Fino a farci scomparire

di Crudelia 2_0
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Pt. 1 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Note: se c'è una cosa che ho imparato negli ultimi tempi è che ogni cosa arriva a noi quando ne abbiamo bisogno. Ho rivisto Merlin su Netflix, la prima volta che l'ho guardato saranno stati circa 10 anni fa, ero una bambina e non capivo niente. Ora, a vedere come si guardano, rimango senza parole. 
Dopo aver fatto indigestione di fanfiction ho deciso di mettermi alla prova. Questa storia è spuntata in questo momento che sono incastrata in quel ciclo odioso per cui la mia testa è piena di storie, ma appena apro il foglio niente. 
Per cui, poiché la mia scrittura è così volubile, vi chiedo la cortesia, se la storia vi piace, di dirmelo. Come tutti gli umani funziono terribilmente meglio con una ricompensa. Nella mia mente (chiaramente non già scritti, sia mai organizzarsi prima di pubblicare) sono pronti circa cinque capitoli, piuttosto corposi, ma non so dove mai andrò a parare.  
Adesso, prima che queste note si dilunghino troppo, vi lascio al capitolo. E grazie a chi è arrivato anche solo fino a qui.  
Un abbraccio, 
Crudelia 
 


 
Fino a farci scomparire*
Capitolo 1
 
 
 

Ogni volta che ci avrebbe ripensato, in futuro, si sarebbe sentito in colpa. Aveva sempre pensato che, quando sarebbe accaduto, l'avrebbe sentito. Invece, nulla. 
Quando accadde, era impegnato in un'attività che non lo impegnava letteralmente da secoli: stava facendo l'amore con una ragazza. 
Non sapeva come ci era arrivato, né il nome di lei (gli sembrava Amanda o Adele, ma poteva anche essere Catherine), ma aveva capelli biondi che brillavano sotto la luce e occhi azzurri scintillanti. L'unica certezza che aveva, al momento, era il suo essere considerevolmente brillo. E il poter stringere tra le mani ciocche chiare e vedere occhi come il cielo d'aprile offuscati dal desiderio. 
Il resto non contava. 
 
 
 
Se c'era una cosa che il capitano Smith apprezzava del lavorare in una cittadina tranquilla come Glastonbury* era la calma del servizio serale. 
Calma piatta, continua. Specialmente nelle serate come quella: una piovosa domenica di fine inverno.  
Solitamente si intratteneva leggendo tascabili thriller che prendeva in prestito dalla biblioteca e sorseggiando il caffè caldo che sua moglie preparava con amore prima di ogni turno. 
Quella sera era alla seconda tazza, impegnato con un racconto di un pazzo che si infilava nelle case altrui che non lo stava appassionando affatto. Stava valutando di alzarsi e sgranchirsi le gambe per fumare una delle sigarette del pacchetto che teneva nascosto nel terzo cassetto della scrivania. Aveva detto a sua moglie che aveva smesso, ma amava concedersi quel vizio. Non che amasse mentire alla moglie, però...  
La porta si aprì di colpo e Smith sobbalzò, rovesciando un po' di caffè che gli finì sulla camicia. 
«Ma che —» borbottò alzandosi, iniziando a cercare un fazzoletto con cui tamponarsi. 
«Capo!», la voce di Lloyd lo fermò a metà del gesto. La voce era tranquilla, ma dopo tanti anni a stretto contatto era impossibile non notare la sottile tensione che la permeava. Alzò gli occhi in tempo per vedere tre figure che sparivano oltre il corridoio. 
Girò attorno alla scrivania, notando come i riflessi non fossero più quelli di un tempo. Avrebbe dovuto dar retta al medico e smetterla di mangiare tutte quelle ciambelline a colazione, forse.  
Dal fondo del corridoio giunse un verso soffocato e un grugnito, poi il rumore di una cella che veniva chiusa. La centrale era piccola: appena un ingresso, due uffici e quel corridoio che portava all'unica cella. Solitamente ci chiudevano chi era troppo ubriaco per tornare a casa sulle proprie gambe. Evento che si era alquanto ridotto da quando il vecchio Phil ci aveva lasciato le penne nell'incidente dello scorso autunno. 
Con un sospiro, aggiustandosi la cintura sotto la pancia prominente, Smith arrivò alla sua meta. 
Lloyd stava guardando nella cella con aria torva, le sopracciglia corrugate sopra le braccia incrociate. Sulla mascella aveva una zona rossa che si stava rapidamente gonfiando. 
«Un tipetto tosto», commentò, accennando con il mento alla cella. 
Smith si avvicinò alle sbarre. Jack, il più recente acquisto della caserma, gli fece spazio. Le chiavi tintinnarono al suo fianco. 
Smith posò le mani sui fianchi e guardò all'interno. 
La prima cosa che notò furono le spalle larghe, e capì tutti i grugniti dei suoi uomini. Avevano dovuto spingerlo lì dentro. Poi notò gli stivali, i pantaloni di un tessuto che non aveva mai visto e la camicia bianca che sembrava di iuta. Era bagnato fradicio, i capelli, di un marrone chiaro, gocciolavano tutt'intorno.  
Un hippie, pensò. Un maledetto americano. 
«Allora, giovanotto, cos'hai combinato?» 
Aveva assunto quel tono leggermente ironico e paternalistico da vecchio amico, di un nonno che dovrebbe rimproverare ma di nascosto strizza l'occhio con complicità. Con i giovani di solito funzionava, ma, quando il ragazzo si girò, le parole gli morirono in bocca. 
Aveva un labbro spaccato e un sopracciglio tagliato, un rivolo di sangue gli scendeva per la tempia e lungo lo zigomo. Come una lacrima. Ma furono gli occhi a catturare la sua attenzione. Azzurri come non ne aveva mai visti, portavano al loro interno una disperazione che rasentava la pazzia. 
Il ragazzo aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. 
Lo vide deglutire, il pomo d'Adamo salire e scendere per la gola in un movimento che tradiva il panico. Poi aprì di nuovo la bocca, ma ne uscì una sola parola. 
«Merlin». 
Smith corrugò la fronte. 
«Chiamate un medico», disse, e si voltò.  
 
 
 
Se il medico in servizio fosse stato qualcun'altro e non Sam probabilmente l'avrebbe preso a schiaffi. 
Ma Sam era Sam, erano cresciuti insieme ed insieme si erano fatti vecchi. Avevano già programmato il viaggio per la pensione, sebbene mancassero ancora due anni. 
Quindi, se davanti a lui ci fosse stato chiunque altro, Smith non ci avrebbe creduto. Ma, poiché fu Sam a dirglielo, non gli passò neanche per la mente l'ipotesi che non fosse vero. 
«Il ragazzo non è drogato», disse il medico chiudendo la valigetta. Aveva la fronte corrugata come quando un pensiero ostico non lo lasciava. «È in stato confusionale, forse shock, ma sicuramente non è drogato». 
Si sistemò gli occhiali e la cravatta, che non abbandonava mai, poi gettò un'occhiata alla cella. Smith seguì il suo sguardo: il ragazzo era seduto con i gomiti appoggiati alle ginocchia, una posa arresa e abbandonata. Gli avevano dato dei vestiti asciutti, e stringeva tra le mani la felpa fissando la cerniera. I capelli, che asciugandosi avevano rivelato essere color oro, gli cadevano sulla fronte e sugli occhi. 
«Quello che dice...», borbottò Smith, senza finire quella che voleva essere una domanda. 
Il ragazzo non aveva detto niente se non quella parola: Merlin. L'aveva detta quando aveva visto il dottore, quando aveva provato a curarlo, quando gli avevano portato i vestiti puliti e infine quando l'avevano lasciato. Nient'altro se non quella parola, pronunciata come l'ultima richiesta di un condannato. E quella disperazione negli occhi, che faceva male al cuore solo a guardarli. Non aveva risposto a nessuna domanda, pareva quasi non li comprendesse.  
Il medico si schiarì la gola. «Penso sia un nome, conosco una persona che...» e anche lui non finì la frase. Dopo tanti anni si comprendevano comunque. 
Smith gli passò accanto dandogli una pacca sulla spalla. «Cerca di contattarla allora».  
 
 
 
Un ragazzo biondo, dice solo il tuo nome. 
No... No, non lo so. 
Non ci ha detto come si chiama, continua a ripetere il tuo nome, per questo ti ho chiamato. L'hanno trovato che urlava in riva al lago, sì.  
Sì... Sì, biondo e occhi azzurri e — ho capito. 
Va — va bene, grazie. 
 
Quelle parole continuavano a risuonargli nella mente. Dio, com'era stato stupido. 
Tanti anni per prepararsi e lui si faceva trovare a letto con una ragazza. 
Scivolò sui gradini della centrale di polizia, poggiò una mano con malagrazia sul cemento bagnato per reggersi in piedi. Arrivato alla porta la colpì con una spallata, senza curarsi di essere bagnato e inzaccherato di fango e completamente impresentabile. 
Gli occhi saettarono in tutte le direzioni contemporaneamente, senza soffermarsi su nulla. 
Capelli biondi, occhi azzurri. Capelli biondi, occhi — 
«Ah, tu devi esser—» 
«Dov'è». 
L'uomo chiuse la bocca di scatto, allibito. Merlin colse il tintinnare di una chiave quando lo vide sistemarsi la cintura sotto la pancia gonfia, ma erano dettagli lontani, insignificanti. 
Vide Sam voltare l'angolo di un corridoio e riprese a correre. 
Le suole di gomma bagnate scivolarono nel fare la curva a quella velocità e colpì il muro con la spalla. Il dolore, invece che fermarlo, lo incoraggiò a muoversi più in fretta. 
Sentiva dietro di sé le voci dei due uomini che lo stavano seguendo, ma erano suoni attutiti dal rumore del sangue che gli correva nelle vene, dal cuore che pulsava furioso nel petto e nelle tempie. 
Poi si fermò di colpo, a due passi dalla cella. 
Ansimante, le mani che tremavano. 
Il mondo cadde nel silenzio. Gli occhi si riempirono di lacrime, sentì le gocce di pioggia cadere dal suo cappotto alle piastrelle lucide e immacolate. 
Poté contarle distintamente. 
Una. Due. Tre. 
«Arthur». Cavarsi quel nome dalla gola fu come togliere un'arma e vedere il sangue ricominciare a scorrere. 
Il ragazzo alzò la testa di scatto, gli occhi grandi e spaventati e confusi. 
«Merlin», disse. 
E per Merlin fu come ricevere un colpo allo stomaco. 
Il suo nome. Il suo nome sulla sua bocca, pronunciato dalla sua voce. 
Barcollò, incapace di gestire quell'emozione. Incespicò in avanti, aggrappandosi ad una sbarra per reggersi in piedi. 
Arthur scattò in piedi e si avvicinò a lui. A passi grandi, quasi con furia. Non si fermò davanti alle sbarre, ma allungò una mano e gli afferrò la mandibola. Lo tirò in avanti, schiacciando il suo corpo contro il metallo. E c'erano solo quelle sbarre, a separarli. Merlin poteva percepire il calore del suo corpo a così poca distanza. E Arthur era così vicino, sentiva il suo respiro bollente e accelerato sulla bocca. 
«I tuoi occhi», mormorò Arthur fissando le sue iridi, con voce roca. Una voce che non aveva usato per secoli
Merlin gemette. Non per il dolore o la sorpresa, ma perché sentire le dita di Arthur su di sé, sentirle addosso, era all'improvviso troppo. 
Troppo per lui che si era arreso, per lui che aveva continuato a vivere dilaniato a metà tra la sofferenza del doverlo aspettare e la consapevolezza, sempre più profonda e viscida, che non l'avrebbe mai più rivisto. 
Aveva immaginato — desiderato — quel momento così tante volte, ma mai le dita di Arthur avevano una tale intensità sulla sua pelle. 
Lo guardò in quegli occhi che aveva temuto di dimenticare, poi ci fu uno scoppio. E tutto fu buio e poi luce.  
 
 
 
 
*è il titolo di una canzone di Diodato, "Fino a farci scomparire", appunto. Farà un po' da linea guida per questa storia.  
*secondo alcuni, è la città in cui si trova il Lago di Avalon.  
 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Pt. 1 ***


Fino a farci scomparire
Capitolo 1 — pt. 1— Ricordi?
 
 
 
 
Merlin posò la fronte sulle mani. Era stanco. 
Tra le labbra aveva un sospiro che si rifiutava di far uscire. Se l'avesse permesso ne sarebbero seguiti altri che si sarebbero trasformati in singhiozzi. Già li sentiva, pronti nel petto e scalpitanti per uscire. 
Si massaggiò le palpebre, chiuse sopra gli occhi che bruciavano. Quella sera era andato tutto storto: aveva bevuto troppo, pur essendo domenica, poi aveva incontrato quella ragazza che aveva occhi così simili ai suoi e tutto era precipitato. E aveva continuato a precipitare con quella telefonata. 
Premette i pollici più forte, fino a veder comparire macchie colorate nel buio. 
Quello non se l'era aspettato. Non solo Arthur, ma la sua reazione. La magia si era spenta pian piano, negli anni, una progressione lenta e costante che camminava di pari passo con la tecnologia degli uomini. Non c'era bisogno, di magia, in quei giorni, e quindi se n'era andata. 
Anche se non era esatto. La magia c'era sempre, ma si era nascosta, assopita. Quiescente. 
E poi era esplosa. C'era stato un corto circuito, ma la luce era ricomparsa subito. Per i vetri, invece, non c'era stato nulla da fare. L'esplosione li aveva distrutti, polverizzati. E tutti gli uffici di quella centrale erano in vetro. 
Merlin ragliò una risata isterica. Perché, dannazione, non avevano costruito dei muri?  
«Merlin». 
Alzò la testa di scatto, ma gli occhi ci misero più tempo per mettere a fuoco. Lentamente, iniziarono a farsi chiari i contorni del capitano Smith. Dietro di lui Arthur se ne stava a testa bassa, i polsi chiusi nelle manette. 
«Sam mi ha detto che posso chiamarti così, che non ti saresti offeso». 
Merlin fece vagare gli occhi oltre la sua spalla. Arthur indossava vestiti che appartenevano a qualcuno più grosso di lui: la maglietta gli cadeva abbondante sulle spalle e i pantaloni si accumulavano alle caviglie, fermati solo dall'elastico della tuta. Ai piedi portava un paio di scarpe da corsa slacciate. Perché ovviamente Arthur non sapeva cos'erano le scarpe da ginnastica, e tanto meno i lacci. 
«— non è un problema, vero?». L'uomo lo guardava aspettando una risposta, le sopracciglia leggermente inarcate. 
«Certamente no», improvvisò Merlin, senza sapere a cosa aveva acconsentito.  
Al suono della sua voce Arthur alzò la testa. I loro sguardi si incastrarono con la stessa precisione del passato, e il cuore di Merlin saltò un battito. 
«Bene, perché il tuo amico avrà bisogno di una mano», disse Smith, voltandosi, visibilmente sollevato dalla sua risposta. «Portalo a casa e fagli fare una dormita». Con un gesto consumato infilò le manette al loro posto sulla cintura, mentre con l'altra mano dava una pacca sulla spalla di Arthur e lo spingeva in avanti. 
Merlin si ritrovò a fissarlo di nuovo, ma Arthur distolse lo sguardo e lo puntò ai piedi, lasciandolo con un sapore amaro alla bocca dello stomaco. 
 
 
 
Cadeva ancora una pioggia sottile, quasi nebbia. Attorno ai capelli di Arthur creava un alone luminoso, un'illusione della corona che aveva perso il suo legittimo posto sul suo capo. 
Merlin si schiarì la voce. «Da questa parte», disse, indicandogli la via. Ormai l'ora era troppo tarda per trovare un taxi disponibile in una città piccola come quella, inoltre non era sicuro che far provare l'ebbrezza della velocità ad Arthur fosse saggio. 
Arthur gli gettò un'occhiata, gli occhi precipitarono a terra quando incontrarono gli altri. Aveva visto Merlin affondare le mani nelle tasche del cappotto e aveva fatto lo stesso, immergendole nella felpa che teneva aperta. 
Merlin combatteva contro il desiderio di chiuderla per non fargli sentire freddo, ma anche toccarlo di nuovo non gli sembrava saggio. Soprattutto quando l'altro era così attento ad evitarlo. 
Non mi riconosce, pensò. E non era un'idea così inconcepibile per il suo cervello stanco: era fin troppo consapevole di come si era lasciato andare, nel corso degli anni, in balia della disperazione. Aveva i capelli molto più lunghi di quanto li tenesse a Camelot, e la barba scura gli copriva le guance. 
Subito dopo, la mente si corresse. Non ricorda. Perché l'Arthur che conosceva, quello che aveva conosciuto e aspettato, l'avrebbe insultato nel suo migliore tono borioso e poi l'avrebbe abbracciato, come quella volta nella foresta. E se fosse stato fortunato Merlin avrebbe sentito ancora una volta la sua voce parlare vicino all'orecchio, il suo peso incastrato tra collo e spalle e la forza delle sue braccia contro la schiena. 
Si passò una mano su tutto il viso, dalla fronte al mento, come se potesse togliere la stanchezza. Si fermò nel cerchio perfetto di luce di un lampione, rimase immobile un momento prima di voltarsi. Quando lo fece la mano crollò lungo il fianco, come abbandonata. Aveva smesso di percepire la presenza di Arthur dietro di sé, e lo ritrovò poco più indietro, intento a fissare un cartellone pubblicitario. 
Merlin tornò al suo fianco, senza prestare attenzione alla pubblicità che invitava sicuramente a comprare qualcosa di sciocco ed inutile. Guardò invece Arthur, come se non avesse fatto altro da quando l'aveva visto in quella cella. 
Era così simile a se stesso, per nulla cambiato. Poteva vedere il modo familiare in cui si muoveva il pomo d'Adamo lungo la gola, il modo in cui si stringevano le labbra nel tentativo di non far trasparire tensione o paura. E quel desiderio di toccarlo, totalizzante. 
Stava per abbassare lo sguardo lungo il suo corpo quando Arthur voltò il viso, incontrando i suoi occhi. Questa volta li trattenne, senza distoglierli. Dolorosamente azzurri, Merlin poté leggere al loro interno confusione e tristezza e spavento. Aveva le pupille strette, attente, come un animale braccato. 
Lo vide aprire la bocca e sentì brividi di anticipazione correre lungo le braccia, ma Arthur cambiò idea, o si arrese, e Merlin guardò quelle labbra chiudersi mordendo un gemito di disperazione e desiderio. 
Si costrinse ad ingoiarlo, quel verso straziato, e sbattere le palpebre più volte per riacquistare padronanza di sé. 
Mezz'ora. Mezz'ora che l'aveva ritrovato e già lo stava facendo impazzire. 
Allungò una mano per prendergli il gomito. «Andiamo, è —» una scossa colpì i suoi polpastrelli e ritrasse la mano di scatto. Nello stesso momento, le luci dei lampioni affianco esplosero, i vetri delle lampadine tintinnanti sulla strada come pioggia. 
Merlin alzò lo sguardo, il cuore in gola. Un fumo leggero si alzava dai pali perdendosi verso il cielo, il silenzio della notte li avvolgeva. 
Merlin riabbassò gli occhi. Arthur aveva fatto un passo indietro, si teneva il braccio con l'altra mano. 
Terrore, ecco cosa c'era nei suoi occhi, adesso. 
Merlin non disse niente. Si voltò e tornò a camminare, facendo strada.  
 
 
 
L'appartamento era all'ultimo piano, perché era uno stupido. Non c'era nessun'altra ragione per cui avrebbe dovuto sceglierlo, altrimenti. 
Fu per pura fortuna che trovò ancora le chiavi schiacciate al fondo della tasca posteriore dei jeans, non era affatto sicuro sarebbe riuscito ad aprire la porta con la magia. Era esplosa due volte in una sera, mentre per anni aveva dovuto concentrarsi anche per fare gli incantesimi più semplici: poteva ancora accendere una candela, ma gli servivano diversi minuti di concentrazione e una buona dose di impegno. 
Stava cercando di ricordare quale fosse stato l'ultimo incantesimo compiuto quando l'acqua nella vasca raggiunse il livello ottimale.  
«Bene», disse asciugandosi le mani con un asciugamano. «Potete lavarvi ora», ed era strano, dopo tanti secoli, tornare a sentire la bocca piena di quella deferenza. 
Arthur guardò l'acqua e poi lui, i suoi occhi ancora più grandi sotto l'impietosa luce fredda del bagno. «No».  
Il sollievo per sentirgli pronunciare un'altra parola oltre al suo nome — e quella frase, i tuoi occhi, che gli era entrata nel cuore come uno stiletto — fu così grosso che per un momento non capì il significato di quella piccola sillaba. La sua mente, ricaduta con velocità impressionante nei vecchi schemi da servitore, si chiese subito se avesse sbagliato qualcosa, poi se per caso Arthur non volesse essere spogliato da lui, cosa abbastanza ovvia visto il modo in cui stava appoggiato al lavandino, il più lontano possibile.  
Poi Arthur aggiunse un'altra parola, secca e roca con quella voce che non era stata usata per secoli. «Affogherò».  
Merlin lo guardò serio e senza parole, poi, per la seconda volta in breve tempo, si diede dello stupido. Una goccia d'acqua scivolò lungo il polso verso l'avambraccio, fermandosi all'orlo della camicia che aveva arrotolato ai gomiti.  
Era appena uscito da un lago dopo un sonno durato più di mille anni e la prima cosa che gli offriva era un bagno a mollo in una vasca. 
Trattenendo un sospiro frustrato gli voltò le spalle e aprì la doccia. «Questa andrà meglio», disse regolando l'acqua. «Non si accumula». 
Arthur lo raggiunse e sbirciò l'acqua scorrere. Il petto quasi appoggiava sulla spalla di Merlin, che trattenne il fiato. Non gli era ancora stato così vicino. 
«Non si accumula», ripeté Arthur, la fronte corrugata, come a voler saggiare quelle parole. Continuò a guardare l'acqua scorrere, il suo frusciare l'unico suono tra loro, poi riporto gli occhi su Merlin. Così vicino, sotto la luce, Merlin poté vedere il loro azzurro profondo e senza fine. Un piccolo sollievo, una pallida eco della luce che le aveva caratterizzate in passato, brillava nelle iridi chiare. 
Merlin si morse le labbra, divorato dal desiderio di stringerlo perché era finalmente tornato, tornato da lui che l'aveva aspettato così tanto. 
Fece un passo indietro, deglutendo. 
«Le manopole si girano, se non riuscite chiamatemi», farfugliò, e fuggì dalla stanza. 
Chiuse la porta e si appoggiò contro di essa, la nuca contro il legno chiaro e gli occhi chiusi. 
Adesso gli porto dei vestiti, pensò, ma rimase immobile. Immobile ad ascoltare i suoni di Arthur che si spogliava, della doccia aperta e chiusa. Rimase lì un tempo indefinito, finché non sentì un sibilo strozzato. 
Aveva già la mano pronta sulla maniglia quando l'acqua si chiuse. Probabilmente Arthur aveva chiuso una manopola ritrovandosi addosso l'acqua bollente, o gelata. Il pensiero avrebbe dovuto farlo sorridere, invece si sentì investito da una tristezza profonda che gli bloccò il respiro nei polmoni. 
Si costrinse a muovere i piedi, boccheggiando, per cercare nel suo armadio abiti abbastanza grandi per il suo re. 
Il suo re, realizzò. Dio, il mio re. Il mio re è tornato e io sono un imbecille. 
Un imbecille impreparato, si corresse. 
Prese tra le dita alcuni indumenti, aprì la porta del bagno il necessario per infilarci il braccio e li buttò dentro gridando qualcosa di incomprensibile alle sue stesse orecchie. Non ce l'avrebbe fatta a vederlo nudo. Arthur nudo era decisamente troppo. 
Tornò in camera e si lasciò cadere sul materasso, le dita tra i capelli. Doveva riprendere il controllo di sé. Era sconvolto e stanco, ma non serviva a niente in quelle condizioni. 
Iniziò a contare i respiri, nel tentativo di rallentare il cuore, perché era l'unica cosa su cui aveva il controllo. Al momento. 
Aveva cominciato a rilassarsi, quasi a cadere in uno stato di veglia, quando Arthur arrivò nella stanza. Non ebbe bisogno di chiamarlo, appena si fermò sulla porta Merlin alzò la testa, sicuro di trovarlo lì. 
Arthur lo guardava nei suoi pantaloni grigi lisi sulle ginocchia e la maglietta bianca deformata dai lavaggi e macchiata di vernice. Era scalzo, i capelli umidi e gli occhi cerchiati. Merlin provò la stessa tenerezza paralizzante che gli seccò la gola e lo costrinse a rimanere immobile per qualche secondo. 
«Avete sonno?» chiese infine, sforzandosi di far uscire la voce. 
Arthur lo guardò senza muoversi. Non un cenno del capo, non uno stringersi nelle spalle. Forse non ricorda nemmeno cosa vuol dire, essere stanco, realizzò Merlin. Dopo mille anni passati nei fondali di un lago quelle sensazioni terrene dovevano essere qualcosa di nuovo, una scoperta. 
Una scoperta che non sapeva gestire, evidentemente, perché lo vide abbassare la testa come mortificato. Il pensiero che Arthur potesse sentirsi in colpa acuì il senso di disagio nel petto di Merlin. Era colpa sua, se l'altro era così spaesato. 
«Venite a dormire», disse alzandosi per cedergli il posto. «Dovete...», aveva alzato una mano per toccarlo, accompagnarlo, ma ricadde nello spazio vuoto fra loro.  
Si strofinò le mani sui jeans, perché formicolavano di energia repressa. La luce della lampada tremò. 
Scostò le coperte. «Venite a stendervi». 
Arthur si avvicinò lentamente. Si muoveva piano, come se non sapesse cosa fare del suo corpo.  
Un'altra cosa comprensibile, pensò Merlin mentre lo guardava sedersi e coricarsi, riprendere coscienza dei propri movimenti dopo un sonno quasi eterno. 
Gli sistemò le coperte, ben attento a non toccarlo. 
«Bene, spengo la —» 
«No!» Di nuovo occhi colmi di terrore, grandi come quelli di un bambino. 
Merlin annuì, allontanando la mano dalla lampada. «Allora io vado—» 
«Merlin», si sentì afferrare il polso, le dita strette attorno alla sua pelle con la forza della disperazione. Pronunciava il suo nome non per chiamarlo, ma come se fosse l'unica parola di sua conoscenza. Senza inflessioni, solo lettere che metteva in ordine per comunicare qualcosa, come quando si dice c'è il sole nel bel mezzo di un pomeriggio d'agosto. 
E per lui, che ci aveva sempre sentito tutto, il suo nome detto in quel modo era un colpo al cuore sparato senza pietà e senza remore.  
«Volete che rimanga?» la voce gli uscì strozzata, schiacciata dalla portata di quella domanda.  
Arthur strinse le labbra in quel modo così caratteristico che Merlin aveva temuto di aver dimenticato. Poi annuì lentamente, un piccolo movimento che fece scivolare i capelli sulle tempie. 
Merlin cadde in ginocchio, il colpo attutito dal tappeto, il polso sempre stretto nella sua mano. 
Aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse. Qualsiasi cosa avrebbe detto non sarebbe mai stata abbastanza per spiegare il tumulto che si agitava nel suo stomaco.  
Rimase immobile a guardare Arthur addormentarsi. Dapprima lentamente, combatteva il chiudersi delle palpebre, poi scivolò dolcemente nel sonno, la mano stretta sempre attorno alla sua pelle.  
 
 
 
Merlin si svegliò nella famigliare sensazione di essere solo. Aprì gli occhi lentamente, sentendoli bruciare per la luce, chiedendosi perché mai si era addormentato seduto al fianco del letto. Si guardò la mano, protesa verso il nulla al centro del materasso vuoto. 
Il collo gli mandò fitte dolorose di protesta quando si guardò attorno, ma furono subito superate dalla consapevolezza che quella mano, ora vuota e abbandonata, aveva ormai perso il calore delle dita che per tutta la notte l'avevano stretta. 
Scattò in piedi, la schiena e le gambe urlarono dal dolore. Con un sibilo tra i denti si precipitò alla porta, aveva già sceso di corsa due rampe di scale quando sentì il tonfo pesante del legno che si chiudeva.  
Al diavolo, pensò, il sole era già abbastanza alto da non disturbare nessuno con quel trambusto. 
Evitò per mezzo passo un uomo che stava uscendo dall'ascensore e non si fermò per scusarsi, il panico gli stava divorando il cuore e il cervello. 
«E insomma, ragazzo, fa' attenzione!» 
Le parole gli giunsero prima di realizzare di aver colpito il carrello dell'anziana al piano di sotto, quella che aiutava tutte le settimane con la spesa e di cui dimenticava puntualmente il nome. 
«Mi dispiace», gridò sopra la spalla, senza sentimento. Ma il portone era aperto, e nella sua mente bloccata dall'assenza di Arthur tutto ciò che contava era infilarsi in quello spiraglio prima che si chiudesse. Lo colpì con una spalla, di nuovo, e il duro legno risvegliò nel suo corpo il dolore per lo stesso colpo della sera prima e tutti quelli causati dalla notte passata rannicchiato sul pavimento freddo. 
Il sole gli ferì gli occhi, quando uscì in strada, fermandosi di colpo. La folla lo inglobò, una donna alzò gli occhi dal suo telefono per guardarlo stranita. Merlin non le diede peso: sentiva l'affanno crescere nel petto, l'ossigeno non arrivare al cervello. E il cuore, stretto in una morsa, continuava ad essere stritolato senza pietà. 
L'ho perso. L'ho perso di nuovo. Dio, che idiota, l'ho perso di nuovo. 
Sentì la testa leggera, e si impedì di svenire. Barcollò leggermente, guadagnandosi altre occhiate confuse e sospette dalla gente che lo circondava. 
Si avvicinò alla strada. Incosciente, perché se fosse caduto nulla gli avrebbe impedito di finire schiacciato sotto una macchina, e a quel punto l'avrebbe perso per sempre. O forse lo desiderava, farla finita. Perché quello che era successo la sera prima poteva essere frutto della sua mente stanca e devastata dall'attesa e lui non si sarebbe ripreso dall'idea di averlo avuto tra le mani, fragile e indifeso e biondo come il sole, ed averlo immaginato. 
Altri giorni di solitudine, altri anni di attesa, altri secoli di notti passate tra sospiri e domande e dubbi e lacrime che nessuno avrebbe mai visto. 
Chiuse gli occhi, stringendo con una mano la camicia all'altezza del petto. Gli faceva male il cuore. Quella sofferenza era fisica, l'assenza di Arthur una cicatrice ancora sanguinante che mai si sarebbe chiusa. 
Un gemito gli riempì il petto e la gola, ma lui non lo sentì, nelle orecchie solo il rombo del suo sangue e — 
«Merlin, stai bene, ragazzo?» 
Sobbalzò quando una mano si posò sulla sua spalla. Quando l'uomo fece un passo indietro si accorse di come appariva: al limite della decenza, il corpo piegato su se stesso e gli occhi devastati dalla paura. 
Ci mise un attimo di troppo a riconoscere la figura del capitano Smith, fermo con le mani sui fianchi a guardarlo con la fronte corrugata. 
«Capitano», bisbigliò, neanche simile al saluto che avrebbe voluto pronunciare. 
L'uomo si sistemò la cintura sotto la pancia prominente, un gesto che Merlin già aveva imparato a riconoscere come suo caratteristico. 
«Immagino tu stia cercando il tuo amico», disse, fermando l'esame della sua persona e avvicinandosi alla macchina. «Sei fortunato che l'abbiamo trovato noi, ma devi fare attenzione. Ti è stato affidato un compito e...» ma il resto del discorso sfumò nel nulla perché dalla macchina emerse Arthur e tutto perse d'importanza. 
Merlin lo vide gettargli un'occhiata e poi distogliere lo sguardo, colpevole. Indossava gli abiti che gli aveva dato la sera prima, sgualciti dal sonno, e ai piedi quelle ridicole scarpe da corsa che gli avevano dato in cella che portava slacciate. 
A quell'immagine provò ancora una volta un'ondata di tenerezza che gli scaldò il petto e il viso. Arthur si era svegliato e si era preso la briga di mettersi le scarpe che non sapeva allacciare. 
Si coprì gli occhi con una mano, perché li sentiva pizzicare. Di sollievo, o gioia, o quella tenerezza struggente che gli avevano suscitato gli occhi di Arthur azzurri e colpevoli. 
«Grazie», disse di colpo, interrompendo quella che voleva essere una paternale del poliziotto. «Me ne occuperò io», e prese Arthur per un gomito e se lo tirò addosso. «Venite con me». 
 
 
 
Arthur si stava rigirando le mani da dieci minuti. Merlin aveva sfruttato quel tempo avvertendo con un messaggio che non sarebbe andato a lavoro. Per lo meno quel giorno, forse qualcuno in più. 
Aveva aperto la bocca più volte, ma si era sempre trovato incapace ad iniziare il discorso. E Arthur non lo aiutava: ostinato come sempre era stato, continuava ad evitare i suoi occhi.  
Si sistemò meglio sulla sedia e si preparò a parlare. Gli avrebbe chiesto come stava, sì, come vi sentite sembrava una domanda del tutto ragionevole. 
Aprì la bocca, ma fu interrotto. «Cosa vi porto?» 
La ragazza li guardava con un lieve sorriso agli angoli delle labbra, in attesa. Merlin scattò verso il menù, aprendolo a quella che sembrava la pagina dei panini. 
«Due ca...», si schiarì la gola, interrompendosi. Chiedere due caffè e brioche non era il caso. «Due spremute e due colazioni tipiche, per favore». Suonava meglio, sì, decisamente. 
La ragazza annotò in fretta sul taccuino e diede loro le spalle con un ultimo sorriso. Merlin la guardò sparire oltre il bancone, poi di voltò in fretta. Arthur aveva alzato fugacemente gli occhi e lo stava guardando. 
Merlin si sporse sul tavolo, catturando del tutto la sua attenzione. 
«Non. Muovetevi.» sillabò, poi si diresse al bagno. Si diede una sistemata in fretta, ancora indossava la camicia storta, i bottoni infilati nelle asole sbagliate la sera prima, di corsa. Il pensiero corse alla ragazza — Kate? — che aveva lasciato sul divano. 
Era stato orribile. Avrebbe dovuto scusarsi, se mai l'avesse rivista. 
Quando tornò al tavolo, un poco più in ordine, c'erano ad attenderlo due piatti fumanti e — che Dio l'avesse in gloria — Arthur esattamente come l'aveva lasciato. 
Si sedette tirando un piatto a sé. Ora che Arthur era lì quel piatto di uova e salsicce pareva il cibo più appetitoso che avesse mai visto. 
Iniziò a tagliare un pezzo di albume, ma si accorse che Arthur era immobile, intento a fissare il piatto. «Non mangiate?» chiese. 
Arthur lo guardò ancora una volta in quel modo del tutto nuovo in cui incertezza, ansia e spavento nuotavano nelle sue iridi. Fu un contatto breve, ma Merlin si sentì tremare. 
Poi prese le posate e tagliò un boccone di carne. Lo guardò per lungo tempo, fumante e infilzato in punta alla forchetta. «Salsiccia», disse. E lo disse nello stesso modo in cui pronunciava il suo nome, per riempirsi la bocca, senza inflessioni. 
Merlin deglutì a vuoto, l'appetito scomparso. Si liberò le mani dalle posate e le strinse fra loro. Poi non gli chiese come si sentiva, non gli fece nessuna delle domande che si era preparato e che sembravano così giuste e sensate. Gli chiese l'unica cosa che, egoisticamente, voleva sapere. 
«Arthur, cosa ricordate?» 
E finalmente gli occhi del re incontrano i suoi. Merlin li aveva già visti così confusi e tristi, ma non in quel modo, non in quel mondo, non in un momento che sarebbe dovuto essere felice. 
Arthur fece cadere la forchetta e allontanò il piatto, intonso. Fece cadere la fronte sulle mani unite e sospirò. Un sospiro che arrivò dal petto, trattenuto per chissà quanto tempo. Quando parlò lo fece lentamente, a bassa voce, poi più in fretta.  
«Ricordo il freddo... E il buio... Ma il freddo — oh, c'era freddo dappertutto, dentro di me e — e i tuoi occhi! I tuoi occhi dappertutto, perché? Perché vedo i tuoi occhi ovunque?» 
Alzò la testa di scatto, leggermente ansimante dopo lo sfogo. Merlin lo guardò con occhi sgranati, le mani affondate al bordo del tavolo. Trattenne il fiato. Ora si spiegava: la prima frase che gli aveva rivolto, il modo in cui lo guardava con timore e il modo in cui seguiva i suoi gesti. Era qualcosa di più profondo della curiosità, quasi deferenza. 
O forse era soltanto paura di rimanere solo, e Merlin ci vedeva più del necessario perché sperava che il suo re condividesse i suoi stessi sentimenti. 
«Ci sono cose», ricominciò Arthur, «che conosco, so il loro nome. Altre invece... Questo, ad esempio — afferrò il portatovagliolo al centro del tavolo, con rabbia — cos'è questo?» 
Merlin resistette alla tentazione di afferrare quelle dita, bianche dalla pressione, e accarezzarle finché la sua presa non si fosse fatta tranquilla. 
«Un portatovagliolo», sussurrò, o forse pensò solamente. Perché non era importante quale che fosse l'oggetto, era stato uno stupido. Arthur si era risvegliato in un mondo completamente diverso, sconosciuto, non aveva memoria e lui aveva sbagliato tutto. 
Sospirò, massaggiandosi le tempie. Sentiva il mal di testa crescere dietro le palpebre. 
Aveva bisogno di cose familiari, conosciute, che potesse ritrovare dietro la nebbia che si era creata in quei mille e più anni che aveva passato in fondo al lago. 
La soluzione si delineò nella sua mente con lentezza, ma solidità. Capì fosse la cosa giusta incontrando gli occhi azzurri e segnati di Arthur. 
«Voglio farvi vedere una cosa», disse alzandosi. «Ma dovete promettermi che qualsiasi domanda vi verrà in mente, qualsiasi, me la farete». 
 
 
 
 
 
 
 


Note: ecco il primo capitolo, o almeno la prima parte. Dovevano succedere molte più cose, ma non è colpa mia se i dettagli si aggiungono da soli (o forse si, adoro i capitoli in cui non succede assolutamente nulla). In ogni caso, spero questo capitolo vi sia piaciuto, e ringrazio chi ha recensito e chi ha inserito la storia tra le seguite e preferite. La prossima parte arriverà venerdì prossimo, e sarà più movimentata ve lo prometto.
 
Un abbraccio,
Crudelia

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