuro del perché quella stanza fosse lì. Pensò che potesse avere a che fare con il ritorno della sua coscienza all'esistenza. Per un motivo o per un altro.

Si rigirò il gessetto polveroso in mano, pensieroso.

La sua stanza esisteva ancora?

Cinque sospirò guardando la lavagna. Si mise sulle punte e scrisse.

Non era un messaggio per qualcuno in particolare, non proprio. Era più il suo ultimo tentativo di lasciare qualche tipo di segno dietro di sé.

Anche se quel posto non era davvero lì. Anche se era tutta una creazione della sua coscienza morente, il suo ultimo meccanismo di difesa.

Forse era solo la sua sequenza temporale che si scioglieva.

Non aveva importanza. Voleva lasciare un messaggio.

Quando ebbe finito, gettò il gessetto a terra. I suoi occhi trovarono il piccolo, sporco specchio appeso alla parete.

Gli si avvicinò lentamente.

Cinque trovava ancora surreale pensare che quello fosse l'aspetto che aveva. Un fottuto ragazzino.

Forse era un altro motivo per cui la linea temporale l'aveva espulso. Lui era... impossibile, davvero.

(Cazzo.)

Un ringhio frustrato e disperato si levò dal profondo del suo petto, e colpì il riflesso che lo guardava.

Non lo fece sentire meglio. Non del tutto.

Fu in quel momento che Cinque vene sorpreso da un suono penetrante. Il sangue sembrò gelargli e lentamente si girò a guardare l'interno della camera dov'era rimasto intrappolato.

(Non può essere. Mi sto immaginando le cose.)

Non si aspettava quel suono. Non lì. Non in un milione di anni.

(Allucinazioni. Dev'essere così.)

Il telefono stava squillando.

 

_____________________

Klaus la guardò sospettosamente accigliato.

Qual era il suo problema, onestamente?

Per lui era come se il manichino fosse quasi una persona vivente. Si aspettava quasi che ammiccasse o qualcosa.

"Qual è il tuo gioco, eh?" mormorò alzando un sopracciglio in sua direzione.

Klaus aveva realizzato che era riuscito ad evocare qualcosa prima in salotto.

Chiunque fosse quella coppia, non aveva niente a che fare con quel manichino.

No, invece di risposte avevano ottenuto più domande. Klaus si strofinò gli occhi stanchi rivolgendo al manichino uno sguardo frustrato prima di accasciarsi sul suo letto.

Guardò le lucine scintillanti sopra di esso, semplicemente pensando.

Era in momenti come quelli che a Klaus mancava davvero Ben.

Sapeva sempre il pezzo mancante, aveva intuizioni utili o semplicemente offriva il suo consiglio.

Questo, oppure era una spina nel fianco il cui solo scopo nell'esistenza era infastidire Klaus.

O a volte, raramente, Ben si imbronciava in un angolo dandogli una punizione silenziosa per un giorno o due. Una volta Klaus lo fece arrabbiare così tanto che non gli parlò per quasi una settimana.

Ma Ben era sempre intorno.

Adesso? Era solo con i suoi problemi.

Beh, non solo, solo. Almeno i suoi fratelli sembravano finalmente credergli quando parlava.

Decise di alzarsi e andare a fumare. Aveva disperatamente bisogno di schiarirsi le idee.

Klaus scivolò fuori dalla sua camera e girovagò fuori verso il quarto piano. C'era una stanza dove sgattaiolava di solito da bambino per fumarsi uno spinello quando voleva evitare papà o, Dio non gilene voglia, Pogo.

Klaus si sorprese di vederla già occupata.

"Allison?" le sue sopracciglia schizzarono verso l'alto quando vide sua sorella seduta sul balcone, le gambe incrociate, a guardare la città.

Lei sembrò indietreggiare sentendo chiamare il suo nome, e per un momento Klaus ebbe paura che potesse cadere.

"Oh," espirò una nuvola di fumo, un'ombra di colpevolezza calata sul volto. "Sei solo tu."

"Paura che Pogo ti trovasse qui?" ghignò Klaus. "Tutto a posto, è già andato a letto."

"Già" mormorò Allison inspirando un'altra boccata. "Ti unisci a me?"

"Sì."

Gli occhi di Klaus atterrarono sulla pila di rapporti aperti sul pavimento.

"Stai ancora lavorando a quelli, eh?" ammiccò. "Pensavo che Herb avrebbe già chiarito alcune cose ad adesso."

"Sì, lo so" Allison scrollò le spalle. "Ma Herb è dovuto tornare al Quartier Generale della Commissione per un meeting di emergenza, ed io... Continuo a pensare che ci sia qualcosa in quei file che ci aiuterà a fermare questa cosa."

"Sì, però nessuno di noi sa davvero che cosa stiamo facendo qui" notò Klaus. "Neanche Herb."

Si accigliò vedendo un nome che Allison aveva evidenziato in rosso.

Dolores Adler, presidente esecutivo in pensione.

"Dolores" mormorò fra sé e sé, assaporando il nome sulla lingua. Suonava familiare. Più o meno. Ma perché?

Allison gli offrì l'accendino e lui inspirò il fumo a fondo.

"A cosa pensi, sorella?" chiese Klaus.

"Claire" ammise. "È solo che... Solo che mi manca tanto."

"Non è giusto" le disse Klaus prendendole la mano. "Che sei stata via per due anni e non hai anora potuto vederla."

"Già" sussurrò lei, gli occhi brillavano nel buio. Gli strinse la mano.

"Abbiamo già fermato due apocalissi" Klaus la incoraggiò con un sorriso. "La vedrai quando sarà tutto finito."

"E se fermassimo questa e ce ne fosse una quarta?" Allison sgranò gli occhi ridendo amaramente. "Dov'è che finisce, Klaus? Perché è il nostro lavoro fare gli eroi?" Trasse un timido respiro, riportando la sigaretta alle labbra tremolanti. "Come mai le nostre vite sono diventate così incasinate?"

Fantasmi del passato fulminarono nella sua mente. Tanto dolore, tanta merda.

"Le nostre vite erano destinate ad essere così dal momento in cui i nostri genitori biologici ci hanno venduti a papà" ridacchiò Klaus. "Che razza di genitore lo farebbe?"

"Non lo so" confessò Allison inclinando lentamente la testa per guardarlo. "Come mamma, non posso nemmeno immaginare di lasciare mia figlia."

Stettero in silenzio per un po', il che era insolito per Klaus. Gli piaceva parlare, ma qualcosa in quel momento richiedeva tranquillità.

Non era un silenzio disagevole, però. Allison appoggiò la testa sulla spalla di Klaus, e lui premette la guancia sui suoi capelli.

Restarono così finché le sigarette non si spensero.

 

_____________________

Stiracchiandosi vigorosamente, Klaus marciò verso il suo letto. Vi ci si buttò sopra con un tonfo sordo, l'euforia gli riempì il cervello quando la morbidezza delle lenzuola lo accolse.

Si rigirò e guardò il manichino ai piedi del letto.

"Andiamooooo" mormorò implorante. "Puoi dirmelo. Può essere il nostro piccolo segreto. Dai."

Il manichino lo fissò a sua volta, gli occhi blu immobili.

Grugnendo infastidito, Klaus si arrese e chiuse gli occhi.

Ci vollero meno di cinque secondi perché qualcosa lo costringesse ad aprirli di nuovo.

Era il suo cellulare.

Klaus si accigliò raggiungendolo. Era ancora dove lo aveva lasciato prima, a caricarsi contro il muro. Si era acceso da solo.

Beh, questo non era normale.

"Ok, se questo è un fantasma ignaro della mia situazione attuale, potresti per favore andare a fanculo?" grugnì Klaus forzando gli occhi a guardare lo schermo luminoso.

Non vi fu risposta, ma invece lo schermo si spense e si riaccese di nuovo.

Questa volta aveva aperto la cronologia delle chiamate. Klaus spalancò gli occhi.

(E questo che diavolo è?)

Era decisamente nuovo. Nessuno aveva mai posseduto il suo cellulare prima. Klaus lanciò un'occhiata al manichino, sospettoso.

"Sei tu?"

Il cellulare si spense ancora. Klaus sospirò frustrato.

 

Ma il silenzio non durò a lungo.

Cos'era quel suono?

Qualcuno stava ascoltando della musica – a quest'ora?

Klaus si accigliò e lentamente scese dal letto. Era una canzone dei Rolling Stones, una che riconobbe ma non seppe bene perché.

I suoi fratelli non erano tanto tipi da Stones, vero?

Non abbastanza da ascoltarli all'una e mezza di notte, comunque.

Klaus infilò le ciabatte e uscì. Veniva dalla fine del corridoio. Dov'era la camera di Ben.

Curioso, pensò, leggermente spaventato.

Forse Klaus lo aveva accidentalmente evocato di nuovo, involontariamente?

Si sarebbe incazzato.

Klaus camminò e girò l'angolo. Quello che trovò non fu affatto ciò che ci aspettava.

C'era una stanza dirimpetto a quella di Ben. La porta era stata forzata dai cardini e uno spesso lenzuolo di polvere fluttuava in aria.

Klaus deglutì e si avvicinò. Con sua sorpresa, trovò Luther e Vanya all'interno, nel buio.

Non dovevano trovarsi lì da molto – la polvere non si era ancora depositata del tutto.

La finestra sembrava essere inchiodata e tutta la luce di cui disponevano veniva dal telefono di Vanya.

Ma ciò che catturò maggiormente l'attenzione di Klaus fu il giradischi nell'angolo. Ingoiò un groppo e si avvicinò.

Le assi del pavimento scricchiolarono, avvertendo entrambi i suoi fratelli del suo arrivo. Si girarono e lo guardarono.

"Klaus?" domandò Luther.

"Cos'è questo posto?" rantolò, un senso soffocante di oppressione gli avvolse il petto. "Perché state ascoltando gli Stones?"

"Cosa?" Vanya aggrottò la fronte guardando il fratello confusa. "Nessuno sta ascoltando niente."

Klaus la fissò a sua volta, sbalordito. "Non lo sentite?"

Puntò il dito verso il giradischi.

Luther e Vanya si voltarono. Non vedeva i loro volti, ma il loro linguaggio del corpo cambiò.

Erano scioccati. Allarmati.

"Quello da dove è uscito?" la voce di Vanya tremò. "La stanza era vuota appena prima che entrassi."

"Era questo che volevi mostrarmi, Signora Manichino?" Klaus pensò ad alta voce. Batté le palpebre sorpreso quando sentì un debole sfrigolio sopra la testa.

Confuso, guardò in alto.

La mascella gli cadde lasciandolo a bocca aperta.

"Quello lo vedi, allora?" deglutì.

"Sì" disse Luther con voce gelida. "Lo vediamo."

Una lavagna apparì nella stanza. Era talmente grande da coprire la maggior parte dei muri, ed era polverosa come il resto del luogo, ma...

Vanya puntò la luce del cellulare sull'unico punto della lavagna che sembrava essere stato usato di recente.

Riempì il cuore di Klaus con un profondo senso di dolore e perdita, che non riusciva ad avvolgere del tutto.

Un dolore incredibilmente forte che non riusciva a collocare.

(Chi ho perso?)

C'erano tre parole scritte nell'angolo della lavagna che circondava la stanza. La calligrafia era bellissima. C'erano alcuni tremori nella mano dello scrittore, ma le lettere corsive erano altresì chiare e simmetriche.

In realtà, gli ricordavano gli appunti di suo padre. Tutto vecchio stile, eccetera.

'Io Ero Qui', diceva.

 

Io ero qui.

 

Il rumore di vetri percossi fece quasi saltare Klaus fra le braccia di Luther, e non si disturbò neanche a trattenere un grido di allarme.

C'era uno specchio rotto sul pavimento. Si era sparpagliato in dozzine di piccoli pezzi, tutti pieni di polvere e a malapena riflettenti.

Ma quando Klaus si avvicinò, Vanya e Luther si sporgevano sopra di lui, vide qualcosa.

Il riflesso del volto di qualcuno nei frammenti.

Nessuno di loro era abbastanza vicino da poter essere riflesso.

Perciò chi era quello?

Un brivido gli corse giù per la spina dorsale. Vide di sfuggita un occhio verde, dita sottili, ma poi...

Niente.

La mente isterica di Klaus pensò che fosse il momento giusto per sottolineare che quello era forse il perseguimento più strano che avesse mai visto.

 

_____________________

"Io vado a cercare Pogo" disse Luther lentamente. Klaus era sicuro che fosse profondamente disturbato da ciò a cui avevano appena assistito, e che volesse uscire da lì.

Non poteva biasimarlo, davvero.

Luther era il tipo di persona che a volte aveva bisogno di elaborare le cose da solo.

"Diego e Alison" gli ricordò Vanya tremando. "Dillo anche a loro."

L'uomo si precipitò fuori senza una parola.

Vanya si girò a guardare Klaus. I suoi occhi erano grandi e vitrei, ma non era tutto quello he vedeva. C'era un fuoco ardente dentro di essi, un furore determinato.

A Klaus ricordò di quelle volte in cui era totalmente concentrata a suonare il suo violino, le dita danzavano sulle corde con leggerezza, gli occhi scrutavano le note. Di quando sembrava e suonava così viva.

Vanya stava per dirgli qualcosa quando la sua attenzione deviò alla tasca di Klaus.

"Klaus" disse piano. "Il tuo cellulare."

Con dita veloci e tremanti, Klaus estrasse il telefono.

Stava chiamando un numero sconosciuto.

Stava per premere il tasto di rifiuto quando un rumore improvviso dal piano di sopra gli fece gelare il sangue.

Un telefono stava squillando.

Gli occhi di Klaus si incatenarono a quelli di Vanya. Non avevano bisogno di parole.

Entrambi corsero fuori dalla camera, sfrecciando su per le scale.

(Sta accadendo davvero.)

Klaus sentì il sangue scorrergli nelle orecchie.

(Vanya aveva ragione.)

Non era Ben. Non era nessun fantasma.

Klaus ansimava, annaspando alla ricerca di aria, nel momento in cui raggiunsero la porta nel retro della casa.

In verità loro non andavano lì molto spesso. O, beh... mai.

(Questo è... Questo è lui.)

Vanya afferrò la cornetta, ma in quell'istante il telefono di Klaus si spense.

"Non sta più chiamando" sussurrò lui, un'improvvisa consapevolezza lo colpì. "Si è interrotto."

La sorella lo guardò.

"Allora... perché il telefono sta ancora squillando?"

A Klaus girava la testa.

Vanya aprì la porta.

Era una normalissima rete fissa, fatta di plastica nera.

"Qui è dove continuo a svegliarmi" Vanya deglutì, un tono leggermente maniacale nella voce. "Quando cammino nel sonno."

Klaus prese il telefono e se lo portò all'orecchio. Vanya gli si incollò, e lui si abbassò abbastanza da permetterle di sentire.

Klaus si schiarì la gola, pregando che la voce non lo tradisse.

"Pronto?"

Per un momento, non ci fu altro che silenzio. La connessione sembrava terribile, ma Klaus poté giurare di aver sentito qualcuno tirare un sospiro tremante dall'altra parte.

"Pronto? C'è nessuno...?"

Il cuore di Klaus sembrò cadergli fra i piedi. Cercò di prendere un respiro, ma i polmoni si rifiutarono di obbedire.

Gli occhi di Vanya si velarono, la mascella spalancata in un'espressione contratta di shock.

"Qualcuno mi sente?"

La sua voce era così piccola, così vulnerabile.

Così distrutta.

"Sì, , oh mio Dio" scoppiò infine Klaus, una risata isterica e senza fiato gli sfuggì dalle labbra. "Ti sentiamo, Cinque."

Ci fu un attonito silenzio dall'altra parte.

Klaus e Vanya trattenevano entrambi i respiri.

Sentiva il suo cuore battere nell'oscurità, irregolare e frenetico come il suo.

"V-vi ricordate di me?"

Klaus cadde a terra. Non l'aveva quasi notato. Vanya gli prese la cornetta dalle mani e si sedette velocemente accanto a lui.

(È reale.)

Klaus si sentì la gola secca.

(Lui era qui.)

"Sì, Cinque" la voce di Vanya era lacerata. "Ci ricordiamo."

"Dove sei?" Klaus trovò nuovamente la voce, anche se tremante. "D-dove sei, veniamo a prenderti!"

(Per favore.)

Klaus non l'aveva nemmeno realizzato. Come aveva fatto a non rendersene conto?

Gli era mancata una persona così tanto, ma lo aveva semplicemente liquidato come se fosse ancora triste per Dave o Ben.

E per tutto il tempo gli era mancata una persona che doveva essere viva.

"Non potete."

A Klaus si gelò il sangue.

"Che vuol dire, non possiamo?" balbettò Vanya, i suoi respiri in preda al panico si trasformavano in rantoli.

"Perché non so dove sono."

Qualcosa nel modo in cui lo disse fece scivolare Klaus oltre il limite. Le lacrime che si erano accumulate negli occhi finalmente si spinsero fuori, e lui strinse gli occhi chiusi.

(Per favore, no.)

"Cosa possiamo fare, Cinque?"

Vanya stava stringendo la mano di Klaus talmente forte che le sue nocche sbiancarono.

O forse stava usando il suo potere? Si preparava a far esplodere il mondo un'altra volta?

Per qualche motivo, il pensiero sembrò esilerante nella mente di Klaus.

"La linea temporale sta collassando" riuscì a dire. "Hai sentito, Cinque? Il mondo finisce di nuovo."

Un balbettio statico dall'altra parte gli colpì l'orecchio e per un singolo, orribilmente lungo secondo, pensò che lo avessero perso.

"Ma certo..."

(Grazie, piccola bambina in Paradiso. Grazie.)

La chiamata era ancora in atto.

"Ok, ascoltate" la voce sottile di Cinque vacillò. "Dovete trovare Handler. Lei saprà cosa fare."

"Okay, okay-"

"Mi avete sentito? Trovate Handler."

Vanya lanciò un urlo quando il telefono che teneva in mano sputò all'improvviso un fiume di scintille bianche. Klaus glielo scacciò via dalle mani e lei si guardò la pelle bruciata con occhi sgranati.

Con impanicato stupore, Klaus realizzò che la rete fissa aveva preso fuoco. Vanya si tolse il cardigan che indossava e lanciò la stoffa sulle piccole fiamme.

L'odore di plastica bruciata fece quasi schizzare Klaus proprio in quel momento.

Il fuoco era spento e le ginocchia di Vanya cedettero.

Pianse silenziosamente accanto a lui.

Il telefono era morto, e loro restavano seduti in quella stanza angusta, fissando il vuoto. Vanya cercò di regolare il respiro e Klaus la strinse a sé mentre il suo corpo iniziava a tremare, scosso dalla forza dei suoi singhiozzi.

(È vivo. È reale. Esiste.)

Klaus disperse le lacrime sbattendo gli occhi.

Avevano parlato con lui. Non poteva crederci, avevano davvero sentito la sua voce.

E ora rimanevano con una cocente domanda.

L'unica domanda che importava davvero.

"Chi cavolo" Klaus sussurrò, appena udibile, "è Handler?"

 

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Capitolo 7
*** Il cuore ricorda ***


Sei mio fratello,

e ti voglio bene.

 

 

"Handler?" ripeté Diego, la fronte aggrottata. "È tutto quello che ha detto? Solo 'trovate Handler'?"

"Sì!" esclamarono Vanya e Klaus in perfetta sincronia.

Lo fece accigliare. "Okay. Quindi come dovremmo scoprire di chi si tratta?"

"Quindi aspetta, gli avete davvero parlato?" Allison non aveva ancora detto niente, ma c'era ancora un certo scetticismo nella sua voce. "Come può essere possibile?"

"Com'è possibile che io evochi i morti, Allison?" brontolò Klaus, sorprendentemente irritato dalla sua domanda.

"Com'è possibile che Diego possa trattenere il respiro all'infinito? Come può ognuno di noi fare quello che fa?"

Allison chiuse la bocca in uno schiocco.

"Ha ragione" disse Diego scuotendo le spalle.

"Allison" Luther, che era stato in silenzio fino a quel momento, fece un passo verso di lei. "Ho visto la stanza. Ho visto il giradischi, la scritta sul muro.

Diego avvertì il conflitto nella sorella. Lei non voleva credere che avessero davvero dimenticato il loro stesso fratello. Un qualunque agente della Commissione a caso di dubbia importanza, certo – ma un fratello? Non voleva credere che fosse possibile. Ma quando Luther la guardò in quel modo, non ebbe scelta.

"Cinque è stato cancellato" disse Diego con tono soffice, rompendo il loro momento. "E noi dobbiamo scoprire perché."

"Esattamente" annuì Luther. "Perché lui è stato cancellato, ma noi no?"

"Abbiamo considerato il fatto che Cinque potesse in effetti essere l'agente del doppiogioco?" suggerì Vanya, facendo effettivamente dubitare Diego della sua stessa sanità mentale per la ventitreesima volta quel giorno.

"Dobbiamo parlare con Herb" scosse lentamente la testa. "Potrebbe sapere chi è Handler."

"È possibile che nostro fratello abbia davvero lavorato per quei lunatici?" soppesò Klaus rigirandosi una ciocca di capelli intorno a un dito.

"Sì, cioè, ha senso, giusto?" Vanya si strinse nelle spalle. "Sappiamo che il doppiogiochista ha viaggiato nel tempo fino al 2019 per avvisarci dell'apocalisse. Se fosse Cinque, e lo avesse fatto per salvarci?"

Diego dovette ammettere che la sua teoria era solida.

Sapeva anche che non erano molto ben equipaggiati con le conoscenze sui meccanismi interni del tempo.

"Visiterò il Quartier Generale della Commissione" decise alzando la testa. "Abbiamo bisogno di parlare con Herb, lui è l'unico che potrebbe essere in grado di portare un po' di chiarezza alla situazione."

"Sai almeno dov'è?" Allison sgranò gli occhi incredula.

"La valigetta ha un'impostazione di ritorno" Diego annuì in direzione della valigetta nera nell'angolo.

"Okay, ma vengo anch'io" Luther incrociò le braccia. "Non esiste che ti lascio andare da solo."

Diego strinse gli occhi – il ragazzo era serio?

Non che la Commissione fosse ancora il loro nemico. Tutto ciò che avrebbe dovuto fare sarebbe stato parlare con qualche copista stupidamente educato e socialmente imbarazzante.

Ma altrettanto, nemmeno Luther era un loro nemico.

"D'accordo" schioccò Diego alla fine.

____________________

La testa di Vanya pulsava dal lungo pianto, ma c'era anche un terrificante e familiare torpore che cresceva nel suo petto.

Odiava quella sensazione.

Odiava essere intontita.

Vanya sapeva che era dovuto solamente dall'eccesso di emozioni che aveva provato quella notte, ma questo non lo rendeva più facile.

Aveva passato la maggior parte della sua vita intorpidita.

Finalmente aveva iniziato a sentire le cose.

Non importava quanto male facessero, non importava quanto sembrasse che qualcuno le stesse squarciando il petto e stesse calpestando il suo cuore sotto i tacchi, non lo avrebbe mai scambiato per il torpore.

Nemmeno in un milione di anni.

Quindi ciò di cui aveva bisogno Vanya in quel momento era dormire e rimettersi in piedi il mattino seguente a risolvere quel casino.

A salvare Cinque.

Vanya pensò che forse avrebbe potuto avere finalmente una notte calma e senza sogni.

Non si preoccupò neanche di mettersi il pigiama.

Era esausta e si addormentò ancora prima che la sua testa toccasse il cuscino.

Ma sognò.

Vanya sognò un cane, fra tutte le cose. Era brillante, bianco, e il suo lungo pelo sembrava fatto di pura energia. Non aveva gli occhi, ma lei poté sentire che la stava comunque guardando.

Si trovava in piedi fuori, sugli scalini dell'Accademia.

Il mondo intorno a lei non sembrava giusto.

Quando Vanya alzò lo sguardo vide che il cielo era fatto di luce pura.

Era di una tonalità di blu, elettrico, simile al vortice che li aveva ingoiati nel viaggio del tempo.

Beh, non simile.

(Esattamente lo stesso.)

Vanya osservò le estensioni di energia scivolare nelle profondità del cielo del suo sogno, ma si dovette voltare a causa della luminosità.

Il cane era più lontano adesso.

Con la paura di poterlo perdere di vista, Vanya iniziò a correre.

Il cane rimase sempre a distanza, ma sembrava fermarsi e aspettare qualora lei cadesse dietro di lui.

Eppure, sempre fuori dalla sua portata.

Lo scenario cambiò. Gli occhi di Vanya erano talmente fissi sul cane che inizialmente non lo realizzò.

Il ruggito della città scomparve. Ciò che vide, invece, fu il mare.

L'odore del sale marino le riempì i polmoni e Vanya inspirò a fondo. Doveva essere l'aria più fresca che avesse mai respirato.

Un gabbiano strillò da qualche parte in lontananza.

Il suo corpo si rilassò e chiuse gli occhi. Il vendo giocava con i suoi capelli e sentì lo scricchiolio dei ciottoli sotto i suoi piedi.

Vanya aprì gli occhi e vide di nuovo il cane. Sparì dentro un faro, scondinzolando mentre entrava. Alzando lo sguardo, vide una silhouette dietro la finestra.

C'era qualcuno là che la guardava.

____________________

Klaus si guardò intorno nella stanza di Cinque con occhio critico. Il suo sguardo si aggirava sullo specchio rotto, le lettere corsive sulla lavagna, il giradischi polveroso.

Con movimenti lenti e attenti, posizionò l'ago verso il centro.

I Rolling Stones. Erano la band preferita di Cinque da bambino, ricordò Klaus.

Come? Non ne era sicuro, ma lo sapeva.

(La sua preferita.)

Chiuse gli occhi e ingoiò nodo, rallentando il respiro al meglio che poté. Rilassamento totale, di questo aveva bisogno.

Le droghe avrebbero aiutato, probabilmente, ma Klaus non le usava più.

Klaus ce l'avrebbe fatta senza di loro. Stava meglio senza, probabilmente.

Ripensò all'estate in cui avevano dodici anni. C'era stata una volta nella vita, in cui loro padre aveva lasciato che Grace li portasse in gita per un finesettimana. Klaus era sicuro che gli servisse solamente la casa per sé per incontrare persone riguardanti il suo lavoro, ma non gli interessava davvero della ragione.

Ciò che importava era che lui e i suoi fratelli erano liberi e solo bambini per un intero finesettimana.

Grace aveva noleggiato una stanza al mare. L'aria sapeva di sale e alghe, e loro collezionavano conchiglie e piccoli sassolini che tenevano in tasca. Arrivarono al punto che i pantaloni di Klaus cadevano per il peso.

La sera avevano cucinato i biscotti al cioccolato e lui si era bruciato il dito. Grace gli aveva dato un cerotto con i disegni dei cartoni.

Poteva ancora sentire l'odore dei biscotti.

Nuotavano nel mare freddo, giocavano nell'acqua e si lasciavano asciugare al sole. Klaus ricordò che praticamente vivevano nei loro costumi.

Quando si fece buio, Grace fece un falò sulla spiaggia. Era la prima volta che Klaus assaggiava un s'more. C'era il giradischi e ricordò di aver ballato sui Backstreet Boys con Grace, i piedi scivolavano sulla sabbia. Ben urlava ad ogni canzone – conosceva tutti i testi. Quando giunse l'ora di andare a letto, la sua voce era roca dal canto, ma i suoi occhi erano luminosi.

(Il giradischi di Cinque.)

Nessuno di loro indossava mai le scarpe. Grace si lamentava dei loro piedi sporchi e diceva loro di lavarli prima di entrare. Allison e Vanya l'ascoltavano, ma il resto di loro no.

Klaus ricordò che Diego cercò di insegnargli come far rimbalzare i sassi, ma non imparò mai. Finì in una competizione fra Luther e Diego, e lui che guardava da un lato.

Andò così, finché Ben venne da lui e gli chiese di giocare a Uno con lui e Cinque.

Klaus spalancò la bocca.

(Mi ricordo di lui.)

Sedevano fuori sull'erba e tenevano strette le carte mentre il vento dal mare cercava di rubarle, e Grace aveva portato i ghiaccioli.

A Klaus piacevano quelli alla fragola, i preferiti di Ben erano quelli al gusto cola e Cinque...

Strinse gli occhi.

A Cinque erano sempre piaciuti quelli verdi. Mela o pera, non se lo ricordava.

(Mi ricordo di te, Cinque.)

Beh, non del tutto, ma ricordava qualcosa.

Non riusciva a ricordare come fosse la faccia di Cinque. Il pensiero gli strinse il cuore di dolore.

Aprì gli occhi. Li spalancò.

Klaus si inciampò alzandosi in piedi, sbattendo ripetutamente le palpebre davanti alla scena.

La stanza di Cinque non era più vuota.

Il suo letto era proprio lì, come il guardaroba. La finestra non era più chiusa con i chiodi, e le tende erano tornate al loro posto. Quando guardò in alto vide che sulla lavagna c'erano ben più di tre parole in corsivo.

Era disseminata di equazioni matematiche, scritte con tratti piccoli e decisi che usavano tutto lo spazio disponibile.

"Porca troia" esalò.

____________________

A Vanya servì un'intera ora di ricerca per trovare il faro che stava cercando. Era molto lontano e aveva poco o niente di pubblicità. La sola foto che riuscì a trovare era vecchia e sgranata, e non v'era menzionato alcun custode.

Prese la macchina senza dire una parola.

Probabilmente Allison l'avrebbe chiamata prima o poi, ma Vanya non era in vena di spiegare i suoi sogni a nessuno.

Non in quel momento.

Ma quando vide la torre triste, battuta dalle intemperie, intonacata di bianco, sentì una sensazione di risoluzione.

Vanya si chiese perché.

Fu riportata alla realtà da un forte latrato. Allarmata, la donna voltò la testa e vide un collie proprio acanto alla sua macchina, scuoteva la coda entusiasta.

Sembrava amichevole. Vanya deglutì e scese dalla macchina.

Il collie prese ad annusarla e le diede alcuni baci sul dorso della mano.

La fece sorridere.

("Sei venuta.")

Vanya alzò lo sguardo, il cuore batteva sempre più veloce.

Perché quella voce era nella sua testa?

Un uomo era apparso dall'interno del faro. Se ne stava in piedi sul bordo della scogliera, guardando il mare.

Deglutendo, Vanya usò le dita per sistemarsi indietro i capelli che il vento le butava in faccia.

L'uomo era vecchio. Sui sessanta o settanta, fu la migliore ipotesi di Vanya. Era magro e aveva una barba grigia.

Era Handler?

Vanya si avvicinò studiandogli il volto. I suoi occhi erano di un azzurro pallido, circondati da rughe. Le sorrise.

("Ciao Vanya.")

Non capiva. Come faceva?

Lui le prese la mano e la sua mascella piombò in basso.

(Oddio.)

Non era più sulla scogliera rocciosa di Long Island.

Vide qualcos'altro.

Lampi di giorni caldi e assolati alla fattoria di Sissy, bicchieri freddi di limonata in un pomeriggio afoso, l'odore di rafano e salvia, la melodia cupa e morbida di un violoncello infondo alla testa.

Avrebbe riconosciuto quella melodia ovunque.

Vanya lo guardò, i polmoni si dimenticarono come respirare.

Non può essere.

La sua voce tremò.

"Harlan?"

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"Eccoci qu" ansimò Diego appoggiandosi alle ginocchia. Erano appena usciti dal bunker affollato, pieno di agenti con valigette che andavano di fretta.

Nessuno sembrava prestare attenzione a loro. Erano tutto troppo stressati, troppo impegnati.

Il viaggio nel tempo non smetteva mai di rivoltargli lo stomaco. Non avrebbe mai capito come facessero gli agenti della Commissione a fare quel lavoro.

Diego si stirò la schiena, e Luther fece lo stesso.

Piegò la testa – non aveva mai visto il Quartier Generale da fuori. Campi di erba verde circondavano il posto. Da fuori sembrava un'università. Tutta eleganza e il resto.

Lui e Luther si scambiarono degli sguardi.

"Entriamo dalla porta principale o..?"

"Sì" Diego si strinse nelle spalle. "Non è che andiamo a curiosare in giro."

C'era una guardia di sicurezza dalle spalle strette all'entrata dell'edificio, gli occhi fissi sulla porta mentre entravano.

Li guardò accigliato.

"Fermo" disse il tipo. "Carta di identità? Non l'ho mai vista in giro prima."

"Diego Hargreeves" si presentò con un gradevole sorriso. "Questo è mio fratello, Luther."

La guardia adocchiò l'uomo più grosso con preoccupazione e sembrò misurarlo con gli occhi.

Diego lo trovò abbastanza divertente.

"Senti, siamo qui per vedere Herb" si avvicinò. "È qui?"

"Il facente funzione di presidente è in riunione" la guardia rispose rigidamente. "È un uomo impegnato."

"Oh, lo sappiamo" fece Luther con una smorfia. "Ma è importante. Si tratta della fine del tempo."

"Va bene" grugnì l'uomo. "Vi mostro il suo ufficio. Seguitemi."

Luther guardò suo fratello con scetticismo. "Beh, è stato facile."

"Shh" lo zittì Diego. I due seguirono l'uomo attraverso un infinito corridoio in marmo.

Notò che il Quartier Generale della Commissione era molto meno frizzante e soffocantemente gioioso dall'ultima volta che ci era stato. Invece di chiacchiere allegre sentì sussurri preoccupati e non vide altro che facce stanche e pallide.

Diego si era reso conto da tempo che non ricordava chi lo avesse portato lì, ma era sfacciatamente ovvio che chiunque fosse, era stato cancellato allo stesso modo di Cinque.

Forse era stato lui a portarlo lì. Chi lo sapeva.

Ma allora, chi gli aveva dato il braccialetto?

Diego giocherellò con le perline di legno, pensieroso.

Chiunque fossero, provava sentimenti profondi per loro. Forse li amava anche.

Il pensiero lo turbò.

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Le dita di Vanya sprofondarono nel vecchio cardigan di lana. Le lacrime pungevano negli occhi e le sue risate silenziose soffocavano nella spalla di Harlan.

Si allontanò, premendo il palmo sulla guancia dell'uomo segnata dal tempo.

"Guardati" mormorò. "Guardati."

Harlan aveva un'espressione dolce, ma i suoi occhi erano pieni di domande. ("Non sei invecchiata di un giorno.")

(Non è passata una settimana da quando gli ho detto addio.)

La mano di Vanya cadde.

(Per lui è stata una vita.)

("Qualcosa non va, non è vero?") I suoi occhi vecchi e profondi studiarono il suo volto rigato dalle lacrime. ("Con il tempo.")

Lei si morse il labbro inferiore e annuì.

"Mio fratello" singhiozzò. "È scomparso. È stato cancellato dalla linea temporale."

Harlan annuì pensieroso, rivolgendo lo sguardo al mare.

("Handler.") la sua voce riecheggiò di nuovo nel cranio. ("Desideri trovarla.")

"Sì!" scattò Vanya.

Come fa a farlo?

Ricacciò indietro i come e i perché. Non erano importanti, non ora.

Harlan coccolò il suo collie sovrappensiero grattandogli la gola esposta. Il cane sembrava bearsi.

("Anche lei è persa nel tempo") disse poi guardandola. ("Tuo fratello non lo sapeva. Ma nulla è mai perso per sempre.")

Le prese la mano di nuovo e lei sentì un'ondata di energia aumentare in lei. La fece rabbrividire. Era l'energia di Harlan, ed era intensa e brillante e così lui che la fece quasi scoppiare a piangere.

Quasi.

("I ricordi sono importanti, Vanya. Sono molto importanti. Hanno potere.")

"Ma come faccio a ricordare?" cercò di tenere la disperazione fuori dal suo tono di voce.

Harlan strofinò il pollice sul suo palmo, sorridendo sbieco. ("Handler non è la risposta.")

Le spalle di Vanya crollarono. "Allora cos'è?"

Il suo sguardo vagò per un momento. ("Tuo fratello potrà essere scomparso la qui.") L'uomo accarezzò gentilmente la sua tempia con le nocche.

Poi indicò il petto di Vanya.

("Ma non se ne è mai andato da qui. Il cuore ricorda sempre.")

____________________

"Abbiamo bisogno che torni all'Accademia" annunciò Luther appena l'uomo basso entrò nel suo ufficio.

Herb lo guardò con una smorfia addolorata.

"Scusate, sarei dovuto venire prima, ma è un inferno qui" sbuffò. "Cos'è successo?"

"Molte cose" Diego incrociò le braccia. "Per esempio – abbiamo scoperto che nostro fratello, Numero Cinque, è una delle persone che sono state cancellate."

Herb alzò improvvisamente la testa a quel nome.

"Cinque" sussurrò fra sé e sé. "Interessante."

"Vanya e Klaus sono riusciti a stabilire un contatto diretto con lui" gli disse Luther osservando la sua reazione con interesse.

Herb lo fissò, gli occhi spalancati. "Pardon?"

"Hanno avuto una breve conversazione al telefono prima che la linea fissa si sciogliesse" chiarì Diego.

"Notevole" espirò l'uomo. "Questo... questo potrebbe essere lo slancio che cercavamo."

I suoi occhi spenti sembrarono illuminarsi di una rinnovata speranza.

"Ditemi tutto" disse. "Devo sapere gli eventi che hanno condotto a questo."

"Vanya e Klaus potranno parlartene in dettaglio" rispose Luther. "Per questo abbiamo bisogno che torni all'Accademia con noi."

Herb deglutì annuendo comprensivo. "Okay. È solo..." sembrò a disagio. "Il flusso temporale sembra degradarsi a velocità esponenziale le cose sono più frenetiche che mai."

"Cosa vuoi dire, si degrada più veloce?" Luther si sentì la gola chiusa.

"Voglio dire che potremmo non avere il tempo che credevo all'inizio."

____________________

"Oh, mio Dio" mormorò Diego, gli occhi rastrellavano la stanza precedentemente ricoperta di polvere. "Come avete fatto a farlo?"

"Ho iniziato a ricordare spizzichi e bocconi" Klaus alzò le spalle. "È iniziato con il giradischi. Mi sono ricordato che gli Stones erano la sua band preferita. Poi mi sono ricordato alcune cose dell'infanzia."

Herb scriveva sul suo blocchetto come un maniaco. "È promettente. Molto promettente, davvero."

"Che cosa te lo fa dire?" Diego alzò le sopracciglia lanciando sguardi sopra la sua spalla.

Lui lo guardò, confuso. "Beh, guardati intorno, Diego." Lanciò le mani per aria. "Tuo fratello è stato capace di richiamare ricordi intatti riguardanti Numero Cinque. E questo è quello che è successo."

Diego si guardò intorno, senza seguirlo bene. "Okay, la sua stanza è qui."

"Esattamente!" esclamò Herb con entusiasmo. "Klaus è stato capace di riportare una parte di vostro fratello da un semplice ricordo ritrovato."

"Pensi che se ricordiamo abbastanza, potremo riportare lui indietro" esalò improvvisamente Vanya. "È la seconda volta che lo sento oggi."

Diego si voltò a guardarla, confuso. "Che vuoi dire?"

Lei lo guardò di sfuggita. "Ho trovato Harlan. O lui ha trovato me, per essere precisi."

"Oh, cazzo" sussurrò. "Sta bene?"

Quel ragazzino significava tanto per lei. Avevano condiviso una connessione che nessuno di loro riusciva davvero a comprendere, ma era profonda.

"Più che bene, da quanto mi è sembrato" Vanya sorrise tiepidamente. "Vive al mare con il suo cane. È un telepate adesso."

"Scusami?" Diego pensò di aver sentito male.

Lei lo ignorò. "Comunque, non è questo il punto. Il punto è che lui sapeva chi era Handler."

"Cosa?" scattò Luther, e Diego si sporse in avanti con entusiasmo.

Vanya scosse la testa. "Mi ha detto che non è di lei che abbiamo bisogno. Che anche lei è stata cancellata, e Cinque non lo sapeva."

"Huh" Diego si sentì sgonfiare. Non erano le notizie in cui sperava.

"Harlan ha anche detto che i ricordi non sono persi per sempre" Vanya continuò, suonando più determinata. "E noi non dovremmo sottovalutare il loro potere."

Le dita di Diego corsero di nuovo al braccialetto.

I suoi pensieri vagarono.

Cos'altro aveva dimenticato?

"Uomo intelligente" mormorò Herb con un sorriso. "E sono d'accordo con lui. Questa stanza da sola lo prova."

"Conosco una persona" disse improvvisamente Allison. Era rimasta in silenzio fino a quel momento, pensierosa. "Una donna. Si chiama Melissa Camero. È una psicoterapista specializzata in ricordi repressi."

"Potrebbe funzionare" annuì brevemente Herb. "La contatterai?"

"Certamente."

D'un tratto un'ombra oltre la finestra catturò l'attenzione di Diego.

C'era qualcosa nel cielo. Volava.

Assottigliando lo sguardo, l'uomo fece alcuni passi in avanti. "Cos'è quello?"

I suoi fratelli si voltarono andando verso la finestra con aria interrogativa.

"Oh" sospirò Klaus. "Oh, wow."

"Questo non è buono" gemette Herb con voce sottile e ansiosa. "Questo non è affatto buono."

"È quello che penso che sia?" Allison deglutì.

(Non è fottutamente vero.)

Diego sentì un forte trambusto dalle strade, deviando la sua attenzione. I suoi occhi si sgranarono alla vista.

Il rumore degli zoccoli di centinaia di cavalli sul cemento riempivano le loro orecchie. Vanya aprì la finestra e sporse la testa al di fuori.

Herb sbirciò a denti stretti. Sudava.

"Che cazzo" bisbigliò Diego, appena udibile, ma Allison lo sentì.

(Che cazzo.)

"Sono piuttosto sicura che quello sia George Washington" informò lei con voce tesa, indicando l'uomo a cavallo di uno stallone bianco.

L'uomo voltava la testa da una parta all'altra in confusione, e sembrava aver perso il controllo del cavallo.

Urlò qualcosa.

"Perché George Washington e la sua cavalleria sono per strada?" chiese Klaus. "E, uh, io conto almeno tre pterodattili in cielo."

(Ma che cazzo.)

"Ricordate le chiuse?" il tono di Herb era greve. "Stanno iniziando a cedere."

(Cazzo.)

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Capitolo 8
*** Occhio del ciclone ***


Into this house we’re born

Into this house we’re born

Into this world we’re thrown

Like a dog without a bone

An actor out on loan;

Riders on a storm.

 

 

“Vado là fuori” dichiarò Diego, già dirigendosi verso le scale.

“A fare cosa?” Allison lanciò le mani frustrata.

Era seria? L’uomo si fermò per guardarla incredulo.

“Stai dicendo sul serio, proprio ora, sorella?” fece Diego. “Se pensi che mi perderò l’opportunità di stringere la mano a George Washington, davvero non mi conosci.”

“Per l’amor di Dio, Diego” si lamentò lei stringendo i pugni.

“Vado anch’io” disse Klaus sorprendendo non solo Diego, ma anche tuti gli altri nella stanza.

“Non per sua Eccellenza. Voglio vedere i dinosauri.”

Allison si passò una mano sul volto. “Ovviamente vuole vedere i dinosauri” mormorò scuotendo debolmente la testa.

Diego non attese oltre. Sentì il rumore dei passi dei suoi fratelli che lo seguivano, accompagnati dagli urli di Allison:

Bambini! Ho a che fare con dei bambini!”

Fosse dannato se non avesse salutato il primo presidente americano, un padre fondatore della loro orgogliosa nazione.

Fuori era il caos totale.

Diego vene immediatamente travolto dagli urli e dagli schianti e dai cavalli in preda al panico.

C’erano così tante persone.

E dovette ammettere, puzzavano di merda. Merda e sudore, per l’esattezza.

Le macchine si impilavano l’una sull’altra alla fine della strada, la metà era stata conquistata da almeno un centinaio di uomini a cavallo.

“Fuori dai piedi” ringhiò, spingendosi fra i soldati che tentavano disperatamente di non rompere le linee.

Nessuno sembrava prestargli alcuna attenzione. Erano tutti troppo occupati a guardarsi intorno con espressioni stupide e intontite.

(Sto arrivando, signor Presidente.)

 

----------------------------------

“Allora, cos’è questo Herb?” Vanya si girò a guardare l’uomo. Non poté trattenere l’esaurimento nel suo tono.

“Uhm” Herb sembrò risvegliarsi dalla sua trance. Era rimasto a guardare fuori, sempre più pallido ad ogni minuto. “Sì. Questo sarebbe il risultato del collasso della linea temporale. Brandelli di storia che si sgretola vengono risucchiati nel vortice e sparpagliati in diversi punti del tempo. Quella che vediamo è sempre New York, solo con piccole frazioni di storia che vi trapelano.”

“Piccoli?” chiese Luther. “Quelli sono dinosauri. Quello è Geroge cazzo Washington. Non so quale sia più impressionante.”

“È solo il primo stadio” Herb sembrò che stesse per svenire. O vomitare. “Diverse linee temporali inizieranno a sovrapporsi a un certo punto. Questo è accaduto in centinaia di punti diversi nel tempo. Le valigette erano l’unico modo che avevamo per fermare il degrado, ma sembra che stiamo finendo il tempo.”

“Cosa facciamo adesso?” chiese Luther.

Vanya strinse gli occhi.

(Ecco quanto era importante Cinque.)

Era così importante che il tempo si stava letteralmente sbriciolando in sua assenza.

(Troppo importante.)

Vanya lanciò un’occhiata a Herb che sembrava avere difficoltà a rimettersi in sesto. Tremava, sudava e i suoi occhi schizzavano da una parte all’altra osservando la scena al di fuori.

“Da me, compagni!” gridò qualcuno.

“Sissignore!”

Herb sospirò tremante. “Incontreremo la dottoressa Cameron. Forse recuperare i ricordi sistemerà questo casino.”

“E se non lo fa?” Vanya alzò le sopracciglia, il peso nel suo petto cresceva sempre di più.

L’uomo la guardò con i suoi occhi piccoli e stanchi. “Allora Dio ci aiuti tutti.”

 

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Il signor Geroge Washington, il Generale dell’Armata Continentale, aveva avuto una giornata eccellente. Aveva guidato il suo esercito vittorioso attraverso le strade di Manhattan, celebrando il fatto che gli Inglesi se ne fossero finalmente andati da quella bellissima città, ed erano stati accolti come eroi.

Una giornata eccellente davvero. Così, finché una strana spaccatura che sembrava costituita di una stramba elettricità bluastra non aveva inghiottito lui e metà dei rimanenti soldati, scaraventandoli in questo strano scenario.

Strane macchine e schermi e luci tutt’intorno lo avevano fatto dubitare della sua sanità mentale.

Perché sicuramente non era possibile. Sicuramente stava solo sognando.

Forse era stato mortalmente ferito senza che lo sapesse e questo era solo uno scherzo della sua mente, il suo cervello che si spegneva.

Sì, forse era stato colpito e semplicemente non lo aveva notato.

Ma quelle persone.

Ce ne erano così tante, e tutti i loro occhi erano su di lui. Così tanti suoni forti, che minacciavano lui e i suoi compagni, non poteva sopportarlo.

Stava davvero accadendo, fino a prova contraria, decise il Generale. Dubitava seriamente che la sua immaginazione fosse capace di creare un mondo come quello.

Ma proprio in quel momento, i suoi soldati dipendevano dal suo esempio. La sua guida.

E così, il Generale levò la sua spada e cercò di alzare la sua voce al di sopra del rumore assordante.

“Seguite il vostro Generale, eroi della rivoluzione!”

Il suo cavallo era un destriero con molta esperienza, ma i suoi zoccoli cozzavano sul duro terreno con ritmo crescente e in preda al panico, e poteva vedere le sue sclere bianche mentre si guardava intorno spaventato.

Era sbagliato. Pericoloso.

Quale che fosse quel luogo, non era posto per lui e i suoi soldati.

Il Generale guidò l’esercito attraverso le strade affollate. Lo stridore delle gomme e gli assordanti segnali acustici riempivano l’aria intorno a loro.

E gli sguardi. Gli infiniti sguardi. Quelle persone, sembravano a dir poco… strane.

Il Generale era sicuro di aver visto una signorina con i capelli completamente rosa.

(Che diamine?)

Era sua responsabilità condurre il suo esercito fuori da quel posto, qualunque esso fosse. Innaturale, quantomeno.

(È l’Inferno?)

Il Generale Washington alzò lo sguardo quando un forte ronzio apparì sopra le loro teste.

“Cos’è adesso?” ringhiò mentre un contenitore metallico galleggiava per aria, abbassandosi costantemente.

Qualcuno parlò in un altoparlante e gli fu puntata addosso una luce brillante. Il Generale si coprì il volto e poté sentire i suoi soldati caricare le loro armi, mirando alla minaccia sconosciuta.

“Gettate le armi!” comandò la voce. “Non resistete all’arresto!”

Così in profondità nel territorio nemico, il Generale considerò le sue opzioni. Forse sarebbe stato più semplice arrendersi e basta.

Stava per ordinare all’esercito di obbedire, quando qualcuno cavalcò avanti a lui e rispose al posto suo.

(Per la miseria, Hamilton.)

“Perché non vieni a prenderli?” gridò il suo braccio destro, come un bambino ribelle.

Maledicendo Dio fra sé e sé, il Generale diresse il suo cavallo in avanti.

“Resistete!” urlò Hamilton seguito dal forte rumore di uno sparo quando fece fuoco con la sua pistola. Il resto delle truppe seguì il suo esempio, e il suono di centinaia di pistole che sparavano inondò le orecchie del Generale.

Avrebbe dato una lezione a Hamilton più tardi. In quel momento dovevano fuggire. La resa pacifica non era più un’opzione, grazie a lui.

Per un lungo tempo, il Generale e la sua armata avanzarono attraverso la città, evitando macchine e persone urlanti che cercavano di avvicinarli. D’un tratto un battaglione di uomini mascherati con armature a coprire tutto il corpo apparì sulla loro strada.

Il Generale fu velocemente circondato dai suoi uomini che gli fecero scudo mentre prendevano i proiettili.

La maggior parte di loro era stata vendicata.

E ora? Si era fermato. Avrebbero dovuto sapere dove stavano andando. I cavalli erano stanchi. Non avevano idea di dove fossero.

“Hamilton” latrò all’uomo a cavallo dietro di lui. “Hai un’idea di cosa stia succedendo?”

“Per niente, signore” rispose velocemente, gocce di sudore gli rotolavano sulla fronte. “Non capisco come siamo arrivati qui. Va oltre ogni mia comprensione.”

“Dannazione” sbuffò il Generale.

“Mi scusi, Signor Comandante, signore!”

La sua testa scattò in direzione della voce. Un uomo si faceva strada attraverso i soldati attorno a lui, le mani alzate verso il cielo in segno di pace.

L’uomo vestiva tutto di nero, fatto che trovò del tutto privo di gusto. Portava anche una coraggiosa quantità di coltelli, rendendo il Generale un poco preoccupato.

La preoccupazione svanì, tuttavia, quando lo straniero lo salutò con ammirevole postura e occhi scintillanti.

“Sono un po’ occupato al momento” disse all’uomo.

“Oh, ci scommetto, signore” replicò lui, la voce spezzata. “Scommetto anche che è un po’ confuso adesso.”

Il Generale strinse gli occhi. Scambiò qualche sguardo con Hamilton, il cui interesse sembrava essere altrettanto aumentato.

“Puoi spiegarci dove siamo?” il Generale alzò il mento. “È qualche inganno britannico?”

“No, no, no” l’uomo alzò le mani in difesa. “No, guardi. La linea temporale sta collassando, è per questo che siete qui.”

“Mi scusi?”

“Sì, questo è l’anno 2019, e voi non dovreste essere qui.”

Non molte cose lasciavano il Generale senza parole.

E per quanto seria fosse la situazione, trovò un mite umorismo nel fatto che il suo amico, il logorroico Hamilton che non perdeva mai un’occasione per metter becco ovunque, era altrettanto silenzioso.

(Beh, che io sia dannato. Ho vissuto abbastanza per vedere anche il giorno in cui non sa cosa dire.)

“Ascolti, io voglio solo dire che è un grande onore incontrarla, Signor Washington, signore, e stiamo facendo del nostro m-meglio per sistemare le cose” balbettò l’uomo, sembrando abbastanza nervoso.

Che giorno bizzarro.

“Allora perché le persone ci sparano addosso?” Hamilton finalmente aprì la bocca, indicando da qualche parte dietro di loro.

L’uomo lo fissò. “Uhm, perché avete delle pistole?”

Washington rifletté. “Quindi stai dicendo che se abbassiamo le armi, si fermeranno?”

“Beh, state anche bloccando abbastanza il traffico, ma non è il problema principale adesso” disse scuotendo le spalle. “Ma sì, sarebbe un ottimo inizio.”

Il Generale abbassò lentamente la sua pistola e la ripose nella fondina in vita. Ci volle un momento perché Hamilton seguisse il suo esempio, ma alla fine lo fece.

“Come ti chiami, figliolo?” chiese il Generale guardando sospettosamente l’uomo.

Lui si schiarì la gola. “Diego Hargreeves, al suo servizio, signore. E mi lasci solo dire, di nuovo, che è un grandissimo onore incontrarla Signor Generale. Signore.”

L’attenzione del Generale fu improvvisamente distolta dallo scambio di convenevoli quando gruppi di soldati in armatura apparvero da dietro l’angolo di un alto palazzo circondando lui e le sue truppe.

Istintivamente, portò una mano alla pistola.

“Venite avanti con calma!” gridò qualcuno.

Hargreeves, l’uomo che li aveva avvicinati, iniziò a farsi strada urlando qualcosa che comprendeva le parole ‘no’ e ‘stop’.

Il Generale non poteva crede a questo straniero sulla parola. Trasse la sua arma rivolgendola in difesa contro le persone che stavano cercando di impartirgli ordini.

Se era così che se ne sarebbe andato, e sia.

Poi, il terreno tremò.

Un ruggito assordante trafisse l’aria e il Generale sapeva che qualunque cosa fosse, non era umano.

Sembrò aver catturato anche l’attenzione dei soldati che tenevano sotto tiro lui e il suo esercito. I loro occhi erano fissi alla fine lontana della strada.

Il terreno si scosse di nuovo.

“Maria, Madre di Dio” esalò Hamilton.

Ciò che vide il Generale Washington dopo non si poteva comparare con nulla di quanto aveva mai visto nel campo di battaglia. Quello che apparì da dietro quell’angolo non era un animale, non era una creatura di Dio.

Era una bestia.

Un mostro, con file di denti aguzzi, la pelle ricoperta di squame brillanti alla luce del sole.

Tremò ancora.

“Diego guarda, è un T-rex!” qualcuno urlò divertito dietro di lui. “Questo mi ricorda di quella volta in cui ho evocato un raptor nell’ufficio di papà quando avevamo quattordici anni, ricordi?”

Il Generale non riusciva a levargli gli occhi di dosso.

“Mirate!” latrò, la voce lievemente incrinata.

Non dovette chiederlo due volte.

In un territorio sconosciuto, inseguiti da nemici sconosciuti, faccia a faccia con una creatura che era strisciata fuori dalle profondità dell’Inferno, e ancora il suo esercito seguiva il suo comando.

Il Generale non avrebbe potuto essere più orgoglioso.

 

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“Le Torri Gemelle sono tornate” annunciò Luther che stava scorrendo le notizie sul suo cellulare mentre guidavano attraverso il caos meglio che potevano. “Sono apparse dal nulla, a quanto pare.”

C’erano tamponamenti ovunque. Apparentemente il Comandante George Washington e il suo calvario avevano causato un po’ più di problemi di quanto pensassero.

Uno pterodattilo strillò da qualche parte in lontananza.

“Che giornata per essere vivi” mormorò Allison, più a se stessa che agli altri.

Erano a circa due miglia da Manhattan quando si arrese. “Dovremo camminare da qui” disse, ma non ricevette alcun lamento né da Herb né da Luther.

“Quindi, come conosci questa psicologa?” le chiese suo fratello, riponendo il cellulare.

“L’ho incontrata per lavoro” gli disse Allison aumentando il passo. “La dottoressa Cameron era la psicologa del mio co-protagonista. Abbiamo preso dei drink e abbiamo parlato di quanto gli uomini facciano schifo. Abbiamo legato. Si è trasferita qui da Fort Lauderdale qualche anno fa, quando il suo ex ha cercato di ucciderla.”

“Oh.”

Non dissero altro per il resto del viaggio. Fortunatamente l’ufficio della dottoressa Cameron era vicino e Allison ci era già stata prima.

“Pensi che sia ancora qui?” chiese Herb nervosamente. “Voglio dire, la città è in uno stato di caos e panico.”

“Mi ha detto che è già qui” osservò Allison. “E non è abbastanza pazza da andare là fuori proprio adesso.”

Entrarono e presero l’ascensore. L’ufficio era all’undicesimo piano.

“Che si fa se i nostri cervelli esplodono cercando di ricordare Cinque?” chiese Luther nervoso rompendo il silenzio. “Ricordo l’episodio che ho avuto cercando di pensare al paradosso.”

“Già, non preoccuparti più di quello” Herb sventolò una mano con disinteresse. “Le leggi del tempo sono sull’orlo dell’annientamento totale comunque.”

Luther lasciò cadere il discorso.

Allison si schiarì la voce uscendo dall’ascensore. Bussò alla porta che riportava Dr. Melissa Cameron.

“C-chi è?” chiese una voce ovattata e vacillante dall’altra parte. “Alieni? Gesù?”

“Solo Allison” sospirò stanca.

La porta si aprì lentamente.

La dottoressa Cameron era una bassa donna di mezza età, con gli occhiali dalla montatura marrone. Le lenti erano così spesse che i suoi occhi, verdi e paranoici, sembravano più piccoli di quanto fossero.

“Ciao, Melissa” forzò un sorriso, malgrado la grave situazione in cui si trovavano. “Possiamo entrare?”

“Senza offesa, Allison, ma hai visto fuori dalla finestra oggi?” sibilò aggrappandosi al bordo della porta con le nocche bianche. “O hai letto le notizie?”

“Sì” annuì. “E stiamo cercando di fermarlo. Ci aiuterai?”

La mano della dottoressa cadde.

Guardò i due uomini dietro di lei con sospetto. “Chi sono loro?”

“Mio fratello, Luther” Allison ammiccò alla sua destra, e il gigantesco uomo diede alla dottoressa Cameron un piccolo e timido saluto. “E questo è Herb. Un amico di famiglia… o qualcosa del genere.”

Herb fece un sorriso tirato.

“Entrate” borbottò infine la dottoressa aprendo la porta e spostandosi dall’ingresso.

“Grazie” le mimò Allison entrando.

 

----------------------------------

“Senti, so che eri in quella cosa della Umbrella, ma questo non è più tipo, non lo so” la dottoressa Cameron farfugliò, “un lavoro del governo?”

Luther si schiarì la gola. “Il governo non ha idea di cosa sta accadendo. Noi sì. E potremmo essere in grado di fermarlo, se lei ci aiuta.”

“Io” Cameron batté le palpebre incredula. “Voi volere il mio aiuto.”

Herb si fece avanti togliendosi il cappello. “Allison mi ha detto che è specializzata in ricordi repressi” alzò un sopracciglio.

La dottoressa lo fissò per un momento, spostandosi alcune ciocche rosse e lisce dal volto. “Corretto.”

“C’è qualcuno che dobbiamo ricordare” spiegò Allison. “Nostro fratello, Cinque. Lui e alcuni altri viaggiatori del tempo sono stati cancellati dall’esistenza, e questo sta causando il collasso della storia.”

“Stiamo parlando della fine del tempo stesso” aggiunse Herb greve.

“Okay, questo è molto oltre la mia paga” Cameron sembrava tremendamente pallida, e Luther la diresse gentilmente a sedere.

“Sei la nostra unica speranza” Allison si sporse in avanti, uno sguardo implorante negli occhi. “Ti prego.”

“Proprio ora il destino del mondo poggia sulle tue spalle” aggiunse Luther, pensando che avrebbe potuto incoraggiarla ulteriormente ad aiutarli. Tuttavia, quando prese a tremare sotto il suo tocco e si guadagnò uno sguardo truce da Allison, realizzò che avrebbe potuto essere la mossa sbagliata.

Con sorpresa di Luther, Cameron prese improvvisamente un veloce e profondo respiro e annuì.

“Okay. Okay. È da pazzi, ma okay.”

Lui lasciò andare il respiro che aveva trattenuto.

“Grazie a Dio” sospirò Luther. “Okay, da dove iniziamo? Devo sdraiarmi sul divano, o…?”

Cameron strinse gli occhi scuotendo la testa con una smorfia. “No, non è… In normali circostanze ci possono volere fino a sei mesi per fare anche il minimo progresso verso il recupero di un ricordo represso.”

“Okay, cosa può fare con…” Herb guardò il suo orologio da polso nervoso, poi fuori dalla finestra, poi di nuovo all’orologio, “… Venti ore?”

Cameron si gelò. Deglutì.

“Teoricamente ci sono altre opzioni” disse con voce tremante.

Luther alzò le sopracciglia in attesa.

“Uhm, facendo entrare il soggetto in uno stato di trance” continuò la dottoressa dopo essersi schiarita la gola. Allison le spinse una tazza di tè fumante fra le mani e lei ne prese un sorso abbondante. “La regressione ipnotica può essere raggiunta in molti modi, ma penso che in questo caso possa funzionare la deprivazione sensoriale.”

“Sei un’ipnotizzatrice?” chiese Allison con curiosità.

“Non proprio, no” Cameron rispose velocemente mordendosi le labbra.

“Okay” annuì Luther battendo le mani l’una contro l’altra. Le cose stavano finalmente progredendo, andavano effettivamente da qualche parte. “Cosa facciamo?”

Cameron si portò la tazza di tè alle labbra, le mani piccole tremavano.

“Beh” sospirò. “Conosco un posto o due con delle vasche di deprivazione sensoriale. Ci serviranno anche delle airpods e dei paraorecchie, così la mia voce sarà l’unica cosa che sentirete.”

“Qualcos’altro?” chiese Luther. Sembrava fin troppo semplice. “Nient’altro?”

“No, ma non posso promettere che funzionerà” avvertì Cameron. “Questo è… estremamente sperimentale.”

“Funzionerà” la convinse Herb. “Andiamo a prendere gli altri. Qual è l’indirizzo?”

 

----------------------------------

“Scusate, ho combattuto contro un t-rex con George Washington” ansimò Diego quando comparì alle porte della spa.

La wellness spa Lift era priva di tutto lo staff e dei clienti, probabilmente fuggiti al di fuori. C’era il panico di massa nelle strade e Diego non poteva biasimarli.

“È grandioso, Diego” disse Luther in fretta. “Ora, vieni qui.”

(Mi ha almeno sentito?)

“Che cos’è?” chiese con sospetto osservando la vasca bianchissima a forma di uovo apparentemente immersa nel pavimento.

La ragazza dai capelli rossi, che Diego presunse essere la dottoressa Cameron, premette un pulsante sul lato e i suoi occhi si spalancarono quando il dannato uovo si aprì rivelando una piccola piscina al suo interno.

“Questa è una camera di deprivazione sensoriale” spiegò lei. “E la useremo per cercare di accedere ai ricordi sepolti nelle profondità del vostro subconscio.”

“Sembra molto divertente” sospirò Klaus beatamente. “Posso andare per primo?"

“Io sono Numero Uno” grugnì Luther. “Vado io per primo. Andremo in ordine, okay?”

Diego quasi gemette di frustrazione. Ancora questa merda?

Aveva già pensato che Luther avesse abbandonato la storia dei numeri, ma evidentemente no.

“Faremo meglio a iniziare subito” avvertì Herb. “Non sappiamo cosa accadrà. Questo intero edificio potrebbe sparire e diventare una foresta preistorica, per quanto ne sappiamo.”

“Grandioso” fece Diego con voce monotona.

Onestamente, c’era molto poco che lo potesse sconcertare ormai. Oltretutto, aveva incontrato George Washington quel giorno, ed era stato un momento che avrebbe custodito per il resto della sua noiosa vita.

“Ci siamo tutti?” chiese la dottoressa Cameron ad Allison, che le rivolse un cenno di assenso. “Bene allora. Andrete uno per uno, ed io guiderò la sessione con queste.”

Mostrò loro le airpods sul palmo. Poi prese un paio di paraorecchie. “Queste le proteggeranno dal bagnato. Il solo suono che sentirete sarà la mia voce.”

La dottoressa Cameron guardò la vasca. “L’acqua all’interno è a temperatura corporea e una volta chiusa è a prova di suono e di luce.”

Diego non era davvero claustrofobico, ma il pensiero lo mise comunque a disagio.

Eppure, non vedeva l’ora di entrare. Doveva farlo, se volevano salvare il mondo.

E loro fratello.

E la persona che gli aveva dato quel braccialetto.

“Okay, siamo tutti pronti” confermò Cameron, ma Diego sentì un lieve segno di esitazione nel suo tono. “Iniziamo.”

 

Sarà meglio che funzioni, pensò Diego mentre sbirciò oltre le persiane. Erano a corto di tempo.

 

 

Piccola nota del traduttore:
Ho preferito lasciare le prime righe in lingua originale perché in italiano non sarebbe stato possibile rendere il ritmo e la rima. Non so se sia il testo di una canzone (probabile), ma ho pensato che fosse meglio lasciarlo così com'è.

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Capitolo 9
*** Il custode di mio fratello ***


Potrei riconoscerlo dal

solo tocco, dall'odore:

Lo riconoscerei ad occhi chiusi,

dal modo in cui veniva il suo respiro

e i suoi piedi colpivano la terra.

Lo riconoscerei nella morte,

e alla fine del mondo.

 

"Saremo proprio qui fuori" mormorò Allison. I suoi occhi scrutavano irrequieti Luther mentre si adagiava all'interno della vasca.

Dire che non era nervoso sarebbe stata una bugia. Non era affatto un uomo piccolo ed entrava a malapena nella vasca.

Luther rabbrividì quando la sua pelle incontrò l'acqua. Sapeva che si sarebbe abituato in fretta. Rivolse un lieve cenno alla dottoressa che chiuse il contenitore.

Luther rimase circondato dalla più totale oscurità.

Quella, e il silenzio tombale.

Grazie a Dio c'era un microfono dentro la vasca, così poteva almeno fare domande e dire di farlo uscire se non ce la faceva.

Non sapeva neanche cosa aspettarsi.

Luther era determinato, però. Non avrebbe mollato finché non avrebbe ricordato di nuovo suo fratello.

"Devo chiudere gli occhi?" chiese. Era strano - non riuscire a sentire la sua stessa voce quando parlava.

"Meglio di no, potresti addormentarti" la voce di Cameron arrivò dalle airpods. "Ho bisogno che ti rilassi, ma che rimani cosciente."

Non sembrava davvero molto - e questo, suppose, probabilmente era il punto. Era piacevolmente caldo dentro la vasca e l'aria aveva un odore molto simile a quello degli ospedali.

Ci volle una vita perché Luther sentisse di nuovo la voce della dottoressa. Si era quasi addormentato, cullato dal gentile letto d'acqua.

"Luther" la voce della Cameron era leggera. Soffice. "Ti aiuterò a ricordare."

(Ricorda quello che hai perso.)

"Pensa a lui."

Luther serrò gli occhi. Il suo battito si fece più veloce.

(Pensa.)

"Luther, devi pensare. Concentrati."

(Ricorda.)

"Calmati."

Luther non si era nemmeno accorto del suo battito alle stelle, del suo respiro affannato.

La sua testa non sembrava a posto.

"Concentrati su Cinque."

(Cinque.)

Un sussulto sbigottito gli uscì dal petto, lasciandolo senza fiato per un momento.

L'oscurità si svelò.

C'era una scalinata davanti a lui. Sentì dei rumori.

Il mondo era giallo di luce e tutti i colori intorno a lui sembravano sbiaditi. Come se la vernice con cui erano stati dipinti fosse troppo diluita.

Luther batté le palpebre, sconcertato.

Quella scalinata lo stava chiamando. Salimi, diceva.

Ma era così stanco.

"Luther, non addormentarti" lo richiamò una voce. "Non chiudere gli occhi."

(Tieni gli occhi aperti.)

Lo fece.

Luther salì le scale, ogni passo più pesante dell'altro. Era fatto di rocce?

Si fermò sulla sommità.

Vide la stanza di Cinque, la porta era aperta ma lui non c'era dentro.

"Egli continua ad ammiccare. Va', ti seguo." Luther si accorse delle piccole, ridacchianti voci che venivano dalla stanza di Ben.

Conosceva quella voce, per quanto il suo proprietario la stesse modulando per farla sembrare più pomposa e bassa di quanto fosse in realtà.

Sentì una risata. "Voi non andrete, signore."

(Ben.)

Luther rimase dietro la porta chiusa contando i suoi respiri.

(Inspira. Espira.)

"Giù le mani."

La sua mano si poggiò sulla maniglia.

"Siate ragionevole; non lo seguite."

(Klaus.)

Altre risate.

(Io.)

"Fa silenzio, canaglia" qualcuno si rivolse alle sue risa, facendo del suo meglio per suonare arrabbiato e serio, ma la leggerezza nel suo tono lo tradì.

Luther aprì la porta. Vide il se stesso più giovane, girato di pancia sul letto di Ben, le lacrime delle risate scintillavano agli angoli degli occhi.

Ben se ne stava sull sua sedia con un fazzoletto e un libro logoro in mano. Klaus si sporgeva sulla sua spalla, molto più alto del loro piccolo Ben, con un ghigno che andava da un orecchio all'altro.

"Il mio destino mi chiama, e irrobustisce ogni fibra del mio corpo, come quelle del leone di Nemea", gli occhi di Luther si voltarono in direzione della persona seduta su una pila di cuscini sul pavimento, un suo libro fra le mani.

Era così piccolo, fragile. A Luther ricordò una bambola di porcellana.

Le ciglia lunghe svolazzavano mentre i suoi occhi seguivano il testo.

(Cinque.)

Così giovane. Così se stesso.

Un sorriso continuava a tirare le labbra del ragazzino, ma era bravo a rimanere nel suo personaggio, diversamente dagli altri. "Ecco, mi chiama ancora. Lasciatemi, gentiluomini."

"Basta, non ce la faccio più", il giovane Luther rotolò sul letto, senza fiato. "La pancia mi fa malissimo."

"Zitto, Luther" sbuffò Klaus. "Stai assistendo all'arte qui."

"Luther?"

Scosse la testa confuso. Il ricordo si dissipò nell'aria, lasciandolo senz'altro che l'oscurità.

Era sbagliato.

"Luther!"

(La dottoressa.)

"Continua così. Trova un altro ricordo."

Luther guardò davanti a sé. Non vide niente.

Era sbagliato.

Il suo corpo non sentiva... niente.

Non riusciva a sentire niente e tutto ciò che sentiva era il sangue scorrergli nelle orecchie, il battito del suo cuore così forte che avrebbe potuto schizzargli fuori dal petto.

"Luther, è tutto okay!"

(Allison.)

"Fai un bel respiro, okay?"

La sua voce era musica per le sue orecchie. Luther forzò i suoi muscoli tesi a rilassarsi.

"È tutto okay. Pensa a Cinque."

(... Cinque.)

"Nessuno se ne va finché non risolviamo la cosa."

(Le sue dita si strinsero intorno al bavero del ragazzo e sollevò il suo peso leggero senza alcuno sforzo fuori dal suo cammino.)

"Luther, mi servirà il tuo aiuto per questa cosa, d'accordo?"

(Il fantasma di un tocco sul suo braccio sinistro.)

"Lo sai, sei un pessimo bugiardo, Luther. Addirittura sei meglio come spotter."

(Cinque.)

"Anche per me è bello rivederti, Luther."

(Cinque.)

"Luther, aspetta! Dobbiamo trovare gli altri, perché il mondo finisce di nuovo fra dieci giorni."

(Cinque!)

"Smettila! Solo... smettila."

(Cinque-)

Luther boccheggiò alla ricerca di aria, la testa gli esplose in colori e suoni e immagini che balenarono davanti ai suoi occhi ciechi, così veloci che a malapena aveva il tempo di vederli, la voce del fratello scomparso riecheggiava nelle orecchie, ripetendo ogni singola parola che Luther gli avesse mai sentito dire.

Si ricordò come ci si sentiva. A dimenticare.

Ricordava il suono della risata di Cinque.

Erano passati quasi due decenni dall'ultima volta, ma la ricordava.

Lui ricordava.

Era troppo.

Non riusciva a respirare.


___________________________

"Trovalo in qualunque ricordo" parlò la voce della dottoressa Cameron. "Bello o brutto, non importa."

Diego trasse un respiro di conforto.

Luther aveva a malapena detto una parola da quando era uscito dall'acqua. Si era chiuso in uno stanzino e si era cambiato, gli occhi perseguitati da qualcosa che non riusciva a capire.

Il buio lo inghiottì.

Tutto ciò che sentiva era la voce della dottoressa che gli sussurrava di tanto in tanto nelle orecchie.

(Bello o brutto.)

Diego pensò a lui. Strinse i pugni sotto l'acqua, gli occhi saettavano alla ricerca di un segno di luce in quella oscurità.

Quanto tempo era passato?

"Diego. Adesso concentrati."

Perché la sua voce suonava come quella di papà?

"Fallo di nuovo, e fallo meglio! Devi essere perfetto!"

(Perfetto.)

Quella parola pesante risuonò nella testa di Diego, e lui si morse il labbro.

"Di nuovo, Numero Due!"

(Numero Due.)

"Potrai riposare quando ci sarai riuscito!"

I suoi occhi bruciavano.

"Basta! Lascialo andare adesso!"

Quella non era la voce di suo padre.

(Cinque.)

Diego poteva vederlo. Quasi. L'ombra del padre si ergeva sul piccolo ragazzino che sapeva essere se stesso, sudato e pallido, stanco di trattenere il fiato, i polsi scricchiolavano dai tanti coltelli che aveva lanciato.

"Numero Cinque, non dovresti essere qui. Non sopporterò-"

"Ora basta! Sei pazzo, guardalo!"

Gli occhi di Diego facevano così dannatamente male.

Il profilo sfocato di Cinque si delineò.

(È così piccolo.)

Così piccolo, le mani ossute si incrociarono sul petto, le gambe sottili ne stabilizzavano la postura.

Stava in piedi davanti all'ammasso tremante che era suo fratello.

L'ombra del padre lo investì, ma la postura di Cinque non cambiò. Non vacillò di fronte all'ira di suo padre.

Lo guardò dritto negli occhi senza batter ciglio.

"Puoi andare, Numero Due."

Diego vide il se stesso più giovane fissare papà incredulo, poi spostò lo sguardo, la bocca aperta, verso suo fratello. Cinque lanciò uno sguardo oltre la spalla e annuì debolmente verso di lui.

"È okay, Diego."

Un singhiozzo gli si strappò dal petto, scuotendogli le costole.

Un peso schiacciante lo spingeva verso il basso.

Era sott'acqua?

"Diego? Cerca di non fare niente di stupido."

Che bastardo compiaciuto.

Cazzo, a Diego mancava.

Gli mancava così tanto che pensò sarebbe potuto scoppiare e morire.

Qualcuno rise.

Diego voltò la testa. Era una donna.

Un flash blu. L'orlo di un vestito.

"Ah, no, tesoro. Sono io l'uomo."

Le stelle fiorivano nei suoi occhi ardenti. Ciuffi di capelli color ebano dondolarono quando piegò il collo all'indietro, sopraffatta dalla loro danza selvaggia.

Ed era semplicemente così, la sala da ballo era vuota di tutti gli altri. Lei guardava dritta verso di lui, e lui era sotto il suo controllo.

Lui e lei, questo era abbastanza.

(Lila.)

Diego bisbigliò il suo nome come una preghiera.

La sua Lila.

Il suo nome sapeva di sale e ferro nella sua bocca.

Il suo mantra divenne febbrile e il suo cranio martellava per il peso di tutto quello che c'era sepolto all'interno.

"Diego!" gridò qualcuno.

"Perché anche io sono un po' un lupo solitario."

Piangeva.

"Ciao! Sono il suo adorabile fratello."

"Va bene se non ti odo come odio quasi tutti gli altri?"

Urlava.

"Oh, grazie al cielo. Mi conoscete. Certo che mi conoscete, sono solo... sono solo ridicolo. Voglio dire, perché tutti all'improvviso dovrebbero dimenticare tutto, eh? Non avrebbe davvero alcun senso, ora potre-"

(No, per favore, mi dispiace-!)

"Sei in qualche guaio?"

"Perché non inizi dicendoci il tuo nome?"

La luce negli occhi di Cinque svanì, come se qualcosa dentro di lui fosse morto con quelle parole.

(MI DISPIACE!)

"Diego, io- Noi dovremmo-"

"Sapevi che la porta era aperta."

"Forse il paparino è finalmente venuto a dirti che ti vuole bene."

"Hey! È 'öga för öga', idioti. Occhio per occhio in svedese."

"Tutti mentono, Diego, e io stavo mentendo solo per proteggerti."

Stava affogando.

Seiquasimortoierinotteprenditiungiornodipausaguardiamiofratellopianificadievaderelesbarredellasuastanzasonostatetagliate-
 


___________________________

Allison rabbrividì pensando a come suonava la voce di Diego. Suo fratello aveva schiantato un pugno contro il coperchio chiuso.

"Fatemi uscire!" aveva implorato con voce rotta.

Lo sguardo nei suoi occhi...

Allison non riusciva a toglierselo dalla testa.

Diego era forte, non molte cose lo turbavano. Aveva visto tanto, e anche se loro padre aveva sempre avuto un modo per entrargli in testa, quello non era lui.

Quello non era Diego. Era emerso dalla vasca, tremando come una foglia, afferrando il suo ciuffo bagnato di capelli, gli occhi vitrei e ciechi.

Diego stava riposando ora. Klaus e Vanya erano con lui.

"Non sta funzionando" Allison scosse la testa.

"È l'unica chance che abbiamo, Allison" disse la dottoressa. "È quello che mi avete detto."

Aveva ragione.

Dannazione, aveva ragione.

"Lila Pitts."

Alison saltò, guardando dietro le sue spalle. Diego era in piedi sulla porta, pallido come un lenzuolo.

"Cinque, Handler e Lila Pitts" disse, più forte. "Sono le persone che abbiamo dimenticato. Le persone che sono state cancellate."

"Mi ricordo" mormorò Luther. Era rimasto a fissare il pavimento nelle ultime ore, ma sembrava essere saltato fuori da qualsiasi pensiero gli stesse passando per la testa. "È la figlia di Handler. Mi ricordo entrambe."

Diego annuì debolmente.

"Allison" disse piano la dottoressa Cameron.

"Lo so."

Era il suo turno.
 

"Cercherò di guidarti attraverso i tuoi ricordi" la voce della Cameron parlava direttamente nelle sue orecchie. "Uno alla volta, ma prima devi rilassarti e lasciare andare ogni pensiero."

Giusto. Sarebbe dovuto essere abbastanza facile.

Come attrice, Allison era abituata agli esercizi di respirazione.

Avrebbe dovuto funzionare.

Espirò finché i polmoni non furono svuotati di tutta l'aria.

Pochi secondi dopo, inspirò di nuovo.

Galleggiando lì, Allison si sentiva assolutamente senza peso.

(Dentro. Fuori.)

Era così che ci si sentiva ad essere ciechi, pensò.

(Dentro. Fuori.)

Francamente, era terrificante.

(Dentro. Fuori.)

"Ascolta la mia voce."

(Dentro. Fuori.)

"Immaginati di nuovo alla scuola di recitazione" la voce della dottoressa bisbigliava nel suo orecchio. "Guarda gli armadietti. C'è un ricordo in ognuno."

Allison vide il famigliare, vecchio corridoio davanti agli occhi. Batté le palpebre.

Era passato tanto tempo da quando camminava in quei corridoi.

Sorrise. Così tanto, davvero.

(Guarda quanto sei andata lontano.)

"Apri il primo armadietto."

Allison voltò la testa e guardò il vecchio disegno scheggiato che copriva gli armadietti. Ricordava ancora quello che una volta era il suo.

La donna prese la maniglia e la ruotò.

Fu avvolta dal buio.

Il cuore di Allison mancò un battito, ma poi il silenzio e l'oscurità furono rotti da una voce sola.

Era la sua.

Stava piangendo.

La stanza di Allison era illuminata di una luce soffusa. Doveva avere appena dodici anni. Forse tredici. Sedeva davanti allo specchio, gli occhi rossi e scintillanti di lacrime.

Sulle sue spalle piccole poggiava un peso invisibile.

Un rumore elettrico, così famigliare eppure così distante nella sua mente, venne da qualche parte dietro di lei.

Allison spalancò gli occhi quando lui le passò accanto e sedette per terra vicino alla ragazzina.

"Hey" la sua voce era soffice. Quasi un sussurro.

(Oh, Cinque.)

La sua versione giovane non rispose, ma diede uno sguardo triste nella sua direzione. Cinque si morse il labbro pensieroso, poi le posò una mano sulla schiena.

"Lo sai che era solo uno stronzo qualunque, vero?" Cinque si schiarì la gola. "Uno stronzo bastardo, che non sa neanche di cosa sta parlando, o non gliene frega un cazzo degli effetti che possono avere le sue parole."

La piccola Allison tirò su col naso pateticamente.

("Ms. Rumor! Hai sentito dei pericoli dell'obesità? Può nuocere specialmente ai bambini -")

"Non sono grassa!" scoppiò in lacrime e Cinque avvolse il suo braccio intorno alle sue spalle scosse dai fremiti.

"Certo che non lo sei" le disse.

Allison deglutì, travolta dal ricordo. Un giornalista aveva notato il fatto che stava attraversando la pubertà e sviluppava le curve, e aveva pensato che fosse suo diritto farla sentire a disagio con se stessa.

L'unica a cui si fosse mai comparata era Vanya, che era sempre stata piccola e magrolina.

Cinque spinse lo specchio lontano da loro quando la vide lanciarci occhiate sfuggenti ogni pochi secondi.

"Guarda, Allison" Cinque le prese una spalla e aspettò finché lei non lo guardò. "Sei bellissima. Non sei grassa. Non sistemerai niente fissando lo specchio e cercando difetti da cambiare."

"Non capisci!" stridette lei all'improvviso. "Tu sei un maschio!"

Cinque non rimase turbato da quel comento, neanche un po'. "Lo sai, qualche settimana fa ho visto Ben quasi strappare uno dei disegni che aveva appena fatto."

La piccola Allison lo guardò attentamente. Stava ascoltando.

"L'ho fermato" continuò Cinque alzando il mento. "Mi ha detto che lo aveva guardato per un po' e gli sembrava tutto fatto male, e pensava che fosse un completo fallimento. A me sembrava splendido."

(Oh, Cinque.)

Il petto di Alliso sbocciò di amore verso quel ragazzino.

Quel ragazzino disinteressato.

"Guardi qalcosa su cui hai lavorato per tanto tempo, inizi a notare dei difetti che non ci sono nemmeno" disse, gli occhi seguivano una lacrima che rotolò lungo la guancia della ragazzina. "Aveva passato troppo tempo a guardare ogni imprecisione che alla fine è diventato tutto quello che riusciva a vedere. Poi sono arrivato io, e ho pensato che fosse brillante."

Cinque sorrise. "Vedi dove voglio arrivare? Sei la nostra stella, Allison. Non lasciare mai che qualcuno ti dica il contrario."

Una risata umida sfuggì al petto della bambina.

"Vuoi venire a vedere un film con me e Ben?"

Il suo volto scattò in alto e si asciugò le lacrime dagli occhi gonfi. "Posso scegliere?"

Passò un istante di indecisione sul viso di Cinque e fece una smorfia per qualche secondo. Allison alzò le sopracciglia.

"...Va bene, puoi scegliere. Andiamo."
 

Allison strinse forte gli occhi. Oh, benedetto lui.

"Mi ricordo" bisbigliò in un respiro.

"Cerca un altro ricordo" rispose la dottoressa. "Apri un altro armadietto."

"Okay" mormorò ritrovandosi nel corridoio buio e solitario.

Così tante memorie. Il corridoio ne era pieno. File infinite di armadietti, momenti imbottigliati, lacrime che non ricordava di aver pianto, parole che non ricordava di aver detto.

Lei, Cinque e Vanya, seduti in camera sua, studiavano per un test che lui sapeva loro padre avrebbe programmato.

È vero, Allison sorrise fra sé e sé, assaporando il sale delle sue lacrime. Loro studiavano sempre insieme, loro tre.

Allison e Cinque erano i migliori quando si parlava di successi scolastici, ed eccellevano entrambi nelle lingue. Ben era subito dietro di loro.

Cinque era il genio, però, alle volte addirittura sfidava il padre con le sue scoperte matematiche.

(Dentro. Fuori.)

Fece un sorriso sbieco e lacrimoso.

(Ti ho trovato, Cinque.)

Lo aveva trovato, sepolto nel suo cuore.

Allison vide loro due e Diego aiutare Grace ad intagliare zucche. Sgattaiolare fuori la notte con Klaus per fumare in segreto dietro l'angolo quando avevano dodici anni.

Vide Cinque salvarle la vita da un uomo armato che si era avvicinato furtivamente dietro di lei, avvolgendo una mano sudicia intorno alla sua gola. Cinque si era materializzato dal nulla, aveva calciato l'uomo su uno stinco e lo aveva prontamente colpito alla spalla con uno dei coltelli di Diego.

Le aveva afferrato una mano e l'aveva spinta via mentre lei annaspava e tossiva, e le lacrime le velavano la vista.

Lo vide prenderle la mano. Lo vide ridere con lei. Lo vide piangere con lei. Lo vide-

"Voglio viaggiare nel tempo!"

Il giorno in cui lo persero.

Allison scosse la testa in diniego e aprì un altro armadietto. Sentì di nuovo la voce di Cameron, ma era incomprensibile.

Non capiva.

Non importava. Non era importante.

No, quello che importava era che aveva visto la faccia di Cinque guardare dritto su di lei.

Il suo volto era chiaro come il sole.

I suoi occhi verdi erano grandi e luminosi e vitrei.

Era agitato. Ma perché?

"Chi sei?"

(Oh, no.)

Allison annaspò in cerca di aria.

"Come sei entrato?"

(No, no, qualsiasi cosa ma non questo. No-)

Quella era la sua voce.

Osservò la confusione e il panico montare dentro suo fratello, tutto così chiaro dallo sguardo nei suoi occhi - come aveva potuto non vederlo prima-?

Tutto il colore svanì dal suo volto lasciandolo pallido come la neve.

La voce di Cinque tremò. "Ragazzi, potete smetterla con questo scherzo, chiaramente non mi diverte."

Perché sembrava che qualcuno stesse stringendo un nodo intorno al suo cuore?

("Hey, ragazzino, stai bene?")

Perché i suoi polmoni non funzionavano?

("Smettila... solo, smettila.")

Perché si sentiva come se stesse urlando, quando tutto era completamente in silenzio?

Ci fu un lampo blu.

(Non andare-)

Troppo tardi.
 

Allison fu accecata dalla luce che irrompeva all'interno, sollevandola dall'oscurità in cui stava fluttuando. Qualcuno prese la mano che non si era neanche accorta di aver allungato.

Aveva provato a prendere Cinque per la spalla, per farlo restare-

Ma non era lì.

Qualcuno le avvolse un telo sulle spalle.
 

Incespicava arrampicandosi per uscire dalla vasca, quando successe.

Le sue orecchie presero a fischiare, una strana pressione estranea nella testa.

C'erano tuoni nell'aria.

Forse... forse era Cinque.

"È più reale che mai" insistette Luther. "Potrebbe essere lui."

Stava discutendo con Herb. Allison non ascoltava.
 

Successe tutto in un battito di ciglia. In un singolo respiro. In un mero battito del cuore.

Cenere e neve caddero dal cielo.

Il mondo fu inghiottito da ghiaccio e fuoco.

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Capitolo 10
*** La fine del Tempo ***


L'universo è grande.

È vasto e complicato e ridicolo.

E a volte, molto raramente,

cose impossibili semplicemente accadono

e noi li chiamiamo miracoli.
 

--------------------------------------------------------------

 

Lila aprì gli occhi.

Era buio all'inizio, nella casa vuota che conosceva così bene.

Giaceva sul pavimento della casa dei suoi genitori, proprio sul punto in cui li aveva visti morire.

E la donna sapeva che qualcosa non andava.

Lo sapeva, perché ricordava cosa aveva fatto.

(Oh, no.)

"Cazzo", sputò frustrata.

(Che cosa ho fatto?)

"Stupida" mormorò Lila, inciampando sui suoi piedi. "Stupida, stupida, stupida."

Dov'era comunque?

Forse era in Paradiso – se le fosse stato permesso di entrarci.

No. Inferno, allora.

Non importava. Ciò che importava era che aveva fatto un enorme casino, e se l'era addossato.

Lila sapeva che non avrebbe mai dovuto perdere il controllo.

Si sedette, chiuse gli occhi.

Aveva passato gli ultimi dieci anni della sua vita ad infiltrarsi nelle vite dei suoi genitori. Li aveva visti incontrarsi, li aveva guardati innamorarsi, era diventata loro amica.

Era andata in spiaggia con loro. Li aveva aiutati con i loro studi. Si era fatta un partner per qualche anno.

Non era durata. Le sue relazioni non duravano mai a lungo.

E di chi era colpa?

Lila lasciò un respiro tremante, una lacrima calda rotolò lungo la sua guancia. L'asciugò velocemente, infuriata.

Perché continuava a fare casini?

Non era stata capace di salvarli.

Dopo che sua madre rimase incinta della bambina che sarebbe diventata lei, si era allontanata da loro. Li visitava sempre meno.

Ma almeno Lila era riuscita a conoscerli. Non aveva intenzione di tornare là.

Non poteva farci niente.

Lila aveva visto Cinque guardare ai suoi genitori imploranti e piangenti che si contorcevano sul pavimento. Quelle persone, quelle brave persone, non lo meritavano.

Non c'era nulla negli occhi di Cinque. Nessuna emozione.

Gelo.

Lila non poteva accettarlo. Semplicemente non poteva – c'era stato un tempo in cui sarebbe stata capace di perdonarlo, ma quella persona era bella che andata.

Le gambe di Lila si mossero d'istinto. Avrebbe attaccato Cinque. Non aveva intenzione di ucciderlo.

Lila a malapena ricordava cosa fosse successo dopo.

Il mondo era stato inghiottito dal blu. L'odore pesante di fumo e fulmini era ancora nelle sue narici.

Cominciò a rendersi conto che avrebbe potuto avere rotto il tempo per sempre.

Handler. Cinque. Lei.

Tutti e tre erano così intimamente coinvolti nel tenere insieme la linea temporale, che un paradosso di quel calibro avrebbe sicuramente...

Lila chiuse gli occhi dalla vergogna.

Ho fatto un casino.

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La prima cosa che pensò Klaus fu che doveva essere morto.

La linea temporale aveva finalmente fatto kaboom, ed erano tutti spacciati. Addio mondo, e tutto il resto.

Quando furono passati alcuni momenti, Klaus realizzò che poteva, in effetti, muovere i suoi piedi. E le sue dita.

E infine riuscì a racimolare abbastanza forza per aprire gli occhi.

C'era polvere fra i capelli di Klaus, sugli occhi, la bocca, e tossì pateticamente, il suo sapore ristagnante sulla lingua.

"Ehilà?" sussurrò, gli occhi iniziavano a lacrimare.

Che è successo?

"Vanny?" tossì Klaus prendendo sua sorella per una spalla. Lei giaceva a terra, a faccia in giù, circondata da macerie.

L'intero edificio era collassato su di loro.

"Klaus?" qualcuno emerse, incespicando, dall'oscurità.

Diego. C'era uno squarcio sanguinante sulla sua fronte e zoppicava, ma per il resto sembrava stare bene.

Vanya gemette rinvenendo, le mani fragili volarono istantaneamente a reggersi la testa.

"Sono qui", Klaus cercò di calmarla ma non era sicuro che lo sentisse.

"Cos'è successo?" gli occhi di Diego erano spalancati e guizzavano nella stanza.

Era difficile vedere fra la polvere e lo sporco, ma Klaus poteva dire che tutto ciò che rimaneva della spa fossero rovine.

"Non ne ho idea", fiatò. "Dov'è Luther? E Allison?"

Diego guardò oltre la sua spalla. Una montagna di detriti li separavano dallo spazio dov'era collocata la vasca di deprivazione sensoriale.

"Dobbiamo uscire di qui" tossì Diego. "Vanya?"

Cadde in ginocchio stringendo la spalla di sua sorella. A Klaus fece male il cuore quando un piccolo grido le uscì dalle labbra.

"Che-" mormorò, i suoi occhi finalmente aperti. "Cosa?"

"Non lo sappiamo, ma dobbiamo andarcene da qui" grugnì Diego.

Klaus sentì urlare al di fuori.

Si allarmò quando Vanya si alzò improvvisamente in piedi e inciampò sui suoi passi. Le sanguinava il naso e probabilmente aveva una commozione cerebrale visto il disorientamento e l'evidente bernoccolo in testa, ma Klaus rimase sorpreso di vedere che i suoi occhi mutarono in una rabbiosa tonalità di bianco.

Le sue mani piccole diressero una raffica di energia al muro più vicino, cancellandolo completamente dall'esistenza.

Vanya emise un sospiro, i suoi occhi si oscurarono.

"Grazie, Vanny", Klaus deglutì accompagnandola fuori.

I tre uscirono e si gelarono in un silenzio attonito.

"Porcadiquellaputtana", disse infine, gli occhi scandagliavano la scena terrificante.

Annientamento.

Era l'unico modo in cui Klaus potesse descriverla.

Apocalittica, addirittura, pensò istericamente.

Il vento era caldo sul suo volto.

La loro città era stata separata in due, e loro erano proprio nel mezzo dell'incrocio. Sotto i loro piedi, il terreno era coperto da uno strato bianco di ceneri e macerie.

Fiocchi di cenere cadevano dal cielo. Il tanfo di bruciato gli pizzicò la gola.

Una netta linea annerita divideva le strade in due, e continuava fin dove potevano arrivare gli occhi di Klaus. Il terreno era sotto uno strato di neve e ghiaccio. La brina ricopriva ogni edificio collassato, ogni lampione contorto, ogni filo d'erba.

I palazzi erano in fiamme. Le persone si rimescolavano nelle strade in preda al panico. Una madre cullava il suo bambino, che aveva una ferita sanguinante sulla testa piccola.

La polvere era ovunque. Non un singolo edificio era stato risparmiato dalla distruzione.

L'opprimente sensazione della morte irrequieta fluttuava nell'aria come un velo pesante, e poteva già vedere i fantasmi emergere dai palazzi caduti.

Per una volta, Klaus era senza parole.

"Dobbiamo trovare gli altri", mormorò finalmente Vanya. Era più pallida del solito e dondolava leggermente sui suoi piedi.

"Aspetta", Diego alzò una mano. "Lo sentite?"

Le sopracciglia di Klaus schizzarono in alto.

Fra i lamenti lontani, sentì una debole voce che chiamava.

Come se venisse da sottoterra.

Diego fu il primo a muoversi. Corse verso la pila di macerie che una volta erano la spa, cercando di trovare un'apertura sulla stanza dove si trovava la vasca di deprivazione sensoriale.

"Vanya?" chiese, gli occhi scuri tremavano verso la sorella.

"Non lo so, forse non dovresti-" iniziò Klaus, guardandola con compassione. Aveva avuto una commozione, senza alcun dubbio.

"È ok", Vanya lo interruppe e fece alcuni passi traballanti in avanti. Diego si ritrasse dal suo raggio d'azione e da quello che poteva dire Klaus, era pronto ad afferrarla nel momento in cui sarebbe sembrata poter collassare.

Il pallore della loro sorella divenne bianco, e i suoi dolci occhi marroni si tinsero d'argento.

Un forte gemito metallico fece coprire le orecchie a Klaus con un sussulto. Le mani di Vanya erano tirate in avanti, e il potere invisibile che irradiava da lei spostava le macerie dal suo cammino. Pezzi di pavimento, muri e tetti dell'edificio erano crollati.

"Sono qua sotto", mormorò realizzando, fissando il buco spalancato nel terreno. Quello che prima erano le fondamenta della spa, ora poteva essere la tomba di Allison, Luther e la dottoressa Cameron.

Una mano faceva capolino da sotto un pezzo di muro.

"Di qua!" Diego la vide per primo. Vanya mosse la sua con determinazione, e le rovine furono sollevate.

La dottoressa Cameron giaceva là, faccia a terra, il corpo contorto in posizioni innaturali.

A Klaus non servì voltarla per sapere che era morta.

Conosceva la morte fin troppo bene.

"Oh, Dio", mormorò Diego, la testa bassa.

Klaus ritrovò la voce. "Luther? Allison?"

Un suono ovattato gli giunse da sotto di loro.

"Sono sepolti qui sotto", si forzò a dire.

"Fatevi da parte" la voce di Vanya fece un'eco innaturale, e lo sguardo freddo nei suoi occhi argentei gli faceva ancora correre i brividi lungo la schiena.

"Aspetta, no", latrò Diego. "Se sono qui sotto, potresti accidentalmente schiacciarli muovendo le macerie."

Gli occhi di Vanya tornarono scuri, e la sua pelle tornò lentamente alla normalità. Annuì riluttante.

"Cosa facciamo?" Klaus deglutì nervosamente.

Diego si chinò premendo un orecchio contro la superficie polverosa. "Riesco a sentire qualcosa", disse con la gola secca.

Klaus portò le mani a coppa intorno alla bocca. "Allison?" gridò. "Luther!"

Con loro sorpresa, sentirono una risposta appena udibile. Era così ovattata che Klaus non poteva nemmeno dire di chi fosse la voce.

"Ok, ecco cosa faremo", Diego si schiarì la voce alzando la testa. I suoi occhi erano cerchiati di rosso sia a causa delle lacrime per ciò che era successo, sia a causa della polvere che li invadeva, ma lo sguardo in esso era a dir poco determinato.

"Dobbiamo tirarli fuori lentamente, quindi Vanya", Diego voltò lo sguardo verso la donna fragile. "Dovrai fare molta attenzione. Io e Klaus aiuteremo a scavare se riusciamo."

"Se non dovessi sentirti bene, dovresti, sai", aggiunse velocemente Klaus. "Fermarti."

Sembrava che Vanya lo avesse a malapena sentito, annuendo invece a Diego. "Posso farlo."

Prese un respiro profondo, chinandosi lentamente a terra. Chiuse gli occhi.

Per un momento fu perfettamente tranquillo. Quando Vanya iniziò a brillare di nuovo, un rombo grave tuonò dal terreno.

I suoi poteri non cessavano mai di sorprendere Klaus. Eccola lì, la fragile, silenziosa ragazza, loro sorella.

Klaus era così orgoglioso di lei.

I frammenti dell'edificio si spostarono lentamente.

"Quanto in profondità pensi che siano?" chiese nervoso Diego.

Klaus sentì gli occhi di suo fratello su di lui.

Improvvisamente, Vanya ondeggiò di lato, barcollando mentre cercava di recuperare l'equilibrio. Un campanello d'allarme risuonò nella testa di Klaus quando notò gocce di sangue caderle dal naso.

Diego l'afferrò.

"Vanya?" chiese Klaus con voce sottile, prendendo una mano gelata fra le sue. I suoi occhi argentei tornarono al loro colore naturale, color cioccolato, e sembravano completamente esausti.

"Non può continuare", mormorò Diego, imprecando con voce greve.

"Posso farlo", insistette Vanya spingendo da parte le mani sopra di lei.

"Prima lasciami provare una cosa", Klaus deglutì. Il pensiero gli fluttuava in mente ormai da un po' di tempo. Ignorò gli sguardi interrogativi dei suoi fratelli, concentrandosi invece sul velo di morte sospeso sulla città.

Era soffocante, lasciare entrare tutto. Aveva tenuto a bada il fetore di morte con successo fin lì, ma ora Klaus lo lasciava entrare.

La morte era attratta da lui come una falena da una fiamma.

Non lo avrebbe semplicemente lasciato da solo.

I poteri di Klaus sfrigolarono quando comandò loro di obbedire al suo volere. Stava diventando estremamente più facile controllarli, probabilmente il risultato del suo lungo periodo di sobrietà.

Ci fu un respiro fresco sul suo volto.

Era un uomo alto, forse sui trenta, con un'evidente ammaccatura al cranio. Klaus mandò giù, annuendo. Un altro fantasma apparì dietro di lui, una donna che sembrava aver perso l'intera mascella. Klaus rabbrividì appena ma decise che quello non era il momento per affrontare la sua onnipresente paura dei morti.

L'energia dentro di lui si tendeva e gemeva, scivolando lungo le vene delle sue mani, quando costrinse ancora più fantasmi fuori dal velo nel mondo fisico. Klaus morse forte, guidando gli spiriti verso le macerie cadute.

Loro presero insieme le rocce, sollevandole senza una parola.

Venti fantasmi che lavoravano insieme erano meglio di tre umani.

Beh, due, dato che Vanya non era nemmeno nelle condizioni di stare in piedi

Beh, in realtà solo uno, dato che Klaus non era abbastanza forte da spostare uno qualunque di quei pesi.

"Wow", esalò Diego guardando i fantasmi lavorare. Più il tempo passava, più Klaus si sentiva nauseato.

Alzò lo sguardo al cielo incenerito. Lo spesso strato di nubi e cenere coprivano il sole. Come fossero stati sotto una gigantesca ombra.

Prese un profondo respiro tremolante. Klaus poteva fisicamente sentire la sua forza consumarsi, le ultime stille della sua energia cadono nel nulla come gocce d'acqua che viaggiano lungo il finestrino di una machina in autostrada.

Doveva fermarsi.

Klaus rilasciò gli spiriti che aveva evocato e l'unico motivo per cui non rovinò al suolo fu il fatto che Diego lo prese per un braccio e lo sorresse con una presa ferma.

"Stai bene?" chiese, preoccupato.

No.

"Sì, sto bene", sospirò adagiandosi sulle ginocchia. "È il meglio che so fare per ora."

"Ragazzi!" gridò Vanya. Klaus alzò la testa di scatto.

Era abbastanza fiducioso che non si sarebbe accasciato subito, quindi camminò verso le rovine dov'era Vanya.

Un debole, tremolante, ma inconfondibilmente udibile 'ehilà' li chiamò da sotto le rocce e i polverosi pezzi di attrezzature rotte e cemento.

"Allison?" il cuore di Klaus saltò in anticipo, artigliandosi alla speranza di vedere sua sorella viva come un'ancora di salvezza.

Si trovava in profondità – almeno quattro metri sotto di loro.

"Allison!" la voce di Vanya si ruppe chiamandola. "Stai bene?"

Klaus poté sentirla tossire da sotto il suolo. "Io e Luther stiamo entrambi bene. Siamo solo incastrati."

L'uomo si ritrovò a ringraziare la bambina in Paradiso. A ringraziarla per aver preservato le vite dei suoi fratelli ancora per un po'.

Forse abbastanza per dare loro più tempo per salvare il mondo.

"Cosa facciamo adesso?" inghiottì Vanya, i suoi occhi vagavano sui suoi fratelli.

Klaus era perplesso.

"Cos'è successo?" Diego pose la domanda che si stavano chiedendo tutti.

"Fine del mondo?" suggerì Klaus guardandosi intorno nella soffocante tempesta di calore e polvere. Udì urli di guerra da lontano.

"Klaus, Vanya", la voce di Allison li raggiunse di nuovo. Suonava fragile, ma contemporaneamente manteneva il suo tipico tono testardo. "Abbiamo bisogno anche dei vostri ricordi. Credo davvero che siamo vicini."

Diego scosse lentamente la testa. "La tua amica dottoressa è morta. Mi dispiace, Allison."

Lei rimase in silenzio, ma Klaus poté percepire il suo dolore. Turbinò in alto e lo raggiunse, lo soffocò come se qualcuno gli avesse avvolto una sciarpa intorno al collo e avesse iniziato a stringere.

"Ci inventeremo qualcosa", iniziò piano Klaus. "Ha ragione. Dobbiamo finirla. È l'unica possibilità che abbiamo."

"E se non funziona?" Diego alzò le sopracciglia.

Klaus avrebbe preferito non pensare agli 'e se', ma suo fratello glielo stava rendendo davvero difficile.

"Beh, allora siamo splendidamente fottuti."

È questo che vuoi sentire?

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"Come lo facciamo?" chiese piano Vanya. Sedeva a gambe incrociate di fronte a Klaus, che rispecchiava la sua posizione. Avevano trovato un angolo tranquillo nella città fantasma che era stata New York City.

Diego era rimasto indietro con Luther e Allison, lavorando senza sosta per liberarli dalla loro prigione. E questo l'aveva lasciata con terrificanti domande che aleggiavano nella sua testa.

Come avrebbe ricordato Cinque?

E avrebbe almeno aiutato in alcun modo?

Tutto questo stava almeno facendo qualcosa?

Era finalmente la fine?

"Vanya."

Una voce penetrò i suoi oscuri pensieri, chiara come il sole. Aprì gli occhi sorpresa. Quella non era la voce di Klaus.

Quello era...

(Harlan.)

Vide il suo cane prima di vedere lui. Il collie corse verso di lei con gli occhi brillanti, abbaiando in saluto come fossero vecchi amici.

A Klaus cadde la mascella. "Un cane?"

Gli occhi di Vanya pizzicavano. Il suo sorriso si allargò. "È Harlan", riuscì a dire debolmente.

"Il cane è Harlan?" fece suo fratello, gli occhi spalancati.

Lei scosse la testa sorridendo.

La vecchia figura barbuta di un uomo apparve dal fondo del vicolo ombroso e pieno di polvere in cui sedevano.

"Credo che a voi due possa servire aiuto."

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Klaus non sapeva molto del ragazzino a cui Vanya aveva badato durante la sua permanenza alla fattoria di Sissy, ma sapeva che condividevano un legame speciale.

Averlo lì, ora, nel momento del bisogno, mentre il tempo si disfaceva tutt'intorno a loro...

Dal canto suo, era stato nientemeno che un miracolo. E di solito, i miracoli non accadevano. Non nella sua vita.

Klaus osservò Vanya abbracciare Harlan, e lui le colpì lentamente la schiena.

"Non abbiamo un secondo da perdere", la sua voce risuonava serena nella sua testa. "Klaus, tu per primo."

Il suo buon umore precipitò all'istante.

Sarebbe stato ben lontano dal piacevole.

"Sono pronto", deglutì.

(Non sono pronto.)

 

 

"Chiudi gli occhi."

Klaus lo fece.

"Conta fino a cento."

Klaus lo fece.

"Ascolta il rumore del tuo cuore che batte."

Klaus lo fece.

Attese che il suono ritmico del battito del suo cuore venisse interrotto dalla voce di Harlan nuovamente, ma non accadde.

Klaus aveva la scomoda sensazione di essere guardato, ma si rifiutò di aprire gli occhi.

Invece, contò i suoi respiri.

Arrivò a cento.

Qualcuno sussurrava il suo nome.

Non era Harlan.

Klaus avvertì le sue mani farsi sudate mentre un brivido gli risalì la spina dorsale.

C'era qualcuno lì con lui. Dentro la sua stessa testa.

"Papà?" tentò, fissando il buio.

(No. Non è lui.)

Era qualcosa di molto più sinistro.

Klaus sentì qualcosa arrivargli incontro dall'abisso.

Qualcuno, piuttosto.

Klaus lo ricordava. Erano gli occhi.

C'erano voluti anni di terapia per dimenticare quegli occhi.

Le iridi erano nere come la pece. Completamente prive di luce – come quelli di un grande squalo bianco. Gli trapanavano l'anima, divorando voracemente l'innocenza che vedevano, e Klaus si sentiva come se stesse annegando.

Sentì le sue stesse grida di aiuto.

"Klaus. Hey. Sono io."

Il suo cuore saltò un battito. Poi un altro.

"Cinque?"

"Sì. Scusa se ci ho messo tanto. Ho cercato il film che volevi, ma non l'ho trovato. Mi dispiace. Ho preso questo invece."

Klaus vide il volto di suo fratello nel buio, illuminato dai raggi della torcia. Il film che aveva rubato era Edward mani di forbice. Gli occhi verdi di Cinque scrutarono Klaus dall'alto in basso, osservando preoccupati la sua figura tremante.

(È... davvero bello vederti.)

Il lettore multimediale tascabile di Cinque tornava utile in quei tempi. Klaus si concentrò sul piccolo schermo invece che sulle vuote, fredde pareti del mausoleo.

"Grazie per essere venuto, Cinque", sussurrò Klaus, un groppo pesante cresceva nel suo petto.

"Sempre."

"Bene. Trova qualcos'altro. Non fermarti finché non ricordi tutto."

Klaus aveva quasi dimenticato di stare cercando ricordi.

"Ho ingoiato un seme di mela!" si sentì tossire.

"Oh mio Dio", sussultò Diego. "Lo sai che ti crescerà nello stomaco, vero?"

"Non è vero!" udì una voce che sapeva appartenere a Cinque. "Servirebbero acqua, terreno, luce solare e ossigeno."

"Beh, Klaus respira, ed è ossigeno", Diego lo guardò pensieroso. "Beve l'acqua. Fatto. Ogni volta che apre bocca, la luce entra. Fatto. E invece del terreno, userà semplicemente le sue interiora!"

"È per questo che vi serviva il mio aiuto per passare il test di biologia che papà ci ha fatto fare-"

Klaus sorrise affettuosamente.

Ma non era di questo che aveva bisogno.

Seduto al buio, sentì una musica.

Era Vanya che suonava il suo violino. Il suono era debole, la melodia smorzata dal muro frapposto tra lei e Klaus.

Stava seduto per terra, ai piedi del suo letto, guardando dritto in avanti e ascoltando il violino.

Klaus era triste. Non ricordò perché, inizialmente.

Udì un suono acuto come di strappo, uno che aveva già dimenticato.

Come avrebbe potuto dimenticare quel suono?

Era Cinque. I suoi poteri facevano sempre quel rumore buffo ogni volta che li usava.

Il ragazzo sedette accanto a lui, uno sguardo interrogativo negli occhi.

Cinque aveva sempre capito i suoi fratelli meglio degli altri. "Cosa c'è che non va?"

Klaus gli lanciò un'occhiata con nonchalanche. "Lascia stare."

"No. Dimmi."

Sospirò. "Qual è il punto?"

"Sei scosso. Magari posso aiutare."

Klaus chiuse gli occhi, un sorriso gli si dipingeva in volto. Sì, era Cinque. Conosceva quel ragazzino come il palmo della sua mano. Meglio di quanto conoscesse se stesso.

"Ho visto questo... cane. Quando stavamo tornando dalla missione oggi. Sembrava vecchio e malato, e come se fosse ferito. Volevo fermarmi e aiutarlo, ma papà non me lo ha permesso. Ha detto che c'erano cose migliori da fare con il mio tempo."

Klaus deglutì. Si ricordò del piccolo patetico episodio – il cane era vecchio, il suo pelo era intriso di sporcizia e i suoi occhietti luccicanti lo fissavano.

Aiutami, pregavano.

Cinque rimase silenzioso per un po', guardando il suo orologio. "Andiamo allora."

Klaus si accigliò. "Come?"

"Per quanto ne sanno mamma e papà, stiamo dormendo adesso. Su, forza. Andiamo a cercare il cane."

"Sul serio?"

"Shh", Cinque lo zittì rapidamente.

"Scusa."

I due ragazzi sgattaiolarono nel corridoio. Probabilmente anche Pogo stava già dormendo, e la mamma sarebbe stata nel suo solito posto, a guardare i quadri.

Papà sarebbe stato nel suo studio.

I loro passi non fecero rumore. Cinque recuperò un paio di torce dallo sgabuzzino al piano di sotto, e invece di usare la porta principale, uscirono dalla finestra che dava sul giardino.

La pioggia battente si era placata in una pioggerella costante.

"Dove l'hai visto?" chiese Cinque mentre si arrampicavano dall'altra parte della recinzione che circondava casa loro.

"Era in un vicolo. Tipo a un miglio da qui, credo."

"Meglio andare, allora."

 

(Oh. Ti prego, torna. Ti prego, stai bene.)

 

Gli occhi di Klaus pungevano.

 

Ricordava. Ricordava tutto.

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La pelle sui palmi di Diego era rotta e sanguinante dagli angoli ruvidi delle rocce che aveva spostato. Il suoi muscoli dolevano.

Allison e Luther erano ancora bloccati. E avevano bisogno di lui.

Diego pregò che Vanya e Klaus potessero finire quello che avevano iniziato, e magari sistemare questo incubo.

Un grido selvaggio arrivò dalle vicinanze – molto più vicino di quanto Diego trovasse sicuro.

Poi un altro.

Tirò su col naso, gli occhi rastrellavano la polvere.

Poi li vide.

"Fottutamente grandioso", imprecò Diego, decisamente incazzato a causa dell'esaurimento sia mentale che fisico.

"Proprio quello che ci serviva. Siano maledetti gli Indiani sopra ogni cosa."

Si nascose dietro la roccia più vicina e disse ad Allison e Luther di fare silenzio mentre passavano.

Gli occhi di Diego seguirono gli uomini con lance ed archi, vestiti in pelli di animali e le piume nei capelli.

Che momento per essere vivi, pensò.

"Diego", la voce di Luther sibilò da sotto di lui.

"Shhh", lo zittì.

"Diego."

"Cosa?"

"Allison è diventata una bambina."

Diego fece fatica a stare dietro a quello che Luther stava dicendo, mentre il gruppo di Indiani che strisciavano intorno a pochi passi da lui iniziavano a scontrarsi con i soldati dell'armata continentale, che era appena apparsa dal nulla.

Che momento per essere vivi, davvero.

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A Vanya faceva male la testa, ma la voce di Harlan nel suo cranio era come una secchiata d'acqua fresca sulla pelle, rinvigorente.

"Il tuo legame con Cinque è più forte di quello di chiunque altro. Se qualcuno può aprire la fessura fra la realtà e ciò che è stato dimenticato, sei tu."

Vanya prese le sue parole e ci si aggrappò, le tenne strette contro il suo cuore impazzito.

I suoi fratelli contavano su di lei. Contavano sul fatto che lei potesse in qualche modo riportare indietro loro fratello.

Era nuovo per lei. Per tutta la vita era stata costretta a sentirsi insignificante. Come se non importasse cosa facesse, cosa pensasse, o cosa volesse.

Non più.

Vanya si morse il labbro e cercò di rilassare i muscoli tesi.

Si concentrò su regolare il battito irrequieto del suo cuore.

"Scopri cosa significava lui per te."

(Non mi ricordo neanche che faccia ha.)

La consapevolezza le fece pulsare dolorosamente il cuore nel petto.

"Vanya. Tu devi ricordare."

Trasse conforto dalla sua voce e ingoiò una boccata d'aria.

Poteva farcela.

Vanya cercò di pensare a una melodia – qualcosa che faceva spesso quando aveva attacchi di panico. Merry go round of life fu il primo pezzo a venirle in mente. Lo mormorò nella sua testa, impedendo ai suoi pensieri di divagare.

Vanya sentì il suo cuore rallentare. Il suo battito si fece pigro.

Il tocco del cane di Harlan sulla sua mano le diede conforto.

(Non sei più da sola, Vanya.)

Era vero.

Vanya aprì gli occhi. I suoi fratelli erano tutti riuniti per il pasto. Sedeva davanti a suo padre.

C'era silenzio.

Sembravano tutti così giovani. Non dovevano avere più di tredici anni.

Vanya sussultò al rumore improvviso di un coltello piantato nel tavolo. Girò la testa per vedere un ragazzino seduto accanto a lei.

Capelli scuri, zigomi prominenti, occhi verdi scintillanti di sfida.

Ma certo. Avrebbe riconosciuto quel volto ovunque.

Era Cinque. Il fratello che c'era sempre stato per lei. Che sedeva nella sua stanza e le teneva la mano ogni qualvolta il padre diceva qualcosa che la faceva piangere. Che ascoltava ogni nuovo brano musicale che imparava. Che la stava a sentire quando aveva bisogno di parlare con qualcuno.

Oh, dio.

La bile le risalì in gola.

(Come ho potuto dimenticare?)

(Come ho potuto?)

"Voglio viaggiare nel tempo!"

"No."

Vanya sentì la vecchia, familiare ansia raggiungere il suo picco nel petto mentre seguiva con gli occhi suo fratello. Sapevano tutti che non era una buona idea fare a testate con papà, ma Cinque l'aveva sempre fatto più di tutti loro.

Li guardò discutere. Guardò come i suoi occhi guizzarono per incontrare i suoi, cercò di scuotere leggermente la testa, lo pregò senza parole di fare marcia indietro.

Non lo fece.

"Numero Cinque!"

Quando la diga dei suoi ricordi fu aperta, non ci fu modo di fermarli.

Nessun modo di fermare i suoi ricordi, le notti insonni ad aspettare e sperare per il suo ritorno.

Dopo che Cinque se ne andò, Vanya era rimasta sola.

Tanto, tanto sola.

Condivideva la casa con altre nove persone, eppure era sicura di essere la persona più sola del mondo.

Dopo che Cinque se ne andò.

(Perché te ne sei andato?)

Il petto di Vanya doleva per la forza dei singhiozzi. Non poteva fermarli.

Da qualche parte in lontananza sentiva la voce di Klaus, parlava in un tono pacato e calmante, le mani prendevano le sue.

"Vanya, non abbiamo tempo!"

Ricordava la rabbia.

"Perché mi ascolterai."

Ricordava il sangue.

"Mi devi un favore, sorella."

Lui sorrideva.

Ricordava l'amore.

 

Vanya sussultò in cerca di aria. Batté rapidamente le palpebre nell'oscurità, aspettando che gli occhi si abituassero al cambio di scenario, lontano dai colori sgargianti nella sua testa.

Lo sentì. Il suono le ricordava elettricità difettosa.

Vania si voltò. Era così piccolo, così fragile.

E i suoi occhi. Dio, i suoi occhi.

Luce blu danzava nelle loro profondità, ancora incapaci di celare il dolore e la sconfitta.

"Tu mi conosci."

Sembrava così sollevato.

(Ti conosco.)

"Il tempo sta solo provando a sistemarsi. Mi sta... cancellando."

(No, no, no.)

Nulla. La sua testa urlava.

(Non puoi fermarlo?)

I suoi polmoni si rifiutarono di espandersi.

"Mi dimenticherai."

(No, non lo farò. Non lo farò. Non lo farò, non lo farò, non lo farò-)

"Vanya, lo farai."

(Ti prego, non andare.)

"Ricorda."

(Ricordo.)

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Cinque aveva nuotato dentro e fuori il flusso di coscienza per quello che presumeva essere un lungo tempo. La sua linea temporale non doveva essere molto lontana dall'essere cancellata.

Non doveva mancare molto, ormai. Presto se ne sarebbe andato.

Almeno era quello che sperava. Non c'era motivo di esistere così.

Non era altro che l'ombra di un ricordo.

Cinque non era sicuro se fosse mai tecnicamente esistito.

(Penso. Dunque sono.)

Giusto?

La sua esistenza era diventata di una sfumatura fangosa di grigio. E così sedette nei polverosi resti di una camera che un tempo era sua.

Aspettando.

Che cosa?

Risoluzione? Morte? La liberazione dal suo tormento?

Chi lo sapeva.

Giunse al termine quando una luce blu inondò la stanza, spazzando via il grigio infinito.

Cinque aprì gli occhi.

Stava succedendo qualcosa.

Confuso, si guardò intorno per vedere da dove venisse la luce.

Oh, quella familiare luce blu elettrico. Pensava di non vederla mai più.

La porta della sua stanza era aperta.

Cinque si mise in piedi e camminò fino alla porta che prima era il passaggio per un abisso infinito.

Quel che vide allora fu molto per il suo cervello da elaborare.

L'abisso era ancora lì. Ancora soffocante con la sua presenza, spingendosi dai lati, minacciando di divorare ogni cosa nelle fauci del vuoto.

Ma proprio davanti a lui, fluttuante nell'abisso e disteso attraverso di esso, fino a perdita d'occhio, v'era qualcos'altro.

Era come una galassia fatta di filamenti vivi, palpitanti. Stranamente, ricordavano a Cinque delle meduse, fluttuanti nel vasto vuoto dell'oceano infinito, bellissimo e fragile e alieno.

Cinque sapeva cos'era. Ovviamente lo sapeva.

Non si sarebbe mai sognato di vedere il vortice del tempo come una manifestazione fisica dal momento che non doveva essere possibile.

Tante cose sembravano non avere senso in quei giorni.

Era piuttosto bello, pensò Cinque.

Ma c'era anche qualcosa di sbagliato in esso. Le estremità dei sottili filamenti brillanti di energia sembravano decomporsi, scurendosi rapidamente.

Cinque richiamò alla memoria una cosa che gli aveva detto Klaus al telefono.

La linea temporale sta collassando. Hai sentito, Cinque? Il mondo finisce di nuovo.

(Sì. Ho sentito.)

Crederlo ed effettivamente vederlo accadere davanti ai suoi occhi erano due cose diverse.

La luce blu emanata dai ciuffi di energia sfarfallava in alcuni punti.

("Cinque, stai... sfarfallando.")

Era ciò che gli aveva detto Vanya quando era scomparso all'inizio.

Come e perché quella porta era aperta?

E come poteva essere così vicino al vortice temporale da poterlo quasi toccare?

Cinque deglutì, un brivido corse lungo la schiena.

Come sarebbe stato toccare il tempo? Sapeva che il suo corpo era capace di manipolarlo, correrci attraverso come passeggero.

Ma questa era una situazione innaturale. Non doveva accadere. Mai.

Era... apocalittico.

Un'idea pazza gli balenò in mente.

Un'idea che più probabilmente lo avrebbe finito una volta e per tutte. O, se era fortunato... avrebbe solo potuto funzionare.

Cosa c'era nel corpo di Cinque che lo rendeva suscettibile al tempo? Cos'era che lo rendeva capace di fare le cose che faceva?

Per alcuni secondi, fu quasi deluso che loro padre non avesse ritenuto necessario condurre esperimenti genetici o altrimenti dissezionarli.

Cinque strinse i pugni.

(Cosa dovrei fare, Dolores?)

Gli mancava terribilmente. Si chiese cosa stesse facendo in quel momento.

Probabilmente si godeva la compagnia delle sue amiche. Indossava qualche nuovo adorabile abito che le stava alla perfezione. Silenziosamente giudicava i passanti. Si chiese... anche Dolores lo aveva dimenticato?

Cosa avrebbe detto se fosse stata lì con lui?

Cinque guardò il vortie davanti a lui, trattenendo il respiro.

Passò una breve eternità, e semplicemente lo guardò. Così splendido, così volatile.

Doveva andare.

Cinque era terrorizzato, ma lo fece comunque.

Saltò di testa nella vorticosa corrente blu.

Il suo ultimo pensiero fu per Dolores.

(Dio, non vedo l'ora di rivederla.)

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Era il 1993. Londra Est.

La residenza apparteneva a Ronnie e Anita Gill.

Il ricordo era stato precedentemente confuso nella sua mente. Represso in fondo, come la maggiore parte dei suoi successi. Gli piaceva distaccarsi dagli orrori che la Commissione gli aveva fatto commettere.

(Dio. Le cose che ho fatto.)

Non era mai stato quello che intendeva diventare.

Cinque si rivide estrarre la pistola. Vide Handler aspettare nella macchina fuori.

Sapeva cosa sarebbe successo dopo. Avrebbe premuto il grilletto, ucciso entrambi all'istante.

Solo... che non lo fece.

Qualcuno fece irruzione dalla porta, e Cinque si guardò voltarsi scioccato.

Lila.

Sembrava più vecchia. Molto più vecchia. Doveva essere sui cinquanta. Aveva una brutta cicatrice su un occhio, e i suoi capelli erano raccolti in una lunga coda disordinata.

I suoi occhi ardevano di dolore e rabbia.

Balzò in avanti e calciò il vecchio uomo allo stomaco.

Inciampando, cercando di adattarsi alla nuova inaspettata svolta degli aventi, Cinque riprese l'equilibrio e sparò un colpo nella sua direzione generale.

Lila era veloce. Cinque non mancava spesso il colpo.

Cinque saltò per mettere distanza fra i due – per avere una migliore possibilità di mirare bene a lei e colpirla.

Lila copiò la sua abilità. Apparve dietro di lui.

Cinque estrasse un coltello.

Riuscì a ferirla a un braccio.

Cinque mirò alla gola. Lila rifletté il suo attacco con un forte pugno allo stomaco.

Prese il manico del coltello, cogliendo la piccola frazione di un'opportunità.

Il coltello affondò nel cuore di Cinque.

Ci fu silenzio. Lila lo guardò scioccata.

Non aveva intenzione di fare questo.

Cinque cadde al suolo senza tante cerimonie.

Il suo sangue era talmente scuro da sembrare nero.

Handler irruppe dalla porta.

Una bambina aprì la porta dello stanzino dietro la quale si nascondeva.

Una luce blu inglobò la scena, divorando tutto nel suo cammino.

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Il tempo era un elemento delicato. Non era fatto per giocarci.

Questa era la radice del problema, realizzò Cinque. Un paradosso così grande da spazzare via chiunque coinvolgesse, causando così una reazione a catena. Se non c'era nessuna Handler, nessun Cinque, nessuna Lila, ovunque nella linea temporale...

Sarebbe collassato tutto. Senza i pilastri di supporto che una volta reggevano la fragile struttura del tempo, andava tutto a scatafascio.

(Adesso capisco.)

Ma Cinque poteva sistemarlo, giusto?

La linea temporale aveva rimosso tre persone. Tre persone importanti. Non sarebbe dovuta rimanere memoria di loro.

Solo che c'era. Cinque era lì, Dio sapeva come. La tempesta del vortice non lo aveva ancora distrutto.

C'era ancora una possibilità.

Il ricordo di Handler e Lila sarebbe dovuto essere sufficiente per riportarle indietro. Si ricordava di loro. Doveva bastare, no?

Cinque era una creatura del tempo. Il suo corpo era in grado di viaggiare attraverso ogni possibile istanza temporale. Dove voleva nel mondo. Quando voleva nella storia. Quando voleva nel futuro.

Cinque poteva esistere ovunque contemporaneamente.

Il vortice lo aveva accolto come un vecchio amico. Indossava bene il tempo.

Handler vi apparteneva.

I filamenti anneriti tornarono pian piano blu.

Lila vi apparteneva.

E Cinque...

Anche Cinque vi apparteneva.

Era quasi magico. Il modo in cui il tempo gli obbediva come un segugio addestrato.

Non aveva mani, niente dita. Niente gambe.

Il tempo stesso era il suo corpo.

La linea temporale, precedentemente trivellata di buchi come un favo, si stava riempiendo mentre le persone mancanti tornavano al loro posto.

Un ricordo era tutto quello che serviva. Qualcuno che ricordasse.

Cinque trovò la sua famiglia. Erano nei guai – l'ultimo posto in cui li trovò era una New York divisa in due, con l'apocalisse da un ramo abortito del tempo da una parte, e l'Era glaciale dall'altra.

Poteva distendere i filamenti con il solo pensiero. E ben presto, il tempo stava quasi distendendosi da solo.

Serviva soltanto un cenno nella giusta direzione.

Cinque esitò un momento. I suoi fratelli. Non avrebbero apprezzato che gli venissero rubati i ricordi.

Doveva essere concesso loro di conservarli.

Questo ramo del tempo non era stato scritto, così Cinque strappò per loro un portale nel tessuto temporale. Tutto quello che dovevano fare era saltarci attraverso.

Cinque si assicurò che arrivassero sani e salvi.

Niente più sangue.

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Vanya non ci credeva. Un'improvvisa risata senza fiato le sfuggì dal petto. Un luminoso portale blu si era aperto al limitare del vicolo.

Cinque ne sarebbe uscito. Vero?

Doveva farlo.

"Quella porta non è per Cinque", le disse Harlan dolcemente. "Quella è per voi."

"Per noi?" ripeté Vanya, confusa. Scambiò uno sguardo con Klaus, la sua esitazione rispecchiava quella nei suoi occhi.

"Vi porterà a casa. Lo prometto."

È da pazzi, pensò Vanya.

Ma come poteva non fidarsi di Harlan?

Klaus avvolse la mano intorno alla sua senza parole.

"Insieme", mimò. I suoi occhi verdi erano dolci. Gentili.

Vanya sorrise, un senso di gratitudine le riempiva il cuore. Raramente il mondo era stato gentile con lei.

(Grazie.)

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Cinque si assicurò che la linea temporale sulla quale aveva lavorato duramente per preservarla fosse sul suo giusto percorso. Aveva quasi rischiato di spedire i suoi fratelli in una linea temporale in cui loro padre aveva adottato un mucchio di bambini diversi e li aveva chiamati Sparrow Academy.

Sarebbe stato un errore madornale.

Il flusso del tempo nel vortice si era ridotto da una furiosa tempesta ad una calma corrente.

Proprio come doveva essere.

Ma prima che potesse tornare a casa, c'era un'altra cosa che doveva fare.

Londra Est, 1993. Cinque trovò se stesso nel vicolo ciottolato, proprio di fronte alla porta che conduceva alla residenza dei Gill.

Provò a materializzarsi, ma il meglio che riuscì a fare fu una vaga figura di ragazzino interamente consistente di energia blu. Sarebbe andato bene.

Lila apparve da dietro l'angolo. Sudava, correndo verso la porta come se la sua vita fosse dipesa da questo.

I suoi occhi atterrarono sulla massa di luce che le bloccava la strada. Si fermò.

Cinque allungò un braccio verso di lei. Vide la sua luce riflessa nei suoi enormi occhi scuri.

Nessuno di noi dovrebbe essere qui.

Cinque la portò in un luogo che sperava di non dover più visitare.

La prigione dove la Commissione teneva tutti i terroristi del tempo non era un luogo felice. Massima sicurezza era un termine eufemistico per quel posto.

Solo essere lì metteva Cinque a disagio. Aveva messo un sacco di persone dietro le sbarre.

Cinque congelò il tempo per tutti tranne due guardie, che stavano di guardia al blocco Uno.

Lo fissarono con occhi enormi e terrorizzati, osservando la sua forma luminosa allarmati.

"Questa è la persona responsabile del più recete, e più severo caso di terrorismo temporale nella storia della Commissione", la voce di Cinque suonava distorta alle sue stesse orecchie. "Ogni singolo direttore confermerà la mia storia. Chiedete. Rinchiudetela."

Le guardie non proferirono parola, ma dopo alcuni secondi di contemplazione, iniziarono ad annuire furiosamente. Cinque volle che il flusso del tempo tornasse alla normalità, e così fu.

Lila batté le palpebre rapidamente, voltando la testa da una parte all'altra in confusione.

Fissò l'apparizione di fronte a lei a bocca aperta. Lasciò addirittura che gli uomini l'ammanettassero.

Il lavoro di Cinque era finito. La linea temporale sarebbe stata bene adesso.

Poteva finalmente tornare a casa.

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Era il 7 Aprile.

Vanya si ritrovò nel salotto soleggiato all'accademia.

Luther, Diego, Allison e Klaus erano tutti lì con lei. Si guardarono l'un l'altro, confusi e in allerta, ma... speranzosi.

Vanya la vedeva nei loro occhi.

Speranza.

Cos'era successo? Era tutto ok?

"Ce l'abbiamo fatta?" Diego fu il primo a parlare.

"Dev'essere così", Luther rise nervosamente. "Voglio dire, Allison è tornata normale."

"Tornata normale?" lei alzò un sopracciglio. "Che vuoi dire?"

"Uhm", Luther sembrava leggermente costipato. "Eri diventata una bambina."

"Cosa?"

"Ragazzi!" gridò Klaus. "Dobbiamo averlo sistemato! Ricordiamo Cinque, e ora tutto sembra di nuovo normale."

"Sono d'accordo" mormorò Vanya, sbirciando il cielo dalla finestra più vicina. "Niente pterodattili."

"Ok", annuì Allison. "Allora... dov'è Cinque?"

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Cinque aprì gli occhi di scatto, e respirò pesantemente mentre riconosceva l'ambiente circostante.

(Oh, Dio, no. Per favore, no.)

L'ansia schizzò nel suo petto con forza soffocante.

Non quella stanza. Tutto ma non quella maledetta stanza. Si era perso in quella stanza.

Ma... c'era la luce del sole. Filtrava all'interno dalla piccola finestra. I raggi illuminavano metà del telefono sciolto appeso al muro.

(Io... ce l'ho fatta?)

Cinque si mise in piedi, poggiò la mano tremante sulla maniglia.

(Ce l'ho fatta, non è vero?)

Aprì la porta.

Un'onda di sollievo lo investì con una forza talmente travolgente che dovette fare un passo indietro e reggersi sulle ginocchia.

Cinque rimase lì. Solo respirando.

Per curiosità, provò di nuovo a piegare il tempo al suo volere. Era stato così semplice, così naturale quando era un tutt'uno con il vortice.

Ora? Niente.

Le redini del flusso temporale non appartenevano a nessuno.

E Cinque era a casa.

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La domanda di Allison galleggiò per aria.

Dov'era Cinque?

"Proviamo in camera sua, magari?" suggerì Klaus con voce tremante.

Vanya non si sentiva a suo agio con il fatto che il loro fratello perduto non si vedesse da nessuna parte.

Sicuramente doveva essere lì. Sicuramente avevano sistemato tutto ora.

Sicuramente stava bene.

(Ti prego. Fa che sia ok.)

"C'è nessuno?"

Il suo cuore mancò un battito.

La voce era debole, veniva dalla direzione della scalinata principale. Probabilmente dal secondo piano.

Eppure, il riconoscimento e il sollievo riscaldò i loro volti con sorrisi luminosi. Vanya fu la prima a correre attraverso la porta.

Inondando l'atrio, si affacciarono sulle scale in anticipo.

Vanya non si azzardava a battere ciglio. Aveva il sole negli occhi, ma non le importava.

(Avanti, Cinque.)

E poi lo videro. Tutto pelle e ossa, grandi occhi verdi, pelle pallida, un ciuffo di capelli scuri. Proprio come il giorno in cui scomparve.

(Grazie. Grazie, grazie, grazie. Chiunque si occupi dei miracoli, grazie.)

Cinque sorrise. Vanya singhiozzò quando lo schiacciante senso di sollievo la investì, e fece un passo avanti.

Cinque fu più veloce. Saltando per azzerare lo spazio fra loro, avvolse le braccia intorno a lei, e lei poté sentirlo proprio lì, e lui stava bene e respirava ed era così, così reale-

Sentì Klaus e Allison unirsi all'abbraccio, sentì i battiti dei loro cuori contro il suo corpo, e presto li raggiunsero le braccia forti e ferme di Luther e Diego.

Vanya seppellì il volto nell'incavo del collo di Cinque e non lo lasciò andare.

"Non farlo mai più", soffiò. "Hai capito?"

"Non lo farò."

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Klaus non era stato così felice per molto, molto tempo.

Stavano tutti bene. Erano a casa. Cinque era proprio lì, e sentiva il suo corpo contro il suo.

Reale, vivo, salvo.

Ma quando mai queste cose duravano, comunque?

Successe molto in fretta. Klaus riuscì a malapena a sentire qualcosa, ma si artigliò il petto in confusione lo stesso.

Non sentì niente quando cadde a terra.

Era una sensazione stranamente familiare. Non si sentiva così intorpidito da lungo tempo.

Klaus era confuso. Poteva sentire Allison urlare qualcosa, Diego scuoterlo, ma registrava tutto a malapena.

L'oscurità lo inghiottì, accogliendolo come fosse un vecchio amico.

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Klaus si trovava in una spiaggia.

Batté le ciglia confuso, guardando i gabbiani volare sulla sua testa nel limpido cielo blu.

Era il paradiso?

"Ciao, di nuovo", lo salutò una voce.

Klaus si alzò veloce, scrollandosi la sabbia dai vestiti. "Che cosa vuoi?"

Osservò sospettoso la ragazzina.

"Volevo parlarti", gli rispose con un'alzata di spalle.

"Ho un telefono, sai", mormorò lui imbronciandosi. "Non c'è bisogno di uccidermi ogni volta che vuoi chiacchierare."

La bambina agitò una mano. "Volevo ringraziarvi. Per aver preservato la linea temporale. Sarebbe stato... alquanto spiacevole se la mia creazione fosse stata annullata in quel modo."

Klaus si accigliò interrogativamente. "Ma eri d'accordo per le altre due apocalissi? E perché prendere me? Ho cinque fratelli!"

"Un'apocalisse è diverso dalla distruzione dell'intero flusso del tempo", rispose, alzando il mento. "Avrei potuto sistemarlo da sola, ma ero... indaffarata."

"Indaffarata..." ripeté Klaus beffardo, ma trattenne la lingua. "Sì. Nessun problema."

"E ho scelto te perché abbiamo una storia", alzò le spalle. "Niente di personale. Non mi piaci tu nello specifico, o niente del genere."

"Oh, grazie."

"Comunque", si schiarì la gola lei, imbastendo un sorriso. "Ho sentito che è comune nella razza umana dimostrare gratitudine in forma di un presente."

Klaus strinse gli occhi. Quello non se lo sarebbe di certo aspettato.

"... Sì?"

"Beh, desidero darvi un regalo. Uno che faccia sentire apprezzata tutta la tua famiglia", la bambina parlò velocemente. "Qualcosa del genere. Cosa vorresti?"

"Possiamo avere qualsiasi cosa?"

"Qualsiasi cosa."

Klaus deglutì nervosamente. Perché doveva essere lui in una situazione come quella? Le grandi decisioni non erano il suo forte, e certamente non voleva prendere decisioni per la sua intera famiglia.

Pensò di chiedere niente più apocalissi. Pensò di chiedere di essere tutti felici per il resto delle loro vite. Magari che tutti trovassero l'amore.

Nessuna di esse sembrava giusta.

"Allora?" chiese impaziente la ragazzina.

"Ben."

"Scusa?"

"Ben. Nostro fratello. Puoi riportarlo in vita?" Klaus la guardò dritto negli occhi.

I suoi occhi sembravano appartenere ad un umano, ma più lui guardava, più incongruenze scorgeva. Segreti e antica saggezza più profondi degli oceani nuotavano in essi, guardandogli attraverso. Soprattutto, mancavano di compassione. Mancavano di calore.

"Perché?" chiese lei infine. "Voglio dire... Posso, ma potrei chiedere il motivo?"

Klaus era sconcertato. "Cosa vuol dire, perché? È nostro fratello. È morto quando aveva quattordici anni poi ha passato il decennio successivo a seguirmi in giro come fantasma. Meritava di più."

"Meritava di più", ripeté lei, ma non sembrava che avesse capito cosa intendesse.

Klaus fece una pausa, inspirando a fondo. "Lo rivoglio indietro perché è mio fratello e gli voglio bene."

"Gli vuoi bene", disse lentamente la bambina, come testando le parole nella sua bocca. "Amore."

"Sai cos'è l'amore?" chiese Klaus. Era quasi certo di sapere la risposta.

La ragazzina lo guardò con espressione interrogativa ma non rispose.

"Klaus?"

(Oh.)

Chiuse gli occhi per mezzo secondo, grato di poter sentire di nuovo la sua voce.

"Ehilà, Ben."

Klaus si girò. Suo fratello stava in piedi davanti ai suoi occhi, indosso la giacca di pelle, suo marchio di fabbrica, gli occhi si guardavano intorno sulla spiaggia confusi.

"Uhm... sei morto anche tu?"

"Nah, nah", scosse la testa. "Solo in visita."

"Quanto è passato per te?" chiese Ben a disagio.

"Vediamo – è il 7 Aprile. Circa le due e un quarto del pomeriggio, se non erro", mormorò Klaus, rifiutandosi di chiudere gli occhi davanti a Ben.

Il momento non sarebbe durato. Avrebbe resistito fintanto che avrebbe potuto. Non si sarebbe perso un secondo.

"Cinque è stato cancellato dalla linea temporale, il che ha causato un'altra apocalisse", Klaus alzò le spalle. "Ma è a posto adesso. Lo abbiamo riportato indietro. Sembra che abbiamo sistemato le cose."

"Fico", annuì Ben, spostando il peso da un piede all'altro. "Cosa ci facciamo qui?"

"Chiedilo a lei", Klaus fece un ceno verso la bambina, che portò lo sguardo su Ben.

Ci fu un momento di silenzio, mentre i fratelli aspettavano che lei parlasse.

"Vorresti essere di nuovo vivo?" chiese infine. Ben sgranò gli occhi.

"Uh", balbettò, apparentemente faticando a trovare una risposta appropriata.

Per favore, di' di sì, pregò Klaus mentalmente. Ben ricambiò il suo sguardo, gli fece un piccolo sorriso.

"Cioè... Suppongo."

"È un sì?" la bambina iniziò a suonare impaziente.

"Uhm... sì?"

"Grande. È deciso allora."

Schioccò le dita. La spiaggia scomparve.

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"Non sta respirando!"

"Non sta succedendo davvero-"

"Dobbiamo iniziare le compressioni-"

"Il cuore si è fermato!"

Klaus annaspò, gli occhi spalancati.

Si scontrò con le tracce di lacrime, i volti confusi dei suoi fratelli su di lui. Vanya lo fissava con uno sguardo distrutto, le ciglia incollate dalle lacrime.

Gli spezzò il cuore.

"Cosa-"

"Woah", Klaus si sentiva la gola secca. "Ragazzi, non indovinerete mai cos'è appena successo."

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"Sicuro di stare bene?" Cinque si accigliò vedendo Klaus leggermente stordito, il quale ricambiò lo sguardo.

"Io? Sto bene. Tu piuttosto?"

"Sì, sto bene."

"Klaus!" Diego gli afferrò le spalle e lo fece girare finché non furono faccia a faccia. I suoi occhi erano induriti di preoccupazione.

"Che è successo?" chiese, lento e chiaro.

Klaus prese un respiro profondo. "Dio voleva parlare con me. Era grata perché abbiamo impedito che il flusso temporale esplodesse, e voleva farci un regalo."

Ciò che seguì furono forse i dieci secondi di silenzio più imbarazzanti della vita di Klaus.

"Vuoi dirci che hai parlato con Dio?"

"Lei?"

"Quale regalo?"

Klaus li zittì furiosamente. "Silenzio! Il punto è che ha detto che poteva darci qualsiasi cosa. Così ho chiesto di ridarci indietro Ben."

"Sei pazzo," disse Luther con fare ovvio, come se fosse appena giunto alla conclusione.

"Non scherzare" mormorò Cinque.

"Sei fuori, fratello", Diego scosse lentamente la testa.

Klaus era, certamente, abituato al fatto che i suoi fratelli non prendessero sul serio una parola di quello che diceva. Non poteva proprio biasimarli – il più delle volte sparava cazzate – ma quando si trattava delle sue abilità, tendeva a dire la verità.

Non era colpa sua se aveva una relazione ridicolosamente intima con l'aldilà.

"Ok, quindi dov'è?" Allison alzò un sopracciglio. "Ci ha dato indietro Ben. Dov'è?"

Questa era totalmente un'altra domanda.

Klaus temette all'improvviso di riavere Ben come un quattordicenne.

"Oh, mio Dio" esalò. "Voi pensate che potrebbe essere nella sua tomba?"

"Seppellito vivo?" a Vanya cadde la mascella.

"Ragazzi, andiamo", sbuffò Luther. "Voglio dire, è ridicolo."

Allison incrociò le braccia. "Più ridicolo di tutto quello che abbiamo passato?"

La discussione fu interrotta dal campanello alla porta.

"Vado io" mormorò Diego, camminando a tutta velocità verso l'ingresso. "Sì?"

Klaus si accigliò, cercando di afferrare un indizio su chiunque fosse alla porta.

"Salve! Ho una lettera qui indirizzata a gli Hargreeves?"

La curiosità ufficialmente impennata, Klaus si fece vicino. L'uomo alla porta era alto, calvo e sembrava venire dalle Poste.

Il resto dei fratelli lo seguì velocemente, osservando diffidenti il postino mentre tirava fuori una busta.

"Sì, siamo noi", disse lentamente Luther.

"Woah", fiatò l'uomo, sembrando quasi stordito. "Abbiamo scommesso all'ufficio sul fatto che voi foste davvero qui. Questa busta è un po' una leggenda da noi. Uh, firmi qui, prego."

Diego scarabocchiò la sua firma sul modulo che gli passò l'uomo e accettò la busta con mani leggermente tremanti.

"Quella lettera è stata in nostro possesso dal 1963. Sono ben cinquantasei anni!" ridacchiò nervosamente. "Ci è arrivata con delle chiare istruzioni. Di consegnarla a questo indirizzo, in questo esatto momento. Roba da non credere."

"Davvero", osservò Klaus, studiando la busta ancora fra le mani del fratello.

"Bene, allora vado", il postino annuì imbarazzato. "Smitty mi deve venti dollari!"

Con quello, la porta si chiuse.

Diego non fece una mossa per aprire la busta, così Allison gliela strappò di mano.

Klaus le si strinse vicino mentre la apriva, gli occhi divorarono la calligrafia ordinata.

"Leggila ad alta voce!" richiese Vanya, e Allison si schiarì la gola.

 

"Sono Ben. Spero che questa lettera vi raggiunga. Se no, credo di essere fottuto per bene.

So che probabilmente Klaus vi ha deto cos'è successo. So anche che avete la tendenza a non credergli. Sta dicendo la verità questa volta – sono vivo.

Il punto è che sono tornato nel posto in cui ho avuto il mio ultimo pensiero conscio. Mi sono svegliato nell'edificio incasinato dell'FBI. La data era il 23 Novembre, 1963. Sfortunatamente, ero circondato da agenti molto arrabbiati.

Non è molto bello spuntare dal nulla, senza preavviso in una struttura governativa dove la morte di numerosi agenti era avvenuta appena un giorno prima.

Quindi comunque... sono scappato. Mentre scrivo questa lettera, sono le 6:37 di sera, del 25 Novembre nel 1963.

Sono andato avanti e mi sono nascosto a casa di Ray Chestnut. Scusa, Allison.

Lui onestamente pensava di aver visto l'ultimo di noi ormai. Era ancora più confuso perché gli ho detto di essere il fratello morto.

Perciò sì, sono un po' nei guai qui. Mi stanno cercando, e non sono sicuro quanto a lungo posso nascondermi. Per favore, sbrigatevi.

Sinceramente; Ben."

 

Klaus fissò la lettera.

(Porca troia.)

Cinque parlò per primo. "Qualcuno è pronto per un altro viaggio nel tempo?"

 

 

Nota del traduttore:

Ed eccoci giunti alla fine! Devo scusarmi, dato che ci ho messo davvero una vita a tradurre dall'uscita effettiva del capitolo su ao3. Ma ho delle ottime ragioni (il laboratorio, gli esami, Netflix...).
Mi ha fatto sudare sette camicie, più che altro perché è il capitolo più lungo in assoluto. Ma infine ce l'ho fatta!
Spero che il viaggio sia piaciuto a tutti voi come è piaciuto a me. Dalla regia mi dicono che c'è la possibilità di un seguito (che ci sta, vedendo il finale aperto), perciò... resterò sintonizzata :)

 

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