È Tutta Una Questione di Chimica

di FreDrachen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 parte 1 ***
Capitolo 8: *** capitolo 7 parte 2 ***
Capitolo 9: *** capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** capitolo 11 parte 1 ***
Capitolo 13: *** capitolo 11 parte 2 ***
Capitolo 14: *** capitolo 11 parte 3 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 16: *** capitolo 13 ***
Capitolo 17: *** capitolo 14 parte 1 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 14 parte 2 ***
Capitolo 19: *** capitolo 15 parte 1 ***
Capitolo 20: *** capitolo 15 parte 2 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 20 parte 1 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 20 parte 2 ***
Capitolo 27: *** capitolo 21 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 34: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 35: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 36: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 37: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 38: *** Capitolo 32 parte 1 ***
Capitolo 39: *** Capitolo 32 parte 2 ***
Capitolo 40: *** Capitolo 33 parte 1 ***
Capitolo 41: *** capitolo 33 parte 2 ***
Capitolo 42: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 43: *** Capitolo 35 ***



Capitolo 1
*** Prologo + Capitolo 1 ***


Prologo



Si dice che ci si rende conto di quello che si ha avuto solo quando si perde.

Sembra una frase fatta, e forse lo è, ma è esattamente ciò che la vita mi ha insegnato.

Da tutto puoi diventare niente in pochissimo tempo.

Dal piú amato puoi diventare il peggiore dei reietti.

E solo in quel momento capisci quanta ipocrisia ti circonda, con quante maschere hai avuto a che fare per tutta la vita.

O peggio, ti rendi consapevole di quante ne hai indossate te.

Forse è il karma che mi ha giocato un brutto tiro.

Voleva che capissi come ci si sente a essere nulla.

Basta solo un attimo per perdere tutto, un semplice banalissimo attimo, anche frazione di millisecondi.

Chi ti dice che da lì puoi alzarti e riprenderti bè sta dicendo a parer mio una serie di cazzate.

O almeno questo credevo, fin quando non è entrato con l'energia di un tifone nella mia vita.

Con il suo modo di fare ha sferzato via ogni senso l'impotenza e con la sua tenacia mi ha spronato a combattere.

Si dice che un battito di una farfalla può scatenare un uragano dall'altra parte del mondo.

Ma mi sa che l'uragano l'ha scatenato Lui nel mio cuore.


 

Capitolo 1

Non era passato molto da quella fatidica notte che ancora a distanza di mesi faticavo a ricordare.

Completamente vittima della noia piú assoluta ero seduto in macchina tamburellando contro la portiera in attesa che mia madre arrivasse, dopo essere tornata indietro a fare chissà cosa.

Per carità non ero per nulla impaziente di andare dove mia madre si era impuntata a portarmi, ma a stare seduto scomodo sul sedile dell'utilitaria mezza distrutta preferivo il mio letto con in mano il joystick.

Non ero mai stato partito di videogiochi ma negli ultimi tempi avevo conosciuto questo lato nerd che non mi dispiaceva.

Almeno combattevo le ore e ore passate seduto a letto. Con entrambe le gambe amputate appena sotto il ginocchio, perse durante l'incidente, non potevo fare chissà cosa.

Mi era stato detto, non che ci volesse un genio, di non avere speranza a tornare a camminare se non facendo ricorso a protesi che di certo la mia famiglia non mi avrebbe mai comprato, visto che mi reputavano l'unica causa della mia condizione.

Per me che potevo avere un brillante futuro come calciatore era stato un vero e proprio shock. Per questo ero finito col cadere vittima di quello che i dottori avevano diagnosticato come una depressione post trauma.

Non è che ci volesse un camice addosso per capirlo. Volevo vedere loro nella mia situazione. Ciò che mi faceva piú incazzare, però, erano le loro frasi fatte da manuale sul non abbattersi e cominciare a vedere la vita con un'altra prospettiva.

Ma prospettiva un cazzo! La mia vita ormai era rovinata ed ero costretto a fare handicappato, perdon, il disabile, come sottolineavano i dottori e mia madre, per il resto dei miei sacrosanti giorni.

E che cazzo avrei potuto fare costretto a una sedia a rotelle?

Semplice, un banalissimo cazzo.

Avevo abbandonato gli studi non presentandomi piú a scuola, in fondo a che mi serviva un diploma se poi non avrei fatto un bel niente, e mi ero dato al cazzeggiare sui social, ingelosito dai miei amici che continuavano con le loro vite felici e soprattutto a camminare, oltre che scoprire i fantomatici videogiochi. I primi li avevo scovati in un cassetto dimenticato da tutto e da tutti, forse regali di qualcuno mai calcolati di striscio fino a quel momento, gli altri invece li avevo ordinati su internet usando la carta di credito dei miei, un modo infantile per punirli per avermi trattato, soprattutto mio padre, negli ultimi tempi peggio dell'anticristo.

Mi ero rinchiuso praticamente in camera e ne uscivo di malavoglia solo per mangiare e per i soliti bisogni umani che non potevo più svolgere da solo, facendo crescere sempre di piú la rabbia che provavo nei confronti di quel fottuto karma.

Finché qualche giorno fa mia madre non aveva detto basta. Era entrata con decisione in camera mia accecandomi con la luce che penetrava dalla finestra posta esattamente di fronte a camera mia e che aveva appena spalancato, maledetta lei.

Era novembre, voleva forse farmi morire di freddo? Già la mia vita non aveva senso perennemente steso a letto, ora mi toccava morire assiderato?

«Cosí non si può andare avanti»aveva annunciato repentoria.

Avevo fatto finta di non considerarla cercando di farle capire con lo sguardo che doveva lasciarmi in pace nella mia autocommiserazione, l'unica cosa che mi era rimasta che potevo fare, videogiochi a parte. A proposito quale livello mi avrebbe aspettato oggi?

«Vuoi forse buttare all'aria la tua vita?»mi apostrofò cercando di scrollarmi.

Dovevo aspettarmi che il mio semplice ignorare non l'avrebbe dissuasa dal rompermi le palle. Il suo insistere lo avevo ereditato da lei, quindi sapevo che la discussione sarebbe andata avanti per le lunghe. Anche se non poteva scegliere parole migliori per farmi incazzare.

«Quale vita? Quella di uno zoppo a letto?»sibilai tra i denti.

Prima avevo una vita. Uno stuolo di amici che non desiderava altro che poter stare anche solo qualche secondo in mia presenza, e che pendeva dalla mie labbra. E un contratto con una società di serie A calcistica che mi avrebbe portato a giocare negli stadi più rinomati. Altro che Cristiano Ronaldo o Lionel Messi, sarei stato io la stella piú fulgida del calcio mondiale.

Ma il karma doveva essere senz'altro invidioso della perfezione della mia vita perchè in un lampo mi ha tolto tutto.

E purtroppo non ricordavo quegli attimi in cui un'auto mi investe strappandomi tutto, dalle mie gambe ai miei sogni ormai infranti.

«Non è la fine del mondo Luca. Se ti impegnerai potrai trovare un lavoro degno di te anche se sei in questa...condizione».

Dice che non è la fine del mondo? Non mi pare che ci sia seduta lei sulla sedia a rotelle. È facile parlare quando si può andare e fare qualsiasi cosa senza avere la necessità che qualcuno ti aiuti una volta si e l'altra pure. Superare un microgradino ormai era diventato impossibile. Che futuro avrei avuto essere dipendente costantemente dagli altri? Se proprio dovevo esserlo era meglio farlo da mantenuto.

E poi avevo capito che mia madre si imbarazzava del mio stato, non era mai stata capace a celare i suoi sentimenti. Mio padre idem e non appena era successa la catastrofe si era gettato a capofitto nel lavoro e le poche volte che lo vedevo mi fissava come un caso umano e indegno del suo interesse.

Borbottai a mezza voce con stizza un "Lasciami un pace" ma mia madre era davvero dura di comprendonio.

E fu in quel momento che finalmente mi rivelò la sua idea geniale.

Ok, era davvero pessima. Ma davvero credeva che avrei accettato passivamente? Storpio si ma stupido no.

Ma dopo una lunga ed estenuante trattativa eravamo arrivati al punto che si mi sarei piegato alla sua idea ma alle mie condizioni, in primis che se non sarebbe servito a nulla mi avrebbe lasciato in pace a vita.

Con uno sbuffo fissai fuori dal finestrino e finalmente la vidi uscire dalla farmacia con una busta in mano. O erano le medicine che dovevo prendere per evitare i sintomi da arto fantasma oppure erano quei sedativi che si prendeva prima di andare a letto. Dal mio incidente sembrava soffrire d'insonnia, come fosse lei ad essere stata asfaltata.

«Scusa se ti ho fatto aspettare troppo, ma c'era una coda abbastanza lunga»disse cercando di scusarci per avermi fatto aspettare...mezz'ora! Mi limitai a uno sbuffo per paura di aprire bocca e pronunciare qualcosa di cui mi sarei pentito. Pensavo che mia madre fosse troppo assillante ma non per questo meritava da parte mia degli insulti, anche se erano le frasi con più senso compiuto che si aggiravano maggiormente nella mia testa.

Mise in moto e s'infilò nel traffico pomeridiano, beccandosi qualche maledizione dietro dagli altri conducenti. Era sempre stata un pericolo pubblico al volante e dopo il mio incidente si era fatta piú ansiosa raddoppiando la sua pericolosità. Ma essendo uno di poche pretese, speravo solo di arrivare a destinazione sano e salvo.

Per fortuna la nostra meta non era distante dalla nostra posizione e arrivammo lí in meno di dieci minuti.
Parcheggiò l'auto in un posto libero che la mattina avremmo trovato pieno delle auto degli insegnanti e degli studenti maggiorenni. Se le cose fossero andate diversamente ci sarebbe stata anche la mia, ma purtroppo ciò non sarebbe mai successo.

La scuola che avevo cominciato a frequentare fin dalla prima superiore era un edificio sull'azzurro e bianco a base irregolare e più alta di altre che avevo avuto modo di vedere da fuori, in fondo faceva parte di un plesso che contava quattro palazzoni ed innumerevoli indirizzi di tipo tecnico, e piena di finestre.

L'entrata era leggermente infossata e si apriva su un cortiletto coperto dalla presenza al piano superiore dell'aula magna, ed era proprio di fronte ad una delle entrate dell'ospedale. Un pessimo scherzo del destino a guardarlo adesso.

Mia madre scese dalla macchina per dirigersi spedita verso il bagagliaio da cui estrasse il mio unico mezzo che mi permetteva di "muovermi" anche se a modo suo. Quella sedia a rotelle era la sola cosa che i miei mi avevano comprato quando ancora ero in ospedale come unico mezzo che mi avrebbe impedito di fare il vegetale a vita. I primi tempi l'avevo odiata, mi ricordava ciò che ero diventato e tutto ciò che avevo perso.

Ma col senno in poi l'avevo accettata come compagna di disavventure...poco loquace ma almeno m'impediva di fare il completo stoccafisso sdraiato sul letto.

Mia madre l'aprì e la posizionó vicino alla porta dopo che l'ebbi aperta. Come avevo già provato molte volte dal letto mi diedi la spinta con le braccia e con tutta la mia forza issai la parte ormai inutile del mio corpo sulla sedia. Per fortuna mia madre stavolta aveva messo il freno, non come la prima volta che avevo fatto esercizio. Era stata la prima vera volta che avevo capito di essere diventato debole ed inerme. A terra dopo la rovinosa caduta ero stato preso oltre che da un certo imbarazzo anche da una rabbia indicibile. Le gambe erano un peso morto che non mi reggevano più dopo che mi erano state amputate fino al punto transtibiale.
Proprio loro che erano state il mezzo principale per raggiungere il mio obiettivo mi avevano tradito. No, a tradirle ero stato io. Se solo mi fossi scansato in tempo sarei...

«Cosa fai lì impalato Luca? Forza entriamo»mi riprese mia madre incamminandosi. Preso dai miei cupi pensieri non mi ero neanche accorto che aveva richiuso la portiera e messo l'assicura.

Alzai lo sguardo verso la facciata della scuola e mi parve quasi di vederla per la prima volta. Sembrava quasi un luogo estraneo, ma forse ero io ad essere cambiato nel profondo e a non vederlo più come in tempo.

Cominciai a darmi una spinta girando l'anello corrimano ma subito riscontrai i primi problemi. Il marciapiede aveva un piccolo dislivello, insignificate per chi poteva stare in piedi, ma non per me. Cercai di muovermi con l'obiettivo di superarlo ma ciò che ottenni fu una quasi rotta di collisione con il marciapiede.

Mia madre ebbe la brillante idea di tornare sui propri passi e aiutarmi spingendomi da dietro. Odiavo dover essere costretto a dipendere dagli altri.

Superammo il marciapiede, provvisto anche di un numero spropositato di buche, i due scalini che portavano al cortiletto e infine la porta d'ingresso, anch'essa caratterizzata da un malefico dislivello.

Se avessi deciso di darmela a gambe sarebbe stato un suicidio...ok, questa battuta triste potevo anche risparmiarmela.

Una volta dentro fui assalito da una sorta di nostalgia che passó dopo neanche un nanosecondo. Non ero mai stato uno che amava andare a scuola e adesso non mi sembrava il momento di farmela piacere.
Avevo considerato sempre lo studio come un favore da fare ai miei che mi volevano vedere diplomato se non anche laureato, ma io fin da bambino ero certo che il mio destino fosse nel pallone.

Mia madre parlò con il portinaio prima che questi uscisse dalla gabina, che era la sua postazione di controllo, per aiutare mia madre ad aprire la porta dell'ascensore poco distante mentre lei mi spingeva verso quella scatoletta metallica claustrofobica.

Non dovetti starci molto, solo qualche piano prima di tornare a respirare normalmente.

In quel corridoio c'era la segreteria dov'ero andato ogni inizio anno a prendere il libretto per le assenze e più avanti vi era lo studio del preside dove solo chi veniva sospeso andava. Nella mia permanenza a scuola non mi ero mai macchiato di atti che mi spedissero lì quindi per me sarebbe stata la prima volta.

Mia madre bussò educatmaente ed altrettanto fu la risposta che la indusse ad aprire la porta e a trascinarmi dentro.

La stanza era ampia e non microscopica come alcune aule in cui mi ero ritrovato a fare lezione. Le pareti erano ricche di librerie stracolme di libri e al centro di tutto una scrivania imponente a cui era seduto il preside, un uomo sopra la cinquantina con i capelli brizzolati ma tendente alla calvizia. Portava degli occhialoni spessi adatti sicuramente per la lettura ed era vestito in modo piuttosto ingessato tipico di quelli della sua posizione.

«Sono molto felice che siate giunti»ci salutò con il suo modo di parlare pacato come fosse la personificazione della quiescenza. Dal canto mio non vedevo l'ora di aprire bocca e pronunciare tutto ciò che mi passava per la testa ma che mi avrebbe fatto passare per una pessima persona.

«Mio figlio è stato difficile da convincere a venire ma alla fine ce l'ho fatta».

Già a casa parlava di enigmi, quando si decidevano a svuotare il sacco una volta per tutte? Perchè tutto questo mistero? Volevano forse uccidermi e occultare il mio povero cadavere?

Il preside intuì di certo tutta la mia perplessità, che avevo scritto a caratteri cubitali in faccia, perchè mi sorrise cordiale.

«Io e tua madre abbiamo studiato un modo per permetterti di recuperare quello che hai perso cosicché possa rientrare in classe e concludere l'anno».

Eh certo, hanno scelto tutto loro. E a me che sono il diretto interessato non era passato loro nell'anticamera del cervello di chiedere il mio parere?

Oltretutto quelle parole mi accesero un campanello d'allarme. Qualcosa mi diceva che le mie giornate d'ozio erano appena giunte al tramonto. Che fregatura! A saperlo mi sarei ribellato di più e col cazzo che avrei ceduto.

M'innumidì le labbra prima di parlare.

«E in cosa consiste questa...soluzione?»

Il preside incrociò le dita delle mani e mi soppesó con lo sguardo, tanto che dovetti trattenermi dal fargli una linguaccia. Se lo avessi fatto di certo non sarei partito con il piede giusto e se volevo sapere che cosa mi attendeva dovevo fare buon viso a cattivo gioco.

«È presto detto»cominciò, finalmente intenzionato a parlare.«Il nostro obiettivo sarà farti recuperare le lezioni che hai perso da inizio anno ad oggi oltre che quelle che perderai in questi giorni, e pertanto tutti i pomeriggi ti affiancheremo a un tutor fino a quando non sarai rimesso in pari. Ovviamente queste lezioni saranno condensate e saranno sufficienti per reinserirti in classe».

Sulle prime lo fissai come se mi stesse pigliando per il culo, che si mettesse a ridere all'inprovviso dicendo che era solo uno stupido scherzo. Ma ciò non avvenne e così capí che era serio come la morte.

Aprì la bocca più e più volte cercando qualcosa da dire, ma le uniche parole che mi uscirono dalle labbra furono:«É uno scherzo vero?»

Luo sorrise di fronte al mio sgomento. Stronzo insensibile.

«Certo che no. Mi sembra un'ottima occasione per non farti perdere l'anno».

Sinceramente di essere bocciato non me ne fregava un emerito cazzo ma alla fine le cose sembravano fatte, senza contare che nelle condizioni in cui mi trovavo non me la sarei potuta dare a gambe. Per questo alzai gli occhi al cielo e mormorai un secco mormorio d'assenso.

Il preside si alzò e battè le mani entusiasta, facendolo somigliare a una foca. «Eccellente. Ti accompagno subito nella classe dove da oggi in poi ti incontrerai con il tuo tutor».

Strinse la mano a mia madre in procinto di lacrime, (e mica scema, si levava dai piedi per tutti i pomeriggi il figlio problematico) e solo dopo che lei ebbe lasciato la stanza mi fece cenno di seguirlo.

Girai le ruote con la forza delle braccia e lo seguì fin quando non si fermò di fronte all'ultima porta del corridoio. Cos'era, voleva tenermi d'occhio ed evitare qualche via di fuga? E dove cazzo sarei potuto andare?

«Eccoci arrivati. Il tuo tutor sarà qui a breve».

E detto questo mi lasciò solo.

Taburellai le dita sul bracciolo esaminando quello che mi stava attorno. Più che una classe sembrava uno stanzino quadrato per le scope, per fortuna illuminato bene grazie alla presenza di un'ampia finestra posta di fronte alla porta. Al centro campeggiava un banco, che doveva fungere da cattedra, che occupava buona parte della stanza posto, il che rendeva difficoltose le mie manovre con la sedia a rotelle, e c'era un'unica sedia, di sicuro per il tutor. Dietro ad essa campeggiava sulla parete una lunga lavagna il alabastro per gessi, e il solo pensiero della loro irritante polvere sulle mani mi fece salire l'istinto di grattarmele.

Non ebbi il tempo di continuare a squadrare il posto da cima a fondo perchè la porta dietro di me si aprì e ne emerse un ragazzo alto e allampato che teneva in mano con noncuranza un quaderno verde selva.

Era pallidissimo e aveva i capelli corvini lunghi trattenuti in un muccio basso, e gli occhi a mandorla dal taglio allungato che testimoniavano origini asiatiche.

Mi fissò intensamente con le sue iridi nere come la notte squadrandomi con sicuramente la stessa espressione che avevo quando avevo analizzato lo stanzino.

Cosa ci faceva lì? Non si era parlato di un'altra presenza. Poco male, forse anche lui era un nullafacente a rischio bocciatura.

Anche se la sua maglia poteva far ipotizzare ben altro dato che aveva una frase da nerd: "È tutta una questione di chimica" con annesso il tipico atomo stilizzato.

Non so perché ma mi stette subito sul cazzo.

Mi poggiai sfacciato contro lo schienale della sedia e gli sorrisi con fare arrogante.

«Allora, tu sai chi è?»

Lui si limitò a fissarmi sollevando un sopracciglio. Mi sa che l'intelligenza si fermava alla frase della maglia.

Eppure qualcosa di lui mi era famigliare, ma non riuscivo a rammentare dove l'avevo già visto.

«Ma si. Il vecchio bisbetico che ci farà da tutor. Perchè vecchio mi dirai, ma è presto detto. Perché così si sentirebbe in diritto di comandarci a bacchetta e farci quello che vuole».

Lui mi fissò irritato. Aspetta, ero mica finito in compagnia di un leccapiedi?

«Vecchio non si direbbe, dato che sarò io il tuo tutor».

Aspetta. Che...COSA?

 

Angolino autrice:

Hola 😍 eccomi con il primo capitolo :3 si può già capire come sarà il nostro caro Luca XD spero che non sia sembrato troppo "strano" ^^" sarà un po' irritante per un po' e spero che questo non sia troppo per voi ^^"

Commenti e critiche sono sempre ben accette 😍

Adiós!

FreDrachen

P.S. la storia la potete trovare nel mio profilo di wattpad (FreDrachen), per cui se la trovate da qualche altra parte è da considerarsi palgio.
PPS. La storia è ambientata nel corso dell'anno scolastico 2018/2019 ^^
La storia è coperta da copyright, tutti i diritti sono riservati.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

«Vecchio non si direbbe, dato che sarò io il tuo tutor».

Doveva essere senza dubbio uno scherzo. E uno di pessimo gusto.

Lo squadrai da capo a piedi e lui sostenne impassibile il mio sguardo. Degli occhi così fermi, così come l'apparente mancanza di emozioni, non erano di certo di natura umana. Doveva essere senza dubbio un automa. Oddio! Un automa con il compito di farmi il lavaggio del cervello. Ma mai gliel'avrei permesso. Parola di Luca Tremonti.

Lui dovette aver percepito i miei pensieri perché socchiuse appena gli occhi, le ciglia lunghe che gli solleticavano la pelle.

«Qualcosa mi dice che non sono esattamente la persona che ti aspettavi, o sbaglio?»

Noooo, mi aspettavo un vecchio in tutù che ballava con il monociclo facendo il giocoliere con i birilli.

Certo che questo ragazzo spiccava proprio di intelligenza. Ma allora perché era qui?

Come risposta mi limitai ad assottigliare le labbra ma lui non parve prendersela.

«Se il gatto ti ha improvvisamente mangiato la lingua o l'hai ingoiata, ed è quello che spero, lascia che mi presenti. Sono Akira Vinciguerra e nelle prossime settimane sarò la tua ombra, il tuo sensei*. Temo che con me rimpiangerai di aver saltato così tanti giorni di scuola».

Mi sorrise accondiscendente ma sotto il velo della pelle mi pareva di vedere una certa sadicità. Era un demonio travestito da angelo. E mia madre aveva deciso di lasciarmi in sua balia? Doveva essere del tutto fulminata.

E fu dopo che la mia mente ebbe registrato il nome che capì quasi subito il motivo per cui non mi era del tutto estraneo.

Avevo letto di lui sul sito della scuola dato che era arrivato primo alle gare di chimica e secondo a quelle nazionali, insomma un genio delle materie scientifiche.

E allora che cazzo ci faceva con me che frequentavo il corso sanitario che si, era sempre scientifico, ma era considerato il corso dei casi umani?

Quando sfacciatamente glielo chiesi lui si limitò a sorridere. Stronzo.

«Sarò anche di biotecnologie ambientali, ma so dimesticarmi anche nelle materie del corso sanitario. In fondo ci sono solo poche differenze».

Spilungone e intelligente, un'accoppiata che mi aveva sempre fatto nauseare.

E poi che aveva da fissare dall'alto in basso?

Ah si vero, ero seduto sulla sedia a rotelle, quindi finché non avessi avuto di fronte un hobbit tutti mi avrebbero fissato in quel modo.

«Va bene genio cinese. Adesso spiegami come hanno fatto a convincerti a venire qui» dissi irritato dalla sua semi sfacciataggine.

I suoi occhi si rabbuiarono e incrociò le braccia al petto. «Mi secca dirtelo ma sono per metà giapponese non cinese. E per tua informazione sono qui per i crediti extra».

Già, avevo sentito di quell'idea presa d'esempio dalle scuole americane dove si facevano attività extra per ottenere più punti alla maturità ma pensavo l'avessero accantonata vista la dubbia utilità. Ma a quanto pare il preside era di tutt'altro avviso. Evviva.

«Quindi non riuscirò a farti cambiare idea giusto, Occhioni a mandorla?»

Vedevo che era infastidito e la cosa mi faceva più che godere. Sorrisi in modo innocente e questo lo fece rabbuiare di più.

«No, non ti libererai facilmente di me. Sono disposto a tutto per svolgere al meglio questo incarico e che tu lo voglia o no assimilerai ogni cosa che ti sei perso».

«È una sfida, cinese?»

Lui afferrò i lati della cattedra improvvisata e si sporse in avanti cin fare quasi minaccioso,e forse ci sarebbe riuscito se non fosse che era abbastanza mingherlino di stazza. Uno così sul campo da calcio me lo sarei mangiato a colazione.

«Dal mio cognome avrai senz'altro capito che non sono proprio il tipo che si tira indietro e che perde»disse, e interpretai le sue parole come una sfida. Strinsi la mano a pugno preso in contropiede. Lo avremmo visto chi dei due l'avrebbe spuntata.

Il resto del tempo passò stramaledettamente noioso


Il resto del tempo passò stramaledettamente noioso. Lui provò a farmi delle domande sul mio stato attuale di preparazione e ovviamente gli feci notare che mi ero perso le lezioni di quei mesi e che era logico che non sapessi un accidenti di quello di cui stava parlando.

Lui alle mie repliche in tono sarcastico non rispondeva esplicitamente, ma i suoi occhi parevano urlare tutte le imprecazioni esistenti.

Il mio obiettivo sarebbe tanto fargli perdere le staffe prima o poi.

Per fortuna alla fine della tortura mentale mancavano pochi minuti e finalmente sarei potuto tornare a cazzeggiare come volevo.

Mi appoggiai con i gomiti sul banco e mi lasciai scappare un sonoro sbadiglio che Akira non apprezzò.

«Vedo che le tue buone maniere lasciano desiderare».

Perfetto oltre che secchione era pure un fissato della galanteria. Gente così doveva essere rinchiusa da qualche parte.

«La cosa ti dà fastidio, Akira?»

Pronunciai il suo nome scandendo ogni singola lettera caricandole il più possibile di sarcasmo.

Lui fece per replicare quando la porta si aprì e nella stanza entro una bionda dalle curve mozzafiato.

Aveva gli occhi grandi azzurri contornati da una tonnellata di eyeliner e matita e le labbra erano tinte di un rosso scarlatto. E che tette! Dovevano essere una quinta sicuro, e che rischiavano di uscire dalla scollatura della maglia attillata color bistro che indossava sopra un paio di jeans stretti che le facevano risaltare un paio di gambe affusolate e assolutamente favolose.

Lei si fece avanti e si mise di fronte ad Akira regalandomi lo stupendo panorama del suo sedere sodo.

Cazzo, se ogni volta che dovevo stare a sentire quel palloso dagli occhi a mandorla potevo bearmi di simile bellezza bè, mi sarei senza dubbio sacrificato per la causa.

«Potresti gentilmente smettere di fissare in quel modo la mia ragazza?»

Come? Cosa? Ragazza?

Ma ero per caso finito su un pianeta parallelo? Era impensabile che una figa del genere stesse con...bè uno come lui.

Era inconcepibile!

Distolsi lo sguardo da quel magnifico panorama in tempo per vedere lo sguardo ammiccante della ragazza. Chissà con quanta gente l'avrà già tradito.

Infine lei aprì le labbra rosse e carnose e prese a parlare. Inutile dire che la preferivo da zitta. Aveva una voce squillante che, chissà come mai, mi faceva pensare allo squittio di un topo.
Almeno la mia ex non sembrava così irritante. Esigente di attenzioni si ma almeno quando la sentivo non mi faceva venire una voglia matta di mettermi i tappi per le orecchie.

«Hai finito qui? Perché avrei un disperato bisogno di in passaggio in centro. Sai ho visto una maglietta stupenda in saldo...»

Quanto volevo staccarmi le orecchie dal cervello per smettere di sentire.

Quella continuò a parlare per un tempo che parve infinito, e avrebbe continuato se non mi fossi schiarito la voce.

«Scusa tanto se interrompo i tuoi drammi esistenziali ma fino a prova contraria il tuo ragazzo aveva a che fare con me»dissi irritato, un sentimento che non capivo. Perché dovevo esserlo se non m'interessava un cazzo avere le attenzioni di quel damerino?

Lei finalmente mi guardò fisso negli occhi e vidi che faceva ben attenzione a non fissarmi le gambe amputate, e per questo l'odiai. Era come tutti gli altri che si sentivano a disagio quando mi parlavano e che tendevano a guardarmi solo in faccia.

«Oggi mi pare che non dovevate fare cose importanti».

«Rilevanti tanto quanto le parole che ti sono uscite di bocca fino a quel momento?»domandai innocentemente e lei avvampò. Avevo colto nel segno e a differenza di quanto mi aspettassi Akira non intervenne, facendomi gongolare. L'oca era sola nella sua battaglia persa in partenza. Nessuno usciva vivi da uno scambio verbale con me.

Lei si riprese in fretta e sfoderò un sorriso finto.

«Ah, ma ora ti riconosco. Sei Luca Tremonti giusto?»

Wow, quanta perspicacia.

Alzai le sopracciglia. «Non pensavo che la mia inestimabile bellezza e intelligenza fosse giunta anche alle tue orecchie. Di te invece so meno di zero».

La vidi rabbuiarsi stringendo a pugno una delle mani con le unghie impregnate di smalto laccato. Infine mi sorrise. Cielo come attrice faceva davvero pietà.

«Avevo sentito parlare della tua parlantina. Uno come te non dovrebbe avere molti problemi a imparare da solo le cose e lasciare Akira a fare cose più importanti».

«Come rifornire il tuo guardaroba? Forse sarebbe il caso che ti dia una mano a comprare qualcosa di decente»dichiarai facendo cenno agli abiti che indossava, ben leggeri per le temperature di quel periodo. Ma come avevo fatto a reputarla bella fino a un attimo prima?

Lei pestò i piedi a terra come una bambina viziata e mi chiesi come non aveva ancora fatto conoscenza del pavimento visto che indossava due zeppe vertiginose. Come mai le ragazze apprezzassero quel capo d'abbigliamento era tutto un mistero.

«Come osi? Akira dii qualcosa. Come puoi permettere a questo zoppo di parlarmi in questo modo?»

Volsi lo sguardo su Akira e constatai che non aveva alcuna intenzione di intervenire in favore della ragazza anzi, pareva uno che non vedeva l'ora di tornarsene a casa.

Difatti quello che fece fu bofonchiare uno sbrigativo: «Ci vediamo domani alla stessa ora»al sottoscritto, mentre alla sua ragazza dedicò una lunga occhiata prima di lasciare la stanza.

Per un attimo rimasi con l'oca e temetti che mi potesse dare la colpa dello strano comportamento del fidanzato e che mi potesse soffocare con la tracolla della borsetta che aveva, talmente mini da poter contenere al pelo il telefono.

Ma per mia fortuna ciò non avvenne e la ragazza sgusciò fuori dietro al mio nuovo tutor.

Sorrisi. La partita con quell'Akira era appena iniziata, e avremmo visto chi dei due l'avrebbe spuntata.

 La partita con quell'Akira era appena iniziata, e avremmo visto chi dei due l'avrebbe spuntata

«Com'é andato questo primo giorno Luca? Il tuo tutor come ti sembra?»

La voce di mia madre mi riportò alla realtà mentre stavo giocando con il cibo spostandolo da una parte e l'altra del piatto.

Alzai lo sguardo su di lei e notai che aveva un che di speranzoso disegnato sul volto. Sperava che il suo caro figlio storpio avesse trovato uno scopo.

Bè si sbagliava di grosso. Quella era la mia punizione, e non meritavo di uscire da quella situazione.

Ma di fronte a quello sguardo fui solo in grado di mormorare qualche parola a mezza voce.

«Si sembra competente. No, iniziamo domani».

Una luce parve far brillare i suoi occhi mentre mio padre aveva assistito alla scena in completo silenzio.

Dopo l'incidente pareva che si fosse formato un muro invarricabile tra me e lui, e a malapena mi rivolgeva qualche occhiata. Non parlava più direttamente con me ma usava mia madre come intermediario, come se non fossi all'altezza del suo interesse. E faceva male si, sopratutto perché prima eravamo molto uniti.

Avevo cominciato a giocare a calcio perché faceva piacere a lui, e con il tempo era diventata la mia sola e unica ragione di vita.

Ma il karma meschino e sadico aveva deciso di rompere quell'idillio.
Sapevo che mia madre soffriva di quella situazione ma cosa potevo fare?

La mia vita non contava più nulla e forse mio padre faceva bene a considerarmi un fallito, una persona irresponsabile che era riuscita a rovinare la sua vita pressoché perfetta.

Nessuno parlò per il resto della serata e finito di mangiare annunciai la mia intenzione di andare in camera. Meglio la solitudine a quel silenzio glaciale.

Mi feci forza con le braccia dandomi la spinta per avanzare con la sedia a rotelle e colsi con la coda dell'occhio lo sguardo disgustato di mio padre.


*Trad dal giapponese: maestro
 

Angolino autrice:

Buonsalve :3
Ecco a voi il secondo capitolo *-*
Spero vi sia piaciuto *-*
Comunque commenti e suggerimenti sono sempre ben accetti :D

A presto!!

FreDrachen

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3



«Gli amminoacidi sono l'unità formante delle proteine, sono molecole organiche relativamente piccole in cui a un atomo centrale di carbonio sono legati un atomo di idrogeno, un gruppo carbossilico acido, un gruppo amminico basico e un gruppo variabile...Ehi, ma mi stai ascoltando?»

Alzai lo sguardo con fare annoiato dal foglio di carta che avevo di fronte. In teoria dovevo prendere appunti su quello che stava dicendo, in pratica stavo scarabocchiando con la penna disegni senza alcun senso. Akira era di fronte alla lavagna la mano ancora sospesa nel gesto dello scrivere.

Aveva già abbozzato quella che pareva una struttura chimica a me del tutto sconosciuta. Forse era per via del mio immenso odio nei confronti di quella materia. L'unica che mi interessava era anatomia e nello specifico il sistema muscolare dato che a un calciatore poteva venir comodo conoscere i muscoli implicati nel movimento. E ancora forse quello respiratorio e circolatorio. Quindi delle molecole organiche, inorganiche poteva fregarmene poco o niente. Anche di carboidrati e simili l'importante per me era solo sapere quanti mangiarne per mantenere una forma pressoché perfetta per le prestazioni. Poi come fossero fatte era una cosa di poco conto. Era già il terzo giorno di tortura e ancora continuava a pretendere la mia attenzione. Ancora non aveva capito che non mi fregava nulla di tutto quello?

Akira emise un sospiro che mi parve di stizza ma finsi di non averlo intuito.

«Qualche problema sensei cinese?»

Lui mi rifilò un'occhiataccia a cui risposi con un sorrisetto impertinente.

«Ti ho già detto che non sono cinese? Mi dà un po' fastidio essere considerato tale».

«Che differenza ci sarebbe? Avete tutti gli occhi a mandorla e un colorito itterico».

Akira mi scoccò un'occhiata più intensa e si, guardandolo mi rendevo conto che il suo colorito non era affatto come l'avevo appena descritto. In verità non volevo sembrare offensivo, le mie parole dovevano solo avere il potere di irritarlo e così rinunciare a quella che mi pareva una tortura mentale. Ma davvero sperava di farmi imparare tutte quelle cose in un mese scarso? Tra l'altro oltre a quelle perse doveva anche spiegarmi quelle che mi stavo perdendo in quei giorni, rendendo l'impresa umanamente impossibile. Perché allora continuare con questa farsa?

«Dimmi Luca, a te non darebbe un certo fastidio se ti dessero del francese, o dell'inglese?»

Del mangiatore di baguette e bevitore di thè? Eh certo che mi avrebbe irritato.

Glielo dissi e lui di tutta risposta mi regalò un pallido sorriso, anche se continuavo a scorgere l'irritazione in fondo ai suoi occhi.

«Questo è essenzialmente simile. Come può dare fastidio a me potrebbe farlo anche a un cinese o coreano. Per cui ti pregherei di smetterla». Fece un sospiro e aggiunse: «Senti, so che per te è difficile ma non pensare che per me sia una passeggiata cercare di condensare il programma fatto in così poco tempo. Siamo tutti e due sulla stessa barca e ci terrei molto che collaborassi anziché rendere le cose difficili».

Oh, ma allora Occhi a Mandola aveva capito qual era il mio obiettivo.

«Se per te è così pesante perché hai accettato? Nessuno ti ha costretto o sbaglio?»

Le sue goti si colorarono di un tenue rosso come se fosse un imbarazzo. Oh, avevo toccato un nervo scoperto.

Lui aprì la bocca due,tre volte prima di parlare.

«Anata ga totemo suki*» mormorò a voce talmente bassa che quasi mi ero perso le sue parole, pronunciate senza dubbio in quella che era la sua lingua madre assieme all'italiano. Trovavo, però, irritante il fatto di non averci capito un accidenti.

«Scusa, potresti ripetere quello che hai detto? E se possibile in una lingua comprensibile».

«Il preside ha introdotto questa pratica prendendo spunto dalle scuole americane. Crediti extra per attività extra. E fare da tutor mi pareva all'altezza delle mie capacità»rispose lui quasi tutto d'un fiato.

Era una scusa, lo si capiva dal nervosismo che leggevo nei suoi occhi, ma decisi di stare alla sua bugia.

«Quindi per te non sono altro che un guadagno facile di crediti? Affascinante»dichiarai. Di quello che faceva non m'importava un cazzo, ma era divertente cercare di fare leva sui suoi sensi di colpa.

Come previsto Akira incassò il colpo e lo vidi in difficoltà. Pensavo fosse stato scolpito interamente da una pietra indistruttibile, e invece era friabile e debole.

«Non mi aspettavo fossi così egoista»continuai imperterrito.

Al che lui strinse la mano e nel farlo ruppe il gesso che teneva in mano.
Distolse lo sguardo e continuò il suo palloso discorso dal punto in cui si era interrotto.

Una cosa l'avevo imparata. Sapevo come fare breccia nel muro invaricabile dietro cui cercava di nascondersi per proteggersi dal testo del mondo.

«...il gruppo variabile detto anche catena laterale, viene indicato con la lettera R, e può essere di natura idrofila se polare, idrofoba se possiede un gruppo carbossilico dissociato, oppure basica. Gli amminoacidi so legano tra loro per formare una catena polipeptidica mediante un legame covalente, ossia il legame peptidico. Questo legame si forma...»

Continuò con il suo discorso ben conscio che non stavo scrivendo una sola parola che stava dicendo.

Ma la mia mente stava elaborando un piano, un piano per liberarmi della sua presenza.

"Continua pure Akira, ma sappi che da adesso in poi sarò il tuo peggior incubo".

Tornato a casa mi issai dalla sedia a rotelle per finire sdraiato sul letto, a corto di energie

Tornato a casa mi issai dalla sedia a rotelle per finire sdraiato sul letto, a corto di energie. In qualche ora Akira mi aveva prosciugato di qualsiasi voglia di vivere e sebbene cercavo di non dargli ascolto qualcosa mi era entrata un zucca tanto da farmi venire un feroce mal di testa. Speravo che quel giorno non fosse rappresentativo di quelli che mi avrebbero atteso.

Recuperai dalla tasca dei pantaloni in tuta che indossavo, modificati per le mie gambe amputate in modo che si chiudessero sui moncherini in modo che la pelle sensibile non entrasse in contatto con l'aria gelidina di Novembre, il cellulare e per abitudine entrai su Instagram. Dal giorno dell'incidente non avevo più postato niente, pareva che per il mondo digitale fossi ufficialmente morto. In effetti era vero, il vecchio me da quel maledetto giorno era svanito del tutto e tale sarebbe rimasto per sempre.

Nessuno, però, sapeva che spettegolavo i profili che m'interessavano.

All'inizio avevo provato solo un enorme fastidio vedere che i miei ormai ex amici continuavano la loro vita senza di me. Avevo scoperto poco dopo la mia dimissione dall'ospedale che la mia ex Agnese si era messa con il mio migliore amico Ippolito. Mi ero sentito davvero ferito nell'orgoglio, sopratutto per il loro affiatamento che non poteva di certo essere nato in così poco tempo. Sicuramente i due si frequentavano già molto prima alle mie spalle e questo bruciava.

Nella home trovai una foto di Agnese risalente all'estate poco prima dell'incidente, seduta sulla prua di uno jot, vestita solo con un bikini che lasciava trasparire le sue curve. Era una ragazza davvero bella con la sua pelle di solito pallida ma che lì era diventata di un bel color caramello, e i capelli lunghi fino alle spalle neri e setosi. La conoscevo da quando eravamo alle elementari, io un bambino iperattivo e incline a sbucciarsi la pelle una volta si e l'altra pure, lei invece una bambina dalle treccine color ebano e un paio di occhiali pesanti per la sua scarsa vista, sostituiti ora dalle lenti a contatto. C'eravamo messi insieme in prima superiore, non perché innamorato di lei, ma perché era quello che ci si aspettava da noi. Quindi alla fine non doveva sorprendermi che avesse scelto Ippolito. Magari tra loro era scoccata davvero la scintilla. Non che credessi tanto all'amore. Per me non esisteva, al contrario dell'attrazione fisica che, a parer mio, era alla base di ogni interazione oltre l'amicizia.

Un pensiero per cui i romanticoni mi avrebbero bruciato a rogo per eresia ma era questo che avevo provato sulla pelle.

Scorsi con il dito sullo schermo e vidi l'ennesima foto di Ippolito durante l'allenamento con la sua nuova squadra. Se non avessi perso le gambe quel posto darebbe stato mio.

Avevo firmato il contratto che mi avrebbe permesso di farmi un nome e una fama in serie A. Avevo festeggiato quella notizia. Ma di quella sera ricordavo poco o nulla. E al risveglio dal sonno indotto farmacologicamente mi ero ritrovato senza gambe, gli unici mezzi che avevo per poter coronare il mio più grande sogno. Ippolito faceva parte della mia stessa squadra della primavera ed era il più bravo dopo di me. La società calcistica lo aveva preso dopo che i fatti erano crollati.

Odiavo le loro vite perfette. Odiavo quando loro avevano tutto e a me non era rimasto nulla se non l'amaro in bocca di aver potuto toccare il cielo con un dito.

Uscì da Instagram con stizza e gettai il telefono al mio fianco.

Mi stesi in modo da vedere il soffitto bianco. Lo avevo fatto troppe volte perché lo potessi considerare interessante.

Per quello mi alzai a sedere e allungai il braccio verso il telecomando della tv a cui era collegata la Playstation. Afferrai anche il joystick e mi preparai a una sana maratona di Assassin creed.

*La traduzione verrà messa in un qualche capitolo più avanti perché adesso sarebbe spoiler per una cosa ^^"
 

Angolo autrice:

Buonasera *-* ecco qui il capitolo 3 :3
Spero vi sia piaciuto e che l'irritantezza momentanea di Luca non vi abbia urtato troppo :3
Commenti e critiche costruttive sono ben accette!

A presto!

FreDrachen

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4


Quando sentì mia madre bussare ritmicamente alla porta di camera mia avrei tanto voluto conoscere tutte le lingue del mondo per imprecare a dovere.

Ma doveva rompermi alle...otto del mattino di sabato? Ma si era fatta di qualche stupefacente negli ultimi tempi, oppure soffriva d'insonnia?

«Luca sei sveglio?»

"Adesso si" pensai acido, e di tutta risposta borbottai un debole assenso, intuendo che quel giorno non avrei più potuto sprofondare con la testa sul cuscino.

«Molto bene. Allora vieni in cucina a fare colazione. Ma fa presto che ti sta aspettando».

Aspettando chi?

Non ricordavo di dovermi vedere con qualcuno dato che nessuno dei miei amici si era più fatto vivo dopo l'incidente. Anzi no, per l'esattezza si erano presentati una sola volta in ospedale dopo che avevano smesso a tenermi buono con le benzodiazepine. Ancora ricordavo gli sguardi ricolmi di pietà e disgusto tanto che ero stato io in malo modo ad allontanarli se la mia presenza li disturbava. In cuor mio sapevo che molte amicizie erano dovute solo alla mia fama ma almeno speravo che il mio migliore amico e la mia ex mi rimanessero affianco in quel momento, ma così non era stato.

E poi ero stanco morto. Quella settimana Akira mi aveva sottoposto a un'estenuante tortura fatta di tutte le materie condensate. Si passava da inglese a chimica più velocemente della corsa di Flash, e sebbene non avessi voglia di ascoltarlo dovevo ammettere che spiegava molto meglio dei prof, ma questo non gliel'avrei rivelato neanche sotto tortura. Ma ciò non toglieva che era umanamente impossibile stare dietro a così tanta roba. Fatto sta che mi ero ritrovato interamente prosciugato di qualunque energia che avevo tutta l'intenzione di riacquistare durante il weekend.

Ancora imbambolato dal sonno mi allungai verso la sedia a rotelle su cui mi sedetti e dopo essere uscito dalla camera mi diressi verso il bagno per sciacquarmi il viso. Solo il contatto con l'acqua fredda aveva il potete di riportarmi alla realtà, almeno quel poco per fare le azioni basilari. Non ero il tipo che si accontentava di otto ore di sonno. Anche se da dopo l'incidente avevo fatica ad addormentarmi, ed era per questo che al risveglio sembravo peggio di uno zombie, e anche a mangiare. Chi mi seguiva li aveva bollati come sintomi da stress post trauma, ma sinceramente non me ne fregava nulla.

Dopo essermi sciacquato il volto e fatto tutti i bisogni essenziali mi diressi in cucina per buttare giù qualcosa giusto per far contenta mia madre, oltre che cogliere il momento per chiederle chi mi stesse aspettando.

Ma sulla soglia della cucina avvertì la mandibola cascare di botto, e immaginai la mia somiglianza con un personaggio dei cartoni animati.

Seduto al tavolo di casa mia stava calmo e placido, come il mare prima della tempesta, Akira. Sedeva al tavolo e di fronte stava una tazza colma di latte e cioccolato (il mio cioccolato per l'esattezza) e a fianco, poggiata su un tovagliolo, una brioches. In quella che era la mia solita postazione trovai disposti lo stesso tipo di cibo.
Sembrava padrone assoluto della situazione e lo odiai per quello.

Dovette avvertire il mio sguardo assassino perché alzò lo sguardo e mi sorrise come fossimo amici di vecchia data.

Che stronzo.

«Buongiorno Luca. Dormito bene?»mi salutò gioviale, calcando le parole con la presenza di un sorriso che celava ben molti significati che non mi sarebbero piaciuti.

Che stronzo parte due.

La giornata si prospettava tra quelle da dimenticare assolutamente.

Mia madre arrivò in quel momento con in mano due tazzine di caffè fumante.
Non appena mi vide accennò un sorriso dolce. Che traditrice.

«Oh Luca, finalmente sei arrivato. Forza, fa colazione. Ti aspetta una lunga giornata».

Non aggiunse altro ma intuì fin da subito che quello che mi attendeva non mi sarebbe piaciuto affatto. Ma tanto era inutile discutere con lei e manco l'avrei fatto di fronte ad Akira che mi osservava attentamente come se ci stesse studiando sotto la lente di un microscopio, essendo l'unica cavia presente dato che mia madre scomparve in cucina.

Mi avvicinai al tavolo e bevvi qualche sorso di latte e diedi qualche morso alla brioches, ma come al solito avvertì lo stomaco chiuso.

Akira dovette intuirlo perché s'inchinò un poco verso di me e fui assalito dal suo odore, per nulla fastidioso.

«Che c'è? Non hai fame Tremonti?»mi domandò con un tono saccente che odiai profondamente.

Incastrai lo sguardo con quello ossidiana di lui e bevvi tutto il latte quasi d'un fiato rischiando di farmelo andare di traverso. La nausea ammontò quasi subito ma non mi diedi per vinto.

Anzi, afferrai la brioches manco fosse il mio peggior nemico e anche quella la divorai in pochi morsi, stando attento a masticare bene i bocconi per evitare un'indigestione.

Infine bevvi il caffè ormai tiepido e per poco non sbattei la tazzina sul tavolo come a dimostrare che la sua sfida oltre che ad accettarla l'avevo pure vinta.

«Soddisfatto?»sogghignai stirando i denti in un sorriso vittorioso.

Ma...merda. Avevo una voglia matta di vomitare. Forse avevo leggermente esagerato, e la colpa era unicamente di Akira che mi aveva provocato.

Il diretto interessato sospirò rassegnato come se avesse a che gare con un caso umano. Stronzo.

«Non era per ne che dovevi mangiare ma per rimetterti in forze».

Rimettermi...in...forze? Ma stava scherzando?

«Non prendermi per il culo»gli dissi contro con enfasi, tanto da farmi risalire il cibo malamente digerito. Se non mi fossi trattenuto avrei scatenato il mio bisogno di dimettere esattamente sulla sua maglia. Quel giorno la scritta era diversa: "I cervelli domineranno il mondo". Chissà dove trovava quelle maglie strampalate. Anche durante la settimana ne aveva messe di diverse e l'una più stramba dell'altra.

Akira dovette capire il mio stato di salute perché mi fissò preoccupato.
«Luca, stai bene? Non hai un bell'aspetto».

E meno male che era intelligente.

"Se ti parlo ti vomito in faccia, e la colpa è solo tua" avrei voluto rinfacciargli ma questo avrebbe vanificato i miei sforzi di non farlo.

Per questo girai i tacchi e mi diressi spedito verso il bagno e giunto lì mi affacciai verso il gabinetto in cui sviscerai anche l'anima. I conati erano violenti mentre espellevo quello che mi ero forzatamente imposto di mangiare e per quello cominciò farmi male il torace.

Poi una mano freddina sulla fronte, che fece in modo che il mio ciuffo biondo scuro non mi finisse sul volto, mi riportò alla realtà.

Girai appena lo sguardo e incrociai gli occhi con quelli di Akira che mi fissava serio.

Vomitai ancora un altro po' e cercai di non pensare ad Akira che premuroso mi teneva, oltre che i capelli in salvo, anche le spalle affinché la forza dei conati non mi facesse perdere l'equilibrio. Sembrava muoversi con gesti esperti e mi domandai se quello fosse per lui un qualcosa già fatto in passato.

Per me Akira Vinciguerra era un mistero che non m'interessava svelare. Tanto se tutto andava come le mie intenzioni me ne sarei liberato molto presto, o almeno speravo.

«Tutto bene?»mi domandò dopo che mi fui un attimo ripreso e quasi fui tentato a rispondergli in modo sarcastico, dato che era palese che nulla andasse bene. Ma di fronte a quello sguardo intenso non capì il motivo per fui volevo parlargli sinceramente. Ci conoscevamo da appena una settimane gli avevo dichiarato guerra aperta, perché allora quello che riflettevano i suoi occhi mi metteva a disagio?

«Ho mangiato più del dovuto»ammisi, pentendomene subito dopo. Odiavo con tutto il cuore sembrare debole di fronte a qualcun altro.

Lui mi scrutò attentamente mettendomi in soggezione. Doveva davvero smetterla, era inquietante.

«A me pareva una normale colazione».

Sorrisi amaramente. «Da dopo l'incidente mi viene difficile mangiare troppo» provai a spiegargli ben conscio che non avrebbe mai capito fino in fondo. Non gliene facevo una colpa. Finché uno non lo provava sulla stessa pelle non avrebbe mai potuto veramente intuire cosa si passava.

Invece diversamente da quanto mi aspettassi lui mi fissò come se avesse realmente capito, e per questo lo fissai tra lo stupito e il sospetto. Secondo me lo aveva metabolizzato solo dal punto di vista clinico e in modo distaccato come accadeva da parte di soggetti terzi.

«Anche io dopo il mio ricovero in ospedale»disse, smontando la mia ipotesi.

Lo fissai incuriosito. Quella sua ammissione me l'aveva messo sotto una luce diversa.

M'innumidì le labbra prima di parlare. «E quando è successo?»

«Tre anni fa. Ho anche perso l'anno per le troppe assenze che avevo fatto per potermi riprendere»rispose e nei suoi occhi lessi il mio stesso identico stato d'animo. Ma prima che potessi chiedergli altro aggiunse: «Mangiare era diventato a volte insostenibile, così come dormire o anche solo respirare. A volte ero arrivato al punto che speravo di smettere di provare qualsiasi cosa. Le ferite interiori non guariscono come quelle esterne, si cicatrizzano lasciandoti rotto dentro».

Per un attimo fu a me che mancò il respiro. Neanche il mio psicoterapeuta che dopo le mie dimissioni dall'ospedale mi aveva preso in cura aveva capito realmente come mi sentivo. E invece Akira aveva espresso ad alta voce ciò che covavo nel cuore, facendomelo sentire vicino come non era mai stato durante la settimana.

Un momento. Ma. Cosa. Stavo. Pensando?

Mi liberai dal suo tocco leggero come le ali di una farfalla, e cercai di tornare in me. Mi stavo facendo rincuorare da quello che avevo deciso di considerare il mio nemico.
Ma il caldo tiepido delle sue mani a contatto con la mia pelle mi aveva fatto stare bene, come non accadeva da tempo. Cosa mi stava succedendo? Cosa andavo a pensare? Con lui non volevo avere niente a che fare.

«Rincuorarmi dicendo quello che mi aspetto di sentirmi dire fa parte dell'essere un tutor? Quanti crediti in più ti danno se fai il leccapiedi con me?»

Lui strinse le labbra, segno che le mie parole lo avevano punto sul vivo, ma si riprese un fretta assumendo di nuovo il suo aspetto impassibile. «Non é così. É quello che ho provato sulla mia pelle e a quanto pare é quello che stai vivendo anche te».

Quelle parole così cariche di sincerità mi fecero capitolare e mi persi completamente nelle sue iridi del colore dell'abisso.

No, non andava bene per niente. Dovevo attenermi al piano e non lasciarmi sopraffare dalle emozioni anche se questo necessitava di un bel po' di autocontrollo che pareva completamente estinguersi in presenza di questo ragazzo.

Cazzo.

«Se lo dici tu»mormorai scansandomi e riprendendo il controllo di me.
Notando che continuava a fissarmi gli parlai nel modo più sgarbato possibile. «Presumo che non te ne andrai finché non mi avrai sottoposto alla tortura per il tuo tornaconto, giusto?»

Volevo farlo arrabbiare, vederlo perdere la pazienza e dimostrarmi che non era un automa ma più un essere umano. Ma di nuovo si mantenne imperscrutabile.

Prima o poi l'avrei fatto crollare.

Prima o poi l'avrei fatto crollare


Ci sistemammo in salotto. In camera mia sarebbe stato troppo strano e l'avrei sentito quasi come una violazione della mia intimità. In quella stanza era racchiuso il mio dolore e la mia rabbia e questo Akira non doveva sentirli. Era e doveva rimanere uno sconosciuto con cui dovevo avere a che fare perché costretto. E poi avevo intuito che Akira fosse un tipo precisino, visto che al minimo accenno della penna messa leggermente storta la raddrizzava. Tutto quello che toccava lo metteva in ordine in modo maniacale, e per quello sarebbe inpazzito se avesse visto il caos entropico che regnava indiscusso in camera mia, peggiorato dopo l'incidente. E poi da nerd non avrebbe capito le gigantografie dei più grandi calciatori, i miei idoli indiscussi, preso com'era sicuramente da quei personaggi di cartoni animati giapponesi.

Sprofondai quasi nel divano amaranto mentre Akira si sistemò sulla poltrona di fianco correlata, e cominciò a tirare fuori dalla sua borsa a tracolla da nerd, piena zeppa com'era di così di diversi personaggi di quei cartoni animati che tanto gli piacevano, i libri per studiare.

Mia madre era già andata in camera mia a recuperare i miei ma anziché seguire l'esempio di Akira mi sdraiai comodamente incrociando le braccia dietro la testa con lo sguardo rivolto al soffitto.

Sentì un sospiro da parte di Akira ma nessuna replica. Trattenni un sorriso vittorioso. Doveva aver capito che quello era territorio mio e che ero io a dettare legge.

Ma diversamente da quello che mi aspettassi ribatté: «Sai che qualsiasi tentativo di ribellione da parte tua sarà vano? Non ho alcuna intenzione di cedere con te».

Scostai lo sguardo dal soffito per soffermarlo su di lui. «Perché? Per te valgono così tanto i tuoi crediti?»domandai mettendomi poi seduto. «Dii che sono un caso disperato e che hai fatto di tutto e io farò leva affinché ti diano questi crediti del piffero. Così saremo entrambi soddisfatti».

Vidi che soppesò le mie parole e per quello mi trattenni dal sfoderare un sorriso. Il caro retto e responsabile Akira Vinciguerra stava per capitolare. Dovevo essermi sbagliato sulla sua integrità, e in fondo non era altro che un ragazzo disposto a tutto per ottenere quello che voleva, rendendomelo più simile di quanto pensassi.

Ma la vittoria durò meno di un minuto, e si sgonfiò alle parole di Akira.

«Sarebbe tutto più semplice sai? Ma ti dirò, odio le cose troppo semplici». E per la prima volta lo vidi assumere un sorriso sinceramente divertito ma che per me aveva il sapore di sconfitta e presa in giro.

Strinsi i denti, facendoli quasi scricchiolare.

Pensava di aver vinto la guerra. Ma si sbagliava di grosso. E questo gliel'avrei fatto capire presto.

Angolino autrice:

Buonsalve *-* Buon San Valentino!
Comunque ecco un nuovo capitolo che spero vi sia piaciuto :3
Luca non ha una gioia manco il sabato e Akira ha accennato finalmente qualcosa del suo passato...vi siete fatti istintivamente già un'idea? XD sono apertissima alle vostre ipotesi ^^
Ringrazio tantissimo chi sta seguendo questa storia ❤️ spero che continui a piacervi 😍

A presto con un nuovo capitolo!

FreDrachen

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5


Dovevo ammettere a me stesso che il peggio non aveva mai fine. Perché se nei giorni settimanali l'agonia durava qualche ora, quel weekend le mie energie erano andate a farsi friggere.

Akira, peggio di un dittatore, aveva imposto una sessione di studio che partiva dopo una veloce colazione fino alle sette di sera e con pochissima pausa a pranzo.

Ma neanche i carcerati erano trattati in quel modo. E a pesarmi più di tutto era stato lo svegliarsi alle otto del mattino, praticamente all'alba!

Il lunedì dovetti nuovamente presentarmi a scuola, dopo una lunga ed estenuante discussione con mia madre affinché mi lasciasse in santa pace, ma ovviamente non ero riuscito a smuoverla dalla sua intenzione. Quando entrai in quella che era diventata la nostra aula, o meglio sala delle torture, trovai Akira seduto di traverso con le gambe poggiate sui braccioli della sedia e delle vistose cuffie alle orecchie. Muoveva appena la testa a ritmo delle musica che ascoltava e tamburellava con le dita sulle ginocchia.

Poi ad un tratto cominciò a cantare: «Kore ijou no jigoku wa nai darou to shinjitakatta

Saredo jinrui saiaku no hi wa itsumo toutotsu ni

Tobira wo tataku oto wa taezu hidoku busahou de

Manekarezaru saiyaku no hi wa akumu no you ni

Sugishi hi wo uragiru mono yatsura wa kuchiku subeki teki da

Ano hi donna kao de hitomi de oretachi wo mitsumeteita?

Nani wo sutereba akuma wo mo shinogeru

Inochi sae tamashii sae kesshite oshiku nado wa nai

Sasageyosasageyoshinzou wo sasageyo!

Subete no gisei wa ima kono toki no tame ni

Sasageyosasageyoshinzou wo sasageyo!

Susumu beki mirai wo sono te de kirihirake*».

La sua voce era leggera e molto intonata mentre cantava in quella lingua così diversa eppure musicale che doveva trattarsi senza dubbio del giapponese. Rimasi a fissarlo ammaliato dalla passione che imprimeva in ogni singola parola pronunciata.

Aspettai che finisse la canzone prima di renderlo partecipe della mia presenza.

«Stai per caso facendo un provino per il Festival dei nerd?»lo provocai e non mi persi la sua occhiata al cielo.

«Ciao anche a te» ribattè riposizionandosi in modo composto sulla sedia con fare elegante e leggiadro come si vedeva raramente in un ragazzo e che mi lasciò per un attimo ammaliato.

Mi feci avanti e mi appiccicai un sorriso strafottente sul volto, incrociando pure le braccia al petto concentrando lo sguardo verso la maglia che indossava quel giorno, nera con due ali incrociate una bianca e una blu, un simbolo mai visto in vita mia**.

Akira si accorse del mio comportamento ed emise un lungo e controllato sospiro.

«Ancora sei dell'idea che il tuo comportamento mi convinca a cedere? Mi spiace deluderti, ma come ti ho già detto più volte non ti libererai di me».

«Davvero Akira?»ribattei pronunciando il suo nome, quasi scandendo ogni singola lettera, al che vidi le sue spalle irrigidirsi e i suoi occhi ossidiana allacciarsi ai miei del colore del cielo unito alle nuvole in tempesta.

«Per te sarò il tuo sensei, il tuo maestro. E lo sarò fino alla fine del mese. Per cui ogni tuo tentativo di ribellione sarà vano credimi, e una perdita di tempo per entrambi».

Sensei? L'aveva già pronunciato qualche volta come termine, ma non avevo la più pallida idea di che cazzo significasse. Ci mancava pure che cominciasse parlare in mandarino.

«D'accordo, Sensei cinese»risposi trascinando le parole per infastidirlo.

Lo fidi ridurre ancora si più gli occhi tanto da chiedermi se riusciva ancora a vedermi, ma non rispose alla mia frecciatina. Akira esercitava su di sé un notevole autocontrollo che ammirai.

Lo vidi estrarre il libro di letteratura e avrei tanto voluto pugnalarmi al cuore.

Se consideravo le chimica, che mi aveva costretto a riprendere quel weekend, inutile lo pensavo ancora si più con l'italiano. A parer mio bastava saper leggere e scrivere, poi che i Promessi sposi li avesse scritti Manzoni o chissà chi non me ne fregava poi molto.

«Dal tuo programma ho visto che hanno cominciato da Leopardi e per fortuna lo devo studiare pure io».

Già che fortuna, ero davvero al settimo cielo per la notizia, pensai con sarcasmo.

«Dunque il conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi nacque a Recanati il 29 Giugno 1798...»

«Chissà se doveva scrivere tutti questi nomi per firmare» dissi esprimendo i miei pensieri a voce alta pentendomene subito dopo. Adesso si sarebbe reso conto che in realtà lo stavo ascoltando, cosa che non doveva minimamente pensare e sapere.

«Spero proprio di no. Altrimenti sarebbe ancora lì a scriverli».

Rimasi per un attimo imbambolato. Ma allora non era un automa tirannico senza un briciolo di sarcasmo!

Alla mia espressione sbigottita Akira si permise un sorrisetto fugace.

«Non avrai mica pensato che non avessi sentimenti?»

«Si» mi lasciai scappare e in risposta lui alzò gli occhi al cielo ma lasciò cadere il discorso.

Dopo neanche quindici minuti di lezione me ne uscì con un: «Faccio un salto alle macchinette. Sto morendo di fame».

Non era vero, e questo Akira poteva capirlo dato che mi ero tradito a casa qualche giorno prima ma speravo che mi lasciasse andare comunque. A furia di ascoltare mi stava venendo l'emicrania. E poi magari proprio perché sapeva avrei potuto fare leva sui suoi sensi di colpa a lasciarmi andare.

Ma stranamente Akira cedette subito e per questo sospirai di sollievo.

Girai la sedia e mi spinsi fuori dalla stanza dopo aver aperto la porta. Attraversai il corridoio fino all'ascensore che chiamai senza problemi. La macchinetta era situata al piano strada e in quel momento mi trovavo due piani più su.

Non appena arrivata entrai nell'ascensore, e solo all'ultimo mi ritrovai a dividere lo spazio con Akira, che si era infilato all'ultimo secondo sgusciando di lato. Ancora qualche secondo e mi sarei ritrovato un sensei sogliola.

Lo fissai un po' troppo e lui si voltò parzialmente.

«Ne approfitto anch'io a prendere qualcosa» minimizzò lui con un'alzata di spalle.

Rimanemmo in silenzio, lui che osservava il soffitto mentre io tamburellavo distrattamente con le dita sulle cosce il motivetto della canzone da stadio della mia squadra del cuore.

Ma smisi quasi subito per osservare meglio il mio tutor, per poterlo inquadrare meglio. Era pallidissimo da fare invidia a un vampiro, e speravo che non lo fosse realmente, altrimenti avrei dovuto temere per la mia incolumità, e vestiva sempre con pantaloni scuri e giacchettino che si apriva sempre au una maglia diversa ogni giorno con trani simbolino personaggi di cartoni cinesi, o coreani...bè asiatici, o frasi che dovevano essere battute ma non mi facevano poi così ridere.

Dovette avvertire il mio sguardo su di lui perchè si voltò verso di me cogliendomi sul fatto.

Avvertì le mie goti tingersi di rosso e non ne capivo il motivo.

Maledetta circolazione sanguigna!

Prima che lui potesse aprire bocca facendomi venire voglia di sprofondare, le porte dell'ascensore si aprirono e mi fiondai fuori a razzo, avvertendo la presenza di Akira alle mie spalle. Credeva forse che me la dessi a gambe? Come pensava che facessi? Mi dovevo forse dare la spinta e scendere a rotta di collo per la discesa o rotolare giù dalle scale?

Irritato e con un forte calo di zuccheri mi avvicinai alla macchinetta, constatando che ormai non c'era rimasta poi tanta roba commestibile. Intravidi subito quelle specie di barrette ipocaloriche che parevano di cartone ma per cui la maggior parte delle ragazze andavano pazze tra cui la mia ex, che era a dir poco terrorizzata a mettere qualche centimetro in più di grasso nei fianchi sottili.

E poi lo vidi. Un Kinder Bueno, e le mie papille gustative andarono in visibilio. Ecco cosa avrebbe potuto tirar su il morale in quel momento.

Ma prima che potessi estrasse il portafoglio dalla tasca della felpa Akira mi superò infilando i suoi spiccioli e con estremo orrore vidi che aveva selezionato il numero proprio per i Bueno...ed era l'ultimo pacchetto!

Giammai glieli avrei lasciati! Doveva passare sul mio cadavere.

Ma Akira lesto come una volpe fece sgusciare la sua mano dalle dita lunghe e sottili e recuperò il bottino prima che potessi muovermi.

Dovette avvertire il mio guardo perchè voltò la testa verso di me, inclinandola leggermente.

«Li volevi te?»

«No» risposi con troppa enfasi e fretta, certo che i miei occhi urlavano il contrario.

Lui sospirò ed aprì la confezione, e me ne porse uno.

Le mie dita si allungarono verso la sua mano e quando le sfiorai avvertì come una piccola scarica elettrica, come un movimento cinetico di molecole eccitate.

Afferrai in fretta il dolcetto e lo divorai, non riuscendo a capire il motivo di tale voracità quando la maggior parte delle volte avevo lo stomaco chiuso.

Akira fu più lento e alla fine mi cedette anche l'ultimo quadratino che senza proferire parola mi cacciai in bocca, masticandolo con gusto.

«Kisu» lo sentì mormorare, e di nuovo nella sua lingua incomprensibile!

«Eh?»

Lui parve accorgersi solo in quel momento di aver detto ad alta voce quello che doveva essere semplicemente un pensiero, e arrossì un poco.
Un momento. Ma che accidenti voleva dire quella reazione?
«Torniamo su»disse poi incamminandosi, senza lasciarmi il tempo di chiedergli spiegazioni

Lo seguì a mio malgrado pensando che se lo meritasse. Ma questo non significava che mi avrebbe fatto cedere del tutto.

Tornato a casa mi gettai sul letto a pancia in su, il braccio che mi copriva gli occhi

Tornato a casa mi gettai sul letto a pancia in su, il braccio che mi copriva gli occhi.

Alla fine Akira non si stava poi dimostrando una così brutta compagnia.

Ma. Che. Cazzo. Stavo. Pensando?

Mi diedi degli schiaffetti sulle guance per farmi tornare in me.

«Non devo lasciarmi abbindolare. Il piano va avanti. Non devo abbassare mai la guardia, anche se ti corrompe con il cibo».

E al pensiero del Bueno mi tornò in mente quell'ultimo cubetto che aveva toccato le sue labbra.

Che...cosa?

Oddio mi aveva dato una specie di bacio indiretto?! O così mi era parso di capire si dicesse in giro.

Nascosi ancora di più il mio volto tra le mani, ma sia la mente che il corpo parevano quasi bearsi di quel gesto, fatto che mi lasciò disorientato e impaurito. Erano sensazioni sconosciute che mai avevo provato e mi facevano paura perchè non sapevo come gestirle. Era come l'entropia per cui non avevo mai trovato un modo per arginarla.
Prima o poi ero certo che tutta questa faccenda mi avrebbe inghiottito, senza lasciarmi via di scampo.

Cosa mi stava facendo?

 

*testo dell'opening "Shinzou wo Sasageyo" della seconda stagione dell'Attacco dei giganti, opera di Hajime Isayama

**Il simbolo sono le ali della libertà dell'Attacco dei giganti


Angolino autrice:

Buonsalve :3
Ecco il nuovo capitolo *-* Akira canta e pure bene XD e il pezzo del Bueno? Spero vi sia piaciuto *-*
Ringrazio voi che state seguendo la storia ❤️❤️ per ora vi sta piacendo? Si sono molto paranoica XD ma ai miei bimbi tengo tantissimo e vorrei che vi trasmettano al meglio le loro emozioni :D
Commenti e critiche costruttive sono sempre ben accette ^^

A presto!
FreDrachen

 

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


Capitolo 6


Se il pomeriggio lo dovevo passare in quello che mi pareva l'inferno, le mattine dovevo vedermi con il psicoterapeuta che, oltre a sottopormi a sessioni di fisioterapia, per impedire a quello che mi restava delle gambe di atrofizzarsi, cercava inutilmente di risolvere quello che pensava fosse un lento abbandonarsi, dovuto al post trauma.

Quel mattino era davvero ridicolo con i suoi capelli sparati in tutte le direzioni e i vestiti dimessi. Sembrava fosse uscito da una maratona di sano sesso.

Cazzo. Erano ormai mesi che non lo facevo, ora che ci pensavo.

«Buongiorno Luca. Come va?»

I primi giorni gli avevo detto di non trattarmi con così tanta familiarità ma tanto alla fine mi resi conto che quell'uomo avrebbe fatto comunque di testa sua. E ogni seduta la iniziava con quella stupida domanda. Come cazzo pensava che stessi scusa?

I primi tempi gli rispondevo male con il risultato di sguardi di pietà che odiavo nel più profondo, quindi alla fine mi ero ritrovato a rispondergli a monosillabi solo se strettamente necessario. In fondo ero lì per muovere le gambe, mica la lingua.

Bofonchiai qualcosa a mezza voce giusto per renderlo felice, e lui soddisfatto, per così poco, mi si fece appresso intimandomi come al solito di stendermi sul lettino. La prima volta aveva provato ad aiutarmi beccandosi da parte mia una serie di insulti che non si sarebbe mai dimenticato, difatti dalla volta dopo mi fece fare tutto da solo.

Mi issai sul lettino facendo leva con le braccia e mi stesi fiaccamente.

Le ore successive furono caratterizzate dai movimenti guidati del dottore delle gambe, senza alcuna parola pronunciata da parte mia anche dopo qualche goffo tentativo di lui di intavolare una discussione.

«Come passi le giornate?»

«La scuola? Come vanno le lezioni di recupero?»

Tutte domande che rimanevano senza risposta dato che me ne stavo chiuso in un completo mutismo.

Quel giorno era a dir poco insistente, più delle altre volte e questo m'irritò non poco.

«Si faccia i cazzi suoi e mi lasci in pace» sibilai tra i denti, arrivato al massimo della sopportazione, il volto girato dall'altra parte.

Lui smise per un attimo di muovere la gamba sinistra e con la cosa dell'occhio vidi che si era rabbuiato, e con lo sguardo triste che non mi impietosì. Ma ancora non aveva capito che se ero lì era perché ero costretto?

Certa gente era davvero dura di comprendonio.

«Mettiti di lato»disse con fare professionale, così come le altre cose che pronunciò scaturendo dentro di me un moto di vittoria.

Se davvero il dottore si era arreso a psicanalizzarmi, lo stesso sarebbe stato con Akira.

Malgrado la piccola vittoria sul dottore mi sentivo incazzato con il mondo, e da quello che vedevo doveva esserlo anche Akira perché entrò con lo sguardo di uno stanco morto


Malgrado la piccola vittoria sul dottore mi sentivo incazzato con il mondo, e da quello che vedevo doveva esserlo anche Akira perché entrò con lo sguardo di uno stanco morto. Ma di certo non mi sarei arreso adesso. La mia ostentata resistenza continuava e quel damerino cinese doveva accettarlo.

Si sedette pesantemente sulla sedia, in un modo del tutto privo della sua eleganza e ben lontano da quello a cui ero abituato, tanto da farmi provare uno sputo grammo di pietà, che passò quasi all'istante.

«Ore piccole, Cinese?»

Lui mi gelò con lo sguardo ma per nulla intimorito gli scoccai in sorriso innocente.

«Invece che farti gli affari miei Tremonti, ripetimi quello che abbiamo fatto ieri» ribatté con stizza, facendolo sembrare un mestruato. Doveva darsi una calmata, oltre che essere duro di testa. Non capiva che non sarei stato al suo gioco? Solo perché aveva condiviso quella volta quel dolce e che poi lo avevo seguito senza fiatare non significava che mi ero piegato. E nemmeno per le sensazioni che scaturiva dal mio corpo alla sua presenza.

Mi fissava con lo stesso sguardo omicida che mi aveva indirizzato un giorno in cui mi ero presentato con una giustificazione fatta e firmata da me medesimo, sperando potesse essere una scusa per non fare nulla. Anche se dovevo ammettere che quella era stata una sorta di ripicca nei suoi confronti dopo che il quarto giorno di stress non mi aveva avvisato che non ci sarebbe stato con il risultato di aspettarlo come un pesce lesso per quasi tutto il tempo, fin quando un operatore scolastico non era venuto a pulire l'aula e mi aveva trovato a mettere radici e in procinto a morire di noia, ed era stato proprio in quel momento che avevo scoperto di essere stato bidonato.

Inutile dire che sua eccellenza Signore Assoluto della Noia non ne aveva tenuto conto e aveva continuato imperterrito con il suo monologo a senso unico.

Ancora non aveva capito che spiegarmi le cose non era altro che uno spreco di ossigeno da parte sua?

Incrociai le braccia e lo osservai con sguardo di sfida.

«Non lo so»dichiarai con intima soddisfazione.

Lui non parve apprezzare la mia ribellione perché lo vidi istintivamente chiudere la mano sinistra a pugno. Se fosse venuto alle mani mi sarei potuto finalmente scaricare pure io.

«Non pensavo che fossi un perdente» disse invece con la determinazione dovuta alla rabbia trattenuta.

A quelle parole m'irrigidì e lo fulminai con lo sguardo.

«Che cos'hai detto?»dissi in tono minaccioso.

Lui sorrise per la prima volta di quel giorno, ma non era affatto un sorriso caloroso bensì uno tagliente come una lama.

«Tu credi che non studiando quello che ti spiego ogni giorno faccia di te una persona forte? Bè ti sbagli. Tutto questo è per te, per quello che potresti diventare in futuro».

A quelle parole vidi rosso. Con che saccenza poteva sputare sentenze sul mio futuro con cui c'entrava un emerito cazzo?

«Futuro? Ma quale futuro?»scattai stringendo le mani sui braccioli della sedia. «Che cosa potrebbe attendersi dal futuro uno come me? Sentiamo saputello, hai davvero una soluzione a questo?» Vedendolo di fronte a me zitto continuai imperterrito. «Vedi? Sei solo bravo a riempirti d'aria la bocca, pronunciando solo parole vuote. La verità è che anche te sai che non c'è davvero un futuro per quelli come me. Sei qui solo per i tuoi stupidi crediti. E allora fa finta e lasciami in pace. Così entrambi avremo quello che vogliamo».

«Non è così che mi convincerai a cedere».

«Vaffanculo a te e alla tua ipocrisia. Tornatene da dove sei venuto e lasciami stare».

Avevo passato il limite, lo vedevo nei suoi occhi uno scintillio di rabbia repressa.

«Ma certo. Me ne torno a casa. Non ho voglia e tempo da perdere con un egoista e codardo come te».

«Bene vattene pure. Non ho bisogno di te».

«Bene».

«Bene»ripetei con aria di sfida.

Lui zi alzò dalla sedia e si diresse verso la porta ma giunto lì si girò parzialmente.

«Fa di testa tua allora. Ma credimi se ti dico che vivrai con il rimorso di aver gettato alle ortiche la tua vita. E la colpa sarà unicamente tua».

Detto questo lasciò la stanza, lasciandomi solo con la rabbia e la frustrazione.

E fu allora che mi resi conto di aver un tantino esagerato.

Angolino Autrice:

Buonsalve :3
Ecco il nuovo capitolo 😍 spero vi sia piaciuto 🤗
Ringrazio tutti voi che seguite la storia 😍❤️

A presto!
FreDrachen

 

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Capitolo 7
*** capitolo 7 parte 1 ***


Capitolo 7 parte 1


Di chiamare mia madre non ne volevo sapere e per questo sfruttai la carta di credito, che mi avevano regalato, per convincermi a uscire dalla bolla del nulla che mi ero costruito attorno e che prima di quell'occasione avevo usato per comprarmi dei nuovi videogiochi per la PlayStation, per pagarmi un taxi. Mi feci aiutare da un bidello (pardon, operatore scolastico) fuori dalla scuola dato che quel microgradino all'entrata era un ostacolo insormontabile per la mia sedia a rotelle. Lui sbuffò un poco ma alla fine si convinse ad aiutarmi a uscire e a chiudere la sedia a rotelle dopo che fui salito sul taxi.

Indicai al taxista l'indirizzo da raggiungere e che avevo estorto mettendo in campo tutto il mio charm e fascino alla segretaria che, avevo constatato, aveva ancora un debole per me.

Non ci misi molto dato che non abitava dall'altra parte della città e finalmente, non senza fatica, arrivai di fronte al portone del condominio dove abitava Akira. Presentarmi a casa sua non doveva essere proprio la cosa più educata da fare ma i sensi di colpa per averlo trattato di merda erano davvero troppi, e per questo messo da parte l'orgoglio e ora eccomi lì come uno stoccafisso insicuro su come procedere, sperando inoltre che dopo il nostro litigio fosse venuto a casa a sbollire.

Mi sporsi leggermente per leggere i numeri sul citofono e infine scorsi il suo cognome.

Era leggermente in alto ma se avessi fatto attenzione sarei riuscito senz'altro a schiaccialo senza correre il rischio di decappottarmi con la sedia a rotelle.
Mi preparai a darmi una spinta con le braccia per allungarmi leggermente quando qualcuno urtò con la grazia di un elegante la sedia facendola ondeggiare pericolosamente. Sperai con tutto il cuore che riprendesse l'equilibrio e per mia fortuna fu così.

A pericolo scampato, e dopo aver ripreso a respirare regolarmente e privo del cuore in gola per colpa dello spavento che mi ero preso, alzai lo sguardo verso colui che mi aveva fatto quasi cadere e vidi che si trattava di un vecchio sicuramente sopra gli ottant'anni visto l'intrico di rughe che intravvedevo sul suo volto in semi profilo, che lo facevano sembrare una vecchia mummia.

«Stia attento. Mi ha quasi travolto»gli sibilai contro, al che lui, che stava procedendo lungo la sua strada come un carro armato, si fermò e si voltò e si incamminó verso di me fermandosi a neanche mezzo metro, con un cipiglio arcigno.

«Come ti permetti handicappato?»

Handicappato? Mi aveva davvero chiamato con quel meschino appellativo?!

«Senta vecchio la smetta di offendere» gli soffiai contro, cercando di essere il più educato possibile anche se quell'individuo dalla testa di ameba, di certo, non se lo meritava.

«Ma senti quanta insolenza. Ai miei tempi ve ne stavate chiusi in casa senza creare problemi alla società. Si dovrebbe tornare a quei momenti» ribattè lui con arroganza gonfiando il petto, gesto che lo rese patetico.

«Così come lei si dovrebbe trovare già sottoterra visto il suo corpo decadente».

«Almeno io sto sulle mie gambe. Non puoi dire lo stesso di te».

In quel momento avvertì una rabbia cieca prendere il sopravvento. Tutta quella che avevo accumulato in quei mesi mi diedero la spinta di agire.

Mi diedi lo slancio con le mani e caddi addosso al vecchio facendolo cadere a terra.

E poi fu un susseguirsi di pugni contro la sua pelle flaccida e sottile come la carta crespa.

Percepivo gli sguardi attorno a me di evidente disprezzo, per via del fatto che stavo picchiando un vecchio, così come i commenti meschini della gente.

Ma non m'importava.

Forse non era solo per come mi aveva chiamato, era anche un modo per scaricare la rabbia che m'infiammava dentro.

Intravidi le nocche sporche del sangue mio e del vecchio ma non gli diedi molto peso.

Poi una voce famigliare tra le tante alle mie spalle e poi una mano pallida dalle dita affusolate che avvolse la mia insanguinata, riportandomi in me.

Scostai lo sguardo e mi ritrovai a fissare il volto pallido di Akira che mi fissava assolto senza alcun giudizio, al suo fianco due buste della spesa che doveva aver posato a terra per venire da me.

Senza proferire parola mi scostó senza fatica dal vecchio che subito venne accorso dalle altre persone, come se fossi stato io il cattivo della situazione. Che ipocriti.

Akira mantenne salda la sua presa e mi aiutò a risedermi sulla sedia a rotelle. Con i suoi occhi color abisso analizzò ogni graffio e ferita che mi ero procurato anche stavolta senza fare alcun commento, gesto per cui lo ringraziai con il pensiero.

Nel frattempo il vecchio era stato rimesso in piedi e si manteneva in posizione eretta a fatica e, per questo, riuscì a trattenere a stento la soddisfazione del mio operato.

«Sei uno psicopatico oltre che handicappato» sputò lui con veleno. Prima che potessi rispondergli per le rime fu Akira a proferire parola.

«Dovrebbe moderare il linguaggio. Anata wa shitsureidesu*» ribattè pacatamente.

«E te dovresti tornartene al tuo paese immigrato del ca...»

Fu inchiodato dallo sguardo che gli rivolse Akira che, sfortunatamente, mi stavo perdendo, visto che mi dava le spalle.

«Io sono italiano tanto quanto lei signore. Per cui le chiedo di astenersi da commenti inappropriati».

La gente attorno a noi fissava me e il vecchio e pareva che con l'intromissione di Akira si fossero formati due schieramenti. Ah adesso chi aveva ragione vecchio trombone retrogrado?

Il vecchio non emise una sola parola e voltandosi si allontanò arrancando. Se ancora riusciva a camminare significava che non avevo arrecato così tanti danni.

Sprofondai nella sedia sospirando mentre la gente si dileguava, e mi accorsi che Akira era tornato al mio fianco solo quando me lo trovai a pochi centimetri di distanza. Accidenti se era silenzioso!

«Vieni con me» disse e senza proferire altro si diresse verso il portone dopo aver recuperato le buste della spesa e con gesti sicuri estrasse dalle tasche un mazzo di chiavi con un portachiavi raffigurante un qualcuno mai visto in vita prima, ma che dallo stile doveva essere uno di  quei cartoni giapponesi che tanto piacevano ai nerd come lui, e fece scattare la serratura del portone.

All'interno a parte uno sputogrammo di atrio era presente una lunga scalinata e a occhio e croce non era presente l'ascensore.

Come pensava di farmi salire, strisciando come i vermi? Le mani mi dolevano da impazzire e a stento ero in grado di rinchiuderle. Durante la scazzottata non avevo sentito il dolore, preso forse dall'euforia del momento ma adesso me ne stavo pentendo.
Akira dovette captare i miei pensieri perché si voltò verso di me con espressione dubbiosa, anche lui a scervellarsi per trovare in modo per trasportarmi fino a casa sua.

In quel momento dietro di noi si riaprì il portone da cui emerse la figura di una donna sulla cinquantina dall'aspetto pingue e dai capelli e occhi castani.

Non appena scorse Akira sorrise dolcemente.

«Akira. Ti vedo preoccupato. Stai bene caro?»

Akira inclinò un poco la testa. «Tutto a posto, la ringrazio Rossi-san. Stavo cercando un modo per trasportare il mio amico e la spesa fino a casa».

La donna scostò lo sguardo su di me e notai che guardò le mie gambe di sfuggita, come se si sentisse in imbarazzo a osservarmi troppo attentamente, e per questo mi scatenò una certa antipatia.

Finalmente tornò a fissare Akira con un sorriso.

«Se vuoi posso aiutarti con la spesa e con la sedia a rotelle» propose lei e a quelle parole franai gli occhi.

Era per caso come Hulk che diventava verde e dalla forza incredibile? Si in lato nerd lo possedevo pure io, nella più remota parte della mia anima.

«Ma che hai in men...»

Akira mi si avvicinò e fece passare il braccio destro dietro le ginocchia e con non poche difficoltà riuscì a prendermi in braccio.

«Ma che stai facendo?» protestai ma lui anziché rispondermi saldò la presa.

Vidi che la donna teneva da una parte la spesa e dall'altra la mia sedia.

«Lasciami» protestai debolmente ma lui m'ignoró palesemente e cominciò a salire i gradini senza alcuna fatica apparente, in verità avvertivo sotto le gambe i suoi muscoli contratti ma tanto alla fine non sarebbe servito a nulla protestare.

Ci fermammo al terzo piano e non dovemmo aspettare troppo la tizia, che sempre con quel sorriso solare stampato sul viso, che aveva un che di irritante, poggiò la spesa di Akira a terra e con gesti esperti riaprì la sedia a rotelle permettendo al mio compagno di farmici sedere sopra.

Akira salutò la donna con un leggero inchino prima di aprire la porta di casa e condurmi al suo interno con una mano sulla maniglia di spinta, mentre con l'altra reggeva la spesa.

Non mi aveva ancora rivolto la parola e questo aumentava l'imbarazzo del momento. Se avessi potuto me la sarei data volentieri a gambe ma, dato che fisicamente mi era precluso, mi lasciai condurre docilmente verso quello che identificai come un salotto non tanto grande ma molto ordinato. Campeggiava un bel divano a fantasia floreale dai colori pastello e un tavolino posizionato di fronte su cui erano poggiati dei libri e il telecomando della tv posta di fronte. Grazie a una finestra abbastanza imponente che dava su un piccolo terrazzo era una stanza ben illuminata e calda. Akira mi condusse vicino al divani e ancora senza proferire parola lasciò la stanza con i sacchi della spesa.

Doveva essere diretto in cucina perché lo sentì armeggiare con le buste e ogni tanto avvertivo qualche anta che si apriva e poi chiudeva.

Nell'attesa del suo ritorno tamburellai le dita canticchiandomi in testa un pezzo tratto da Bohemian Rhapsody dei Queen. Non ero affatto all'altezza delle abilità canore sfoggiate da Akira ma non me la cavavo male, ero solo il tipo di persona che cantava solo quando era certo di essere solo.

Akira ritornò dopo un tempo che parve infinito con in mano un sacchetto di batuffoli di cotone e una bottiglietta di perossido di idrogeno, conosciuta dalla gente comune come acqua ossigenata.

All'inizio non afferrai il motivo ma un leggero dolore alle nocche mi fece ricordare che mi ero sfogato su quel tizio che mi aveva insultato, e che bè erano in uno stato davvero pietoso.

Akira si sedette sul bordo del divano  svitò il tappo della bottiglia e bagnò un poco un batuffolo e con mano esperta e dal tocco delicato cominciò a  pulirmi le ferite che erano tagli ed escoriazioni abbastanza superficiali ma cazzo se bruciavano!

Divette accorgersene perché ogni tanto si fermava e soffiava dolcemente sulle parti lese cercando di lenire il dolore.

A quelle premure mi sentì ancora si più una merda per averlo trattato male.

A operazione finita mi avvolse le mani con delle bende per tenerle pulite e protette dal mondo esterno, e solo a operazione conclusa si allontanò un poco, allacciando le sue iridi scure con le mie e subito distolsi lo sguardo dilaniato dalla loro profondità.

Il silenzio calava gravoso su entrambi, lo percepivo nel suo  fremito impercettibile, e forse era davvero arrivato il momento di parlare.

«Senti Akira, quello che volevo dirti...insomma il motivo per cui sono qui è che...».

Cazzo non riuscivo a mettere su una frase di senso compiuto e durante tale imbarazzante situazione evitavo il suo sguardo, un comportamento da vigliacco ne ero consapevole ma avevo il timore della sua reazione. Non che non mi meritassi altro che il suo disprezzo, anzi ero consapevole che doveva essere disgustato dalla mia presenza e il fatto che mi avesse curato non era altro che una buona azione che non meritavo.

Akira era e continuava a dimostrare di essere una persona migliore di me.
Lui fece per aprire bocca quando la serratura della porta di casa scattò facendomi d'istinto irrigidire.

 

*Trad dal giapponese: siete un maleducato


 

Angolino autrice:

Buonsalve 😍

Si ho stoppato qui il capitolo perché sono una brutta persona 😂🙈
Cosa accadrà? Chi è appena giunto a casa di Akira? E Luca riuscirà a chiarire con Akira?
Lo scoprite nella prossima puntata 😘❤️
Ringrazio chi sta seguendo questa storia...mi rendete tanto tanto felice😭 spero di non deludere le vostre aspettative ❤️

A presto con la parte 2 del capitolo (che ho troncato a metà perché stava venendo abbastanza kilometrico 😂)

FreDrachen

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Capitolo 8
*** capitolo 7 parte 2 ***


Capitolo 7 parte 2




Akira si alzò dalla sua postazione ma non riuscì a fare altro che dallo stipite della porta fece capolino la figura di una donna affiancata da una bambina.

La prima aveva i capelli castano chiaro disordinati e tagliati sul corto, occhi castano scuro e indossava una maglia dalle fantasie particolari sopra un paio di pantaloni a zampa di elefante. Pareva uscita da una rivista di moda hippie, e ad accompagnare il tutto anche una montatura di occhiali particolare, spessa e dai colori dell'arcobaleno.

La bambina invece aveva i tratti somatici asiatici, facendomi dedurre che fosse la sorellina di Akira. Doveva avere sui nove anni e indossava un vestito nero e rosso tipico da saggio o da recita.

Quest'ultima mi squadrò da capo a piedi con l'ingenuità tipica dei bambini, sicuramente chiedendosi che cosa ci facesse un estraneo a casa loro, mentre Akira andò ad aiutare la donna con la spesa. Ma insomma, una non ne bastava? Dovevano forse sfamare un esercito?

La bambina mi si fece appresso e continuò a fissarmi senza alcuna malizia ma solo con genuina curiosità.

«Quando ti sposerai con il fratellone?» domandò con la stessa beata innocenza di prima. Quelle parole mi fecero andare di traverso la saliva e rischiai di morire soffocato.

«Eh?»domandai stupidamente.

Lei giocherellò con una ciocca di capelli che teneva legati in due grossi codini.

«Per caso non ti piace?»domandò lei quasi tristemente.

"Akira salvami da questa situazione" pensai, mentre le goti mi andavano a fuoco. Se mi piaceva? Mi stava sul cazzo, o almeno avrei detto così fino a qualche attimo prima quando si era preso cura di me, oltre quella strana sensazione che provavo in sua presenza. Ma non era questo che intendeva la bambina giusto?

«È...una persona curiosa»riuscì solo a dire e in parte era una mezza verità. Non avevo mai conosciuto una persona come Akira, che aveva un qualcosa che mi incuriosiva.

«Quindi ti metteresti insieme a lui?»

Che cosa?

«Aspetta. Non è quello che intendevo...»

Non dovetti dire altro perché Akira e la donna tornarono in quel momento, Akira con le goti tinte di rosso. Doveva aver sentito la conversazione dall'altra stanza, e questo mi fece venire voglia di sprofondare con tanto di sedia a rotelle nel pavimento, ma sfortunatamente nessuna voragine improvvisa mi inghiottì.

«Maiko, lascialo in pace e va a cambiarti» disse Akira assumendo quello che pareva il tipico comportamento da fratello maggiore responsabile.

Lei gli rispose con una linguaccia prima di saltellare fuori dalla stanza, sganciando l'ultima bomba. «Però sareste bene insieme».

E se ne andò lasciando sia me che Akira nel disagio più assoluto.

Ci levò dall'impiccio la donna mi si parò davanti e mi strinse la mano cordialmente. «Finalmente ci incontriamo ufficialmente. Molto piacere, sono Marta Vinciguerra, la zia di Akira»disse palesemente entusiasta.

Inarcai un sopracciglio, sorpreso che sapesse chi fossi. Una persona del genere me la sarei ricordato senz'altro, quindi o era una stalker innamorata della mia magnificenza, oppure Akira le aveva parlato di me, cosa più probabile.
E di certo non saranno state belle parole.

Come se mi avesse letto nel pensiero continuò: «Akira mi ha parlato molto di te, Luca».

«Ah si?» me ne uscì voltandomi verso Akira che mi fissava in silenzio. «Spero abbia detto solo i lati positivi della mia compagnia» aggiunsi con un sorriso furbo.

«Ma sicuro. Akira è molto felice dei tuoi progressi. Mi ha sempre detto che sei un ragazzo intelligente e sveglio e che spiegarti le cose lo rende davvero molto orgoglioso».

Ma davvero? Ma non è che si stesse confondendo con un'altra persona? Per tutto il tempo che avevo passato con Akira mi ero atteggiato con strafottenza e insolenza, quindi non capivo il motivo per cui lui le avesse mentito. Che fosse una faccenda d'orgoglio? A chiunque sarebbe roso il culo ad avere a che fare con un caso umano come il sottoscritto sopratutto uno che ci metteva impegno come Akira.

Cazzo, che persona di merda che ero. Preso dalla mia autocommiserazione non mi ero mai reso conto che nel baratro ci stavo trascinando anche lui.

Gettai un'altra occhiata ad Akira ma lui evitava il mio sguardo e con la mano destra si grattava il collo. Sembrava a disagio, e forse era per via di tutte le bugie che aveva detto su di me a sua zia. Il vecchio me avrebbe detto ben gli stava, si era tirato la zappa suo piedi da solo, ma l'attuale non vedeva l'ora di scomparire e sottrarsi a quella situazione.

Ma mentire in questo modo? Akira non mi pareva il tipo, quindi presi consapevolezza che pensasse sul serio che avessi una qualche possibilità di uscire da questa situazione.

E mi sentí doppiamente una bruttissima persona.

«Zia lo stai mettendo in imbarazzo» disse, anche se era palese che era proprio lui ad essere a disagio.

La donna di tutta risposta sorrise. «Hai ragione. Ma sono davvero contenta di averlo finalmente conosciuto».

Scusate, ero qui presente ne eravate consapevoli? Perché parlare di me un terza persona?

Infine distolse lo sguardo dal nipote e mi rivolse un altro caloroso sorriso.

«E dimmi, Akira ti ha per caso detto che...»

«Ehm zia, io e Luca abbiamo molte cose di cui discutere» s'intromise lui frettolosamente lasciandomi con il dubbio.

Cosa?
Cosa stava per dire?

Lei annuì e negli occhi scintillò quella che mi parve complicità. Certo che la sua famiglia era davvero strana.

Luo mi fece un cenno con la testa di seguirlo e non potei fare altro che accontentarlo.

C'erano tante cose che volevo dirgli ma lo avrei fatto solo dopo che avremmo raggiunto la sua camera, che si dimostrò essere come l'avevo sempre immaginata. Il letto era da una piazza e mezzo addossato alla parete della porta e messo frontalmente a una finestra sotto cui c'era la scrivania. Sopra il letto campeggiava un mega poster di quelle ali che avevo già visto su una delle sue particolari magliette, mentre il resto delle pareti, oltre un armadio che doveva contenere i vestiti, erano coperte da due immense librerie traboccanti di libri e quelli che a prima vista sembravano manga.

«Mettiti pure dove vuoi»disse lui con un cenno della mano, accorgendosi subito dopo delle parole appena pronunciate. Le goti gli si tinsero di rosso e questo lo rese se possibile più carino.

Frena un secondo!

Ho pensato carino?

Mi si stava per caso andando a friggere il cervello?

Ero etero, mi piacevano le ragazze ma dovevo ammettere che Akira era parecchio attraente. Ok...doveva esserci dell'aria viziata nella stanza, la scarsità di ossigeno mi faceva ingarbugliare i pensieri.

Respingendo quegli strani pensieri decisi di toglierlo dall'impiccio e con un cenno della testa gli indicai il letto prima di avvicinarmici e essermi issato fancendo leva con le mani che mi facevano ancora un male cane. La prossima volta che decidevo di prendere a pugni qualcuno dovevo senza dubbio portarmi un paio di guanti da boxe.

Rimanemmo in silenzio per un tempo che parve un'eternità, Akira a molestare le pellicine del pollice sinistro mentre il sottoscritto a cercare di leggere i titoli di qualche manga, tutto per non parlare. Mi sentivo uno schifo ma avevo ancora la mia dignità.

Gettai un'occhiata di sottecchi ad Akira e lo trovai a fissarmi così intensamente che temetti potesse scavarmi fino in fondo all'anima.

Fu per quello che capitolai.

«Scusa» dissi rompendo finalmente il silenzio che si era creato e lui mi fissò per in attimo confuso. «In questi giorni mi sono comportato da vero stronzo» continuiai mordendomi il labbro inferiore.

Lui annuì lentamente come se fosse d'accordo con le mie parole. Grazie tante eh! Poteva almeno fare finta di essere riconoscente per le mie dovute scuse.

«In effetti il termine "amichevole" non ti si sarebbe addetto».

Arrossì un poco e distolsi lo sguardo.

«Non è che ce l'avessi proprio con te. Oddio un po' si perchè se non ti fossi candidato cone tutor forse adesso starei stato casa a fare nulla».

«E questo ti avrebbe fatto sentire bene con te stesso?»

«Guardami»esplosi alla fine indicando le gambe amputate. «Che futuro potrei mai avere in queste condizioni? Cosa potrei fare? Ho perso tutto quel giorno dell'incidente a parte la mia rabbia» confessai. Cazzo, quanto avevo il bisogno di sviscerare quello che stavo provando ormai da tempo. «Sono perennemente arrabbiato con il mondo. Con i miei genitori che mi considerano un fallito, i miei amici e la mia ragazza che mi hanno voltato le spalle. Sono solo in questa lotta che non potrò mai vincere».

Vidi Akira captare appieno le mie parole, capirle veramente come nessuno aveva mai fatto prima d'ora e dopo un po' prese la parola.

«Come ti avevo già raccontato una volta anch'io ho avuto dei problemi in passato, talmente gravi da farmi perdere l'anno di scuola».

Lo fissai stupito. Si, aveva diciannove anni ma credevo che fosse perchè li avesse già compiuti.

«Non penso che sia stato tanto grave quanto questo»risposi indicando le mie gambe.

«Sono stato in ospedale dopo essere stato quasi morto, massacrato di botte da mio padre» mi confessò, e stavolta lo fissai in modo del tutto diverso.

«Per quale motivo?» domandai inconsciamente, pentendomene. Lo vidi subito chiudersi a riccio e a sospirare intensamente.

«È successo quel che è successo. Ma alla fine ho ripreso in mano la mia vita e ho cercato di smettere di pensare al passato ma di guardare al presente. Ed è quello che devi fare anche te. Devi accettare quello che sei diventato e riadattare la tua vita di conseguenza. È difficile lo so, ma se vuoi...posso aiutarti a capire come fare».

Scorsi un barlume nei suoi occhi che scomparve così in fretta tanto da farmi temere di essermelo immaginato.   Sembrava quasi che in quell'attimo non credesse alle sue parole, e mi fece temere che sotto ci fosse ben altro, ma di certo non sarei stato io a fargli pressione a parlare. E poi poteva benissimo trattarsi di altro, che senso aveva pensarci in quel momento?

Non ero un tipo emotivo e non avrei iniziato a esserlo in quel momento, ma allora perchè mi stava venendo una voglia matta di piangere?

Nessuno sembrava capire quello che provavo come un quel momento Akira. Sembrava che a unirci ci fosse un filo invisibile che pareva connetterci in un piano inconcepibile alla mente umana.

Grazie a lui mi sentì meno solo e patetico e per questo lo ringraziai con un debole sorriso, un sorriso però sincero, il primo che gli facevo da quando ci eravamo conosciuti.

Forse la sua compagnia non sarebbe stata poi cosi male.

Akira si offrì di accompagnarmi a casa ma declinai l'offerta chiamando il taxi


Akira si offrì di accompagnarmi a casa ma declinai l'offerta chiamando il taxi.

Per fortuna abitavamo al piano terra e come unica cosa per la mia condizione i miei genitori avevano fatto allestire una specie di piccola salitina non tanto pendente e che avrei attraversato solo con due bracciate.

Quando tornai a casa fui accolto da mia madre, sul volto un'espressione preoccupata.

«Dove sei stato? Ho provato a chiamarti e non mi hai risposto».

Si durante tutto il tempo che avevo passato a casa di Akira mi aveva chiamato minimo cinquanta volte. Che stress, le avevo scritto un messaggio prima che avrei fatto tardi.

«Ero da un amico»dissi semplicemente facendo spallucce. Non capivo tutta questa ansia, aumentata da dopo l'incidente.

Mi prese le mani fasciate. «Che cosa ti sei fatto?»

Ah bè sapevo che me l'avrebbe chiesto e avevo deciso a prescindere di non mentirle. «Ho fatto a botte con un vecchio che mi ha chiamato handicappato».

Prima che mia madre potesse rispondermi sentì la voce di mio padre che era appena giunto nella stanza. «Perché prendersela tanto? In fondo è quello che sei» proferì con tono severo.

Avvampai, irritato da quell'accusa. «Non é stata colpa mia».

«Non sono io che mi sono drogato» ribattè lui con calma glaciale.

«Sai cosa ne penso di quella roba».

Non mi ero mai fatto di quelle schifezze e più di una volta avevo rifiutato le canne che si fumavano i miei conpagni di calcio. Non avrei assunto quelle sostanze neanche se fossero state le uniche rimanenti sulla Terra.

«Pensavo di saperlo. Ma sai che nel tuo sangue l'hanno trovata».

«Non è stata colpa mia. Me l'avranno messa nel cocktail quando ero distratto». Non ricordavo nulla di quella sera, i ricordi sembravano avvolti in una nebbia fitta. Lo psicoterapeuta che mi seguiva dava la colpa oltre che alla droga anche allo stress post traumatico. Volevo ardentemente ricordare, solo che più mi concentravo più avvertivo la verità scivolarmi via dalle dita, lasciandomi con un senso l'impotenza che odiavo.

«Non saresti mai dovuto essere lì».

Ricordavo che avevo litigato con mio padre quel giorno e incazzato nero avevo raggiunto il locale dove avevo appuntamento con i miei amici. Ricordo la musica, i balli, il brindisi per il contratto che avevo stipulato con la società calcistica, il motivo del mio attrito con mio padre che voleva che prima finissi gli studi. E poi...il nulla.

«Pensavo che ti fidassi di me»dichiarai ferito, fissando la schiena rigida di mio padre fermo di fronte alla finestra con portamento austero.

«Un tempo si. Ora non più».

 

Angolino autrice:

Buonsalve! Ecco la seconda parte del capitolo 7 :3

Qualcosina del passato emerge ma non tantissimo (c'è tempo 🤣)...vi siete già fatti qualche ipotesi? 👀
Ringrazio tutti voi che seguite la storia ❤️❤️❤️❤️❤️

A presto 😉

FreDrachen

 

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Capitolo 9
*** capitolo 8 ***


Capitolo 8


Mi hanno sempre detto che ho gli occhi di un colore tra il grigio e il blu con il risultato di uno mai visto, e i capelli del vero colore dell'oro, con alcune ciocche rischiarate dai colpi di sole che solitamente andavo a far fare dal parrucchiere.

Quello che vedevo riflesso era il pallido riflesso di una persona che poteva diventare qualcuno, con gli occhi spenti contornati da occhiaie spaventose e i capelli ormai tornati del loro colore naturale.

Vi passai una mano per sistemarli di lato come mi era solito fare fino a prima dell'incidente. Chiarendomi con Akira mi sembrava di essere diventato un'altra persona, non quello di prima ma neanche lo svogliato che aveva solo voglia di fare il nulla o al massimo insultare il mondo.

Quel giorno mi presentai alle nostre lezioni in un'ottica del tutto diversa e con un sorriso di accondiscendenza che fece insospettire subito Akira.

«Sei di buon umore oggi»disse stando all'erta, al che il mio sorriso si allargò.

«Ho deciso di sotterrare l'ascia di guerra. Tra noi adesso non ci saranno piú alcun tipo di avversioni».

«Le "avversioni" di cui parli provenivano solo e unicamente da te»sottolineò lui al che agitai la mano con fare noncurante.

«Questo è un dettaglio trascurabile. Forza, che mi spieghi oggi?»

Lui aggrottò le sopracciglia sempre più confuso.

«Temo che se non hai ascoltato fino a ora ti verrà veramente complicato seguire quello che dovremo fare da adesso in poi».

«E che vuoi che ti dica? La prima lezione hai spiegato gli amminoacidi, poi sei passato a...»

Con intima soddisfazione spiegai abbastanza sinteticamente tutto quello che mi aveva insegnato in quel periodo e mano a mano che andavo avanti Akira sgranava sempre di più gli occhi, come se fosse sorpreso da quello che mi stava uscendo di bocca. Che cinese di malafede.

Quando terminai gli scoccai un sorrisetto soddisfatto.

«Che mi dici? Mi manca qualcosa per poter continuare le tue lezioni?»

Lui rimase a fissarmi per un tempo che mi parve abbastanza infinito, facendomi pensare che fosse svenuto in piedi, anche se non ero certo che potesse accadere.

Ma alla fine parlò anche se le parole gli uscirono a scatti come se ancora non si capacitasse di quello che era appena successo.

«Chi sei e che cosa hai fatto al Tremonti svogliato che non prestava attenzione?»

Feci spallucce. «Quando si vuole studiare il minimo indispensabile l'unica cosa da fare è affinare la memoria».

Akira alzò gli occhi al cielo ma non ribattè. Non poteva smontare una metodologia così fine e favolosa. Infine si decise a continuare da dove si era interrotto due giorni prima.

Durante la lezione per la prima volta cominciai a prendere appunti, muovendomi sulla sedia alla ricerca di una posizione comoda. Avevo sempre avuto problemi a stare fermo per un certo lasso di tempo e prima dell'incidente scaricavo tutta quella energia iperattiva in campo. Ma ora l'unico modo che avevo era cambiare posizione quasi ogni minuto.

«Sei per caso stato attaccato dalle formiche?» mi domandó Akira dopo un po', fissandomi con quel suo sguardo intenso e preoccupato.

«No, é che soffro a stare fermo anche per poco tempo. É un problema che ho sempre avuto fin da bambino».

Akira si sedette sulla sedia di fronte a me e appoggiò i gomiti sul tavolo e il mento sui palmi delle mani.

«Avevo sospettato che da piccolo non fossi propriamente un angioletto» scherzò, le labbra che si stirarono in un sorrisetto divertito.

Mi finsi offeso e incrociai le braccia al petto.

«Ero un agioletto, solo un po'...movimentato».

«Mi dispiace per i tuoi. Sono certo che li avrai senza dubbio fatti impazzire».

«Quello si»ammisi, ricordandomi poi di un evento che pensavo di aver dimenticato ma che a distanza di tempo mi faceva ridere al solo pensarlo. «Una volta quando avevo nove anni ero salito su un albero abbastanza alto. Era un qualcosa che facevo da sempre, e quel giorno mi ero prefissato a scalare quella quercia maestosa che svettava su tutti gli altri alberi che mi parevano quasi i significanti. Da bambino, stupidamente ingenuo, credevo che se fossi riuscito ad arrivare fino in cima sarei diventato famoso e tutti si sarebbero ricordati il mio nome».

«Avevi manie di protagonismo anche da piccolo».

«Ero già consapevole di quanto sarei diventato grande» replicai con fibra modestia.

«Un gran...»sentì mormorare Akira ma mi persi l'ultima parola.

«Come?»

Lui di tutta risposta scosse la testa divertito. «Niente, pensieri miei. Ma ti prego continua. Ora sono curioso di sapere come va a finire».

«Inutile sottolineare il fatto che non sono morto» precisai al che gli strappai una risata. Mi piaceva di più quando era allegro e senza la nube di tristezza che pareva portarsi dietro e che avevo percepito quando sentiva di non essere osservato.

«A meno che non sia un fantasma é poco ma sicuro».

Gli feci una linguaccia e continuai con il mio racconto.

«Mia madre mi beccò quando ormai ero a metà strada e mi ha intimato in preda a quello che pareva un attacco di panico di scendere, minacciandomi che mi avrebbe messo in punizione. Ovviamente mi ha traumatizzato a tal punto che ho ubbidito. Solo che non la smetteva di urlare, manco stesse cascando il mondo, e questo suo comportamento mi ansió non poco. Per questo a meno di tre metri da terra ho messo un piede in fallo e sono cascato di faccia per terra».

Akira mi fissò sgomento al che continuai. «Per fortuna non mi sono rotto il naso ma mi é uscito un po' di sangue e ho pure perso un dente...da latte per fortuna» terminai realizzando solo in quel momento che molto probabilmente di tutto questo ad Akira non importava nulla. Senza dubbio aveva fatto finta di ascoltarmi per cortesia. E poi perché gliel'avevo raccontato? Fino al giorno prima lo avevo trattato cone se fosse il mio peggior nemico e ora gli raccontavo un qualcosa del mio passato.

I suoi occhi scuri mi scrutavano attenti, e mi metteva non poco a disagio. Distolsi lo sguardo poggiandolo sul banco e posizionandomi a cercare una posizione comoda, difficoltoso se dovevi fare a meno delle gambe e la presa dei piedi a terra che avrebbe facilitato il tutto. Era un qualcosa di scontato, un movimento semplice come l'atto respiratorio ma ci si rende conto di queste piccole cose quando ci vengono strappate via.

«I tuoi genitori come si sono comportati in quel momento con te?»mi domandò Akira con una punta di curiosità bella voce.

Riportai lo sguardo su di lui ed effettivamente era molto interessato. Era davvero tutto strano se davvero dava retta ai miei discorsi.

«Mia madre è andata nel panico. Lei é molto paranoica. Mentre mio padre, non appena siamo tornati a casa, mi ha urlato contro di tutto. Devi sapere che già a quei tempi giocavo a calcio, ma sai quel tipo di sport più divertente, tra bambini. Mio padre però aveva già deciso che sarei diventato un calciatore a livello professionale. Inoltre era più che convinto che un buon calciatore oltre che essere bravo nel gioco doveva anche essere, diciamo, dotato di bellezza, piú piacevole da vedere in campo. Quindi puoi ben immaginare che vedermi incerottato e con un dente mancante é andato su tutte le furie».

Lui mi fissò in silenzio e con intensità.

«Quindi tuo padre aveva già deciso il tuo destino».

C'erano delle accuse sottintese celate in quelle parole.

Feci spallucce. «Penso che lui avesse già capito che il pallone ce l'avevo nel sangue. Gli sono grato di avermi indirizzato lungo quel cammino. Solo che ho pensato più volte che forse se non mi fossi impegnato e non fossi arrivato a un passo a giocare in serie A, di certo non avrei sofferto come sto facendo ora»ammisi tristemente.

A nessuno avevo rivelato questi miei pensieri. Nessuno era riuscito a farmi abbassare la guardia in quel modo. Con nessuno mi ero messo così a nudo.
Perché con Akira? Perchè proprio lui?
Mi sentivo a disagio e disorientato. Mi ero messo in testa che non avrei avuto bisogno dell'aiuto di nessuno ma a quanto sembrava soffrivo a non poter parlare a cuore aperto con qualcuno.
In fin dei conti ero contento che quel qualcuno fosse lui.

Come se mi avesse letto nel pensiero lui mi sorrise prima di parlare. «Sono contento che ti sia confidato con me. Tenersi tutto dentro a volte fa male».

«A volte non si parla perchè chi si ha di fronte non può capire».

«Bè, sono felice che abbia voluto farlo con me» disse e mi regalò un sorriso, ben diverso da quelli a cui mi ero abituato, quelli sarcastico e distanti.

Non che io fossi tanto meglio, quel comportamento era del tutto legittimo come arma di difesa contro il mio pressoché odioso.

«Mi dispiace» dichiarai all'improvviso tanto da lasciarlo spiazzato, lessi tutta la sorpresa nei suoi occhi scuri.

«E di cosa?»

«Per essermi comportato come uno stronzo patentato. Tu non c'entravi nulla e mi sono accanito su di te. É solo che...». Mi bloccai un attimo alla ricerca delle parole giuste per potergli spiegare al meglio i drammi interiori che mi affliggevano e di cui nessuno era a conoscenza. «Ero arrabbiato con il mondo, con il destino che mi ha lasciato completamente solo e con una realtà distorta della mia vita. Sai, all'inizio ancora non ci credevo, e pensavo vivessi la vita di in altro e che quando mi sarei svegliato tutto sarebbe andato a posto. Ma i giorni sono passati e la vita mi comprimeva con tutta la sua sana crudeltà». Chiusi gli occhi per non incrociare i suoi, altrimenti ne sarei rimasto dilaniato. Quelle iridi gridavano molto più che la voce, parevano quasi il riflesso di quello che dicevo e non volevo. Akira non meritava di provare un dolore simile, eppure il suo coinvolgimento emotivo mi fece per un attimo sospettare che anche lui aveva provato qualcosa in passato che si era inciso sulla sua anima come un marchio indelebile.

«Per quello avevo deciso di arrendermi alla mia nuova condizione per paura di perdere ancora. Mi era stato strappato via tutto: una vita pressoché perfetta, un futuro roseo. Tutto, tutto perso in una manciata di secondi. E per questo avevo ripromesso a me stesso che mai avrei provato di nuovo un'esperienza simile. Meglio essere nessuno e senza aspettative che qualcuno e sempre a un passo dal baratro».

«Ma quello non sarebbe vivere»disse lui al che riaprì gli occhi. Si era sporto dalla sedia su cui era seduto aiutandosi con i gomiti poggiati sul banco e che mi fissava con il suo modo intenso e penetrante come se volesse mettere a nudo la mia anima. Ed era quello che stava facendo, tanto da farmi sentire imponente.

Non sapevo se fosse consapevole del potere che esercitava su di me e che mi faceva quasi avvertire una sorta di speranza anche in questa vita crudele.

«Vivere per sopravvivere é diverso che dal vivere davvero. In quest'ultima situazione si inciampa in tragedie ma poi ci si rialza. Ciò che conta é avere la forza per reagire».

«Parli come se avessi esperienza».

Stavolta fu lui a distogliere lo sguardo, stringendo un poco le labbra prima di parlare con voce rotta. «Ti consiglio solo quello che non ho avuto il coraggio di fare per non farti ripetere il mio stesso errore».

A quelle sue parole così dolorose rimasi inchiodato al mio posto, e alla vista di un rivolo di lacrime che gli scivolò lungo la gote avvertì il mio cuore straziarsi.

Un momento, ma di cosa stava...

Feci per chiedergli spiegazioni quando la porta dell'aula si aprì ed entrò con prepotenza Amanda con tutta la sua civetteria e scarsa intelligenza. Meno male che quella era solo la seconda volta, dall'inizio del tutoraggio con Akira, che la vedevo.

«Hai finito qui Akira? Devo assolutamente raggiungere le mie amiche e ho bisogno di un passaggio...»

Continuò a dare aria alla bocca e pareva infischiarsene dello stato d'animo in cui riversava il suo ragazzo. O aveva un serio problema alla vista oppure era una strega che non le importava nulla dei suoi sentimenti.

Strinsi involontariamente la mano a pugno e il mio sguardo si addombrò. Come si permetteva quella stupida oca a trattarlo in quel modo? E perchè lui non si ribellava? Aveva a che fare con le parole che aveva pronunciato poco fa?

Feci per parlare ma sfortunatamente Amanda si accorse che ero presente.

«Ancora qui Tremonti? Quanto tempo ti ci vuole per recuperare manco due argomenti?»

«E a te quanto tempo ci vuole a diventare intelligente? Ah ma senza cervello non andrai molto lontano. Almeno avrai la fortuna in un'apocalisse zombie di sopravvivere dato che con te non avranno granché da mangiare».

Amanda strinse le labbra come oltraggiata dalle mie parole. Allora non era poi così completamente decerebrata. Poi stirò le labbra in un sorriso tirato. «Ora capisco perché Agnese ti ha lasciato per Ippolito».

Non doveva più importarmi di quello che faceva Agnese, in fondo era quello che avevo ormai accettato da tempo eppure perchè mi ero sentito così punto sul viso dalle sue parole?

Stavolta Akira si intromise. Forse il lasciarmi insultare liberamente la sua ragazza era una sorta di rivincita che si prendeva dopo che lei lo trattava peggio di uno zerbino.

«Lascialo in pace Amanda. Andiamo».

Eh no, era come era successo il primo giorno, solo che stavolta m'importava di lui e della sua presenza. D'istinto allungai la mano verso di lui e lo trattenni per la manica. Lui si voltò verso di me e ciò che lessi fu la completa assenza di emozioni. Sembrava che la tranquillità e la tristezza provate poco prima fossero scivolate via dal suo bel volto, lasciando solo un viso completamente amorfo.

«Ci vediamo domani Luca»mi salutò, la sua voce un po' più gentile in netto contrasto dall'aurea che emanava.

Si liberò gentilmente dalla mia presa e uscì dalla stanza seguito subito a ruota da un'Amanda vittoriosa.

Avvertì un senso di nausea all'altezza dello stomaco all'idea di loro due insieme, così come un senso di possessione misto a protezione nei confronti di Akira. Non era normale che provassi tali sentimenti nei suoi confronti. E se prima erano ancora gestibili stando al suo fianco, imparandolo pian piano a conoscere ed apprezzare diventavano più intensi.

E non ne capivo il motivo.



Angolino autrice:

Buonsalve 😍 siamo arrivati all'ottavo capitolo 😍

E qualcosa pian piano emerge (e ovviamente siamo sempre interrotte sul più bello😱😂) 😏🙈

Spero che vi sia piaciuto :3

Nel prossimo succederà una cosa molto buffa che lascerà Luca in modalità shock (ma non vi anticipo nulla 🤐😂)

Vorrei ringraziare tutti voi che mi seguite in questa avventura 😍😭❤️

A presto con il capitolo 9 😍

FreDrachen

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Capitolo 10
*** capitolo 9 ***


Capitolo 9


Non ebbi più la possibilità di riaprire quel discorso e di certo non ci tenevo a rivedere il bel volto di Akira deformato da quella smorfia straziante da far piangere il cuore.

Ma seguì il suo consiglio e decisi di riprendere in mano la mia vita per quanto possibile.

Seguì diligentemente le sue lezioni prendendo appunti anche se avvertivo, ogni sacrosanta volta, il cervello andarmi completamente nel pallone. La caffeina per quanto fosse potente mi aiutava ma fino a un certo punto. Quando tornavo a casa mi sdraiavo sul letto quasi privo di forze mentali e mi alzavo solo quando era pronta la cena, che mi consumava in un fastidioso silenzio, freddo e tagliente come lame. Mio padre continuava a evitare il mio sguardo e anche mia madre, per quanto cercasse di coinvolgere sia me che lui, si arrendeva quasi subito. Soffriva molto di questa situazione ma non era di certo colpa mia se mio padre era una testa dura che difficilmente cambiava idea su qualcosa.

Per fortuna a non buttarmi giù avevo le lezioni di Akira al pomeriggio. Se avessi saputo che avrei cominciato a pensarla in questo modo ero certo che il vecchio me mi avrebbe bollato come pazzo e rinchiuso in qualche sgabuzzino.

Ma come ogni cosa bella arriva sempre una loro fine, e quel giorno sarebbe staro l'ultimo che avrei passato con lui come tutor. Ma cosa sarebbe successo dopo? Non mi avrebbe più rivolto la parola facendo pure finta di non conoscermi? Oppure mi sarebbe rimasto amico?

Bè amici fino a un certo punto dato che Akira era molto riservato e raramente rivelava qualcosa di sé.
Sapevo che era in patito di quei cartoni animati asiatici (non mi ricordavo mai che origine avessero) e che aveva un debole per le maglie con le frasi o altre stampe. Cosa facesse nel tempo libero, oltre che il nerd asiatico, era per me un mistero. E in che rapporti era con i suoi amici? Ne aveva molti e con che frequenza li vedeva? Mi sentivo quasi uno stalker e provavo inoltre una sottile gelosia al pensiero che Akira condivideva il suo tempo con altri. Un pensiero che non andava fatto, ma negli ultimi tempi avevo sviluppato una sorta di attaccamento nei suoi confronti, forse perché era l'unico che mi stava accanto oltre che a capirmi come nessuno aveva mai fatto prima d'ora.

Per questo dopo che mi ebbe invitato a casa sua per gli ultimissimi argomenti da fare mi ero imposto di scoprire qualcosa di più su di lui.

Mi feci accompagnare da mia madre in auto e fu un continuo di domande sul rapporto che avevo instaurato con Akira. Avevo indubbiamente una madre troppo pettegola. Ma non me la sentì di smontare il suo entusiasmo, erano mesi che non le vedevo un sorriso sul volto, almeno non in mia presenza.

Mia madre accostò al marciapiede di fronte al portone di Akira e trovai quest'ultimo ad aspettarmi. Eh certo, come quella prima volta l'unico modo che aveva per portarmi su da lui era in braccio. Dovevo ammettere che non era affatto spiacevole, se non fosse che la cosa mi metteva non poco a disagio. Mi sentivo privato della mia virilità portato come i principi facevano con le principesse.

Mia madre si apprestó a chiudere la sedia a rotelle, dopo che Akira mi ebbe recuperato, e la trasportò fino alla porta d'ingresso dell'appartamento di lui. Nel mentre mi godetti la sua vicinanza constatando che il suo corpo emanava un piacevole tepore inebriante, così come il suo profumo. E poi il suo cuore dal ritmo leggermente accelerato, sicuramente per via dello sforzo che stava facendo nel trasportarmi.

Ma non è che poteva essere causato anche dalla mia presenza?

Alt! Frena un attimo. Cosa stavo andando a pensare?

Scossi debolmente la testa stando attento a non attirare l'attenzione di Akira su di me perché se mi avesse chiesto qualcosa non ero certo della mia risposta.

Mia madre se ne andò quasi subito, non appena ebbe riaperto la sedia a rotelle, e mi salutò gioviale lasciandomi da solo con Akira che da bravo padrone di casa mi invitò a entrare. Avvertivo già la mancanza della vicinanza del suo corpo e a quel pensiero avvertì le goti scaldarsi.

Questi pensieri non andavano bene per niente. Dovevo assolutamente riprendermi.

Quando fu distratto mi diedi due schiaffetti sulle guance per riconciliarmi con la realtà.

Questi pensieri mi stavano indirizzando in terreni pericolosi per cui era meglio fermarsi in tempo prima che fosse troppo tardi.

«Ti va se andiamo a studiare in camera? Così forse staremo più comodi» mi propose e mi ritrovai ad annuire. In camera avrei trovato senza dubbio altri interessi di Akira.

La stanza era quasi come me la ricordavo dalla prima volta, anche se dovevo ammettere non ero stato molto attento nell'analizzare lo spazio circostante.

Non appena giunsi nel centro della stanza, avvertì la presenza di Akira dietro di me e non si accennava a muoversi. Mi voltai parzialmente e lo trovai che teneva lo sguardo a terra come perso in chissà che suoi pensieri. Mi sarebbe piaciuto avete il super potere di poter leggere nel pensiero.

«Mettiti pure comodo. Torno subito» dichiarò lasciando la stanza. Per un attimo rimasi incerto sul da farsi poi adocchiai subito il letto, che mi chiamava come una splendida e letale sirena.

Mi ci gettai sopra, in fondo mi aveva dato il suo consenso, e incrociai le braccia dietro la testa. Di fronte al letto campeggiava la libreria stracolma di quei fumetti che tanto gli piacevano, dalle coste di diverso colore. Ruotai di un poco la testa e ne intravidi anche altri due poggiati sopra il comodino. Uno raffigurava un umano sproporzionato e anatomicamente nudo e in primo piano una ragazza dai capelli a caschetto neri e una sciarpa rossa attorno al collo, mentre l'altro presentava il primissimo piano di un ragazzo dai capelli rosa (questa fissa dei capelli dei colori più disparati ancora non l'avevo capita), che sembrava abbracciato a uno con i capelli scuri di cui non si vedeva il volto essendo di spalle*. Animato dalla più sincera curiosità, aprì quest'ultimo volumetto in una pagina a caso e mi ritrovai a fissare due ragazzi in un'autentica scena di sesso esplicito, visibile anche se l'autore aveva cercato di censurare i loro membri. Vederli non avrebbe dovuto farmi ne caldo ne freddo, in fondo non ero gay, invece avvertì un certo calore nel basso ventre e il mio membro farsi duro.

"Cazzo! Maledetto corpo, cosa combini?" pensai, anche con una certa nota di panico.

Non doveva affatto succedere, dovevo assolutamente calmarmi. E se Akira fosse tornato in quel momento e mi avesse visto in quello stato? Avrebbe sicuramente pensato che fossi un pervertito arrapato con strane idee e senza dubbio mi avrebbe scacciato da casa sua e non mi avrebbe rivolto più la parola.

Fosse stato inizio mese sarebbe stata una manna dal cielo se non avesse più voluto avere a che fare con me, ma ora non più.
Era l'unico amico che avevo e se avessi perso lui sarei tornato a essere da solo e sinceramente parlando non avevo la forza per andare avanti arrancando in completa solitudine. Se avevo cominciato a vedere uno spiraglio di luce nella mia vita infranta in mille pezzi era stato grazie a lui. Perderlo equivaleva alla mia completa condanna.

Akira arrivò in quel momento di complessi esistenziali in atto nella mia mente, e mi osservò in modo troppo curioso. «Cosa c'è?»

Portai il mio sguardo su di lui ma lo distolsi quasi subito per paura che i miei occhi mi tradissero. Aprì la bocca una, due volte prima di impormi di tacere. Ero certo che se avessi parlato mi sarei fatto scappare una parola di troppo e avrei firmato la mia condanna.

Oltretutto avevo il respiro ansante e il battito irregolare del cuore, sembrava che il mio corpo fosse completamente impazzito. E speravo con tutto il cuore che non notasse la stoffa dei miei pantaloni, all'altezza del cavallo, tesa.

Cazzo.

Lui dovette intuire che qualcosa non andava perché la sua espressione passò a una preoccupata.

«Luca, stai bene?»

Ma perché doveva essere così stramaledettamente attento ai dettagli?

«Posso andare un attimo in bagno?» riuscì a formulare a stento cercando di non incrociare il suo sguardo.

Lo vidi annuire con la coda dell'occhio e più veloce che potevo mi sistemai sulla sedia a rotelle e su sua indicazione raggiunsi il bagno.

Non appena chiusi la porta lasciai andare l'aria che avevo trattenuto nei polmoni in fiamme, respirare era diventato complesso. Mi portai una mano all'altezza del cuore mentre cercavo di calmarmi.

Cosa mi stava succedendo?

Restai per un quarto d'ora abbondante rintanato in bagno e quando ne emersi lo feci con timore


Restai per un quarto d'ora abbondante rintanato in bagno e quando ne emersi lo feci con timore. Mi ero dato una calmata ma chi mi garantiva che sarei riuscito a rimanere tale?

Trovai Akira che sfogliava con fare distratto il manga incriminato tanto che dovetti distogliere lo sguardo in un nanosecondo per paura che il mio corpo reagisse nuovamente al solo pensiero delle immagini che avevo visto.

Non appena avvertì la mia presenza chiuse il volumetto lo poggiò sopra l'altro sul comodino.

«Stai meglio ora?»

Non lo sapevo, sentivo il mio corpo sull'orlo del baratro, sarebbe bastato un attimo e sarei caduto nell'abisso. Dovevo assolutamente cercare un modo per cambiare argomento. Oggi sarebbe staro il nostro ultimo giorno di incontri di tutoraggio perché alla fine eravamo riusciti a recuperare tutti gli argomenti.
Ecco, avrei tirato fuori l'ultimo che avevamo visto insieme il giorno prima.

Tutto tranne...

Involontariamente mi trovai a indicare il manga con l'indice. «Leggi questi...ehm...»

«Boys love?» mi arrivò in aiuto lui.

«Si esatto. Leggi di due maschi insieme?»

Bella mossa Luca. Deviare i discorsi erano davvero la mia specialità, a quanto sembrava.

Lui sembrò irrigidirsi. «Ti dà fastidio come cosa?»

Rimasi perplesso dalla sua domanda. Mi dava fastidio? In verità non mi ero mai posto quella domanda. Cioè, se li vedevo in giro non sarei stato uno che li avrebbe insultati per il loro orientamento sessuale, ma neanche avrei osannato quella scelta. Eppure il mio corpo mi aveva dimostrato ben altro poco prima. Diplomatico, non dovevo sbilanciarmi più di tanto nella risposta.

«A nessuno dovrebbe, perché ognuno è libero di amare chi vuole» risposi cercando di essere il più convincente possibile. Anche se leggeva quel genere di storia non significava che lo fosse quindi non avrei approfondito ancora di più la conversazione per paura di lasciarmi scappare qualcosa sulla reazione che il mio corpo aveva manifestato di fronte a quell'esemplificazione di amore.

Vidi le sue spalle rilassarsi e non compresi quella sua reazione.

Pensava che fossi uno di quei, purtroppo tanti, che pensavano che essere omosessuali equivaleva a essere malati di mente? Se era così non mi conosceva affatto. Ero più che convinto che la libertà di ognuno finiva quando ne iniziava un'altra e di certo amarsi tra ragazzi, ragazze non era una limitazione per nessuno anzi era il contrario.
Relazioni del genere venivano ancora considerate un errore ed era questo pensiero orribile l'autentico male, non l'amore in tutte le sue sfumature.

Glielo dissi e lui mi sorrise tristemente e non disse nulla. Continuavo a non capire il suo comportamento, ma per fortuna lui fu veloce a cambiare argomento e a introdurre quello che sarebbe stata la nostra ultima lezione insieme. Perché lunedì mi avrebbe aspettato la prova finale: il rientro a scuola.

* i due manga sono L'Attacco dei giganti 3 e Ten count 5
 

Angolino autrice:

Buonsalve :3
Luca si sta facendo un po' confuso 🙈😂

Spero che il capitolo vi sia piaciuto 😍
Ringrazio tanto tanto tutti voi che seguite la storia 😭❤️

A presto con il capitolo 10 🙈

FreDrachen

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

 

Il giorno che tanto temevo, sfortunatamente, era arrivato.

L'emblema dell'Apocalisse.

La fine del mondo.

Il mio rientro a scuola.

Non diedi molto peso al mio aspetto, dato che speravo di dare meno occhio possibile, anche se ero certo che avrei collezionato sguardi colmi di pietà e lì si che sarei arrivato alle mani. Ma ciò non mi convinse a lasciare i capelli completamente in disordine, cosa che mi dava alquanto fastidio, né di non indossare vestiti che di solito sfoggiavo: la maglia della mia squadra del cuore, in barba a tutti i prof che tifavano la squadra avversaria, in paio di pantaloni in tuta riadattati alle mie gambe, chiusi in fondo in modo che non prendessi freddo e infine un giacchetto che tenni aperto sulla maglia. Raggiunsi mia madre che sembrava una che avesse appena vinto alla lotteria. E certo che era felice, si era appena tolta il figlio problematico da casa.

«Emozionato di tornare a scuola?»mi domandò lei fremente d'eccitazione.

"Si emozionato a tornare a casa" pensai alzando gli occhi al cielo mentre m'impegnavo a scivolare nel piumino.

Pur essendo inizio dicembre c'era un freddo infernale. A confronto nel Cocito sembrava di stare ai tropici.

Non mi era mai piaciuto granché andare a scuola e pensava che cominciasse a piacermi adesso? Certo che i genitori erano davvero strani. Oltretutto quello era il giorno lungo con anche tre ore pomeridiane. Davvero pretendeva di vedermi sprizzare allegria da tutti i pori? Anche se, in effetti, rivedere Akira non mi sarebbe affatto dispiaciuto.
Forse ritornare a scuola non sarebbe stato poi così male.

O almeno così credevo.

Mia madre mi accompagnò in auto e passò l'intero tragitto a parlare del più e del meno, si avvertiva che era contenta del mio ritorno, ma anziché ascoltarla il mio cervello continuava a rielaborare quello su cui avevo rimuginato per l'intero weekend

Mia madre mi accompagnò in auto e passò l'intero tragitto a parlare del più e del meno, si avvertiva che era contenta del mio ritorno, ma anziché ascoltarla il mio cervello continuava a rielaborare quello su cui avevo rimuginato per l'intero weekend.

Dopo essere tornato da casa di Akira mi ero prontamente fiondato in camera mia e dopo essermi chiuso dentro, incurante delle proteste di mia madre, avevo acceso il pc portatile ed ero andato a cercare due immagini, una di un ragazzo in boxer e un'altra di una ragazza in bikini. Analizzai le due foto affiancate cercando di capire quale mi attirasse di più. Certo che la ragazza aveva delle belle tette, ma anche il ragazzo non era male con quegli addominali che parevano scolpiti e accidenti! Ma quei boxer a che servivano se si intravvedevano i profili di tutta la sua mercanzia? Ma quasi subito nella mia mente sovrappose a quel modello l'immagine di un Akira quasi completamente svestito e messo in posa sexy.

Cazzo! Avevo un cervello completamente da pervertito!

D'istinto avevo richiuso il pc come se fossi spaventato dai pensieri che elaboravo. E un un certo senso era vero. Avevo paura di tutto questo. Ora che ci pensavo non era proprio la prima volta che i miei occhi venivano attratti verso un corpo non femminile, in pratica quasi tutte le volte negli spogliatoi alla fine degli allenamenti di calcio. Ma mai avevo pensato a un qualcosa spostato nella sfera sessuale, come dopo aver posato gli occhi su quel fumetto peccaminoso. Oltretutto i miei genitori erano molti tradizionalisti, mi avevano sempre ripetuto alla nausea che era giusto stare con una ragazza e io avevo sempre preso per giuste queste loro parole, in fondo che voleva saperne del mondo un ragazzo scalpestrato di diciotto anni? Ma ora queste parole cominciavano a vacillare nella mia mente ed era tutta colpa di quel cinese.

«Luca mi stai ascoltando? Siamo arrivati»

Le parole pronunciate con tono impaziente sa parte di mia madre mi riportarono bruscamente alla realtà.

Fissai fuori dal finestrino per paura che il mio viso lasciasse trasparire troppo quello che stavo pensando, e constatai che si era fermata di fronte all'ingresso in modo da agevolarmi l'entrata. Notai con un sospiro di sollievo che avevano messo una sorta di lastra metallica che fungeva da pedana per permettermi di entrare senza rischiare di decappottarmi.

Individuai ancora molti ragazzi fuori malgrado fosse suonata da poco la prima campanella. Speravo che non fosse così, per evitare di dare troppo nell'occhio ma com'era prevedibile ero davvero fortunato.

«Ti vengo a prendere al termine delle lezioni» dichiarò retoricamente. A meno che non avesse avuto l'intenzione di farmi percorrere mezza città era logico che avrei usufruito del suo passaggio.

Annuì distrattamente e lei uscì dalla macchina con fare soddisfatto per recuperare dal bagagliaio la sedia a rotelle che mi aprì con gesti, oramai, esperti.

Come da abitudine mi aiutai con le braccia a sedermi e mi allontanai quel poco da permettere a mia madre di chiudere senza ostacoli la portiera.

Quando fui completamente solo, dopo il lungo saluto imbarazzante da parte sua, mi spinsi in avanti e non percorsi neanche qualche metro che il chiacchiericcio che animava l'atmosfera si interruppe, e avvertì fin da subito gli sguardi puntati addosso.

Ero abituato a stare al centro dell'attenzione ma non in quel modo.
Prima venivo venerato quasi come un Dio, ora quasi schernito o fissato con pietà, anche da parte di gente di cui non ricordavo neanche il volto. Non ero mai stato un bullo, inorridivo al pensiero di rendere la vita un inferno agli altri, come invece qualcuno purtroppo molto spesso faceva, ma ero anche di quelli che quando succedeva tirava dritto pensando di non centrare nulla, e forse questo mio stare in silenzio era paragonabile allo stare allo stesso livello dei carnefici.

"Il karma ha colpito. Il karma ha colpito".

Mi sembrava quasi di sentire il pensiero rimbalzare da una mente all'altra come una litania silenziosa, ma che era peggio di una pugnalata al petto. Sembravano quasi deridere della mia situazione.

Sei stato in silenzio quando avevi il potere di far cessare tutto e ora vivi nella completa debolezza. Questo urlavano silenziosamente.

Mi portai le mani alle orecchie quasi a voler zittire quelle parole mute, non pronunciate.

Poi una mano sulla spalla mi fece sussultare. Ruotai la testa e mi ritrovai a fissare Akira. Quel giorno aveva una felpa con il cappuccio con disegnato in alto a destra un piccolo Totoro, o almeno così mi aveva detto essere alla mia curiosità quando in camera sua avevo intravisto in piccolo portachiavi di questo inusuale personaggio, e sotto intravidi l'accenno di una scritta in giapponese. Chissà di che strana perla di saggezza si trattava.

La sua presenza mi rincuoró e il mio ritorno a scuola mi parve meno tremendo di quanto sembrasse. Anche se osservarlo mi faceva venire in mente i pensieri sconci che avevo avuto fino a neanche qualche minuto prima. Ah no, per quel giorno avrei smesso di avere pensieri allusivi.

«Ehi» lo salutai.

Ehi?

Ma che saluto del cazzo era? Ma possibile che il mio cervello non avesse avuto la capacità di elaborare qualcosa di meglio? Eh no, lui pensava solo a fare il malpensante.

Akira non se la prese e mi rispose con un sorrisetto.

«Hai intenzione di entrare oppure speri di comparire magicamente un classe con il potere del teletrasporto?»

Sbuffai fingendomi offeso. «Solo un nerd con te se ne poteva uscire con una frase del genere».

Akira fece spallucce. «Allora non é un problema se tu lascio qui a sperare che accada, no?»

Fece per superarmi ma prima che non fosse piú nel mio raggio d'azione lo afferrai per il bordo della manica.

«Potremmo fare il tragitto insieme?»gli domandai d'un soffio sentendomi subito dopo uno sfigato colossale.

Lui si fece serio e si osservò attorno e  constatai che molti avevano continuato a osservarmi anche durante il breve scambio di battute con Akira.

Inquietante.
Ma non ce l'avevano una vita?

Akira fece un mezzo giro e si posizionò alle mie spalle e dopo aver afferrando i manubri della sedia cominciò a spingermi.

«Ignora i loro sguardi. Tu non hai fatto nulla di male. Non dare loro questa vittoria. Non mostrare che i loro sguardi e penseri maligni abbiano potere su di te».

Se me l'avesse detto qualcun altro gli avrei riso in faccia ma se era lui a dirlo avrei senza dubbio seguito il suo consiglio, dato che non parlava solo per dare aria alla bocca come faceva la maggior parte della gente.

Per questo cercai di isolarmi dal resto del mondo e a concentrarmi sulla presenza rassicurante di Akira, ma gli sguardi che mi venivano indirizzati continuavano a bruciare sulla pelle lasciando ferite invisibili che però mi macchiavano, facendomi sentire sporco.

La tortura durò fin quando non raggiungemmo l'ascensore e le sue porte si fossero chiuse, lasciando gli altri ragazzi e i loro sguardi maligni al di fuori. Akira aveva fatto di tutto per muoversi in fretta ma senza correre, per evitare di essere ripreso duramente dal portinaio.

Finalmente soli mi lasciai a un sospiro di sollievo, anche se non era ancora finita.

«Per essere qualcuno che é sempre stato sotto i riflettori sembra che ti senti a disagio».

«Ma hai visto come mi guardavano?» gli domandai. Gli sguardi che mi lanciavano prima erano assai più confortanti.

Akira stirò le labbra in un sorriso. «Si, come dei ghoul di fronte alla carne umana».

«Oddio Akira. Mi tiri fuori personaggi cinesi di primo mattino?» finsi di lamentarmi e soffocai una risatina quando lui mi corresse automaticamente la provenienza dell'opera in questione.

Parlare con lui mi tranquilizzava tanto che per un attimo mi dimenticai di trovarmi in una scatoletta di latta attaccata a una spessa fune di metallo e nell'Inferno sceso in terra.

La realtà mi piombò addosso non appena giungemmo al nostro piano e le porte si aprirono per permetterci di scendere.

Non é che avevo poi così gran voglia di uscire, anzi la voglia di scappare a casa aveva raggiunto i massimi livelli consentiti.

Mancava ancora il tragitto fino alla classe e i componenti della classe stessa. E poi mi sarei ritrovato senza dubbio di fronte a Ippolito che mi avrebbe spiattellato in faccia il futuro che mi era scivolato via dalle mani e che avevo perso assieme alle mie gambe.

Per mia somma sfortuna lo intravidi appoggiato al muro di fianco alla porta d'entrata della classe avvinghiato a quello che mi pareva un corpo femminile. Un corpo che mi pareva aver già visto, così come i capelli scuri sul mosso della ragazza.

Akira seguì il mio sguardo appoggiandolo anch'esso su quella scena ai limiti del decoro. Anche se era un po'  ipocrita da parte mia dato che anch'io lo avevo fatto, ma non così in pubblico dove i prof potevano riprenderci. Conoscendo la fortuna di Ippolito figurasi se sarebbe passato qualcuno.

«Ti accompagno fin dentro alla classe?» mi propose Akira come se avesse letto il mio disagio. Era impressionante come fosse in grado di leggermi nell'anima.

Il solo pensiero di affrontare altri sguardi accusatori e di pietà mi faceva venire il voltastomaco ma non potevo fare completamente affidamento sulla presenza di Akira. Per questo scossi la testa.

«Devo affrontarli da solo» dissi con determinazione e sul volto di Akira scorsi un barlume di orgoglio che mi fece gongolare. Avere il suo appoggio mi faceva sentire un leone, di segno zodiacale e di fatto, pronto a sbranare chiunque mi avrebbe messo in imbarazzo. Sarei entrato in classe a testa alta senza vergognarmi del mio stato.

Salutai Akira con la promessa che ci saremmo visti all'intervallo (se fossi sopravvissuto) e lo osservai allontanarsi prima di voltarmi in direzione della mia classe e a prendere coraggio per avanzare.

 

Angolino autrice:

Buonsalve :3

Spero che il capitolo 10 vi sia piaciuto :3

Riuscirà Luca a sopravvivere a questa giornata di scuola? Chissà! Si scoprirà solo leggendo 🤷🏽‍♀️😈😂

Ringrazio tutti voi che seguite questa storia 😭❤️

Adiós!
FreDrachen

 

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Capitolo 12
*** capitolo 11 parte 1 ***


Capitolo 11 parte 1


Cominciai a darmi una spinta, dato che non volevo correre il rischio di essere segnato assente ma a meno che il prof non fosse stato sottoposto a un lavaggio del cervello era impensabile che fosse già in classe con Ippolito che pareva voler staccare il volto della mia ex a furia di baci. Non avevo molta voglia di intavolare una conversazione con loro, sopratutto dopo il fatto che mi avevano lasciato completamente solo. Begli amici di infanzia che erano!

Avvicinandomi, riuscì a distinguere i loro tratti. Ippolito era la brutta copia di Ed Sheeran, con il naso troppo grande e schiacciato stile Shrek e gli occhi piccoli castani infossati, mentre Agnese era sempre stata bella con i suoi capelli neri come la notte e gli occhi castano chiaro da cerbiatta. I due erano come il giorno e la notte, sia di aspetto che di carattere. Anche se Ippolito aveva perso peso da quando aveva cominciato a giocare a calcio si intravvedeva ancora un qualcosa che ricordava il suo lato da sfigato e preso in giro, mentre Agnese aveva sempre avuto un corpo sottile e leggiadro, delicato come una piccola farfalla. E per il carattere manco parlarne.

Scossi la testa, non dovevo continuare a pensare a quei traditori, e continuai ad avanzare, architettando nella mente un piano a prova di bomba. Sarei sgattaiolato di soppiatto in classe senza lasciare loro il tempo di rendersi conto di chi era passato loro di fianco. Sarei stato più veloce di Bolt, anche se con la sedia a rotelle sarebbe stato di certo in problema. Ma dovevo farcela altrimenti sarei caduto vittima di una situazione talmente imbarazzante che mi avrebbe fatto venire una voglia matta di defenestrarmi.

Mi avvicinai sempre di più e ancora non si erano accorti della mia presenza. Forse la fortuna aveva deciso di girare dalla mia parte dopo mesi di latitanza.

Quando fui a pochissimi metri andò tutto a puttane.

I due si staccarono dall'effusione a luci rosse che si erano scambiati fino a quel momento, e oltre che trovarmi il brutto volto da rospo di Ippolito ebbi la possibilità di vedere la mia ormai ex ragazza con le guance arrossate che cercava di riprendersi da quella piccola parentesi di finto erotismo. Agnese si staccò da Ippolito e abbassò lo sguardo cercando di nascondere, malamente, l'imbarazzo.

Imbarazzo di cosa effettivamente? Il strusciarsi contro il corpo di uno che avrebbe rotto gli specchi al suo passaggio, oltre che avermi tradito con lui? Oppure l'imbarazzo che provava nel vedermi nelle mie condizioni?
Effettivamente io e lei non avevamo ufficialmente rotto ma sembrava palese dal suo comportamento, oltre che rapporto, con Faccia da rospo.

Per quanto riguardava invece il mio essere poteva benissimo voltarsi dall'altra parte se le dava fastidio quello che vedeva. Non avevo bisogno della sua pietà né di nessun'altra cosa da parte sua. Era da tempo che era nell'aria ma oggi avevo avuto la prova che fosse effettivamente chiusa tra noi.

Non sprecai neanche una mole di ossigeno per rivolgere loro la parola e ignorandoli mi spinsi con la sedia a rotelle all'interno della classe. Era la stessa dell'anno scorso, con le pareti un tempo bianche, ora piene di scritte e disegnini oltre che dei segni neri lasciati dai banchi che strusciavano contro la superficie, i tre caloriferi appostati sotto le finestre, il luogo peggiore dove sedersi sopratutto d'inverno, e per finire i banchi da due postazioni rettangolari e in legno chiaro.

Non appena entrai avvertì subito tutti gli sguardi dei presenti sul sottoscritto, e li odiai uno ad uno. Prima gli sguardi ardevano di adorazione, ora di pietà. Per quel che mi riguardava potevano benissimo cavarsi gli occhi. O se non  volevano lo avrei fatto io. Chissà quanti anni di carcere mi sarei beccato per una cosa del gener...

«Molto bene ragazzi. Prendete posto» gracchiò la voce della prof di biochimica alle mie spalle, interrompendo bruscamente i miei pensieri criminali. Mi voltai parzialmente e me la trovai a pochi metri di distanza. Non è che stessi nella pelle a vederla dato che era ormai constatato che mi odiava ma ora con quelle sopracciglia folte e sgraziate arcuate sprizzava una certa dose di fastidio, come se il mio ritorno significasse solo rogne.

Grazie tante eh! Anch'io però non ci tenevo granché ad avere a che fare con quella megera.

«Cosa fai ancora li impallato? Vuoi già farmi perdere tempo? Sbrigati a prendere posto» mi riprese con quella sua voce isterica e acida, che, temetti mi avesse perforato il timpano.

Subito il mio sguardo saettó verso quello che era sempre stato il mio posto, quello nell'angolino a sinistra celato agli sguardi di falco dei prof e vicino alla finestra per potermi distrarre senza problemi. In quel momento era occupato da Ippolito, che nel frattempo era entrato in classe con Agnese dietro di lui di pochi passi.

Constatai che l'unico libero era in primo banco a fianco a un tizio talmente anonimo che per un attimo pensai che potesse essere uno nuovo e che, a  primo impatto, mi fece pensare subito alla parola Nerd, scritta a neon.

Era basso e gracile, con il viso pieno di foruncoli tipici dell'adolescenza (io per fortuna me l'ero scampata) e mi fissava da dietro un paio di occhiali dalle lenti super spesse che lo facevano sembrare uno scienziato pazzo.

E io mi sarei dovuto sedere di fianco a uno che come minimo mi avrebbe prelevato in qualche modo il DNA e da cui avrebbe creato una sottospecie di clone che avrebbe schiavizzato il mondo se non l'universo? Oppure che mi avrebbe direttamente usato come cavia e trasformato in chissà che creatura inquietante? Ma anche no!

Feci finta di non averlo visto ma quello, che ovviamente non capí l'antifona, si sbracciò per attirare l'attenzione.

«Ehi! Il tuo posto è qui. È stato il preside a deciderlo» dichiarò con una voce nasale e da tipico leccaculo che mi fece salire l'impulso di correre via dalla classe e trasferirmi in quella di Akira, se non fosse che aveva come materia Fisica ambientale (e io detestavo la fisica con tutto il cuore).

Ruotai un poco la testa, sperando che nel frattempo si fosse magicamente eclissato, ma constatai, con estrema sfortuna, che i suoi occhi porcini erano ancora puntati su di me ed erano pieni di aspettativa. Ossignore!

Con la prof che mi fissava come se volesse incenerirmi sul posto mi feci avanti e mi posizionai in quel posto vuoto, cercando il più possibile di stare lontano da quello che sarebbe stato il mio compagno di banco.

Secondo la struttura e la posizione dei banchi avevo capito il motivo di tale scelta, era l'unico posto in cui avrei avuto lo spazio necessario per fare le manovre con la sedia a rotelle. Peccato che mi toccava dividere quello spazio con Inquietudine. Lo guardai di sottecchi e constatai che mi stava ancora palesemente fissando. Altro che Annabelle, lui sarebbe stato perfetto per un film horror.

«Che c'è?» gli domandai con in tono forse troppo duro ma volevo che la piantasse subito di fissarmi.

Lui non spicciò parola e io continuai a fissarlo cercando di fargli capire che doveva fare finta che non esitessi, mentre la prof faceva l'appello.

Il tizio esclamò uno squillante "presente" al suo nome e capí che si trattava di un certo Gianbattista Casale. Mi ricordavo di aver già sentito questo nome ma in verità non mi ero mai accorto della sua presenza in classe.

Quando arrivò al mio turno quasi saltò il mio cognome come se si fosse ormai abituata alla mia assenza da scuola. Ebbene mia cara, da quel momento in poi mi avrebbe di nuovo sopportato.
Finì l'appello e firmò il registro per poi dichiarare le parole in grado di raggelare anche il più coraggiosi degli eroi.

«Adesso interrogo. Ci sono volontari?»

Dal momento che quelli che prontamante si offrivano un pasto alla belva non si erano fatti avanti dedussi che avessero già il voto per cui erano fuori dai giochi. Maledizione.

«Direi Russo e...»

Ippolito non era mai stato granché ferrato per lo studio, forse perchè cercava di imitarmi per qualsiasi cosa facessi, anche nel non applicarsi a scuola. A volte lo trovavo irritante ma sinceramente non mi dispiaceva una persona del genere che pareva adorarmi e che mi vedeva come un modello da seguire. Era da sempre stato la mia ombra, da quando lo avevo difeso da un gruppo che lo prendeva in giro per i suoi chili di troppo, persi attualente con il calcio, e la faccia da tonto arricchita di inquietanti occhi semi sporgenti che lo facevano sembrare un pesce palla. Eravamo già amici dall'asilo ma era dalla prima media che era sfociato questo suo attaccamento quasi morboso.

Perso nei miei ricordi non mi accorsi che il mio compagno di banco invadente mi stava picchiettando con l'indice la spalla. Ma chi cazzo gli aveva dato il permesso di toccarmi?

«La prof ti ha chiamato» disse con il suo accento che cominciava a darmi sui nervi.

Portai lo sguardo sulla prof che mi stava fissando spazientita.

«Distratto già alla tua prima ora Tremonti? Non hai avuto già abbastanza tempo per nullafacere? Tipo questi cinque anni».

Ma questa stronza non poteva starsene con la bocca chiusa?

Ok che non ero mai stato un fan dello studio ma sinceramente non vedevo perchè doveva mettere bocca su faccende che non le competevano. Studiavo quello che mi serviva, altrimenti non sarei mai arrivato in quinta promosso senza debiti, per cui doveva smetterla di trattarmi in quella maniera sgarbata.

Mi limitai a sorriderle con fare straffotente mentre poggiavo le braccia sul banco.

Lei di tutta risposta assottigliò gli occhi, sperando di apparirmi minacciosa, cosa in cui non riuscì.

«Vedremo quanto ci sarà da ridere Tremonti».

 

Angolino autrice:

Buonsalve :3
Ho diviso il capitolo in due ma spero che questa prima parte vi sia piaciuta XD
Finiranno le disgrazie in questo primo giorno di scuola di Luca? 😏🙈😂

Ringrazio tantissimo tutti voi che seguite la storia 😍 vi voglio tanto bene 😭❤️

A presto con la seconda parte 😉

FreDrachen

 

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Capitolo 13
*** capitolo 11 parte 2 ***


Capitolo 11 parte 2


Ce la mise tutta. Si vedeva dal suo sfogliare con fare frenetico il libro di testo per cercare anche solo il minimo dettaglio che potesse affossarmi.

Ma la mia difesa era impenetrabile. Dopo la sessione turbo di un mese con Akira di tutte le materie ero pronto anche a ripeterle alcuni argomenti di cui tra poco non era a conoscenza nemmeno lei.

La vidi sedersi stancamente sulla sedia massaggiandosi le tempie e mormorando a mezza voce pensando che non la sentissi, anche se mi trovavo a neanche mezzo metro di distanza, che ero la reincarnazione del diavolo arrivato sulla terra con il solo scopo di renderle la vita un inferno.

Sinceramente parlando doveva essere molto egocentrica se pensava di essere protagonista dei miei pensieri 24 ore su 24.

Alla fine dopo il suo imprecare cedette nell'assegnarmi un bel otto di voto, proprio da lei, la megera tirchia che per strapparle un voto alto dovevi prosciugarla di chiacchiere.

Gongolai, felice come una Pasqua che lo studio con Akira avesse dato i suoi frutti.

A ricreazione lo avrei senz'altro aggiornato, e sperai che fosse fiero di me. Non sapevo il perché ma ci tenevo al suo giudizio.

Mi mossi sulla sedia e nel mentre continuai a fissare la prof che mi regalò uno sguardo colmo di odio che sembrava urlare vendetta. E meno male che i professori dovevano essere imparziali con tutti e accantonare le preferenze. Sarebbe stato da riferire a qualcuno di questo suo comportamento.

Il poco che era rimasto dell'ora passò abbastanza in fretta e la prof spiegò (o meglio lesse le pagine del libro con le pause foniche corrette) un nuovo argomento e non appena suonò la campanella uscì dall'aula come se le avesse preso fuoco il sedere.

Quanto era infantile a non ammettere una sconfitta. Anche se anch'io, forse, mi sarei comportato allo stesso modo. Nella vita c'era chi vinceva e perdeva, e io senza dubbio avevo sempre voluto essere dalla parte dei vittoriosi.

L'ora successiva fu di matematica. Nessuno aveva avvisato la prof del mio ritorno perché non appena mi scorse mi fissò come se fossi un'allucinazione, un alieno a tre teste e otto braccia.

Ma insomma, tutta questa contentezza nel vedermi potevano proprio evitarsela.

Anche lei, da perfetta sanguisuga travestita da signora distinta sui cinquant'anni dai capelli castani, palesemente tinti viste le radici sul grigio, e gli occhi azzurri, si premurò di darmi un caloroso bentornato interrogandomi sullo studio di funzione.

Ovviamente da persona misericordiosa quale era mi fece smuovere da posto e con non poca difficoltà mi avvicinai alla lavagna a gessi. Se c'era una cosa che non sopportavo era quella fastidiosa polverina che lasciava sulle mani dopo l'uso. Che urto!

La prof cominciò a dettare l'esercizio e stancamente cominciai a scrivere, ma quasi subito dopo che cominciai lei mi interruppe.

«Se scrivi così in basso rischi di non farci stare tutto lo svolgimento dell'esercizio».

Le scoccai un'occhiata eloquente per farle capire che quella a cui stavo scrivendo era l'altezza massima a cui riuscivo ad arrivare stando seduto sulla sedia a rotelle. Ma dal suo sguardo intuì che non avesse colto.

Per cui ignorai completamente le sue parole e sviluppai l'esercizio, cancellando più volte visto lo spazio ristretto che mi era concesso, solo la parte bassa ma del alto sinistro, visto che il resto mi era precluso dalla presenza della sedia che ingombrava lo spazio.

Risolvetti l'esercizio e quando finì trovai la prof a fissarmi con tanto d'occhioni. Che donna di malafede, credeva che non fossi in grado di risolvere un esercizio così semplice? Akira me ne aveva fatti fare di ben più difficili e articolati, quello che mi aveva appena assegnato era una bazzecola.

Non contenta me ne affibbiò un altro che risolvetti con estrema meticolosità. Alla fine anche lei si arrese all'evidenza dei fatti e con la coda tra le gambe mi mandò a posto e cominciò a spiegare.

Mi sentivo profondamente soddisfatto.

Dopo poco suonò la campanella segno che finalmente avrei potuto vedere Akira le aggiornarlo già dei miei disagi mattutini.

Feci per muovermi quando una figura mi si parò di fronte.

Capì subito di chi si trattasse ancor prima che alzassi lo sguardo verso il suo viso, cosa che feci comunque più per cortesia che voglia.

Agnese mi fissava a disagio mordendosi il labbro carnoso inferiore e ondeggiando un poco sul posto.

«Ciao Luca» mi salutò con voce tremante come se fosse insicura.

Se non aveva questa gran voglia di parlarmi perché farlo? Nessuno la stava minacciando di morte e se anche fosse di certo non avevo poi questa gran voglia di confrontarmi con la mia ex. Non ero poi così masochista.

«Agnese» risposi, in fondo rimanevo pur sempre una persona rispettosa (almeno finché non mi facevano incazzare), con cenno della testa e sperai che intuisse che non avevo alcuna voglia di parlarle.

Lei non parve capirlo perché non si scansò. Se fosse stato qualcun altro l'avrei stirato con la sedia a rotelle.

«Stai bene Lu? Ma proprio bene?»

Ma che cazzo di domande erano?

«Se ti fosse importato qualcosa di più di me non sarebbe necessario chiedermelo» ribattei a denti stretti. Addio simpatia. Non avrebbe dovuto tirare fuori quell'argomento, non con me.

Mi stavo comportando da stronzo ne ero consapevole ma sinceramente ancora mi rodeva che mi avesse abbandonato solo con i miei demoni interiori e la mia rabbia.

Come mi ero aspettato lei mi fissò con quel suo sguardo da cerbiatto impaurito e sbatté le ciglia per cercare di scacciare le lacrime. Era sempre stato un tipo emotivo Agnese e anche molto sensibile. E da bravo stronzo quale ero ne avevo approfittato, ma mi aveva provocato.

«Hai ragione. Sono stata davvero pessima».

«Pessima per cosa esattamente? L'avermi lasciato solo nel momento del bisogno oppure quando mi hai tradito con Ippolito?»

Lei fece un passo indietro e maledissi il fatto che non l'avesse fatto di lato, per lo meno ci saremmo risparmiati questa ridicola messa in scena tra ex.

Ma prima che proferisse parola fu affiancata dalla figura di Ippolito che le fece passare un braccio lungo i fianchi e l'attirò a sé con fare possessivo, un qualcosa che mai avrei fatto.

«Stai forse importunando la mia ragazza, Tremonti?» mi domandò cercando di fare lo sfacciato, ma nei suoi occhi color erba marcia notai un guizzo, come se si trovasse a disagio a rivolgermi la parola.

«E tu forse stai cercando ancora di imitarmi? Perché se è così non sei altro che terribilmente patetico».

Lui strinse gli occhi in due fessure.

«Ancora la lingua biforcuta? Ti conviene scendere dal tuo piedistallo, perché vedi é ora di rendersi conto che non sei più nessuno».

Lo fissai come come se fosse stato un emerito idiota, cosa che effettivamente era.

«Perché? Mi stai forse dicendo che tu lo sei?» domandai con finta innocenza, al che Ippolito strinse la mamo a pugno. Se mi avesse colpito non ci avrei pensato due volte a restituirlo al mittente, magari riuscivo a migliorare quella faccia da rospo che si ritrovava.

«A differenza tua sono riuscito a diventare ciò che avresti potuto essere te se non ti fossi comportato come uno stronzo che credeva di essere Dio sceso in terra».

Era vero che in passato avevo peccato di egocentria ma insomma chi non l'aveva mai fatto nella vita, soprattutto se si aveva ottenuto traguardi su traguardi fino al tragico epilogo? E poi di certo non avevo costretto nessuno a stendermi il tappeto rosso al mio passaggio. Ippolito come tutti gli altri avevano deciso in piena autonomia di stare in mia compagnia, quindi che la smettesse con tutto questo vittimismo da quattro soldi perché non faceva altro che farmi incazzare ancora di più.

«Disse quello che tra poco arriva a imitare il mio stile per poter sembrare la mia ombra. É quello che ti riesce meglio no?» ribattei cercando di rimanere calmo, anche se sotto la superficie ribollivo di rabbia.

Ippolito stirò le labbra in un sorrisetto canzonatorio. «Adesso non ne ho più bisogno, non credi? Non ci tengo a sembrare una nullità».

Mi sporsi leggermente in avanti con fare minaccioso.

«Ripetilo se ne hai il coraggio».

Sapevo ormai da tempo che Ippolito non fosse proprio il prossimo Einstein, difatti non aveva proprio capito che se avesse provato a ripetere le sue parole velenifere avrei trovato un modo per scaraventarlo giù dalla finestra.

Ma prima che lui potesse emettere una sola sillaba intervenne Agnese, che era stata fino a quel momento in silenzio a osservarmi.

«Smettila Poli. Non è necessario tutto questo» disse con un tono talmente remissivo tanto da farmi chiedere se davvero la ragazza che avevo di fronte era la stessa che conoscevo ormai da secoli. Era sempre stata una ragazza molto timida e gentile ma mai si sarebbe abbassata a sembrare sottomessa a qualcuno. E mai avevo provato a esercitare una simile pressione su di lei.

Anche se forse non l'avevo mai amata completamente l'avevo sempre rispettata come persona, come doveva essere naturalmente. Diversamente doveva pensarla, però, quel coso dal cervello di ameba di Ippolito, che a quelle parole appena sussurrate si girò verso di lei con fare adirato.

«Fatti i cazzi tuoi e impara a stare al tuo posto e parlare quando sei interpellata».

Lei di tutta risposta abbassò il capo in segno di sottimissione e a quella vista avvertì un colpo al cuore.

La fama che aveva ottenuto giocando a calcio (ma con che coraggio lo tenevano in campo, dato che pareva un pinguino in lotta perenne con il pallone?) sembrava dargli alla testa da tanto era diventato maleducato e spocchioso, oltre che un emerito stronzo.

«A stare al suo posto dovresti impararlo prima te» gli rinfacciai stringendo le mani sui braccioli. Ma tanto che parlavo a fare? Uno con il cervello pari a un protozoo unicellulare non avrebbe capito neanche quello che dicevo.

«Che hai detto stronzetto?» mi domandò con fare minaccioso e subito intuì di aver espresso quest'ultimo pensiero ad alta voce.

Ops.

Voleva che glielo ripetessi? Doveva conoscermi a tal punto che sapeva che non me ne sarei fatti di problemi a rincarare sulla verità. Di solito i miei pensieri non venivano filtrati lungo il tragitto cervello-bocca e questo aveva fatto si che a molta gente stessi sulle scatole. Ormai avevo capito che chi mi era stato vicino lo aveva fatto unicamente per via della mia evidente magnificenza che loro potevano solo sognarsi.

«Che hai un cervello pari a un...»

«Che sta succedendo qui?»

La voce di Yassine arrivò come amica alle mie orecchie. Forse lui era ancora dalla mia parte. Non sapevo se avesse o meno il mio numero di cellulare, forse era per quello che non mi aveva scritto.
Ma prima che potessi esprimere ad alta voce tutta la mia contentezza, parlò nuovamente e fu come ricevere una secchiata d'acqua gelida.

«Hai finito qua con signor Nessuno? Rischiamo di non riuscire a prendere qualcosa dalle macchinette».

Ah, quindi ero sempre stato circondato da Giuda e Bruto? Ci mancava pure Cassio e avrei avuto al mio fianco tutti e tre i traditori per eccellenza nelle bocche di Lucifero.

Bell'amico che era. Si era iscritto al primo anno con noi che non sapeva una parola in italiano. Si era seduto di fianco a me con fare timido ed era per quello che l'avevo affiancato aiutandolo a integrarsi in classe dove già conoscevo un bel po' di gente, oltre che aiutarlo con l'italiano. Lui parlava solo inglese e la sua lingua d'origine, il tunisino. Con la seconda non ci incastravo neanche se avessi voluto e poi...l'inglese? Certo ero ben consapevole che mi sarebbe servito per il mio futuro di calciatore, ma sfortunatamente non ci andavo granché d'accordo ma tanto a che serviva? Se gli altri volevano capirti che si imparassero l'italiano, no?

Ok l'avevo aiutato perché volevo, solo che mi dava non poco fastidio che adesso spalleggiasse Ippolito.

«Ma si andate. Non ho voglia di perdere tempo con dei traditori» sibilai irritato, beccandomi un'occhiata d'astio da parte dei due ragazzi che si allontanarono senza ribattere. Agnese tardò per un attimo e mi rivolse uno sguardo di scuse prima di andare dietro al suo ragazzo aka Stronzo Megalomane.

Mi sa che non ebbero neanche il tempo di formulare il pensiero su cosa prendersi alle macchinette che la campanella suonò.

Li vidi tornare in aula a mani vuote e a gettarmi un'occhiata manco fosse colpa mia. E lo stesso feci io.

Per colpa loro non ero riuscito a vedere Akira.

 

Angolino autrice:

Buonsalve 😍💞

Eccomi con la seconda parte del capitolo 🙈 ne manca ancora una parte che ho preferito mettere diviso per l'eccessiva lunghezza che anche questa parte avrebbe avuto 😱😱

Ringrazio tutti voi che seguite la storia 😭❤️ spero che Luca e Akira possano allietare un po' le vostre giornate ❤️

A presto con la terza parte 🤗

FreDrachen

P.s. esiste una pagina Instagram per le mie storie 😍 se volete potete trovarmi anche lì:

fredrachen_stories

 

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Capitolo 14
*** capitolo 11 parte 3 ***


Capitolo 11 parte 3

 

La lezione successiva furono due di laboratorio di microbiologia.

Per somma sfortuna si trovava a due piani sotto il nostro e per questo dovetti fare il breve viaggio in ascensore con il prof di laboratorio, un tizio di mezza età che occupava gran parte dello spazio ristretto.

Avvertì prima che le porte si chiudessero i mormorii dei miei compagni che affermavano che avevo scelto la via preferenziale e comoda, come se non fosse la sola cosa che potevo fare per muovermi da un piano all'altro. E comunque avrei fatto più che volentieri a cambio per non soffrire. Non ero mai stato claustrofobico ma vicino al mio prof avvertivo abbastanza la carenza di aria e spazio.

Quando finalmente giungemmo a destinazione, e dopo notevoli atti respiratori per riprendermi, mi avvicinai agli altri che sembravano aspettarci da un pezzo. Le cose erano due, o l'ascensore era troppo lenta oppure loro avevano inventato una qualche forma di teletrasporto. Il prof si posizionò di fronte a noi e con fare pratico illustrò brevemente quello che dovevamo fare, o meglio che gli altri dovevano finire e che io avrei dovuto cominciare da zero.

Era semplice a dire il vero, dovevamo posizionarci alle nostre postazioni munite di microscopi e avremmo dovuto analizzare sotto la lente diversi vetrini su cui erano poggiati dei tessuti umani e riportare come disegno quello che vedavamo su un quaderno. A parte che ero una frana colossale a disegnare, il vero problema era un altro.

Un insignificantissimo particolare.

I banconi erano più alti della mia altezza da seduto sulla sedia a rotelle e a meno che non avessi sviluppato la capacità di fluttuare per aria avrei avuto sincere difficoltà a svolgere questa esperienza.

E quando lo feci presente al prof lui si limitò a una semplice alzata di spalle e si allontanò per raggiungere l'estrema parte del laboratorio.

Dico, ma che cazzo di problemi aveva?
Non era il suo lavoro aiutarci a risolvere questi problemi pratici? Che poi mica era colpa mia se i banconi erano troppi alti.

«Se vuoi puoi fare coppia con me» s'intromise la voce irritante del mio compagno di banco, che da bravo violatore di privacy aveva origliato tutto.

Mi voltai e feci per rispondergli un rispettosissimo "Fatti i cazzi tuoi" ma mi fermai appena in tempo. In effetti stare in coppia con qualcuno non era poi così male come idea, ed ero certo che Quattrocchi (si, l'avrei chiamato così da quel momento in poi) sarebbe stato l'unico a farsi avanti e a volermi come compagno.

Che problemi. Ed eravamo solo a metà mattinata. Ma quando sarebbe finito questo schifo di giornata?

Di malavoglia mi affiancai a Quattrocchi che subito con la sua aria da secchione si mise al lavoro.

Passai le due ore più noiose di tutta la mia vita.

Quattrocchi era un continuo aprirsi in esclamazioni di meraviglia quando guardava un vetrino e poi subito si catapultava a disegnare quello che vedeva. Dato che osservarli al microscopio mi era precluso per problemi tecnici, perché farmelo appoggiare sulle gambe per vedere qualcosa doveva essere eresia per il prof, allungavo il collo per poter sbirciare sul suo quaderno che veniva trattato manco fosse una sacra reliquia.
Ma allora per che cazzo mi aveva chiesto di fare coppia con lui? Per fare il palo che moriva di noia?

Fui lesto a prenderlo quando lui si distrasse per andare alla ricerca di vetrini ancora da vedere e constatai che era dotato di un'abilità nel disegno pari alla mia...che era praticamente nulla. Difatti a me non parevano altro che scarabocchi mal riusciti e del tutto incomprensibili.

Lo rimisi a posto deluso mentre Quattrocchi tornava al mio fianco con tranquillità per analizzare un altro vetrino.

A fine dell'ora il prof annunciò che la settimana dopo avrebbe fatto una verifica di riconoscimento di questi vetrini.

Fantastico.

A lezione finita tornammo in classe


A lezione finita tornammo in classe. Quasi sentivo l'assoluta mancanza delle giornate passate in camera a non fare nulla.

Mi avviai verso il mio banco ed estrassi il portafoglio dalla tasca esterna del mio zaino per andare dalle macchinette. Speravo di vedere Akira per potermi lamentare in santa pace con qualcuno che capiva i miei disagi.

«Che fai Tremonti? Hai davvero il coraggio di uscire dalla classe?» s'intromise la voce irritante di Faccia da Rospo.

Ma non aveva nessun altro da importunare? Amici? Parenti? Serpenti velenosi?*

Gli rifilai un'occhiata dopo essermi accorto che si frapponeva tra me e la porta.

«Levati» sibilai tra i denti. Sinceramente parlare con lui non era altro che una perdita di tempo. Speravo che prima avesse intuito che non volessi avere nulla a che fare con lui ma da che vedevo non mi sembrava che il suo neurone solitario avesse colto.

Se non si fosse levato non mi sarei fatto problemi ad asfaltarlo con la sedia a rotelle. Anzi, ero certo che sarei pure tornato indietro e ci sarei passato sopra più volte fino a ridurlo a una sottiletta.
Constatai che il mio caro compagno di banco mi aveva abbandonato. Traditore.

Bè non che l'avessi trattato così bene da farlo rimanere. Peccato, non avrei potuto usarlo come ariete per sfondare quel muro umano di Ippolito.

Dopo aver formulato quel pensiero constatai che dovevo migliorare il mio approccio con gli altri.

Per fortuna lui con una risatina (ma che cazzo c'era da ridere?) si fece da parte e subito, per cui Quattrocchi sarebbe stato inutile, e mi fiondai fuori. Mi aveva fatto perdere anche abbastanza tempo.

Mi spinsi in avanti aiutandomi con l'anello corrimano e intravidi il prof di micro laboratorio tutto preso a gustarsi...ma quello era un Buondì?

Dopo che si era comportato da vero stronzo menefreghista con me se un meteorite l'avesse colpirl...

«Ah Tremonti eccoti. Finalmente abbiamo l'occasione di parlare».

Sobbalzai sulla sedia per lo spavento trovandomi il preside a poca distanza che poi si piazzò di fronte a me.

Ma da dove era sbucato? Era piombato dal soffitto o comparso magicamente dal pavimento?

«Buongiorno» lo salutai controvoglia.

"Si levi dalle palle. Si sta mettendo tra me e il mio desiderio di mangiare qualcosa" aggiunse la mia vocina interiore e dovetti fare uno sforzo fremendo dal non ripeterle ad alta voce.

«Sono contento che sia tornato finalmente a scuola».

"Io no".

«Come sta andando?» continuò lui con fare speranzoso.

«Bene» risposi laconico.

"Di merda".

Lui non parve intuire la realtà dei fatti perché annuì con il viso che sprizzava sollievo e allegria da tutti i pori. Lo sarei stato anch'io se i prof avessero evitato di fare gli infami.

«Il tutoraggio con Vinciguerra ha dato i suoi frutti spero. Mi ha riportato i tuoi passi avanti oltre che miglioramenti incredibili. Mi sembra che alla fine vi siati trovati bene anche dopo i leggeri diverbi iniziali».

Si all'inizio, quando non avevo la benché minima intenzione di frequentare Akira e il tutoraggio forzato mi ero presentato nello studio del preside lamentandomi di tutto quello che mi veniva in testa, tutto pur di evitare quei momenti.

Avevo detto che spiegava malissimo, quando un realtà era meglio di quasi tutti i miei prof.

Avevo detto che scriveva un modo incomprensibile quando era più che evidente che fosse il contrario.

Avevo affermato più cattiverie in quel momento che cellule in un corpo umano, ma alla fine il preside con un sorriso bonario, che in quel momento mi aveva fatto incazzare di brutto, aveva deciso di farmi proseguire.

E sinceramente si era dimostrata tutt'altro che una cattiva idea.

Akira era, si può dire, diventato una presenza fondamentale nella mia vita.

«Si é servito molto. I prof hanno pensato bene di testarlo subito».

"Tiè ben vi sta maledette sanguisughe" pensai con intima soddisfazione. 

Lui agrottó le sopracciglia.

«Avevo espressamente detto di non interrogarti il giorno del tuo rientro».

A quelle parole cercai di soffocare una risata. Ma davvero pensava che non si sarebbero risparmiati dopo il tanto bene che mi volevano?

«Me la sono cavata» tagliai corto cercando di fargli intuire che avevo altro da fare che prendere thè con i biscotti immaginari con lui.

Come volevasi dimostrare non capí l'antifona e cominciò a parlarmi di altro. Incrociai le braccia al petto per cercare di mandargli i segnali del mio interesse zero per quello che diceva ma lui continuò e mi avrebbe trattenuto se non fosse che era arrivata la prof di italiano.

Era stato talmente logoroico che mi aveva mandato il cervello in tilt e non ero riuscito a riferirgli del problema con i microscopi in laboratorio.

E non ero ancora riuscito a vedere Akira.

Merda! Ma quando sarebbe finito quello schifo di giornata?
 

*Cit presa dall'era glaciale 😂😂😂😂
 

Angolino autrice:

Buonsalve 😍
Eccomi con la parte 3 e ultima di questo capitolo 11 kilometrico 🤗😂
Spero vi sia piaciuto e mi scuso per il ritardo nel postare :3
Nel prossimo faremo la conoscenza di tre nuovi personaggi 🙈 chissà come prenderà Luca di questa loro presenza 😂😂😂
Ringrazio tutti voi che seguite la storia 😍💞

A presto!
FreDrachen

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12


Arrivai alla pausa pranzo completamente esaurito e ancora ad aspettarmi avrei trovato altre tre ore. Sparatemi.

Fissavo inebetito di fronte a me, le mani che reggevano a mezz'aria il pezzo di focaccia che sarebbe stato il mio pranzo e che mia madre era andata a comprarmi mentre stavo facendo colazione. Incredibile ma vero, a volte si ricordava della mia presenza.

«Luca. Terra chiama Luca. Ci sei?»

La voce di Akira giunse alle mie orecchie di colpo e mi riportò alla realtà.

«Eh?» feci, senza dubbio con la tipica faccia da pesce lesso.

Akira mi stava osservando e dal suo viso dedussi che era da un po' che cercava di farmi tornare con i piedi per terra. Per fortuna quella piaga della sua fidanzata era assente e per questo avevamo il tavolo tutto per noi. Se avessi dovuto subire anche la tortura della sua compagnia mi sarei dato alla vita da eremita, anche se la paga non era un granché.

«Volevo chiederti com'è andata questa mattina. Non siamo ancora riusciti a parlare» volle sapere.

"Una merda. Quasi quasi mi rintano di nuovo a casa e mi faccio dare lezioni sa te" avrei tanto voluto rispondergli se non fosse che: 1. non essendo un professore ufficiale anche se mi avesse insegnato tutto non l'avrebbero considerato e avrei perso l'anno. 2. Non pensavo che Akira avesse questa gran voglia di tornare a farmi da tutor. 3. Non volevo dare ulteriori motivazioni alle persone di parlarmi dietro. Per questo avrei stretto i denti e sarri andato avanti dritto per la mia strada e avrei finito l'anno. Il problema sarebbe stato sopravvivere fino al termine delle lezioni e della maturità.

Mi accorsi di non aver risposto ad Akira che ancora attendeva paziente che gli rispondessi.

«Normale» minimizzai con una scrollata di spalle.

Lui innarcò un sopracciglio. «Normale non è proprio una risposta soddisfacente» replicò lui con un sorriso divertito.

«E che ti devo dire? Quelle piaghe dei professori mi hanno interrogato, abbandonato a me stesso anche se non per colpa mia. Insomma in verità é stata una vera e propria merda. Però ho preso un otto e un nove» dissi quasi tutto d'un fiato e trovai Akira a fissarmi abbastanza confuso.

Per questo feci un breve ripasso su quello che mi era capitato quella mattina oltre che il mio faccia a faccia con Faccia da Rospo.

«Che stronzo» se ne uscì infine Akira tanto che lo fissai con tanto d'occhioni.

Akira che diceva una parolaccia? Non gliene avevo mai sentite dire prima d'ora. Che fosse il segnale dell'imminente arrivo dell'apocalisse?

Dovette intuire i miei pensieri perché lui fece spallucce. «Che posso farci se é la realtà?»

«Non mi aspettavo che il mio sensei Cinese perfettino si abbassasse a certe espressioni» lo stuzzicai accompagnando le mie parole con un sorrisetto furbo prima di addentare nuovamente la focaccia.

Lui mi rispose con una beffa ma si vedeva che era divertito. Poi però si fece serio e mi fissò ardentemente negli occhi.

«Era tuo amico questo Ippolito?»

Mi bloccai a metà strada con il cibo e abbassai le braccia.

«Ci conoscevamo dall'asilo. Lui era un bambino sovrappeso che era isolato da tutti, Agnese invece preferiva i giochi maschili alle solite bambole e per questo non giovava con nessuno. Ma alla fine abbiamo legato profondamente. Io, lui e Agnese eravamo diventati un trio indistruttibile. Solo che...»

«Solo che cosa?» mi sollecitó lui incuriosito.

«Il nostro equilibrio nel gruppo si é un po' incrinato quando al primo anno mi sono messo con Agnese. Ma ciò nonostante Ippolito ha continuato a essere la mia ombra». Sospirai prima di riprendere il discorso. «So che non ho un carattere semplice ma non mi sarei mai aspettato questo doppia faccia. Non da loro che speravo riuscissero ad andare oltre le apparenze e apprezzassero il vero me».

«Io lo apprezzo» se ne uscì lui a bruciapelo.

«Tu non sei normale» commentai senza filtri ma anziché insultarmi come avrebbero fatto gli altri per la mia mancanza di tatto, lui mi sorrise.

«Non ho mai detto di esserlo» fu la sua replica e a quello non seppi che rispondere. Gli ero grato di questa sua vicinanza, ed ero certo che se anche lui mi avesse voltato le spalle non sapevo come ne sarei uscito fuori. Forse senza dubbio distrutto, annientato nell'anima.
Lui cominciò a dedicarsi al pezzo di farinata che aveva di fronte, gli occhi socchiusi e con le sue ciglia sottili che gli solleticavano la pelle.

Anche io dovevo finire il mio pranzo ancora a metà ma mi ritrovai a fissarlo. In quel corpo apparentemente fragile si nascondeva un'anima forte. Anche se le parole che una volta aveva pronunciato facevano pensare ad altro. Akira era davvero un enigma, peggio dei sudoku.
Dovette avvertire il mio sguardo su di sé perché alzò il suo e allacciò le sue favolose iridi  alle mie.

«Cosa c'è?» domandò al che avvampai senza ritegno. Merda, mi aveva beccato a osservarlo senza pudore.

«Niente» replicai fin troppo frettolosamente abbassando lo sguardo, e facendo finta che il mio pranzo fosse la cosa più interessante dell'universo.
Lui dece per parlare quando una voce alla mia destra non lo distrasse.

«Akira-senpai».

Mi voltai e mi ritrovai un gruppo di tre ragazzi che urlavano ai quattro venti tutta la loro nerdaggine.

Il primo era un ragazzo dai capelli mossi castani e dalla carnagione olivastra, di corporatura abbastanza nella media. Insomma talmente normale che non mi sarei mai ricordato di lui e, di certo, l'avrei perso pure in una stanza vuota. Il secondo aveva i capelli tinti di rosso, perché era impensabile che quel colore fosse naturale, e presentava un piercing al sopracciglio ma per il resto pure lui mi sembrava abbastanza nella norma. L'ultimo, quello che mi pareva anche il più timido, aveva i capelli castano scuro un po' sul lunghetto ma sempre più corti di quelli di Akira e gli occhi castani celati dietro a un paio di occhiali dalla montatura sottile. Il loro lato nerd non si palesava tanto per il loro aspetto fisico ma per quello che indossavano. Sembravano tanti Akira con quelle maglie dalle stampe curiose in piccola parte celate da felpe invernali, sopra dei semplici jeans.

Non appena li vide Akira si aprì in un sorriso che lo rese piú bello di quello che era.

Ok, piano con i pensieri.

Cercai di ritornare in me e fulminai con lo sguardo i tre arrivati. Volevo che quell'espressione fosse unicamente per me. Forse ero un poco geloso.

Quello che aveva parlato, il tizio più anonimo, prese posto per primo a fianco ad Akira e poi si susseguirono anche gli altri, il Timido per ultimo che si piazzò di fronte a me, tenendo lo sguardo basso. Mi ricordava un tenero coniglietto soffice.

«Akira-senpai, é un tuo nuovo amico?» domandò Capelli Tinti.

Nuovo? Senti bello sarò stato anche una nuova compagnia di Akira ma senza dubbio ero molto più simpatico e interessante presente a quel tavolo, Akira escluso ovviamente.

«Si, Simone-kun. Ragazzi vi presento Luca. Luca loro sono Giacomo-kun, Simone-kun e Roberto-kun, i miei migliori amici» li presentò Akira con tono di voce abbastanza basso. Ma cos'era, un segreto di stato?

«Gli unici e soli» sembrò gongolare Capelli tinti che se non avevo capito male si chiamava Simone.

E poi kun? Avevano un cognome così strano?

Lo chiesi nella mia più completa ignoranza e vidi che Capelli Tinti stava cercando di trattenere una risatina, e da quello capí che mi sarebbe stato sul cazzo.

«Ma no, é solo un suffisso onorifico che ci ha insegnato Aki».

Ah, allora doveva essere senza dubbio un qualcosa cinese. E poi Aki? Come osava quel palese tinto a chiamare Akira con così tanta confidenza?

Va bene, anch'io volevo essere appellato in quel modo, anche se ancora non capivo il significato di tutto quello. Perchè allungarsi il nome in quel modo? Mistero.

Mi voltai verso Akira che cominciò a fissarmi, confuso dalla mia espressione.

«Chiamami Luca-chan*» dissi con tutta la determinazione possibile. Anche io volevo entrare nel suo mondo anche se ero certo che non ci avrei capito un accidenti. Lingua, cultura erano per me autentici misteri che avrei imparato a svelare per Akira, solo unicamente per lui.

Lui assunse un'espressione strana, un misto tra divertimento e compassione.

«Ehm Luca, il suffisso -chan in realtà è più per...»

«Anche loro li chiami così no? Vorrei anch'io far parte del tuo mondo» ribattei forse con troppa enfasi perché vidi agitarsi nei suoi occhi color dell'abisso tentennamento subito spiazzato da emozioni che non riuscì a decifrare.

Alla fine sorrise dolcemente, un sorriso di gran lunga più bello di quello che aveva indirizzato al trio di Nerd. Ben vi sta babbani!

«D'accordo Luca-chan».

Soddisfatto di questa piccola vittoria tornai a concentrarmi sul pranzo mentre gli altri tre cominciarono di parlare di una qualche cosa di elettronica il che mi fece dedurre che seguivano proprio quell'indirizzo. Contenti loro.

«E tu invece?» se ne uscì una delle tre voci.

Si abbassò il silenzio e alzando lo sguardo constatai che Capelli Tinti mi stava fissando un attesa, e così pure gli altri.

«Dicevi a me?»

Anonimo alzò gli occhi al cielo mentre Timido esibì un tenue sorriso.

«Hai visto l'Attacco dei giganti?»

Sbattei le palpebre con fare confuso. Ma di che cazzo stava parlando? Poi mi ricordai che uno dei duemanga che avevo maneggiato a casa di Akira aveva proprio quel titolo. Merda e chi gli diceva che per me quelle cose erano puro arabo? E poi non stavano parlando dei loro corsi di elettronica? E poi dicevano che ero io a saltare di pali in frasca in modo senza senso.

Akira mi venne in soccorso e per quello lo santificai nella mia mente.

«Luca ancora non conosce molti manga, ma conto di farlo entrare nel nostro mondo molto presto».

Se me l'avesse detto Capelli tinti gli avrei risposto con in sincero dito medio, che si sarebbe meritato, ma dato che si trattava di Akira lo avrei fatto senza dubbio, anche se diventare un nerd avrebbe in qualche modo influenzato la mia figaggine.

La prima campanella suonò proprio in quel momento e da quello intuì che avremmo avuto solo pochi minuti per tornare nelle nostre aule. Che pizza!

«Ci vediamo dopo Aki» lo salutò Capelli Tinti. Ma anche no bello mio, tornatene al tuo posto. Feci quasi per dirlo, e rischiare così di cadere nel più completo imbarazzo, quando portò lo sguardo su di me, sorridendo. «Alla prossima Luca-chan» dichiarò ridacchiando non appena ebbe finito di pronunciare il suffisso. Ma che cazzo aveva da ridere come una iena? Anche lui veniva chiamato così. Forse nella tinta non c'erano solo i coloranti e i solventi corretti.

Akira si trattenne e mi aspettó, dato che per fortuna eravamo nello stesso piano. Ci avviammo l'uno a fianco dell'altro in silenzio, ma non uno ostile e freddo. Per niente. I silenzi in compagnia di Akira erano ricchi di parole inpronunciate calde come i raggi del sole. Erano meglio quei momenti anziché quando aprivo la bocca per sparare le mie solite cazzate.

Quando giungemmo a destinazione e lui mi salutò per raggiungere la sua classe avvertì subito la mancanza della sua presenza. E il caldo avvolgente che portava con sé se n'era andata con lui.

*Luca è convinto di aver detto -kun ma ha sbagliato pronuncia e ha detto -chan



Angolino autrice:

Buonsalve :3
Scusatemi per l'enorme ritardo con cui posto ^^" Eccomi con il capitolo 12 dove facciamo conoscenza degli amici di Akira. Che idea vi siete fatti su di loro d'impatto? :3 😍

Luca è un poco geloso...ma giusto poco poco 😂🙈

Cosa ne pensate della storia fino a qui? Vi sta piacendo? Sto andando troppo lenta o veloce?
Scusatemi ma a volte mi vengono questi dubbi 🙈

Comunque ringrazio tantissimo chi sta seguendo questa storia 😍❤️

Al prossimo capitolo 😉❤️

FreDrachen

 

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Capitolo 16
*** capitolo 13 ***


Capitolo 13


Mi sdraiai sul letto sfinito.

Non mi ricordavo che la scuola fosse così massacrante.

Mi portai un braccio sopra gli occhi per riposarmi un attimo, la testa che martellava come se avessi un concerto degli Skillet racchiuso nella scatola cranica.

Nessun professore si era risparmiato a farmi capire quando adorassero la mia fantastica presenza. E anche il pomeriggio era stato peggiore dell'inferno.

Ma vaffanculo.

Tolsi il braccio e presi il cellulare. Non avevo compiti per il giorno dopo ma anziché portarmi avanti con quelli degli altri giorni, giusto per non sopperire a farli e a ridurmi all'ultimo secondo, cominciai a spulciare tra i profili social dei miei compagni e pure dei tre Nerd.

La maggior parte erano anonimi pieni di cose che sinceramente non mi facevano ne caldo ne freddo.
Quelli dei nerd erano ricchi di quei fumetti che tanto piacevano ad Akira e questo mi fece salire una certa dose di gelosia acuta. Anch'io avrei cominciato a farmi una cultura di fumetti cinesi...coreani...oh bè insomma, quello che erano.

Entrai distrattamente anche in quello di Ippolito che era pieno di foto di lui in allenamento e anche qualche scatto preso dalle partite che aveva giocato.

Tutto di quelle foto urlava con spietatezza tutto quello che avevo perso. Dovevo esserci io su quelle foto, a sorridere ai tifosi, a segnare e aggiudicare la vittoria alla squadra cin magari il goal decisivo. Ippolito era la seconda scelta che era stata selezionata se avessi rifiutato la proposta di giocare in serie A. Sinceramente parlando solo un idiota avrebbe detto di no, ma ironia della sorte era stato il destino a decidere per me.

Stronzo di un karma!

Seccato a livelli massimi passai all'account di Agnese sfruttando la menzione sotto una foto, che si perdeva tra quelle calcistiche, in cui lei avvinghiata a Ippolito aveva la lingua di quest'ultimo quasi in fondo alla gola. Sinceramente parlando mi faceva abbastanza orrore.

L'account di Agnese non era poi così tanto cambiato dalle ultime volte che l'avevo spulciato (ora che ci pensavo era da quando avevo fatto pace con Akira che non avvertivo il bisogno di spettegolare i profili altrui...almeno fino a quel giorno). Era sempre ricca di foto con lei che indossava i capi di abbigliamento più disparati ma si vedeva che li sceglieva e abinava con estrema cura. Era stata costretta dai suoi genitori a fare biotecnologie sanitarie, un verità il suo sogno era fare la stilista o la fioraia, ed ecco l'altra parte di foto che campeggiava bel profilo. Riusciva a far crescere di tutto al contrario mio che avevo provato a curare un cactus e questo, da sano e forte come un pesce, era morto stecchito in meno di due giorni. Ce ne voleva a uccidere una pianta grassa per scarsità d'acqua.

E poi scorrendo più in giù dove non avevo avuto di scendere da dopo l'incidente trovai le foto che aveva con me. A differenza di Ippolito che le aveva cancellate tutte dalla faccia della terra come se avesse avuto paura si essere collegato a me come amico, lei le aveva conservate tutte.

Dai nostri baci, le nostre uscire con amici o intime. Ecco una dove la stavo baciando alla fine di una partita disputata come amichevole con la squadra che mi avrebbe preso a giocare. Ed eccone un'altra ai baracconi dopo che le avevo vinto un peluche di un orso gigante (a farlo stare sul bus senza molestare la gente era stata una tragedia greca).

Avvertì che inconsapevolmente gli occhi cominciavano a inumidirsi. Maledetti ricordi e maledetta Agnese che sembrava illudermi che tenesse ancora a me malgrado il suo comportamento.

E poi la vidi. Era la foto fatta a una foto cartacea, dato che quando era stata scattata venivano fatte ancora con i rullini (sembrava di essere nell'era preistorica), in cui c'eravamo io, Agnese e Ippolito all'ultimo anno di asilo. Sorridevamo soddisfatti all'obiettivo come se fossimo dei grandi avventurieri tornati vittoriosi dal loro viaggio. Ovviamente com'era quasi solito avevo dei cerotti anche in faccia, viste le mie cadute dagli alberi, Agnese aveva i pantaloni visibilmente macchiati di erba e fango mentre Ippolito, l'unico timido che sembrava voler sfuggire alla immortalazione del momento, sembrava quello messo meglio.

Eravamo un trio indivisibile, dove c'era uno c'erano subito gli altri due a dare man forte o a seguirti in una nuova avventura.

Cazzo maledette lacrime.

Perché mi tornavano in mente quei ricordi? Perché non dimenticavo o mettevo la parola fine a quei momenti passati insieme?

Non volevo capire che era tutto finito?

E mentre i sentimenti mi possedevano mi tornò alla mente il giorno che li incontrai per la prima volta.

Mi avevano cambiato di scuola all'ultimo anno di scuola materna. Mia madre mi aveva portato quasi trascinato di peso in quella nuova, un edificio enorme di color panna, ben diverso da quello che avevo frequentato fino alla settimana prima. Avevo avuto dei problemi con la maestra della vecchia scuola che mi metteva in punizione più volte al giorno per colpa di un altro bambino, il nipote di una sua vecchia collega. Fatto sta che gli faceva fare tutto quello che voleva e lui aveva deciso di prendermi di mira. Mi escludeva dai giochi con gli altri bambini e per di più se oponevo una certa resistenza andava a piagnucolare dalla maestra che era subito bella che pronta a mettermi in punizione seduto a uno dei tanti tavolini che avevamo. E per me, che era una tortura psicologica stare fermo, era il colmo. Così all'inizio dell'anno e dopo una sessione infernale da parte di mia madre a convincermi a tornare all'asilo contro le mie giustificate lamentele, decise di cambiarmi e a iscrivermi in quella che, vista dall'esterno, mi faceva salire una certa ansia da quanto era imponente e spaziosa, il che era dovuto al fatto che vi erano anche le elementari.

Stranamente timoroso, non mi scandalizzavo neanche di fronte a un film splatter con budella volanti, e avevo poco più di cinque anni, mi feci guidare da mia madre all'entrata e poi all'interno, dove constatai regnavano delle pareti bianche tempestate di innumerevoli disegni fatti da altri bambini. Di fronte all'entrata si apriva un'altra porta e sull'uscio vidi una donna dai capelli biondi dai ricci vaporosi che le incorniciavano un viso tondo con disegnato un sorriso schietto che me la rese subito simpatica.

Non appena fummo a pochi passi si fece avanti tendendo un poco le mani.

«Tu devi essere Luca. Benvenuto».

Aveva uno strano accento per nulla fastidioso, e scoprì, dopo anni, che era originaria di Roma.

Mia madre mi poggiò una mano dietro la schiena e mi invitò a fare un passo avanti verso quella che presumibilmente sarebbe diventata la mia maestra. Non opposi resistenza ma tenni bene lo sguardo puntato in basso mentre annuì.

La maestra si avvicinò e istintivamente feci un passo indietro. Non davo subito confidenza agli estranei, sarebbe dovuto passare ancora molto tempo prima di lasciarmi andare e a fidarmi di lei. Il primo impatto era stato positivo, ma chi poteva dirlo che sarebbe continuato così? Nella vecchia scuola avevo sbagliato a fidarmi della mia vecchia maestra e di certo non sarei finito nello stesso sbaglio.

Lei notò subito il mio disagio, era da dire che era una persona molto istintiva, e per questo si fermò osservandomi con dolcezza, molto simile ai primi sguardi che aveva avuto quella donna all'inizio.

«Che ne dici Luca? Andiamo in classe così potrai conoscere i tuoi nuovi compagni?»

Da solo con lei? Ma che credeva? Che fossi matto? Assolutamente no.

Indietreggiai fino a portarmi dietro le gambe di mia madre, afferrandole manco fossi una piovra.

Mia madre riuscì a liberarsi gentilmente dalla mia presa e si avvicinò alla maestra, cominciando a parlarle a bassa voce. Mano a mano che mia madre andava avanti con il discorso più il volto della maestra si rabbuiava e ogni tanto mi regalava strane occhiate tristi.

Alle ultime parole annuì e mia madre tornò da me, chinandosi alla mia altezza.

«Adesso andiamo in classe Luca, vedrai che qui starai bene».

Se lo diceva la mamma le credevo. Le sorrisi prendendole la mano e mi lasciai condurre lungo un lungo corridoi su cui si aprivano porte tinte di diversi colori. Ci fermammo davanti a quella blu, posizionata opposta rispetto a quella che avevamo varcato poco prima.

Dall'interno provenivano schiamazzi di altri bambini che parevano felici, e ne ebbi la conferma quando la maestra mi condusse all'interno.

La stanza era abbastanza spaziosa e molto luminosa piena di tavolini in plastica verdi e seggioline blu.

Dentro c'era anche un'altra donna più anziana di quella che mi aveva condotto lì, con i capelli grigi e un intrico di rughe a segnarle il volto. Sinceramente quell'aura severa poco si addiceva a una maestra di scuola materna. Mi faceva pensare alla strega cattiva delle favole.

«È il nuovo arrivato suppongo». Anche la voce pareva quasi seccata.

L'altra annuì solare e mi poggiò una mano dietro la schiena per avvicinarmi.
La donna spaventosa mi osservò con sguardo critico.

Mamma diceva che per fare più bella figura su doveva sorridere e dimostrarsi cordiali. Per questo sfoderai il mio sorriso con già un dente mancante, che avevo perso cascando da un albero su cui mi ero arrampicato, e anche un altro era leggermente scheggiato.

«Ma tu guardalo. Sembra che abbia fatto a botte con qualcuno» dichiarò fissandomi malissimo.

Mi sa tanto che dovevo dire a mia madre che la tecnica del sorriso era del tutto da rivedere.

Rimasi con questo sorriso ebete stampato in faccia e la sentì dire che si era beccata uno studente ritardato. Non avevo la più pallida idea di quello che stesse dicendo. Nel mentre passavo il peso da un piede all'altro, stare fermo mi faceva soffrire tantissimo.

«La smetti di muoverti in quel modo? Mi stai facendo venire il mal di testa. Ah ti prego Matilde, lo affido a te» disse la donna acida prima di allontanarsi per andare a sbraitare contro un gruppo di bambini che si stavano lanciando le macchinine contro.

La maestra Matilde sospirò stancamente e la osservò per un po' con espressione contrariata prima di concentrandosi su di me sorridendo caldamente.

«Vieni Luca, ti presento ai tuoi compagni».

E così mi fece conoscere da ogni gruppetto che si era formato per il momento giochi. Alcuni mi fissavano curiosi altri seccati, e capì subito che questi ultimi dovevano essere i bambini prepotenti che volevano avere sotto il loro controllo gli altri.

E infine li vidi. Due bambini, una femmina e un maschio, che stavano seduti a due tavoli separati e completamente soli. Il maschio aveva i capelli rossi e gli occhi di un verde strano ed era un po' sovrappeso. In quel momento stava mangiando una merendina farcita di cioccolato e crema e per questo si stava beccando la sgridata della Bisbetica che stava cercando di dissuaderlo a fare a meno di mangiarla. Questo però non sembrava ascoltarla e finì con tranquillità la sua merenda.

«Lui è Ippolito» me lo presentò la maestra Matilde, al che lo fissai con più attenzione. Aveva il contorno della bocca sporco di cioccolato così pure le mani che si stava leccando. Alla Bisbetica stava venendo un mezzo infarto a sbraitargli contro.

Sentì le voci degli altri bambini che mormoravano commenti nei confronti di Ippolito. La parola più pronunciata era Ciccione oppure si sfociava a Palla di lardo e ancora Moby Dick.

Gli altri erano tutti degli stupidi.

Scostai l'attenzione da Ippolito mentre fu scortato dalla maestra in bagno per darsi una ripulita e mi focalizzai sulla bambina.

Aveva i capelli neri raccolti in due treccine morbide e gli occhi marroni nascosti dietro a un paio di occhiali dalle lenti spesse. Era vestita con una maglia con Pikachu e i pantaloni di tuta blu. Il suo sguardo era concentrato su dei soldatini sparsi sul tavolo. Scorsi i classici verdi vestiti da militari e anche indiani e cowboy.

Era assolta nei suoi pensieri mentre creava le basi per i vari soldatini.

La maestra Matilde mi fece avvicinare al tavolino e solo quando fummo a pochissima distanza la bambina sussultò per la sorpresa e alzò lo sguardo verso di noi.

«Agnese, vorrei presentarti Luca. È un nuovo compagno di classe. Volevo affiancartelo in modo che tu possa aiutarlo a integrarsi».

Farsi aiutare da una che veniva trattata come un'eremita non era proprio il massimo e lo stesso doveva pensarlo Agnese perché stava fissando la maestra con uno sguardo eloquente.

Ma per lei non ci furono scuse. Mi lasciò in compagnia di quella bambina per andare a risolvere una scaramuccia tra altri due bambini per un giocattolo.

«Ti piacciono i soldatini?» mi chiese a bruciapelo  la vocina sottile di Agnese quasi timorosa. Pensava sul serio che non mi piacessero? Davvero esisteva gente cosi? Di tutta risposta mi ritrovai ad annuire con vigore.

Lei mi fece un ampio sorriso, le mancava già un dentino. Spostò la seggiolina su cui era seduta, anche se non era necessario, e mi invitò a sedermi su quella al suo fianco, proprio di fronte al gruppetto di indiani.
Seguì il suo consiglio e cominciai ad aiutarla a mettere in piedi i vari soldatini.

«Io farò i soldati buoni, pronti a difendere le persone» dichiarò lei appropriandosi di tutti i soldatini verdi.

La mia scelta allora doveva ricadere o sui cowboy oppure sugli indiani. Feci per prendere i cowboy quando Agnese mi bloccò.

«Vuoi fare i cattivi?»

Sbattei un po'  le palpebre confuso.

«Non lo sono gli indiani?» domandai ingenuamente al che lei alzò gli occhi al cielo.

«Non lo sai? La mia mamma mi ha detto che i cowboy uccidevano gli indiani per rubare la loro terra e le loro case».

«Ah» dissi semplicemente, non riuscendo a capire molto. Erano dei pezzi di plastica vestito in modo diverso, ma rimanevano sempre plastica. Non volendo litigare con la mia nuova, e fino a quel momento  unica, amica presi gli indiani e cominciammo a giocare.

Avevo sempre pensato che le bambine fossero per la maggior parte delle frignone che passavano il tempo a pettinare le bambole o a fare giochi noiosi come preparare un finto cibo o peggio utilizzare erba e fango (bleah!).  Agnese aveva completamente scardinato questa mia idea così altamente stereotipata. Simulammo una guerra tra i nostri soldatini. Lei vinse ma per poco, ovviamente l'avevo fatta vincere perché era una bambina. Mamma diceva sempre che era un gesto cavalleresco e più che giusto.

Lei dovette essersene accorta perché mi fissò malissimo.

«Gioca bene oppure non potremo essere amici».

Quella bambina aveva il suo perché alla fine.

Riassemblammo i nostri eserciti e stavolta non mi risparmiai.

Batterla non fu difficile però non mi ero mai divertito prima di allora. Forse perché i miei amici e compagni dell'altra scuola erano dei veri pappamolle, quelli a cui se nominavi soldati o pistole giocattolo inorridivano manco avessi detto che era apparso un mostro abominevole.

Bah!

Invece con Agnese riuscivo a liberarmi da queste limitazioni, ero certo che se le avessi proposto di giocare con le pistoline mi avrebbe senza dubbio risposto a favore.

«Giochiamo con le macchinine?» propose Agnese, mettendo da parte i soldatini, dopo la sua sonora sconfitta, mi sa tanto che mal le sopportava, e andò a recuperare qualche modellino di macchina e qualche camioncino.

In quel momento rientrarono Ippolito e l'altra maestra di ritorno dal bagno (ma dov'era, dall'altro capo del mondo?). Ippolito aveva il viso pulito ma la stessa cosa non si poteva dire del grembiule che pareva aver combattuto un'epica battaglia con  il cioccolato. Sua madre ne sarebbe stata senz'altro felice.

La maestra più anziana, che scoprì dopo si chiamava Tiziana, mormorò qualcosa a bassa voce alla maestra Matilde, un qualcosa con cui non andava d'accordo visto lo sguardo adombrato.

Ippolito era fermo lì di fianco, abbastanza però lontano dall'ascoltare le voci delle due donne.

Lo fissai con pura e semplice ingenuità, cercando di capire il motivo per cui anche lui veniva trattato come un appestato. Agnese sicuramente per via  dei suoi gusti nei giochi fin troppo sopraffini per la gente comune, ma Ippolito?

A prima vista non sembrava questo granché, ma forse conoscendolo avrebbe mostrato un qualcosa in più che a prima vista sfuggiva.

La conversazione tra le due maestre fu in nulla di fatto perché la maestra Tiziana, quella che mi intimidiva in po' di più, alzò gli occhi al cielo come se anziché parlare con una collega lo stesse facendo con il muro e volse lo sguardo verso il nostro tavolo.

I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio e mi incuté ancora più timore. Agnese la ignorò palesemente continuando a mettere a posto le macchinine.

«Sempre a giocare con questi giochi da maschio Agnese? Perché non vai a giocare con le bambole con le tue compagne?»

Agnese non rispose e continuò a fare quello che faceva.

«Mi stai ascoltando o no Agnese? Solo perché sei raccomandata con la mia collega non significa che puoi fare quello che ti pare».

Aspe', quindi Agnese era strettamente correlata con la maestra Matilde? E in che modo? Non è che mi sarei ritrovato in una situazione simile a quella dell'altra scuola?

La maestra Tiziana si avvicinò al nostro tavolo e di tutta risposta strappò dalla mano di Agnese la macchinina.

«Va a giocare con giochi più giusti, Agnese» disse con voce repentina.

Ma chi si credeva di essere a decidere con cosa poteva giocare un bambino oppure no?

Se a un bambino piacevano le bambole che ci giocasse. Se a una bambina piacevano più i soldatini e macchinine chi poteva vietarglielo? Non di certo quella donna che pareva un gufo ammuffito.

Prima che potessi intervenire e recuperare la macchinina entrò in gioco la maestra Matilde.

«Non é il caso di...» cercò di dire la l'altra maestra la interruppe bruscamente.

«Solo perché é tua nipote non significa che possa fare cose sbagliate».

Nipote? Il primo pensiero fu che la maestra Matilde fosse sua nonna, una di circa ventisette anni. Ma subito dopo mi sentì un completo idiota.

In effetti si assomigliavano...meno di zero!

Agnese sembrava più simile a Mercoledì della famiglia Adams (ed era un complimento), mentre la maestra aveva i capelli biondi riccioli e l'aria solare come se il mondo fosse tutto unicorni e  arcobaleni. Praticamente erano come il giorno e la notte. Ma non dicevano che i nipoti prendevano principalmente dagli zii? Chi l'aveva detto doveva rivedere non poco la sua teoria.

«Sbagliate dici? Sono bambini. Non c'è nulla di tutto ciò nei loro giochi».

La maestra Tiziana la fissò come se avesse detto chissà che eresia.

«Bah! É completamente inutile discutere ancora con te. Tanto mi sembra di parlare con il muro».

E si allontanò liberandoci finalmente dalla sua presenza.

La maestra Matilde sospirò rassegnata, come se avesse avuto a che fare con un caso umano irrecuperabile. In effetti il pensiero bigotta e all'antica dell'altra era senza dubbio difficile da sdradicare dalla sua piccola mente ristretta.

Nella mia iperattività di bambino dimenticai quasi subito quello scambio di battute, accorgendomi solo in quell'istante che la maestra non aveva restituito la macchinina ad Agnese.

Mi alzai da posto e andai dietro alla maestra Tiziana intenta a gettare con malagrazia la macchinina tra altri giocattoli.

Mi ci tuffai contro e la recuperai al volo. Sicuramente se non fossi intervenuto si sarebbe potuto rompere uno specchietto. Ma nella mia impresa eroica andai a urtare contro le gambe della maestra anche mi fissò con fare alterato.

Ma quanto era irascibile? Si doveva proprio prendere una camomilla.

«Ma si può sapere che cosa ti é preso?» mi sgridò al che sussultai. Alla maestra Tiziana si frappose la figura della maestra dell'altro asilo, e per questo cominciai a tremare.

Non volevo passare di nuovo la maggior parte dei momenti in castigo senza giocare con nessuno, non ora che avevo trovato una bambina che aveva i miei stessi gusti.

«Ridammi quella macchinina».

Mi resi conto solo in quel momento che stringevo il gioco cin tale forza da farmi venire le nocche bianche. D'istinto strinsi ancora di più la presa e lei non la parve prendere bene. Al contrario, mi fissò con sguardo ancora più minaccioso.

«Hai sentito quello che ho detto oppure hai problemi di udito?»

Si vedeva che aveva davvero scarso tatto ad avere a che fare con i bambini. Per fortuna scoprì, anni dopo, che aveva smesso di fare quel lavoro per dedicarsi a uno d'ufficio (mi dispiaceva non poco per i suoi colleghi) per poi finire agli arresti domiciliari per omicidio stradale.

Ma in quel momento ero io e tutti gli altri che dovevamo avere a che fare con quell'arpia assatanata.

«No» mormorai cercando di raccogliere tutto il mio coraggio. Non era giusto che privasse Agnese della macchina che aveva scelto.

Gli occhi della maestra dardeggiavano di rabbia repressa, acutita dalla mia debole opposizione. Fece per replicare quando fissò dietro di me esattamente dove stava la maestra Matilde.

Non mi voltai ma intuì dalla reazione dell'altra che la Fata bionda, così cominciai a chiamare la maestra Matilde, le aveva rifilato chissà che occhiata perché questa girò i tacchi lasciandomi in piedi come un fesso con ancora la macchinina che subito mi affrettai a consegnare ad Agnese che mi aveva aspettato tranquillamente a quello che sarebbe diventato il nostro tavolo.

Ripresi posto e fu allora che notai che Ippolito ci stava osservando intensamente.

Non ci pensai due volte a dire: «Perché non vieni a giocare con noi?»

Lui aveva sorriso timidamente e si era avvicinato con timore quasi avesse paura che lo beffeggiassimo dicendogli che era tutto uno scherzo.

Tuttavia si sciolse un po' non appena lo invitai a scegliersi una macchinina.

Da quel giorno nacque quella che credevamo sarebbe stata un'amicizia che sarebbe durata fino al giorno dopo l'eternità.

Inutile dire che non eravamo altro che degli ingenui.

Sopraffatto dai ricordi, dai bei momenti che avevamo passato insieme gettai il telefono di lato e quasi cadde dal letto.
Mi portai il braccio davanti alla bocca per soffocare ogni suono che avrebbe emesso la mia bocca.

Mio padre diceva che un vero uomo non doveva dimostrare alcuna debolezza, men che meno doveva piangere.

Ma in quel momento, solo con i miei ricordi e lontano da occhi indiscreti, mi lasciai andare a un debole pianto.
 

Angolo autrice:

Hola :D
Eccoci al capitolo 13 :3 un capitolo tranquillo ma che ho avvertito il bisogno di scrivere 😍
Spero vi sia piaciuto ❤️

Ringrazio tutti voi che seguite la storia 😍

A presto con il capitolo 14 😎
FreDrachen

 

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Capitolo 17
*** capitolo 14 parte 1 ***


Capitolo 14 parte 1



Se avessi scoperto l'inghippo penso che non ci sarei andato.

Appena sveglio il giorno dopo avevo trovato un messaggio di Akira che mi chiedeva se mi andava di vederci prima del suono della campanella per fare colazione assieme.

Inutile dire che mi aveva fatto così tanto piacere tanto che mi ero dovuto trattenere dall'esultare a voce troppo alta.

Mi ero preparato in fretta, non era proprio una passeggiata vestirmi velocemente nelle mie condizioni, tanto da lasciare esterefatta mia madre che ancora stava in cucina a fare colazione in pigiama, mio padre invece era ancora a letto dato che avrebbe comicniato a lavorare molto più tardi.

Per fortuna nessuno si era reso conto del mio momento di cedimento della sera prima, dato che prima che mia madre mi chiamasse per cena ero andato in bagno a sciacquarmi la faccia e ad attendere che gli occhi non fossero più rossi e lucidi.

La cena era stata si può dire più fredda del circolo polare artico, tanto che mentalmente mi chiesi se avremmo avuto l'invasione in casa di orsi polari e foche alla ricerca di un loro nuovo habitat.

Ero andato a letto abbastanza presto per i miei standard, prima dell'incidente mi vedevo al pc diverse partite di calcio per poter assimilare le tecniche di gioco di grandi giocatori fino a tardi, mentre ora avvertivo il sonno accumulato dalle ore che avevo perso per svegliarmi per andare a scuola.

Ma che problemi c'erano se avessimo cominciato più tardi? Io di certo sarei stato l'ultimo a lamentarmi.

Ma anche se ero andato a letto prima delle suore di clausura al risveglio ero lo stesso messo peggio di uno zombie.
Inutile dire che il messaggio da parte di Akira mi aveva risollevato la giornata.

Non appena l'ebbi accennato a mamma, lei si aprì in un sorriso. Sinceramente non capivo il motivo di tanta allegria da parte sua. Non era lei che avrebbe passato del tempo con Akira.

Sempre con quel mega sorriso stampato in faccia non si era lamentata quando le avevo chiesto di accompagnarmi, cosa che in parte capivo, perchè o mi accompagnava lei oppure avrei speso soldi per un taxi. Il teletrasporto purtorppo non l'avevano ancora inventato, per sfortuna.

Dopo il tragitto in macchina trovai Akira ad aspettarmi di fronte all'ingresso del bar, lo zaino in spalla e l'espressione persa in chissà che pensieri che tornò subito alla realtà non appena mi vide.

«Ohayō Luca-chan» disse aprendosi in un sorriso che mi lasciò un attimo bloccato al mio posto. Era davvero sempre stato così bello?

Ok, questi pensieri di primo mattino no eh!

Cercai di affrettarmi a sedermi sulla sedia a rotelle che mia madre, con l'aiuto di Akira, aveva aperto, a disagio per via di questi pensieri.

Non significavano niente, forse era quello che ogni amico avrebbe potuto pensare nei confronti di un altro a cui si é profondamente affezionato. In fondo non era da dimenticarsi che Akira era il primo vero amico che avevo. Ippolito forse lo sarebbe stato se non fosse che avevo scoperto questo suo lato borioso che aveva tenuto celato e che l'aveva trasformato ai miei occhi in un autentico estraneo.

"Si certo, sono proprio tipici pensieri da amico a amico" si inserì una vocina molesta.

"Perché no?"

"Ma ti senti quando parli? Davvero?"

"É difficile sentire quando non si parla effettivamente"

"Questi sono dettagli. Davvero credi che si facciano questo tipo di pensieri?"

"Ah no? E tu che ne sai, voce frutto della mia immaginazione?"

"Bah, che ci parlo a fare con te?"

"Come pensi di parlare con me se nemmeno esist..."

«Luca-chan» mi chiamò la voce di Akira, al che sussultai e mi accorsi  che sia mia madre che Akira mi stavano osservando.

«Tutto a posto? Stavi fissando un punto indefinito di fronte a te con sguardo assente. Qualcosa non va?»

D'istinto arrossì senza ritegno, facensomi sprofondare nell'imbarazzo completo.

Oddio, ma che cazzo di reazione era? Dovevo subito correre ai ripari, altrimenti senza dubbio avrebbe capito che qualcosa davvero era successa. E se avesse scoperto i miei reali pensieri?

«Ah...ehm...ecco io...» cominciai a dire.

"Forza Luca  pensa! Cerca una scusa plausibile, una che non ti faccia fare la figura del completo cretino e che tenga i tuoi pensieri al sicuro".

«Stavo...stavo fissando l'edera» dichiarai non appena i miei occhi si posarono sul muro tapezzato di questa pianta rampicante.

Bella mossa Luca. Perchè cazzo dovevi metterti a guardare  l'edera?

Sia Akira che mia madre mi fissarono perplessi e quasi riuscì a intravvedere i loro pensieri. Di certo pensavano che ero matto da legare. Fantastico. Ed era solo martedì.

Per fortuna la situazione si sciolse permettendomi di tornare a respirare con regolarità (ma quando cazzo avevo smesso?), quando entrambi non cercarono di approfondire quello che ai loro occhi doveva esser stato un attimo di follia. Le loro ipotesi potevano essere infinite, da tutte le botte che avevo preso cascando dagli alberi da piccolo a quella piú recente ossia l'incidente.

Non ebbi ulteriore tempo a perdermi nei miei castelli mentali, prima ne facevo ma ora sembrava che ne fossi diventato il re, che Akira salutò mia madre con tutto il rispetto possibile (a volte mi chiedevo se fosse veramente del tutto umano, non poteva essere così perfetto) seguito da uno mio frettoloso, e dopo che lei si fu allontanata in macchina lo seguì all'interno del bar. Non era tanto grande e oltre che il bancone lo spazio era maggiormente occupato da tavolini di forma rotonda o rettangolare, tutti coperti da morbide tovaglie color crema che richiamano il colore anche delle sedie imbottite. Sembrava avere una forma a L ed era per questo che appena entrati non si riusciva a vedere il fondo del locale.

Akira si avvicinò alla commessa con cui scambiò qualche parola veloce prima che questa gli porgesse un sacchetto bianco e un bicchiere contenete caffè  e dalle sue mani passarono alle mie.

«Sono riuscito a procurarti l'ultima croissant al cioccolato e già che c'ero ti ho già datto fare il caffè. Ecco...insomma spero che ti possano piacere» disse, le goti gli si tinsero debomente di rosso.

Le mie mani strinsero involontariamente un poco la presa sui due contenitori. Nessuno aveva mai pensato a un gesto simile in tutta la mia vita e seppur semplice riuscì a commuovermi. Akira era una sorpresa dietro l'altra.

«Ti ringrazio Aki» risposi, mordendomi il labbro.

Ci fissamo e fu come se tra noi si fosse creato un legame invisibile fatto tutto si molecole inpazzite in sintonia con i nostri respiri e battiti. La tempesta si stava arrendendo all'abisso. Non avevo idea di cosa stesse succedendo. Il mio corpo sembrava non voler sentire nessuno a parte quell'ancesteale connessione con Akira. Ma la vera domanda era volevo altro? Non avevo risposta e constatai che in difficoltà si trovava anche Akira.

«Ehi voi due, ci raggiungete oppure volete rimanere a fare i pali per tutta la mattinata?»

Quella voce.

Vidi il proprietario della voce alias Capelli Tinti comparire dall'angolo della L facendomi capire il motivo per cui non l'avevo notato. Se c'era lui molto probabilmente c'erano anche gli altri.

Ciò che si era creato tra me e Akira ormai si era infranto per colpa di quell'essere.

Maledizione ma che cazzo ci facevano qui pure loro? Pensavo fosse una colazione a due. Se l'avessi saputo prima...avrei architettato un modo per liberarmi del magnifico trio di Nerd che se ne stavano sempre in mezzo ai piedi.
Ah bè ormai ero qui e non avrei dato loro alcuna soddisfazione di vedermi levare le tende. Dovevano capire che non avrei rinunciato alla presenza di Akira per colpa della loro presenza ai libelli massimi di nerdaggine. Cazzo, mi sentivo come un lupo alpha che mancava il territorio.

Akira lo raggiunse lasciandomi il tempo però di stargli vicino a pochi passi, e come avevo dedotto c'erano anche gli altri due accampati attorno a un tavolo rettangolare, poggiati sopra la loro colazione e un blocco da disegno a spirale.

Timido prontamente tolse una sedia per potermi permettere di posizionarmi al tavolo e per questo lo ringraziai con un breve cenno del capo, mentre Akira prese posto accanto a Capelli Tinti che mi scoccò un sorrisetto.

«Buongiorno Luca-chan. Era ora che arrivassi».

Borbottai a mezza voce un "Vaffanculo" prima di dedicarmi alla colazione. Sbaffai in pochi secondi la croissant e infine mi dedicai alla degustazione del caffè, abbastanza dolce come mi piaceva. Ma come faceva Akira a saperlo? Non gliel'avevo mai detto. Forse era meglio non sapere.

«Stavami discutendo di una cosa prima che arrivassi» continuò Capelli Tinti incurante del mio malumore dovuto alla sua presenza. Se ne era consapevole lo stava palesemente ignorando e questo me lo fece stare ancora più sul cazzo.

«Ci stavamo chiedendo il perché non ti sei comprato delle protesi».

Quasi mi strozzai con il caffè che stavo finendo di bere.

«Cosa?» domandai abbastanza perplesso. Insomma come potevo essere oggetto dei loro discorsi, ma soprattutto perché non si facevano i cazzi loro? A parte Akira gli altri dovevano continuare a non pensare alla mia presenza.

«Insomma esistono diversi modelli di protesi che ti permetterebbero di muoverti con più facilità che con quella sedia» continuò Capelli Tinti prima di addentare un pezzo di croissant.

Incrociai le braccia al petto e mi appoggiai allo schiebale.

«Ma saranno cazzi miei?» borbottai a mezza voce assottigliando gli occhi.

«Simo-kun, non penso sia il caso di...» cercò di intervenire Akira ma lui lo interruppe.

«É una domanda lecita. Insomma, uno che voleva diventare un calciatore di serie A, uno che é abituato a muoversi che si arrende a una vita statica, scusaremi se mi sono saliti un bel po' di dubbi» si difese Capelli Tinti alzando le braccia.

Strinsi la mano sotto il tavolo e tenni lo sguardo basso, assottigliando le labbra. Lui non poteva assolutamente capire cone mi sentivo. Non poteva capire fino in fondo che per me quella era una limitazione che prima o poi mi avrebbe fatto uscire di testa. Ma non potevo fare altrimenti.

Ci avevo provato, a neppure un giorno dalle mie dimissioni dall'ospedale.  Avevo chiamato quello che mi pareva uno studio in cui venivano progettate su misura le protesi. Era stato semplice richiedere un appuntamento ma altrettanto non si sarebbe detto per il trasporto fino a quel luogo, ma per fortuna esistevano taxi.

Il giorno dell'appuntamento mi ero diretto lì e dopo aver preso tutte le misurazioni ero tornato circa una settimana dopo, erano stati piuttosto veloci, a ritirare le protesi. Erano fatte principalmente in plastica con altri componenti di metalli e materiali che non sapevo riconoscere.

Le avevo portate a casa, cullandole manco fossere il sacro Graal, per provare a mettermele. L'avevo già fatto per vedere se andavano bene ma non era la stessa cosa. Dopo che me le sarei messe sarei forse tornato più o meno a com'ero prima. Una parte di me sarebbe stata meccanica, mi sentivo quasi cone Frankenstein, ma per lo meno avrei potuto tornare a camminare, e forse addirittura ritornare a giocare a calcio.

Mi ero diretto a casa e seduto sul letto avevo estratto le protesi dalla custodia in cui erano adagiate. Ma, per mia sfortuna, poco prima che potessi farlo era entrato mio padre nella stanza, in mano la carta di credito che avevo usato per pagare anticipatamente le protesi.

Era successo tutto in una manciata di secondi. Un attimo prima avevo le protesi, un attimo dopo mio padre le teneva in mano, quella libera dalla carta di credito, e le reggeva manco fossero dei topi morti.

«Cosa significano queste?» mi aveva domandato con voce gelida tanto da mettermi i brividi.

«Sono protesi per camminare. A cosa pensi che servano?» gli avevo domandato sfacciatamente al che lui si era irrigidito.

«Non usare questo tono con me. Pensi sul serio di meritarti di tornare a camminare, di tornare a essere quasi umano?»

Quelle parole avevano un che di spregevole e cattivo.

«Sono lo stesso di prima papà. Non c'è nulla di diverso in me».

«Tu credi? Sei un uomo a metà, debole per aver ceduto a quelle schifezze e a ridurti in questo stato. Tu non meriti di tornare a camminare. La tua punizione deve essere proporzionale a quello che hai fatto. Hai disubbidito a quello che ti avevo detto, e per questo sei statoro punito da Dio, dal destino non importa. Fatto sta che se ti hanno privato di una parte di te devi rimanere così. Nessuna protesi, é già tanto se ti permettiamo l'usi della sedia a rotelle. Fosse stato per me saresti rimasto a letto e per muoverti avesti dovuto strisciare a terra come i vermi».

Mio padre non era mai stato uno che prediligeva le punizioni fisiche, usava le parole come armi. E anche in quel momento ciò che pronunciava si incideva in modo indelebile facendomi sentire debole, sporco. Maledetto.

Mia madre era arrivata in quel momento a quelle ultime parole terribili che mi avevano fatto inumidire gli occhi. L'ultima cosa che volevo era il disprezzo di mio padre.

«Alfio, non credo sia il caso di...»

«Taci. Questa é la sua punizione e deve accettarla fino in fondo». E con quelle parole con un gesto di rabbia aveva sbattuto contro il miro le due protesi. Pezzi di intoncaco si staccarono per cadere a terra ma non gli bastò. Uscì dalla stanza e d'istinto lo seguì dopo essermi seduto sulla sedia a rotelle, seguendolo assieme a mia madre fino in cucina.

Aveva appoggiato le due protesi sul tavolo e nel mentre aveva recuperato il martello che calò sulla mia ultima speranza di tornare a essere quello che volevo.

Avevo cominciato a piangere inconsciamente e lui subito se n'era accorto.

«Vedi cosa sei diventato? Una nullità debole che non merita altro che vivere una vita fatta solo di umiliazione e senso di inadeguatezza». E di nuovo con violenza colpì le protesi.

"Ti prego smettila" pensavo ma lui imperterrito continuava la sua opera di distruzione.

"Non farlo" urlava silenziosamente la mia mente ma lui era sordo o peggio. Sembrava insensibile al dolore che mi stava causando.

Continuò per un tempo che parve interminabile, nel mentre mia madre in un angolo su era unita al mio pianto silenzioso.

A opeazioe finita gettò quello che erano state delle protesi ai miei piedi.

«Fa anche solo un altro di questi scherzi e ti scordi la carta di credito. A differenza tua sono magnanimo e ti permetto di continare a vivere abbastanza dignitosamate la vita che ti rimane». Notando che avevo stretto i pugni come a volerlo strozzare mi si avvicinò.

«Ricordati che tutto questo non è altro che colpa tua».
 

Angolino autrice:

Buonsalve :3
Eccomi con la prima parte del capitolo 14 😊
Diciamo che si sono capito alcuni retroscena (tristissimi 😭😭😭) di Luca...nella seconda parte di scoprirà una cosa di un personaggio 😊🙈

Cercherò di non farvi aspettare tanto 😍
Ringrazio davvero tantissimo tutti voi che seguite la storia 😭❤️

A presto!
FreDrachen

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 14 parte 2 ***


Capitolo 14 parte 2



«Allora?»

La voce odiosa di Capelli Tinti mi riportò bruscamente alla realtà.

«I miei me l'hanno proibito. É la punizione secondo loro per quello che mi è successo» cedetti, sperando che con quello si chiudesse il discorso.

«Non penso che ti sia buttato sotto una macchina intenzionalmente, quindi perchè farsi tutti questi problemi?» ribattè Capelli Tinti.

Quanto avevo voglia di strozzarlo, però essendo amico di Akira ero certo che non gli avrebbe fatto piacere se l'avessi fatto. Maledizione, dovevo stringere i denti e cercare di essere il più cordiale possibile.

«Non sarei dovuto essere lì. E con questo il discorso si conclude» troncai a denti stretti. Cazzo, sembravo un gatto con la rabbia, certamente l'opposto di quello che mi ero prefissato. Magnifico.

«Quindi se provassi a comprartele i tuoi che ti farebbero? Sei o no maggiorenne?»

«Le butterebbero via e mi rinchiuderebbero da qualche parte. E poi mi é stato detto e ripetuto più volte che finchè vivrò in quella casa dovrò sotostate alle regole».

«E se te le comprassi di nascosto?» si intromise la voce di Timido e dopo che ebbe pronuciato quelle parole portai lentamente lo sguardo su di lui che arrossì fino alla punta del capelli.

Mi fece un po' tenerezza, continuavo a consideralo un buffo coniglietto, e per questo decisi di addolcire il tono.

«Noterebbero subito che mancherebbero i soldi dalla carta di credito e verrei sgammato subito».

«Hai una carta di credito tutta tua? Che invidia» disse Capelli tinti.

Al suo prossimo intervento al diavolo tutto l'avrei spedito fuori dal bar a calci un cul...un momento, ma non potevo! Cazzo, allora mi sarei limitato a lanciarlo via. Sempre che fossi riuscito a tirarlo su. Mi sembrava più pesante di uno scoglio vista la sua costituzione...compatta per non dire che pareva una montagna di muscoli.

«Ma saranno cazzi miei?» gli domandai sfoderando un sorriso tutt'altro che gentile.

«Ma che stronzo che sei. E dire che Akira ha lavorato tanto per fare degli schizzi di protesi che potessero andare bene per uno come te» ribattè lui, e si accorse solo dopo di quello che aveva appena pronunciato. «Ops. Non dovevo dirlo».

No, ma davvero?

Mi voltai verso Akira e lo trovai rosso in viso per l'imbarazzo che con le mani stava massacrando un povero tovagliolino di carta innocente.

«Davvero li hai fatti?» domandai con curiosità e cercando di essere gentile.

Ovviamente fu Capelli Tinti Lingua Lunga (un soprannome più lungo non potevo darglielo?) a parlare.

«Sono tutti sul suo blocco da disegno» dise con troppa enfasi e di nuovo si accorse di aver parlato senza aver messo in moto il cervello. E poi dicevano che ero io quello senza filtri.

D'istinto Akira recuperò il blocco e se lo portò al petto, gesto che in parte mi ferì un poco. Dovette accorgersene anche lui perché con un sospiro me lo tese.

L'aprì incuriosito. Non sapevo che Akira sapesse disegnare così bene.

I primi disegni erano persone che non conoscevo, uno era in bianco e nero e rappresentava un ragazzo che aveva i capelli bianchi e un occhio dalla sclera nera e strani tentacoli che gli uscivano dalla schiena, un altro mi ricordò la copertina raffigurante il tizio sproporzionato e anatomicamente nudo e non dotato dei...gioielli di famiglia*. E infine scartabellando gli altri arrivai a quelli delle protesi.

E cazzo se erano fatti benissimo. Se non fosse che erano in 2D avrei quasi pensato che fossero protesi autentiche. Erano disegni cosí dettagliati che quasi si potevano vedere gli aloni sulla superficie che lareva metallica.

Non ci capivo un accidenti di parti costitutive delle protesi né dei materiali migliori per costruirle, ma quelle che aveva disegnato Akira parevano quasi di un altro modo, fantascientifiche. E mi piacevano da impazzire!

Il mio silenzio però fu mal interpretato da Aki che si addombrò.

«Capisco se non ti piacciono. Scusami è stata una cosa stupida dis...»

«Mi piacciono» fu fulminea la mia risposta.

Il suo viso si illuminò, così tanto da far sembrare le persone attorno sciatte, come se non lo fossero davvero. Si grattò dietro al collo e si vedeva che era imbarazzato ma al tempo stesso sollevato.

«Ecco questo potrebbe essere un prototipo. Secondo me andrebbero fatte ancora alcune modifiche».

Aspetta un momento! Oltre che disegnarle aveva anche intenzione di farle fa...

«Magari si potrebbero creare protesi con dei razzi i corporati che gli permettano di raggiunge Mach 20 di velocità**» spiegò Anonimo tutto esaltato. E io che l'avevo considerato un tipo apatico.

Notando tutti i nostri sguardi puntati su di lui si strinse le spalle. «Era solo una proposta per renderle una roba epicissima».

«Si e già che ci siano perchè non lo sottoponiamo a iniezioni di antimateria*** così magari diventa oltre che più forte anche più intelligente?» s'intromise Capelli Tinti al che non riuscì a non ribattere.

«Insomma, ma si può sapere che cazzo di problemi hai?» gli domandai. E io che avevo fatto di tutto per dimostrarmi gentile, solo e unicamente per Akira nulla più.

«Mi stai antipatico a pelle. É un problema per te Sua maestà Tremonti?» mi rispose lui con il mio stesso tono seccato. Accidenti quanto mi somigliava di carattere. Per questo mi stette ancora di più sul cazzo.

«Simo-kun, non è il caso di...»

«Cosa Akira? Non dire quello che penso? Stare con lui ti ha per caso fuso il cervello? Sta in nostra compagnia solo perché ora non è più popolare. E prima? Dall'Olimpo in cui di trovava non si è mai abbassato a considerarci, perché dovremmo farlo noi?»

«Perché nessuno merita di rimanere solo. E poi Luca è un mio amico, e non intendo lasciarlo da solo. Mi spiace che non voglia accettarlo nel gruppo».

Simone osservò gli altri due cercando manforte ma sia Anonimo che Timido distolsero li sguardo, al che lui alzò lo sguardo.

«La maggioranza ha parlato. Va bene, cercherò di accettare la sua presenza. Ma sappi che ti terrò d'occhio Tremonti. Prova a far soffrire i miei amici e te la dovrai vedete con me» dichiarò, quell'ultima parte di discorso indirizzata al sottoscritto. Alzai il mento e sostenni il suo sguardo.

«Non é mia intenzione farlo».

Capelli tinti sfoderò un sorrisetto. «Certo come no. Hai snobbato tanti che volevano passare anche solo un momento in tua compagnia ferendo così i loro sentimenti. É facile ferire i cuori ma é molto piú complicato sanarli».

«Ti ribadisco che non andrà così».

Lui mi squadrò come se non credesse a una sola parola di quello che avevo appena pronunciato. Alla fine erano solo cazzi suoi.

Gli altri terminarono la colazione dato che a differenza del sottoscritto e poi anche di Akira, erano lenti come dei bradipi, e ci avviammo verso scuola.

Non appena raggiungemmo la spiazzola di fronte alle due entrate constatai che la campanella era suonata da pochissimo, quindi avevamo ancora tempo prima di salire ai nostri rispettivi piani.

Speravo che gli elettronici se ne andassero subito per lasciare me e Akira da soli.

O se non l'avessero fatto di loro spontanea volontà avrei dovuto cercare io stesso un modo per...

I miei piani complottistici furono interrotti dall'arrivo di una tizia dalle trecce lunghe fino alle spalle castane e il viso tempestato di lentiggini. Aveva il fiato corto e pareva che avesse corso la maratona. Non calcolò di striscio nessuno a parte Roberto su cui poggiò lo sguardo.

«Roberta ecco dov'eri finita! Forza andiamo a ripassare che tra qualche minuto ci interrogano».

«Accidenti é vero. Arrivo subitissimo Vit» fu la sua risposta e subito dopo si rivolse a noi. «Scusatemi devo scappare. Ci vediamo in classe e con voi dopo» esclamò queste ultime parole indirizzate a me e Akira.

Il mio cervello le captò ma fino a un certo punto, perchè focalizzato su un'altra cosa che l'aveva mandato in trip i miei pensieri.

Akira se ne accorse quasi subito perchè assunse un'espressione preoccupata di fronte al mio imbambolamento a fissare un punto indefinito di fronte a me.

«Luca cos'hai?»

Aprì la bocca una, due volte, come un pesce lesso, prima di ritrovare la voce.

«Roberto é una...RAGAZZA?» dichiarai con la voce che salì di un ottavo nell'ultima parte di frase e l'avrei ripetuto involontariamente, la sorpresa era più forte della ragione, ma subito mi trovai le mani di Akira a tapparmi la bocca.

Emisi dei versi soffocati e cercai di liberarmi ma malgrado lui fosse mingherlino aveva un'ottima presa.

«Non qui Lu. Adesso ti libero e andiamo a cercare un posto tranquillo dove posso spiegarti tutto».

Annuì con decisione e per fortuna lui si convinse e mi liberò dalla sua presa.

Fui di parola e mi lasciai guidare in un angolo in disparte, lontano da occhi e orecchie indiscrete.

«Adesso mi potete di grazia spiegare il perché uno che pensavo fosse un ragazzo in realtà è una ragazza?»

«Roberto é un ragazzo» sottolineò Akira scandendo bene le parole. «Solo che è un ragazzo...speciale».

Lo fissai con sguardo imbambolato e lui si affrettò di aggiungere: «É un ragazzo transgender. Hai mai sentito parlare di disforia di genere? Per provare a spiegartela in termini semplici Roberto é un ragazzo che però é nato con un corpo sbagliato, incompatibile con il suo vero io e questo l'ha fatto sentire incompleto per tantissimi anni. Adesso si sta sottoponendo a una terapia ormonale per potersi avvicinare anche a livello fisico alla sua vera essenza. Ma prima di te eravamo solo noi tre a saperlo. Rob non ci tiene ancora a rivelarlo agli altri. E poi con la famiglia che si ritrova non è ancora il momento giusto. Difatti sta facendo un lavoretto partime già dall'anno scorso per potersi pagare questa terapia ormonale» cercò di spiegarmi Akira con poche pause per respirare. Accidenti io sarei rimasto spompato a metà discorso.

E poi transgender? Disforia di genere? Perché se ne usciva con questi paroloni di primo mattino e prima che la caffeina mi entrasse in circolo?

Per cui ricapolando: Roberto era una ragazza ma al tempo stesso era un ragazzo, da che avevo capito dal discorso di Akira. Lui era stato relativamente chiaro, peccato che io fossi abbastanza tardo ad assimilare le informazioni.

Ora che ci pensavo a primo impatto avevo intravisto tratti femminei, e anche le ciglia mi parevano un po' più lunghe anche di quelle di Akira. Ma come potevo spiegarmi il petto piatto?

Ma solo io non ci stavo capendo un emerito cazzo?

«Per cui Roberto...é una ragazza senza tette?» me ne uscì senza dare il tempo al cervello di intervenire sulle mie parole.

Simone si sbattè una mano contro la fronte e se ne uscì con un sincero "Ossignore" che mi offese non poco. Non era colpa mia che del loro discorso non avessi capito quasi nulla.

«Sei proprio senza speranza» dichiarò Simone fissandomi con superiorità.

«Disse quello che pare avere un manico di scopa su per il cu...» gli risposi ma fui fermato da Akira prima che potessi continuare. Ma se avevo pienamente ragione! Pareva un frustrato che aveva bisogno di rilassarsi o di strafarsi di camomilla.

«Ok. Smetterla voi due. Simo-kun non penso che Luca sappia molto del mondo LGBTQIA+, perché credimi sono certo che non era il suo intento insultare Rob».

Insultare Roberto? L'unico a cui mi veniva una voglia matta di dirgliene quattro era Capelli Tinti.

E altre informazioni? Ero certo che mi sarebbe esploso il cervello.

«Insultare?» domandai confuso. Sinceramente volevo calore dove avessi sbagliato.

«Bè si quando hai definito Rob "una ragazza senza tette". Essendo un ragazzo non è proprio il massimo questo approccio».

Ah...si in effetti ero stato piuttosto cafone anche se il mio cervello continuava a ribadire che stava perdendo il filo del discorso.

«Non era intenzione di essere scortese. Sono solo molto confuso».

Capelli tinti emise uno sbuffo e si voltò dall'altra parte, Anonimo che era sempre stato lì a fare quasi da tapezzeria mi rivolse un'occhiata di approvazione, come se ne avessi bisogno da parte sua, mentre Akira mi sorrise dolcemente. Sinceramente era l'unico di cui mi importava il giudizio.

«Tranquillo Lu. Cerca di metabolizzare il tutto e sai che per qualsiasi cosa mi puoi chiedere no?»

A quelle parole gonfiai le guance. «Sei ancora in modalità Sensei Cinese?»

Anziché correggermi meccanicamente la sua origine scoppiò a ridere, con gli altri due che ci osservavano senza comprendere.

Fu in quel momento che sentimmo suonare la campanella.

I due elettronici si avviarono con un frettoloso "ciao" verso il loro edificio mentre io e Akira ci avviammo verso l'altro.

E metabolizzai in quel momento che avremmo avuto due ore in comune.

Le ore di educazione fisica.
 

* il primo disegno citato si tratta di Ken Kaneki di Tokyo ghoul (seconda parte della prima serie di manga), il secondo Eren Jaeger formato gigante (prima parte de l'Attacco dei giganti)
** sta facendo riferimento alla velocità che può raggiungere Korosensei di Assassination classroom
***Fa sempre riferimento a una cosa di Korosensei di Assassination classroom
 

Angolino autrice:

Buonsalve 😍
Eccomi con la seconda parte del capitolo :3
Finalmente si è scoperto un lato del nostro Robby ❤️
Spero che abbiate apprezzato questo capitolo e ringrazio tutti voi che seguite la storia ❤️❤️❤️❤️❤️

A presto con il capitolo 15 e nuove disgrazie per Luca (che facciamo, ce ne priviamo? 🤣🙈)

FreDrachen

 

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Capitolo 19
*** capitolo 15 parte 1 ***


Capitolo 15 parte 1


Ci separammo dagli elettronici per raggiungere speditamente la palestra.

Dall'orario avevamo dedotto che avremmo avuto le due ore di educazione fisica in comune.

Non sarebbe stato affatto male se non fosse che non avrei potuto partecipare a nessuna attività.

L'anno prima avevamo fatto poco calcio per colpa dei miei compagni negati, a eccezione mia e forse di Ippolito (forse), e per questo avevamo giocato gran parte del tempo a pallavolo, quando non lo passavamo su quei tappetini talmente sottili da risultare quasi inesistenti, per fare esercizi di stretching. Sinceramente preferivo la pallavolo, sopratutto a fare muro. Ero piuttosto bravo a saltare abbastanza in alto e a distruggere i sogni di gloria della squadra avversaria. Ero un tipo abbastanza competitivo il cui unico obiettivo era vincere, ma senza fare ricorso a mezzi scorretti.

Prima dell'incidente ero abbastanza alto, sul metro e ottantacinque, quindi per me era una bazzecola intercettare i tiri degli altri. Era troppo divertente vedere le loro facce sgomente quando bloccavo un loro tiro con estrema calma e naturalezza. Se non fossi entrato nel mondo calcistico avrei fatto senza dubbio un penserino a quello pallavolesco.

Peccato che tutto fosse andato completamente a put...

«Ci vediamo dopo Luca-chan» mi salutò Akira per poi entrare nello spogliatoio a cambiarsi.

Ah, eravamo già arrivati. Mi ero mosso senza neanche accorgermene, come un automa.

Gli risposi facendo un cenno ma nella testa avevo un unico pensiero: noiaaaaa.

Ebbene si, ero uno che si annoiava facilmente. Il solo pensiero di vedere altri a muoversi mi faceva salire una gelosia profonda oltre che se non avessi trovato qualcosa da fare mi sarei annoiato a morte.

Mi spostai scandagliando con lo sguardo la palestra alla disperata ricerca di qualcosa che potessi fare. Qualsiasi cosa. Tutto per non stare fermo con le mani in mano.
Piuttosto mi sarei messo a tenere la rete, estremante bassa ma avrei fatto qualcosa.

Notai subito che gli altri ragazzi mano a mano che lasciavano lo spogliatoio mi gettavano sguardi curiosi che però mi davano non poco fastidio.

Se non la smettevano di guardarmi avrei cavato loro gli occhi e li avrei usati come palline da tennis, anche se a quello sport non ci sapevo minimamente giocare.

Per fortuna arrivò il prof di educazione fisica, il prof Moretti.

Era sulla quartantina e il classico palestrato con completo di pettorali gonfi e tartaruga addominale ma a disdire dall'aspetto, per cui l'avrebbero preso per uno stupido come Gaston del cartone animato "La Bella e la Bestia" (per fortuna nella live action era meglio), era un uomo senz'altro intelligente e simpatico. Era uno dei pochi che mi apprezzava e sapeva cogliere nelle mie parole il sarcasmo, a differenza degli altri professori.

«Buongiorno Luca. Sono contento cbe sia tornato a scuola» mi salutò con un sorriso sincero a cui risposi con altrettanta sincerità.

«Anche io. Mi dispiace solo non poter partecipare alla sua lezione come vorrei».

Lui mi si avvicinò e mi poggiò una mano sulla spalla con fare fraterno...paterno. Oh, insomma con affetto.

«Non ti devi preoccupare di questo. Non è colpa tua. Comunque cercheremo in modo per non lasciarti queste due ore con le mani in mano».

Le sue parole rincuorarono non poco quel lato di me che si era quasi arreso alla noia mortale.

Ecco uno dei motivi per cui adoravo quell'uomo.

«La ringrazio prof».

Lui strinse un poco la presa per poi lasciarmi e andare a sbraitare contro l'ammasso di bradipi scordinati, che tradotto erano gli altri ragazzi, di cominciare con i giri di corsa lungo il perimetro dell'intera palestra.

Ci avrei provato anch'io con la sedia a rotelle ma ero certo che anziché girare sarei finito dritto dritto contro il muro e sinceramante non é che morissi dalla voglia di farci amicizia.

Ma poco male. Avrei aspettato si e no una manciata si minuti. Forse sarei riuscito a sopravvivere. Forse.

Nel mentre cercai una qualsiasi fonte di distrazione e i miei occhi si soffermarono subito su Akira. Indossava una maglia a maniche corte nera priva di qualsiasi disegno o frase (incredibile ma vero) e pantaloni in tuta lunghi. Al contrario di lui, anche in pieno inverno, mettevo i pantaloncini corti come durante gli allenamenti e le partite che disputavo. Non era solo per un fattore di comodità ma anche perchè pativo troppo il caldo. Anche in quel momento mi ero tolto la felpa per rimanere in maglietta e stavo soffrendo come un dannato. Mi avrebbe fatto più che piacere la presenza di un bel ventilatore o meglio un bel condizionatore. A che se, a vedere la maggior parte degli altri, la mia idea sarebbe stata senza dubbio bocciata.

Non scollai gli occhi di dosso dal mio sensei cinese per tutta la durata della corsa. Correva davvero in modo aggraziato, pareva lieve come una farfalla che passava di fuore in fiore, uno spettacolo per gli occhi visto gli esemplari che correvano con lui. Che poi Akira doveva essere alto come me quando ero munito di gambe integre, e l'altezza era una nemica un quel tipo di movimenti. Invece Akira non sembrava avere alcun tipo di problema. La sua corsa era pulita, aggraziata per essere un maschio e per questo i miei occhi non riuscirono a staccarsi dal suo profilo.

Non degnai nemmeno di uno sguardo Ippolito che, constatai con la coda dell'occhio rendendomi strabico, mi lanciava alcune occhiate. Ma non poteva elegantemente farsi i cazzi suoi e girarsi dall'altra parte?

Quando la corsa terminò constatai che tutti erano morti spompati, a parte qualche eccezione tra cui Akira. Non mi aspettavo che un nerd come lui fosse così ben allenato.

«Molto bene ragazzi. Su con la vita. Oggi avremo un ospite. Il mio amico Paolo Segesta é un istruttore di taekwondo e oggi di darà un assaggio di questa fantastica disciplina».

Taeko...cosa?

Dalla porta alle mie spalle emerse un tizio piú o meno della stessa età del prof, dai capelli e occhi castani, abbastanza magro e basso e indossava quello che ai miei occhi pareva un accappatoio da bagno bianco stretto in vita da una cintura nera. Aveva i piedi nudi e camminava disinvolto. Quando avevo ancora i piedi odiavo con tutto il cuore non avere almeno i calzini, mi dava fastidio il contatto diretto con una superficie che non fosse stoffa o la plastica delle ciabatte. Avevo seri problemi anche quando andavo al mare. Fosse stato per me avrei fatto il bagno in acqua con le infradito.

«Buongiorno ragazzi. Come vi ha anticipato il vostro professore oggi vi darò un'infarinatura di questo sport e chissà magari qualcuno potrà rimanerne affascinato».

Seh come no. E il bello era che ci credeva anche. Difatti come avevo intuito molti alle sue spalle fecero delle epsressioni che testimoniavano tutta la loro mancanza di interesse.

Ma di che si lamentavano? Almeno loro potevano fare qualcosa!

«Bene comincerei con le prese. In questa disciplina sono molto inportanti. Mi serve un volontario».

Cone volevasi dimostrare nessuno si fece avanti.

Sentì su di me uno sguardo e capí ben presto che si trattava di Ippolito che mi osservava con un leggero sogghigno che pareva dire che se non si faceva avanti era solo per sua libera scelta e non per costrizioni fisiche.

Che stronzo!

Malgrado volessi avvicinarni e dargliene di santa ragione cercai di mantenere la calma, incrociai le braccia al petto e lo sfidai con lo sguardo affinché ci andasse lui. Come avevo previsto accolse la sfida e si fece avanti.

Inutile dire che se pensava di potercela fare contro in maestro di arti marziali affogava senza dubbio in troppo ego. Il signor Segesta, tanto basso e mingherlino, infatti, riuscì a bloccare a terra uno come Ippolito che a confronto sembrava Golia.

Ma che peccato!

Cercai di trattenere un sorriso ma dentro stavo godendo come un riccio.

Ma la soddisfazione durò fin quando non vidi chi era il secondo volontario.

Akira si fece avanti con tutta la sua curiosità e, se non fosse che ci tenevo troppo a lui, l'avrei strangolato per la sua ingenuità.

Il signor Segesta ci andava piano ma non abbastanza da non collezionare almeno un dolorino.

Ma dico, era per caso masochista?

"Stupido di un Akira! Ma che cazzo pensi di fare?" pensai cercando di trasmettergli con lo sguardo tutta la mia disapprovazione del suo gesto.

Lui mi sorrise, un sorriso che pareva complice.

Ma aspetta un secondo...aveva pensato che approvassi la sua decisione? Ma che cazzo!

Stupido Sensei Cinese!

Akira si posizionó di fronte al maestro e fece un leggero inchino.

Adesso doveva pure fare il rispettoso con uno che l'avrebbe fatto spalmare a terra e che, se fosse stato un incontro professionale, mi avrebbe costretto ad andare a raccoglierlo con scopa e paletta?

Certo che era davvero strano.

Inutile dire che quello che accadde nei secondi successivi mi fece staccare la mascella e a lasciarmi senza parole, una qualcosa che non accadeva mai. Mi immaginavo troppo che per quello che era successo qualcuno gridasse "al miracolo".

Ciò che mi aveva sconvolto era che Akira era riuscito a fuorviare le prese del maestro di quella disciplina ed era riuscito in pochissimo tempo ad atterrarlo e immobilizzarlo, seduto a cavalcioni sulla schiena e tenendogli le mani bloccate.

Aveva sul volto un'espressione concentrata che subito lasciò spazio a una di scuse mentre liberava l'uomo.

«Mi scusi se ci sono andato pesante. É che ho messo in atto le tecniche che ho imparato a un corso di autodifesa...».

«Ma di cosa ti scusi? Hai un talento unico! Potresti seguire le mie lezioni pomeridiane senza problemi».

«Mi dispiace ma tra lo studio e le traduzioni di fansub non avrei molto tempo a disposizione e quello che mi rinane lo userei per leggere».

Che cazzo erano i fansub?

Si, era questa l'unica parte del suo discorso su cui il mio cervello si era focalizzato.

L'uomo non parve prendersela e scrollò le spalle mormorando quanto fosse dispiaciuto per un talento sprecato ma lasciò perdere.

Provò con altri ragazzi, gasati dal fatto che uno come Akira fosse riuscito ad atterrarlo. Peccato che anche loro finirono col fare la figura dei pesci lessi come Ippolito.

Va bene che non mi stavo muovendo però quello era uno spettacolo a dir poco esilarante.

Dopo le prese passarono ai colpi.

Lo strumento contro cui dovevano colpire con il dorso del piede era quello che il signor Segesta aveva chiamato Colpitore. A me non sembrava altro che un guanto da boxe schiacciato.

Diede le istruzioni e stavolta Ippolito non si fece avanti. Doveva essere ancora senza dubbio in imbarazzo e in collera per la pessima figura che aveva fatto.

Che peccato.

Preso dal godere non mi ero reso conto che si era fatto avanti nuovamente Akira che, preso dal troppo entusiasmo, aveva colpito troppo forte il colpitore che sfuggí alla presa del signor Segesta e disegnò una parabola perfetta prima di atterrare.

Contro la mia faccia.

 

Angolino autrice:

Buonsalve :3

Spero che questa prima parte del capitolo vi sia piaciuta :D

Ringrazio tutti voi che seguite la storia ❤️ grazie mille 🙏🏼😭❤️

A presto con la parte 2
FreDrachen

 

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Capitolo 20
*** capitolo 15 parte 2 ***


Capitolo 15 parte 2

Cazzo che male al naso!

Non è che ora avrei avuto il setto nasale deviato e per evitare di soffrire di sinusite o russare come un trattore avrei dovuto sottopormi a intervento chirurgico? E nel caso avessero sbagliato e per risolvere mi avrebbero trapiantato un naso da befana?

E se...

«Luca? Luca! Tutto bene?»

Ovvio che non andava bene! Il mio povero naso faceva un male cane, la parte sinistra della faccia era un pulsare unico tanto che mi stavo chiedendo che aspetto avessi se l'avessi strappata via per eliminare il dolore, e per questo i miei pensieri sembravano essere quelli di un serial killer masochista in crisi esistenziale.

Per cui no, non c'era un cazzo che andava bene!

E l'avrei detto se non fosse che a rivolgermi la domanda era stato un Akira con una faccia talmente mortificata che mi fece quasi sentire in colpa di aver formulato degli accidenti.

«Io...» cominciai a formulare ma mi avevo male anche solo a parlare.

Akira prontamente prese in mano la situazione e chiese del ghiaccio secco che ovviamente, nella nostra rispettosissima scuola, si trovava solo in infermeria. Perché in palestra non era affatto utile, no. A volte non capivo proprio le scelte che facevano.

«Prof, lo accompagno in infermeria» si propose per questo e al cenno del prof si affrettò a posizionarsi alle mie spalle e a spingere la sedia a rotelle verso l'ascensore.

Per tutto il tragitto continuò a ripetere una strana parola nella sua altra lingua madre, in preda allo sconforto più assoluto: «Gomenasai, gomenasai, gomenasai».

Ci fiondammo in ascensore e lui pigiò sul tasto del terzo piano, la nostra meta.

«Non...so...cosa stia dicendo» replicai debolmente e cercando di fare i minori movimenti possibili.

«Ah, vero...significa scusami».

«E di cosa dovrei...scusarti?» gli domandai, voltando parzialmente il capo verso di lui, dandomi un leggero senso di vertigine. Per fortuna ero già seduto. Ok, quest'uscita infelice me la potevo risparmiare.

«Ti ho beccato in testa con il colpitore. É che l'ho colpito con troppa enfasi. Sai era da tempo che non lo facevo e ho provato una sensazione e piacevole nell'avere l'opportunità...»

«L'hai per caso fatto apposta?» lo interruppi cercando di far risuonare la mia voce atona.

Alle mie parole lo vidi sbiancare.

«Assolutamante no. Non potrei mai Luca-chan».

«Allora non penso ci siano problemi. Era un rischio calcolato associato allo svolgere una qualche disciplina sportiva. Non posso e non ce l'ho assolutamente con te» lo rassicurai stirando le labbra in un sorriso, per quanto mi consentissero i muscoli facciali prima di urlare vendetta.

Lui si rilassò un poco e rimase al mio fianco fino a quando non raggiungemmo prima il piano desiderato e poi la stanzetta che pareva uno sgabuzzino che fungeva da infermeria.

Come volevasi dimostrare era deserta, ma ce l'eravamo aspettati. L'addetto a stare lì, che di norma era in operarore scolastico, aveva nel mood "voglia di lavorare saltami addosso", per cui sapevamo dove trovare l'occorrente che ci serviva in casi come il mio o se magari ci facevamo ferite di poco conto per cui era inutile chiamare l'ambulanza.

Akira si diresse prontamente verso l'armadietto che conteneva principalmente tutto il materiale di primo soccorso e sacchetti di ghiaccio istanteneo.

Ne prese uno che mi passò, e subito lo applicai su quanta più possibile superficie colpita. Il contatto con il freddo fece urlare i miei poveri nervi ma dopo poco avvertì un certo senso di piacevolezza.

Mi poggiai con il gomito, del braccio che reggeva il ghiaccio, sul bracciolo della sedia a rotelle per poter stare più comodo mentre Akira su appolaiò sull'unica sedia disponibile, tenendomi sott'occhio.

Aveva forse paura che svenissi? Avevo la pellaccia dura. Se gli avessi raccontato di tutte le volte in chi mi ero beccato un pallone di cuoio in faccia ero certo che gli sarebbe venuto un salasso.

I colpi facevano sempre male e questo non era da meno, peró ero preparato.

«Stai meglio?» mi domandò e malgrado fosse leggermente più tranquillo avvertivo ancora della preoccupazione nella sua voce. Ma per assicurargli che andava tutto bene mi sarei dovuto mettere a ballare la macarena? Anche se con la sedia a rotelle sarebbe stato abbastanza complicato...

«Luca-chan?»

Sussultai al pronunciare del mio none e mi accorsi che Akira era in attesa di una mia risposta e io mi ero perso nei miei soliti castelli mentali. Maledetto deficit dell'attenzione! Con i prof poteva valere cone una sorta di scusa per non aver ascoltato la spiegazione ma con Akira no! Non volevo perdermi una singola parola da parte sua.

Per fortuna il mio cervello iperattivo aveva captato le sue parole e per questa volta me l'ero cavata.

«Si penso di si» risposi un po' a disagio. Non avevo avuto così tanta premura da parte di qualcuno neanche quando ero bambino e la cosa m'imbarazzava non poco.

«Posso dare un'occhiata?»

Scostai il ghiaccio e lui mi analizzò cone avrebbe potuto fare un dottore professionista. Mi sentivo peggio di un batterio sotto la lente del microscopio ottico.

«La zona è arrossata e leggermenre gonfia ma non penso abbia altri problemi».

Ci sarebbe mancato pure quello.

«Pulsa un po' ma sta andando meglio» lo rincuorai. Povero Akira, era così teso che sembrava stesse seduto su un cactus.

Lui annuì ma non mi sembrava ancora del tutto al suo agio, e per questo cercai un modo per deviare l'attenzione su un altro argomento.

«Dimmi una cosa, sei ancora sopreso sulla questione Roberto?» mi chiese all'improvviso sorridendo anticipandomi. Sembrava avesse letto nel pensiero le mie intenzioni e lo ringraziai mentalmente se non fosse che si era avventurato in un argomento che mi metteva a disagio, sopratutto per quello a cui pensavo.

«Un po'» minimizzai.

"Tanto" terminò la mia mente.

Dovette averlo letto sulla mia faccia perchè scoppiò a ridere.

«Posso immaginare che sia difficile da capire Luca-chan. Ma pensa che Roberto é un ragazzo a tutti gli effetti».

«E lo considero tale infatti. Però...»

Lui inclinò la testa di lato.

«Però?» mi incitò.

«Lo trovo solo...curioso. Cioè ognuno è libero di essere e amare chi vuole. Ma per quanto mi sforzi non riesco a capire come ci si sente a non essere in pace con se stessi».

«Potresti provare a chiederglielo».

Ridacchiai ma non fu una buona idea. Maledetta botta!

«Certo. Non so quanto la potrebbe prendere bebe se gli chiedessi: "ehi come ci si sente ad essere maschio in un corpo femminile?"»

«Magari con leggermente più tatto ma secondo me se glielo chiedi non penso chee ti neghi una risposta».

Ci pensai su. In effetti mi sarei liberato di un bel dubbio.

«Penso che lo farò» dissi infine e Akira si aprì in un sorriso dolce.

Aspetta...ho appena pensato alla parola dolce? Ma che cazzo di botta avevo preso?

Seduto su qiella sedia, a poca distanza da me in un ambiente angusto, e con il sole che colpita la sua figura slanciata pareva quasi in angelo pronto a rischiararmi con la sua luce, dandomi un senso di pace che, ero più che certo, mai avevo provato in vita mia. E da quando le sue labbra sottili erano così invitanti? Perchè stavo formulando certi pensieri?

Akira cosa mi stavi facendo?

«Se ti sentissi in contrasto con i tuoi sentimenti cone ti comporteresti?» gli domandai a bruciapelo, prima che il pensiero raggiungesse il centro della ragione che contava forse si o no un solo neurone esaurito dato che non era mai portato a filtrare ciò che pensavo.

Lui mi fissò per un attimo perplesso prima di chinare il capo cercando di evitare il mio sguardo. Ecco, per colpa dei miei maledetti pensieri l'avevo messo in imbarazzo.

«Cercherei di arginarli. Anche se dipende molto dal tipo di sentimenti».

«Il provare un qualcosa di nuovo e imprevisto che ti lascia spiazzato e in preda alla più completa confusione?»

Lui alzò di scatto la testa e il suo volto fu riflesso del mio. Entrambi manifestavamo una confusione tale da lasciarmi stupito. Che reazione era la sua?

«Non saprei cosa dirti. Ma una cosa è certa. L'amore in senso lato è effimero. Nasce con facilità ma con altrettanta semplicità finisce. E dopo tutto questo soffri così tanto a tal punto di chiederti se non hai fatto abbastanza. Poi se l'amore é rivolto a una persona che non potrai mai avere non porterà altro che sofferenza».

Ah.

«Non ti facevo così apocalittico» lo presi in giro per alleggerire la situazione.

Akira fece spallucce. «È quello che ho imparato dalla vita».

«Quindi sei stato vittima di in amore impossibile?»

«Non proprio. Sono solo schiavo di sentimenti nei confronti di qualcuno che non potrò mai avere».

Ah, cazzo.

Ebbi un tuffo al cuore come se quelle parole mi avessero ferito, anche se suvvia! Akira era mio amico e non dovevo provare un sentimento cosí simile alla...gelosia? Ero geloso? E poi a cosa si stava riferendo? Lui stava con Amanda. Significava che si era stufato di lei e che cercava un modo per lasciarla?

Comunque Amanda o non Amanda non volevo vederlo così avvilito. E la colpa di quel momento era mia.

"Pensa Luca, un modo per dirottare il discorso, qualsiasi..."

«Sai le protesi che hai disegnato sono molto belle» me ne uscì a bruciarlo. Cazzo, stavo facendo più voli pindarici in quel momento che in tutta la mia vita messa insieme.

Lui parve sollevato dal mio cambiare discorso, solo che mi ero tirato la zappa sui piedi, in senso metaforico. Ora ero io che mi stavo inoltrando in un discorso scomodo. Era inevitabile che mi avrebbe fatto domande a cui, pur fidandomi ciecamente di lui, non volevo rispondere. Piú che per fiducia era per orgoglio. Non volevo mostrare quel lato ad Akira. Avevo cercato di farlo il meno possibile, anche all'inizio e, per questo, i momenti in cui lui era riuscito a mettere a nudo la mia anima erano stati ben pochi. Peró ero felice che quel qualcuno, a cui avevo aperto il mio cuore, fosse Akira.

«Sono contento. Cioè all'inizio ero molto in imbarazzo per il fatto che l'avessi scoperto in verità. Pensavo ti avesse daro fastidio».

«Affatto. Sono contento che tenga a me».

«Come non potrei» disse con troppa enfasi e non appena se ne accorse arrossì.

Che carino.

«Cioè come amico» si affrettò immediatamente ad aggiungere.

Annuì osservandolo con troppo interesse e lui se ne accorse.

«Comunque basta poco a trasformarle in realtà» mi propose lui.

Cazzo si!

Tornare a camminare? Era il desiderio che covavo gelosamente nel cuore ormai da tempo e che pensavo fosse oramai impossibile.

Ma l'entusiasmo iniziale si spense quando mi tornò in mente il pessimo episodio di cui ero stato partecipe con mio padre.

«Non penso che sia il caso» risposi ma lui mi costrinse con lo sguardo a non distoglierli mentre parlavamo. I suoi occhi erano magnetici piú di una calamita.

«Cosa stai dicendo? Lo si capisce lontano in miglio che stai soffrendo questa situazione. Le protesi non ti daranno indietro quello che ormai è perduto per sempre, ma potrebbe essere il primo passo per tornare quello che eri».

Quello che ero.

Ma chi ero esattamente? Uno fissato con il calcio, che ero ancora ma dettagli, e che non degnava quasi nessuno del suo sguardo?

Non ero mai stato un bullo, uno di quei tizi senza spina dorsale che si divertiva a rendere la vita degli altri un vero e proprio inferno. Ma non mi preoccupavo troppo a non fissare al di là del mio naso.

E se fossi tornato a essere così odioso?
Fosse stato per me mi sarei catapultato indietro nel tempo e pestato il mio me del passato urladogli quanto fosse uno stupido cretino.

E poi c'era la facceblnda dei miei. Se fossi tornato a casa con le protesi avrebbero fatto la fine delle prime e uniche che mi ero permesso di farmi fare.

Per cui a che pro illuderlo di in qualcosa che rimarrà irrealizzabile?

Akira era di fronte a me che mi fissava con una tale intensità che temetti mi stesse leggendo nel pensiero.

Doveva sapere. Era vero, avrei mostrato la mia debolezza ma ero certo che lui noni avrebbe giudicato.

Fu per questo che le parole mi sgorgarono fuori dalla gola, cedetti alla tentazione di poter rivelare i miei pensieri ed ebbe un che di liberarorio.

Akira stette in silenzio ad ascoltare e pareva, mano a mano che andavo avanti, che stesse assorbendo il dolore che trasudava il mio discorso come a volermi liberare da questo fardello.

«Non è giusto» fu quello che disse a racconto finito.

«La vita lo é mai stata?» ribattei sfoderando un sorriso triste.

«Non è per questo. I tuoi genitori non ti possono privare della felicità».

«Pensi davvero che uno come me se la meriti? Guardami, sono un disastro ambulante Akira. Forse mio padre ha ragione a dire che merito di vivere così».

«Tuo padre sbaglia» dichiarò con una certa venatura di arrabbiatura nella voce.

«Non penso...» cominciai a dire ma lui mi bloccò subito, sul volto un'espressione talnente determinata che quasi mi spaventò. Quasi.

«Come fai a non vedere che persona splendida sei? Sei cambiato dalla prima volta che abbiamo avuto a che fare. Non ti rendi conto che adesso sorridi di più? Sembri tornato quasi quello di prima. Perchè privarti di un qualcosa che ti renderebbe ancora piú felice e in pace con te stesso? Se me lo permetterai vorrei aiutarti a realizzare quello che davvero desideri nel piú profondo del cuore. Anche se dovessi mettermi a insultare i tuoi genitori».

Immaginai subito Akira che si trasformava in una sorta di Angelo vendicarore che ne diceva di santa ragione a mio padre. Sarebbe stato uno spettacolo da non perdere.

Ma ciò che mi aveva fatto ancora più piacere, più che le parole di per sé, era la sensazione di non essere più solo in una situazione piú grande di me.

Potevo contare sull'appoggio di qualcuno. Ed ero felicissimo che quel qualcuno fosse Akira.

Avvertì un certo calore nel basso ventre, ma per fortuna nessuna reazione esagerata com'era successo con quel fumetto cinese. Cercai di tornare subito in me. Pensieri simili mi avrebbero condotto su sentieri pericolosi. E poi anche Akira come me era etero, in fondo stava con quell'oca senza cervello (che quindi di umano aveva poco e niente ma piccoli dettagli trascurabili).

Per cui anche se avessi provato qualcosa senza dubbio sarebbe stato a senso unico. Ovviamente per via ipotetica. In fondo tra me e Akira non ci sarebbe pouto essere altro che un'amicizia speciale, nulla di più nulla di meno.

Eppure cos'era quel forte impulso di avvicinare il suo viso al suo?

Sarebbe bastato poco, protendersi verso di lui, annullare la distanza che ci separava. Lo stesso desiderio mi parve di leggerlo anche nelle sue iridi ossidiana, in linea con i miei pensieri e anche il suo corpo come il mio si fece un poco avanti, gesto che mi lasciò non poco destabilizzato.

Le sue labbra sottili non erano mai state così belle e invitanti. E forse entrambi saremmo caduto in un vortice che ci avrebbe travolto e avrebbe spazzato via ogni traccia del nostro essere se non fosse che...

«Luca! Come stai?»

La voce di Quatrocchi interruppe bruscamente l'atmosfera che si era creata tra me e Akira, seguita subito dopo dal suo padrone.

Con tutta la sincerità che mi sgorgava dal cuore l'avrei mandato elegantemente a quel paese, e ne avevo tutto il diritto.

Aveva interrotto...già cos'era quell'atmosfera?

Gettai un'occhiata fugace ad Akira che si era già rinchiuso dietro la sua solita aria tranquilla, la scintilla che avevo visto brillare nei suoi occhi si era spenta trascinandosi dietro anche la mia.

Gettai un'occhiata fugace ad Akira che si era già rinchiuso dietro la sua solita aria tranquilla, la scintilla che avevo visto brillare nei suoi occhi si era spenta trascinandosi dietro anche la mia


Non appena tornai a casa, a fine giornata e ancora mezzo ammaccato, mi sdraiai sul letto mi portai un braccio sugli occhi come a schermarli dal resto del mondo.

Il mio corpo era in subbuglio e non c'era verso di tranquilizzarmi. Era come essere sulle montagne russe, in particolare nelle discese ripide con il cuore a mille e il respiro affannoso.

Cosa potevo fare per riprendermi?

Avevo provato con tutto quello che di solito mi rilassava, vedere ossia i gol di Quagliarella, i vecchi album di calciatori Panini (uffi anch'io avrei tanto voluto la figurina della mia persona) che avevo riempito da bambino, come in ogni infanzia che si rispetti, ma nulla! Neanche le parate pazzesche di Neuer esano riusciti a esercitare un qualche potere! Ero messo davvero male!

I sentimenti che cominciavo a provare per Akira erano contrastanti, nuovi e ne avevo paura.

Con Agnese era stato diverso.

Non avvertivo quel senso di vertigine che procavo quando entravo in contatto con il suo sguardo, né mi ero mai perso nelle sue iridi come accadeva con lui.

E poi senso di piacere sopratutto nel basso ventre.

Cosa poteva significare? Ero etero, perché provavo sentimenti simili?

Cosa mi stava succedendo? Cosa mi aveva fatto?

Perché mandava così tanto in confusione il mio cervello?

Troppe domande a cui avrei dovuto cercare una risposta, prima di annegare e rischiare di non tornare più a galla.

Da quel monento avrei dovuto stare attento, altrimenti avrei rischiato di essere risucchiato dal suo abisso.


 

Angolino autrice (in mega ritardo):

Buonsalve :3 eccomi finalmente con la seconda parte del capitolo :)

Ringrazio tutti voi che seguite la storia :3

Cooooomunque piaciuto il nostro Luchino "in crisi"? 🙈😂

A presto (speriamo) con il capitolo 16 😍

FreDrachen

 

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Capitolo 21
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16


Avevo passato la notte a girarmi nel letto alla ricerca di una qualche soluzione sui miei pensieri, ma il risultato era stato immaginarmi sdraiato su un letto tra le coperte sgualcite e al mio fianco un Akira bellissimo e in tutta la sua nudità, sogni che mi accompagnavano a un risveglio pieno d'imbarazzo ai limiti dell'indecenza, e per giunta, per infierire di più sulla faccenda, alla fine non mi era venuto in mente nulla.

La conseguenza con cui dovevo avere a che fare era una sorta di irritabilità che mi rendeva peggio di un gatto soffiante nei confronti  degli altri esseri umani. Trovarmi preda di sentimenti nuovi e di quel tipo mi terrorizzavano non poco e la mia tecnica di difesa nei loro confronti era irritarmi e a accanirmi sul resto del mondo.

Difatti quel giorno ero pronto a rifarmi gli artigli con chiunque mi avesse rivolto la parola, a parte che con Akira (con lui il mio cervello non poteva essere scontroso) e Roberto con cui dovevo assolutamente confrontarmi.

Oltre che a spremere le meningi per la faccenda sentimenti per Akira avevo fatto qualche ricerca sul mondo dei transgender, scoprendo un po' di cose. Per Roberto doveva essere staro difficile vivere con se stesso per tutti questi anni.

Non appena arrivati a scuola, in netto anticipo (avevo spronato mia madre a fare in fretta), mi ero avvicinato a lui con fare deciso e con l'intento di scoprire più cose direttamente dalla fonte. Sotto lo sguardo contrariato di Simone, che mi ricordava uno di quei cani da guardia delle carceri, c'eravamo allontanati dal gruppo alla ricerca di un luogo appartato. Non mi sembrava che Roberto fosse pronto a fare quello che si definiva coming out e io avrei rispettato questo suo volere.

Cominciò a parlare come se da tempo desiderasse farlo con qualcuno che non era della sua cerchia. Come Akira mi parlò della disforia di genere scendendo in dettagli che solo uno che li provava sulla propria pelle era in grado di descrivere.

Dopo che cautamente gli chiesi come si era e sentiva ogni giorno, lui mi sorrise tristemente. «È come essere dilaniati da una forza oscura che smembra la tua anima bramandola pezzo a pezzo. É svegliarsi la mattina sperando di uscire dal tuo corpo per non provare il senso profondo di disgusto nel vederti allo specchio e trovare un completo estraneo che ti fissa a rimando» rispose e in un certo senso pensavo di poter capire quello che provava. Senza le mie gambe anch'io non mi sentivo in pace con me stesso, era come vivere nel corpo spezzato di un estraneo.

E infine passai alla domanda che più mi imbarazzava fare ma che era forse un chiodo fisso.

«Ma se hai un corpo...passami il termine "femminile", come fai a essere così...piatto?»

Roberto anziché mandarmi elegantemente a quel paese per il tatto inesistente che avevo palesato ridacchiò piano, rivelandomi poi il suo segreto.

«Indosso un binder» rispose, manco fosse la cosa più ovvia dell'universo.

Sinceramente mi trovavo nelle stesse condizioni di prima o peggio, ero se possibile ancora più perplesso.

«E di cosa si tratta questo blinder?»

«Binder» mi corresse lui gentilmente. «È molto simile a una canotta aderente che mi permette di appiattire il seno in modo che il petto appaia piatto. Me l'hanno regalato Akira e gli altri. Prima usavo una vecchia cravatta di mio padre ma era abbastanza scomoda».

Questo spiegava il motivo per cui avevo mai intuito nulla. Oltretutto avevo constatato che indossava sempre indumenti larghi e per questo nessuno si soffermava sulla mancanza del classico rigonfiamento del petto tipico delle ragazze.

Ma un attimo! A proposito di rigonfiamento... perché ne era presente uno nelle parti...basse?

Roberto seguì il mio sguardo perplesso e arrossì subito dopo, e non appena me ne resi conto distolsi lo sguardo. Avevo una voglia matta di seppellirmi.

«Indosso un packer. Mi aiuta a simulare il...bè hai capito cosa» tentò di spiegarmi impapinandosi un poco con le parole, il disagio alle stelle. Feci un gesto con la mano per rincuorarlo del fatto che stavolta avevo capito.

Parlammo ancora un poco, non volevo lasciarlo nell'impaccio più completo e a conti fatti mi sentì abbastanza soddisfatto. Roberto continuava a essere un mezzo enigma ma avevo cominciato a capire un po' di cose.

Infine raggiungemmo gli altri, Capelli Tinti mi fissò con troppa insistenza e in un modo non troppo amichevole ma sinceramente erano cazzi suoi se non apprezzava la mia presenza o non vedeva di buon occhio ilio interagire con quelli che ormai potevo considerare i soli amici che avevo, mentre Akira... Akira aveva un'espressione insolita, persa nel vuoto quasi triste, malinconica. Preoccupato feci per chiedergli il motivo ma prima che potessi spicciare parola tornò ad essere colui che conoscevo, tranquillo e solido come poteva essere un faro per un naufrago in balia delle onde. Vederlo mi dava sempre un senso di determinazione e pace e non andava, non andava proprio. Ero felice di potergli essere amico ma provare altro sarebbe stato pericoloso, per entrambi.

Lui avvertì il mio sguardo e assunse un'espressione che mi parve quasi colpevole che subito dopo virò a una perplessa, tanto da farmi dubitare di aver visto realmente quella precedente

Sul serio, non mi riuscivo a spiegare il suo comportamento. Per quanto stessi in sua compagnia Akira rimaneva sempre e comunque un enigma.

Dopo aver sentito la campanella ci separammo dagli elettronici e raggiungemmo, in ascensore, il nostro piano in silenzio.

«A dopo, Luca-chan» mi salutò per poi avviarsi verso la sua classe.

«Akira» lo chiamai involontariamente a bruciapelo e lui si voltò verso di me con espressione dubbiosa.

«Si?»

Perché l'avevo chiamato? Cosa speravo di ottenere? Mi inumidì le labbra mentre la mia mente era alla disperata ricerca di una scusa.

«Ecco...»

«Ah ecco dov'eri finito. Ti ho cercato da per tutto Akira» mi interruppe una voce, ahimè, famigliare.

Amanda era dall'altra parte del corridoio e si sbracciò in direzione del fidanzato prima di andargli incontro e gettargli la braccia al collo. Gli stampò un fugace bacio sulle labbra che mi riportò alla fredda realtà.

Qualsiasi cosa avessi in mente era del tutto inutile. La verità era proprio di fronte al mio sguardo, nuda e cruda e non avevo alcun diritto di cambiarla.

Dentro di me avvertì, però, crescere un sentimento simile alla gelosia. Volevo essere io al posto di quella bionda, buona solo a parlare di sé e che pareva non tenere in considerazione i sentimenti di Akira. Ero certo che a differenza sua avrei fatto di tutto per renderlo felice, vedere il suo sorriso era la cosa migliore che potesse capitare.

E poi come avevano osato quelle labbra, che parevano pompate con iniezioni di acido ialuronico, toccare le sue...ma che pensieri stavo facendo?

Dovevo andarmene subito. Feci per avanzare verso la mia classe quando Akira catturò il mio sguardo che assunse un'espressione dispiaciuta.

«Luca...»

«Akira, lascialo stare altrimenti rischia di fare tardi a lezione» si inserì lei strusciandogli addosso.

Strinsi involontariamente la presa sui braccioli, altrimenti avrei rischiato di avvicinarmi e fatto il necessario per strozzarla.

«La stessa cosa vale per lui» mi limitai a dire assottigliando gli occhi e incenerendola con lo sguardo. Se il mio sguardo avesse avuto la possibilità di uccidere lei sarebbe, già da tempo, morta stecchita.

«Ma no. Tutti i nostri prof sanno che se è in ritardo è di norma in mia compagnia. È così gentile che, quando può, mi aiuta a portare lo zaino. É troppo pesante per le mie povere spalle» mi rispose assumendo un tono lamentoso e nel sottolineare il suo vantaggio in quel momento avvinghiò il braccio ad Akira dopo aver fatto in modo che lui le prendesse la cartella con l'altra mano.

Stupida approfittatrice!

Gettai un'occhiata ad Akira e lo trovai in preda alla confusione più assoluta.

Lo osservai attentamente quasi a implorarlo di lasciare pace quell'oca e di venire da me. Lui strinse le labbra come a combattere una battaglia interiore.

"Ti prego guardami. Vieni da me. Meriti il meglio" avrei voluto dirgli ma le parole parevano come estranee e non avevano alcuna intenzione di lasciare la mia gola.

Ma con che presunzione potevo affermarlo? Non ero mai stato chissà che tiranno ma di certo con il carattere che mi ritrovavo non ero di certo la persona che qualcuno avrebbe voluto al proprio fianco. Anche Agnese alla fine aveva scelto un altro e questo diceva significare qualcosa.

Come potevo essere così egoista? Pensavo tanto al mio benessere in sua presenza senza tenere conto dei suoi bisogni. In cosa allora ero diverso da Amanda?

Lo tolsi dall'impiccio e manovrai la sedia a rotelle in modo da passargli di fianco.

«Ci vediamo dopo» lo salutai tranquillo, cercando di non far trasparire alcuna emozione dal mio tono di voce.

«Gomen ne*» lo sentì mormorare di tutta risposta, e anziché chiedergli il significato delle sue parole, tirai dritto per la mia strada subito dopo aver vito sul volto della biondina un sorriso trionfale.

Ah ma non era detta l'ultima parola. Dovevo trovare prima o poi un modo per far capire ad Akira la vera natura di vipera di quella ragazza.
Ma prima dovevo sopravvivere alle ore successive.

Mi ritrovai con Akira e gli altri durante il primo intervallo


Mi ritrovai con Akira e gli altri durante il primo intervallo.

Quelle due ore avevo avuto il tema, una delle prove che più detestavo dato che il piú delle volte la prof metteva tracce in cui si dovevano scrivere questioni personali. Della serie ma saranno cazzi miei?

Quella volta, inutile farlo apposta, la seconda traccia, quella più impersonale, trattava dello sport in particolare del calcio. Sembrava quasi una frecciatina velata nei miei confronti. Sarà che con lei facevo il minimo sindacale ma inserire quella traccia era davvero da insensibili.

Ma piuttosto che parlare di me avevo stretto i denti e avevo affrontato l'altro tema con tutta la tenacia e la determinazione a farle vedere che non aveva intaccato i miei sentimenti, con il risultato che avevo finito al pelo delle due ore, fatto che non accadeva mai, dato che di solito non vi mettevo tutto questo impegno.

Akira mi aveva atteso paziente fuori dall'aula, per fortuna della cozza non c'era l'ombra, e insieme avevamo raggiunto gli altri nel cortile. Era inizio dicembre ma per fortuna ancora non faceva quel freddo pungente, per questo mi ero limitato a stringermi nella mia felpa preferita, quella con il logo della mia squadra del cuore.

Gli altri tre stavano parlando del più e del meno, di cose di elettronica a me completamente ignote, e in presenza di Akira attaccarono con altrettanti discorsi strani. Colsi frammenti come "Kaneki", "manga meglio dell'anime", tutti concetti a me ostrogoti.

«Ma che vuole da te quella ragazza?» se ne uscì all'improvviso Capelli Tinti rivolgendosi a me.

Lo osservai senza capire e lui di tutta risposta mi indicò con il mento un punto dietro di me.

Incuriosito mi voltai e mi ritrovai a osservare una figura famigliare.

D'istinto mi rigirai di scatto, tringendo le mani a pugno. Perché faceva finta di interessarsi a me? Non pensava di aver fatto abbastanza?

«Allora chi è?»

«La mia ex» sillabai tra i denti, e subito dopo avvertì passi leggeri che si fermarono a qualche metro di distanza alle mie spalle.

Con tutta la calma di cui disponevo ruotai lentamente la sedia e squadrai con sguardo glaciale Agnese che si stava intrecciando attorno al dito il bordo della felpa ed evitava di incrociare i miei occhi.

Rimanemmo in un silenzio talmente freddo e pesante da fare concorrenza all'aria rarefatta della Siberia. Nel mentre gli altri presenti facevano da contorno interessati da quello che stava per succedere. Mi dispiaceva per loro ma non sarebbe successo nulla. Non avevo voglia di avere a che fare con lei.

«Bè?» l'apostrofai con cipiglio duro tanto da avvertire un leggero sussulto da parte sua.

Alzò lo sguardo e notai che aveva gli occhi lucidi. Se pensava di farmi impietosire di fronte ad Akira e gli altri aveva preso senza dubbio un granchio.

«Volevo solo sapere come stai, sai...per il colpitore» disse impappinandosi un poco come se non fosse sicura di come approcciarmi. Sembrava quasi una domatrice e io il leone pronto a sferrare un attacco da un momento all'altro.
Strinsi le mani sui braccioli, facendo divenire la nocche bianche. Il suo comportamento mi faceva davvero incazzare.

«Com'è che adesso ti interessi tanto di me? Dov'eri quando ero all'ospedale con il mondo che mi era appena crollato addosso? Dov'eri quando effettivamente avevo bisogno di te? Te lo dico io dove. A scoparti Ippolito alle mie spalle. Per cui smettila con questo vittimismo da quattro soldi e lasciami in pace».

Ero staro duro, lo ammettevo ma la verità era che ero incazzato e ferito. Quando mi aveva definitivamente abbandonato per lasciarsi andare tra le braccia di quello che reputavo il mio migliore amico, mi aveva ferito più delle ferite che mi ero procurato durante l'incidente e che mi avevano lasciato cicatrici lungo tutto il corpo. Se davvero avesse tenuto a me non mi avrebbe lasciato solo nel vero momento del bisogno. E invece l'aveva fatto e per quello non l'avrei mai perdonata.

Oltre ad Aki e gli elettronici si erano fermati ad assistere altri ragazzi di altre classi e corsi.

«Bè cazzo avete da guardare?» soffiai e questi si dileguarono di tutta fretta. Anche nelle mie condizioni sembrava che riuscissi a esercitare ancora una qualche sorta di potere sugli altri.

Agnese rimase lì a fissarmi addolorata, sembrava un giunco sottile che al primo colpo di vento rischiava di spezzarsi.

Le mie parole l'avevano intaccata ma non mi sarei scusato. Potevano prendermi per un mostro ma nulla mi avrebbe smosso dalla mia posizione.

«Sei ancora qua?»

Per la miseria quanto era cocciuta? Tanto ne era consapevole che io lo ero ancora di più.

Una lacrima sottile le solcò la guancia, le labbra le tremavano.

«Mi dispiace Lu. Ma non avevo altra scelta» disse prima di voltarsi per potersi allontanare.

La fissai inebetito. Cosa significavano le sue parole?

Dovevo trovare un luogo in cui sbollire la tensione e cercare di capire. Per cui senza dire niente mi staccai dal gruppo e raggiunsi lo stesso luogo in cui avevo parlato con Roberto due ore prima.

Mi presi la testa fra le mani, avevo il timore che scoppiasse da un momento all'altro.

Odiavo Agnese, dovevo odiarla per come si era comportata, eppure vederla così sofferente aveva smosso qualcosa in me, quella parte che non aveva mai smesso di volerle bene. Come quel giorno che c'eravamo messi insieme, e l'avevo avvolta tra le mie braccia quasi a voler assorbire tutto il suo dolore, la stessa cosa volevo fare in quel momento. Ma l'orgoglio era stato più forte, lei meritava di soffrire tanto quanto avevo fatto io. Mi sentì meschino e cattivo, una persona immeritevole.

Non mi accorsi neppure di essermi messo a piangere, non un pianto chiassoso ma di quelli silenziosi caratterizzati dalle lacrime che lentamente impregnano il volto.

«Luca-chan» mi sentì chiamare e il mio corpo si immobilizzò.

Mi voltai parzialmente e mi ritrovai Akira a pochi metri di distanza, sul volto un'espressione preoccupata.

«Luca-chan» ripeté e al sentire il mio nome pronunciato con così tanta dolcezza mi fece sentire ancora più miserabile.

«Vattene Akira. Lasciami sprofondare nella mia autocommiserazione» lo incitai con scarso successo.

Difatti lui mi si avvicinò ancora di più e in barba ai miei tempi di reazione mi abbracciò, accompagnando delicatamente la mia testa a poggiarsi sul suo addome.

«Daijōbudayo shinpaishinaide**» mormorò stringendomi a sé. Volevo chiedergli cosa significasse quello che aveva appena detto ma qualcosa mi bloccò.

Le sue mani emanavano un leggero tepore ed era piacevole quando le sue dita passavano tra i miei capelli in piccole carezze quasi a volermi confortare.

«Sono stato pessimo» mi ritrovai a mormorare e lui strinse un poco la presa.

«Hai un po' esagerato» concordò lui. «Ma la tua reazione è comprensibile».

«Sei troppo buono con me» mormorai più a me stesso che a lui.

«Forse sei te a essere troppo duro con te stesso».

A quelle parole non seppi come replicare e rimanemmo in silenzio. Avevo paura che se avessi di nuovo aperto bocca avrei rovinato il momento, e non era quello che desideravo. Volevo avere al mio fianco Akira, volevo anch'io avvolgerlo tra le mie braccia, per poter essere certo che non fosse un sogno, un miraggio che sarebbe scomparso lasciandomi solo.

Fu in quell'istante che realizzai la direzione che stavano prendendo i miei pensieri e che non si sarebbero accontentati di quello no. C'era ancora un'altra cosa che bramavo ma che di certo non avrei mai ottenuto.

Il mio corpo si irrigidì e Akira se ne accorse subito.

«Luca-chan, va tutto bene?» domandò perplesso ma non avevo risposta.

«Non dovresti essere con la tua Amanda?» domandai invece cercando di riprendere le distanze, il cuore che mi sembrava che sanguinasse.

Lui mi fissò con sguardo triste ma non mi sarei lasciato impietosire.

Di una cosa era certa. Non avrei trascinato anche lui nel baratro verso cui mi conducevano i miei pensieri.
 

*trad dal giapponese: mi dispiace

** trad dal giapponese: É tutto apposto, stai tranquillo
 

Angolino autrice:

Buonsalve!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che l'attesa sia stata ripagata :3

Per il prossimo dovrei fare delle ricerche su una certa cosa... Chi vuole provare a indovinare? 👀

Ringrazio tutti voi che leggete la storia e che aspettate con pazienza i miei aggiornamenti ❤️❤️❤️❤️

Adiós ❤️
FreDrachen

 

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Capitolo 22
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17


Il resto della mattina così come i tre giorni consecutivi passarono rapidamente, con i professori che passarono la maggior parte del loro tempo a fissarmi con tutto l'amore che provavano nei miei confronti, a cui rispondevo con sincere occhiatacce.
Quando finalmente arrivò la fine delle lezioni e della settimana mi sentì non poco meglio.

Uscì dall'edificio cercando di scansare, senza decappottarmi, gli altri ragazzi cercando di allontanarmi dall'edificio prima che mi raggiungesse.

Intravidi l'auto di mia madre e tirai un sospiro di sollievo. Forse l'avevo scampata.

Quell'accenno però di vittoria durò meno di un picosecondo, e si frantumò in una miriade di coriandolini, quando la voce della persona che speravo di evitare raggiunse le mie orecchie.

«Luca-chan» mi salutò tranquillamente Akira mentre mi raggiunse con poche falcate. Non mi sembrava che avesse perso ore di sonno a capire che cos'era successo tra noi qualche giorno prima, così com'era successo al sottoscritto. Beato lui che non si faceva troppi castelli mentali!

E sempre per via di questi pensieri avevo  cercato di evitarlo il più possibile cercando però di non dare l'idea ambigua di odiarlo, cosa senz'altro non vera. A odiarmi ero io che non riuscivo a mettere in ordine i miei pensieri indisciplinati.

«Sei libero oggi pomeriggio?» mi domandò.

Da quando ero tornato a scuola gli incontri con il fisioterapista erano stati spostati al pomeriggio ma solo due volte a settimana e il venerdì non era uno di questi, e questo lui lo sapeva per cui la sua era una domanda retorica. Che cazzo avrei avuto da fare?

Ma per educazione risposi semplicemente negando con la testa.

Lui sfoderò un sorriso. «Perfetto. Vieni ti porto in un bel posticino».

Perché a quelle parole il primo pensiero malpensante fu un letto?

Ecco perché non volevo rimanere da solo con lui. Ero certo che non appena avrei aperto bocca sarei sprofondato nell'imbarazzo.

«C'è mia madre che mi sta aspettando» snocciolai la prima scusa che mi venne in mente, che tanto scusa non era.

Akira non si fece scoraggiare e con la calma che lo contraddistingueva si avvicinò all'auto dove mia madre aspettava con la pazienza di una santa. Li vidi scambiarsi qualche parola, che mia madre accompagnava sempre con un leggero sorriso. La conversazione non durò a lungo e infine Akira si allontanò dall'auto con fare soddisfatto mentre mia madre mi salutò, con aria fin troppo allegra per i miei gusti, prima di ingranare la marcia e allontanarsi.

Maledetta traditrice!

Akira mi raggiunse e si posizionò dietro di me e cominciò a spingermi, una concessione unicamente per lui dato che odiavo sentirmi imponente, verso un'auto blu scura.

«È tua?» domandai incuriosito.

«Per la verità é di mia zia, ma a volte la uso anch'io».

Non sapevo che Akira avesse la patente anche se avrei dovuto aspettarmelo.

Mi fece fermare appena lontano e dopo aver sbloccato le portiere mi aprì quella della postazione accanto al guidatore e mi avvicinai. Dentro era perfettamente pulita e dai sedili grigio scuro che parevano molto comodi.

Mi issai sul sedile e si, in effetti era proprio come me li ero aspettati. L'interno era tenuto con una cura quasi maniacale, da mettermi un tantino a disagio. Era tutto troppo perfetto e ordinato, in netto contrasto con l'entropia a cui cui tendeva normalmente l'universo.

Akira chiuse con gesti puliti e determinati la sedia a rotelle che andò ad adagiare nel bagagliaio.

«Allacciata la cintura?» mi domandò non appena anche lui prese posto come guidatore.

«Si mammina cinese» lo ripresi incrociando le braccia al petto strappandogli una breve risatina. Mi faceva sentire bene a vederlo felice, soprattutto dopo che perché negli ultimi giorni, quando era certo di non essere visto, il suo bellissimo viso si addombrava come se calassero nei suoi occhi delle nubi oscure. Era afflitto da pensieri scuri e non appena provavo a chiederli il motivo ecco che tornava lo stesso Akira di sempre, solare e dolce, tanto da farmi credere di essermi immaginato tutto.

Più cercavo di capirlo più ne uscivo con l'emicrania.

Giudò per un po', e dalle vie che prese dedussi che ci stavamo spostando verso le zone di ponente della città. Con il viso incollato contro il finestrino cercavo di riconoscere quei luoghi ma a parte l'unico centro commerciale degno di questo nome non conoscevo nessun luogo, ma in fondo dovevo aspettarmelo dato che tendenzialmente bazzicavo nelle zone di levante.

Ci fermammo di fronte a un edificio basso, di tre piani color panna dalle ampie finestre. Lo fissai cercando di capire cosa potessero racchiudere quelle quattro mura.

Akira uscì dalla macchina fischiettando un motivetto sconosciuto (si, stava proprio fischiettando) e andò a recuperare la sedia a rotelle per permettermi così di raggiungerlo fuori.
Più cercavo di capire meno accadeva, per cui mi lasciai guidare all'interno da Akira e ci ritrovammo in uno spazio abbastanza ampio e luminoso, così tanto da farmi fastidio agli occhi. A saperlo avrei portato gli occhiali da sole.

Nell'atrio trovammo in tizio messo di tre quarti sulla trentina in camice dai capelli castano chiaro e gli occhi castano scuro nascosti dietro a una montatura sottile di occhiali. Sembrava quasi la versione più giovane e maschile della zia di Akira.

Un momento! Dalla mia posizione non troppo distante lessi, sul cartellino agganciato alla sua tasca, il suo nome: Giovanni Vinciguerra.

Coincidenze? Io non credo.

Akira mi guidò a passo sicuro verso l'uomo che ci attese paziente con un sorriso sulle labbra.

«Aki, alla fine sei riuscito a portarlo» salutò con voce gioviale a cui Akira rispose grattandosi dietro al collo abbastanza imbarazzato.

«Si bè non gli ho detto che lo portavo qui».

Non stavo capendo nulla e per questo chiesi spiegazioni.

Fu l'uomo a rispondermi. «Akira ti ha condotto qui per le protesi. Mi ha accennato il tuo tipo di amputazione e con lui abbiamo cominciato ad analizzare come strutturare al meglio la protesi giusta per te. Oggi dovrei prendere le misure e fare il calco».

A quelle parole ruotai il capo lentamente verso Akira che fissava a terra in preda al disagio. Sembrava quasi che desiderasse che ai suoi piedi si aprisse una voragine che lo risucchiasse.

Lui avvertì il mio sguardo e incrociò lo sguardo, in cui lessi tutta la sincerità legata al suo gesto. Non era per cattiveria o a venir meno ai miei dubbi, bensì il suo scopo era unicamente farmi tornare a camminare. Questo suo prendere così a cuore la mia situazione mi fece sentire meno solo. Non era così che doveva essere, in teoria dovevano essere i genitori a voler il bene del proprio figlio, che abbia sbagliato oppure no. Contro tutto il mondo dovevano essere loro gli alleati su cui contare ma sfortunatamente non ero stato così fortunato da quel punto di vista. Il destino avverso aveva deciso, però, di farmi incrociare lungo il cammino Akira e per me in quel momento era più che sufficiente.
Portai lo sguardo verso l'uomo e sfoderai un debole sorriso.
«Quando cominciamo?»

L'uomo, raggiunto lo studio, si presentò ufficialmente come lo zio di Akira, terzo fratello della famiglia Vinciguerra


L'uomo, raggiunto lo studio, si presentò ufficialmente come lo zio di Akira, terzo fratello della famiglia Vinciguerra. Il quarto mi era stato riferito era andato a lavorare in Alaska e non si era più fatto sentire. Secondo me era morto assiderato.

Lo studio aka luogo di lavoro era una stanza bianca con due tavoli su cui erano poggiati diversi elementi di diverso materiale, dal metallo alla plastica passando per la gomma.

Trattenni l'impulso di toccare i vari oggetti vari e rigirarmeli tra le mani. Il rischio di farli cadere a terra era troppa e non avevo chissà che soldi da parte per risarcire i danni.

«Prego, sistemati su questa poltrona» mi invitò lo zio di Akira e feci come mi aveva detto. Mi issai con la forza delle braccia dalla sedia a rotelle alla poltrona che si mostrò piú comoda del previsto.

«Allora Luca, presumo che chi ti ha operato ti abbia spiegato a grandi linee l'intervento a cui ti hanno sottoposto».

Presunzione sbagliata.

«Per la verità no. Mi sa che hanno ritenuto che fossi troppo stupido per capirli» dissi con tono amareggiato, al che lo zio di Akira si rabbuiò.

«É poco professionale non essere chiari con il paziente. Ognuno ha il diritto di essere informato di quello che gli sta per capitare...»

E se ne andò avanti per cinque minuti consecutivi a infierire contro i medici che non sembravano a parer suo tener conto dei pazienti e della loro leggittimità a sapere a cosa andavano incontro dopo i vari interventi.

Alla fine si calmò, in effetti infierire su qualcuno non è poi così male, e puntò il suo sguardo contro il mio.

«Perdonami ma la poca trasparenza è una delle cose che mal sopporto. Ora cercherò di spiegarti a grandi linee cosa ti hanno fatto. La tua amputazione è di tipo trans tibiale. Il moncone che ne deriva doveva presentare la miglior proporzione possibile tra le porzioni di tessuto molle e osso per fare in modo che, chiunque indossi una protesi, ne ricavi la massima efficienza. La sua lunghezza è determinata, a partire dalla tibia, a 12−15cm di distanza dalla rima articolare del ginocchio, cioè un restringimento articolare tra femore e tibia stessa. Un moncone che presenta queste caratteristiche permette, tramite invasatura, di ripartire il carico anche nella sua parte distale, permettendo un contatto completo con l'invaso» cercò di spiegarmi e andò avanti con altre nozioni tecniche. Ora capivo il motivo per cui i medici non erano scesi nei dettagli. Pur essendo appassionato dall'anatomia, quello che mi aveva detto era puro arabo. Ma non appena constatai che aveva cercato in tutti i modi di essere il più chiaro possibile, annuì piano come a fargli intendere che ero riuscito a seguire il suo discorso.

«Con Akira avevamo pensato di proporti una endoprotesi» continuò al che lo fissai dubbioso.

Stavolta fu Akira a prendere la parola. «Le protesi possono essere classificate in esoprotesi ed endoprotesi, queste ultime vengono utilizzate per sostituire del tutto o in parte un'articolazione che, a causa di patologie degenerative o traumatiche come nel tuo caso, non funziona più in modo adeguato. In pratica con queste protesi ti ricostruiamo un sistema che ti permetterà di tornare a camminare e forse anche a correre e giocare a calcio, anche se non come prima».

Tornare a giocare a calcio sarebbe stato il massimo. Provai a immaginarmi nuovamente a macinare con i piedi l'erba sintetica di un campo da calcio, driblare con i piedi un pallone. Erano visioni troppo belle per essere vere.

«Non accadrà più, e sicuramente non con questo corpo» ribattei indicando con fare sconfitto le mie gambe amputate.

Akira non dovette apprezzare quelle parole perché mi si parò davanti e si poggiò con le mani contro i braccioli della poltrona. «Devi smetterla di dirlo. Non è impossibile e io e mio zio siamo qui per aiutarti».

Stavo per dirgli che non me lo meritavo ma le parole mi morirono in gola dopo aver allacciato lo sguardo intenso di Akira.

Distolsi lo sguardo incapace a reggerlo e mormorai qualche parola di assenso.

Lui soddisfatto si ritirò su permettendomi di tornare a respirare. Il suo profumo era leggero eppure attivò tutti i recettori olfattivi che possedevo, mandandomi in visibilio.

Lo zio di Akira rimase a fissarci per un po' prima di riprendere la sua spiegazione mentre andava a recuperare il gesso con cui avrebbe fatto il calco per quello che aveva definito essere l'invasatura, ossia quella porzione della protesi in cui si sarebbero dovuto adagiare i monconi e su cui si sarebbe poggiato tutto il peso del corpo.

Fu in quel momento che si presentò una situazione imbarazzante.

«Dovresti togliere i pantaloni» disse l'uomo mentre recuperava il materiale di cui aveva bisogno.

Come? Cosa? Ma avevo sentito bene?

Gettai un'occhiata spaesata ad Akira e lo trovai visibilmente in imbarazzo visto il colorito che avevano assunto le sue goti. Allora non mi ero immaginato quelle parole.

«Dovresti semplicemente alzare la stoffa dei pantaloni cosicché possa avvolgerti il moncone» aggiunse l'uomo, non cogliendo l'origine del nostro disagio.

Non avevo mai mostrato i monconi a nessuno, solo chi mi aveva amputato le gambe l'aveva fatto e non per mia volontà, e io stesso faticavo a osservali. Rendevano se possibile ancora più reale la mia condizione e tutto ciò che avevo perso.

Akira notò la mia titubanza perché si affrettò a darmi manforte.

«Non si può fare con sotto i pantaloni?»

«Purtroppo no. Ho bisogno che la misura sia quella corretta e con i pantaloni avrei troppi margini di errore».

Vidi Akira in difficoltà, non volevo che lo fosse per colpa mia.

«Non c'è problema» dissi attirando l'attenzione dei due che si voltarono nella mia direzione. Akira pareva titubante e non proprio convinto dalle mie parole per questo lo rassicurai con un accenno di sorriso.

«È tutto a posto. Sono solo cicatrici» aggiunsi più a me stesso che a loro. In fondo ai pantaloni mia madre aveva cucito una cerniera in modo da permettermi di aprirteli in caso di necessità e di permettere di proteggere il moncone dalle temperature basse. Pur essendo passati alcuni mesi la pelle era ancora piuttosto sensibile e cicatrizzata in modo frastagliato. Toccare la zona mi dava un senso di irrequietezza e estranietà per questo cercavo di farlo il meno possibile.

Aprì le due zip e arrotolai i pantaloni per quanto fosse possibile.

Peccato che i miei sforzi non furono abbastanza perché ancora coprivano una parte di gamba necessaria. Fu così che fui costretto a levarmeli completamente e a rimanere in boxer e felpa.

Nel mentre che mi fasciava il moncone con il gesso e mi illustrava i vari tipi di piedi prostetici e i cari materiali e parti che avrebbero completo le mie future protesi, continuai a mantenere lo sguardo di fronte a me, cercando in tutti i modi di non incrociarlo con Akira, altrimenti avrei rischiato di sprofondare per la vergogna.

Per fortuna non ci mise molto e al suo tanto atteso segno indossai velocemente i pantaloni. Fu in quel momento che guardai con la coda dell'occhio Akira e constatai che teneva il suo sguardo poggiato su di me. Un momento...non è che mi aveva fissato per tutto il tempo?

In quell'istante i suoi occhi incrociarono i miei e fu come un fulmine a ciel sereno, destabilizzandomi come una scossa di terremoto.

Poi lui arrossì, dopo essere stato scoperto, e mosse velocemente le labbra tanto da farmi capire poco o niente la parola che era scivolata fuori dalle sue labbra. Una parola senza dubbio nella sua altra lingua perché, a meno che in italiano non fosse stata aggiunta negli ultimi tempi a mia insaputa, non l'avevo mai sentita.

La mormorai a mia volta per avvertire la sua musicalità e trovai conferma della mia teoria.

Kawaii. Se mi fossi ricordato dopo gli avrei chiesto il significato.

 

 

Angolino autrice:

Buonasera :3
Eccomi finalmente con il capitolo 17 😍
Non mi convince del tutto, però spero vi sia piaciuto :3

Ringrazio tutte/i voi lettrici/lettori che continuate a seguire/leggere la storia😍😍😍

Al prossimo capitolo ❤️

FreDrachen

 

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Capitolo 23
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18


*Capitolo un po' (tanto) triste D: buona lettura*
 

Uscimmo dal centro che ormai il sole stava tramontando.

Ero teso, in fondo stavo andando contro le direttive di mio padre, ma al tempo stesso mi sentivo quasi liberato da un peso. Avevo paura che non fosse altro che un sogno, e che alla fine mi sarei svegliato con l'amaro in bocca.

«Luca-chan, cos'hai?» volle sapere Akira al mio fianco.

Doveva possedere un qualche super potere che gli permetteva di captare i miei pensieri, perché altrimenti non mi spiegavo questa sua capacità a percepire la maggior parte delle cose mi passavano per la testa. Per fortuna non tutti altrimenti si sarebbe potuto inquietare per quelli che facevo su di lui.

«È che sembra troppo bello per essere vero. Ho paura di scoprire che non è altro che una falsità» tentai di spiegarmi e lui annuì comprensivo.

«Credo che sia una cosa normale pensarlo. Ma non ti devi preoccupare. Farò ogni cosa affinché si realizzi e che rimanga tale» dichiarò, e quelle parole scesero come balsamo sul mio cuore.
Ecco perché mi piaceva.

Aspetta...un...attimo... Come amico, senza dubbio come amico, mi affrettai a pensare.

Lui mi spiegò anche avrebbe dovuto metterci almeno una settimana ma essendo un lavoro extra i tempi si sarebbero potuti allungate ma che non dovevo assolutamente preoccuparmi.

«Poi ti devo dare i soldi» dissi e lui mi osservò senza capire.

«Per le protesi» precisai e lui si fece serio.

«Assolutamente no» affermò deciso.

«Ma i componenti sono costosi e poi mi dispiace per tuo zio che perde tempo prezioso...»

«Di quello non ti devi assolutamente preoccupare. Consideralo un regalo in ritardo per il tuo diciottesimo o uno per Natale anticipato».

«Akira, apprezzo il gesto ma sono troppo costose per considerarle solo un regalo» tentai ma dal suo sguardo intuì che non avrebbe ceduto.

«È una cosa che vorrei fare per te, per cui ti prego accettale».

«Non riuscirò a farti cambiare idea, vero?»

Lui incrociò le braccia al petto e fece un sorrisetto.

«Si, non riuscirai» confermò al che alzai gli occhi al cielo per poi sospirare.

«Va bene, sensei cinese testone».

Lui ridacchiò e ci fermammo di fianco alla macchina. Anche in questo caso sembrava irremovibile sulla sua decisione di accompagnarmi a casa e anche stavolta accettai senza lamentele.

Entrambi, però, ci fermammo al sentire un flebile miagolio. Ci fissammo negli occhi prima di muoverci verso la direzione da cui veniva quel debole lamento.

Il primo a colpirci fu l'odore penetrante che colpì violentemente le narici.

«Ma che odore é?» domandai portandomi una manica di fronte al naso per limitare il più possibile l'accesso al naso e salvaguardare un poco i miei poveri recettori olfattivi.

Il volto basso di Akira era nascosto dai suoi ciuffi corvini e quando parlò lo fece con una voce atona con però una leggera sfumatura di rabbia. «Questo è l'odore della morte» disse come se lui lo conoscesse. Ingoiai la curiosità e non gli domandai come facesse a saperlo.

E alla fine ci trovammo davanti a uno spettacolo raccapricciante. C'era una gatta non ancora in stato di decomposizione ma evidentemente morta, così come i quattro che dovevano essere i suoi cuccioli sdraiati al suo fianco come se fossero stati colti dalla morte durante il loro nutrimento. Non mostravano segni di ferite, molto presumibilmente doveva aver mangiato dei bocconi avvelenati, come quelli che alcuni individui, che chiamarli bestie era un insulto per queste ultime, posizionavano in giro e che animali ignari ingerivano andando incontro al loro destino. Se le sostanze usate erano le stesse che caratterizzavano le trappole per le nutrie era ancora più crudele. Quelle sostanze non agivano subito, ma conducevano alla morte l'animale a distanza di ore e quindi lontano dalla posizione in cui l'assumevano. Il solo pensiero che quelle povere bestiole innocenti fossero andati incontro a quella morte per colpa di miei simili mi faceva vergognare di essere un essere umano.

Akira si allontanò di qualche passo, senza dubbio a disagio per questa situazione, ma poi lo vidi setacciare tra le erbacce poco distanti.

«Cosa stai facendo?» domandai incuriosito raggiungendolo.

«Deve esserci qualche superstite. Prima ho sentito un miagolio».

Già, vero! Nella tristezza del momento me l'ero dimenticato.

Non ci vollero molte ricerche, lo intuì quando vidi le spalle di Akira rilassarsi e le sue braccia protendersi in avanti dopo essersi accovacciato.

Non appena si tirò su tra le mani reggeva una palla bianca e arancione, simile a un batuffolo di cotone. Il piccolino miagolava come spaventato e triste, stiracchiando debolmente le zampettine sulle mani di Akira lasciando sottili segni con gli artiglietti.

Lui cominciò a osservarlo e il suo sguardo si perse nel vuoto, come se i suoi pensieri l'avessero sdradicato dalla realtà.

«Akira» lo chiamai, ma lui rimase in quello stato catatonico.

Cazzo se l'avessi perso sarebbe stato la fine. Non avevo la più pallida idea di quello che dovevamo fare.

«Akira!» riprovai e lui dovette intuire una nota di panico nella voce perché si ridestò e riportò lo sguardo su di me. Gli occhi erano lucidi ma nessuna lacrima era scivolata fuori e in essi lessi una tristezza senza pari. Di certo era per quel povero gattino...o no?

Ma non era quello il tempo per indagare.

«Cosa facciamo?» domandai e lui lasciò scivolare via dal suo volto i sentimenti per assumere il suo solito comportamento retto e responsabile, quello che aveva cominciato a renderlo ai miei occhi una roccia indistruttibile.

«Dobbiamo portarlo subito da un veterinario» dichiarò lui ridestato del tutto e affidandomi il gattino.

Lo fissai in difficoltà, non avevo mai avuto a che fare con un gatto da quando da piccolo avevo constatato che ero incompatibile con questa specie dato che tutti quelli che incontravo mi soffiavano contro manco fossi l'anticristo.

Avevo paura di stringerlo troppo con le dita, ma al tempo stesso avevo timore che potesse liberarsi e che cascasse a terra dove avrei avuto difficoltà a recuperarlo. La distanza dallo spappolarlo e rischiare di lasciargli troppe libertà non era poi così tanta. Avvertivo a contatto con la mia pelle il suo cuore che batteva a ritmo accelerato, anche lui era terrorizzato come me. Le mani mi stavano sudando, rinfrescando il suo pelo a chiazze. Cominciai a passare le dita sul suo corpicino cercando in qualche modo di scaldarlo, il tempo purtroppo era quello che era dato che ci trovavamo a dicembre, ma soprattutto per rassicurarlo. Volevo fargli capire che era al sicuro.

«Va tutto bene. Ci siamo noi adesso» gli mormorai e mi sembrò quasi che quel batuffolino avesse capito le mie parole perché si acquietò un poco continuando però a rifarsi sulla mia povera mano con gli artigli con l'aggiunta talvolta dei dentini. Chissà se ai gatti piaceva la carne umana.

Nel mentre Akira avevo estratto il telefono e aveva chiamato lo zio, spiegandogli velocemente l'accaduto, e dopo aver messo giù la chiamata sorrise non verso il gattino ma verso di me. Avvertì le goti tingersi di rosso e distolsi in fretta lo sguardo. Maledetta circolazione  sanguigna.

L'uomo ci raggiunse qualche minuto dopo trafelato.

Gettò inizialmente un'occhiata triste alla gatta e ai cuccioli, e infine sull'unico superstite che si stava pian piano calmando sempre di più. Non sapevo se era una cosa positiva o no.

«Portatelo qui» gli disse passandogli un foglietto su cui era segnata una via e un numero di telefono. «Io rimarrò qui a seppellire queste povere creature».

Akira afferrò velocemente il foglietto e mi spinse in fretta verso la macchina.
Mi aiutò a salire sul mezzo, non usò mezze misure e mi tirò su adagiandomi tra le sue braccia e posandomi subito dopo sul sedile, questo per farmi tenere sempre il gattino, il cui cuore sembrava battere più lentamente mano a mano che l'orologio scandiva lo scorrere inesorabile del tempo, e dopo aver posizionato la sedia a rotelle nel bagagliaio, partì in fretta.

Per fortuna lo studio veterinario non era lontano dalla nostra posizione.

Akira ripeté il procedimento contrario a prima e dopo aver chiuso le portiere dell'auto e dopo avergli affidato il gattino, ci facemmo strada verso l'entrata. Non doveva essere il centro di turno perché le luci all'interno si spensero e la porta si aprì rivelando la figura di una donna di mezza età dallo sguardo stanco che stava armeggiando con la borsa in cerca, quasi senza dubbio delle chiavi.

«Aspettate» la richiamò Akira accelerando il passo, mentre il sottoscritto lo seguì a ruota. La donna portò la sua attenzione prima su di me malgrado fossi il piú distante e da cui distolse quasi subito lo sguardo, più per imbarazzo che altro, e infine si concentró su Akira.

«Mi spiace, come vedi sto chiudendo non essendo il centro di turno».

«La prego. Sta morendo» la implorò Akira ponendo in avanti le mani su cui era adagiato il corpicino del gattino.

La donna tentennò un po', tra l'andarsene in fretta e furia oppure rimanere. Con un sospiro rassegnato riaprì la porta dello studio e ci fece cenno di seguirla.

L'interno era un po' stretto, per questo ebbi qualche difficoltà a muovermi con la sedia a rotelle, ma sinceramente non era la priorità in quel momento.

La donna ci condusse in quella che pareva una saletta d'aspetto e dopo essersi fatta affidare il micino ci invitò ad attendere.

Non appena se ne fu andata Akira si lasciò cadere pesantemente sulla sedia, poggiando la testa contro il muro.
«Pensi che se la caverà?» domandai con un filo di voce, massacrandomi le mani. E se non avessimo fatto in tempo?

Akira si voltò verso di me e poggiò una mano sulle mie stringendole un poco. Il mio corpo cominciò ad andare in cortocircuito e a riscaldarsi un poco. Ma non c'erano finestre da aprire?

«È forte, un vero guerriero come te. Lo si capisce da quanto abbia combattuto per rimanere in vita. Vedrai che la dottoressa lo riuscirà a rimettere in sesto».

Gli risposi con un debole sorriso quasi a ringraziarlo di questo suo tentativo di tirarmi su il morale, ma dentro ero preoccupato, come se stessi morendo dentro. Non avevo mai avuto un animale domestico da quando in seconda elementare avevo dato troppo cibo al pesce rosso che era esploso per aver ingerito più del dovuto. Certo, c'ero rimasto male, non ero un insensibile, ma nulla di paragonabile a quello che avvertivo dentro in quel momento.

Passò quasi mezz'ora prima che la porta dietro cui era sparito il micino si aprisse. Akira si alzò e anch'io restai in attesa. Maledizione, dal volto della donna che aveva appena messo piede nella sala d'attesa non si capiva nulla del destino del gattino.

«Bè?» mi ritrovai a incitarla e lei mi rifilò un'occhiata tagliente per poi rivolgere la sua attenzione su Akira.

Scusa tanto se esisto, eh!

«L'avete salvato per tempo. Ha solo bisogno di riprendersi e prendere peso ma per il resto è fuori pericolo».

Mi lasciai andare sulla sedia, stringendo i braccioli, cercando di allentare la tensione che avevo accumulato.

«Lo terremo in osservazione per qualche giorno, e solo allora potrete venire a prenderlo».

Fu a quelle parole che mi venne in mente la domanda più fondamentale di quel momento.

Aspettai che fossimo usciti dallo studio, dopo aver scambiato alcune parole con la veterinaria, prima di pronunciare la fatidica domanda a voce alta.

«Chi si prenderà cura di lui?»

Akira mi fissò come se anche a a lui fosse sfuggito quel problema fino a quel momento, e di tutta risposta assunse un'espressione triste.

«Io lo farei se non fosse che mia zia è allergica al pelo del gatto. Anzi, spero solo che il solo toccarlo non possa causarle qualche reazione. Quando tornerò a casa dovrò fare molta attenzione».

In effetti era un problema da sottovalutare. Non sapevo quanto fosse grave quest'allergia ma di certo non ci tenevo ad aggravarla. Quella donna pareva adorarmi, e dato che negli ultimi tempi, eccezioni a parte, erano più quelli che mi detestavano non avevo la ben che minima intenzione di abbassare il numero di chi invece sopportava la mia presenza.

«Per mia madre forse non ci dovrebbero essere tanti problemi, anche se é molto succube delle decisioni di mio padre. E in quanto a lui è...» ribattei con fare pensoso, e fermandomi prima di perdermi in chissà che complimenti per il vecchio.

«Posso dire che tuo padre è una persona abbastanza...» attaccó a dire Akira.

«Stronza?» gli venni in aiuto e lui arrossì.

«Io non intendevo...»

Feci un gesto di noncuranza con la mano. Intendeva eccome, la sua faccia diceva assolutamente tutto.

«Ma figurati. So com'è mio padre. Non è una novità» dissi con un tono amaro nella voce, e lui annuì come se capisse quello che provavo.

«Vorrei provare a convincere lei e magari avere così qualche chance che possa tenere il gattino. Per te non ci sarebbero problemi, vero?»

Annuì con un cenno della testa. Avrebbe potuto provare certo, non gliel'avrei vietato, ma non sarebbe stata la conferma definitiva.

«E come pensi di riuscirci?»

Lui si permise un sorrisetto.

«Lei mi adora».

In effetti lo adorava sul serio!

In effetti lo adorava sul serio!

Mi accompagnò a casa con l'intento di chiederle subito del gatto. Lei era venuta ad aprirci e non appena aveva scorto Akira si era persa in un sorriso di gioia. Erano mesi che non la vedevo così. Forse sarei dovuto essere geloso dato che a scatenare quell'emozione era stato Akira, in verità ero solo felice che fosse entrato nella mia vita.

Mia madre lo fece accomodare e lui prontamente si chinò un poco in avanti, un segno giapponese di forma di rispetto.

Si avevo fatto qualche mia ricerca, ma non l'avrei mai ammesso. Mi piaceva chiamarlo sensei Cinese e vedere come il suo corpo reagiva quando non azzeccavo l'altra sua metà di appartenenza. All'inizio avevo avuto difficoltà ma da quando lo conoscevo mi ero messo a cercare diverse nozioni sulla cultura nipponica. Anche se la maggior parte delle cose erano ancora ostrogote, lingua compresa. La strada per la comprensione di quella parte del suo mondo era ancora in salita, una abbastanza ripida, che ero ferramente convinto di sfidare. Un Tremonti non si ferma mai di fronte agli ostacoli!

«Vorrei chiederle se fosse possibile per voi accudire un piccolo gattino» dichiarò Akira.

Lei parve presa in contropiede e notai che si trovava in difficoltà.

«Ecco, non saprei cosa dirti...»

«Ti prego mamma, sono certo che non darà affatto fastidio» intervenni e lei riportò la sua attenzione su di me con espressione perplessa. «Luca, sei coinvolto anche te in questa faccenda?»

Detta così pareva che avessi combinato un danno di proporzioni epiche.

Le raccontai di come avevamo trovato il micino, omettendo il luogo dove eravamo stati fino a poco prima, e della nostra decisione di portarlo prontamente dal veterinario. Al sentire la zona dove si era svolto il tutto il suo volto assunse un'espressione dubbiosa. Che conoscesse l'esistenza dello studio dello zio di Akira?

Cazzo, avrei dovuto pensarci prima.

Preoccupato di essere stato scoperto prima ancora di vedere le protesi finite arrivò Akira in mio soccorso.

L'avrei baciato per il sollievo...in senso metaforico, certo.

«Dopo aver fatto il giro che le avevo accennato di fronte a scuola, si è offerto di accompagnarmi a prendere una cosa da mio zio che lavora in quella zona. Sa, mi serviva per studiare».

Lei parve abboccare quella piccola bugia e per quello mi rilassai un poco sulla sedia.

Mia madre continuò a dialogare con Akira, lodandolo per il suo interesse nello studio e per il tempo che mi dedicava.

La situazione stava diventando parecchio imbarazzante per il sottoscritto.

«Akira andiamo in camera mia, che ne pensi?» mi introdussi nel discorso e per fortuna Akira intuì le mie intenzioni.
Con un altro inchino si congedò e mi seguì verso la mia stanza.

Giunti a destinazione lo feci accomodare sul letto, su cui si sedette cercando di non fare troppa pressione sul materasso. Aveva forse paura di deformarlo?

Dal canto mio scesi dalla sedia a rotelle per posizionarmi comodamente sul lato opposto. Lo studiai attentamente mentre con lo sguardo cercava forse di comprendermi meglio. Lo vidi analizzare i vari poster dei miei idoli calcistici che campeggiavano sulle pareti e sulle ante degli armadi e infine il disordine caotico che regnava. A saperlo avrei messo un po' in ordine. Speravo che tutta quella entropia non lo dissuadesse a smettere di frequentarmi.

«Come pensi di chiamarlo?» lo sentì domandare e quelli mi fece tornare con la mente sulla terra. Da quando lo conoscevo mi facevo davvero troppi castelli mentali.

«Eh?»

«Eddai, un nome dovrà pur averlo. Non puoi chiamarlo semplicemente Gatto. Che tristezza».

«Ma come! E che mi dici del Gatto con gli stivali di Shrek?»

«Che quelli della Dreamworks sono persone tristi a non avergli dato un nome. E poi mi sorprende che tu conosca quel cartone».

«Non sembra ma sono piuttosto colto in materia».

«Quindi anche te hai in lato nerd» disse Akira con un sorrisetto divertito.

«Prova a dirlo in giro e ti negherò il saluto» replicai assumendo il tono più serio di cui ero capace.

Lui si portò una mano sul cuore. «Il tuo segreto sarà ben custodito. E poi non sia mai che si intacchi la tua figura impeccabilmente da tosto».

«Ecco, hai capito tutto» dichiarai soddisfatto.

«E quindi?»

«Cosa?»

«Il nome. Come pensi di chiamarlo?»

Ci pensai un attimo per poi proporre: «Lionel?»

Akira mi fissò senza capire e subito aggiunsi: «Messi». Notando che ancora non capiva continuai: «Giocatore del Barcellona e uno dei più grandi calciatori del secolo».

Oddio era così nerd e scarsamente ferrato nel calcio che quasi mi veniva da piangere.

«Ma dai come fai a non sapere chi è?»

«Gli unici calciatori che conosco sono quelli di Blue Lock, Izuma eleven  e Capitan Tsubasa».

Stavolta fui io a fare la faccia da pesce lesso.

«Per Blue Lock ti posso perdonare dato che é un'opera inedita qui in Italia, e Izuma eleven é troppo sottovalutato e non doppiato, ma dai Capitan Tsubasa no. Ti dicono qualcosa Holly e Benji?»

Sinceramente non sapevo di cosa stesse parlando per cui continuai: «Fernando? Come Maradona».

Altro silenzio.

«Non ti dico Cristiano perchè mi urta sia il nome che il giocatore». E snocciolai altri nomi, tutti accompagnati da una faccia sperduta di Akira.

«E Freddy?» propose infine, dopo una buina mezz'ora di proposte tutte gettate alle ortiche.

Notando la mia faccia perplessa aggiunse: «Come Mercury, il cantante dei Queens».

Non capì come eravamo finiti dal mondo del calcio a quello della musica ma, in effetti, non mi dispiaceva come cantante e come nome trovavo che si addiceva al gattino.

«Mi sa tanto che sarà l'unico nome su cui potremo andare d'accordo» acconsentì.

Assaporai il nome più e più volte con Akira che rideva del mio entusiasmo, e lo stesso feci a mia volta. Mi sentivo un cretino a ripeterlo a pappagallo ma da quanto non ridevo così di gusto? Ma la vera domanda era, l'avevo mai fatto?

«Dovremo andare a prendere insieme tutti gli accessori a cominciare dal collarino. E poi la cuccetta, il portantino...» e mi persi a elencare tutto il necessario per avere cura del piccolo Freddy. Ma quante cose servivano a un gatto? Piú elencavo più percepivo che la lista di cose da comprare sarebbe stata kilometrica. Ma che potevo farci, ero su di giri a poter avere in quella casa quella piccola palla di pelo. Non si sarebbe mai detto ma adoravo alla follia i gatti, anche se il mio animale preferito rimaneva il panda minore.

Mentre mi perdevo nei miei discorsi logorroici Akira continuava a fissarmi, forse chiedendosi il motivo per cui mi dava ancora retta. Ma mi fermai quando lo sentì mormorare la stessa parola che aveva pronunciato nello studio di suo zio. Kawaii.

«Cosa vuol dire?»

Lui si riscosse e assunse un'espressione perplessa.

«Cosa?»

«Quella parola che hai appena pronunciato. Kiwi qualcosa».

Lui di tutta risposta arrossì fino alla radice dei capelli. Ma che accidenti reazione era?

«Nulla. È solo un modo per dire...bè...che sono d'accordo*».

Una parola così corta per dire tutto quello? Bah, non ne ero convinto ma se lo diceva lui chi ero io a contraddirlo? E poi perché mai quella reazione? Dovevo assolutamente indagare. Non me la raccontava giusta.

Il bussare alla mia porta evitò altre domande da parte mia.

Il volto di mia madre fece capolino dal vano della porta.

«Scusatemi se vi interrompo ma è abbastanza tardi». A quelle parole gettai un'occhiata distratta alla sveglia sul comodino, per fortuna non l'avevo sommersa sotto tonnellate di roba, e lessi l'ora.

Cazzarola, era vero!

Akira si alzò dal letto e lo stesso feci io sedendomi sulla sedia a rotelle.

Salutò mia madre con estrema cortesia, era troppo una persona rispettosa, e lo guidai verso la porta di casa e l'aprì permettendo ad Akira di attraversarla.

«Ci sentiamo domani, sempre che sopravviva alla messa a cui i miei, senza dubbio, mi trascineranno».

A quelle parole il bel volto di Akira si oscuró.

«Domani penso di no. Devo fare...una cosa» rispose e il suo tono trasudante una tristezza e un dolore viscerale mi mise in allarme.

«Aki, va tutto ben...»

Non ebbi il tempo di formulare la domanda che lui, dopo un saluto sbrigativo uscì del tutto e fece una rapida corsetta verso la sua auto.
E mi lasciò così, perplesso per la sua reazione.
Che avessi fatto o detto qualcosa di sbagliato?

Era arrivato il momento di chiederglielo, ma più cercavo le parole più la mia convinzione vacillava


Era arrivato il momento di chiederglielo, ma più cercavo le parole più la mia convinzione vacillava. Sicuramente mi avrebbe detto di no, ormai lo conoscevo abbastanza da farmi capire che era una partita persa in partenza.

Lui stava guardando il telegiornale che stava parlando dell'ennesimo caso di femminicidio e lo sentivo borbottare di quanto quel fenomeno fosse diventato mediatico e che se erano successi c'erano sicuramente dei motivi, e sempre secondo lui era colpa della donna. A volte quando lo sentivo parlare in quel modo mi vergognavo di condividere i suoi stessi geni.

Aprì la bocca ma poi cambiai idea ma questo mio gesto non gli passò inosservato.

«Hai qualcosa da dirmi?» mi domandò con uno sguardo che si poteva rivolgere a un verme o a un essere insignificante. Ormai erano quelle le espressioni che mi rivolgeva se mi osservava. La maggior parte delle volte evitava di farlo, e non sapevo se quello era un bene o un male.

«Bè?» mi apostrofò lui irritato.

«Ecco io...nulla papà» risposi. Ma che cazzo di problemi avevo? Che ci voleva a chiedergli una cosa così semplice?

«Alfio, che ne diresti di prendere un gattino?» se ne uscì mia madre, subito dopo, con fare innocente. E infine snocciolò una storia talmente credibile che se non avessi saputo la verità ci sarei caduto come una pera sfatta.
Inventò che la sua amica Patrizia, una del circolo che mia madre frequentava abitualmente, aveva trovato dei gattini e se era interessata ad adottarne uno.

Lui ascoltò distrattamente alzando il volume della tv. «Se questo ti fa felice» rispose semplicemente e la conversazione finì lì.

Mangiai in silenzio e non appena finì mi congedai per tornare in camera mia.

Mia madre mi raggiunse poco dopo, e prima che parlasse l'anticipai.

«Grazie». Una semplice parola che però racchiudeva significati ben profondi. Era non solo per Freddy ma anche per il semplice fatto che per quanto possibile cercava a modo suo di essermi di appoggio, al contrario di mio padre che ormai mi considerava una causa persa.

«Avresti potuto chiederglielo anche te sai?» replicò lei, sorridendo però come se la rendesse felice a farmi un piacere.

«Lui mi odia».

«Tuo padre ti ha e ti vuole sempre bene, solo che ha un modo particolare per dimostrarlo».

«A papà importa solo di se stesso e del suo piccolo mondo egoistico» replicai stirando le labbra in un sorriso amaro.

Mamma mi fissò addolorata. «Oh Luca...».

«Potresti lasciarmi da solo per favore?»

Lei esaudì la mia richiesta e si chiude la porta dietro.

Da solo nella mia stanza mi portai le mani sul volto. Certo il futuro di Freddy era assicurato ma se non fosse stato per mia madre non sarebbe successo. E quello guardo di puro disgusto che mio padre mi aveva rivolto era peggio di una miriade di coltelli, che pungolavano la pelle, straziandola senza pietà.

Era questo che ero diventato per mio padre? Immeritevole di qualsivoglia attenzione e considerazione?

Per Akira non era così. Lui era forse il mio esatto opposto. Non mi meritavo di essere amico di una persona così gentile. Al ricordare il suo volto prima di andarsene, o meglio scappare, recuperai il cellulare che prima distrattamente avevo buttato sulla scrivania per scrivergli.

Con il dito sospeso sulla tastiera mi ritrovai a non sapere che parole usare.

"Ehilà" come saluto pareva troppo allegro e non era l'umore di Akira. Magari avrebbe pensato che lo stessi prendendo in giro e di certo non era questo il mio intento.

Alla fine, dopo una buona mezz'ora a spremermi le meningi, mi ridussi a un semplice:

"Tutto bene?"

Aspettai una sua risposta, fino a mezzanotte passata, che non arrivò mai.
 

*Akira ha mentito sul significato di Kawaii perchè il suo significato avrebbe fatto capire troppe cose a Luca 😂
 

Angolino autrice:

Buonsalve :3

Eccomi con il capitolo 😍 è venuto un bel po' più lungo del normale ma non avevo a cuore dividerlo...per cui spero sia valsa la pensa farvi aspettare un poco di più ❤️
Come vi avevo anticipato è stato in parte triste (povero Freddy😭).

E anche il prossimo non sarà una passeggiata 😱😭

Avrete alcune rivelazioni sul passato di Akira...e con tutto ciò che questo comporta (semicit.😅🙈)

Ringrazio tutti voi che seguite la storia ❤️ mi rendete estremamente felice ❤️

A presto 😍
FreDrachen

 

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Capitolo 24
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19


Capii subito che qualcosa non quadrava.

Avevo questa strana sensazione già il giorno prima, quando avevo scritto ad Akira, in pratica più un monologo lamentoso che una chiacchiera vera e propria.

Mia madre mi aveva trascinato in chiesa, due giorni prima, per la festa dell'Immacolata, ed era stato uno dei momenti più noiosi che mi potessero capitare.

Avevo provato a darmela a gambe ma durante la fuga ero finito contro una tizia che si stava alzando per accodarsi e ricevere l'ostia. L'urto aveva causato una sua caduta e una sua serie di imprecazioni tali per cui si era fiondata subito a confessarsi, mentre il sottoscritto era stato beccato e riportato al suo posto. Per evitare un'ennesima fuga mia madre aveva tenuto la sedia al manico per tutta la durata della funzione.

Dopo un'era che mi era parsa infinita eravamo usciti, per fortuna aveva per un attimo smesso di piovere dato che era dalla mattina presto che veniva giù il diluvio universale, mi era uscito involontariamente un sospiro di sollievo. Sfortunatamente mio padre mi aveva sentito e mi rivolto uno sguardo deluso. Era un cattolico di quelli sulla linea del fanatismo religioso, e per lui il solo fatto che non fossi credente era oggetto di disonore e stronzate simili che mi propinava da quando il primo anno di superiori avevo dichiarato la mia non intenzione a iscrivermi a religione a scuola. Al chiedermi il motivo e alla mia successiva risposta sembrava che in casa fosse scoppiata la Terza Guerra Mondiale. Inutile dire che non mi aveva parlato per settimane intere. Ma aveva continuato a trascinarmi a messa ogni sacrosanta domenica. Secondo me pensava che uno dei motivi per cui mi trovavo in quella situazione era proprio la mia scarsa religiosità, un castigo divino, manco fossimo nel Medioevo.

Avevo scritto ad Akira, forse per trovare un po' di conforto da uno dei pochi che non mi considerava, speravo, un caso umano, ma non mi aveva risposto. Il primo pensiero era stato che magari avesse il telefono scarico e per quello non avesse letto il mio messaggio.

Il giorno dopo avevo ipotizzato che fosse occupato. Non volendo sembrare la classica persona appiccicosa mi ero messo il cuore in pace che mi avrebbe risposto quando ne avesse avuto tempo.

Il lunedì a scuola non l'avevo incrociato, la sua classe era andata a visitare una sorta di museo della chimica collocata un una delle sedi dell'università in cui erano esposti gli strumenti utilizzati nel giurassico, e per questo non avevo dato tanto peso alla cosa.

Ma quando avevo scoperto che era stato assente e che lo era anche quel giorno nella mia mente risuonò un campanello d'allarme.

A ricreazione, dopo due pallosissime ore di matematica, mi ero fiondato fuori dall'edificio e avevo trovato il trio di Nerd a parlare tra loro sottovoce.

Mi avvicinai e il primo a notarmi fu Roberto che mi rivolse un caldo saluto.

«Ciao Luca. Ti vedo piuttosto...ehm...»

«Con le palle girate? Si, quella stronza della prof di matematica continua ad accanirsi su di me e si incazza quando le rispondo correttamente alle sue domande. Ma allora cosa vuole dalla mia vita, mi chiedo».

«Darti un'insufficienza?»

«Per quel che mi riguarda quella si può anche attaccare al tram. Ma non parliamo di quella megera, avete per caso visto Akira?» domandai osservandomi attorno, come se quel gesto lo facesse comparire magicamente di fianco a noi.

«Non lo sapevi? É a casa con la febbre per essere stato sabato sotto la pioggia per ore. Almeno così ci ha riportato sua zia» rispose Roberto e dopo aver pronunciato quelle parole scosse un poco la testa come se non riuscisse a capacitarsi della  scarsa resistenza immunitaria di Akira.

Quella non era affatto un semplice infreddatura, ma un gesto sconsiderato.

Chi cazzo stava sotto il diluvio universale senza manco l'ombrello?

Perché era stato così incosciente?

Che cazzo gli passava per la testa?

Era per caso impazzito?

«Lo so a cosa stai pensando» mi disse Simone alzando il sopracciglio.

«Oh, adesso sai leggere nel pensiero?»

«Ti si legge tutto in faccia. Piuttosto sono sorpreso che pensi a qualcosa che non sia il calcio».

«Simo» lo rimproverò Roberto e mi trattenni dal fargli un applauso. Il diretto interessato fece spallucce e addentò la croissant che si era comprato senz'altro al bar, prima dell'inizio lezione, come spuntino.

«Quindi voi sapete il motivo per cui é stato per ore sotto la pioggia?» domandai sempre più curioso.

«Strano che non te l'abbia rivelato. Non ti reputi suo amico?» si intromise nuovamente Simone con un sorrisetto. Quanto avevo voglia di tirargli un pugno in faccia.

Di nuovo Roberto lo fulminò con lo sguardo prima di rispondere.

«Era l'anniversario della morte di sua madre. Ogni anno si dirige al cimitero per andare a trovarla».

Sua madre. Non me l'aveva mai parlato. Non mi era mai sembrato il classico tipo che gli piace spifferare i suoi affari di famiglia ma di certo non avrei mai pensato a quella situazione.

«Oggi pomeriggio andrò a trovarlo» dichiarai. Lui mi era stato affianco anche in momenti in cui mi sarei meritato di essere buttato giù da un burrone, per questo non sarei stato da meno.

«E come pensi di andarci? Volando? Ti ricordo che Akira vive al terzo piano e a meno che non abbia sviluppato qualche potere negli ultimi tempi non mi sembra che tu abbia qualche possibilità a salire» mi fece notare Simone al che alzai gli occhi al cielo.

No davvero? Non l'avrei mai detto.

«Grazie per questa ovvietà Einstein. Potrei provare a chiedere a...» cominciai a formulare ma le parole mi morirono in gola mano a mano che il pensiero di faceva largo nella mia mente. Già a chi avrei potuto chiedere?

«Ti accompagnamo noi» se ne uscì Roberto tanto da attirare l'attenzione di tutti noi.

«Come? Spero di non aver capito» ribattè Simone scurendosi in volto.

«Tu lo potresti portare in braccio mentre mi occupo della sedia a rotelle» spiegò Roberto come se fosse la cosa più ovvia.

«E perché dovremmo?»

«Perché Luca è nostro amico e ha bisogno del nostro aiuto».

Amico. Vero, avevo passato praticamente quasi tutto il tempo in compagnia con loro oltre che di Akira, ma non pensavo che mi considerassero tale. Avvertì una strana sensazione al petto, come se mi fossi liberato di un peso. Akira me l'aveva detto, non ero solo, anche in quel momento potevo contare su qualcuno. Ma giammai l'avrei ammesso ad alta voce.

Simone bofonchiò qualcosa prima di cedere dato che si trovava in netta minoranza, dato che anche Anonimo (ancora facevo fatica a ricordarmi il suo nome) si trovava d'accordo con Roberto, anche se lui non ci avrebbe accompagnato perché doveva fare da baby sitter alla sorellina di tre anni.

«Ma che sia una cosa veloce. Devo scappare quasi subito agli allenamenti di pallavolo in vista della partita di domenica» accondiscese Simone e Roberto si aprì in un sorriso a trentadue denti.

«Non ti faremo arrivare in ritardo. Comunque anch'io non potrò fermarmi. Ho un lavoretto part time che mi sta permettendo di mettere un po' di soldi da parte per la terapia ormonale che sto portando avanti e, se riesco, anche per i successivi interventi chirurgici».

Già vero, considerandolo naturalmente un ragazzo quasi mi dimenticavo che in realtà fosse transgender. Questi interventi di diversa natura dovevano essere molto costosi e l'impulso di chiedergli se avesse bisogno di qualche cifra era molto forte. Ma da quello che stavo imparando a conoscere non avrebbe mai accettato. Avrei dovuto pensare a un altro modo.

Per quanto riguardava la loro non presenza nel pomeriggio era per certi versi un vero sollievo. Con loro non riuscivo ad aprirmi come facevo con Akira e se fossero stati presenti ero certo che sarei caduto da una nube d'imbarazzo di proporzioni cosmiche.
Mi misi d'accordo con loro che ci saremmo visti all'uscita da scuola per accompagnarmi direttamente da lui.

Mi misi d'accordo con loro che ci saremmo visti all'uscita da scuola per accompagnarmi direttamente da lui

 

Prendemmo un taxi, a spese mie, e ci dirigemmo verso il quartiere in cui abitava Akira.

Nell'auto regnava un profondo silenzio, questo perchè temevo che se avessi aperto bocca mi sarei scontrato con Simone e in quel momento avevo bisogno di lui. Ero certo che se l'avessi provocato avrebbe trovato ogni scusa per farmi rotolare giù dalle scale e farmi rompere le ossa del collo. In quanto a Roberto osservava il mondo al di fuori del finestrino, con lo sguardo perso in chissà che pensieri.

Per fortuna il tragitto non fu poi così lungo. Prima dell'incidente utilizzavo i mezzi pubblici per andare e tornare da scuola e avrei messo un'eternità a confronto di quel quarto d'ora che avevamo in taxi. Se tutto fosse proceduto per il meglio mi sarei spostato in auto, che purtroppo non sarei mai riuscito a guidare.

Pagai il taxista e quando quello sgommò via mi ritrovai ad alzare lo sguardo verso il terrazzo di Akira.
Chissà cosa stava facendo. Per un attimo mi sentì invadente e irrispettoso.
Stavo piombando in casa sua senza un avviso. Magari stavano mangiando oppure svolgendo i programmi che si erano prefissato quel pomeriggio. Magari Akira stava meglio e avrei fatto la figura del pesce lesso a piombare in quel modo.

«Sentite, non so se è una buona idea...» cominciai a dire ma Simone mi bloccò rifilandomi un'occhiataccia.

«Ormai siano qui e non ha senso tirarsi indietro no?»

«Ma se lui non volesse vedermi? Insomma avrebbe tutto il diritto dato che mi presenterò a casa sua così di punto in bianco».

«Akira ci ha chiesto di non andarlo a trovare» se ne uscì Simone. «Ha fatto solo il nome mio, di Rob e di Giac. Ma non il tuo, questo vorrebbe dire una cosa sola. Lui vorrebbe che vada a trovarlo» aggiunse a stento, come se non ci tenesse davvero a pronunciare quelle ultime parole.

A quella rivelazione, che poteva farmi anche prima, anche se avevo capito il motivo per cui non l'aveva fatto (gliel'avrei rinfacciato senza problemi, cosa che attualmente tutto preso dal pensiero di Akira non avrei fatto), avvertì una strana sensazione nel petto.
Akira desiderava vedermi, lo aveva chiesto in modo molto diretto e chi ero io a negarglielo?

Fu questo a convincermi e a darmi coraggio.

Quando arrivò il momento in cui dovevo essere preso in braccio da Simone avvertì un crescente senso di disagio e lo stesso pareva possedere lui.

«Non pensare che per me sia una cosa piacevole».

Ma come? Il solo fatto di essere in mia presenza doveva essere oggetto di felicità.

Roberto richiuse la sedia a rotelle e citofonó all'appartamento di akira.
Fu la zia a rispondere subito e dopo esserci identificati aprì subito il portone.

Il tragitto fu tra i più imbarazzanti in assoluto. Con Akira si c'era stato ma tra le sue braccia mi sentivo meglio, il battito del suo cuore aveva un che di rilassante così come il suo tocco delicato, con Simone, invece, era pieno disagio. Le sue braccia erano troppo larghe, le mani troppo callose e il cuore batteva un po' troppo forte tanto da farmi irritare. Non era Akira, questo sembrava urlare da tutti i pori il mio corpo.

Il supplizio durò poco e con sollievo trovammo la zia di Akira ci stava aspettando con la porta di casa aperta e un sorriso di saluto.

«Siete venuti a trovare Akira, dico bene? Purtroppo oggi non si sente ancora molto bene» annunciò tristemente mentre aiutava Roberto ad aprire la sedia a rotelle.

«S-si è per questo che siamo venuti» risposi in fretta mentre riprendevo possesso della sedia a rotelle.

«È venuto a trovarlo» puntualizzò Simone. «Noi purtroppo dobbiamo scappare, ma verremo più tardi a trovarlo. Noi abbiamo accompagnato solo Luca» ribatté indicando se stesso e Roberto.

La zia di Akira si trattenne ancora un attimo con gli altri due prima che questi si congedassero e mi lasciassero da solo.

«Entra pure, caro» mi invitò al che borbottai un timido grazie. Se mi avesse sentito alcun altro non mi avrebbe riconosciuto. Non ero mai stato timido anzi mi rinfacciavano il più delle volte che ero un tipo a dir poco esageratamente diretto. Ma con Akira e la sua famiglia era diverso, erano gentili con me e per questo non me la sentivo di essere velenoso.

Dalla cucina emerse la figurina della sorellina di Akira, sorridente e allegra da farla sembrare un piccolo raggio di sole. Un raggio fasciato in quello che pareva un pigiama con stampato un qualche personaggio asiatico.

«Onii-san*! Sei venuto a trovarci. Onii-san sarà felice di vederti» esclamò tutta allegra.

Oni che? Maledetta la mia scarsa capacità di comprensione di quella lingua.

Sorrisi cercando di non farle capire quella mia ignoranza e la seguì lungo il corridoio dopo che ella mi ebbe invitato con un mega sorriso e buchetti di dentini appena caduti.

Si fermò di fronte alla porta di Akira e si voltò verso di me.

«Onii-san é molto triste e sta male» disse improvvisamente seria. «Starai con lui?»

Istintivamente allungai la mano e le scompigliai i capelli corvini così simili a quelli di Akira, che mi fecero pensare per un attimo se anche i suoi fossero così morbidi.

Lei brontolò un poco, un qualcosa riguardante il non arruffarglieli, facendomi salire un moto di tenerezza oltre che di divertimento. Ora comprendevo come ci si doveva sentire ad avere una sorella minore.

«Stai tranquilla. Mi prenderò cura di lui».

Sul suo volto si riaprì un sorriso di pura felicità.

«Ne sono sicura» disse per poi andarsene via saltellando.

Rimasi per un attimo a fissare la porta. Di cosa avevo paura? Era di Akira che si trattava e in quel momento stava soffrendo.

Con questa consapevolezza presi coraggio ed entrai.

Lo trovai steso a letto, avvolto tra le coperte che lo proteggevano come un bozzolo. Le tende erano tirate come se la luce che proveniva da fuori non fosse la benvenuta in quella stanza. Sembrava il covo di un vampiro.

Mi avvicinai e solo quando fui a pochi passi dal letto lui si accorse della mia presenza. Aveva gli occhi iniettati di rosso e sembrava madido di sudore. Pareva uno zombie. Avrei tanto voluto dirgli che non era proprio il periodo giusto per imitare i morti viventi, Halloween era già passato da qualche mese, ma non me la sentì di scherzare in quel momento, non con lui in questo stato pietoso. Uno straccio appallottolato avrebbe avuto senza dubbio condizioni assai migliori.

«Cosa ci fai qui?» domandò con voce flebile, così diversa da quella a cui ero abituato.

«Sono lusingato di tutta questa tua felicità nel vedermi, sai?»

«Scusami non volevo sembrare scortese» ribattè lui sospirando e avvolgendosi ancora di più tra le coperte.

Mi avvicinai ancora un poco fermandomi a pochissima distanza dal letto e lui si spostò un poco per permettermi di sedermi al suo fianco prima di puntare il suo sguardo stralunato su di me. «Chi ti ha aiutato a salire? Mia zia?»

«No, Simone. Mi ha tenuto sai come le principesse un braccio ai principi. É stato piuttosto imbarazzante, anche perché qualcuno avrebbe potuto pensare che noi stessimo...»

Non li vidi neppure muoversi. La sua mano rovente scattò verso il mio polso e mi costrinse a chinarmi verso di lui che si era alzato un poco.

«Non dirlo neanche per scherzo» sembrò quasi supplicarmi con i suoi occhi intensi eppure persi nel delirio causato dall'alta temperatura corporea. Ma per cosa? Avevo detto qualcosa di sbagliato?

L'unica cosa che poteva avergli dato fastidio era...bah, perchè mai avrebbe dovuto quella che doveva essere una battuta innocua per cercare di farlo stare meglio?

Ma dal suo sguardo capí subito che ciò non era e che mi aveva preso sul serio.
Posai la mia mano sulla sua e l'avvolsi delicatamente. Lui ebbe un leggero fremito ma non si scostó dal tocco.

«Scusami. Non volevo...»

«Non fa niente» lo tranquilizzai. Poi andai dritto al punto. «Come stai?»

Akira accennò un debole sorriso. «La febbre è più bassa di stanotte, e spero domani di non averne più. Comunque mi sento meno rimbambito di qualche ora fa in cui sembravo uno zombie».

«Non era questo che intendevo. Cioè non fraintendermi, sono preoccupato anche per la febbre. In verità mi riferivo a quell'altra cosa».

Dovette intuire a cosa mi stessi riferendo perchè il sorriso si trasformò in un'espressione di puro dolore mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Un attimo dopo mi ritrovai la sua testa poggiata contro la mia coscia sinistra, il corpo che pareva attraversato da deboli sussulti. Dalla sensazione umida che provavo sui pantaloni dedussi che stava piangendo.

Mi sentì male ad aver tirato fuori il discorso, maledetta la mia curiosità invadente e la mia boccaccia che parlava anche quando non doveva.

Cercai di rincuorarlo facendo passare le mie dita tra i suoi capelli, morbidi al tatto come avevo sempre immaginato.

«Scusami, sono davvero indelicato oltre che un'emerita testa di ca...».

Lui alzò un poco la testa e mi poggiò l'indice sulla bocca per fermarmi.

«Va tutto bene. Credo che sia giusto che anche tu sappia».

A quelle parole mi sentì ancora di piú uno schifo. «Non sei obbligato».

«Invece lo vorrei fare. Mi fido di te e vorrei che sappia questo lato del mio passato». Prese fiato prima di continuare: «Che cosa sai?»

«Solo che tua madre é...deceduta e che la decorrenza della tua morte era l'altro ieri» risposi e lo sentì annuire lentamente.

«Avevo dodici anni quando è successo. Ricordo ancora il suo viso pallido e i tremiti del suo corpo che cercava di nascondere per non farmi preoccupare». Fece un sospiro. «Era da tempo che manifestava segni di stanchezza, alternava momenti in cui non ricordava ciò che stava facendo a quelli in cui sembrava non riconoscere me e Maiko ancora piccola. Nessuno diede molto peso alla faccenda, al lavoro sembravano stressarla più del dovuto, faceva la commessa di un negozio d'abbigliamento e a volte si trovava a che fare con clienti tutt'altro che semplici da gestire, finché non venne colta da un ictus. Fu allora che, dopo averle fatto una serie di analisi, le diagnosticarono un tumore maligno al cervello che a detta dei medici colpiva maggiormente gli uomini, ma che invece lei aveva sviluppato. Era a uno stadio avanzato. Inutile dire che fummo tutti shockati da questa notizia. Era l'otto novembre. Anche se c'erano poche possibilità le cominciarono la chemioterapia in attesa di un'operazione al cervello, disperata ma in cui avrebbero provato a rimuovere la massa tumorale».

Il giorno in cui non si era presentato facendomi andare a scuola senza motivo. In quel momento mi ero incazzato per non avermi avvisato, ero ancora in conflitto con la sua presenza, ma al sentire la motivazione mi sentì un insensibile.

«La prospettiva di vita se colpiti da questo tipo di tumore é di qualche mese, ma mia madre continuò diligentemente con la sua terapia, speranzosa di poterci stare accanto. Finchè esattamente un mese dopo non la sottoposero a questo intervento chirurgico. Qualcosa andò storto perchè subito entrò in coma. Mio padre non riuscì a convivere con le condizioni di mia madre, certo che se anche si fosse ripresa non sarebbe più stata la stessa, e che le sarebbe rimasta pochissimo tempo ancora da vivere, per questo, contro ogni previsone dei medici, si decise a trasferire mia madre in Svizzera per sottoporla all'eutanasia» dichiarò e a quelle parole rimasi raggelato. Non mi aspettavo di certo così tanto dolore celato dai suoi occhi ossidiana, se non si fosse deciso ad aprirsi sarei rimasto all'oscuro di tutto.**

«Akira...» cominciai a dire in un maldestro tentativo di rincuorarlo ma lui continuò.

«Non le sono stato vicino come dovevo. Quando lei tornava dal ciclo di chemioterapia si rinchiudeva in bagno scossa dai conati di vomito e anziché esserle d'aiuto mi rifugiavo un un'altra stanza, timoroso e a tratti disgustato di quello che stava diventando» continuò con voce rotta.

Infine alzò lo sguardo su di me, gli occhi arrossati e gonfi di lacrime. «È successo tutto così in fretta che non le sono riuscito a dire quanto le volessi bene. Non sono riuscito a dirle addio».

Non mi trattenni più e l'istinto vinse su tutto. Lo invitai a mettersi seduto per riuscire a stringerlo tra le braccia. Lui si lasciò andare in un pianto liberatorio, il viso premuto contro la felpa.

«Non devi sentirti in colpa Aki. Sono certo che tua mamma sapeva che le volevi bene e che tutto quello che stava succedendo era una situazione troppo grande per te. Eri ancora piccolo, dodici anni! A quell'età ancora non si capisce se si è ancora bambini o già grandi. È l'età in cui si è ancora confusi e che non si sa ancora cosa farsene della propria vita. É un momento caotico in cui l'ultimo pensiero dovrebbe essere la morte, a meno che non si abbiano tendenze suicide, ma non mi sembra il tuo caso».

Sentì Akira sospirare. «Ti sembrerò davvero patetico a continuare a pensarci anche a distanza di anni, vero?»

«Niente affatto. Ti rende solo umano. Dato che tenevi a lei é normale che ne senti la mancanza».

Akira si scostò dal mio tocco e si passò una mano sugli occhi. «Grazie Luca-chan. Adesso mi sento meglio» disse accennando un debole sorriso.

Avvertivo che le lacrime erano state assorbite dal tessuto della felpa ed erano permeate anche alla maglia a contatto con la pelle ma se era per rivedere il sorriso di Akira avrei fatto il bagno nelle sue lacrime.

«Domani tornerai a scuola?» domandai e lui distolse lo sguardo.

«Se mi passa la febbre...forse» cominciò a balbettare, forse vergognandosi del gesto sconsiderato che aveva compiuto e che l'aveva costretto a quella situazione.

«Ci conto. La tua assenza si è fatta sentire, sai?»

Lui mi fissò con sguardo stralunato. Che avevo detto di tanto strano?

«Ti...sono mancato?»

Alzai gli occhi al cielo esasperato da tanta ingenuità. «Ma certo! È scientificamente provato che la giornata non è perfetta se non si passa un certo lasso di tempo in compagnia del proprio sensei Cinese» ribattei e lui si lasciò scappare una breve risata, dopo avermi corretto , come a suo solito, sull'aggettivo "cinese".

«Mi rincuora saperlo» disse con lo sguardo puntato sul pavimento.

A quelle parole il mio cuore perse un battito. Il suo profilo era armonioso e mi piaceva come alcune ciocche si adagiassero sul collo diafano. Alzai una mano per poter toccare quelle ciocche, magari arricciarmele attorno al dito ma quasi subito ripresi il controllo delle mie azioni.

Cosa stavo per fare?

Per sfortuna Akira mi rivolse uno sguardo incuriosito subito però sostituito da uno sperduto. Ecco, lo avevo inquietato, non esattamente il mio intento.

Fu la suoneria del mio telefono a salvarmi da quella situazione imbarazzante.

Era un numero sconosciuto ma risposi comunque. Tutto per riportare su altro l'attenzione di entrambi.

«Pronto?»

«Ohi, stiamo salendo per accompagnarti a casa. Fatti trovare pronto» mi giunse all'orecchio la voce scocciata di Capelli Tinti. In sottofondo avvertì quella di Roberto che lo stava riprendendo per la sua mancanza di gentilezza.

Buttai giù la chiamata e in effetti constatai che si era fatto tardi.

«Dovrei andare. Cap...cioè Simone e Roberto sono venuti per accompagnarmi a casa» dichiarai, dentro di me la voglia di trattenermi era forte, ma dopo quello che stavo per fare era la scusa buona per evitare altro imbarazzo.

«Ah. Ecco, potresti salutarli da parte mia?»

«Sicuro? Pensavo che dato che non volevi vederli fossi arrabbiato con loro o una cosa simile».

«Niente affatto. È solo che...mi vergognavo a farmi vedere in questo stato pietoso».

«Aki, ti assicuro che sono solo preoccupati per te e che il loro ultimo pensiero sia giudicato. Tengono a te».

"Così come me" mi ritrovai a terminare il pensiero nella mia mente.

Lui ne parve sollevato e si risistemò sotto le coperte mentre mi risistemavo sopra la sedia a rotelle.

«Arigato*** Luca-chan» mormorò prima di chiudere gli occhi.

Stavolta non mi trattenni e gli accarezzai i capelli corvini. Lui non si mosse forse già piombato nel mondo dei sogni.

E forse era meglio, così non avrei dovuto spiegargli il mio gesto tettato unicamente dall'istinto.

Uscì dalla stanza in silenzio e mi mossi verso il soggiorno dove trovai già Roberto e simone ad attendermi.

Non considerai le lagne di Simone sulla mia lentezza e salutai la zia di Akira che mi sorrise, un sorriso strano che non capì fino in fondo. Sembrava racchiudere tristezza e speranza tutta in una volta.

La famiglia Vinciguerra era davvero costituita da elementi enigmatici.
 

Dal giapponese: fratellone
*** Dal giapponese: Grazie
** Non sono un medico, e per questo ho cercato informazioni per cercare di scrivere cose corrette. Se ciò non è avvenuto mi scuso anticipatamente 🙏🏼
 

Angolino autrice (non perduta...ma sommersa dal lavoro XD):

Buonsalve :3

Ecco il nuovo capitolo, altrettanto triste come quello precedente ma che rivela un tassello del passato di Akira, un dolore che lui cerca di nascondere.

Spero che vi sia piaciuto e che abbia soddisfatto le vostre aspettative 😊

Grazie per la lettura ❤️
FreDrachen

 

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Capitolo 25
*** Capitolo 20 parte 1 ***


Capitolo 20 parte 1


La faccia che si dipinse sul viso non appena mi vide fu esilarante.

Quella mattina mi scrisse presto, aggiornandomi che la febbre era passata e che sarebbe venuto a scuola. Inutile dire che colsi al volo la palla al balzo, non facendomi sfuggire l'occasione di andarlo a prendere a casa per accompagnarlo a scuola.

Mia madre non fu difficile da convincere, era ormai risaputa la sua simpatia nei confronti di Akira.
Secondo me, se ne avesse avuto l'occasione avrebbe fatto volentieri scambio di culla, era abbastanza evidente che Akira sarebbe stato un figlio migliore per i miei genitori.

Preso da questi pensieri tetri arrivammo di fronte al portone di Akira proprio mentre lui stava uscendo, il volto coperto per metà da una spessa sciarpa amaranto e le mani infilate nelle tasche di un cappotto nero che rendeva la sua figura ancora più slanciata.

Abbassai il finestrino e mi sporsi, non tanto da cadere (non si sa mai) e neanche da farmi falciare la testa da in auto in movimento.

«Aki» lo chiamai cercando di sovrastare il rumore delle auto e quello fastidioso dei clacson.

Lui sussultò per la sorpresa e si voltò nella mia direzione.

«Sali che ti diamo un passaggio» lo invitai e lo vidi tentennare, reazione che non riuscivo a comprendere.

«Ti devo forse venire a prendere di peso?» lo minacciai scherzosamente, ben sapendo che se davvero avessi dovuto mettere in pratica la minaccia sarebbe stato alquanto problematico.

Quando pensai di aver perso ogni speranza lui si avviò finalmente verso la nostra auto.

Gli feci spazio e per questo riuscì a scivolare elegantemente al mio fianco.

«Arigato gozaimasu*» disse Akira, e diversamente da quanto mi aspettassi mia madre sorrise.

Quindi ero solo io il povero disagiato che non capiva un accidenti di quella lingua?

«Suvvia non essere così formale. É un piacere, soprattutto dopo quello che stai facendo per Luca» ribatté mia madre, e notando la mia occhiata perplessa riflessa sullo specchietto rise.

«Ho dei contatti legati ai miei clienti in Giappone. So capire alcune frasi ma non so ancora parlarlo bene. Akira, se hai intenzione di fare lezioni private sappi che sono disponibile».

Solo io avevo la malsana idea che mia madre ci stesse provando con lui?

«Se deve fare a qualcuno lezione di qualsiasi cosa, quel qualcuno sarò io» mi lasciai scappare troppo in fretta.
Non appena realizzai ciò che era appena uscito dalle labbra arrossì senza ritegno, lo stesso rossore che si propagò anche sulle goti di Akira che cercò ogni modo possibile per non incrociare il mio sguardo. Avvertì mia madre ridacchiare senza ritegno.

Pensava forse che non la sentissi?

Che insensibile!

Le conversazioni successive furono più brevi e decisamente più innocue rispetto alla precedente.
Arrivammo, per fortuna, a scuola in largo anticipo e incolumi. O meglio apparentemente. Ancora mi rimproveravo di aver messo a disagio Akira, ma più di tutto mi dava a pensare il motivo per cui lui non mi diceva una volta per tutte di smetterla di metterlo in imbarazzo con le mie uscite abbastanza fuori luogo.

Dovevo trovare un modo per filtrare i miei pensieri anzichè mettere semplicemente in moto la lingua.

Per fortuna adocchiai il trio dei Nerd a poca distanza. La perfetta distrazione che mi serviva!

Fu Capelli Tinti a vederci per primo e salutò Akira con contentezza, non considerando minimamante il sottoscritto.

Scusa tanto se esisto, eh!

Akira ringraziò mia madre con estrema gentilezza e rispetto, prima di allungare il passo verso il trio, e lo stesso feci io con meno tatto e voglia.

«Ti sei ripreso per fortuna» sentì dire da Roberto, quello che pareva più contento dei tre a rivedere l'amico.

Akira di tutta risposta fece un debole sorriso e gli scompigliò i capelli in un gesto affettuoso da cui lui si sottrasse bofonchiando un qualcosa legato al non spettinarlo.

«Ma sei pazzo o cosa? Ti rendi conto che se la situazione peggiorava potevi anche andare incontro alla morte?» domandò invece Capelli Tinti poggiandogli le mani sulle spalle e scrollandolo un poco.

A quelle parole avvertì le mie sopracciglia alzarsi di scatto. Wow che sensibilità!
Akira abbassò lo sguardo sconsolato e questo mi fece irritare.

«Ma ti dai una calmata? Un pezzo di granito è più sensibile di te» lo ripresi, stupendomi di questa mia presa di posizione. E lo stesso parve colpire Capelli Tinti, che fu preso in contropiede.

«Luca, va tutto bene. Simo-kun é solo...»

«No, affatto. Sai il motivo per cui l'ha fatto e non di certo per stupidità, la stessa che caratterizza ogni cosa che ti esce di bocca» continuai rivolto verso Simone che vidi stringere la mano a pugno.

«Non prendo lezioni di vita da uno preso solo e unicamente da se stesso. Perchè in fondo è questo che sei. Adesso ti atteggi da grande difensore di chi é più..."debole" di te. Ma la verità é questa. Fai così solo perché altrimenti saresti solo» ribattè a tono. «Lo ha capito la tua ragazza, il tuo ex migliore amico e tutti gli altri che ti venivano dietro come cagnolini. E alla fine lo capirà anche Akira».

Ma chi cazzo si credeva di essere a sparare sentenze?

«Almeno ero qualcuno. Tu al mio posto potresti dire lo stesso? Non è che in verità non sei altro che geloso di quello che ero?» risposi a tono, evidentemente irritato.

Akira e gli altri cercarono di calmarci ma non riuscirono nel loro intento. Finalmente Simone esprimeva i suoi sentimenti senza il vincolo di cercare di sopportarmi. E di certo non gli avrei permesso di farmi abbassare la testa. Se la stava prendendo con uno dalla testa più dura della sua. Eravamo entrambi dello stesso segno zodiacale, il Leone, e il dividere il proprie amicizie ci veniva troppo stretto. Uno dei due se ne sarebbe dovuto andare e di certo non sarei stato io, non se questo avrebbe significato rinunciare ad Akira.

Questo mio insolito attaccamanto mi spaesava ma era ciò che in quel momento mi faceva sentire più vivo.

Le mie ultime parole andarono a segno perchè lo vidi sussultare. Si mosse tanto veloce da lasciare spiazzati gli altri. Un attimo dopo avvertì la sua mano a pugno entrare in collisione con il mio zigomo destro.

D'istinto mi mossi in avanti e gliene diedi uno all'altezza dell'addome, visto che il viso era fuori dalla mia portata e provai un po' di soddisfazione nel sentirlo emettere un mugolio di dolore.

Sentivo pulsare il punto in cui mi aveva colpito ma mi faceva sentire bene, mi rendevo davvero conto di essere vivo e non rotto, guasto. Era in pensiero masochistico ma era meglio di niente.

«Come faccio a essere geloso di un qualcuno così privo di sentimenti da sembrare un automa?» mi sputò addosso debolmente, il mio colpo doveva essere andato a buon segno.

Feci per rispondergli a tono quando sentì la voce stridula della mia docente di matematica. Che goduria sentirla di primo mattino.

«Tremonti e il tuo...amico. In presidenza!» ci ordinò con il volto paonazzo. Doveva aver assistito al nostro diverbio, e la stessa cosa doveva aver fatto quasi tutta la scuola perchè me li ritrovai tutti attorno a osservarci con malsana attenzione,  manco avessero assistito a una corrida. E, di certo, non ero io il toro.

Di malavoglia seguì la megera e lo stesso fece in modo seccato Simone. Era colpa del suo carattere di merda che si ritrovava ad averci fatti finire in quella situazione. Un carattere troppo simile al mio, ma non lo avrei mai ammesso a me stesso.

Akira cercò di intervenire in nostra difesa ma lo bloccai con un cenno del capo. Non volevo che venisse coinvolto più del dovuto in questa storia.
Anche se il vero motivo era che non ero certo che tra me e Capelli Tinti avrebbe preso le mie difese. Egoisticamante avevo paura della sua scelta. Preferivo rimanere con il beneficio del dubbio. Perché se davvero avesse scelto Simone avrebbe avuto ragione lui. Sarei stato completamente solo.

L'arpia ci guidò fino all'ufficio in presidenza, mi ricordavo il tragitto che avevo fatto a suo tempo in compagnia di mia madre, il luogo dove mi era stato annunciato il tutoraggio in compagnia di Akira. Potevo quasi vedere l'ombra del vecchio me stesso che con rabbia e irritazione non riusciva a comprendere quanto bene gli avrebbe fatto.

Certo, non mi consideravo del tutto perfetto, ma un netto miglioramento lo intravvedevo. Ma per essere del tutto una brava persona il cammino era ancora lungo e in cima a una vertigginosa salita.

Non appena entrammo nella stanza Simone si appolaiò prontamente su una delle poltrone di fronte alla scrivania, mentre io, invece, parcheggiai di fianco, l'adrenalina che ancora cirvolava nel corpo e che mi rendeva sensibile agli stimoli, a cominciare dalla sua vicinanza.

Il preside era già presente nella stanza e, dopo aver ultimato ciò che stava facendo, ci osservò con cipiglio severo come se l'avessimo deluso.

«Di tutto quello che poteva succedere non mi sarei mai aspettato un simile comportamento da parte tua Abruzzo».

Guardai di sottecchi Capelli Tinti che teneva le labbra serrate. Non conoscevo il suo cognome ma mai mi sarei aspettato quello. Mi immaginavo più un qualcosa tipo: "RompiamolepalleaLuca".

«Avrai senza dubbio cominciato a capire che picchiare un disabile non è corretto» continuò l'uomo togliendosi gli occhiali.

Eh? Era questo che mi vedeva? Una creatura incapace, a parer suo, di difendersi?

Se avesse fatto altre allusioni di quel tipo era meglio che mi stesse lontano altrimenti gli avrei tirato un pugno nelle parti dove non dovrebbe battere il sole. Allora si che avrebbe capito quanto ero "debole".

«In quanto a te Tremonti non mi aspettavo che ti riabituassi così in fretta alla quotidianità scolastica a tal punto da dare problemi».

Alzai le sopracciglia. Detto così mi faceva passare per uno che prima andava in giro a tiranneggiare sulla gente. Non avevo mai picchiato nessuno a meno che non fosse stato per legittima difesa ed era successo si e no tre volte. Di solito prediligevo lo scontro verbale, mi sentivo più a mio agio e sciolto. E poi se fossi tornato a casa pieno di lividi mio padre non mi avrebbe fatto uscire di casa se non per andare a scuola, accompagnato sotto stretta sorveglianza, e agli allenamenti. Ne ero certo perché era successo e da quel giorno avevo smesso di fare a botte. A ripensare a quei momenti mi sembrò che fossero passati secoli, pareva un barlume lontano ormai irraggiungibile.

Ma anche in questo caso era stato legittima difesa e per questo mi permisi di sottolinearlo.

Il preside scosse la testa.

«Anche se fosse, Tremonti, dovevi avvisare un docente, specie se ci sono questi fenomeni di bullismo nei tuoi confronti».

Aspetta che?

Anche Simone lo fissò con sguardo sconvolto.

«Ma io non...».

«Abruzzo, più testimoni vi hanno visto, passatemi il termine, "discutere" in più di un occasione. Non mi sembra alquanto corretto farlo con chi è nelle sue condizioni».

A quelle parole avvertì un moto di stizza. Mi trattava come se fossi un oggetto delicato, ma la verità tutt'altra. Nessuno andava considerato in quel modo, tutti avevamo la nostra forza, solo che alcuni la lasciavano celata dentro di sé.

«Sono perfettamente in grado di difendermi da solo» borbottai seccato incrociando le braccia al petto.

Lui capì in parte la sua gaffe perchè con un cenno della mano cercò di minimizzare l'accaduto.

«Non lo metto in dubbio, ma non posso passare sopra su comportamanti simili».

«Che si tratta solo di discussioni, nulla più. Oggi sono stato io a provocarlo. Se ha reagito é solo per colpa delle mie parole. Presumo che gliel'abbiano riferito quanto solo abile a irritare il prossimo. Simone aveva tutti i suoi diritti di colpirmi».

Con la coda dell'occhio lo vidi fissarmi con espressione sorpresa. E pure io lo ero dentro di me. Malgrado mi stesse il più delle volte sul cazzo stavo prendendo le sue difese. Sarebbe stato facile affossarlo e metterlo così contro Akira e gli altri, ma non sarebbe stato corretto.

Scontri verbali con il sottoscritto a parte, era una brava persona che non meritava alcuna punizione, in particolar modo se non aveva fatto nulla di quello per cui veniva incolpato.

Ripetei il mio discorso mentale al preside e vidi che la sua convinzione stava via via vacillando. Se non fosse che era il lavoro di mio padre, e non avrei mai seguito le sue orme, avrei avuto un ottimo futuro come avvocato.

Fu così che messo alle strette dai miei discorsi cedette e permise a me e Simone di lasciare la stanza a condizione che non si sarebbero più ripetuti episodi simili.

Uscimmo in silenzio dalla stanza e con altrettanto gelo ci avviammo verso l'ascensore e le scale di fianco.

Pigiai il tasto per richiamare l'ascensore e simobe rimase al mio fianco.

Ci fissammo infine negli occhi come a sfidarci ad abbassare lo sguardo. Bene, non proprio l'inizio più congeniale a una sopportazione futura l'uno dell'altro.

«Scusa per il pugno. E le parole che ti ho rivolto. Sono stato uno stronzo».

«Idem» ribattei e ci fissammo in attimo ancora prima di separarci. Lo seguì con lo sguardo mentre saliva le scale e non appena uscì dalla mia visuale.

Come tregua non era male e chissà quanto tempo sarebbe durata visto la nostra incompatibilità ma per Akira avrei cercato di fare il bravo. Sempre che lui non mi avesse provocato.

L'ascensore arrivò poco dopo (ma da dove cazzo scendeva, dalla parte opposta di un buco nero?) e salì fino al piano della mia classe, dove constatai era ormai lezione inoltrata.



*trad dal giapponese: grazie mille (formale)

 

Angolino dell'autrice (non perduta):

Buonsalve :3

Scusate il ritardo con cui posto, per non farvi attendete ho diviso il capitolo a metà (della seconda metà mi manca la seconda parte...che spero di finire presto)...comunque spero che il capitolo vi sia piaciuto :3

Sto procedendo con calma in modo da gettare le basi di una relazione...non nascondiamocelo...i noi due patatini si metteranno insieme...prima o poi (pure io che sono l'autrice non vedo l'ora che avvenga :3 XD)

Ma secondo voi sto procedendo troppo lenta? I capitoli sono noiosi?

Scusatemi sono abbastanza paranoica forse...è solo che volendo rendere migliore la lettura della storia, avrei bisogno anche del vostro riscontro :)
Spero di non farvi aspettare troppo per la seconda parte (vi ringrazio per non aver abbandonato la lettura per colpa della mia lentezza cronica...grazie ❤)

Sayonara
FreDrachen

 

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Capitolo 26
*** Capitolo 20 parte 2 ***


Capitolo 20 parte 2


Trovai il prof di legislazione sanitaria, materia di cui avrei fatto volentieri a meno dato che di diritto capivo poco o niente, intento a spiegare. Si fermò un attimo giusto per salutarmi educatamente prima di lasciarmi il tempo di raggiungere il mio posto in primo banco e a riprendere la lezione.

Trovai con sorpresa il mio zaino poggiato sulla superficie del banco e istintivamente guardai il caro compagno Quattrocchi in cerca di spiegazione.

«É venuto a portarlo il ragazzo di BA*, quello dai tratti orientali» mi sussurrò di tutta risposta per poi tornare diligentemente alla lezione.

Akira.

Nel trambusto di quello che era successo quasi due ore prima (si, il preside ci aveva trattenuti tanto), il mio ultimo pensiero era stato lo zaino. Per Akira non doveva essere stato così, e il solo pensiero mi scaldò il cuore.

Lo poggiai a terra dopo aver recuperato libro e quaderno. Mi era quasi venuta una strana voglia di capire cosa stesse spiegando il prof, il che era una novità per me.

Passai tutta l'ora a cercare di seguire, io che dopo appena cinque minuti mi distraevo per qualsiasi cosa, con il risultato di arrivare la fine con un mal di testa atroce.

E...quanto cazzo mancava alla fine della giornata?

Non sarei mai sopravvissuto.

Per fortuna dopo la campanella, che decretò la fine al supplizio, c'era la ricreazione, quindici minuti in cui avevo il tempo di ossigenare il cervello per le ore a seguire.

Con un sospiro inclinai la testa all'indietro e chiusi gli occhi cercando di rilassarmi.

«Ma davvero hai fatto a botte con uno?» sentì dire la voce del mio compagno di banco.

Socchiusi l'occhio della sua direzione.

«E con ciò?» domandai. Non avevo voglia di parlare, ma solo di riposare.
Ma lui non capì l'antifona e non demorse.

«Il preside ha preso qualche provvedimento? Ti sospendono? Ti daranno una nota?»

Feci per rispondere quando una voce alle mie spalle mi bloccò.

«Ovvio che no. Ora che é in queste condizioni gliele faranno passare tutte lisce».

Ippolito si mosse e mi si piazzò di fronte.

Sinceramente non avevo questa gran voglia di vedere la sua brutta faccia.

«Sm-smettila di dare fastidio a Luca» tentò di difendermi Quattrocchi, con il risultato di allargare il ghigno sul volto di Ippolito.

«Sai anziché prendere le difese di una causa persa dovresti pensare più a te stesso» rispose, velando una possibile minaccia.

Lui incassò e sembrò quasi accartocciarsi su se stesso come a provare a sparire.

Solo perché mi irritava la sua presenza non significava che dovesse finire nel mirino di Ippolito che, a quanto pareva negli ultimi tempi, si stava divertendo a tormentare il prossimo. E dire che per un periodo era lui finito nel mirino di un gruppo di ragazzi. Una delle risse di cui ero stato protagonista era nata con il loro capo, proprio in sua difesa. Vederlo nei panni di un carnefice mi faceva quasi dubitate della mia scelta di allora di aiutarlo.

«Levati Ippolito. Non sono dell'umore giusto per sentire le cazzate che escono dal tuo culo. Oh pardon, bocca. Sai, non vedo tutta questa differenza» mi intromisi e vidi Quattrocchi osservarmi con ammirazione, ma lo ignorai.

Sarò risultato strano ma il pensiero che più mi balenava in testa era che quello che mi stava di fronte al posto del mio ormai ex migliore amico fosse un sosia alieno. Oppure questo suo cambio repentino di carattere era dovuto a un uso di stupefacenti che gli avevano fritto il cervello. Forse la seconda era la più plausibile.

Ippolito mi sorrise con evidente cattiveria. «Quanta strafottenza da uno che può vedere gli altri solo dal basso».

«Non mi scandalizzo per un insulto dato da chi mi sta sotto. E se stai pensando a un doppio senso di fermo subito. Quello a cui mi riferisco comincia per m- e finisce per -erda».

Lo vidi scurirsi in volto a a chiudere la mano a pugno. E mi avrebbe senza dubbio colpito, ero a conoscenza del suo scarso autocontrollo, se non fosse che si intromise una voce famigliare.

«Luca-chan?»

Ippolito si scansò di lato per vedere Akira appena arrivato, con indosso il camice e gli occhiali da laboratorio. Non avevo ancora avuto la possibilità di vederlo in quelle vesti e dovevo ammettere che il camice gli donava molto. Lui mi osservò con un'espressione perplessa.

«Ho interrotto qualcosa?» domandò, al che Ippolito spostò la sua attenzione da me a lui per poi tornare a guardarmi con un sorriso di scherno.

«Adesso fai comunella con gli effeminati, Luca?»

Quanto desideravo poter alzarmi e rifilargli un mega cazzotto in faccia. Sarebbe stato intimamente soddisfacente. Poteva benissimo prendersela con me, le sue parole finivano sempre con l'entrare da un orecchio e uscire dopo un nanosecondo dall'altro, ma non doveva minimamente osare concentrare la sua attenzione su Akira. Non doveva pensare a lui, men che meno respirare la sua stessa aria. Altrimenti si che sarei diventato talmente violento da guadagnarmi forse anche un'espulsione.

«Damarè kono, baka**» sentì mormorare Akira e dal suo tono dedussi che fosse un insulto. Qualsiasi cosa significasse aveva tutta la mia approvazione.

«Qui non c'è bisogno di gente come te» continuò Ippolito assottigliando gli occhi in due fessure. Si vedeva lontano un miglio che non apprezzava che non capisse ciò che gli era stato detto. «Anziché parlare in una lingua sconosciuta perché non mi affronti come si deve parlandomi in italiano? Ah scusa. Voi asiatici avete seri problemi di R e L» continuò con voce cattiva assottigliandosi gli occhi tirando i lembi esterni degli occhi in una imitazione grottesca di quelli di Akira.

«Smettila Ippolito» lo ripresi e lui mi scoppiò a ridere in faccia continuando la sua stupida messinscena e imitando la parlantina dalla pronuncia errata.

«Sono un povelo asiatico che non sa pallare italiano collettamente» lo sbeffeggiava calcando su ogni singola parola.

Quanto volevo tirargli un pugno. E l'avrei fatto se non fosse che Akira si mosse verso di me e fece la cosa più semplice di tutte ma che per me sarebbe stato impossibile: lo ignorò palesemente, come fosse fatto di aria.

Mi si avvicinò obbligando i lacchè di Ippolito di scansarsi.

«Posso parlarti un attimo?»

Inebetito dall'orgoglio che provavo dopo quella sua presa di posizione mi lasciai guidare fuori dalla classe per raggiungere un posto abbastanza tranquillo e lontano da orecchie indiscrete.

«Ho delle buone notizie» dichiarò senza giri di parole e regalandomi un mega sorriso.

«Di cosa si tratta?» domandai curioso, tutto per cercare di calmarmi dal mio discorso con Ippolito.

«Mio zio ha ultimato le protesi. Ha detto che oggi possiamo già fartele provare, se sei libero ovviamente».

Non sapevo se essere felice oppure no.
Stirai le labbra in un sorriso incerto. «Oggi non dovrei fare nulla e poi sono certo che non appena mio padre saprà di quello che é accaduto mi limiterà le poche uscite».

Dopo averlo aggiornato su ciò che era accaduto in presidenza Akira si morse il labbro.

«Alla fine non è successo niente. Pensi che tuo padre si arrabbierà?»

«Lui basa unicamente il suo pensiero sulle apparenze e i pensieri degli altri. Se questo mina la sua figura di fronte alle altre persone si, è punibile».

«Tuo padre mi sembra un tipo alquanto severo».

«Mio padre è un grandissimo stronzo egoista» ribattei stringendo le mani a pugno.

Lui se ne accorse e mi si parò di fronte inginocchiandosi in modo da potermi vedere negli occhi.

«Se tuo padre si comporta così non sa cosa si perde di te» dichiarò poggiando le sue mani delicate sulle mie che involontariamente rilassai.

Mi permisi un debole sorriso, in fondo Akira stava cercando di tirarmi su di morale. «Non tanto per dire però il camice ti dona» dissi poi liberandomi dal suo tocco.

Figurati se Akira avesse secondi fini dietro a quel gesto, il malpensante ero io che in quel momento era deragliato su pensieri che poco si incastravano con la situazione.

Lui parve apprezzare il complimento. «Vero? Stavamo sintetizzando l'acido acetilsalicilico e non sai che soddisfazione. Mi è venuta una resa pazzesca».

«Solo quello? Io pensavo che stesse per riportare in vita il mostro di Frankenstein» scherzai e lui scoppiò a ridere.

«Quello me lo aspetterei più da voi di biotecnologie sanitarie» ribatté, stando al gioco.

«Penso che possa essere la prossima esperienza che tratteremo. Dovrei controllare dal programma».

Lui ridacchiò portandosi una mano davanti alla bocca, e vederlo così felice era molto meglio rispetto a come lo avevo trovato qualche giorno prima.

«Sono davvero contento» disse poi beccandosi una mia occhiata perplessa.

«Per cosa? Per la nostra idea di ricreare un pazzo ammazza-gente?»

«No, che sei tornato a sorridere. Prima eri abbastanza...okotte iru».

«Eh?» domandai perplesso e lui si accorse di non essersi pronunciato in italiano.

«Scusa, dicevo arrabbiato».

Feci spallucce. «Avere a che fare con Ippolito fa questo effetto» minimizzai. Non dovevo prendermela, ora che avevo scoperto la sua vera natura, ma la parte di me che teneva alla sua amicizia ancora non riusciva a capacitarsene.

Akira annuì con vigore. «Ippolito é un hikushoume oltre che un manuk».

Inclinai la testa fi lato cin fare pensoso.
«Un che?»

«Ah scusa. Ho parlato in giapponese senza pensarci. Dicevo che é uno con uno sguardo idiota e un imbecille» mi spiegò arrossendo un poco.

«Bè mi piace come si dicono nell'altro modo. Danno molto più l'idea del loro significato» dissi, tentando di  toglierlo dall'imbarazzo.

Lui si grattò dietro la testa distogliendo lo sguardo.

«Non volevo sembrare scortese nei confronti di quello che è stato amico tuo per anni, ma penso si meriti tutti gli insulti esistenti».

«Come fai a sapere che é un amico di lunga data?»

Akira riportò lo sguardo su di me e arrossì per l'imbarazzo.

«Ecco...lo sanno tutti a scuola. Eravate molto popolari in tutte le classi».

La gente era davvero troppo pettegola per i miei gusti.

In quel momento suonò la campanella decretando la gine della ricreazione.

«Ci vediamo dopo Luca-chan» mi salutò per raggiungere la sua classe, cosa che feci anch'io. Ma prima di entrare incrociai gli occhi con una Amanda poco furente che veniva dalla direzione della classe di Akira.

Lei sentì il mio sguardo su di sé perché mi salutò mostrandomi il dito medio, gesto non poco signorile, ma per cui non me la presi per niente.

Akira aveva scelto la mia presenza e questo valeva come una vittoria.

A fine giornata trovai Akira ad aspettarmi fuori dalla classe per fare il tragitto insieme fino alla sua macchina

A fine giornata trovai Akira ad aspettarmi fuori dalla classe per fare il tragitto insieme fino alla sua macchina.
Avevamo scelto di andare direttamente da suo zio per evitare le conseguenze a casa del mio gesto. Forse quello sarebbe stato l'ultimo momento in cui avrei visto la luce del sole. Forse ero un po' apocalittico ma era la verità. Con la presunta facciata del genitore perfetto di mio padre non si scherzava.

Salimmo sull'auto, e affondai piacevolmente sul morbido sedile chiudendo un attimo gli occhi rilassato.

«Ti vedo shiawase» mi disse Akira dopo aver preso posto alla guida e messo poi in moto.

Aprì gli occhi e mi voltai verso di lui con faccia perplessa. Di nuovo aveva ceduto alla tentazione di esprimersi in mandarino...cinese...tailandese...ah vabbè quello che era, facevo ancora abbastanza confusione.

Lui notò subito la mia reazione e strinse un attimo le labbra.

«Scusami. Intendevo dire felice» dichiarò con imbarazzo. «A volte mi viene più semplice esprimermi in giapponese. É un riflesso, non riesco a controllarmi».

«Credo che sia normale. Insomma é la tua seconda lingua. È logico che in qualche modo voglia dare sfoggio anche a quella».

Sul volto di Akira si aprì un debole sorriso.

«Il problema è che mi sento italiano e per nulla giapponese. Se dovessi andare ad abitare lì rischierei di impazzire. Capirei la lingua questo è vero, ma le usanze, le loro abitudini mi sono aliene. Per non parlare del cibo. A parte pochissime eccezioni, non mi piace nulla, rischierei di morire di fame, anche al pensiero di non potermi più mangiare una bella farinata fumante» cercò di spiegarsi. Signori, questa era una confessione in piena regola.

«Sono un hafū, un mezzosangue. Dovrei sentirmi appartenente a entrambi i mondi ma non è così. Eppure mischio le due lingue, leggo manga e al tempo stesso mi strafarei di focaccia e non mangerei mai il sushi. Insomma sono la persona più confusa di questo pianeta».

"Non sei l'unico" fui tentato di dire ma preferì aspettare che continuasse. Mi faceva piacere che volesse confidarsi con il sottoscritto.

«A volte mi sembra di sapere tutto mentre a volte non riesco a capire nulla di me. Anche per il fatto che probabilmente suki».

Di nuovo in quella lingua aliena. Non volevo infierire più del dovuto per cui cercai di soffocare la curiosità di chiedergli cosa avesse detto alla fine.

«Tutto questo che hai detto fanno di te Akira» dissi semplicemente. «Sei italiano, giapponese, giappoliano oppure italiapponese, non importa. Tu sei semplicemente te stesso. E anche se non capisco un accidenti di quello che dici quando parli in...giapponese mi fa piacere sentirti perchè è come accettare una parte importante di te» dissi cercando di spiegare al meglio i miei pensieri aggrovigliati.

Akira strinse le labbra un poco la presa sul volante.

«Devi decidere te chi essere veramente. A me non dispiacerebbe se fossi un nerd cinese che evita di mangiare carne cruda» continuai, rendendomi conto subito dopo delle castronerie che mi erano appena uscite di bocca. Ma che razza di discorso era? A prendere per il culo e a irritare la gente ci mettevo anche troppo impegno, invece quando dovevo fare discorsi più seri vaneggiavo a caso? Sicuramente avevo dei sani problemi.

Inaspettatamente, Akira era troppo buono nei confronti delle mie stranezze, stirò le labbra in un sorriso.

«Credo che tu abbia ragione. Insomma è  inutile cercare di essere un qualcuno che non si è per cercare di essere come vogliono gli altri, anche se non é cosí facile» affermò anche se dal suo sguardo non era del tutto sicuro di quello che aveva appena pronunciato.

Perché questo discorso sembrava quasi poter descrivere anche me?

L'essere determinato e la mania di voler stare al centro dell'attenzione era ciò che mi caratterizzava prima dell'incidente. Ma a pensarci bene non era altro che una facciata, ciò che gli altri si apsettavano da uno come me.

Da quando conoscevo Akira ero diventato, senza dubbio, piú saggio.

Poi prese nuovamente la parola. «Sai, è stata mia madre a volermi insegnare il giapponese. Diceva che era solo un modo per avvicinarmi al suo mondo. Ma non mi ha mai fatto pressioni, malgrado la sua famiglia si aspettasse che mi trasformasse in un giapponese fatto e finito».

«Tua mamma era una persona saggia. Mi sarebbe piaciuto conoscerla».

Sul volto di Akira si dipinse un sorriso nostalgico e dolce con una spruzzata però di velata tristezza. «Le saresti senza dubbio piaciuto» disse con tale impeto da lasciarmi spiazzato. Di solito la gente mi detestava. Erano ben pochi quelli che sopportavano la mia presenza. E poi cos'era questa strana atmosfera? Mi sentivo in tale imbarazzo.

«Bè logico che piaccia a tutti un tipo come me» smorzai il momento atteggiandomi come sapevo fare bene, da cretino.

Akira cercò di soffocare una risata, senza successo. «Ma come siamo modesti Luca-chan».

«La modestia é per gli sfigati» puntualizzai con intima convinzione.

Lo vidi alzare gli occhi al cielo ma si vedeva che era divertito.

Finalmente giungemmo a destinazione. Akira mi riaprì la sedia a rotelle, dopo aver parcheggiato, e lo seguì all'interno, trovando suo zio nella stessa idebtica posizione della bolta precedente.

«Aki, Luca. Vi stavo aspettando» ci salutò con calote allargando le braccia.

Come faceva a ricordarsi già il mio nome? Il suo ancora sfuggiva dalla mia memoria.

Lo seguimmo fino al suo studio e per tutto il tragitto cercò di spiegare il suo operato.

«Ho lavorato sul modello che ha disegnato Akira e ho pensato a un tipo di piede articolato pluriassiale per permetterti i movimenti in tutte le direzioni e principalmente costituito da carbonio per conferirgli leggerezza e resistenza...»

E continuò così per circa cinque minuti buoni, perdendosi in spiegazioni che erano puro arabo, per me l'importante era che reggessero il mio peso e che mi permettessero di nuovo di muovermi e perchè no, anche giocare a calcio.

Non appena arrivammo a destinazione fu la prima cosa che vidi.

Nulla mi era parso così bello come le protesi che giacevano sul tavolo. A prima vista parevano leggere e comode ma era ancora presto per intuirlo. Le invasature erano nere, quelli che mi pareva avesse denominato noduli erano di aspetto metallico mentre i piedi erano diversi da quelli soliti che associavo alle protesi. Non erano costituiti da uno in plastica che esteticamente doveva imitare quello vero, bensì era nero e sottile. Avvicinandomi constatai che doveva fornire un buon margine di movimento.

Lo zio di Akira le recuperò e mi aiutò ad assicurarle incastrando i monconi dentro le invasature, e appoggiai le mani sul corrimano della sedia a rotelle per potermi dare la spinta e la forza necessaria per mettermi in posizione eretta. A contatto con la pelle sensibile mi suscitò una sensazione di estraneità, aliena, ma credo dovesse essere normale.

Finalmente era giunto il momento che tanto agognavo da quando avevo avuto l'incidente. Potevo finalmente tornate a camminare. Ero consapevole che per farlo nel modo migliore mi aspettava una riabilitazione con i fiocchi ma che m'importava, sarei tornato a camminare!

Cercai di alzarmi ma...qualcosa mi bloccava.

Per quanto volessi farlo, la mia mente lo urlava silenziosamente alle gambe, queste rimanevano inchiodate alla segia a rotelle, come se la paura viscerale di non farcela le inpedissero di innescare quel semplice movimento.

Ero davvero patetico.

Per tutto il tragitto verso casa rimuginai su quello che era successo

Per tutto il tragitto verso casa rimuginai su quello che era successo. Mi sentivo inutile e incompetente. Perché a un passo dalla meta mi ero bloccato?

Akira cercò in tutti i modi di tirarmi su di morale ma non servì granché. Mi sentivo utile quanto un bonsai nella foresta amazzonica.

Oltretutto dovevo assolutamente elaborare una qualsiasi strategia per non interagire con mio padre. Dopo quello che era successo nello studio dello zio di Akira, non avevo questa gran voglia di avere a che fare anche con la sua delusione.

Potevo entrare di soppiatto a casa e raggiungere la mia stanza a super velocità, stile Flash, senza dargli il tempo materiale di metabolizzare la mia presenza. Anche perché il mantello dell'invisibilità non esisteva, per cui dovevo cercare un metodo umanamente possibile.

Quando rincasai constatai che era ancora presto ed ero certo che fosse ancora al lavoro. Potevo passare dalla cucina e arraffare quanto più cibo possibile per il mio esilio imposto.

Ma non appena entrai nella stanza l'avevo trovato già seduto al suo posto, le mani incrociate sotto il mento e lo sguardo serio.

Mi prepari alla scenata del secolo ma a differenza di quello che mi ero aspettato mio padre non se la prese. Almeno, non così tanto come avevo pensato.

Si limitò a rimproverarmi a suo modo, ossia con un gelo tale da fare invidia all'Antartide, ma nessuno scoppio da guerra.

Forse avrei preferito che si arrabbiasse, mi avrebbe dato segno di tenere ancora a me cone genitore. Invece tutta quella indifferenza calò come un macigno sul mio cuore. Avevo perso completamente mio padre, la figura che per me era una sorta di mito.

Tutto mogio rimasi in cucina, non aveva senso rinchiudermi in camera mia dato che mio padre neanche si degnava di guardarmi, concentrato a pintare gli occhi ovunque fuorché la mia figura come se il solo osservarmi fosse inutile. Ero una continua delusione per lui.

Mia madre arrivò dopo poco e in silenzio preparò la cena che si consumò con la stessa freddezza di questi ultimi mesi. Spilucchiai il cibo nel piatto con la stessa voglia di vivere di uno zombie e con l'umore altrettanto sotto le scarpe mi ritirai a letto, così presto da fare invidia alle suore di clausura.

Mi gettai sul letto in preda allo sconforto.
Non mi ero mai sentito così inutile come quel momento.

 

* Sigla che sta per biotecnologie ambientali

** trad dal giapponese: Taci, idiota
 

Angolino autrice:

Buon anno wattpadiani :D

Spero che il capitolo vi sia piaciuto :3
Luca è un po' demoralizzato ma non sarebbe il nostro Luca se dopo non s'impunterà con la sua testardaggine XD (potrebbe essere uno spoiler...o forse no...si vedrà 🤷🏽‍♀️😂)

Ringrazio tutti voi che continuate a seguire la storia ❤️❤️❤️❤️

Adiòs, al prossimo capitolo :)

FreDrachen

 

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Capitolo 27
*** capitolo 21 ***


Capitolo 21


Mi svegliai con la voce di mia madre tutta esaltata.

Gettai un'occhiata alla sveglia constatando che erano solo le nove del mattino. Da quando non facevo più il tutoraggio con Akira, nei weekend mi svegliavo come minimo a mezzogiorno, per poter recuparare le ore di sonno che perdevo durante la settimana.

Mi stiracchiai e mandai un messaggio di buongiorno ad Akira, dandomi del perfetto idiota. Perché continuavo ad assillarlo quel povero ragazzo? Mica stavamo insieme!

A quel pensiero arrossì. Che idee mi passavano per la testa, per di più di primo mattino?

Urgeva rinfrescarmi le idee. Per questo mi sedetti sulla sedia a rotelle per raggiungere il bagno, ma non prima di aver fatto scivolare il telefono nella tasca della felpa che indossai. Malgrado fosse metà dicembre e ancora autunno faceva abbastanza freddo. Quando avevano intenzione di accendere i caloriferi?

Fu mentre mi sciaquai il volto con l'acqua fredda (manco la neve era così gelida!) che mi arrivò la risposta di Akira.

Ma perché continuava a darmi retta? Dovevano farlo diventare un santo!

Non mi aspettavo, però, che fosse un tipo così mattiniero.

Ovviamente con la scarsa curiosità da pettegolo che mi caratterizzava gli domandai cosa stesse facendo.

Lui di rimando mi mandò una foto dal lavoratorio di microbiologia.

Sorrideva all'obiettivo e indossava il camice che gli stava da dio...cioè gli donava una certa aria da scienziato. Ecco, nulla più.

Per un attimo pensai se fosse impazzito ad andare a scuola a che di sabato ma subito dopo mi ricordai che c'era l'Open day. Doveva avermi accennato il giorno prima qualcosa, ma preso da chissà pensieri profondi come pozzanghere mi era quasi del tutto sfuggito.

"E ti stai divertendo?" scrissi ancora.

"Un po', anche se il nostro obiettivo è rendere più apetibile la scelta della nostra scuola. Sai che ci sarebbe stata bene anche la tua presenza?"

"Seeeh come no. I prof mi adorano così tanro che mi vorrebbero vedere anche di sabato" risposi con sarcasmo. Sinceramente mi immaginavo quasi tutti i miei prof a ballare la macarena per festeggiare la mia non presenza.

"Non essere severo con te stesso. Sono certo che se imparassero a conoscerti veramante cambierebbero senza dubbio idea".

"Sei troppo ottimista".

"Te stesso e il mondo ti sminuiscono, Luca-chan" ribattè e a quelle parole ebbi un tuffo al cuore. La sincerità con cui Akira mi parlava era disarmante e di fronte a queste constatazioni così scritte non sapevo mai come comportarmi. Anche perché se lui ci credeva perchè non dovevo farlo io?

Feci per ringraziarlo quando fui interrotto dal bussare alla porta.

«Luca hai finito in bagno? Vieni che c'è una sorpresa» disse mia madre dalla parte opposta della porta.

"Scusami Aki ma ti devo lasciare. Ci sentiamo dopo" lo salutai e lui mi rispose prontamante con un pollice alzato.

Rimisi il cellulare nella tasca della felpa e uscì dal bagno per dirigermi verso il soggiorno, da cui sentivo provenire la voce di mia madre.

Quando entrai rimasi fermo sull'uscio.
La stanza era disseminata di qualche oggetto destinato ai felini, ma ben poca roba ripetto a quella che avevo elencato mentalmente e ad Akira che pensavo servisse per un gattino.

Mia madre reggeva tutta soddisfatta un portantino rosso e blu (combinazione peggiore non poteva trovarsela?), sul divano erano poggiate invece una lettiera azzurrina, una cesta riempita da un morbido cuscino, qualche giochino di dubbia entità e un collarino anch'esso azzurrino.

«Finalmente sono arrivate le cose che avevo ordinato. Credi che per il gattino possano andare bene?» domandò felice

Non dovevo pensare che mia madre fosse tornata a volermi bene come prima, ma il suo pensare a Freddy mi fece quasi (quasi) salire le lacrime agli occhi.

«Luca, stai...»

Cosa stavo... Mi portai le mani sul volto e me le ritrovai bagnate. Stavo davvero piangendo?

«Mi é finita della polvere negli occhi» m'inventai ben sapendo che lei non ci sarebbe mai cascata per una scusa talmente banale e patetica.

Difatti mi fissò in modo di chi la sa lunga ma non replicò.

Mi annunciò anche che la veterinaria aveva chiamato per poter andare a riprendere Freddy e mi propose di andarci insieme. Era da tanto tempo che non facevo qualcosa con mia madre, tipo...dai tempi della prima media, l'età a cui si pensava di essere troppo grandi per andare in giro con i propri genitori.

Sinceramente avevo nulla da fare ed ero consapevole che ormai sveglio mi sarei annoiato a morte. Di studiare anche no! Era già tanto che facessi quello che mi serviva per non prendere insufficienze. Per questo acconsentì e vidi per la prima volta mia madre sorridere sinceramente, come non accadeva dal mio incidente. Forse io ero quello che aveva perso più di tutti ma anche lei ne aveva risentito.

Per questo feci una colazione veloce, una semplicelkce croissant e una tazza di caffè e mi fiondai in camera a vestire, dato che non avevo questa gran voglia di andare in giro con il mio pigiama blucerchiato. I tifosi della squadra avversaria non avrebbero capito tutto il suo fascino, per questo optai per una maglia bianca, una felpa pesante e pabtalini fi tuta chiusi in fondo, ad avvolgere i monconi. Il tessuto aveva una consistenza del tutto diversa dagli incavi delle protesi...a pensarci mi saliva una certa frustrazione. Perché non mi ero alzato il giorno prima?

Perché non dopo tutte le mie fantasticherie di tornare a camminare?

Perché non dopo la mia insofferenza a state seduto troppo a lungo? A volte stare sulla sedia a rotelle mi faceva male alla parte bassa della schiena, per cui le protesi avrebbero risolto non poche problematiche.

E invece...

«Luca, sei pronto?»

«Si. Arrivo» dissi recuperando ul cellulare, non mi sarebbe servito granché ma mi faceva sentire più tranquillo e raggiunsi mia madre già in attesa dalla porta di casa.

«Sono talmente contenta che possiamo fare qualcosa insieme che mi sembra di sognare» esclamò lei su di giri, e per quanto fossi felice per lei non condividevo poi tutta questa fibrillazione.

Sarebbe stata una luuuunghissima mattinata.

Allo studio veterinario fummo accolti dalla stessa donna a cui avevamo affidato Freddy, difatti, non appena mi vide, mi gettò un'occhiata irritata


Allo studio veterinario fummo accolti dalla stessa donna a cui avevamo affidato Freddy, difatti, non appena mi vide, mi gettò un'occhiata irritata. Non doveva esserle andato giù il mio comportamento ma non era l'unica. Doveva mettersi in coda se voleva riprendermi o insultarmi.

Con mia madre invece cambiò drasticamente approccio, diventando tutta zucchero e miele.

Con estrema gentilezza scomparve nel retro, da cui sentivo provenire versi di vari animali, ricoverati per vari problemi.

La veterinaria tornò quasi subito con Freddy e a stento lo riconobbi.

Il pelo, gli occhi erano gli stessi, per cui era davvero lui, però aveva messo su un po' di peso e sembrava molto più in forma. Il mio piccolo guerriero aveva vinto la sua battaglia e non potevo che esserne fiero.

Me lo feci consegnare mentre mia madre firmava una serie di scartoffie, per i vaccini e le visite periodiche che andavano fatte.

Subito Freddy si accoccolò tra le mie braccia e cominciò a mordicchiarmi le dita, gesto che faceva più il solletico che male.

Mia madre arrivò subito dopo annunciandomi che potevamo tornare a casa, ma prima che raggiungessimo la macchina mia madre cominciò a fare moine a Freddy che pareva apprezzare questo interesse nei suoi confronti.

Che felino ruffiano!

Il tragitto verso casa fu riempito dalle chiacchiere senza sosta di mia madre (era da tempo che non la sentivo parlare così tanto) e da Freddy che cercava di infilarsi nella tasca della felpa, come a volersi proteggere da tutto quel fiume di parole. Quanto mi sarebbe piaciuto farlo io stesso.

Quando finalmente arrivammo a casa il primo istinto fu quello di rintanarmi in camera mia assieme a Freddy, ma realizzai alla fine che fosse meglio che il gattino si ambientasse nella nuova casa.

Per questo tenendolo sempre seduto sulle gambe gli feci fare un rapido giro della casa, con una leggera difficoltà a muovermi tra la mobilia dato che mio padre aveva fatto in modo di lasciare ogni cosa com'era, a volte mi incastravo da qualche parte e le manovre erano tutt'altro che facili. Comunque mi stavo un poco divertendo, mi sentivo troppo un agente immobiliare e sinceramente non ero certo che Freddy mi capisse fino in fondo.

Mi fermai infine in salotto dove mia madre aveva lasciato i vari accessori per lui.

Sul tavolino intravidi il collarino munito di medaglietta e campanella. Era giunto il momento di metterglielo, e inutile dire che fu uno scontro titanico che si concluse con la vittoria del sottoscritto non senza ferite. Quanto cazzo graffiavano le sue unghie?

Per farlo calmare lo poggiai dentro la cuccia, una cesta in vimini con un cuscino imbottito color azzurro, in cui Freddy si acciambellò, continuando a osservarmi come una tigre. Meno male che non lo fosse sul serio altrimenti sarei stato morto stecchito.

Mio padre rincasò in quel momento, era andaro un attimo nel suo studio a recuperare dei fogli per la pratica che stava seguendo, di una tizia che voleva che il marito le lasciasse la casa e i soldi in banca per il suo sostentamento. E già che c'era perchè non si teneva pure le sue mutande? Da che avevo capito lei l'aveva tradito con un collega di quest'ultimo ma dopo che il marito era giunto a conoscenza della tresca si era scoperto che lei era incinta. Da ciò le richieste che avrebbero portato l'uomo sul lastrico e senza un tetto sulla testa.

Mio padre per quanto avesse un carattere di merda, che in parte purtroppo avevo ereditato, era davvero in gamba nel suo lavoro ed ero più che convinto che l'uomo sarebbe stato spacciato.

Transitò in salotto gettando una brevissima occhiata sia a me che a Freddy.

«Ciao papà» lo salutai mentre il gattino alzò la testa, incuriosito dalla nuova presenza.

Lui come mi ero aspettato non mi rispose, ormai dovevo essermi abituato, e si diresse  inizialmente verso la camera da letto, che condivideva con mamma, da cui emerse pochi minuto dopo con la tenuta comoda da casa per dirigersi verso il suo studio.

Fu proprio in quell'istante che Freddy saltò dalla cuccia per sgusciare in camera dei miei genitori.

Feci appena in tempo a vederlo saltare sul letto e...liberare l'intestino dagli...ehm...scarti biologici sulla gamba dei pantaloni del completo da sartoria di mio padre, uno dei tanti che si era fatto confezionare.

Peccato che mio padre ebbe la mia stessa idea e non appena vide lo scempio sui suoi pantaloni il volto gli divenne paonazzo.

«Chi ha defecato sui miei pantaloni?» tuonò abbandonando la sua solita aria seria per sostutuirla da un volto paonazzo e distorto dalla rabbia.

Beh, di certo non ero stato io, gli avrei voluto rispondere per sottolineare l'ovvietà della cosa.

Lo vidi girarsi con fare assassino verso Freddy, che si era spostato sul lato opposto del letto a leccarsi la pelliccia, per poi fare lo stesso con me come se fosse colpa mia se il gatto si fosse comportato in quel modo. Sinceramente, se questo era il modo per farlo tornare finalmente a considerarmi avrei ordinato a Freddy di graffiarli con le unghie.

Mia madre entrò nella stanza in quel momento, sul volto un'epsressione perplessa.

«Cos'è successo?»

Vidi mio padre cercare di calmarsi prima di parlare. «Quel...quel...felino mi ha sporcato i pantaloni da lavoro».

Mia madre si voltò verso di me con espressione affranta.

«Non vorrete mandarlo via spero» mi ritrovai a dire velocemente. Sarebbe stata la volta buona che avrei mandato mio padre a quel paese.

«Non ero del tutto convinto ma dopo questo...quella bestia se ne deve andare» rispose lui riassumendo il suo modo di fare granitico.

«Non possiamo farlo. Non ha nessuno al mondo. Morirà se lo abbandonassimo».

«Se è destino».

«Ne ne frega un cazzo del destino!» ribattei con foga tanto che Freddy si spaventó e andó a rintanarsi sotto il letto. Solo perché aveva la sensibilità di un pezzo di legno non significava che doveva comportarsi così in modo disumano.

Mio padre si rabbuiò.

«Non ti devi assolutamante permettere di usare quel tono con me Luca. Sono tuo padre e mi devi rispetto».

"Lo stesso che riservi a me da dopo l'incidente?", avrei voluto rinfacciargli mentre tra noi si scatenavano nubi e fulmini. Fu mia madre che si frappose a salvare la situazione che sarebbe degenerata un chissà che insulti.

«Diamo a Luca la possibilità di insegnare al gattino alla vita di casa» disse, con una determinazione nella voce che non mi sarei mai aspettato.

Mio padre la fissò un attimo appena prima di sospirare. «E sia. Ma se ciò non accadrà sapete cosa succederà». E a quelle parole lasciò la stanza per rinchiudersi nello studio.

Mia madre sospirò e richiamò Freddy che fece capolino da sotto il letto con fare timoroso. Lei lo prese delicatamante in braccio e me l'appoggiò sulle gambe su cui lui si acciambellò sornione.

«Sarai in grado di farlo Luca. E se avessi bisogno di aiuto io ci sono, lo sai» mi rincuorò mia madre accennando un debole sorriso.

Non mi accorsi delle lacrime fin quando lei non mi si avvicinò e mi avvolse tra le braccia, facendomi poggiare la guancia contro il suo addome.

Per la prima vera volta da dopo l'incidente la sentì vicino.

Per la prima vera volta da dopo l'incidente la sentì vicino


Addestrare un gatto non era per nulla una cosa facile.

Dopo il mio rapido sfogo mi ero fiondato in camera, collegandomi al pc per cercare su internet qualsiasi informazione potesse tornarmi utile.

Se avessi digitato peró  sulla barra di ricerca un qualcosa del tipo: "come convincere il gatto a non fare pipì o altro sui vestiti del proprio padre" di certo non mi sarebbe comparso nulla di utile.

Dopo un paio d'ore di ricerca mi ritrovai con il cervello completamente esaurito.

Mia madre era entrata a un certo punto per portare qualcosa da mangiare a me e Freddy che subito da bravo ruffiano cominciò a farle le fusa, facendolo somigliare a un trattore. Dopo aver riportato i piatti sporchi in cucina, a pranzo finito, mi portò la lettiera e tutti i vari aggeggi che piazzò in un angolo della stanza.

Riempìla lettiera con quella che pareva una strana sabbia dall'odore insolito e subito Freddy andò a curiosare. Peccato che tra la curiosità e l'uso corretto della lettiera c'era di mezzo l'oceano, ma non avrei demorso! Avrei insegnato a Freddy a comportarsi come un perfetto gatto domenstico, o non mi chiamavo Luca Tremonti. Ormai era diventata una questione di principio oltre che una garanzia per Freddy di avere una vita agiata e piena di affetto come meritava.

Le ore passarono abbastanza in fretta con me che cercavo di convincere Freddy a seguire le mie indicazioni e mia madre seduta per terra a distrarlo con uno di quei giochi per cui i gatti inpazzivano. Grazie tante mamma!

Per questo quando suonò il campanello, e lei andò ad aprire, pensai che fosse un regalo dal cielo.

Quando vidi chi fosse l'artefice se avessi avuto le gambe gli sarei andato incontro e l'avrei abbracciato per la troppa commozione.

Aspetta...abbracciato? Davvero avevo pensato questo?

Un abbraccio da amici, si sarebbe stato questo, nulla più, pensai in preda l'imbarazzo.

"Seh, credici" sentì sussurrare la solita vocina, che ignorai bellamente. Speravo che qiesto non fosse il primo passo per la via della follia.

Akira si fece strada e mi si avvicinò non prima di aver coccolato in po' Freddy che parve apprezzare. Chi non avrebbe trovato piacevole il suo tocco?

Un attimo...cos'avevo appena pensato? Va bene, dovevo darmi assolutamente una calmata. Un bel respiro profondo mi avrebbe senza dubbio aiutato e così feci. Peccato che alle mie narici arrivò il dolce profumo di Akira, un bel mix di agrumi che mi diede subito alla testa.

Dovevo assolutamente prendere un poco le distanze.

«Tutto bene Luca-chan?» mi domandò lui preoccuapto vedendomi con le mani strette sul corrumano nel disperato tebtativo di trattenere i miei pensieri su di lui tutt'altro che puri.

«Perfettamente» formulai a stento.
Lui parve credere alla mia bugia, o se non l'aveva fatto almeno non me l'aveva rinfacciato e di questo gliene fui grato, e si sedette a pochi passi da me, stavolta ero io a osservarlo dall'alto in basso.

«Cksa stavi facendo di bello?»

«Insegnavo a Freddy come comportarsi da bravo gatto» risposi mentre Akira divertiva il gattino con lo stesso giochino che aveva usato mia madre fino a poco prima.

«E sta andando come avevi previsto?»

Gettai la testa all'indietro, sospirando sconsolato. «Per niente» ammisi. Già Freddy aveva una conce reazione pari alla mia, con mia madre che aveva catturato quel nanogrammo di attenzione a cui potevo aspirare ero riuscito a combinare poco e niente con lui. Lo riportai ad Akira che scoppiò a ridere, alcune ciocche corvine gli finirono sul viso.

«Ma si infierisci pure. Tanto sono io che deve fare i salti mortali no?»

«Scusami Luca-chan» rispose tra una risata e l'altra. «É solo che l'hai detto in modo troppo...buffo».

Fosse stato qualcun altro l'avrei insultato pesantemente per un'affermazione così, ma dato che si trattava di Akira non mi diede fastidio.

«Te invece? Com'è andato l'open Day?» domandai incuriosito.

«Abbiamo avuto un sacco di gruppi che giravano e la maggior parte dei ragazzini secondo me ce li siamo conquistati» annunciò Akira tutto soddisfatto.

«Nah. Secondo me hanno fatto di più i laboratori di chimica. Vuoi mettere il saggio alla fiamma o le reazioni di precipitazione? Quello si che gli fa credere di venire qua e poter fare l'alchimista».

«Quello non lo nego, dato che è chimica la mia preferita, ma vuoi mettere anche le piastre di coltura dei batteri o i vetrini di tessuti umani?»

«Non parliamo di microscopi ti prego» lo implorai e notando la sua espressione perplessa spiegai. «Il prof continua imperterrito a tenerli sul bancone a cui non arrivo. Ok che è quello il posto in cui dovrebbero stare però non è colpa mia se non sono raggiungibili».

«E non ha pensato di spostare uno a un'altezza più accessibile?»

«Ma va! Quel prof è sensibile quanto un cactus. Anzi no, sarebbe un insulto nei confronti dei cactus».

«E al coordinatore della tua classe?»

«La coordinatrice é quella di matematica...non mi vorrebbe vedere manco in foto, figurati se vado a chiedergli una cosa simile».

«Sei lì per imparare. È un tuo diritto avere tutti gli strumenti che lo permettano» dichiarò Akira abbastanza preso.

Sorrisi amaramente. «Quasi tutti i miei prof pensano che sia uno stupido per cui se anche non abbia i mezzi sarebbe lo stesso».

«Non è giusto».

«Lo so. Ma è questa l'etichetta che mi hanno cucito addosso ed è ormai da anni che le cose stanno così. Credimi, ormai mi sono abituato al loro astio nei miei confronti».

«Ma non sei quello di un tempo Lu».

«Credi che non ne sia consapevole? Ogni volta che vedo questo corpo ricordo che cos'ho perso».

«Non dicevo in quel senso » precisò frettolosamente lui. «Dicevo in termini caratteriali».

Mi stava forse dicendo che prima avessi un carattere di merda? Ne ero consapevole ma sentirmelo dire da Akira era tutta un'altra storia.

Liquidai il discorso chiedendogli poi chi altri c'era con lui. E mi pentì di averlo fatto.

«C'erano due BA* di quarta e per il tuo corso c'era la tua ex, Agnese».

«Ah» mi limitai a dire. Non mi aspettavo che ci andasse.

«È una ragazza simpatica. Mi ha raccontato alcuni aneddoti che ti riguardano».

Sicuramente quelli più imbarazzanti, poco ma sicuro.

«Non voglio parlare di lei» troncai anche se in fondo, una minuscola parte di me, voleva sapere come stesse.

«Luca lei non é affatto una cattiva persona».

«Mi ha tradito con il mio ex migliore amico e, sospetto, da prima dell'incidente. Ho tutto il diritto di non voler avere a che fare con lei».

Akira mi fissò per un attimo. «Mi sembrava un po' triste, come se la sua vita fosse...»

«Avrà capito che scegliendo Ippolito non ha fatto un bell'affare. Ti prego Aki, non parliamone più».

Parlare di lei risvegliava troppi ricordi, sopratutto felici in sua compagnia e non era quello che volevo.

Lui annuì e lo ringraziai silenziosamente.

«Luca-chan, per le protesi...» esclamò lui e mi pentì di aver fatto cambiare argomento. Distolsi lo sguardo e mi allontanai un poco.

«Non...non so cosa mi sia preso» ammisi. «É come se il mio corpo si fosse bloccato completamente. Per quanto cercassi di imporre al mio corpo di alzarsi...non ci sono riuscito». Mi portai le mani sul volto. «Mi sento assolutamente inutile».

Akira stette in silenzio per un po', garantendomi ancora la sua presenza grazie al suo respiro.

«Non sei inutile» disse, e quando tolsi le mani vidi che cercava di restare calmo ma i suoi occhi lo tradivano. Era visibilmente arrabbiato, ma non riuscivo a capire.

«Akira cosa...»

«Sono tutte cazzate» continuò lui. Sì, senza dubbio era furioso. Era la seconda volta che lo sentivo dire una parolaccia e mi lasciò shockato come se fosse la prima. «Dopo tutto quello che hai passato é assolutamente normale non sentirsi pronti».

Forse avevo capito dove voleva andare a parare. Mi rabbuiai e lo fissai intensamente nelle sue iridi ossidiana.

«Pensi che sia debole?» domandai. Un conto era che ne fossi consapevole io, l'altro che a dirmelo fosse un'altra persona. Era una cosa che mi aveva sempre dato fastidio, per questo cercavo sempre di nascondermi dietro a una facciata di pura testardaggine.

«No, solo in difficoltà ad accettare la possibilità che le cose non vadano come vuoi».

Incredibile, aveva centrato il punto. Forse era per questo che mi piaceva.

Come amico. Assolutamente come amico, puntualizzai subito.

«E questo fa di me allora una testa di cazzo» ribattei, cercando di smorzare il momento.

Cambiammo argomento nuovamante e chiacchierammo di altro, parole più innocue di quelle appena passate, e nel mentre facevamo giocare (o meglio impazzire) il piccolo Freddy, completamente ignaro di ogni cosa. Un meno di qualche ora avevamo toccato i punti più dolenti della mia esistenza, tralasciando l'incidente che rimaneva quello nei mei pensieri ventiquattro ore su ventiquattro.

Arrivò infine il momento per Akira di tornare a casa. Mi salutò, dalla porta, con un sorriso prima di annunciare (pareva quasi una minaccia) che ci saremmo visti lunedì.

Passò poco che arrivò l'ora di cena che consumai in silenzio sotto lo sguardo di rimprovero di mio padre che ancora mi colpevolizzava per quello che aveva fatto Freddy.

Quando rientrai in camera trovai proprio il diretto interessato a fissarmi intensamente.

«Cosa guardi palla di pelo?» gli domandai. Chissà perché il mio cervello pensava che lui avesse capito un qualcosa che al monento mi sfuggiva.
Mi gettai sul letto, fissando poi il soffitto.

Avevo di nuovo avuto quei pensieri nei confronti di Akira. Dovevo stare attento. Non volevo perderlo ed ero certo che se avessi cominciato a provare qualcosa di diverso da una semplice amicizia, anche se ormai era inutile negarlo a me stesso avevo già cominciato a fare, non sarebbe stato semplice stargli accanto.

E poi c'era la faccenda Agnese. Era bastato il suo tradimento e la presenza di Akira a condannare all'oblio la nostra storia?

Mi ritornò alla mente il giorno in cui c'eravamo messi assieme.

E fu con quel ricordo che mi addormentai.

***

Eravamo in prima superiore.

La chiesa era gremita di gente, per darle l'ultimo saluto.

Avevo trovato posto nella quinta fila di panche a fianco a Ippolito, e dalla mia posizione potevo vedere Agnese e i suoi parenti.

Lei era piegata leggermente in avanti la mani davanti al viso, si vedeva lontano un miglio che stava piangendo. Sembrava piccola e indifesa. Era già piuttosto minuta ma lì piena di dolore sembrava sottile.

Potevo quasi sentirlo sulla mia pelle, violento come tanti piccoli aghi, e potevo comprenderlo dato che era molto attaccata a sua zia, nonché la nostra ex maestra d'asilo, Matilde.

La sua morte era stata inutile. Una vendetta da parte della sua ex collega nonché arpia sadica, Tiziana.

Matilde aveva avuto il coraggio dopo anni in cui la collega aveva maltrattato i bimbi prima verbalmente e poi negli ultimi tempi fisicamente, a denunciarla.

Per cause a me ignote quella donna era riuscita a trovare un nuovo lavoro. Ma per quanto la vita fosse stata anche troppo gentile con lei non si era mai staccata dal suo sentimento di rancore.

E infine  era accaduto.

Era come se il destino fosse ormai segnato, una casualità le aveva fatte incrociare. La maestra Matilde che attraversava la strada sulle strisce con le buste della spesa e appesantita dell'addome rigonfio del figlio che stava aspettando, la maestra Tiziana in auto di ritorno dal lavoro.

Non ci aveva pensato due volte a cogliere l'occasione. L'aveva nessa sotto e dopo l'arrivo in ospedale erano morti sia lei che il bambino.

Agnese mi aveva dato la notizia dopo essere uscita dall'ospedale. Non l'avevo sentita così disperata in tutta la sua vita.

Il funerale fu celebrato dopo una settimana, il tempo per poter procedere con l'autopsia da parte della scientifica e all'interrogatorio a cui avevo accompaganto Agnese ad assistervi in una stanza adiacente, celati agli occhi di quella donna che aveva ammesso tutto con una tale crudeltà che mi fece domandare se fosse davvero umana o un mostro.

Agnese era scoppiata a piangere tra le mie braccia e avevo avuto bisogno di tempo per calmarla e accompagnarla a casa.

Le ero stato accanto tutta la notte, lei sdraiata a pancia in su sul suo letto, io seduto per terra a fianco che le tenevo la mano. La sua presa era ferrea sulla mia, come se avesse paura di perdere anche me. Non l'avevo mai vista in quello stato e nel profondo mi sentì impotente.

Al funerale vidi solo l'ombra della ragazza che era, e avevo timore di perderla.

Non l'avrei mai lasciata andare in balia delle sue emozioni negative.

A funzione finita mi ero avvicinato a lei e alla sua famiglia. Dopo aver fatto le mie condoglianze lei mi aveva preso per mano e condotto fuoi dalla chiesa, conducendomi in un punto un poco isolato dove potevamo stare tranquilli.

Non appena fummo da soli lasciò la mia mano e si allontanò un poco prima di scoppiare in un pianto a dirotto.

Non potevo stare lì a non far nulla mentte lei era così disperata.

Mi posizionai alle sue spalle e l'avvolsi tra le mie braccia.

«Non meritava una morte così» le mormorai e avvertì i suoi singhiozzi.

«Mi manca».

«Lo so. Ma pensa che adesso è in un luogo migliore di questo, dove non c'è odio e vendetta».

«Ma tu non credi nel Paradiso» disse lei, facendomi sorridere.

«Non ho detto che lo sia. Se sei puntigliosa significa che ti senti un po' meglio».

Lei si sciolse dal mio abbraccio per potersi mettere di fronte a me. «Lu posso chiederti una cosa?»

«Qualsiasi cosa» risposi prontamente ed era vero. In quell'istante avrei pure venduto la mia anima se me l'avesse chiesto.

«Mi prometti che non mi abbandonerai mai?»

«Perché mai dovrei farlo?»

«Non lo so. Ho paura che poi alla fine ti stuferesti e mi abbandonerai anche te».

«Ma cosa stai dicendo? Io ci sarò sempre per te».

Lei mi prese le mani e se le avvicinò al viso, facendo aderire i miei palmi sulle sue goti bagnate di lacrime.

«Mettiti con me Lu» disse a bruciapelo lasciandomi per un attimo spiazzato.
Notando che titubavo lei si affrettò ad aggiungere: «Se non vuoi capisco. Sono stata troppo diretta, scusami. Fa cone se non avessi detto nulla».

La tristezza che trasudavano le sue parole fu l'ultima goccia che fece traboccare il vaso.

L'attirai a me prima che lei potesse allontanarsi e poggiai le labbra sulle sue. Sapevano di lacrime e dolore.

Speravo che quello le potesse bastare come risposta.


 

Angolino autrice:

Buonsalve :3

Scusatemi davvero per il ritardo ma sono davvero presa con il lavoro 😭
Cercherò di non farvi attendere troppo...scusatemi davvero 😭

Ne approfitto per ringraziare chi segue la storia ❤️

Adiós!

FreDrachen

 

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Capitolo 28
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22


Non tornammo più sull'argomento protesi per un po' di giorni. L'unica cosa che mi proponeva Akira era indossarle per, sosteneva, far abituare i monconi al contatto con gli incavi ma da quella volta non mi aveva più proposto di provare ad alzarmi. Rispettò questa mia decisione e fu davvero bravo a sviare i discorsi, che partivano principalmente da quell'insensibile di Capelli Tinti, soprattutto quando parevano prendere una piega pericolosa.

Per quanto riguardava i miei sentimenti imprevedibili nei suoi confronti cercavo di nasconderli, simulando il mio solito carattere difficile. Ma più tempo passavo al suo fianco più diventava difficile, ma non sarebbe stato per colpa dei miei sentimenti egoisti e a senso unico a privarmi della sua compagnia, mi sarei accontentato. E poi avevo cominciato a constatare che stando al suo fianco la mia vita stava nettamente migliorando. Ero un po' piú di buon umore (scuola a parte ovviamente) e mangiavo di più. Mi sembrava di essere tornato alla vita e il merito era suo.

Per quanto riguardava Agnese e su quello che avevo rimuginato ero arrivato alla conclusione che quel giorno di qualche anno prima era successo quello che molti dei nostri amici avevano ipotizzato e perché no? Eravamo amici da una vita e secondo gli altri una coppia perfetta, eppureire fin da subito avevo avvertito che mancasse un qualcosa, un tassello importante. E alla fine era successo il prevedibile. Anche lei mi aveva abbandonato e nutrivo il timore che se Akira fosse venuto a conoscenza dei miei sentimenti avrei perso pure lui.

«Uffaaaa» mi lamentai per la trecentesima volta tanto che Akira alzò lo sguardo dai suoi compiti.

Oramai era diventata una routine che andassi a studiare da lui, diceva che gli faceva piacere ma stavamo agli antipodi del tavolo dato che, a detta sua, avevo la mania di allargarmi e rubarmi tutto lo spazio possibile. Ero davvero una così brutta persona? A me andava più che bene, tenere un minimo di distanza mi dissuadeva a fare un qualcosa di cui molto probabilmente mi sarei pentito a vita.

«Cosa? C'è qualche problema?»

«Solo qualche? É tutto un problema» mi lamentai indicando il libro di testo.

«Cosa stai studiando?»

«Neurotrasmettitori. Insomma hanno dei nomi assurdi che si assomigliano tutti. Adrenalina, Noradrenalina, Istamina, Acetolina...»

«Acetilcolina» mi corresse gentilmente lui.

«Boh quella che è. Non riuscirò a ricordarli tutti. Che poi a che mi serve conoscerli? Tanto so che mi sarebbero utili quanto la parola supercalifragilichespiralidoso

Akira ridacchiò. «Da dove viene questa citazione disneyana?»

Gonfiai il petto orgoglioso. «Sono cresciuto a cartoni Disney da piccolo. Noi si che siamo una buona generazione, non come i bambini di adesso che bombardano le loro menti con cartoni degeneri come Peppa Pig. E poi ci chiediamo il motivo per cui sono talmente stralunati e fuori dal mondo».

«Oh, ma davvero? Vorrà dire che dovrò saggiare le tue conoscenze in merito allora». Si fece un attimo pensoso prima di parlare nuovamente.

«"Disonore! Disonore su tutta la tua famiglia. Prendi nota tu...disonore su di te, disonore sulla tua mucca..."»

«Troppo facile. Mulan. Aki non stai osando abbastanza» ribattei facendo un sorrisetto. Anch'io volevo tanto saggiare se fosse un disneyano per bene.

«"Hai dimenticato chi sei, e così hai dimenticato anche me"».

«Re Leone. Secondo me puoi fare di meglio». Presi fiato prima di continuare. «"Oh si, il passato può fare male. Ma a mio modo di vedere dal passato puoi scappare...oppure imparare qualcosa"».

Al pronunciare questa citazione vidi per un attimo il volto di Akira rabbuiarsi, ma fu talmente fugace che pensai di essermelo immaginato. Così tentai con un'altra. «"Quando il mondo ti volta le spalle non devi fare altro che voltargli le spalle anche tu"».

E questa citazione sembrava essere diventata il mood del periodo post incidente, prima di conoscere Akira, quando ero stato lasciato solo in balia del mio dolore e della rabbia.

«Qualcosa mi dice che questo cartone animato é tra quelli che più ti piacevano».

«Già, assieme a quasi tutti quelli fatti negli anni '90 e primi del 2000. Quelli si che erano anni d'oro. Forza, osa con citazioni più difficili» lo sfidai.

«D'accordo. Vediamo..."Siete un pubblico o in mosaico?"»

«Facile. Hercules, per l'esattezza Ade».

«Sai anche questa?»

«"La notizia ti ha sconvolto, non è vero?"»

«Ok, lo prendo come un si. Tento con un'altra». Si fece un attimo pensoso prima di cominciare questa volta a canticchiare: «"Ti potranno dire che
non può esistere
niente che non si tocca, o si conta, o si compra perché
chi è deserto non vuole che qualcosa fiorisca in te"».

Mi piaceva troppo sentirlo cantare con la sua voce delicata che sapeva quasi avvolgerti come una calda coperta di note.

«Il pianeta del tesoro. Uno dei miei preferiti».

«Accidenti. Ci riprovo. Ormai é una questione di principio». Alzò un attimo gli occhi al soffito alla ricerca di ispirazione gli bastò poco per ritornare a fissarmi e sfoderare un sorriso di vittoria.

«"Egli castigherà i perversi e li precipiterà in una voragine di fuoco!"» citò, tutto esaltato. Si, doveva essere certo che questa sarebbe stata la sua arma finale. Aveva messo un tale impegno a recitarla che mi lasciò sopreso.

Forse si rese conto del mio stupore perchè si voltò verso di me. «Ho un tantino esagerato con l'interpretazione?»

«Un po'. Mi sei sembrato un pazzo squilibrato. Non che Frollo non lo fosse» risposi sfoderando un sorrisetto.

«Forse é il caso di smettere» propose lui un po' in imbarazzo ma visibilmente divertito.

«Direi che abbaimo constatato che se partecipassimo a qualche programma e facessero domande sul mondo disney di certo stracceremmo tutti gli altri concorrenti».

Akira rise. «E se in via del tutto ipotetica non ci risucissimo basterebbe il tuo ego a farlo».

«Ehi?!» ribattei, fingendomi sdegnato, strappando un'altra risata da parte sua.

«Forse ora dovremmo davvero tornare a studiare».

«Per una volta mi trovi d'accordo».

Ritornammo ai nostri rispettivi studi e non passarono che qualche minuto prima che la porta si aprisse di botto.

«Onii-san!»

La sorellina di Akira, Maiko, arrivò come un piccolo tornado con i codini, contro il petto stringeva un libro di scuola.

«Mi puoi spiegare scienze? Non vi sto capendo nulla» continuò lei con la sua vocina sottile cercando di corrompere il fratello.

Akira alzò distrattamente lo sguardo dal suo quaderno su cui era intento a scrivere come un ossesso.

«Cosa, Onee-chan

Maiko gonfiò le guance e questo la rese si può dire abbastanza buffa.

«Non mi hai ascoltato Onii-san. Mi puoi  aiutare con scienze?»

Akira fece per rispondere quando la zia fece irruzione nella stanza.

Qualcun altro? Insomma non c'era abbastanza gente in quella stanza.

«Oh Akira vedo che sei in pausa dallo studio. Avrei un attino bisogno di te» lo implorò lei.

Non volevo proprio essere nei panni di Akira in quel momento. 

«Luca-chan, potresti un attimo aiutare mia sorella?»

Feci un movimento con la testa perso nei miei voli pindarici proprio mentre Akira pronunciò quelle parole.

«Arigatō Luca-chan arrivo subito».

Eh cosa?

Non ebbi il tempo di metabolizzare il momento e replicare che lui era già andato dietro la zia ed era uscito dalla stanza.

Sospirai, lasciandomi andare contro lo schienale della sedia, sotto lo sguardo attento di Maiko che mi fissava con i suoi occhioni dello stesso colore del fratello.

«Mi aiuterai tu, Onii-san?»

Non avevo la piú pallida idea di quello che aveva detto in giapponese, e annuì per il resto. In fondo erano argomenti della quinta elementare, cosa ci sarebbe stato poi di così difficile da spiegare.

«Di che argomento si tratta?»

«É a pagina 151» mi rispose lei porgendomi il libro.

Lo sfogliai e raggiunsi la pagina indicata. Non appena vidi di che argomento si trattava i miei occhi quasi uscirono dalle orbite.

Ok in anatomia andavano trattati ma gli schemi erano fatti fin troppo nei dettagli. Era un libro delle elementari o un manuale di sesso?

«Sicura che sia questo? Non é l'apparato respiratorio o il sistema circolatorio?»

Maiko scosse vivamente la testa. «No è questo, solo che la maestra l'ha spiegato che non ho capito niente».

Il mio volto avvampò per l'imbarazzo. Pensarlo era un conto, spiegarlo a una bambina di quinta elementare era un altro. Dovevo cercare il modo più rapido e indolore per spiegarglielo.

«Dunque...questo» cominciai indicando l'apparato femminile. «È costituito da diverse parti: le ovaie, l'utero, la...ehm...passera...» snocciolai e lei inclinò la testa di lato con fare dubbioso. «Ma Onii-san non stiamo facendo gli uccelli».

Merda. Come spiegare a una bambina un apparato così delicato e pieno di doppi sensi, essendone una delle due principali fonti?

«È uno dei modi per dire...»

«Vagina?» propose lei leggendo sul libro.

Annuì sbrigativamente e descrissi velocemente il resto che mancava per descrivere appieno l'apparato.

Non appena ebbi finito di illustrato, Maiko puntò il dito esattamante sopra il disegno dettagliatissimo di un membro.

«E questo?»

«Ecco il ca...il membro è una delle parti che...»

«Onii-san perchè usi termini diversi dal libro?»

«Perché ecco, preferisco usare dei sinonimi» balbettai una scusa che mi risuonò subito patetica.

«E in che altri modi si può chiamare?»

Bella mossa Luca.

Era davvero un bene rivelarlo a una bambina così piccola?
Di fronte ai suoi occhioni speranzoso capitolai. Ero debole.

Glieli elencai e il suo volto si fece via via più perplesso.

«Certo che chi ha inventato questi simonimi era strano. Perché chiamarlo mazza? O asta? Mica siamo nel baseball o a bigliardo».

E lo diceva a me? L'imbarazzo era stato un crescere che mi fece quasi sperare che si aprisse una voragine sotto la sedia a rotelle e mi inghiottisse.

Per fortuna Akira entrò nella stanza e per poco non cedetti all'impulso di inchinarmi ai suoi piedi, con il conseguente problema successivo di rimettermi sulla sedia.

«Tutto a posto? C'è stato qualche problema?»

Fu Maiko a rispondere scuotendo la testa, facendo ondeggiare i suoi codini.

«Onii-san mi ha spiegato tutto. Arigatō gozaimasu**» rispose, voltandosi a fine frase verso il sottoscritto regalandomi un sorriso prima di lasciare la stanza abbracciando il libro tutta contenta.

Non riuscì a salutarla come meritava, la mente era ancora a quei momenti in cui le avevo spiegato...oddio! Ripercorrendo la spiegazione e mi resi conto che potevo passare benissimo per un pervertito molestatore visto i termini che avevo usato. Quanto avrei voluto scomparire.

«Luca-chan?» mi sentì chiamare e sussultando volsi lo sguardo su Akira che mi stava osservando preoccupato.

«Va tutto bene? È da qualche minuto che ti chiamo e sei rosso in viso. Stai per caso poco bene? Dovrei chiamare tua madre?»

Cosa?

In che razza di condizioni ero?

Mi diedi degli schiaffetti sulle guance per riprendermi.

«Sto bene, non preoccuparti. È solo che...ecco...la spiegazione per Maiko verteva su argomenti...cioè non dovrebbero esserlo dato che ne siamo naturalmente provvisti. È solo che a penserci un po' mi imbarazza».

Akira dovette capire a cosa mi stessi riferendo perchè anche lui arrossì dopo aver sgranato un poco i suoi occhi a mandorla.

«Oh. Gomennasai Luca-chan. Le l'avessi saputo ti avrei evitato tutto questo imbarazzo».

«Gomme...cosa?»

«Ah, si. Significa scusami».

«Non ti devi scusare. Sono io che ho avuto una reazione esagerata. Insomma con la mia ex l'abbiamo fatto ogni tanto, quindi non dovrei avere tanto pudore a parlarne no?»

Akira annuì prima di innumidirsi le labbra.

«E...insomma, l'avete fatto molte volte?»

«Solo ogni tanto, quando ne avevamo voglia. La nostra relazione non si basava su quello, come in quelle fanfiction che piacciono tanto alle ragazzine in cui scopano peggio di conigli in calore».

A quelle parole Akira ridacchiò, anche se la sua risata parve un poco forzata, ma non ne capì il motivo.

«Ti do una mano a studiare» si propose cambiando argomento e ne fui ben lieto. Non mi andava di parlargli della mia sfera sessuale avuta con la mia ex.

Mi si sedette di fianco e prima che cominciasse a spiegare notai subito che da quando era tornato stava smanettando con il telefono, pur ascoltando le mie lamentele, sul volto un'espressione tra l'esasperato e l'arreso.

«C'è qualche problema?»

«Eh?» domandò alzando un attimo lo sguardo dallo schermo.

«Avevi lo sguardo perso nel vuoto e di solito questo succede al sottoscritto. Cos'è successo?»

Lui esitò un attimo prima di capitolare di fronte alla mia curiosità.

«Amanda».

Solo a sentire il suo nome mi saliva una certa angoscia.

«Cosa vuole stavolta da te quella...?» domandai stoppandomi in tempo prima di pronunciare una parola tutt'altro che lusinghiera nei suoi confronti.

«Vorrebbe passare del tempo con me. Si è resa conto che sto temporeggiando ed é arrabbiata».

Stare chiuso in uno spazio ristretto in sua presenza? Che pena crudele! Non l'avrei augurata neanche al peggiore dei miei nemici.

«Hai tutta la mia solidarietà. Ma di preciso la principessina che vorrebbe da te?»

Il fatto chebe non prendesse le sue difese dopo il mio sarcasmo nei suoi confronti la diceva su un mucchio di cose.

«Votrebbe compiere...quel passo».

Lì per lì non capì ma notando le goti arrossate intuì.

Ma aspetta un attimo, quindi...Akira era vergine?

Con tutto il tatto che mi caratterizzava glielo chiesi e lui arrossì ancora di più, per quanto possibile.

«No, io...l'ho fatto solo una volta con la persona con cui stavo prima».

Lo disse con un tale impaccio da renderlo quasi tenero.

Ma che cazzo di pensiero era? Mi velocizzai a cacciarlo dalla mia mente alla svelta, prima di perdere l'occasione di sapere qualcosa di più di un passato che Akira cercava di tenere celato.

«E com'era questa persona?»

Volse il suo sguardo verso la parete e i suoi occhi si persero nel vuoto, come a cercasse di riportare a galla i ricordi.

«Completamente diversa da te» rispose semplicemente ma era già abbastanza rispetto allo zero assoluto che sapevo fino a quel momento.

E dato che intuì che non avrei cavato altro tornai sul discorso prima.

«E Amanda vorrebbe...farlo?»

«Si ma io non mi sento pronto a darle quello di cui ha bisogno».

«Perdona le mie solite domande imbarazzanti e a bruciapelo ma da quanto la devi sopp...cioè da quanto tempo state insieme?»

«Circa tre anni. Ci siamo messi insieme qualche mese dopo che mi sono trasferito nella nostra scuola. L'ho scovata in un luogo appartato che stava piangendo perchè era stata rifiutata dall'ennesimo ragazzo».

Ma chissà perché, avrei dato voluto ribattere ma mi trattenni, incintandolo a continuare.

Dovette intuire il mio pensiero perchè sorrise. «Non ci crederai mai ma non era così. Era una ragazza timida e insicura che quando si approciava a qualche ragazzo arrossiva e balbettava».

Cercai di associare questa versione inedita di Amanda a quella attuale ma non ci riuscì. A questo punto l'unica spiegazione era l'invasione degli ultracorpi, oppure un sequestro da parte degli alieni che le avevano fatto il lavaggio del cervello.

«Non mi credi vero?» mi domandò con un sorriso.

«É che lo trovo troppo...strano».

«In effetti è vero. É cambiata così velocemente che non ho avuto il tempo di rendermene conto».

«E quella con cui stavi prima...che fine ha fatto?»

Sui begli occhi ossidiana di Akira calarono delle nubi e la sua espressione si fece triste, quasi straziante e per questo decisi di cambiare argomento.

Riportando l'attenzione su quegli inutili di neurotrasmettitori che dovevo studiare, Akira ritrovò vigore e cominciò a spiegarmi per ogni neurotrasmettitore importante le sue funzioni principali. Mi scrissi tutto per paura di dimenticarmi qualcosa di fondamentale.

«La Dopamina é un neurotrasmettitore che viene rilasciato dall'ipotalamo ed é associato al desiderio, la ricomensa e a stari euforici. É quindi artefice delle prime fasi di innamoramento oppure quella che ci rebde dipendenti da qualcosa o qualcuno».

Amore?

Quando gli chiesi cosa ne pensasse intuì che mi aveva frainteso.

«L'amore é dettato da processi biochimici che avvengono nel nostro organismo. Ognuno produce feromoni unici che, se compatibili, ci attirano agli altri. Questo succede quando ci sta simpatica una persona "a pelle". E quando ci si ritrova in presenza con un soggetto compatibile si può innescare un maggior sviluppo di alcuni tipi di neurotramsettitori a discapito di altri».

Detto così pareva che fossimo degli automi soggiogati dall'azione di queste minuscole molecole che dettavano ogni nostra azione.

«Dopamina, Noradrenalina e Feniletilammina sono i principali responsabili delle prime fasi dell'innamoramento, quello che creano più una sorta di dipendenza. Sono i momenti in cui sembra che la propria vita ruoti attorno al proprio partner. Con il tempo si cominciano a sviluppare sostanze meno eccitanti che aoutano a rendere più stabile il rapporto, ossia ossitocina nelle donne e vasopressina in noi maschi. Con l'aumento della Dopamina si ha una diminuzione vertigginosa della Serotonina che regola l'appetito e l'umore. Difatti durante l'innamoramento si ha meno appetito e si prova un'intensa euforia oltre che ansia e tristezza nel caso si venga rifiutati dal partner. La noradrabalina é la causa del batticuore, della sensazione delle farfalle nello stomaco oltre che della sudorazione».

Mentre parlava sembrava di assistere a una puntata di Super Quark, e mano a mano che procedeva sentivo che la testa era sul punto di scoppiare per le troppe informazioni. Dovevo assolutamente fermarlo.

«Cosa pensi dell'amore inteso come...sentimento?»

A quella domanda si fece improvvisamente serio. «L'amore non è altro che un illusione. É come una catena indistruttibile che ti lega a un'altra persona, soggiogandoti senza lasciarti respiro a tal punto da trascinarti nel baratro più oscuro se ti viene strappato via».

«Accidenti che ottimismo Akira. Come mai una visione così cupa?»

«La persona con cui stavo, e che mi ha fatto provare un sentimento talmente intenso da far male, mi ha lasciato nei peggiori dei modi, ma...non me la sento di parlare».

"Hai sentito la sua richiesta? Smettila Luca. Smettila con le domande, smettila" cercava di frenarmi la mia coscienza ma la curiosità prevalse su tutto.

«Ma questa persona...la amavi?»

Akira distolse lo sguardo. «Si, l'amavo, forse anche troppo».

«E Amanda?»

Lui stirò le labbra in un sorriso triste. «Amanda é solo ciò che mi sono meritato» si limitò a dire al che lo fissai severamente.

«Nessuno si meriterebbe una piaga simile. Sai una cosa? Appena arrivo a casa recupero la Bibbia e ce l'aggiungo a penna e già che ci sono chiamo la santa chiesa a inserirla in via ufficiale».

Quest'ultima parte doveva essere una battuta ma non sortì l'effetto che speravo. Difatti Akira rimase con lo sguardo basso e sul volto un'espressione malinconica e a tratti triste.

Ero in insensibile.

«Ehi». Mi avvicinai e, rispetto a quello che mi ero ripromesso di non fare, lo invitai ad alzare la testa e notai i suoi occhi innumiditi dalle lacrime.

«Nessuno merita di stare con una persona così egoista e meschina».

«Cosa potrei fare?»

«Semplice, lasciala».

«Io non so se...»

«Akira, ti fai troppi scrupoli. Le dici una simile: "Senti, mi sono reso conto che sei simpatica quanto un cactus infilato su per il culo e dato che non sono  masochista ho deciso di lasciarti". Secondo te é abbastanza comprensibile per la sua mente limitata?»

«Non è così semplice».

«Invece si, più di quello che sembra. Akira, devi smetterla di farti trattare al pari se non peggio di uno zerbino. Lei non ti merita». Lo dissi con tale enfasi da lasciarmi stupito di me stesso, e lo stesso sembrava aver colpito Akira che distolse lo sguardo.

«Gomennasai».

D'istinto l'abbracciai e lui nascose il volto nell'incavo della spalla. La voglia di passargli le mani tra i capelli era troppa ma già la situazione era quella che era. Lo consolai come avrebbe fatto un qualsiasi amico. Perché avevo capito che non avrei avuto chance con questa persona che pareva ancora padrona del cuore di Akira.
 

*citazione tratta da Mary Poppins (film disney)
**trad.dal giapponese: Grazie mille

 

Angolo autrice (in super ritardo):

Buonsalve :3

Scusatemi per il ritardo 😭 spero che questo capitolo vi sia piaciuto :3
Akira ha parlato in po' di sé ma non è ancora abbastanza (vi siete già fatte/i qualche idea su quello che cela il suo passato? 🙈)

Comunque non mancano tanti capitoli alle rivelazioni (non sono pronta...ma al tempo stesso è da inizio storia che non vedo l'ora di scrivere un pezzo 😍)

Spero di non farvi aspettare così tanto il prossimo capitolo (il lavoro mi toglie tantissimo tempo).

Un mega grazie a chi sta continuando a seguire la storia, e alle/ai nuove/i lettrici/lettori che ci sono approciate/i alla storia😍

Adiós
FreDrachen

 

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Capitolo 29
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23


Di ritorno dalle vacanze di Natale, non il primo giorno effettivo dato che c'era stato il problema di una tubatura rotta che era stata aggiustata in modo tempestivo ma che ci aveva fatto guadagnare un giorno in piú di vacanza, intravidi Akira appoggiato al muretto appena fuori da scuola, gli auricolari alle orecchie e la testa che ciondolava leggermente a ritmo di musica. Non appena alzò lo sguardo dallo schermo, su cui era intento a scorrere la playlist per scegliere la nuova canzone, e mi vide andargli incontro, arrancando con la sedia a rotelle e cercando di scansare gli altri ragazzi, alzò la mano in cenno di saluto e con un sorriso come se non fosse successo nulla durante quei giorni.

Il giorno dopo il nostro pomeriggio studio, l'ultimo prima dell'inizio delle vacanze di Natale, mi ero insospettito subito della mancanza di Akira. Avevo tirato fuori il cellulare per mandargli un messaggio, giusto per sapere se era tutto a posto. Mi sembrava paradossale che uno come lui saltasse scuola. Era successo per l'anniversario della morte della madre e per il suo gesto inconsulto, ma appunto un'occasione.

A fine mattina non avevo trovato alcuna risposta. Gliene avevo scritto un altro ma anche stavolta era caduto a vuoto.
Che centrasse il discorso che avevamo fatto ll giorno prima? Aveso scosso la testa. No, uno come Akira non poteva fare simili pensieri, al contrario del sottoscritto che stava per incamminarsi lungo una lastricata di pensieri pericolosi.

Akira mi aveva infine scritto il giorno di  Natale, per farmi gli auguri e spiegarmi che era stato poco bene e che non aveva avuto la forza di controllare il telefono fino a quel momento.

Sollevato del fatto che avessi finalmente appurato che fosse vivo, che che avrei avuto un attimo di respiro dai miei parenti a tratti asfissianti, gli risposi ma anche lì mi ero ritrovato con la risposta caduta nel nulla più assoluto.

Fu il primo giorno di gennaio che finalmente potei fare una discussione decente, anche se via messaggio, con lui.

Ero seduto sul divano, a fianco a mia madre mentre mio padre occupava il lato opposto. Come da suo volere ogni primo dell'anno tutti e tre dovevamo seguire il famosissimo concerto di capodanno di Vienna che mandavano in diretta in tv. Una volta poteva anche essere piacevole ma a lungo andare cominciava a essere traumatizzante.
Nella noia piú totale davo occhiate allo schermo del telefono e fu cosí, distrattamente e con le note di Strauß (padre, figlio zio prinipote non ne avevo la più pallida idea) che avevo visto il messaggio di Akira.

Akira:
Ciao! Buon anno ;)

Alzai gli occhi al cielo prima di digitare la risposta.

Te:
Mah! Buono mica tanto

Akira:
Che c'è? Scontroso il primo dell'anno
scontroso tutto l'anno?
Non so se riuscirei a sopportarti :p

Te:
Vorrei vedere te a guardare
ogni sacrosanto primo gennaio
il concerto di capodanno D:

Akira:
Dai, non può essere così male

Te:
Seh! Comunque te che stai facendo? Non ti sei più fatto sentire!

Akira:
Sono stato...male

Te:
Di nuovo? O.o
Ma cos'hai? Il mal di fine mese?

Aspettai un po' la sua risposta tanto da farmi temere di aver offeso in qualche modo la sua salute. Insomma, non era colpa sua dei suoi malanni.

Akira:
Forse ^^"

E dopo poco aggiunse:

Akira:
Mi spiace averti fatto preoccupare

Te:
Ma di che? Ci tengo che i
miei amici stiano bene.
Ma non mi hai risposto,
cosa stai facendo?

Akira:
Sto guardando un anime

Te:
Anime? E chi è morto? O.o

Sbaglio o le anime erano un sostantivo femminile? La grammatica per me non era mai stata un'opinione.

Akira:
Korosensei £.£ non mi riprenderò mai!

Eh? Solo io non ci stavo capendo nulla?

Te:
Korosensei?

Akira:
Si, un personaggio
che adoravo della serie
Assassination classroom

Te:
Ti offendi se ti dico
che non ho capito un accidenti?

Akira:
Dovrò farti passare
al lato oscuro dei manga
e anime il prima possibile

Te:
Mi devo preoccupare? O.o

Akira:
Forse...😎

Te:
Non mi stai affatto rincuorando

Akira:
Forse non era mia intenzione...😂

Sentirlo così rilassato mi diede ancora più slancio ad alimentare quella conversazione.

Te:
Mi preparerò a diventare un nerd a patto che non si sappia in giro

Akira:
Tranquillo. Farò in modo che agli occhi del mondo rimanga lo stesso figo di sempre

Non appena lessi quel messaggio il mio cuore perse un battito. L'aveva scritto davvero?

Te:
Aki cosa...
Aki?
Aki?
Aki?

E di nuovo silezio di tomba dall'altra parte.

E ora eccoci uno di fronte all'altro come se quell'uscita via messaggio da parte sua non fosse mai successa.

Cosa intendeva? Era nel senso che come gli altri mi stimava come persona per via della mia fantastica personalità? Oppure era attratto da me fisicamente?

"Solo perché ti sei messo in testa strane idee non significa che le abbiano anche gli altri" mi smontò la mia coscienza rompipalle.

Senza dubbio doveva trattarsi della prima opzione, era colpa mia se m'illudevo che potesse esserci altro visto com'era andata l'ultima volta che ci eravamo visti di persona.

Ma di ritornare su quel discorso nulla da fare. Akira mi pareva tranquillo e rilassato e di certo non volevo rovinare il momento.

«Cosa ascolti di bello?» gli domandai non appena gli fui vicino, non troppo ma quanto bastava per sentire il suo profumo delicato. Dannato recettori olfattivi che andavano in visibilio!

«Konnichiwa* Luca-chan. Nulla di che, solo qualche opening che mi piace da impazzire. Vuoi sentire anche te?»

Non me lo feci ripetere due volte e infilai l'auricolare che mi porgeva nell'orecchio e subito una voce maschile acuta mi perforò il timpano.

«Carina cone canzone anche se non sto capendo nulla. Come si intitola?»

Anche se di un ottava anche più sopra le altre canzoni aveva un motivetto davvero orecchiabile.

«Unravel di Tokyo ghoul. È una serie che parla di creature che mangiano uomini e di un ragazzo, Ken Kaneki, che dopo un trapianto acqusisce caratteristiche da ghoul. É una delle mie serie preferite».

Davvero...Inquietante.

Dovetti averlo detto ad alta voce perchè sentì Akira ridacchiare. «In effetti fa parte della categoria seinen horror».

«Un sei...che?»

«È una delle classificazioni delle storie manga e anime in Giappone». E cominciò a prodigarsi di una spiegazione dettagliata di termini complicatissimi, mentre ci muovemmo verso l'entrata, dato che la campanella era appena suonata.

Alla fine nella mia mente rimbombarono parole come shojo, shonen, josei e altre che non mi aiutavano a stare concentrato sui miei pensieri.

Fu in preda a questa confusione mentale che cominciò la mia bellissima (anche no) giornata scolastica dove avevo di nuovo educazione fisica in comune con la classe di Akira. O meglio, lui avrebbe sudato mentre io sarei rimasto in disparte a osservare. Ormai stavo cominciando ad abituarmi a fare da tapezzeria.

"Se ti decidessi a usare le protesi non sarebbe così" mi apostrofò una vocina interiore che scaccai subito in malomodo.

Dentro di me si era creato un blocco, di cui non riuscivo a liberarmi. Forse il penserio di riuscire a tornare a camminare e a trovarmi privato di questo mio sogno oppure l'amara consapevolezza che i miei muscoli si erano così atrofizzati a tal punto da non riuscire a reggermi più in piedi. Facevo fisioterapia vero, ma, a parer mio, non era la stessa cosa.

Il prof fece fare i consueti giri di corsa ed esercizi di riscaldamanto. Ancora non aveva rivelato cosa aveva in serbo per quelle povere creature che a lungo andare sarebbero annegate nel loro sudore.

E finalmente arrivò il momento.

«Bene ragazzi, dividetevi in due squadre e decidete le vostre posizioni. Oggi si gioca a calcio».

D'istinto sentì prudere i monconi. Cazzo se avevo voglia di giocare.

Il prof notò la luce nei miei occhi perchè mi propose di fare uno dei due guardia linea della squadra della classe di Akira e individuare possibili fuorigioco.

Era sempre meglio che sedimentare in un angolo a non fare nulla.

Mi mossi per prendere posizione e constatai che Akira era stato messo in difesa esterna, poco distante da me.

Lui si voltò per in attimo verso di me e mi fece un sorriso di incoraggiamento accompagnato da un'alzata di pollici. In realtà dovevo essere io a sostenerlo.

Inutile dire che fu una partita imbarazzante. Ippolito non era bravo quanto il sottoscritto, ma a confronto degli altri sembrava un campione mondiale.

E in quanto ad Akira...capí subito che il calcio non era il suo sport. Commetteva errori talmente grossolani da farmi venire da piangere per l'esasperazione.

Ci metteva impegno poco ma sicuro ma, constatai, a volte rischiava anche di inciamparsi nei suoi stessi piedi.

Per uno che aveva trasformato il calcio nella sua religione e vocazione era la cosa peggiore a cui i poveri occhi potessero essere  sottoposti. Non mi accorsi neppure che avevo cominciato a dare istruzioni su come agire, ma mi sa tanto che usavo una terminologia talmente tecnica e come risultato mi trovavo di riflesso un'espressione di puro spaesamento da parte sua.

Fu un completo disastro. Trainati da Ippolito, che si pavoneggiava manco fosse Cristiano Ronaldo, la vittoria era stata schiacciante e Akira e i suoi compagni erano stati completamente debellati.

Akira, sdraiato a terra e con un braccio sopra gli occhi, stava cercando di riprendere fiato quando mi avvicinai.

«Te la prendi se ti dico che siete stati la cosa peggiore mai vista in tutto l'universo?» gli domandai e lui ridacchiò.

«Siamo stati così tremendi?»

Male era un eufemismo, ma non volevo infierire più del dovuto, dato l'impegno che gli avevo visto mettere in gioco.

«Peggio. I miei poveri occhi e cuore hanno sanguintato da quanto li avete feriti».

Akira distolse il braccio.

«Per cui contro la terza informatica saremo spacciati, giusto?»

Ogni anno le varie classi si fronteggiavano in sfide interne principalmente a pallavolo e a calcio, e alla fine si decretava la classe più forte.

Grazie a me la mia classe aveva vinto ogni anno il torneo di calcio, quest'anno invece non sarei potuto essere io il cavallo trainante.

La settimana successiva la classe di Akira era stata chiamata a fronteggiare la terza informatica che noi avevamo eliminato l'anno prima al primo scontro diretto.

«Ti darò qualche lezione. Non so se riuscirei a sopportare un'altro scempio simile».

Akira si ritrovò concorde e ci accordammo di recarci il giovedì, per via dei nostri vari impegni pomeridiani, il babysitteraggio di Akira con la sorellina e la fisioterapia per me, dopo la scuola, in un campetto isolato dove avrei avuto modo di trasformarmi in un allenatore senza pietà. Lui e la sua classe non potevano assolutamente perdere contro quei terzini, ne andava della loro dignità.

Passai il resto della mattinata cosí come i giorni successivi desideroso che quel momento giungesse al più presto


Passai il resto della mattinata cosí come i giorni successivi desideroso che quel momento giungesse al più presto.

Finalmente avevo trovato qualcosa per cui valeva la pena far qualcosa e per questo mi lasciai scivolare sulla pelle in modalità zen le lezioni e i vari professori, che continuavano con la loro personale crociata contro il sottoscritto. Dovevo essere davvrro importante se ero oggetto quasi perenne dei loro pensieri.

Durante le varie lezioni di inglese la prof cercò di farmi parlare con il risultato del mio sguardo perso nel vuoto, mentre il cervello rielaborava una tecnica da utilizzare per quel giorno. Mi avesse chiesto quello anziché come si potevano analizzare campioni di sangue umano le avrei pure risposto.

A igiene neanche a parlarne. La lezione era su diversi batteri Gram + e la loro attività pericolosa sull'uomo. I batteri non giovavano a calcio, per cui in quel momento erano inutili.

E fu così per tutte le altre materie che si susseguirono.

Infine giunse il momento tanto atteso. Al suono della campanella mi fiondai fuori dalla classe rischiando di asfaltare con la sedia a rotelle qualche mio compagno.
Non sarebbe stata questa gran perdita, si mettevano tra me e la tanto agognata l'uscita.

Trovai Akira in compagnia del trio di nerd ad aspettarmi a fianco alla sua auto. Non appena mi vide si aprì in un ampio sorriso.

«Luca-chan» mi salutò con tutta la sua gentilezza, smorzata dalla breve risatina di Capelli Tinti.

Lo ignorai bellamente per concentrarmi su Akira.

«Vengono anche loro?» domandai quasi deluso. Credevo che fossimo solo noi due, non che avessimo il seguito di disagiati.

I tre elettronici mi rivelarono della loro scarsità a calcio (allora era un problema dei nerd a questo punto) e che anche a loro serviva qualche dritta per la partita contro la quinta geometri.

Seh vabbè già che c'ero perché non allenavo l'intera classe? A pensarci potevo farmi pagare un bel po' di palanche...

«Luca, che c'è?»

"Niente, mi aveva solo posseduto il mio lato genovese" pensai senza però esprimerlo a voce alta. Ero già strano di mio, rivelare i miei pensieri mi avrebbe fatto varcare limiti che era meglio lasciar stare.

Salimmo tutti in auto, ebbi il privilegio di sedermi nel posto accanto ad Akira (ben vi sta!), e subito i tre nerd intavolarono una discussione su un'opera che pareva si intitolasse Kiseiju o una parola simile.

«È una delle serie più belle mai disegnate» cercò di convincerci Roberto, gli occhi che brillavano.

«Io la trovo invece inqietante e spaventosa» ribattè Anonimo un po' intimorito.

«Solo perché non ti piacciono le serie di questo tipo».

Notai con la coda dell'occhio che Akira stava seguendo quello scambio di battute scuotendo un poco la testa e ridacchiando.

«Non tutti siamo amanti dello splatter e delle inquietudini come te. Fosse per te faresti il killer professionista».

«Scusate ma di cosa parla questa serie?» m'intromisi. Mi stavo un po' annoiando a sentir parlare di cose che non conoscevo.

«Parla di una specie aliena che si sostituisce al tuo cervello ed essendo creature antropologhe si nutrono di esseri umani. Il loro scopo é comunque conquistare la terra».

Ah...

Perché l'avevo chiesto?

«Interessante» riuscì a commentare a stento.

«Non ti dà fastidio come a Giac?» mi domandò Roberto.

Un po' si.

«Non più di tanto» risposi invece, notando riflesso nello specchietto uno sguardo d'intesa. «E si tratta di un...seinen

Tutti, ad eccezione di Akira, mi fissarono sgomenti come se avessi detto chissà cosa. Per una volta che avevo unato un termine nella loro lingua da nerd.

«E come ca...» cominciò a dire Capelli Tinti, il primo ad essersi ripreso, ma venne bloccato da Akira.

«Ho insegnato a Luca-chan i generi principali delle opere giapponesi» s'intromise Akira orgoglioso, il che mi fece non poco felice.

Vidi riflesso nello specchietto Capelli Tinti alzare gli occhi al cielo.

«Adesso non si deve montare la testa. Non è che adesso é diventato un professionista nel sapere quattro generi».

Se gli avessi chiesto le formazioni di ogni anno della mia squadra del cuore ero certo che sarebbe rimasto a fissarmi con una faccia da pesce lesso e completamente ignaro. Si, avevo imparato ogni nome di ogni singolo calciatore che aveva vestito la maglia della squadra più mitica dell'universo e i risultati di ogni partita giocata, andata e ritorno, da quando era stata fondata. Quando volevo avevo una mente solidamente infinita, ma questo onore
era solo per ciò che riguardava il calcio.

Mi trattenni dal rinfacciarglielo, solo perché sapevo che ad Akira faceva più piacere che andassimo d'accordo e mi limitai a fissare la strada di fronte a me, tamburellando sul bracciolo della portiera.

«Per me è un bel traguardo. Nessuno nasce imparato e Luca-chan ha appena intrapreso il lungo cammino verso il lato oscuro dei manga» intervenne in mia difesa Akira girandosi verso di me, regalandomi uno dei suoi sorrisi più belli.

«Da quando è arrivato lui non fai altro che difenderlo ».

«Lo stai attaccando ingiustamente».

«Ho solo detto la mia. Ora non è più permesso?»

«Non devi andargli addosso per ogni cosa. Ho notato questa incompatibilità di carattere tra voi due ma almeno Luca cerca di trattenersi». Mi voltai verso di lui e lo trovai visibilmente contrariato.

«Ti stai facendo abbindolare».

Akira strinse le mani sul volante. Percepivo la sua rabbia e quasi invidiai la sua capacità di autocontrollo.

«Non ha senso. Luca é ormai parte del nostro gruppo Simo».

A quelle parole ebbi un tuffo al cuore. Non meritavo una presa di posizione simile anche perché il mio tempo di conoscenza di Akira non era paragonabile al loro che durava già da anni. Ma sentirlo così vicino mi fece arrossire a tal punto da dovermi voltare dall'altra parte cone un ladro sperando che nessuno vedesse il mio volto riflesso.

«Pensala come ti pare» borbottò infine Capelli Tinti incrociando le braccia al petto.

Nell'auto calò un gelo, paragonabile a quello di una calotta polare, interrotto, per fortuna, da Roberto che riprese a parlare di quella serie.

Li ascoltai in parte, ormai non tanto desideroso. A differenza di Akira non mi avrebbero mai accettato come membro del loro cerchio ristretto.

Capelli Tinti era l'unico che si era esposto ma ero quasi certo che anche gli altri due fossero abbanstanza insofferenti alla mia presenza.

Se non fosse stato per Akira sarei stato del tutto da solo.

Dopo meno di una ventina di minuti arrivammo a destinazione, non con poche difficoltà, visto che il campetto in questione si trovava in fondo a una scalinata ripida


Dopo meno di una ventina di minuti arrivammo a destinazione, non con poche difficoltà, visto che il campetto in questione si trovava in fondo a una scalinata ripida.

Akira mi prese di peso e mi portò non senza difficoltà fino in fondo, con qualche lamentela iniziale da parte mia dato che alle spalle aveva quello che ormai riconoscevo come lo zaino delle mie protesi. Avevo proposto io quel luogo ma mi ero del tutto dimenticato di quel piccolo dettaglio, insignificante per chi poteva camminare ma non per la mia attuale situazione.

Roberto invece si era proposto a portare la sedia a rotelle che con le mie istruzioni riuscì ad aprire e su cui Akira mi depose delicatamente, i capelli corvini che mi solleticarono il volto. Quel giorno parevano tante morbide piume, e il loro lieve sfioramento mi causò un tuffo al cuore.

Tornai a respirare normalmente solo quando lui e gli altri si allontanarono per andare a posare le giacche in un angolo del campetto, null'altro che un riquadrato dalle dimensioni imbarazzanti ma che almeno era provvisto di due porte.

Akira mi si avvicinò reggendo in mano la borsa che conteneva le protesi. Doveva averle infilate nel bagagliaio della sua auto quella mattina prima di venire a scuola.

Non potevo rifiutarmi di indossarle dato che faceva parte del nostro tacito accordo.

Mi feci aiutare a metterle e ancora provai un senso di estraneità che però diversamente dalla prima volta mi rincuorava e al tempo stesso mi terrorizzava.

Seguì Akira per raggiungere gli altri che, constatai con soddisfazione, avevano indossato tutti indumenti comodi come avevo indicato e con professionalità, senza perdermi in inutili preamboli, cominciai a darmi alle spiegazioni, partendo proprio dalle basi.

Dovevo avere le sembianze di un esaltato, ma non potevo farci nulla. Il calcio per me era tutto, e poter condividere finlamente un qualcosa in cui ero bravo mi entusiasmava non poco.

Su mia richiesta Roberto andò a recuparare dalla sacca che si era portato un pallone da calcio conprato per l'occorrenza.

«È quello che sembrava vagamente più simile a un pallone da calcio» si scusò. In effetti era di quelli in plastica che pensano di poter simulare uno di quelli effettivi, ma per i nostri scopi ce lo saremmo fatto andare bene, con mia enorme angoscia. E poi importava il gesto.

Gli rivolsi un cenno della testa e un sorriso di rassicurazione prima di farglielo poggiare a terra e fornire a uno per volta l'esercizio da compiere, dai semplici passaggi al controllo. Non gli risparmiai nulla, quando sbagliavano si beccavano la mia lavata di capo. Ero intransigente, ma non era per questo che mi avevano chiesto aiuto?

Far imparare quello che per me erano stati anni di esperienza in una manciata di ore era un'impresa impossibile, mi premeva che capissero ed entrassero meglio in questo sport per poter fare almeno una figura dignitosa.

Non mi aspettavo grandi miglioramenti ma con sorpesa mi ritrovai a osservare più coordinazione da parte di Roberto e Anonimo, mentre con Akira la situazione sembrava più disastrosa di quello che pensassi. Ma mentre loro tre sembravano metterci inpegno non lo si poteva dire di Capelli Tinti.

Aveva del talento (non gliel'avrei detto neanche sotto tortura) ma sembrava svogliato e a tratti seccato. Chi gli aveva detto di venire se poi manifestava tutto questo scarso entusiasmo?

Fu quando arrivarono circa le cinque, l'allenamento stava perdutando da circa due ore, che Capelli Tinti con uno sbuffo si allontanò dalla sua postazione di allenamento per avviarsi verso i suoi averi.

«Dove stai andando Simo?» domandò Roberto perplesso.

«Sentire, al contrario di quanto sembra a voi, ho degli allenamenti con la mia squadra. Abbiamo in programma delle gare che sono indispensabili se vogliamo partecipare alle olimpiadi. Per cui sayonara, ci vediamo domani» esclamò Capelli Tinti dopo essersi preparato  e allontanadosi agitando una mano oltre le spalle. Non me l'aveva detto direttamente, manco fosse un segreto di stato, ma faceva parte di una squadra di pallavolo molto valida e, da che avevo capito, era talmente bravo da essere stato convocato nella nazionale più volte.

Comunque erano cazzi suoi, si perdeva un allenamento con un vero fuoriclasse (il sottoscritto ovviamente).

Feci per tornare alla mia spiegazione quando i cellulari di Roberto e Anonimo suonarono in simultanea, con una sorta di coretto.

I due un tono di scuse affermarono, dopo una breve chiamata, che dovevano tornare a casa. E alla fine mi ritrovai da solo con Akira che mi sorrise.

«Sembra che sia rimasto la tua unica cavia» scherzò.

Di tutta risposta alzai gli occhi al cielo.

«Affari loro. Ti trasformerò in un campione e voglio proprio vedere che facce faranno quando di renderanno conto di aver sciupato quest'occasione ».

«Pensi che sia stato voluto?»

Feci spallucce. «Sono malpensante di natura» mi limitai a rispondere prima di calarmi nuovamente nella mia versione allenatore.

Continuai a fornire ad Akira esercizi da replicare, e commenti costruttivi a ogni suo sbaglio per migliorare il suo approccio a questo sport. Ma più procedavamo più mi rendevo conto che l'incompatibilità non era recuperabile. Ma non avrei demorso!

«Ti sbilanci troppo verso destra mentre provi a tirare. Così facendo rischi di perdere l'equilibrio più facilmente» esclamai all'ennesimo orrore. Come poteva fare errori così grossolani?

«Cosí?» domandò lui incerto, facendo esattamente il contrario di quello che avevo spiegato.

Ma aveva ascoltato una parola di quello che avevo detto?

Oh al diavolo!

Gliel'avrei fatto vedere praticamente.

Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai a lui, gusto tre passi dato che gli ero sempre stato accanto. Le gambe erano pesanti e affaticate come se ai piedi avessi legati dei blocchi di piombo, ma per me era oltraggioso vedere uno che calciava in quel modo così impacciato quello che era uno dei tiri più semplici da mettere in pratica.

Lui sfoderò un sorriso a trentadue denti. Che accidenti aveva da ridere? Era una catastrofe!

Mi feci passare il pallone e lo posizionai a terra.

«È così che devi rimanere e a calciare. Non di punta che ti massacri le dita, ma di lato. E cerca di bilanciare il peso del tuo corpo su entrambe le gambe per avere l'ultimo momento una condizione ins...tabile...»

Com'è che vedevo Akira alla stessa altezza?

E perchè lui, malgrado lo stessi rimproverando, in senso buono, mi stava osservando come se avesse assistito alla resurrezione di Lazzaro?

«Luca sei in piedi» mi disse tra le lacrime che, capì subito, erano di emozione.

M'irrigidi e lentamente abbassai lo sguardo.

Si ero in piedi, le gambe mi facevano in male allucinante dalla troppa inattività ma ero in piedi! Le protesi di Akira davano al mio corpo un tocco quasi da automa, estraneo. Eppure al tempo stesso sentivo come se fossero da sempre state parte di me.

Mi cedettero le gambe e Akira fu fulmineo a bloccare la mia collisione con il terreno, il suo braccio che mi premeva l'addome. Mi aiutò a risedermi sulla sedia a rotelle, il mio sguardo perso in un punto indefinito di fronte.

Vedevo sfocato e da questo intuì che stavo piangendo, ormai un qualcosa che facevo di frequente e che mai avevo fatto prima dell'incidente.

«Ero in piedi» mormorai credendo a stento a quello che avevo fatto.

«Si» confermò lui al che alzai lo sguardo.

«L'ho fatto sul serio?» domandai più per convincermi che per una risposta vera e propria.

«Perché così sopreso? Io non ho mai dubitato che potesse accadere prima o poi. La tua passione ha vinto sulla tua paura Luca. Sai questo cosa significa? Se ti allenerai potrai tornare a camminare sul serio!»

Akira pareva esaltato e provai una certa emozione a vederlo così. Ci teneva davvero così tanto?

Poggiai le mani sul corrimano e mi diedi lo slancio, stavolta volontariamente.

Diversamente da prima, che era staro un gesto del tutto involontario e istintivo, ebbi più difficoltà a reggermi in equilibrio ma riuscì nel mio intento. Arrancai verso di lui con passi incerti, tremanti come quelli di un bambino che impara a camminare, facendomi sembrare di essere tornato indietro nel tempo. Invece era una rinascita, il nuovo me stava cercando di uscire dal bozzolo di immobilità per poter tornare al mondo. Akira mi venne in aiuto avvicinadosi quando vide che le gambe erano arrivate al limite e che non mi avrebbero più retto. Avvolsi le mi braccia attorno al suo collo per abbracciarlo, per potergli trasmettere tutta la mia gratitudine, gesto che lui ricambiò con mani tremanti.

Osservarlo negli occhi era davvero stata tutt'altra cosa che farlo dalla mia solita posizione e il merito era tutto suo.

Quanto amavo quel ragazzo.

Aspetta...cos'avevo appena pensato?

Arrossì violentemente e mi staccai rischiando di cadere, ma al pelo lui mi afferrò per il braccio, osservandomi preoccupato.

«Non essere precipitoso Luca-chan. Facciamo un passo alla volta e cerchiamo di evitare contatti indesiderati con il terreno, che dici?» domandò smorzando il momento. «E poi...come mai sei tutto rosso in viso? Ti fa male da qualche parte?»

Negai con la testa, snocciando la scusa più plausibile che mi era affacciata nella mente, ossia l'essermi affaricafo troppo.

Al cuore, avrei voluto invece rispondergli.

Perché in quel momento, a poca distanza dal suo volto pallido, avevo provato il desiderio quasi irrefrenabile di baciarlo.

 

*trad dal giapponese: ciao

 

Angolino dell'autrice (viva se qualcuno se lo fosse chiesto):

Buonsalve :3 buon primo maggio a tutti :3

Eccomi (finalmente) con un nuovo capitolo :D

Scusatemi i tempi lunghi con i quali aggiorno ma il lavoro mi prosciuga 😭 cerco davvero di fare del mio meglio, e spero che il capitolo abbia soddisfatto la vostra attesa 🙏🏼
Abbiamo un Luca pronto a tornare alla carica ma molto confuso sui suoi sentimenti...un momento importante sta per arrivare (mancano proprio pochi capitoli)😍
Ringrazio chi segue questa storia (mi rendete estremamente felice 😭❤️)

Adiòs!
FreDrachen

 

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Capitolo 30
*** Capitolo 24 ***


Capitolo 24


Pensavo stesse scherzando quando mi annunciò che mi avrebbe trascinato in fumetteria.

Insomma non era la prima volta che esprimeva la sua volontà di convertirmi in un nerd e una parte di me sperava che scherzasse.

Malgrado i miei pensieri non riuscivo a fare a meno della sua compagnia così per puro masochismo quel giorno accettai di andare nuovamente a casa sua a studiare dopo scuola. Dovevo dire che riuscivo a concentrarmi più che a casa mia, e questa volta speravo di non dover spiegare cose imbarazzanti a Maiko, che mi aveva rivelato di aver preso un quattro all'interrogazione per colpa delle mie spiegazioni troppo dettagliate, ma che continuava a voler bene al suo Onii-san sconcio. Ormai era diventato il mio nuovo soprannome, sigh.

All'uscita mi incrociai con Akira e prendemmo posto in auto.

Ma dopo poco mi accorsi che la strada che stavamo percorrendo non era la solita e la zona di destinazione era dall'altra parte della nostra meta.

«Ehm Aki, casa tua non è da quella parte?» domandai perplesso indicando quella che, secondo il mio senso dell'orientamante, praticamente inesistente, doveva essere la nostra direzione.

«Vorrei un attimo fare una piccola deviazione» spiegò con fare enigmatico.

Ci infilammo in una via secondaria di quella considerata tra le vie più importanti della città e dopo aver trovato, fortunatamente, quasi subito un parcheggio mi invitò a raggiungere un negozio di cui non conoscevo l'esistenza e realizzai che si trattava di una fumetteria.

«Ho dei recuperi da fare assolutamente e già che ci siamo posso provare a trovare qualche manga che potresti cominciare a leggere».

Santo cactus!

«Aki davvero, non ce n'è bisogno. Abbiamo tutto il tempo per...»

«Assolutamente no. È arrivato il tuo momento».

Detto così sembrava quasi che stessi per andare a morte sicura.

Dato che mi pareva fermo sull sua idea mi costrinsi a seguirlo all'interno. Era un locale abbastanza piccolo e scarsamante illuminato dalla luce naturale, per questo motivo regnava una luce soffusa che mi fece quasi lacrimare gli occhi. Aveva dei piccoli scaffali bassi che creavano una sorta di percorso e le pareti erano caratterizzate da librerie che arrivavano fino al soffitto traboccanti di tanti piccoli volumetti. In una notai quei pupazzetti dalla testa grossa e il corpo sproporzionato che tanto piacevano ad Agnese, i funko cosi.

Alla cassa, incastrata nell'angolo di fronte all'entrata, stava una donna sulla quarantina dai capelli neri raccolti in una coda e vestita con una salopette jeansata sopra una maglia a strisce.

«Ciao Akira. Dovresti avere qualcosa in casella» esclamò la donna armeggiando con le dira sulla tastiera del suo pc.

Solo io non stavo capendo un cazzo?

«C'è chi penso che sia?» domandò Akira con gli occhi che gli brillavano.

«Nisekoi 19. Tutto tuo» dichiarò lei pescando il volumetto da un piccolo scaffare al suo fianco.

«Faccio un giro e arrivo» disse lui, quasi sul punto di fiondarsi su quel manga.

Sarei diventato anch'io un fanatico fino a quel punto? Ossignore!

«Vieni Luca-chan» mi invitò e non potei fare alteo che seguirlo. Ebbi un po' di difficoltà a districarmi tra gli scaffali, per fortuna c'eravamo solo noi e non ebbi il problema di dover asfaltare qualcuno per passare, ma alla fine riuscì a raggiungerlo, trovandolo che stava maneggiando, manco fosse il Sacro Graal, un manga con due tizi in copertina.

«Sei venuto per questo?»

«Super lovers è sacro» ribattè lui, forse non capendo il mio scarso entusiasmo. «E si, sono venuto per questo e per Junjo romantica 3» spiegò arraffando l'altro manga in questione.

«Il tuo amico é un vero fudanshi*» mi disse la commessa con un sorriso divertito, dopo essermi comparsa magicamente di fianco, facendomi fare un salto sulla sedia.  Ma da dove cazzo era sbuccata? Dal pavimento?

Annuì inebetito non sapendo che accidenti avesse detto. Ma la smettevano di parlare con termini che non capivo?

«È uscito anche Horimiya 5? Devo prenderlo assolutamente!» se ne uscì improvvisamente Akira, catapultandosi dall'altra parte dello scaffale.

«Anche se devo ammettere che legge tutti i generi» precisò lei tornando alla sua postazione in cassa.

Fissai Akira intento a coccolare le sue nuove conquiste e capì cosa significava essere appassonati di qualcosa. Una scena simile l'avrei fatta per un pallone da calcio autografata dai membri della mia squadra del cuore.

Non mi accorsi che Aki aveva preso un manga dallo scaffale in quando non me lo sventolò in faccia.

«Prova a cominciare da questi» mi propose. E da lì recuperò altri volumetti che mi affidò.

Il primo si intitolava Given e la copertina era di un beige delicato con quattro ragazzi che parevano formare una band musicale, il secondo aveva la copertina simile a quello che avevo maneggiato a suo tempo in camera sua (prima dello shock dovuto al rapporto abbastanza dettagliato tra due ragazzi) in cui spiccava quello che apreva un gigante anatomico e un ragazzo dai capelli scuri che gli si fionda addosso (che fosse un gigante potevo arrivarci da titolo), e per finire un titolo, Tokyo ghoul, che non mi suonava sconosciuto, forse lo aveva nominato Roberto o un altro membro del trio di Nerd.

«Te ne ho preso quasi uno per genere: shonen-ai, che sarebbe, in termini semplici, una versione soft di un rapporto omosessuale da diversificare dallo yaoi in cui sono presenti scene più spinte, shonen, ossia manga di lettura prevalentemente per un pubblico maschile giovane, seinen, che sono letture più impegnative che spaziano in più generi, quello che ho scelto per te è un horror. Per il momento ti ho abbonato gli yuri e gli shojo».

Termini semplici? Se ne era convinto lui. E dire che questa era la seconda volta che me li spiegava.

Annuì per farlo contento, cercando di mascherare la mia difficoltà di comprensione e lo seguì verso la cassa.

Ci fu una breve discussione sul pagamento e alla fine la spuntò lui che si accollò anche la spesa dei miei. In futuro dovevo trovare assolutamente un modo per sdebitarmi.

Conclusa la nostra breve ma intensa deviazione, ci avviammo verso l'auto e successivamente verso la casa di Akira.

Per fortuna quando arrivammo alla meta sua zia era a casa e ci aiutò con la sedia a rotelle e il mio zaino mentre Akira mi portava fra le braccia, gesto a cui ormai mi ero abituato. A differenza dall'inizio cominciavo a trovarlo piacevole. D'istinto poggiai la testa contro il suo petto, e lo sentì subito trattenere il respiro e il cuore accelerare di battito. Ero certo che se avessi avuto il coraggio di alzare lo sguardo l'avrei trovato rosso per l'imbarazzo.

Mi staccai subito, pentendomi di quel gesto con cui l'avevo messo evidentemente a disagio.

Giunti dentro casa, constatando che si era ripreso da quella parentesi imbarazzante, mi adagiò seduto sul divano e andò a recuperare le protesi che mi fece indossare. Come tacito accordo mi faceva esercitare in ogni momento utile, in modo così da abituarmi. Non era cosi semplice come avevo creduto all'inizio, ma ero certo di potercela fare.

Con enorme fatica lo seguì in camera sua, posta in fondo al corridoio. La distanza non era questo granché ma a me sembrava più di quella che aveva la Terra con Plutone.

Alla fine, senza fiato, con i muscoli che imploravano pietà, riuscì nella mia impresa e mi sedetti fiaccamente sulla sedia girevole posta di fronte alla scrivania, dove Akira mi condusse gentilmente, mentre lui si posizionò sul letto, la schiena appoggiata allo schienale.

Con tutta la felicità del mondo recuperai il quanderno e il libro di matematica per fare gli esercizi che quell'arpia della prof ci aveva assegnato da un giorno all'altro, più del solito per colpa di alcuni miei compagni che avevano fatto casino nella sua ora. Per venicarmi li avrei trasformati prima o poi in fertilizzante per le piante del piccolo cortile collegato al laboratorio di microbiologia.

Sospirando cominciai a leggere il primo, passando al secondo, al terzo...solo io non capivo cosa volessero da me e la mia vita?

Con la coda dell'occhio vidi Akira estrarre da un cassetto del comodino un blocco a spirale con le pagine bianche e un astuccio contenente diverse matite e chine. Dopo poco cominciò a tracciare diverse linee sul foglio, ma dalla mia posizione non riuscivo a capire di cosa si trattasse.

Tornai ai miei esercizi, e poco a poco riuscì a risolverne qualcuno, con il conseguente, però, esaurimento inevitabile dei miei poveri neuroni.

Ma più avvertivo il leggero frusciare del foglio e della matita più la mia, già scarsa, naturale concentrazione veniva meno.

Dovevo assolutamente saperlo!

«Che stai facendo?» gli domandai infine, allungando il collo per vedere ma lui fu lesto a voltare il blocco in modo da impedirmi la visuale di quello che stava tracciando sul foglio.

«Non avendo nessun compito che non abbia già fatto mi sto esercitando un po' nel...disegno» si limitò a rispondere con un'alzata di spallucce.

Beato lui che non aveva i prof che lo strapazzavano di verifiche e interrogazioni!

«E perchè non mi vuoi farmi vedere?»

«Non voglio essere la colpa delle tue distrazioni».

«Ormai é fatta. Forza fa vedere».

Lui mi fissò ancora un attimo prima di cedere.

«Però dovrai venire qui a prendertelo» continuò, incerto se soddisfare la mia richiesta o meno.

Maledetto!

Mi alzai a fatica, ancora non mi ero ripreso dallo sforzo di prima, ma riuscì comunque a raggiungerlo. Lui mi fece spazio spostandosi di lato e così riuscì a imitare la sua posizione semieretta.

Mi passò il blocco tenendo però lo sguardo basso come se si vergognasse e questo mi fece salire ancora di più la curiosità.

Sulla pagina trovai tratteggiato il mio profilo. Accidenti, mi aveva fatto un ritratto mentre avevo lo sguardo perso fuori dalla finestra, in chissà che pensieri profondi. Lo stile era manga, cosa che mi sarei aspettato da Akira, e lo trovai...bello. Le ciglia che solleticavano la pelle e che nascondevano gli occhi mezzo socchiusi, la bocca nascosta dalla mano chiusa a pugno. Era così che mi vedeva?

Glielo ripassai in mezzo imbarazzo.

«È davvero...molto bello»dissi infine al che Akira alzò lo sguardo.

«Davvero?»

Gli sorrisi cone per rincuorarlo. «Si e te lo dice uno che il livello massimo di disegno arriva a quell'omino stilizzato con le linee e lo sguardo perso».

Vidi Akira cercare di soffocare una risata ma inutilmente.

«Ma certo, infierisci pure sulla mia abilità nel disegno» ribattei fingendomi offeso, in realtà più che consapevole di essere completamente negato.

Ero contento però di aver fatto ridere Akira, era molto più bello quando sorrideva.

Arrossì visibilmente a quel pensiero e prima che Akira se ne potesse accorgere voltai il capo e tornai alla scrivania, affondando poi lo sguardo sugli esercizi che mi aspettavano.

Non riuscivo più a concentrarmi e il pensiero di Akira dietro e spaparanzato sul letto non mi aiutava.

«Cosa stai facendo?»

Sussultai alla sua voce a pochissima distanza dal mio orecchio, il suo respiro contro la mia pelle, in quel momento più sensibile che mai alla sua vicinanza.

D'istinto mi voltai e mi ritrovai il suo volto a pochissima distanza, neanche cinque centimetri.

Avvertì il battito cardiaco accelerare e il respiro farsi affannoso. Perchè faceva ogni volta questo al mio corpo? E non solo al mio, anche Akira pareva avere il mio stesso problema.

Incrociai i suoi occhi color ossidiana in cui lessi emozioni che non riuscivo a comprendere del tutto.

Dovevo distogliere lo sguardo e allontanarmi ma allora perché non lo facevo? Perchè il mio corpo si ribellava e non dava retta alla ragione?

Annullare la distanza e poggiare le labbra sulle sue sarebbe staro così sempkice e naturale...

Quel pensiero mi fece tornare in me e con uno scatto, mossi il mio corpo in modo tale da aderire alla parte destra della sedia, tutto per allontanarmi anche di poco da Akira per riprendere il controllo di me stesso e, giusto per essere sicuro che non leggesse i miei pensieri spudoratamente scritti a caratteri cubitali sul mio volto, mi girai, constatando che anche Akira sembrava abbastanza a disagio e palesemente in lotta con i suoi sentimenti.

Ero in vero cretino.

«Cosa stai facendo?»

Quella domanda racchiundeva più di una risposta possibile ma solo una mi sembrava giusta in quel momento.

«Matematica, integrali» mormorai.

Lui annuì e recuperata una sedia si posizionó al mio fianco e cominciò a spiegare.

Andò avanti cosi per tutto il pomeriggio, e Akira fu paziente con me anche se si avvertiva qualcosa di stonato tra noi, e la colpa era senza dubbio quello che era successo poco prima.

Tornai a casa e incurante di mia madre che mi chiese qualcosa mi fiondai in camera mia buttandomi sul letto, soffocando il volto sul cuscino.

Mi tornarono in mente le parole che mi aveva rivolto prima che tornassi a casa il giorno del nostro ultimo incontro di tutoraggio.

Sull'uscio mi aveva sorriso inclinando il volto di lato conferendogli un aspetto birbante.

«Non è quello che ti svevo promesso?» mi aveva domandato e capí a cosa alludeva. Il primo giorno era stato chiaro che era intenzionato a vincere cobtro la mia testardaggine come testimoniava il suo cognome.

Ma non era solo quello che era riuscito a fare. Era riuscito a impadronirsi anche del mio cuore che non pensavo fosse in grado di provare veri sentinenti, e quella situazione mi lasciava ogni volta stordito, confuso.

Ma dovevo riuscire a tenermi sotto controllo altrimenti mi sarei potuto trasformare nella rovina di entrambi.

Ma dovevo riuscire a tenermi sotto controllo altrimenti mi sarei potuto trasformare nella rovina di entrambi


Dovevo darci un taglio. In senso letterale.

Mi presi tra le dita una ciocca di capelli ormai tornati al suo colore originario e più lunga del solito.

Urgeva fare un salto dal mio parrucchiere di fiducia, la cui attività era poco distante da casa mia e quindi facilmente raggiungibile anche da solo.

Indossai in fretta gli indumenti per non congelare visto che ormai era metà gennaio e le temperature parevano più rigide di quelle antartiche (ok avevo un poco esagerato ma con il vento gelido che tirava quella percepita poteva benissimo esserlo).

Ero solo a casa per cui a nessuno sarebbe importato se mi fossi fatto un giro. La triste realtà di avere dei genitori a cui non importava nulla di te.

Trovai parecchia gente, la maggior parte che non sapeva visibilmente come camminare.

Insomma, i marciapiedi erano abbastanza stretti, che ti metti a deambulare a metà? Accosta a un angolo no? Ma no, figurati! Piú andavano avanti gli anni più pensavo che la gente stesse diventando individualista e insopportabile. Se la situazione sarebbe peggiorata mi ero prefissato che sarei andato a fare l'eremita, trascinandomi dietro Akira.

Ok.

Stop.

Time out.

Niente pensieri simili. Peccato che il mio cervello non fosse di quest'avvviso.

Quando raggiunsi la mia meta non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo.

Per fortuna non c'erano scalini per entrare e per questo mi bastò spingere la porta d'ebtrata prima di catapultarmi nel mondo colorato di Hermes.

Era tutto illuminato e dalle pareti bianche, in modo da rendere il tutto ancora più accecante. A tappezzare le pareti diverse foto di ragazzi e ragazze che sfoggiavano le acconciature più disparate.

Trovai Hermes intento a spazzolare il pavimento per liberarlo dalle ciocche di capelli che aveva tagliato alle vittime delle sue magiche forbici. Vittime felici perchè Hermes aveva un talento ineguagliabile che lui sottovalutava più del dovuto. Aveva venticinque anni ed era magrissino malgrado mi rincuorassse dicendomi che mangiava di gusto (nella mia mente avevo cominciato a soprannominarlo Shaggy, come quello del cartone di Scooby-doo), e caldi occhi nocciola. I capelli erano ciò di più eccentrico potesse possedere, cambiava colore ogni volta e stavolta sfofgiava un bel verde evidenziatore. Sugli altri avrebbe fatto sembrare la persona inquietante, ma a lui donavano. Anche troppo.

Dovette avvertire la mia presenza perchè si volfò nella mia direzione, sfoggiando quasi subito un sorriso.

«Buondì Luca. È da un po' che non passavi».

Mi grattai la guancia destra a disagio.

«Ho avuto dei...problemi».

Il suo volto si abbassò per un attimo sulle mie gambe amputate per poi tornare a fissarmi negli occhi.

«Mi dispiace davvero molto Luca. Dev'essere stato difficile per te».

Annuì alle sue parole, non dettate dalla pietà ma da un sincero dispiacere. Putroppo, o per fortuna, Hermes era dotato di un volto su cui si potevano leggere tutti i pensieri che gli passavano per la testa, e la sua gentilezza e simpatia lo rendecano una compagnia piacevole.

«Cosa posso fare per te?»

«Uno dei tuoi shampoo favolosi e direi che è il momento di rinnovare i colpi di sole, che dici?»

«Aggiungerei anche una leggera spuntatina in fondo alle ciocche» aggiunse lui facendomi cenno ad avvicinarmi alla sedia posta di fronte a un lavandino.

Non cercò di aiutarmi, forse leggendo il linguaggio del mio corpo che lo dissuadeva dal trovarci, e mi sistemai comodamente, inclinando la testa all'indietro in modo da permettere a Hermes di fare il suo magico lavoro.

Farsi lavare i capelli da lui equivaleva a un viaggio direttamente in Paradiso. Le sue dita lunghe e affusolate messaggiavano la cute e i capelli con una tale grazia e delicatezza che ti faceva distendere i nervi.

Chiusi gli occhi lasciandomi andare a quel momento. Piú volte mi ero rilassato talmente tanto da addormentarmi e Hermes era stato costretto a svegliarmi.

«Ti trovo pensoso Luca» affermò, le dita affondate tra le mie ciocche insaponate.

Aprì gli occhi, e mi ritrovai a fissare il suo volto solcato da un sorrisetto.

Percepivo che non si stesse riferendo al mio incidente. Ma allora a cosa...

Avvampai senza ritegno, cercando di eludere il suo sguardo.

«Non so di cosa stia parlando»mi affrettai a ribattere. Anche troppo, perchè le mie parole anziché dissuaderlo allargarono ancora di più il suo sorriso.

«Ti sei per caso innamorato?» domandò, con un sorriso complice al che avvampai ancora di più.

Avevo detto che apprezzavo la sua spiccata sincerità? In quel momento desideravo rimangiarmi quel pensiero.

Io...innamorato di Akira?

Che idea gli era venuta in mente?

Innamorato?

Davvero?

Ma figurati...davvero?

In quel momento come potevo descrivere quello che provavo nei suoi confronti se ero il primo a non capirli?

«Non penso che possa funzionare» farfugliai e di tutta risposta Hermes aggrottò le sopracciglia.

«Intendi per Agnese? Temi di poterla far soffrire?»

«Non stiamo più insieme».

«Ah». Rimase un attimo in silenzio a metabolizzare la notizia, mentre continuava a massaggiarmi la testa con movimenti lenti e circolari.

«Non capisco quale sia il problema allora».

«È un...»  bofonchiai, l'ultima parola la ridussi a un sussurro per il quale Hermes si fece perplesso.

«Come? Non ho capito».

«Si tratta di un ragazzo» rivelai a raffica, chiudendo gli occhi per paura di vedere la reazione di Hermes. Non ero contro le relazioni di questo tipo ma esserne coinvolti, dopo aver passato la propria vita ad aver pensato di aver avuto altri interessi, era tutt'altra cosa.

«Che male ci sarebbe?» domandò Hermes.

A quelle parole riaprì gli occhi di scatto.

«Sono diventato gay! Cioè insomma...non so come spiegartelo».

«Luca, omosessuali si nasce ed è un dato di fatto. Si può solo accettare la realtà».

«Ma se non ci sto capendo nulla! Non sono neanche sicuro di esserlo. Cioè, se vedo Akira provo uno strano sentimento nel basso ventre e mi sembra quasi di essere...sulle montagne russe, non trovo altro paragone più calzante. Ma non succede con tutti i ragazzi. E poi provo ancora interesse per le ragazze».

«Nel mondo LGBT+ non esistono solo gli omosessuali lo sai no?»

«Akira mi ha già accennato questa sigla tempo fa. Mi stai dicendo che non sono completamente gay?»

«Sarebbe un problema se lo fossi?»

Rimasi in silenzio per un artimo prima di rispondere. «Credo che la mia paura sarebbe legata alla mia famiglia. Non posso dirti i miei amici perchè non so se posso davvero considerarli tali».

«Questo ragazzo, Akira hai detto-se posso dirlo ha davvero un bel nome- vale più del giudizio degli altri?»

Rimasi in silenzio a pensare. Akira era stata la prima luce che aveva illuminato la desolazione che aveva cominciato a circondarmi dopo l'incidente, l'unico che aveva avuto fiducia in me a tal punto di starmi a fianco in qualsiasi occasione.
E mi resi conto che una vita senza di lui sarebbe stata una vita a metà.

Quando tornai a casa mi buttai sul letto, pensando alle parole di Hermes e alla piega che aveva preso il discorso


Quando tornai a casa mi buttai sul letto, pensando alle parole di Hermes e alla piega che aveva preso il discorso.

«Se ti può consolare anche io sono interessato a un ragazzo. Questo farebbe di me una persona strana?» mi aveva domandato di fronte al mio mutismo, perso com'ero nei miei pensieri.

Quindi anche Hermes si trovava nella mia situazione? Per un attimo mi ero sentito meno solo.

«Tralasciando i capelli, forse si...potresti essere catalogato come una persona normale».

Lui aveva sfoderato in sorriso sadico.

«Attento a quello che dici perchè casualmente potrei sbagliarmi di flacone e sempre casualmente potresti trovarti con i capelli del mio stesso colore».

L'avevo fissato inorridito, strappandogli una risata a cui mi ero aggregato subito.

«Scherzi a parte Luca, chi decide che una cosa sia normale o meno? Tutti noi nel nostro essere siamo anormali e questo ci rende unici e diversi dagli altri. Per i sentimenti è lo stesso. Chi decide chi si può amare meno se non il proprio cuore?»

A quelle parole non avevo capito come replicare per questo avevo cercato di metabolizzarle e trovare il senso che racchiudevano.

«Che tipo è?» gli avevo domandato curioso e lui aveva alzato lo sguardo, perdendosi nei suoi pensieri.

«Bellissimo ma sofferente. La vita con lui è stata crudele e cerca in tutti i modi di tenermi lontano. Ma non posso abbandonarlo, non quando sono certo che il mio cuore gli appartiene».

«E come fai a essere sicuro che lui possa ricambiare i tuoi sentimenti?»

Lui aveva abbassato lo sguardo verso di me, nel mentre si stava prodigando a impiastricciarmi i capelli della sostanza per i colpi di Sole.

«Prima che gli accadesse qualcosa di terribile ci incrociavamo spesso, ci fissavamo negli occhi e lui sfoderava sempre un sorriso dolcissimo, come se, ogni volta che incrociavo il suo sguardo, avessi portato un po' di felicità nella sua vita. Ora più che mai sento che non posso abbandonarlo alla tristezza e al dolore. Credo che l'amore sia anche questo. L'unica salvezza di un cuore infranto». Prese fiato prima di continuare. «E lui?»

«Chi?»

«Il ragazzo che ti piace».

Pensai ad Akira e le parole fluirono da sole fuori dalla mia bocca. Era davvero arrivato il momento di essere sincero con me stesso.

«Mi ha salvato da me stesso. Dopo l'incidente stavo per entrare in un vortice autodistruttivo che stava per annientarmi. Non desideravo nulla se non essere lasciato da solo, andavo avanti per il puro istinto di sopravvivenza, non per desiderio. E come altrimenti? In un attimo avevo perso ciò che per me era più importante, il mio sogno che dava un senso alla mia vita». Accidenti, quanto mi sentivo melodrammatico. «E poi ho conosciuto lui. Insomma è stata colpa di mia madre e del preside della mia scuola. Doveva farmi da tutor per aiutarmi a recuperare le lezioni che mi ero perso nei primi mesi di scuola. All'inizio lo odiavo, così come odiavo il mondo. Lui sopratutto. Mi sembrava così perfetto, con la sua vita perfetta. Cosa ne poteva sapere lui di quello che provavo? Ma più andavo avanti a conoscerlo più la corazza che avevo scoperto racchiudeva il suo cuore si stava sgretolando, facendomi capire che anche lui aveva conosciuto il dolore. E ciò me l'ha fatto sentire più...vicino. E andando avanti ho imparato a conoscere un ragazzo dolce che dà se stesso per le persone a cui tiene. Non mi ha abbandonato anche quando ero in lotta contro il mondo e inesorabilmente mi ha aiutato a comprendere...»

Sentimenti che mai avevo provato prima d'ora, una lenta energia che stava possebdendo poco a poco il mio corpo, plasmandolo e trasformandolo in nuova essenza.

Hermes aveva annuito, come se capisse i miei pensieri.

«Ma tra noi non potrà mai funzionare» ribadì infine laconico.

«Perché ne sei così certo?»

«Perché dovrebbe corrispondere i miei sentimenti? Lui sta con una ragazza. Perchè dovrebbe stare con uno come me?»

«Credo che l'unico modo che hai per saperlo è metterlo a corrente dei tuoi sentimenti».

«Anche se questo potesse significare...perderlo?»

«Vuoi forse continuare così? Ad agoniare a un qualcosa che per il momento ti è precluso?»

Avevo già detto che se Hermes non fosse esistito avrebbero dovuto inventarlo?

Alzai la testa dal cuscino sospirando. Neanche le ragazzine di dodici anni fissate per i loro idoli non provavano uno scombussolamento ormonale come quello che attraversava il mio corpo in quel momento.

Basta! Dovevo distrarmi in qualche modo.

Recuperai uno dei manga che avevo poggiato sul comodino e mi ritrovai a rigirami tra le dita Given.

Forse non era proprio il momento giusto per leggere quel genere però ero davvero curioso di scoprire per quale motivo piacesse tanto ad Akira.

Cominciai la lettura, ebbi un po' di difficoltà con la lettura al contrario ma con soddisfazione superai questo scoglio già a metà volume.

«L'anno scorso il suo ragazzo si é improvvisamente suicidato**».

Bloccai la lettura e rilessi la frase circa un'ottantina di volte prima di metabolizzare.

Sato era un po' come Akira anche se completamente diversi. A entrambi non piaceva parlare del proprio passato.

Piú andavo avanti con la lettura piú si faceva avanti l'ipotesi che Akira non me l'avesse consigliato senza motivo, preferenza a parte. Doveva esserci, senza dubbio, una qualche sorta di messaggio nascosto.

"Un...messaggio? Ma ti ascolti?"

"É un po' difficile ascoltare i pensieri".

"Non abbiamo già avuto una discussione simile?"

"Forse, ma di certo non é servita granché visto quanto mi hai dato retta".

"Dettagli. Ma davvero sei così complottista? Aki ti ha dato solo un consiglio di lettura".

"Aki non me l'avrebbe consigliato senza motivo".

"Sei paranoico".

"Sono realista".

"Senti fa come ti pare".

Dopo la mia discussione mentale tornai a leggere il manga ma non riuscì a tornare a concentrarmi. Sconfitto lo chiusi e lo appoggiai sulla piletta delle mie prossime letture.

Le parole di Hermes riecheggiavano nella mia mente. Se avessi compiuto quel passo nulla sarebbe stato più come prima. Se le cose non fossero andate come speravo avrei perso tutto ma ormai non potevo negare la realtà.

Hermes aveva capito tutto.

Akira valeva davvero quel salto nel buio?

Non ebbi bisogno di darmi una risposta. Perchè nel profondo lo sapevo già.

L'unico ostacolo che mi si parava di fronte era solo il modo per dichiarargli i miei sentimenti.

Più facile a dirsi che a farsi.

 

* termine giapponese per identificare un ragazzo amante della lettura di boy's love
**tratto dal manga Given 1, Natsuki Kizu (Flashbook)

 

Angolino autrice:

Buonsalve :3

Finalmente Luca ha ammesso i suoi sentimenti (e direi era ora no?🎉😂), merito grazie anche a Hermes (personaggio in questa storia come comparsa, ma che sarà protagonista di una sua storia...in teoria la sua dovrebbe essere una storia a sé stante, ma mi sono detta, perché non farlo comparire anche qui? 😂 considerate la cosa tipo una sorta di crossover 😂🙈)

Comunque spero che il capitolo vi sia piaciuto :3

Riuscirà Luca nel prossimo a dichiararsi? Vedremo 😂😍

Ringrazio chi sta continuando a seguire la storia (vecchi e nuovi lett*)  ^^

Adiòs!
FreDrachen

 

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Capitolo 31
*** Capitolo 25 ***


Capitolo 25


Non riuscì a trovare il coraggio. Ero una persona debole.

Avevo passato ogni istante, lezioni comprese, a scervellarmi alla ricerca di un modo per rivelargli i miei sentimenti.
Nella mia testa passavano scene in cui, in piedi, lo attiravo a me e gli passavo un dito sul volto causandogli un'espressione dolcissima prima di...

Nah non avrebbe funzionato!

Non vivevo un un libro, se mi fossi comportato così avrebbe pensato senza dubbio che fossi una sorta di pervertito e sarebbe scappato a gambe levate.

Ero stato fortunato che a dichiararsi fosse stata, a suo tempo, Agnese, altrimenti nel caso mi sarei ritrovato come in quel momento, senza alcuna idea di come muovermi.

A scuola cercai di comportarmi come al solito, ridendo forse più del dovuto alle sue battute (che forse non erano tali, non capivo con esattezza) ma ogni volta che cercavo il coraggio sentivo che questo veniva meno e il più delle volte mi stampavo un sorriso ebete in faccia, che suscitava palesemente in lui una certa perplessità. Non sapevo se era meglio passare per un pervertito o un cretino.

Fui sorpeso quindi quando domenica mattina ricevetti un messaggio da parte sua, per fortuna avevo lasciato la vibrazione, in cui mi invitava a fare un giro, dandomi appuntamento per vederci dopo qualche ora.

Avevo risposto subito per paura che potesse cambiare idea e mi ero subito piombato a soddisfare le mie necessità biologiche, perfettamante sveglio e su di giri, cosa che aveva reso mia madre felice.

Mi coprì bene con indumenti pesanti e recuperai un po' di contanti e la carta di credito per pagarmi il taxi per raggiungere la mia destinazione.

Uscì di casa in anticipo per poter fare con calma. Il taxi arrivò dopo poco la mia chiamata, doveva essere in zona, e con altrettanta velocità mi portò alla meta, dato che per fortuna non trovammo traffico. Aveva sbuffato un po' quando mi aveva visto sulla sedia a rotelle ma si era ripreso abbastanza in fretta e con professionalità mi aveva aiutato a chiuderla e a posizionarla nel bagagliaio, e a destinazione ad aprirla per potermici sedere nuovamente sopra.

Pagai la cifra e non appena si fu allontanato mi sbilanciai quel poco per raggiungere il suo citofono.

Non dovetti attendere molto prima che mi rispondesse.

«Si?»

«Aki, sono arrivato» annunciai trionfante.

«Luca-chan

La voce di Akira dall'altra parte suonava un po' troppo dubbiosa.

La mia eccitazione si sgonfiò come un palloncino. «Non...non dovevamo vederci per un gelato?»

Rimase per un attimo in silenzio, facendomi quasi pensare che se ne fosse andato, per poi dire un semplice: «Ah».

Ah? Ma che razza di risposta era?

Mi sentì un vero idiota.

«Bè sai, mi é arrivato il tuo messaggio...» continuai, non riuscendo a capire la sua momentanea perdita di memoria.

«Ah, capisco» disse infine. Buon per lui, io non avevo capito un cazzo.

«Dev'essere stata Maiko. Deve aver sbagliato chat. Di solito usa il mio telefono per mettersi d'accordo con le sue amiche, dato che lei non ne ha uno».

Quindi avevo preso un taxi, il cui tassametro mi stava spillando ancora palanche, per nulla?

«Ma se ti fa piacere possiamo andarci comunque» aggiunse in fretta, temendo forse che ci fossi rimasto male.

«Non vorrei disturbarti. Se hai altro da fare...»

«Non disturbi mai Luca-chan. Mi vesto e arrivo».

Mi...vesto? Perché il mio primo pensiero fu che mi avesse risposto nudo? Nah, senza dubbio si riferiva a liberarsi del pigiama o di qualsiasi indumento usasse in casa. Dovevo smetterla di fare il malpensante.

Aspettai si e no una ventina di minuti prima che Akira mi raggiungesse, avvolto nel suo cappotto nero che lo faceva sembrare più alto di quello che era.

Akira propose di andare a fare una passeggiata in Corso Italia, il lungomare più famoso del centro città e perfetto per me con la sedia a rotelle, dato che era una delle poche strade che si potevano definire pianeggianti. Se avessi optato per via Venti Settembre ero certo che in discesa sarei partito e mi sarei fermato stampato contro un palo oppure asfaltato da un autobus, fini tutt'altro che allegre.

Dato che non avevo questa gran voglia di prendere nuovamente un taxi proposi di utilizzare l'autobus.

Non l'avessi mai fatto!

Perché mi venivano idee così assurdamente idiote? Dovevo imparare a cucirmi la bocca e pensare prima di parlare.

Speravo che essendo domenica quasi all'ora di pranzo fossero per lo più vuoti. E invece non appena arrivò in fermata constatai che era pieno, tanto da impedire la possibilità di abbassare la rampa, di cui erano provvisti questi nuovi modelli di bus, per le sedie a rotelle e nel caso i passeggini.

La prima occhiata che la gente mi rifilò fu tutt'altro che amichevole.

Avvertì qualche commento sussurrato, uno sembrava suonare come un: «Non penserà davvero di poter salire? Non esistono mezzi apposta per quelli come loro?»

Non esistevano cervelli per quelli sprovvisti come loro?, avrei voluto ribattere ma nessuno avrebbe rovinato la mia giornata con Akira, neanche un troglodita dal cervello di ameba come quelle persone.

L'autista, un ragazzo dai capelli biondo scuro, simili al mio colore naturale, e dagli occhi di quel colore incrociato verde e marrone, che dimostrata poco più di una ventina d'anni, si apprestò a convincere la gente a spostarsi in modo da abbassare la rampa e a quelli che occupavano la nicchia riservata di fare posto per permettermi di raggiungerla e posizionarmi in modo da non ammazzare nessuno durante il tragitto in caso di frenate e movimenti improvvisi.

E subito si scatenò la polemica.

Il ragazzo mantenne la calma, malgrado si vedesse che si stava trattenendo e con calma convinse la gente a spostarsi, anche se con ancora dei mugugni in sottofondo, e occhiate d'astio nei miei confronti.

Riuscì a stento ad arrivare alla meta, non sia mai che si spostassero per impedirmi di fare il pelo alle loro dita (se le avessi schiacciate sarebbero stati affari loro), e alla fine mi sistemai incastrandomi nella nicchia, con difficoltà perchè un anziano non di era neanche pemunito a schiodarsi dal sedile presente. Bah!

Anche Akira riuscì a passare e a mettersi al mio fianco in piedi, sotto lo sguardo contrariato dell'anziano. Insomma, mica gli si era seduto tra le gambe! Lo spazio era quello che era.

L'autista riposizionò la rampa alla dua posizione iniziale e ripartì con un leggero scatto.

Il viaggio mi parve più lungo fu quello che era, con i continui commenti sulla mia presenza sul mezzo.

Ma un po' di cazzi loro no?

La situazione divenne ancora più insostenibile quando di apprestò a salire un passeggino. Quel tipo di autobus era attrezzato a ospitate una sedia a rotelle o un passeggino aperto solo nella nicchia, dato che nel resto del mezzo c'era scarsamante posto a stare in piedi visto che i sedili occupavano la maggior parte del volume complessivo.

Quando la donna mi vide cominciò ad intimarmi a lasciarle il posto per poter usufruirne lei.

Certo che di gente strana ce n'era a pizzeffe!

La fissai aggrottando le sopracciglia, facendole capire quanto potesse essere stupida la sua richiesta. Ma questa non demorse e cominciò a rifilarmi insulti di catattere legato alla mia condizione, l'handiccappato (parola sua) che le impediva di usufruire di un servizio di cui aveva pieno diritto, diversamente da me a quanto pareva.

Akira provò a mediare, cercando di farla ragionare sulla mancanza di spazio e del fatto che per lei sarebbe stato meglio, anche per il bambino sul passeggino, salire su un bus più vuoto ma se possibile si arrabbiò ancora di più tanto da far intervenire quel povero disgraziato dell'autista. Non volevo davvero essere nei suoi panni.

Morale della favola, dopo un quarto d'ora con questa che sbraitava come un'aquila (aveva un serio bisogno di farsi un bagno nella camomilla), ripartimmo con lei a terra che ancora infieriva per proseguire la nostra tratta.

Se non mi fosse venuto un mal di testa atroce avrei coninciato a credere nei miracoli, e stessa cosa sembrava per l'autista.

Arrivammo dopo una ventina di minuti a capolinea e quando scendemmo quasi alzai le braccia al cielo per la contentezza.

Al ritorno senza dubbio taxi! Meglio sborsare qualche palanca in più che spenderli in pastiglie per il mal di testa.

Per fortuna la nostra meta si trovava in fondo a una discesa, in cui mi aiutò Akira per evitare di cadere, e oltre una piazza, che in quel momento ospitava il luna park.

Quando giungemmo all'inizio del Corso Akira lasciò andare le manighie di spinta in modo da lasciarmi autonomo nei movimenti.

Camminammo fianco a fianco e per un attimo dimenticai quello che mi ero prefissato, lasciandomi andare al momento. La discussione puntò dritta sulla lettura da parte mia dei tre manga e lessi sul suo volto tutta la soddisfazione possibile quando gli rivelai che mi erano piaciuti e che avevo l'intenzione presto di recuperare i seguiti. Da quello partì a elencate altri titoli e per un attimo mi pentì di averlo scatenato, ma fu un istante appena.

Vederlo così entusiasta mi rendeva felice, questo bastava. Tanto a prosciugarsi sarebbero stati i soldi dei miei.

Passammo di fronte a una gelateria e Akira propose un bel gelato.

Anche se faceva freddo non si poteva negare che facesse piacere.

Quando fu in proncito a pagare fui lesto a farlo al posto suo.

«Mi hai pagato i manga. Lasciami ricambiare in questo modo».

Akira mi fissò un poco perplesso prima di aprirsi in un sorriso.

Dopp aver recuperaro entrambi i gelato continuammo la nostra passeggiata, constatando che non era affatto male, anzi era uno dei pochi commestibili venduti in città. Gli altri sembravano più simili a ghiaccio colorato.

A detta di Aki ce n'era una nella sua zona in cui si poteva acquistare un gelato pazzesco e ci promettemmo che più avanti saremmo passati insieme a degustarlo.

Insieme. Mi piaceva non poco quella parola per descriverci. Ma per poterla davvero rendere reale dovevo fare il grande passo.

Solo che non ero sicuro che quello fosse il monento giusto. Insomma, chi non si era mai dichiarato di fronte a un bel gelato che ti si stava squagliando tra le mani (ma come poteva essere possibile visto la temperatura da freezer che c'era?)?

Nessuno?

Lo immaginavo, visto che era del tutto possibile passare per un autentico cretino.

In pratica quando provi ad aprir bocca ecco il malefico gelato che mette a dura prova la tua pazienza.

Fatto sta che dopo un'ora ancora non ero riuscito a rivelargli i miei sentimenti.

E poi tutta la gente intorno mi disorientava. Avevo sempre apprezzato stare al centro dell'attenzione ma in quel momento volevo solamente trovarmi in conpagnia di Akira.

Oh insomma Luca! O la va, o la spacca!

«Akira, c'è una cosa che dovrei dirti» cominciai, avvertendo già il rossore farsi strada sulle mie goti.

Akira abbassò lo sguardo verso di me, continuando ad affiancarmi nella passeggiata.

«Di cosa si tratta?»

Ah...cazzo! Mi mancavano le parole. E perché mi sembrava di essere senza fiato? Per la miseria era una dichiarazione, non la fine del mondo!

«Ecco...»riprovai.

"Coraggio Luca puoi farcela!"

«È una splendida giornata, non trovi?»

"Una...splendida...giornata?! Mi stai prendendo per il culo?"

Ecco, ero pure sbeffeggiato dalla mia coscienza. Che umiliazione.

Akira mon intuì la mia demoralizzazione interiore e alzò lo sguardo.

«Si, in effetti pur essendo un po' fredda e con quelle nubi che minacciano pioggia, è una giornata piacevole, soprattutto perché posso passarla in tua compagnia».

Cosa

ho

appena

sentito?

Gli piace la mia compagnia? Oddio! Ma questo cambia tutto!

"Prima che possa cambiare discorso devi dirglielo. Ora o mai più".

«In verità quello che volevo dirti era che...»

«Akira?» domandò una voce sconosciuta alle nostre spalle.

Ma che caz...Chi è l'essere che ha osato interrompermi?

Mi voltai e mi ritrovai a fissare uno sguardo del tutto anonimo. Nulla di lui era particolare da rimanere impresso nella mente in futuro. I capelli erano castani tagliati corti, gli occhi del medesimo colore e anche la corporatura e stazza erano nella norma.

Ero certo che non fosse della nostra scuola ma da come Akira si era irrigidito al mio fianco doveva essere una sua conoscenza e non una gradita.

Alzando lo sguardo vidi che era diventato se possibile ancora piu pallido e gli occhi erano leggermente sgranati come se avesse visto un fantasma.

Il ragazzo lo osservava con un'espressione che sembrava molto simile al disgusto (perché mai?).

«Non pensavo di trovarti in compagnia di un ragazzo» disse alla fine quello, tanto che per un attimo pensai che non fosse una cosa poi così strana che due ragazzi uscissero insieme. Ma poi dal suo sguardo capí. Pensava che stessimo insieme?

Akira fece per parlare ma fui più veloce.

«Senti non so che problemi hai ma si dà il caso che io e Akira siamo amici» ribattei con fin troppa enfasi.

Solo amici?

Sul serio?

Bella mossa Luca! Ora si che la tua dichiarazione la puoi benissimo buttare nel ces...mare.

Ma di qualsiasi natura fosse il mio rapporto con Akira in fondo che cazzo importava a un estraneo?

Lui socchiuse gli occhi e ci fissò attentamente.

«Akira, é vero quello che dice?»

«Senti non so chi tu sia e non ci tengo a saperlo. Ma lasciami dire che la devi smettere di sparare cazzate. Quello che fa Akira è affare suo e non deve farne testo a te. Chiaro il concetto?»

Il ragazzo m'ignoró, quanto mi stava sul cazzo, e aspettò la risposta di Akira, che sembrava essersi un poco ripreso.

«S-si. Siamo solo amici».

Cos'era quell'esitazione? Da quando lo conoscevo non l'avevo mai visto così in difficoltà. Cominciai ad odiare sempre di più quel tizio.

«Bene se il problema è risolto andiamo Akira».

Lo afferrai per un lembo del cappotto e gli feci cenno di riprendere il cammino. Se non ci fossimo allontanati alla svelta non sapevo di cosa sarei stato capace.

Superammo il tizio e lo sentì mormorare: «Ma allora non hai imparato niente dal passato?»

Il tizio ci passò oltre e se ne andò con passo tranquillo e le mani infilate nelle tasche dei jeans.

Quanto avevo voglia di tirargli un cazzotto. Chi si credeva di essere quella sottospecie di...

«Andiamo a casa Luca» mi supplicò Akira in un sussurro, e alzando lo sguardo su di lui trovai in espressione di pura disperazione.

Che cazzo aveva combinato quel troglodita? Se l'avessi rincontraro l'avrei preso a sberle fin quando non avrebbe supplicato perdono.

La voglia di abbracciarlo per rincuorarlo era troppa ma forse non l'avrebbe apprezzato lì in mezzo alla gente. Annuì e tirai fuori il cellulare per prenotare un taxi.

Nell'attesa ci avvicinammo a una panchina su cui Akira si sedette, portandosi le mani davanti al viso.

Non sapevo come comportarmi. Potevo rincuorarlo in qualcne modo?
Avvicinare la mano e passargliela tra i capelli? Avvolgerlo tra le mie braccia e sussurrandogli tutta la mia vicinanza?

La mia restietudine alle dimostrazioni d'affetto avuta fino a quel momento mi si stava ritorcendo contro.

La mano mi si mosse da sola. Ma non ebbi il tempo di poggiargliela sul capo che una goccia di pioggia mi colpì il volto, seguita da altre che pian piano si trasformarono in uno scroscio.

«Non ho l'ombrello» dichiarai mortificato. Perché non ci avevo pensato?

Finalmente Akira alzò lo sguardo e constatai che i suoi occhi erano rossi seppir non mi desse l'idea di aver pianto.

«Mi piace la pioggia. Mi dà l'idea che possa trascinare via con sé i ricordi e le colpe» ribattè, la seconda parte di frase ridotta a un sussurro che quasi mi fece dubitare di quello che avevo sentito.

Il taxi arrivò dopo poco, anche se ormai eravamo fradici, e salimmo in tutta fretta, rallentati dalla chiusura della sedia.

All'interno il taxista aveva acceso il riscaldamento e di questo non potevo che essergliene grato.

Passammo il tragitto in silenzio, a un certo punto Alira si sbilanciò verso di me e appoggiò la testa sulla mia spalla, facendomi avampare. Ma preferì non metterlo a disagio. Con gli occhi chiusi sembrava più tranquillo di prima.

Forse si era appisolato perché quando giugemmo a destinazione e dovetti scrollarlo in poco lui sussultò come se si fosse appena ridestato.

Feci per rimanere sul taxi quando Akira mi invitò a salire.

«Non vorrei essere d'intralcio» ribattei ma lui fu irremovibile.

«Rischi di prenderti un malanno. Sali per asciugarti e riscaldarti un po'».

Non me la sentivo di lasciarlo in quelle condizioni e per questo acconsentì.

Il taxista, un uomo sulla trentina, ebbe a cuore la nostra situazione di semplici umani muniti di sole due braccia e per questo si propose ad aiutarci a portare fino alla porta di casa di Akira la sedia a rotelle, senza farci (farmi) pagare alcun supplemento.

Allora al mondo esistevano ancora persone di buon cuore!

Ringraziammo il taxista e non appena se ne fu andato seguì Akira in casa, fino in camera sua.

«Aspettami qui, vado a recuperare degli asciugamani» disse, il tono di voce spento.

Non ebbi il tempo di aprire bocca che uscì dalla stanza.

Poche volte avevo visto Akira in situazioni simili anche se quelle erano se possibile ancora ben peggiori. Qualsiasi cosa ci fosse stato tra loro due doveva essere stato un fatto abbastanza grave.

Akira tornò con due asciugamani, uno rosso e uno bianco che mi allungò.

«Togliti pure i vestiti, ti cerco qualcosa da mettere mentre i tuoi si asciugano» dichiaro facendomi cenno di sedermi sul letto.

Togliermi i vestiti? Certo, era la cosa più ovvia ma perché subito il mio cervello andava a parare su pensieri alquanto sconci?

Non diedi voce a quelle idee e mi affrettai a liberarmi del giaccone e della felpa che si erano inzuppati. Tentennai con la maglia, dato che sarei stato a petto nudo e Akira avrebbe avuto la possibilità non tanto di vedere le mie cicatrici ma i miei fantastici addominali.

Akira nel frattempo si stava liberando dei pantaloni, rimanendo, scoprì, in mutande, a differenza del sottoscritto che prediligeva i boxer.

A proposito, quali avevo messo? Spero non quelli imbarazzanti con i Cupido disegnati sopra.

Lui mi fissò intensamente come a dire che se non mi fossi liberato della maglia di mia spontanea volontà l'avrebbe fatto lui, e per questo mi arresi e lo accontentai e prontamente mi passò una maglia con uno strano personaggio disegnato sopra. La indossai e come avevo temuto mi stava leggermente stretta, naturale visto che Aki era più magro, ma non mi lamentai visto che era stato gentile.
In ultimo mi liberai dei pantaloni zuppi rimanendo in boxer, per fortuna indossavo quelli neri tinta unita, e mi apprestai ad asciugare i monconi.

Fu alzando lo sguardo che le vidi mentre era in procinto a togliersi la maglia.

Anche io avevo cicatrici dovute alle altre ferite che avevo riportato nell'incidente, monconi esclusi. Innunerevoli sulle braccia dovute all'impatto, cosí mi era stato detto, con l'asfalto malridotto e da frammenti che si erano staccati dall'auto che mi aveva messo sotto e di cui non si era ancora scoperto il proprietario, e una più grande che partiva all'altezza della scapola e tangenzialmente mi attraversava fino al fianco sinistro. Quelle, peró, erano ferite abbastanza superficiali.

Le peggiori erano quelle che ti rimanevano incise sulla pelle.

Le sue erano una all'altezza dell'addome, l'altra dalle costole e per finire una all'altezza della spalla destra.
E rivedere entrambe sul corpo asciutto e delicato di Akira fu un colpo al cuore. La schiena ne era piena, linee sottili che spietate segnavano la sua pelle candida.

«Quando te le sei fatte?» domandai a bruciapelo pentendomene subito, non appena lo vidi irrigidirsi.

Lui si voltò verso di me abbassandosi la maglietta ma non abbastanza veloce dal nascondermi quella che aveva all'altezza dell'addome, la peggiore che metteva in risalto una linea frastagliata malamente ricomposta.

«Non...non me la sento di parlare» disse con un filo di voce e con aspetto più vulnerabile che mai.

Centrava forse il periodo in cui era stato costretto a stare in ospedale per cui aveva perso l'anno?

Non era che centrava quel ragazzo?

«Chi era quel ragazzo di prima?»

Lo vidi in lotta con se stesso se rivelarmelo o meno ma alla fine sospirò, arreso di fronte allaia cocciutaggine.

«Si chiama Tommaso. Era un mio vecchio amico e compagno di classe dell'altra scuola che ho frequentato i primi due anni di superiori».

«Ed è coinvolto con quelle?»

«No». Rispose veloce. Troppo veloce.
Quel ragazzo centrava, l'espressione che aveva Akira valeva più di tutte le confessioni.

«Te le ha fatte lui?»

Aveva detto che era stato suo padre, ma non era perchè in realtà volesse coprirlo?

«È stato mio padre. Tommaso non centra nulla con tutto questo».

Ma allora perché?

«E allora perché ti odia?»

Lui provò a negare ma lo fermai subito. «Non sono scemo Aki, anche se il più delle volte sembra che lo sia. Tra te e lui c'è stato qualcosa in passato che l'ha indotto a essere uno stronzo con te. Ha parlato di passato e di un qualcosa che è successo...»

Lui fu fulmineo a salire sul letto e a inchiodarmi con la schiena contro il materasso, salendomi a cavalcioni.

Che in che razza di posizione ambigua ci stavamo trovando?

«Non puoi capire Luca. Lui sa qual è la mia colpa».

«Come faccio a capire se non ti fidi di me?»

«Se lo scoprirai mi odierai».

«Non lo farei mai». Ed era vero, non avrei mai potuto farlo. Che tipo di colpa avrebbe mai potuto avere un ragazzo così tranquillo e gentile come lui?

Non so come ci ritrovammo con i volti a pochi centimetri l'uno dall'altro, le sue mani poggiate a fianco alla mia testa erano roventi, i capelli mi sfioravano la punta del naso.

Parlami.
Baciami.
Fa qualsiasi cosa ma apriti con me. Fidati di me.

«Parlami Akira. Ti prego. Cos'è successo davvero con quel ragazzo?»

Come ha fatto a ridurti in questo modo?

Devo dire che c'ero quasi riuscito.
Vidi il suo bisogno di parlarmi e non so che altro. Spevavo lo facesse, che si fidasse di me come io facevo con lui.

Ma com'era iniziato l'incantesimo si infranse. Akira di allontanò di scatto, gli occhi granati e il respiro ansante. Sembrava combattere contro se stesso e quella parte di lui stava prevalendo su quella che forse si sarebbe aperta con il sottoscritto.

Si portò una mano davanti alla bocca e mormorò qualcosa nella sua lingua.

«Dekimasen. Gomenasai*».

Capì che non avrei cavato un ragno dal buco e preferì lasciar cadere la questione.

Akira parve rilassarsi un poco, anche se la tristezza alleggiava ancora nella sua anima tormentata.

Non mi avrebbe parlato di questo ne ero certo. Troppi interrogativi mi affollavano nella testa e molti si appoggiavano su ipotesi anche dagli scenari terribili. Avevo assolutamante bisogno di risposte. E l'unico che avrebbe potuto darmele ero più che certo fosse il suo ex compagno di classe.

 E l'unico che avrebbe potuto darmele ero più che certo fosse il suo ex compagno di classe


Il conoscente di Akira entrò nel bar con fare scazzato. Mi intravide subito e si fece largo tra gli altri clienti per raggiungermi al tavolo.

Era bastata qualche ricerca sui social, tramite l'account in disuso di Aki, per trovarlo e scrivergli in chat il mio bisogno di porgli alcune domande. Sulle prime mi parve poco collaborativo ma dopo una mia insinstenza acconsentì, dandomi appuntamento il pomeriggio del giorno successivo.
A scuola avevo intravisto Akira di sfuggita e lo colsi come una cosa positiva. Se avessi avuto a che fare con lui sicuramente sarebbe venuta meno la mia idea, sentivo quasi che stessi tradendo la sua fiducia. Ma se lui non voleva darmi rispsote le avrei cercate da questo individio che sembrava ossevarmi cone se avesse a che fare con un essere schifoso. Ma sarà stato bello lui!

Si sedette con fare seccato come se il fatto di aver acconsentito a parlarmi fosse stato dettato unicamente dal suo buon cuore, a parer mio inesistente, visto come si era approcciato cin Akira.

«Forza facciamo veloce. La mia ragazza mi sta aspettando».

Mi sporsi in avanti e incrociai le mani sul tavolo.

«Allora vai subito al dunque. Perchè ti sei comportato così con Akira? Cosa si cela nel suo, nel vostro passato?»

Lui si permise un sorriso per nulla amichevole. Che stronzo.

«Davvero non lo sai? Akira non ti ha parlato della sua colpa?»

Colpa? Di che accidenti stava parlando?

«Di che cazzo stai parlando?»

«Non ti sei reso conto del suo comportamento? È perché i sensi di colpa si fanno sentire. E sai una cosa? Ci godo che soffra. É il prezzo da pagare per quello che ha fatto».

Questo ragazzo aveva davvero dei problemi se davvero godeva della sofferenza altrui. Ma ancora non vi stavo capendo una mazza.

«Avevo detto diretto» sibilai a denti stretti. Sentirlo parlare in quel modo mi stava facendo venir voglia di andarmene oppure di dargliene di santa ragione.

«Akira stava con un ragazzo».

Per un attimo rimasi del tutto vittima dello shock momentaneo frutto di quella rivelazione. Gli indizi c'erano, velatissimi ma c'erano.

«Akira é gay?» domandai retoricamente e non appena pronuciai quelle parole il volto di Tommaso si rabbuiò.

«Ma certo, non l'avevi capito? Senza dubbio sai che legge quei fumetti strani con coppie di froci implicati in situazioni da porno».

«Si chiamano manga e non mi pare il momento di essere così scortese».

"Altrimenti fa a finire che ti strozzo prima che mi riveli quello che vorrei sapere e mi ritroverei quasi al punto di partenza".

«Non mi sembra che ti sia sconvolto piú di tanto per quello che ti ho rivelato. Non ti crea problemi che lui sia una checca?»

«Perché, che problema ci dovrebbe essere? Non é la fine del mondo. Ognuno é libero di amare chi vuole. E poi smettila subito di essere offensivo» dissi recitando le stesse parole che avevo rivolto ad Akira quando lui mi aveva chiesto il parere sull'amore omosessuale. Ecco il motivo del suo nervosismo.

Tommaso mi fissò con fare disgustato prima di continuare.

«E se ti dicessi che per colpa sua, il suo ragazzo, tre anni fa, si é suicidato?»

Che cosa?

 

*Trad dal giapponese: Non posso. Scusami.

Angolino autrice:

Buonsalve! Sono riuscita a pubblicare prima del solito 😍
Dunque abbiamo conferme ma anche nuovi scorci sul passato di Akira (ma quanto è odioso Tommaso? Per fortuna in questa prima storia non penso comparirà altre volte, o se lo farà saranno poche...ma sarà importante per il sequel...😅)

Spero che il capitolo vi sia piaciuto :3

A presto!
FreDrachen

 

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Capitolo 32
*** Capitolo 26 ***


Capitolo 26


* Questo è un capitolo di transizione, prima del "grande momento"...volevo avvisare che potreste provare istinti omicidi nei confronti del padre di Luca, meritatissimi perché nel micro momento in cui comparirà darà proprio il meglio (peggio) di sé 😅. Buona lettura ❤️ *
 

Non gli diedi tempo di pronunciare altro.
Non gli avrei permesso di dire altro.

«Ti vedo shockato» mi disse, un sorriso crudele che gli solcava il volto.

Mi allontanai in fretta prima che potesse dire altro, uscendo da quel bar che sembrava quasi richiudersi su me stesso, tanto da farmi mancare l'aria.

Fuori il cielo era plumbeo e l'aria glaciale e per questo ebbe il potere di anestizzare un attimo i miei pensieri in subbuglio.

Tornai a casa in preda alla confusione più totale. I pezzi avevano cominciato a mettersi a posto, facendomi finalmente comprendere alcuni comportamenti di Akira. Ma perché tenermi nascosto tutto questo?

Sapeva come la pensavo su quell'argomento, ma non doveva averlo convinto del tutto.

E poi quel ragazzo aveva parlato di colpa. Cos'era davvero successo tre anni prima?

La verità l'avrei voluta unicamente sapere da Akira e da nessun altro. Saperla nell'altro modo sarebbe stato un tradimento nei suoi confronti, ma avevo bisogno di risposte. Desideravo ardentemente che si confidasse con me, che condividesse il suo pesante fardello. Da quello che immaginavo dovevano essere successi eventi terribili se gli avevano impedito di aprirsi.
Da quel momento si teneva dentro un segreto simile?
Quanto aveva sofferto?

Tentennai con il dito sospeso sul simbolo dell'audio di Whatsapp. Come potevo chiedergli un faccia a faccia senza fargli capire che volevo parlare di quella cosa?

"Ciao Akira, sai ho chiamato il tuo ex compagno di scuola per capire che cosa ti é successo e mi ha rivelato che sei gay e che molto probabilmente saresti coinvolto nel suicidio di un vostro compagno".

No, assolutamente così non andava. Dovevo essere piú diplomatico.

"Conosco il tuo segreto".

Sehhh, senza dubbio così non l'avrei inquietato, senza dubbio Luca.
Accidenti, la mia mente non riusciva a partorire un'idea decente?

"Ehi Aki. Sono Luca. Potresti chiamarmi appena riesci. Vorrei parlare un attimo con te di una...cosa"

Visto che visualizzava e non rispondeva e quando provavo a chiamare partiva la segreteria telefonica, agì prima ancora di pensare.

"Ehi Aki sono sempre io. Senti, ho parlato con il tuo ex compagno di scuola. Scusami se mi sono permesso ma era l'unico modo che avevo per capire il motivo per cui quello si é comportato in quel modo con te. Puoi chiamarmi dato che hai sempre la segreteria attiva? Dobbiamo parlare. Oppure se non puoi possiamo vederci a scuola. Ok, a domani".

Dopo aver constatato che aveva visualizzato nuovamente ma che non mi avrebbe risposto, con un sospiro uscì dalla camera e mi diressi in cucina per la cena. I miei genitori erano già seduti attorno al tavolo, di fronte ai piatti fumanti.

Mio padre stava guardando le ultime notizie al telegiornale, sul volto un'espressione irritata.

«Ma guarda un po' questi! Cosa pretendono? Che diventiamo come loro?» lo sentì bofonchiare.

Alzai lo sguardo dal piatto con fare dubbioso.

«Chi?» domandai senza trattenermi.

«Questi froci. Pensano di essere come noi ma si sbagliano e vogliono essere tutelati. Quello che si meriterebbero è una terapia di conversione, altroché!»

«Ma sono come noi» risposi punto sul vivo, pensando ad Akira.

Lui si voltò verso di me, con un'espressione disgustata sul volto.

«Mi stai forse dicendo che sei un finocchio? Già mi hai deluso, se davvero lo fossi...»

Che problema ci sarebbe se lo fossi stato?

La discussione andò avanti per un po', dove cercai di prendere le difese di quei ragazzi o ragazze che venivano picchiate, derise, cacciate di casa...per cosa? Per la mentalità ristretta di una società che, ancorata alle loro idee retrograde, li condannava, umiliava e svestiva del loro diritto di essere felici. E il discorso poteva essere anche esteso a ragazzi come Roberto e a chissà quanti altri.

In parte comprendevo la ragione di Akira di non sbandierare ai quattro venti quel suo lato di sé. Per colpa di persone come mio padre, vittima di bigottismo o semplicemente dalla mente limitata a impediva loro di vivere serenamente.

Ma perché non confrontarsi con il trio? O con me? Specialmente con me. Avendo accettato e sostenuto Roberto doveva essergli facile aprirsi con noi.

Poi intuì. Il suicidio del suo ragazzo. E il suo periodo d'ospedale. I due fatti dovevano essere collegati ma in preda all'incazzarura che mi era scaturita dentro parlando con quel cervello di ameba del suo ex compagno di scuola non conoscevo tutta la storia. Quei fatti dovevano aver innescato dentro di lui un rifiuto di questo lato di sé che gli impediva di aprirsi del tutto.

Ok, con queste analisi mentali mi sentivo uno psicologo.

Vidi distrattamante che mio padre aveva continuato a parlare durante le mie analisi mentali, ma di cui non avevo registrato una sola parola. Senza dubbio non dovevano essere state cose utili.

Finì cena in fretta e con altrettanta velocità tornai in camera, seguito da Freddy che si acciambiellò al mio fianco non appena mi sedetti sul letto.

«Cosa posso fare affinchè Akira si apra con me?» gli domandai. Era risaputo che i gatti fossero molto più intelligenti di noi esseri umani.

Lui mi osservò un po' per poi strusciarsi contro la mia gamba facendo le fusa.

Allungai la mano per accarezzarlo, pensando per un attimo che al suo posto ci fosse Akira.

«Mi stai consigliando forse che, malgrado tutto, dovrò fargli capire che sono dalla sua parte e che non lo abbandonerei?»

Freddy drizzò le orecchie come a dire: "Stupido umano fa quello che ti pare, ora fammi i grattini".

Davvero molto utile il felino.

Continuai a coccolarlo, stendendomi sul letto per stare più comodo.

Quella notte sognai un Akira più giovane sofferente, su mente e cuore un macigno che lo schiacciava. Mi svegliai che non erano neanche le due del mattino, Fredfy assopito al mio fianco.

Ripresi un attimo fiato prima di provare a tornare a dormire.

Avrei fatto in modo che non soffrisse più come doveva essere successo in passato, perché Akira aveva saputo tirare fuori il meglio di me. Da quando lo conoscevo desideravo essere sempre di più una persona migliore.

Non era vero che non mi ricordassi di lui, gli avevo mentito quel primo giorno, perchè in quel periodo il mio obiettivo ultimo era ferire gli altri. La prima volta che avevo incrociato il suo sguardo era il primo giorno di scuola del terzo anno. La maggior parte della gente pensava che mentre camminavo guardavo dritto di fronte a me senza degnare di uno sguardo chi o cosa mi stesse attorno. Il che era vero, ma quel giorno avevo fatto inconsapevolmente lo strappo alla regola.
L'avevo notato subito, forse per il fatto che fosse un viso nuovo oppure per i suoi tratti asiatici che mi avevano i curiosito. Ma fatto sta che non appena avevo incrociato i suoi occhi era stato come essere colpiti da un fulmine a ciel sereno. Avevo avvertito dentro di me come una scossa elettrica, piacevole che mi aveva dato un senso di pace. A quei tempi sapevo del magnetismo e del potere che esercitavo sugli altri, e essere preda di quel ragazzo nuovo mi aveva un attimo destabilizzato.
Ripensandoci ora era come se la mia anima l'avesse riconosciuto nel profondo e che la sua presenza acesse toccato le corde del mio cuore (ok, tutta questa smielezza da dove proveniva? E tutto questo significava che avevo cominciato a provare qualcosa per lui già in quel momento? Mo facevo davvero troppi castelli mentali).

Poi com'era nato il contatto si era infranto e da quel momento non avevo più avuto occasioni di vederlo, se non di sfuggita nei corridoi. E quando poi il destino aveva messo lo zampino l'avevo odiato, si. Perchè vederlo mi aveva ricordato il ragazzo che ero stato e che in quell'attimo, di qualche anno prima di fronte al suo sguardo, si era quasi frantumato in mille pezzi.

A conti  fatti mi era andata bene perché lui non mi aveva abbandonato e mi aveva aiutato a raccogliere i cocci di qyel ragazzo arrogante e presuntuoso che pensava di sapere tutto della vita seduto sul suo trono fatto di illusioni e meschinità.

Era stato Akira ad aprirmi gli occhi, a farmi capire che avevo vissuto come in una gabbia dorata di gelosie e bugie.

Era stato Akira ad aiutarmi a uscirne e ad accettarmi per quello che ero e che ero diventato.

Adesso toccava a me aiutarlo a liberarsi della sua gabbia.

Non riuscì a dormire molto, pensare mi aveva deconcentrato e impedito di far riposare adeguatamente cervello,  per questo di fronte allo specchio la mattina, quasi mi spaventai nel vedere il volto sconvolto e con le occhiaie di un ragazzo che mi s...


Non riuscì a dormire molto, pensare mi aveva deconcentrato e impedito di far riposare adeguatamente cervello,  per questo di fronte allo specchio la mattina, quasi mi spaventai nel vedere il volto sconvolto e con le occhiaie di un ragazzo che mi somigliava.
Poi, con l'intelligenza che mi contrastingueva, capì di essere io.

Potevo far concorrenza a uno zombie.
Così si che Akira sarebbe scappato a gamve levate.

Mi trascinai in cucina per carburare, non tanto per le lezioni, quelle erano in secondo piano, ma per essere in forze quando avrei parlato con Akira.

Mi feci accompagnare come a mio solito da mia madre, ma a differenza delle altre volte ero un fascio di nervi. Se qualcuno mi avesse toccato sarei saltato letteralmente in aria.

«Qualcosa non va Luca?» provò a domandarmi mia madre a cui risposi con un mugugno poco convincente, girandomi dall'altra parte.

La seta prima non aveva preso le mie difese dalla discussione con mio ladre facendomi capire alla fine da che larte sarebbe semlre stata. E spoiler, non la mia.

Dopo quel giorno saremmo stati io e Akira soli contro il mondo, sempre che non volesse coinvolgere il trio dei Nerd. Ma se non l'aveva fatto fino a quel momento dubitavo che l'avrebbe voluto fare dopo.

All'entrata non lo vidi, ma la campanella era già suonata. Magari era già salito per poter ripassare per una qualche verifica e interrogazione, oppure non era ancora arrivato. Mi arrischiai a cercarlo in classe.

Fermai un ragazzo alto e magro, tanto da ricordarmi un poco Akira, ma dai capelli rossi e gli occhi di un colore particolare, una via di mezzo tra l'azzurro e il violetto tenue, intento a messaggiare con il cellulare.

Non appena gli chiesi del suo compagno non mi mandò a quel paese anzi, mi sorrise in modo dolce.

«Akira? Non l'ho ancora visto stamattina. Ma se ti fa piacere gli dico che sei venuto a cercarlo». Anche la voce era delicata come avevo immaginato.

La ringraziai  con il capo e quando feci per allontanarmi avvertì un suo compagno appena entrato in clasee sussurrare: «Ma che coraggio a parlare con il travestito».

Mi voltai parzialmente verso il ragazzo che aveva parlato e lo trovai che mormorava qualcosa a quello che gli stava di fianco. Non appena videro che lo stavo osservando smisero immediatamente.

Il ragazzo dai capelli rossi o si era ormai arreso oppure aveva una certa dose di autocontrollo. Gli diedi una seconda occhiata e constatai che aveva lo smalto nero alle unghie e un leggero ombretto e un filo di matita e mascara che rendevano i suoi occhi più ferini. Sinceramente non ci trovavo nulla di male, ognuno era libero di poter esprimere se stesso come meglio credeva.

La voglia di intervenire era talmente tanta che avvertivo le mani prudermi ma quel ragazzo mi bloccò con lo sguardo. Non era la mia battaglia, questo cercava di trasmettermi.

Stavolta mi allontanai sul serio per raggiungere la mia classe, trovandola quasi del tutto piena.

Ignorai palesemente il sorrisetto sarcastico di Ippolito, le leggere occhiate di Agnese e la parlantina del mio ex compagno di banco, il secchione che fino a qualche giorno prima mi aveva assillato con le sue chiacchiere da nerd.
Avevo già a che fare con quattro di quella specie, bastavano e avvanzavano.

Per fortuna qualche giorno prima mi avevano cambiato di posto, forse per i prof era troppo avermi sempre a poca distanza, la mia bellenza senza dubbio li accecava e distraeva dal loro lavoro, e per questo mi avevano infilato in ultima fila, il massimo della scomodità per spostarmi visto che i miei cari compagni, estremamente intelligenti, abbandonano le cartelle in mezzo alla strada. Ma se si voleva un po' spegnere il cervello era senza dubbio la posizione migliore.

Utilissimo anche per cazzeggiare con il telefono senza destare sospetti visto che potevi nasconderti dietro a qualcuno.

Fu per questo che durante l'ora di legislazione sanitaria, perché  "rottura di palle" era troppo poco lusinghero per chiamarla, entrai nel mio profilo Facebook. Lo usavo poco anche prima, l'avevo creato sopratutto su richiesta di Agnese, poi sfruttato per salvare i livelli dei giochi che mi scaricavo, ma avevo constatato che il livello di stalking era assai migliore rispetto a quello di Instagtam.

Dopo essere entrato nell'app cliccai sulla lente d'ingrandimento e mi fermai con un dito a mezz'aria. Constatai fin da subito peró che in tutta questa faccenda non avevo ancora capito come si chiamasse l'oramai ex di Akira.

Contrariato scrissi di nuovo a quell'insensibile di vecchio compagno di classe di Akira per domandaglielo.

Sulle prime mi rispose in malo modo, manco fosse mestruato, a dopo varie insistenze da parte mia cedette.

Fabio Parodi.

Sinceramente mi aspettavo un nome diverso anche se non sapevo quale, e poi il cognome era tipico di questa città. Sembrava essere stato uno fra i tanti eppure aveva fatto breccia nel cuore di Akira. Cos'aveva di tanto speciale?

Digitai il nome e per un attimo ebbi il timore che fosse più bello del sottoscritto. Non lo nascondevo dietro a falsa modestia, ero un vero figo e il penserio che questo Fabio mi superasse non mi andava proprio a genio.

Magari era il classico palestrato tutto muscoli e dal ciuffo pazzesco che infondeva una sorta di senso di protezione. Ora si che avevo l'autostima sotto zero a far compagnia ai pinguini.

"Devi rassegnarti Luca. Devi accettare che ci sono altri ragazzi con una bellezza canonizzata più apprezzabile della tua. Per cui affronta la realtà a testa alta" mi ricaricai e cliccai sull'invio.

Il primo profilo presentava un'immagine di quelle che mi sarei aspettato da Akira per cui intuì che potesse essere il nostro ragazzo.

Ecco. Macho e nerd. Ero fottuto! Non avrei mai potuto reggere la concorrenza. Anche da morto avvertivo una sorta di rivalità nei suoi confronti.

Ricacciai indietro il mio senso di autocommiserazione e aprì il profilo.

Trovai molte immagini di stile asiatico, ma i post suoi si fermavano a tre anni prima, in prossimità di aprile. I più recenti erano stati scritti da altri ragazzi che ne commemoravano la scomparsa con brevi frasi. Spilucchiai tra i suoi amici e trovai quello stronzo di Tommaso e cercando bene anche Akira che, constatai cedendo alla tentazione, non pubblicava nulla da almeno tre anni, stavolta da marzo.

Tutto confermava i miei castelli mentali che mi ero fatto dopo le parole dello stronzo. Tornai in quello di Fabio e rastrellai l'album, alla ricerca di un suo scatto.

Infine ne trovai uno sommerso dall'alto tasso di nerdaggine. La foro ritraeva un ragazzo che riconobbi subito come un Akira più piccolino e dal sorriso dolce, che mai avevo visto sul suo volto, che avvolgeva con il braccio destro un ragazzo talmente basso da poter essere scambiato per un nano da giardino. Basso e gracile e dai colori di capelli e occhi opposti ai miei.

Se non fosse che mi avrebbero beccato e sequestrato il cellulare avrei tirato un sospiro di sollievo.

A un ragazzo simile ci sarei passato di fianco senza dedicargli una seconda occhiata anzi, me lo sarei letteralmente perso visto visto la bassezza che lo caratterizzava. Ma come aveva fatto allora ad attirare l'attenzione di Akira? E perchè al solo pensiero sentivo crescere una sorta di gelosia?

Uscì da Facebook e, dopo aver riposto il telefono nel sottobanco, strinsi le mani che mi tremavano.

Quel ragazzo si era suicidato e ancora non sapevo il motivo. Secondo lo stronzo era stata per colpa di Akira ma non ci credevo. Se solo avessi potuto confrontarmi con lui avrei potuto zittire tutte queste incognite che mi affollavano la mente.

Basta, non ne potevo più! Tutti questi penseri mi avrebbero fatto esplodere il cervello.

Recuperai il telefono ed entrai su Whatsapp e nella chat privata che avevo con Akira formulai un breve messaggio.

Tu:
Come mai assente?


La risposta, stranamente, non si fece attendere molto.

Akira:
Faccende mie

Sembrava scritto con fare scocciato e scorbutico facendomi intuire che o si era svegliato dalla parte sbagliata del letto, oppure che la faccenda era ben più grave di quella che sembrasse.

Non avevo mai sentito Akira rispondere a qualcuno in quel modo. Ma non demorsi. Se mi fossi tirato indietro non me lo sarei mai perdonato.

Tu:
Affari di che tipo?

Me lo immaginai di fronte allo schermo che alzava gli occhi al cielo, con fare esasperato.

Akira:
Sono con una persona a me cara. E se mi chiederai altro sappi che non ti risponderò. Ora ti prego, lasciami in pace

D'istinto pensai subito quel ragazzo, Fabio.
Era da lui.
Me lo sentivo.

Tu:
Aki...


Akira:
Lasciami in pace Luca...ti prego

ribadì lui. Per fortuna suonò in quel momento la campanella che segnava il cambio dell'ora e subito provai a chiamarlo. Ma lui fece in un primo momento partire la segreteria telefonica e infine spense il telefono. Forse voleva davvero rimanere solo come un'eremita.

Tutta quella situazione mi fece salire una sorta d'apprensione.

Dovevo assolutamente andare da lui.

 

Angolino autrice:

Buonsalve :3 sono riuscita ad aggiornare prima del tempo XD (non abituatevi però ^^")

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e per il prossimo vi prometto scleri (spero che venga come vorrei 🤞🏼 sarà uno dei punti cardine della storia 😍)

A presto! FreDrachen

P.S. il compagno di classe di Akira, citato in questo capitolo, avrà anche lui una sua storia (in cui sarà più grande dei diciotto anni che ha in questa) e, come Hermes e altri (l'autista di bus e, molto probabilmente, il taxista del capitolo precedente), fa parte di un progetto crossover con altre mie storie XD di lui vi spoilero il nome: Pigmalione (comunque in questa storia comparirà anche più avanti 😍)

 

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Capitolo 33
*** Capitolo 27 ***


Capitolo 27


Convincere i prof che stessi male fu una bazzecola. Feci finta di dover rimettere sulla cattedra a cui mi ero affiancato, simulando un mal di pancia di proporzioni epiche.

Come avevo immaginato la prof indietreggiò inorridita dalla possibilità che le potessi rimettere sul suo maglioncino bianco e mi fece firmare la giustificazione d'uscita. Che bello essere maggiorenni.

Chiamai in fretta un taxi in modo da poterlo trovare appena uscito da scuola. Raccolsi le mie cose, nessuno si premurò di aiutarmi a parte Gianbattista e non appena uscì dalla classe, sotto lo sguardo timoroso della prof e incuriosito dei miei compagni, finsi ancora un po'. Se dovevo farlo era meglio in grande stile.

Appena uscito dell'edificio ruppi ancora una volta le scatole allo Stronzo per farmi rivelare dove fosse seppellito Fabio e anche in quel caso, dopo futili manie di protagonismo, riuscì a strappargli quella preziosissima informazione, la mia meta dove avrei trovato Akira.

Non dovetti aspettare molto prima che il taxi si fermasse proprio di fronte all'entrata e subito mi incamminai verso la vettura. Sulle prime l'autista mi fissò male pensando che fosse uno scherzo ma quando si rese conto che ero io il suo cliente non abbandonò il suo atteggiamento burbero. Mi fece salire e con malagrazia piegò la sedia a rotelle quasi gettandola nel bagagliaio. Speravo che non me l'avesse rotta sennò addio alla semi indipendenza che avevo acquisito, almeno fino a quando non avrei imparato del tutto a muovermi con le protesi.

La destinazione era il cimitero degli Angeli, appena poco distante da quello per adulti della Castagna, abbastanza infilato su per i bricchi.

Speravo che la struttura non avesse barriere architettoniche che mi impedissero di girare con tranquillità.

Giunti a destinazione pagai il taxista che prese i soldi con malagrazia prima di sgommare via.

L'entrata del cimitero non era proprio come quella che si vedeva nei film e neppure si respirava quell'aria pesante satura di morte. Di certo questo non sarebbe stato il massimo come scenario da horror, eppure si avvertiva che non fosse un luogo di piacere.

Appena prima della mia prima meta erano presenti quattro piccoli banchetti che vendevano fiori, più crisantemi ma anche altre specie di fiori che le persone potevano acquistare per i propri cari.

Non appena mi avviai verso l'entrata subito fui preso d'assalto da questi venditori che quasi facevano a gara per vendermi i loro prodotti. Tranne l'ultimo, un ragazzo dai capelli bianchi e una benda di stoffa a coprirgli gli occhi. Forse portare dei fiori non sarebbe stata una cattiva idea. Presi coraggio e mi avvicinai a quest'ultimo.

Subito avvertì gli altri bisbigliare alle mie spalle commenti del tipo: «Ma davvero vuole andare a comprare dal Mostro dell'a...» mormorando l'ultima parola talmente piano che me la persi. Vabbè.

Prima che potessi avvisarlo della mia presenza sbuccò da dietro il banco un labrador nero con una struttura particolare al posto del comune guinzaglio, che mi si avvicinò talmente in fretta da farmi sussultare.

«Cosa c'è Nemo?» domandò il ragazzo perplesso. La sua voce era leggera, doveva avere al massimo ventitré-ventiquattro anni.

Feci due carezze dietro alle orecchie del cane che si allontanò soddisfatto prima di parlare.

«Vorrei acquistare dei fiori. Ma non saprei...»

Il ragazzo si voltò completamente verso di me e potei vedere così il volto deturpato da impressionanti cicatrici che gli solcavano il volto come fossero lacrime, e una di queste increspava anche l'angolo della bocca. Avevo visto solo in una foto che il prof di chimica si era azzardato a mostrarsi quando avevamo parlato degli effetti di acidi e basi. Quelle erano ustioni da acido.

Se il volto era così non potevo immaginare cosa si celasse dietro alla benda sugli occhi.

«...piacere?» lo sentì dire e intuì di essermi perso la prima parte di frase.

«Mi scusi, potrebbe gentilmente ripetere?» gli domandai, dandomi dello sciocco.

Lui non se la prese e stirò le labbra in un sorriso gentile.

«Dicevo, che tipo di fiori piaceva al tuo o tuoi cari?»

Stava pensando che stessi per andare a trovare un parente?

«In verità si tratta di un conoscente...di un amico» mormorai inceppandomi sull'ultima parola.

Lui annuì comprensivo e con fare esperto recuperò i crisantemi, creando un mazzo da otto, avvolgendoli in una carta sottile dal colore tenue.

«Mi butterei sul classico, in modo da essere sicuro di mostrare il pieno rispetto per la persona che si va a visitare» spiegò la sua scelta e mi ritrovai d'accordo. Pagai il mazzo, era abbastanza economico per essere un fiorista, e lo ringraziai. Lui mi scoccò un altro sorriso. «Fa parte del mio lavoro aiutare la gente a trovare la pianta o il fiore giusto per l'occasione». Lo si vedeva che lo faceva con passione. Vedeva? Che pensiero pessimo che avevo fatto. Ma a proposito di pensieri...come accidenti faceva a riconoscere i vari fiori se era...era cieco no? Il cane, che era al suo fianco, doveva essere, quasi senza ombra di dubbio, un cane guida.

Se avessi avuto tempo gliel'avrei chiesto ma non potevo permettermelo. Dovevo trovare Akira.

Spinsi il corrimano ed entrai ufficialmente nel cimitero. Non c'ero mai stato ma non doveva essere molto grande, per cui speravo di trovare Akira al più presto. Ma mano a mano che avanzavo avvertivo crescere l'angoscia. In un cimitero per adulti potevano si, esserci ragazzi troncati neanche a un quarto della loro esistenza ma l'età minima era la mia, se non mi fosse andata bene ci sarei potuto essere anch'io. In quel luogo era diverso. L'occhio mi cadde su una piccola lapide bianca. Apparteneva a una bambina che era vissuta...quattro giorni. Non aveva avuto neanche quasi il tempo di affacciarsi alla vita che era già sfumata via.

Affrettai l'andamento. Dovevo uscire di lì al più presto, e portare via con me Akira.

Girai ancora per un tempo che mi parve interminabile e, quando arrivai a pensare che non l'avrei mai trovato, lo scorsi inginocchiato davanti a una lapide bassa e quadrata. Il nome dalla distanza a cui ero era ancora illeggibile ma dalla mia posizione vedevo il volto di Akira rigato di lacrime mentre tra le mani stringeva, manco fossero i suoi peggiori nemici, dei gigli.

D'istinto mi sentì di troppo e mi pentì di essere andato lì e invadere quel momento così personale.

Ma ormai ero lì e non mi ero fatto un giro con il taxista bipolare senza avergli almeno fatto le condoglianze per quel momento.

Mi avvicinai e finalmente potei leggere il nome sulla bara.

Fabio Parodi. Era morto tre anni prima, l'ultimo giorno di scuola dell'anno che Akira aveva perso.

E fu allora che ebbi la piena conferma dei fatti accaduti. Le prove c'erano tutte ma vedersele schiaffare così in volto era tutta un'altra cosa.

Feci per fare dietro front ma la mia ritirata fu interrotta da un ramoscello che scricchioló sotto una delle ruote, un rumore secco che mi parve quasi riecheggiare attorno a noi come in eco lontano eppure assordante.

Vidi le spalle di Akira irrigidirsi e alzare di scatto la testa verso di me e mi sembrò che le sue pupille si dilatassero piú di quanto lo fossero. Oppure era il color ossidiana delle sue iridi a farle sembrare tali.

Lo vidi sillabare con le labbra il mio nome e mi sentii in colpa di aver profanato quel momento per lui importante e privato.

Ma anziché andarmene mi avvicinai a lui sempre sotto il suo sguardo ardente e vibrante di emozioni.

Mi fermai solo quando fui ad un soffio da lui e stavolta a guardare dall'alto in basso era il sottoscritto dato che Akira non si era ancora smosso di un millimetro dalla sua posizione.

Avevo tante cose da chiedergli eppure non avevo la piú pallida idea da dove cominciare.

«Quindi é vero? Sei gay?» domandai involontariamente dandomi del completo cretino a cominciare in quel modo la conversazione.

Come temevo Akira s'irrigidí e distolse lo sguardo.

Bella mossa Luca. Davvero splendido.

Allungai una mano verso di lui ma si sottrasse, alzandosi in piedi.

Senza degnarmi di una risposta e di uno sguardo fece per andarsene ma fui piú veloce ad afferrarlo per il polso.

Lui cercò di divincolarsi dalla mia presa.«Lasciami Luca». C'era tanta disperazione nella sua voce che quasi mi convinsi a lasciarlo andare. Ma non potevo.

«Non voglio» dissi semplicemente. «Perché se ti lasciassi andare farei lo sbaglio peggiore della mia vita».

Smise di liberarsi e, immobile com'era, pensai che avesse smesso persino di respirare.

Alla fine dopo un tempo che mi parve un'eternità incrociò lo sguardo con il mio.

Iridi ossidiana contro il colore della tempesta.

Non parlò subito ma avvertivo tra noi una forza simile alla carica elettrostatica. Dopo le mie parole sembrava quasi che si fosse aperto un canale tra le nostre due menti, un filo invisibile che si era allacciato attorno ai nostri cuori.

«Parlami Akira. Ti prego»riuscì solo a dire.

L'incantesimo s'infranse.

Akira riuscì a liberarsi ed indietreggiò. «Non abbiamo nulla da dirci. Ti prego, torna a casa Luca».

Feci per riafferrarlo ma lui si sottrasse alla mia portata. «Non rendere le cose più complicate. Ti prego».

Il suo tono fu la cosa più straziante di tutta la mia vita. Sembrava annientato, e sembrava che tutto dipendesse dal passato che gravava sulle sue spalle.

Non potevo lasciarlo solo. Mi spinsi avanti con la sedia a rotelle costringendolo a indietreggiare, fino a quando lui non si trovò con le spalle contro un loculo.

Mi posizionai di fronte a lui ma tanto sapevo che se avesse voluto sarebbe potuto scappare a gambe levate in qualsiasi momento.

Eppure non lo fece, forse perché sopraffatto dal momento, che pure io facevo fatica a comprendere.

Lo vidi cadere in ginocchio di fronte a me e fui rapido ad accompagnare la sua testa verso le mie gambe, su cui gli feci poggiare la fronte.

Sentì provenire da parte sua dei lievi sussulti e capì subito che stava piangendo. Non ero mai stato granché a rincuorare le persone ne sapevo come farlo, in questi momenti mi sentivo non poco in imbarazzo.

Mi limitai ad affondare le dita tra i suoi capelli morbidi, a contatto come la seta, e neri come la notte.

Rimanemmo così per qualche minuto buono, e sperai che nessuno arrivasse a interrompere lo sfogo di Akira.

Alla fine lui alzò lo sguardo, gli occhi rossi e gonfi di pianto, un aspetto che strideva con il ragazzo che avevo conosciuto fino a quel momento. Anche Akira come me si nascondeva dietro una corazza che gli si era annientata di fronte al sottoscritto, lasciandomi la possibilità di leggere nel suo animo tutto il dolore che provava.

«Perché?» domandò con un filo di voce.

Aggrottai le sopracciglia. «Perché cosa?»

«Perchè non mi urli tutto il disprezzo che dovresti provare nei miei confronti? Perché non mi riversi addosso tutto il tuo disgusto?»

Ma che cazzo stava dicendo?

«Smettila Akira».

Smettila di farti del male.

Smettila di darti colpe che non hai.

«Perché dovrei? So di essere sbagliato. Anche il mondo l'ha capito. Altrimenti perché sarebbe così palesemente contro...quelli come me?» Si passò una mano sugli occhi prima di continuare. Non l'avevo mai visto in quello stato. «Non posso essere davvero me stesso perché gli altri mi ripudierebbero per quello che sono e per quello che ho causato».

«Non è vero» ribattei con determinazione.

Rimase in silenzio per un attimo.

«Mi stai forse dicendo che per te non è un problema che sia...gay?» domandò a voce bassa come se temesse la mia risposta.

Tempo prima, quando ero uno stronzo patentato, avrei detto di sì, senza neanche pensare al vero significato di quelle parole, solo per il gusto di farlo soffrire.

Ma adesso era tutto diverso. Lui mi aveva cambiato, aveva scatenato un uragano incontrollabile nel mio cuore e che stava distruggendo pezzo a pezzo ogni grammo della mia anima.

Mi chinai verso di lui poggiando la fronte sulla sua.

«No, non lo è. Perchè se lo fosse sarebbe come rinnegare una parte importante di te. Sarebbe come odiarti, e questa non sarebbe la verità».

Avvertí il suo respiro farsi irregolare come se cercasse di trattenere le sue emozioni. Ma non gliel'avrei permesso. Non dopo tutto quello che provavo per lui.

Prima che cambiassi idea o che lui decidesse di scappare annullai i millimetri che ci separavano e lo baciai. A contatto le sue labbra erano ben diverse da quelle di una ragazza, eppure sembravano perfette per le mie. Gli stuzzicai il labbro inferiore e con la lingua gli chiesi un muto permesso di poter approfondire il bacio.

Ma ciò non accadde.

Lui si staccò come se si fosse bruciato e si portò una mano alle labbra rosse per via dei miei morsi. Il suo volto era arrossato e le pupille erano dilatate, sembrava uno che aveva appena fatto la maratona di New York.

Pure io dovevo apparire scapigliato e preda di emozioni struggenti che mi ruggivano dentro di afferrarlo nuovamente e tornare a baciarlo.

Akira mosse appena le labbra e mi chiesi se me lo fossi immaginato da quanto era stato fulmineo.

Inclinai la testa di lato confuso e lui deglutì prima di parlare, pronunciando una sola parola carica di significati celati.

«Perché?»

Perché lo avevo fatto? L'osservai attentamente registrando con gli occhi il volto spigoloso e gli occhi a mandorla taglienti, la bicca semichiusa e il petto ansante.

"Perchè penso di provare qualcosa per te" pensai ma le parole mi si incastrarono in gola

Mai prima d'ora qualcuno aveva esercitato un tale potere su di me, talmente intenso da farmi quasi smarrire.

Dovevo dirglielo ma avevo paura che i miei sentimenti lo mettessero in allarme e si allontanasse ancora di piú chiudendosi a riccio e tornando a essere il ragazzo che teneva per sé i suoi pensieri logoranti.

Volevo dirglielo con le parole giuste, volevo cercare di fargli capire che quello che provavo era un sentimento vero, autentico e non uno scherzo. Doveva aver sofferto in maniera disdicevole in passato, non volevo essere causa di altro.

«Tu...ecco...». Cazzo. Ero davvero a corto di parole. Era così che ci si sentiva quando si era...innamorati? Ero davvero innamorato di Akira? Avevo ancora questi dubbi?

Lui inclinò la testa di lato, un ciuffo corvino gli finì sopra l'occhio.

D'istinto allungai la mano per rimetterglielo a posto e non appena entrai in contatto con il suo viso avvertì il suo respiro accelerare ma continuò a fissarmi negli occhi, come in cerca di risposte a quella situazione.

Mi lasciò fare quando gliela sistemai dietro l'orecchio e non si scostó quando gli poggiai il palmo della mano sulla guancia destra.

Chiuse gli occhi come a bearsi di quel tocco, e pure io avvertivo qualcosa all'altezza del cuore. L'istinto di avvolgerlo tra le mie braccia era prepotente ma nella posizione in cui ci trovavamo era piuttosto difficile realizzarla.

Passammo qualche minuto così, il silenzio rotto dai nostri respiri e i nostri cuori che battevano all'unisono.

«E adesso cosa succederà?» domandai e Akira mi guardò intensamente.

Accidenti! La vista di quei straordinari occhi doveva essere illegale.

Sospirò ma continuò a rimanere con la mia mano poggiata sul viso. «Non lo so. So solo che...» s'interruppe innumidendosi le labbra, un gesto semplice ma che il mio povero cervello malensante classificò cone il gesto piú erotico mai visto in tutta la mia vita.

Ma cosa mi stava facendo quel diavolo travesrito da angelo dagli occhi a mandorla?

«Che cosa?» lo incitai. Odiavo quando qualcuno lasciava in sospeso le frasi. Lo avevo fatto anch'io poco prima ma poco importava quello che non riuscivo a dire. In quel momento i miei occhi e pensieri erano solo e unicamente per Akira.

«Tra noi non sarà più come prima, lo sai questo vero?»

Scostai la mano e mi raddrizzai sulla sedia. «Sinceramente parlando non me ne frega un cazzo del prima ma di adesso. Il mio bacio ti ha forse...dato fastidio?»

Lui ignorò la domanda e si sporse, per quanto poteva, in avanti.

«Perché mi hai baciato?»

Di fronte all'intensità del suo sguardo cercai di distogliere lo sguardo ma lui fu rapido a bloccarmi il viso tra le sue mani calde.

Era finalmente giunto il momento.

«Perché da qualche tempo ormai provo qualcosa per te. È un sentimento nuovo, mai avuto in vita mia. Con te sto bene e provo una calma mai provata prima. Con te sembra quasi che il futuro non sia più tanto...nero» confessai parlando quasi a raffica come se temessi che interrompesse il flusso di parole che non ne volevano sapere di essere zittite.

Lui non parve turbato dal mio discorso ma non mi sembrò neanche particolarmente colpito. Mi sentì un completo cretino.

Ma prima che potessi dirgli di dimenticarsi tutto fu lui ad azzerare le distanze tra noi. Se il bacio di prima poteva essere paragonabile alla leggerezza di una piuma, questo fu devastante come il fuoco. Il mio corpo si accese frenetico a contatto con le sue mani, le sue labbra. Pareva che dentro di me scorresse lava. La sua lingua si insinuò tra le mie labbra e...cazzo pensavo non fosse così pratico in materia baci. Quasi baciava meglio di me...quasi.

Ci interrompemmo quando fummo a corto di fiato ma tra noi l'aria sembrava carica di un'insolita energia che ci teneva connessi.

«Credo che per ora sia meglio fermarci qui che dici? Il cimitero non è proprio il luogo esatto dove...limonare».

Aveva ragione ma...aspetta! Quella doveva essere una battuta?

Annuì con convinzione in completo accordo con le sue parole e gli permisi di rialzarsi.

Lui gettò un'occhiata alla lapide e mi sentì di troppo. Quello era parte del passato che gravava sul cuore di Akira e che avevo voglia di spazzare via.

«Posso rimanere?» domandai e inaspettatamente annuì.

Ci facemmo largo tra le tombe e ci fermammo nuovamente di fronte a quella di quel ragazzo, Fabio.

D'istinto presi la mano di Akira e lui la strinse come se temesse di essere trascinato via dal suo passato.

E questo non l'avrei mai permesso.


 

Angolino autrice:

Ta taaannnn ecco finalmente il momento (spero) tanto atteso :D

Vi aspettavate che fosse Luca a fare il primo passo? ^^

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, e ringrazio tutti voi che seguite la storia <3

A presto (almeno ci provo)!

FreDrachen
 

P.S. il fioraio che vende i fiori a Luca è un ennesimo pg che avrà una storia sua (si, sono tanti ^^" XD)

P.P.S. esiste una pagina instagram legata alle mie storie (in particolare in questo momento sono concentrata su questa), in cui pubblico estratti, curiosità ecc.
Il mio nickname è fredrachen_stories

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Capitolo 34
*** Capitolo 28 ***


Capitolo 28

 

Si fermò con l'auto di fronte al suo portone, le mani strette sul volante e il respiro apparentemente tranquillo. In verità sapevo che quella era tutta finzione.

Per tutto il tragitto eravamo stati in silenzio, io a cercare di metabolizzare quello che avevo fatto, lui di certo quello che mi avrebbe rivelato di lì a poco.

Ero nervoso, anche se non ne avevo motivo. Molti segreti che aleggiavano nell'oscuro passato di Akira quel pomeriggio sarebbero emersi e, finalmente, messi a quietare.

Ero riuscito a strappare la promessa ad Akira di rivelarmi tutto facendo ricorso a tutto il mio charme e la minaccia di baciarlo in pubblico. Quest'ultima doveva essere solo in leggero scherzo per alleggerire la situazione ma, anziché suscitare la reazione voluta, era impallidito di colpo, difficile per la sua carnagione già pallida, e per questo mi preoccupai non poco.

Forse era per questo che, alla fine, aveva ceduto con un sospiro.

Prima di dirigerci verso casa sua avevo chiamato un attimo mia madre, visto che aveva provato a contattarmi almeno una ventina di volte.

L'avevo trovata con sorpresa a casa, cosa che non accadeva mai visto che di solito a quell'ora stava in giro in compagnia delle sue amiche,  preoccupatissima per la mia uscita in bellezza da scuola (la segreteria non poteva un po' farsi gli affari suoi?)

Le avevo rifilato così una scusa talmente patetica da farmi sentire un'idiota e per evitare domande scomode pilotai la conversazione su Akira, affermando che in quel momento ero in sua compagnia, tralasciando volutamente il fatto che ne ero talmente  attratto che me lo sarei scopato anche in quel monento (no, aspetta...l'avevo pensato sul serio?) e che avevo intenzione di passare il pomeriggio a casa sua, con la scusa di divertirmi un po', anche se di divertente quel pomeriggio avrebbe avuto nulla.

Non avevo trovato alcun ostacolo da parte sua, non che mi aspettassi diversamente. Era ormai palese la preferenza di mia madre per Akira.

Dopo averle promesso che sarei tornato di corsa (metaforicamente s'intende) a casa se la mia salute fosse ricaduta, chiusi la vhiamata e vidi Akira intento a parlare con qualcuno al telefono, finendo dopo poco.

Mi aveva invitato infine con in leggero sorriso a seguirlo verso la sua auto, facendomi così evitare di spendere ulteriori soldi per un taxi. I taxisti dovevano stendere un tappeto rosso al mio solo passaggio, visto che gli avevo fatto guadagnare più io in quegli ultimi giorni che le altre persone messe insieme in tutta la loro vita.

Arrivati a destinazione trovammo, di fronte al portone aperto, sua zia ad attenderci. D'istinto m'irrigidì. Pensavo fossimo stati da soli a casa ma a conti fatti avrei dovuto aspettarmi sia la presenza della zia che forse anche di Maiko, vista l'ora.

Akira si affrettò a tirare fuori dal bagagliaio la sedia a rotelle che porse alla zia che scomparve oltre il portone.
Aspetta...non aveva forse intenzione di...
Mi aprì la portiera e mi sorrise, un sorriso con tanto di fossette.

Cazzo. Perché il cuore mi batteva così forte nel petto a quella visione, tanto da farmi temere che fuoriuscisse dal petto (che scena degna di uno splatter)?

Mi fece passare un braccio appena sopra l'altezza delle ginocchia e l'altro dietro la schiena e mi issó su come se fossi un fuscello, esattamante come quando, tempo prima, mi aveva aiutato dopo la zuffa con un vecchio odioso o per raggiungere il campetto da calcio del mio quartiere.

«Hai intenzione di portarmi così fino a casa tua?» domandai e Akira continuò a sorridermi di rimando.

«Ti ricordi che l'ho già fatto?»

«Si ed è stato strano. Mi sentivo come una novella sposa...»

Non appena mi accorsi di quello che avevo pronunciato diventai rosso come un pomodoro e mi nascosi il viso tra le mani, e m'imbarazzai ancora di più quando sentì Akira ridacchiare.

«Ti ci vedrei proprio con un bell'abito da sposa bianco».

Scostai una mano per colpirlo con un debole pugno contro il petto.
«Non rendere il momento più imbarazzante di quello che è».

«Ma sei te che hai tirato fuori il discorso, sposina».

Ma da quando era così impertinente? Lo fissai e lui mi rispose con un sorriso sornione che lo rese ancora più bello.

Maledetto demonio dagli occhi a mandorla!

Continuai a fissarlo senza il timore di imbarazzarlo, visto che ormai era a conoscenza dei miei sentimenti per lui, per questo notai che dietro alla facciata all'apparenza tranquilla nascondeva una sincera preoccuapzione.

Non mi resi conto che eravamo arrivati fin quando non mi adagiò sopra la mia sedia a rotelle già aperta.

Sua zia mi rivolse un sorriso dolce.
«Ben ritrovato Luca. Spero che tu e Akira possiate chiarire alcune...cose».

Detto così sembrava quasi che fossimo a un appuntamento. Un momento. Non era davvero che...

Passai lo sguardo in modo altalenante tra Akira e sua zia e fu quest'ultima a darmi qualche spiegazione.

«Akira mi ha accennato quello che è successo».

Giusto. La zia doveva essere una delle poche persone che sapevano dell'omosessualità di Akira. Ma il fatto che già sapesse mi metteva a disagio, oltre che al pensiero che lei doveva aver già percepito qualcosa già da tempo, visto come ci guardava. Che imbarazzo!

Seguì Akira fino alla sua stanza e su suo invito mi sedetti sulla sponda del letto mentre chiudeva a chiave la porta, facendomi salire una certa apprensione, manco fosse un serial killer che voleva farmi a pezzi.

Mi raggiunse e si posizionò con la schiena contro la testiera del letto, battendo la mano sul materasso per invirarmi ad avvicinarmi.

Lo feci e lui fu veloce a passarmi il braccio dietro le spalle e a farmi poggiare la testa contro il suo petto ansante.

Non mi aveva mai avvicinato così di sua spontanea volontà, le volte che era accaduto era senza dubbio stato dovuto a reazioni involontarie.

«Sei comodo?» mi domandò dolcemente e di tutta risposta annuì, sfregando la testa contro la maglia che indossava.

Rimanemmo in silenzio, nessuno dei due aveva il coraggio di parlare per primo ed entrambi a fissare ogni angolo della stanza dove non fosse presente l'altro.

Fu infine Akira a rompere il ghiaccio.
«Da dove...» cominciò, deglutendo prima di proseguire. «Da dove vorresti che partissi?»

Era giunto il momento delle risposte.

«Da dove te la senti» lo invitai. Lo vidi alzare gli occhi, puntando lo sguardo verso un punto indefinito del soffitto. Non parlò subito, forse per trovare le parole giuste.

«Direi che sarebbe meglio che parta da quando ho conosciuto Fabio. Avevamo entrambi due anni ed era stato al mare. Sai, all'inizio l'odiavo. Era un bambino vivace che mi aveva preso di mira e mi faceva così i dispetti e mi arrabbiavo. Parecchio, aggiungerei. Correvo sempre da mia madre che ero un fiume di lacrime, con lui dietro che mi tirava le formine».

Se ci fossi stato io, un tipo del genere l'avrei sotterrato sotto la sabbia ben più che volentieri e senza pensarci due volte.

«Andò avanti così per anni. Lui mi aveva preso di mira perchè ero l'unico che non reagiva. Sono sempre stato un bambino molto tranquillo che se ne stava un po' sulle sue, anche ai giardini».

«Che stronzo che era» mormorai tra me e me ma non abbastanza a bassa voce.

«Non era cattivo, ma solo... come dire, particolare. Quello era il suo modo per attirare l'attenzione» spiegò per poi tornare al suo racconto. «Facemmo insieme le elementari, medie e inizio superiori. Iniziammo ad andare d'accordo verso gli ultimi anni delle elementari dove la maestra ci costrinse a stare in banco insieme e lui scoprì la mia passione per il disegno. "Potresti disegnarmi?" furono le prime parole, che non erano un insulto, che mi indirizzò. Da quel momento cominciammo a passare molto tempo insieme, e finalmente cominciai a capire molte cose di lui. Scoprì che il padre naturale era morto a causa di un incidente sul lavoro e che il compagno della madre lo detestava, e per questo tendeva a scaricare la sua frustrazione sugli altri».

«E che mi dici di quel tale, Tommaso?»

«Tommy era un amico di Fabio, facevano insieme hockey su prato. Me lo presentò alla festa del suo compleanno. Non so perché ma non gli stetti simpatico fin da subito».

"Forse perchè sembra che abbia una scopa infilata su per il c..."

Forse era meglio cambiare argomento.
«Quando hai scoperto di essere gay?» gli domandai e il suo sguardo si perse nuovamente un punto indefinito del soffitto.

«Un giorno Fabio venne da me, sembrava nervoso e al tempo stesso su di giri. Non ebbi neanche il tempo di chiedergli il motivo che mi baciò. Di fronte al mio smarrimento e senza troppi preamboli mi disse di essere gay. In quel periodo non sapevo cosa significasse, in casa mia non si parlava di queste cose, anche perchè era il periodo in cui mia madre stava male e avevamo altri pensieri per la testa. Fatto sta che Fabio mi rivelò che ormai era da tempo che provava qualcosa per me e che se avesse dovuto esplorare ciò che riguardava il suo orientamento avrebbe voluto farlo con me. C'è da dire che anche io provavo strane sensazioni nei suoi confronti ma fino a quel momento pensavo fossero dettate dal fatto che fosse il mio migliore amico. E da lì cominciammo a frequentarci. Fabio aveva fatto coming out solo con la famiglia, sua madre sembrò prenderla abbastanza bene, mentre il compagno...stranamente non diede segno di essere a sfavore. In comune accordo decidemmo di non divulgare la notizia ma di vedere come sarebbe andata».

Cominciò a tormentarsi le mani, facendomi soffrire. D'istinto allungai la mia poggiandola sua quella martoriata e lui sussultò, riportando lo sguardo su di me.

«Dopo neanche due mesi di frequentazione mi dichiarò che voleva provare a fare...ehm...la parola con la S».

«Sesso?»

Lui distolse lo sguardo imbarazzato. «S-si, quello» confermò. «Solo che quello si rivelò il mio primo grande sbaglio». Notando il mio smarrimento si affrettò a spiegare. «Non mi fraintendere, farlo è stato...strano ma piacevole. È stato per la data in cui l'ho fatto. Quella notte avevo spento il telefono per evitare che chiunque ci disturbasse, e la mattina quando lo riaccesi trovai almeno una quindicina di chiamate perse e altrettanti messaggi di mio padre. Mia madre aveva avuto un crollo ed era entrata in coma. Sono uscito da casa di Fabio in fretta e per fortuna ci ho messo poco ad arrivare. Lei ci ha lasciati due ore dopo il mio arrivo, il resto è come ti ho già raccontato».

Ecco spiegati alcuni alcuni comportamenti, la sua disperazione. Molta era legata alla morte della madre, che dai suoi racconti doveva essere una donna dolcissima, ma l'altra...perché si torturava in quel modo?

«Come potevi sapere che sarebbe successo? L'altra volta mi hai detto che stava migliorando».

«Questo non toglie il fatto che non ci sono stato» ribattè lui. «Se avessi tenuto il telefono acceso e avessi risposto subito a mio padre sarei riuscito...a parlarle un'ultima volta».

«Senti Aki, non prendere male le mie parole ok? È facile costruire congetture conoscendo il passato. Se, se. È facile dire "se avessi agito così" oppure "se non l'avessi fatto". In quel momento hai fatto una scelta, che sia stata giusta o sbagliata è un qualcosa di soggettivo. Non pensi che, se tua madre l'avesse saputo, sarebbe potuta essere felice sapendoti con la persona che ti piaceva?»

Lui mi rivolse un'espressione triste. «Non so se avrebbe mai accettato una relazione simile. È cresciuta in un ambiente abbastanza legato alle tradizioni, in tutti i sensi».

Non pensavo, ma preferì non dirlo. In fondo come potevo pretendere di conoscere sua madre meglio di lui?

«Io e Fabio continuammo comunque a frequentarci di nascosto» riprese il racconto. «Ci iscrivemmo nella stessa scuola. Io avevo sempre desiderato fare biotecnologie ambientali ma, dato che i suoi genitori non gli avrebbero mai permesso di fare in tecnico, per stare con lui decidemmo uno scientifico abbastanza vicino per entrambi. E Tommaso si unì alla nostra scelta. I primi anni sono stati abbastanza tranquilli...fino al terzo».

Ecco, sentivo che stavamo arrivando a una svolta tutt'altro che allegra.

«A scuola cercavamo di comportarci come semplici amici, e questo non era mai stato un peso, fino a quel giorno». Annuì perso nei suoi penseri. «Già, quel giorno. Avevo litigato con mio padre quella mattina, aveva bevuto troppo e nelle sue condizioni non avrebbe potuto accompagnare Maiko a scuola. Da quando mamma era morta, passava la maggior parte del tempo ad affogare il dolore negli alcolici. Lo capivo, il suo dolore era anche quello mio e di Maiko. Per questo mi ero arrabbiato. Lui non provava minimamente a riprendere in mano la sua vita. Per fortuna i nostri zii ci hanno dato una grande mano e si sono presi cura di noi». Prese un attimo fiato prima di continuare. «Ero andato a scuola arrabbiatissimo e in ritardo, per fortuna la zia era passata per recuperare Maiko, e avevo bisogno di essere tirato su di morale. Durante l'intervallo trascinai Fabio con me in bagno e lo implorai di baciarmi, di dimostrarmi la sua vicinanza». Abbassò le sue splendide ciglia. «Lui rimase per un attimo attonito dalla mia richiesta, insicuro se accontentarmi o meno. Eravamo in un luogo in cui ci avrebbero scoperto subito. Ma sai una cosa? In quel momento mon m'importava! Lo desideravo più di qualsiasi cosa. Per questo prima che potesse negarmelo l'ho bloccato per le spalle e l'ho baciato. È stato allora che sono entrati un gruppo di ragazzi, di un anno più grandi di noi».

Riaprì un attimo gli occhi, stringendo le labbra. Stava arrivando a un momento difficile e per questo avvertì il desiderio involontario di stringergli la mano, cosa che feci. Lui di tutta risposta intrecciò le sue dita con le mie e riprese a parlare.

«Il ragazzo che doveva essere il capo del gruppo cominciò, dopo averci guardato con disgusto, a sputarci addosso e a insultarci. Uno di loro mi spinse all'indietro facendomi cadere a terra al che Fabio non ci aveva visto più e ha cominciato a prenderli a pugni, e la situazione sarebbe degenerata ancora di più se il bidello del piano non fosse intervenuto. Fummo tutti portati in presidenza e convocarono i genitori. Il preside era un uomo ahimè abbastanza omofobo e diede ragione a quei...ragazzi. Chiamarono i nostri genitori per venirci a prendere, ma se Fabio fu ripreso solo per il suo aver reagito, mio padre non la prese affatto bene. E non appena tornammo a casa cominciò a...»

No. Non dirmi che...

«Ti prego. Non dirmi che è davvero successo quello a cui sto pensando» non riuscì a trattenermi. Dovette aver letto la sopresa e shock sul mio volto perchè la sua espressione si addolcì appena.

«Credo che purtroppo lo sia. Non appena chiuse la porta e avemmo raggiunto la sala cominciò pestarmi. Sembrava fuori di sè, indemoniato. Mormorava cose tipo che se era morta la mamma era per colpa di quello che ero, e che forse sarebbe staro meglio che non fossi mai nato. E in tutto questo mi prendeva a calci, sul volto, contro il petto, l'addome. All'inizio avevo provato a difendermi facendomi scudo con le braccia ma poco a poco ho avvertito le forze mancarmi. Incominciai a con capire più cosa mi succedesse attorno, era come galleggiare nel vuoto. Mi fu raccontato che sarei morto se mia sorella  spaventata, non avesse preso il telefono e chiamato la zia che, prontamente, avvisò le forze dell'ordine e un'ambulanza. Quando arrivai in ospedale ero privo di senso e in pericolo di vita. Una delle costole si era rotta e mi aveva perforato un polmone. Rimasi in coma per tre mesi».

In quel momemto avvertì crescermi dentro il folle desiderio di rintracciare suo padre e stirarlo con la sedia a rotelle oppure prenderlo a calci con le protesi.

«Durante la mia permanenza in ospedale fu deciso l'allontanamento mio padre e l'obbligo a frequentare uno specialista per trattare la sua dipendeza dall'alcool, mentre io e mia sorellla fummo affidati a mia zia. Fui dimesso dall'ospedale la penultima giornata di scuola. Mia zia aveva parlato con i professori ed ero consapevole di aver perso l'anno, però il giorno dopo, malgrado tutto, decisi di presentarmi a scuola, per dimostrare che ero ancora vivo e che mi ero più o meno ripreso. Ma non appena misi piede all'interno mi sentì come un estraneo. Mi fissavano tutti. Chi per curiosità, chi con sospetto, e chi con disgusto. Quando ti dicevo che capivo come ci si diceva sentire nella tua situazione era perchè ci sono passato più meno anch'io. Per fortuna sono riuscito a starti accanto, ma quel giorno non ero stato altrettanto fortunato. Ero completamente solo. Chi consideravo in qualche modo amico mi stava osservando come se mi vedesse per la prima volta, ma non in modo positivo».

Iniziai a sudare freddo. Perche questo preambolo non preannunciava nulla di buono?

«Cos'è successo?»

«La conseguenza del mio secondo sbaglio più grande. Riusci a stento a farmi rivelare da Tommaso dove si trovava Fabio. Sul tetto. Anche se mi avevano ribadito di non farlo, corsi a perdifiato su per le scale e quando infine arrivai a destinazione lo trovai lì, in piedi sul cornicione con lo sguardo rivolto verso la porta. Quando mi vide mi sorrise tristemente, rivelandomi quello che aveva dovuto patire in quei mesi per colpa del nostro coming out, e che dopo tutto sentiva più di vivere in quel modo. Realizzai dopo pochi secondi il suo intento. Rivedo ancora il momento nella mia mente, come a rallentatore. Io che corro nella sua direzione e lui che allarga le braccia, dandosi la spinta. Io che provo ad allungare la mano ma che lo manco di poco. Lui che mi sorride, un sorriso straziante e che sapeva di abbandono. Non ho distolto lo sguardo fin quando il suo corpo non ha toccato il suolo. Ricordo di aver urlato, pianto, fatto entrambe le cose contemporaneamente. Sotto si era radunata una folla, molto si sono uniti alle mie urla. Quando mi sono ripreso un poco ho staccato le mani dal pararetto e voltandomi mi sono ritrovato davanti Tommaso. Era la prima volta che lo vedevo piangere. Le sue lacrime erano di rabbia pura. Mi colpì al petto, incurante di farmi del male e mi riversò contro tutta la sua collera. E le sue ultime parole mi sono rimaste marchiate fino a ora: "Sei tu che l'hai ucciso. È colpa è solo tua"».

Non sapevo perchè ma provavo una sorta di rabbia nei confronti di quel Fabio. Non era stato solo Akira ma anche lui aveva contribuito la situazione. E si era comportato da vigliacco, lasciandolo solo.
«Non è vero, e tu lo sai. Non sei stato te a costringerlo a compiere quel gesto».

«Invece si. Tommaso ha ragione. Se non l'avessi baciato a tradimento facendoci beccare non sarebbe successo nulla di tutto ciò e forse...lui sarebbe ancora vivo».

"Ma così non mi avresti conosciuto" pensai in un impeto di gelosia.

Non lo dissi per paura di risultargli egoista e insensibile, e lui interpretò ol mio silenzio come un invito a continuare.

«Volli, anzi, fui quasi costretto a cambiare scuola, e sia io che mia sorella ci trasferimmo qui definitivamante da mia zia, mettendo in affitto la nostra casa. Da quel giorno giurai che non avrei fatto vedere questo mio lato a nessuno. Non volevo ritrovarmi di nuovo in una situazione simile. E neanche qualche mese dopo l'inizio della scuola mi misi con Amanda. Per me era l'occasione giusta per tenere al sicuro il mio segreto, per lei un motivo in meno per essere presa in giro dalle sue conpagne di classe per il fatto che non si fosse mai fidanzata. Non provo nulla per lei, solo riconoscenza per avermi in qualche modo aiutato a mantenere la facciata di qualcuno che non sono».

Quanto dovevo aver sofferto tutti questi anni? Essere qualcuno che non era. E nessuno se n'era accorto? Era davvero così bravo a recitare la sua parte?

«Ma del Trio potevi fidarti no? Insomma, con Roberto non si sono avuti problemi».

Akira emise una risata priva di allegria. «Credi sul serio che sarebbero potuti essere amici di uno che ha condotto il proprio ragazzo al suicidio? Fosse stato per me mi sarei tenuto alla larga».

Dubitavo dell'intelligenza di Capelli Tinti ma ero quasi sicuro che non ci sarebbero stati problemi ad accettarlo. Insomma, erano i suoi migliori amici. Io non mi ero fatto problemi ad accettarlo, anche se forse non potevo più considerarmi un semplice amico. O si?

E poi quante lingue avrei dovuto imparare per ribadirgli che non era stata colpa sua? Per farglielo capire dovevo forse tatuarmelo in fronte?

«È stato difficile anche con te» aggiunse poi, lasciandomi un attimo perplesso.

«Perchè?»

Lui, di tutta risposta si posizionò per appoggiare la testa in modo da avere il volto rivolto verso il mio collo. Il suo respiro mi sollevava la pelle in modo piacevole.

«Anata ga totemo suki*» mormorò al che mi risvegliò un ricordo, risalente ai primi giorni in cui l'avevo frequentato, quando ancora non sopportavo la sua presenza.

«Cosa significano?»

«Cosa?» mi domandò lui perplesso alzando il capo per potermi fissare negli occhi.

«Le parole che hai appena pronunciato? Non è la prima volta che te le sento dire. È stata la tua risposta quando ti ho chiesto il motivo per cui avevi accettato di fare da tutor a una causa persa come il sottoscritto».

«Ah» ribattè, sfregandosi dietro al collo con fare imbarazzato. «Certo che quando desideri hai una memoria ferrea» mi prese in giro, sfoderando un sorriso.

«Non girarci intorno» lo minacciai assottigliando lo sguardo.

«Questa volta non è mia intenzione farlo. Significa che...mi piaci molto».

Ah! E dire che la prima volta mi aspettavo tutt'altro significato, forse un insulto visto il mio comportamento nei suoi confronti.

Ma...Un momento! Questo significava che...

«Ti...piacevo già a quel tempo?»

«In verità é da un po' che...mi interessi» ammise arrossendo un poco.

Oh santo...bonsai! (Si, avevo modi di dire alquanto strani).

«Come mai non...» cominciai a domandare bloccandomi di fronte all'espressione eloquente di Akira. C'erano una moltitudine di motivi per cui non l'aveva fatto.
La scoperta del suo segreto con conseguente esistenza infernale in classe, visto come si comportavano con il suo compagno.
La mia capacità a minimizzare qualsiasi cosa. Insomma, se fosse venuto da me a dichiararsi fino a qualche mese prima l'avrei preso senza dubbio per uno scherzo e l'avrei snobbato malissimo.
Ero davvero così stronzo prima?

«Penso che abbia intuito i motivi per cui non l'ho fatto. E poi perché mi sentivo...in colpa».

«Per cosa? Amare la mia magnificenza? Non sembra, ma non è ancora diventata una pena capitale» replicai, non riuscendo a trattenermi dal fare l'idiota.

Avvertì un sorriso farsi strada sul bel volto di Akira che collassò su se stesso quasi subito dopo.

«Fabio è stato il mio primo amore e dopo che non c'era più non è passato giorno in cui non avevo pensato a lui. È stato come avere un vuoto qui, nel petto» disse poggiando una mano sul petto. «Ho sempre creduto che stare con qualcuno che non fosse lui fosse un tradimento nei suoi confronti. In fondo lui è morto per colpa mia. Per questo all'inizio non avrei mai pensato di innamorarmi di te».

Akira era davvero innamorato di me?

Perchè la sola idea mi solleticava, avvolgendomi in uno stato di beatitudine?

«Tu...cosa?»

Akira mi fissò intensamente negli occhi.
«Credo di aver cominciato a provare qualcosa per te il mio primo giorno nella nostra scuola. Non conoscevo nessuno e mi sentivo quasi invisibile. E poi sei arrivato te. Sembrava che non t'importasse di quello che ti succedeva attorno e camminavi dritto e fiero, a testa alta. Poi non so perchè, ti sei girato nella mia direzione ed è stato come un fulmine a ciel sereno. Ho passato questi anni a desiderare di nuovo un contatto, anche solo visivo con te, e al tempo stesso negandomelo per colpa del mio passato. Però adesso non ho più paura di nascondermi a te».

Quelle parole mi colpirono dritte al cuore e non seppi subito cosa replicare. Perchè da quando avevo cominciato a provare sentimenti forti nei suoi confronti avevo ardentemente desiderato sentirmele dire.

D'istinto portai una mano verso il suo volto, facendo aderire il palmo sulla sua pelle, trovandomelo subito bagnato. Akira stava piangendo.

D'istinto lo feci girare in modo che potesse guardarmi dritto negli occhi.

«Da adesso non ti dovrai più preoccupare, perché non sarai più solo».

A quelle parole si liberò in un pianto liberatorio.

Per il passato da cui sembrava essersi liberato.

E per il presente, in cui poteva contare sulla mia presenza.

In quel momento l'unica cosa che feci fu semplicemente stringerlo a me, facendogli poggiare la testa contro il petto, accarezzandogli i capelli corvini, fino a quando non si fu calmato.

«Una volta avevi detto un'altra parola di cui vorrei chiederti il significato» dissi, approfittando del momento.

Lui alzò lo sguardo verso di me, aggrottando le sopracciglia con fare perplesso.

«Era tipo kisu** o qualcosa di simile». Presi un attimo fiato e allacciai le mie iridi con le sue. «Questa che cosa significa?»

Questa volta non ci fu alcun tentennamento da parte sua. «Baciami».

Lo costrinsi ad avvicinare il suo volto al mio, in modo che tra noi ci fosse la minima distanza.

«Allora fallo».

Non se lo fece ripetere due volte e avvertì il contatto delle labbra sulle mie, morbide e sottili, che sapevano di lacrime. Baciarlo era come essere in vetta e gettarsi a capofitto verso terra, un turnine di emozioni che riscaldacano il nasso ventre, lasciandosi dietro la sensazione di miriadi di farfalle.
Una perfetta sintonia chimica ci aveva legati, come un una perfetta reazione.

Ci staccammo solo quando ci ritrovammo ansanti, a corto di fiato.

«Arigatō Luca-chan».

«In verità sono anch'io a doverti ringraziare. Per avermi salvato da me stesso quando stavo per finire in un vortice di autodistruzione dopo il mio incidente ».

«Non ho poi fatto questo granchè» minimizzò lui, al che lo fissai serio.

«Non sminuire quello che hai fatto. Mi hai dato una ragione per andare avanti».

Lui non rispose, ma si accoccolò contro di me, come un gattino alla ricerca di coccole.

«Tienimi stretto».

Gli feci passare una mano attorno alle spalle e lo strinsi a me.

«Tranquillo. Non ti lascerò più andare».
 

* questa frase è già stata pronunciata da Aki nel capitolo 3, di cui ancora non si doveva sapere il significato
** parola pronunciata nel capitolo 5

 

Angolino autrice:

Eccomi qui!
Scusate l'iimensissimo ritardo, ma con il lavoro il tempo è davvero ristretto sia per leggere che per scrivere ^^"
Questo capitolo non è stato semplice da scrivere...Akira si è aperto come non ha fatto fino a ora ed è stato un po' complicato dargli voce (a complicare anche il caldo allucinante che mi ha disattivata XD)...spero che l'attesa non sia stata vana 😅

Ringrazio tutti voi che leggete la storia, vecchi e nuovi lettrici/lettori, e chi ha aggiunto la storia nei propri elenchi di lettura :3 ❤️

Adiòs
FreDrachen

 

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Capitolo 35
*** Capitolo 29 ***


Capitolo 29


Tornare alla solita quotidianità era tutto fuorchè normale.

Il fatidico giorno dopo mi svegliò il solleticare di qualcosa di morbido che mi strofinava la faccia.

«Mamma, ma ti pare il caso di spolverarmi di primo mattino?» bofonchiai irritato, con un sonno cane visto che avevo passato la maggior parte della notte a metabolizzare ció che era successo, e non appena aprì gli occhii ritrovai il didietro di Freddy a poca distanza dalla faccia.

«Ma che caz...Freddy!»

Il gattino spaventato saettò per terra andandosi a nascondere nella cesta dei vestiti sporchi.

Mi passai una mano sulla faccia e gettai un'occhiata verso la sveglia e per poco non mi soffocai con la saliva.

«Merda! Sono in ritardo!» scattai sedendomi sulla sefia a rotelle, sfrecciando, con la velocità che mi era consentita, in bagno.

Di fronte allo specchio cercai di assumere un aspetto decente aggiustandomi un po' i capelli, nel mentre cercando di capire come comportarmi.

Ok, io e Akira non eravamo più solo amici ma non eravamo neanche una coppia...o si?

Cos'eravamo di preciso?

Akira mi aveva fatto giurare di non dire ad anima viva e morta (puntualizzato dopo una mia pessima battuta di spirito) quello che c'era tra noi, per questo dovevamo comportarci come se non fosse successo nulla.

Più facile a dirsi che a farsi.

Sopratutto adesso che potevo non nascondere i miei sentimenti nei suoi confronti. Se il mondo fosse stato migliore non avremmo avuto questi problemi.

Con stizza uscì dal bagno e recuperai un croissant, sentendomi subito dopo in colpa. Avevo deciso che avrei ripreso ad allenare i muscoli, in vista del mio uso imminente e speravo più duraturo delle protesi, e questa colazione non aiutava il mio metabolismo. Prima dell'incidente ero molto attento a ciò che ingerivo, come ogni bravo atleta, ma negli ultimi tempi mi lasciavo alla tentazione peccaminosa dei dolci.

Oh...al diavolo! Non mi sarei privato di una simile prelibatezza. Forse il giorno dopo sarei tornato in carreggiata ricominciando a cibarmi come dovevo. Ma non era quello che avevo promesso anche il giorno prima, e quello precedente...?

Forse dovevo sul serio dare retta ai segnali che lanciava il mio corpo in segno di protesta per questi sgarri.

Dopo essere tornato in camera e vestito e recuperato lo zaino, uscì di casa trovando mia madre ad aspettarmi vicino all'auto per accompagnarmi come al suo solito e, dopo che mi accomodai all'interno e lei ebbe chiusa la sedia a rotelle e la portiera, partì di fretta, forse perché eravamo in notevole ritardo.

«Com'è andata ieri con Akira?»

Per poco non mi strozzai,  per la seconda volta in quella giornata, con la saliva. Cosa potevo raccontarle? Avevo promesso ad Akira che il nostro rapporto sarebbe rimasto nascosto fino a quando non avremmo scelto il contrario.

«Bene. Come al solito credo» mi limitai a dire voltandomi in modo da portare tutta la mia attenzione verso l'esterno. Vidi fugacemente l'espressione delusa e un po' triste di mia madre riflessa sul vetro, ma era meglio così. Non sapevo come sarebbe andata a finire se avesse saputo la verità ma conoscendola avrebbe detto tutto a mio padre e l'avrebbe spalleggiato. A stento lui aveva accettato la mia condizione dopo l'incidente, ma se avesse saputo di Akira mi avrebbe sbattuto fuori casa senza troppi preamboli.  Meglio che soffrisse per la mancanza di dialogo che la mancanza completa di un figlio.

Giunti alla meta in un silenzio assordante, parcheggiò appena poco distante dall'entrata. Mi aiutò il minimo indispensabile, come le avevo chiesto fin dall'inizio, e mi salutò fugacemente prima di andarsene.

Mi dispiaque un po' a lasciarla così ma era la cosa giusta da fare.

Perso nei miei pensieri non mi ero accorto fino a quel momento del campanello di ragazzi raccolti attorno a due figure che non riuscivo a intravvedere. Riconobbi subito, però la voce della dolcissima (un instrice mestruato sarebbe stato più delicato) Amanda che stava infierendo contro un chissà che malcapitato. Non volevo essere nei panni di questo poveretto, visto che gliene stava dicendo di santa ragione. Pensavo di conoscere abbastanza insulti ma di fronte al suo vocabolario mi sentivo un dilettante.

Cercai di farmi strada tra gli altri,  curioso di assistere alla scena e per poco non raggelai sul posto.

Non appena ne ebbi la possibilità vidi Amanda, rossa di rabbia, vestita con una maglia scollatissima e che le lasciava scoperta la pancia dello stesso colore del suo viso, che stava di fronte a un Akira che teneva il volto a terra, cercando di eludere il suo sguardo.

«Te ne stai zitto? Non hai un briciolo di coraggio Akira. Prima mi molli senza darmi una spiegazione plausibile ora ti chiudi in questo mutismo? Tira fuori le palle se ne hai il coraggio!»

Akira sussultò e alzò lo sguardo su di lei, mortificato. «Sapevamo che non sarebbe andata avanti ancora per molto. L'ho fatto perchè mi sembrava corretto nei tuoi confronti».

L'eco dello schiaffo dovette essersi sentito anche dall'altra parte del mondo.

«Smettila con le tue ridicole scuse. Sei solo uno stronzo, ecco cosa!»

Solo dopo aver finito di parlare voltò la testa verso la mia direzione e vidi salire ancora di più la sua rabbia.

«Sei tu la causa di tutto!»

Stupidamente mi osservai attorno, intuendo poi quasi subito che si stava riferendo al sottoscritto. Già che c'era poteva incolparmi del suo pessimo carattere.

Ma adesso dovevo proteggere Akira da quelle parole crudeli che gli aveva rivolto e che non si meritava. La doveva assolutamente piantare.

«Adesso smettila».

«Perchè dovrei? Da quando ti conosce che è cambiato tanto da renderlo un estraneo. Ciò che ho detto è ciò che merita» dichiarò lei con voce stridula cbe la fece sembrare una gallina mestruata.

Soffocai l'impulso di rinfacciarle della mia relazione con il ragazzo ma avevo fatto una promessa e non mi sarei mai rimangiato la parola.

Ma non riuscì a trattenermi dal replicare. «Cosa c'è? Ti dà fastidio non avere piú un facchino che ti aiuta con le borse dello shopping oppure l'autista che ti accompagnava che ti accompagnava dove ti pareva? Akira deve aver aperto gli occhi e capito che razza di persona sei».

«Akira mi ama ma la tua presenza lo distrae dalle cose importanti» replicò lei incrociando le braccia sotto i seni, premendo sulla pelle sottostante talmente tanto che mi chiesi con che miracolo non le fossero ancora esplosi.

"Akira ha semplicemente salvato la sua salute mentale" avrei voluto rinfacciarle ma tanto sapevo che parlare con lei ero spreco di tempo e di ossigeno.

Per questo non mi scomodai nemmeno a risponderle, ponendo finalmente fine al suo insulso teatrino.

«Me la pagherai» la sentì mormorare prima di allontanarsi, ma fu talmente piano che pensai di essermi immaginato tali parole.

Non avevo paura di una Barbie imbottita di botulino.

Ma non avevo tempo per pensarci. In quel momento era Akira la mia unica priorità.

Intimai con lo sguardo gli altri ad allontanarsi e questi capirono l'antifona. Ero ciò che ero, ma l'effetto che esercitavo era ancora presente.

Intravidi Agnese tra le persone, che mi rivolse uno sguardo tra il perplesso e un'altra emozione che non riuscì a decifrare, ma fu subito trascinata via da Ippolito, quel giorno stranamente tranquillo.

Invitai Akira a seguirmi e lui lo fece senza replicare, a testa bassa e tenendosi una mano sulla guancia, laddove era stato colpito da Amanda.

Anche se ero sempre stato dell'idea che le donne dovessero essere trattate con il massimo rispetto, in quel momento provavo il bisogno primordiale di asfaltarla con la sedia a rotelle.

Ci fermammo in un luogo abbastanza appartato, lontano da orecchie indiscrete, ma posizionati  in modo che ci vedessero e non potessero farsi allusioni mentali.

«Akira» lo chiamai, ma lui sembrava perso con la mente in un mondo tutto suo (speravo senza Amanda, ma dubitavo).

Non ricevendo risposta lo presi per mano facendolo sussultare.

«Ehi. Non prendertela per quello che ti ha detto» mormorai dolcemente, accarezzandogli il dorso con il pollice.

«Non potevo più stare con lei. Dato che sto con te non mi sembrava giusto nei confronti di entrambi».

Dunque considerava il legame che si era appena instaurato tra noi un'effettiva relazione. A quel pensiero avvertì il ritmo del battito cardiaco aumentarmi per l'emozione.

«Non mi devi nessuna scusa Aki» lo bloccai. Odiavo Amanda per averlo reso così insicuro di se stesso di quello che era.

«Sei troppo buono con me Luca-chan».

«Sei te che sei troppo severo con te stesso e non te lo meriti».

«Credo di essermi meritato quello che mi ha detto».

Quando voleva era davvero testardo. Anche se mai come il sottoscritto.

«Non è vero. Era lei che non meritava di starti accanto». Strinsi un poco la presa sulla sua mano. «Posso ritenermi fortunato ad avere la possibilità di am...ehm stare con te» aggiunsi, al che vidi i suoi occhi innumidirsi.

Oddio, se avesse pianto avrei cominciato a sentire il bisogno primordiale di baciarlo, ma non potevo farlo.

Per fortuna mia riuscì a trattenersi e strinse un attimo ancora la presa prima di lasciar andare la mia mano.

«Credo che sia meglio andare prima che facciano pensieri strani».

Che li facciano, avrei voluto ribattere ma di certo ad Akira non avrebbe fatto piacere, soprattutto dopo che ci teneva alla nostra relazione in segreto.

A malincuore, avevo ancora voglia di stare in sua compagnia senza altri esseri respiranti nelle vicinanze, lo seguì, diretti verso l'entrata e una nuova mattinata scolastica.
Evviva.

Riuscì a incrociarlo, per fortuna, a ricreazione


Riuscì a incrociarlo, per fortuna, a ricreazione.

Ero reduce di due ore d'italiano e sentivo che la testa mi sarebbe scoppiata da un momento all'altro (un film splatter sarebbe stato senza dubbio piú soft). Avevo voglia di una bella dormita, ancora di più per via della mia posizione in ultimo banco, oppure di un litro di caffè che aiutasse i miei neuroni a rimanere attivi.

Lo trovai appoggiato al muro di fronte alla sua classe, lo sguardo chino sul cellulare. Ogni tanto cercava di mettersi dietro l'orecchio una ciocca ribelle che puntualmente gli ritornava in faccia.

Lo raggiunsi, spingendo il corrimano e mano a mano che avanzavo avvertivo attono a me sprazzi di conversazione, e l'oggetto di tali erano Akira e quello che era successo quella mattina.

La gente doveva proprio imparare a farsi i cazzi suoi.

Forse dovetti averlo detto a voce neanche troppo bassa perchè si zittirono tutti e si voltarono verso il sottoscritto.

«Beh? C'è qualche problema?» dissi, con fare piuttosto scazzato, mentre mi affiancavo ad Akira che aveva alzato lo sguardo ed era arrossito. Solo allora notai una nota di panico in fondo ai suoi occhi. Forse la mia reazione era stata un tantino esagerata per un semplice amico?

Oh...cazzo.

Mi avvicinai cercando di mascherare la mia gaffe. Per colpa mia rischiavamo di essere beccati già al nostro primo di autentica frequentazione. Un record imbattibile!

«Cosa stavi facendo?» domandai ad alta voce per far capire alla gente pettegola attorno a noi che stavamo parlando argomenti assolutamente innocui.

«Leggevo scan di opere inedite qui, così se mi piacciono chiedo a mio cugino di procurarmele».

«Hai un cugino?»

Akira annuì con un sorriso sul volto, sollevato del mio cambio argomento. «Si, Arata. Ha quindici anni. E poi anche una cugina della tua età, Akemi. È sua sorella».

Allungai il collo per vedere meglio e mi ritrovai a fissare una scena ad alto tasso erotico tra due ragazzi.

«Ma perché uno ha il ca...» provai a domandare involontariamente ma mi bloccai appena in tempo.

Alzai lo sguardo su Akira in preda all'imbarazzo. Questo non tanto per la scena ma per l'idea che mi era balenata in testa a quella vista.

Io e Akira...ecco, ecco Akira e io...

Quanto volevo sprofondare nel pavimento!

Sicuramente notò la mia faccia perché si affrettò a spiegare: «Si può dire che in una coppia omo i partner sono di due tipi: il primo è il seme che è quello dominante e poi c'è l'uke che é quello dominato, il passivo della coppia».

Ok, potevo capire una situazione analoga proiettata su una coppia etero ma in quella omosessuale cosa significava veramente?

Glielo chiesi dandomi poi del completo ignorante. Akira non mi derise da questo mio disagio e cercò di spiegarsi. «In pratica l'uke è quello che lo prende...dentro» disse indicandomi il disegno di prima, alludendo al ragazzo sudato e ansante sotto l'altro.

Oh...

«Ma fa male?» domandai e Akira si fece ancora più rosso in viso.

«Non più di tanto. Poi diventa una questione di abitudine e preferenza».

«Perche? A qualcuno piace prenderlo?»

Notando il suo sguardo imbarazzato capì.

Ah...che figura di merda che avevo appena fatto inconsciamente.

«Scusa» farfugliai e lui mi osservò con fare perplesso. «Sono stato inoportuno a chiedertelo».

«Ma da quando ti fai problemi a dire quello che ti passa per la testa?» ribattè lui avvicinando il volto al mio, non in modo fraintendibile ma quanto bastava a poter sussurrare.
«Anche se stiamo insieme non vorrei che le cose tra noi cambino. Hai la completa libertà di chiedermi e dire qualsiasi cosa voglia».

Forse era meglio di no, avrei voluto dire ma annuì accennando un sorriso a cui lui rispose, illuminandomi così la giornata.

Ok, Akira mi aveva rintronato. Maledetto il suo sorriso, le sue labbra. Peccato che eravamo in corridioi e già la situazione si staca facendo piuttosto allusiva e fraintendibile, visto le occhiatine che alcune ragazzine, di prima sicuro perché sembravano ancora delle bambine, ci riservavano. Che fossero delle amanti dei BL come Akira?

Oh...accidenti!

Tanto valeva a questo punto scriverci dei cartelloni a caratgeri cubitali "Stiamo insieme".

Alla faccia del'anoninato!

Fummo salvati da situazioni imbarazzanti in corner dalla campanella.

«Dovrei andare in classe. Ho la verifica di matematica» disse allontanandosi un poco.

A quelle parole strabuzzai gli occhi.

«E perché non sei rimasto a ripassare in classe?»

«Volevo passare del tempo in tua compagnia».

Ah...ma come fa a uscirsene con frasi di questo tipo con così noncuranza?

Visto il mio sguardo indebetito lui ridacchiò e si avviò verso la sua classe, lasciandomi un attimo imbambolato, non so per quanto tempo perché mi ritrovai il mio carissimo compagno di classe Quattrocchi a poca distanza. Sussultai per la sorpresa, si era materializzato di punto in bianco. Senza dubbio era per colpa di qualche suo potere arcano da nerd.

«Cosa stai facebdo ancora in corridoio? La campanella è già suonata da un po'. Se la prof ti beccasse fuori...»

«Ma saranno un po' affari miei?» gli domandai in modo sgarbato. Era colpa sua che voleva rivolgermi la parola. Se avesse continuato con la sua vita e mi avesse lasciato in pace sarebbe stato meglio per entrambi. Mi dava fastidio non poco la sua aria da santarellino.

Spingendo il corrimano mi allontanai, lasciandolo lì, a metà da il sopreso e l'infastidito.

Di fronte alla porta a fare da vedetta trovai Ippoloto che nel vedermi si aprì in un sorriso provocatorio.

«Non dovresti trattare così un tuo compagno».

Anche lui perchè non si faceva un po' i cazzi suoi?

«Levati Ippolito. Devo passare».

Lui anzichè fare come richiesto si chinò verso di me, per potermi sussurrare all'orecchio parole che suonavano come una premonizione.

«Se continuerai così ti ritroverai da solo».


 

Angolino autrice (non perduta):

Buonsalve :3
Mi devo scusare tantissimo per il mega ritardo 🙏🏼
Spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^ ❤️
Ringrazio tutti voi che state continuando a leggere e seguire la storia 🥰❤️

A presto(si spera)!
FreDrachen

 

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Capitolo 36
*** Capitolo 30 ***


Capitolo 30

Qualche giorno dopo diventai partecipe a quello che sarebbe potuto diventare benissimo lo shock più grande della mia vita. Successe quando, non appena svoltai l'angolo del corridoio alla ricerca di un angolino appartato in cui stare in santa pace (Akira aveva il tema, per cui non potevamo passare quella ricreazione insieme) andai quasi a sbattere contro due figure che si stavano baciando con tale impeto da farmi sentire un sempliciotto alle prime armi.

Solo che la figura più bassa sembrava di averla già vista da qualche parte, e i capelli di quello più alto...

Oh...porca miseria!

Erano Roberto e Capelli Tinti!

I due si staccarono all'improvviso, interrotti dal mio arrivo.

Il volto di Roberto arrossì mentre Capelli si limitò a rivolgermi un'occhiata di sufficienza come a sfidarmi a dire qualcosa. Forse sperava in qualcosa di sconveniente in modo da avere una scusa per attaccare briga.

Invece si limitò a rivolgere qualche parola a Roberto, un debole sussurro che mi parve suonare come qualcosa del tipo: "Ci vediamo in classe" prima di allontanarsi, lasciandoci da soli.

Roberto rimase con lo sguardo basso, come se sperasse che si aprisse una voragine sotto i suoi piedi per toglierlo dall'imbarazzo. E lo stesso speravo anch'io.

I segnali c'erano tutti ma avere la conferma dei propri sospetti in quel modo era tutt'altra cosa. La sua eccessiva premura, il fatto che tirasse fuori gli artigli ogni volta che lo trovava in difficolta erano segnali lampanti. Era quello che avrei fatto anch'io per Akira.
Roberto era sempre stato del Trio di Nerd quello che si era dimostrato più gentile nei miei confronti (Anonimo non si poteva contare perchè era come se non ci fosse), e cercava sempre un modo per togliermi da situazioni di disagio. Ora toccava a me alleggerire il momento.

«Non sapevo che ti frequentassi Cap...ehm Simone».

Roberto, sempre evitando il mio sguardo, fece spallucce, come se stesse cercando di apparire sicuro di sè.

«Non è una vera e propria...insomma io e lui...ecco...» cominciò andando poi a concludere il suo discoro con parole appena borbottate.

«Lo vedo cone ti guarda» dissi comprensivo. Cos'era, da quando mi ero innamoraro di Akira mi ero trasformato magicamente in Cupido? Ero diventato un autentico dio dell'amore. Psicologi scansateve, fate largo al Re delle questioni amorose.

Finalmente Roberto alzò lo sguardo, in cui lessi un certo smarrimento.

«Stiamo provando a vedere come ci troviamo insieme. È piacevole stare in sua compagnia ma a volte si comporta in modo troppo apprensivo e questo mi provoca un la sensazione...di soffocamento». Mise poi le mani avanti. «Non mi fraintendere. Simone è un bravo ragazzo ma a volte mi sembra che possa...tarparmi le ali».

«Lo si nota. Dev'essere il suo modo per mostrarti che tiene a te, che io condivida o meno».

Roberto annuì. «Non lo metto in discussione, solo che dovrebbe lasciarmi un po' di spazio».

«E perchè non glielo dici? Sono certo che capirebbe» dissi senza crederci più di tanto. Se Capelli Tinti era cocciuto tanto quanto il sottoscritto sarebbe stato difficile fargli cambiare idea.

Con Agnese ero sempre stato uno che le lasciava i suoi spazi, insomma stavamo insieme senza però condannarla alla reclusione in una gabbia dorata.

«Non so se...»

«Dovrà farsene una ragione. Deve imparare a starsene al suo posto».

Roberto sorrise.

«Come mai ti trovo così ispirato?»

Merda! Mi aveva per caso scoperto?

«Non ho mai pensato a te come una sorta di Cupido sforna consigli sull'amore. Mi hai davvero stupito».

Mi rilassai, ma al tempo stesso mi sentì offeso.

«Sono stato fidanzato anch'io» puntualizzai.

Con Agnese avevo cercato di dare il meglio di me affinchè potesse funzionare. Ma se non avessi fatto abbastanza ed era per questo che mi aveva lasciato?

In effetti non conoscevo il motivo per cui c'eravamo allontanati, ma non ero pronto psicologicamente a scoprirlo.

«Si, lo so. Con la ragazza carina dai capelli castani».

Il mondo era pieno di ragazze con quella caratteristica ma Agnese era...Agnese, più unica che speciale.

Ma aspetta un attimo...

«Ti piace per caso Agnese?»

Pensai quasi del tutto sicuro che Roberto si mettesse a ridere dandomi dell'idiota per aver pensato una cosa simile, sopratutto per il fatto che neanche si conoscevano. Inaspettatamente, però, lui arrossì fino alla punta dei capelli, distogliendo lo sguardo.

«Ma cosa vai a dire?» domandò cercando inutilmente di negare l'evidenza.

Colpo di scena!

«Ma con Simone...»

«Non glielo dire. Non vorrei che ci rimanesse male. E poi non sta con il tuo amico? Se ci pensassi ci rimarrei solo male, dato che si tratterebbe di sentimenti unidirezionali» disse, lo sguardo perso nel vuoto quando pronunciò quelle ultime parole.

Notando la mia domanda imminente dipinta in faccia sorrise tristemente.

«Vorrei davvero che le cose vadano bene con Simo, perchè con lui non ho paura di poter essere me stesso».

Avrei voluto dirgli che ad Agnese non importava l'orientamento, il genere. Lei era innamorata della vita in sè ed ero certo che, se Roberto avesse provato ad avvicinarsi, lei non l'avrebbe rifiutato. Ma esisteva l'incognita Ippolito.

Suonò la campanella e Roberto sospirò.
«Forse è meglio che torni in classe».

Fece per allontanarsi ma lo fermai.

«Non avere paura di osare Rob. Hai diritto di essere chi vuoi e osare con chi tieni».

Roberto si voltò con un espressione triste.

«Forse non te ne accorgi ma il mondo è un posto crudele nei confronti di quelli come me o degli altri componenti della LGBT».

E detto questo mi lasciò solo.

E detto questo mi lasciò solo


Tornai in classe, pensoso.

In verità non ero mai stato testimone di un'aggressione a tema omofobia e simili. Ma bastava guardare il tg o leggere le notizie su internet per essere consapevoli che le parole di Rob erano purtroppo vere.

Eravamo nel ventunesimo secolo ma, a volte, pareva quasi di vivere nel medioevo. Anzi, peggio.

Raggiunsi la classe e trovai la porta già mezzo socchiusa. Merda! Doveva già essere già arrivata la prof.

In un modo o nell'altro dovevo entrare e affrontare la megera.

Non appena l'aprì fui travolto da un getto d'acqua seguito subito dopo da un secchio in plastica, che riconobbi come quello usato dai bidelli, pardon operatori scolastici, che si riempiva sempre di acqua sporca dopo ogni loro lavaggio.

Che...schifo!

Mi passai una mano tra i capelli bagnati e abbassai lo sguardo sui miei vestiti completamente fradici che aderirono alla pelle dandomi una sensazione di fastidio e fresco. Con le finestre spalancate che c'erano in classe ci convolavano proprio a nozze per farmi venire un malanno.

Rialzai lo sguardo incrociandolo con quello di Ippolito. Sulle prime era serio, rincuorandomi per un attimo che fosse stata idea di qualcun altro ma subito dopo mi ricredetti al barlume di sorriso che spuntò sulle sue labbra.

Mi sentì montare dalla rabbia. Non m'importava degli anni di amicizia che ci legava né che sarei finito nei guai, forse anche con una sospensione, se l'avessi preso a botte. Ma era quello che il mio corpo richiedeva. Non ero mai stato un tipo manesco, le parole erano la mia arma e Ippolito questo lo sapeva. Così come sapeva che sarebbero state solo tutto fumo e niente arrosto e gli sarebbero scivolate addosso come un alito di vento.

L'unica cosa che mi rimaneva era regolare i conti così, oppure l'alternativa allentante era tirargli il secchio in faccia.
Fu proprio quest'ultima cosa che feci inconsapevole, senza avere il tempo di pensare. Era una cosa che mi capitava quotidianamente purtroppo.

Avevo sempre avuto una buona mira e come mi ero aspettato collise alla perfezione con il suo viso.

Il secchio cadde poi a terra e Ippolito si portò una mano sul naso da cui cominciò a colare un rivolo di sangue.

Fu allora che si premurò di presentarsi quell'inutile della prof, il cui sguardo si posò prima su di me e poi su Ippolito.
Forse avrebbe fatto una buona azione (la prima senza dubbio della sua vita)  capire che ero la vittima di tutta quella situazione, passando in parte sopra la mia reazione forse un poco esagerata (ma che avrei rifatto con estremo piacere).

«Tremonti, ma tu pare il caso?»

Come non detto. Questa era tutta fumata. O di parte. O entrambe le cose.

«Non è stata colpa m...»

«Bagnare la classe e i vestiti? Ti pare un comportamento corretto da tenere? E Russo? Cosa ti è successo?» domandò adesso rivolta a Ippolito che si era fatto passare un fazzoletto per tamponare quella che lui stava definendo a mezza voce un'emorragia. Che esagerato!

Fu Yassine (sempre quando non doveva) a intervenire. «Tremonti gli ha tirato il secchio in faccia».

Ma...ma che razza di figlio di put...

«Tremonti! Va in bagno ad asciugarti e poi fila dritto in presidenza. Il consiglio di classe non passerà di certo sopra a questo tuo comportamento inopportuno e violento».

Mi stava facendo passare per il pazzo violento che non ero. Anche se dovevo ammettere che dopo l'incidente sentivo la mente più instabile, bastava davvero poco a farmi scattare. Ma questo non mi rendeva pazzo...o si?

«Quindi mi sta dicendo che l'unico che andrà punito sono solo io e non anche quello stronzo che si è premunato di posizionare il secchio pieno d'acqua...»

«Non accampare scuse Tremonti. Va fuori!»

Con sommo piacere, stronza maledetta!

Incazzato indirizzai un'ultima occhiata a Ippolito, che trovai con un ghigno da iena sul viso, e dopo averlo maledetto di strozzarsi con la sua stessa saliva e mi avviai verso il bagno per asciugarmi un poco, oltre che per allontanarmi un po' dall'aula, prima che commettessi un omicidio e dimezzato la classe e accoppata la professoressa.

Mi avvicinai al porta-rotolo per la carta ma lo trovai vuoto, come al solito. La carta igenica non mi entusiasmava più di tanto ma dovevo accontentarmi.

Entrai nella stanza limitrofa dove si trovavano i bagni, trovandone solo uno occupato, e forse l'unico munito di quello che mi serviva.

Bussai la porta e chi si trovava dall'altra parte mi rispose con voce scazzata. «Occupato».

"Ma va!", avrei voluto ribattere ma era meglio tenermelo buono visto che avrei dovuto interloquire con lui.

«C'è la carta igienica da te? Ne avrei bisogno di qualche strappo».

Silenzio, poi una mano pallida sbuccò, dal buco di sotto della porta, munita della carta.

Mi chinai ma mi resi conto quasi subito che se mi fossi sporto ancora di più sarei caduto per terra.

Stizzito dal mostrare questo mio handicap mi tirai su.

«Non riesco ad arrivarci».

«Ti basta semplicemente chinarti, lo sai no?»

Chi cazzo era questo a fare del sarcasmo? Calmo Luca, mantieni la calma.
«Non posso, genio. Se lo faccio rischio di cadere dalla sefia a rotelle» sbottai, non riuscendo a trattenermi del tutto.

Non appena finì di pronunciare quelle parole la porta del bagno si sbloccò ed emerse una figura che non mi era estranea.

I capelli rosso scuro scampigliati e i rivoli di trucco nero che contornavano gli occhi violetti mi rimandarono le sembianze del compagno di classe di Akira, Pigmalione.

«Scusa, non ti avevo riconosciuto dalla voce. Pensavo fossi qualcun altro venuto a rompermi le scatole, per non dire altro».

Dal tono di voce duro non ci tenevo a capire a chi si stesse riferendo.

«Che ti è successo?» mi domandò poi, indicando i vestiti.

Sulle prime il primo pensiero fu rispondergli di farsi i cazzi suoi ma dato che sembrava davvero interessato e mi stava simpatico gli riassunsi a grandi linee gli accadimenti.

Pigmalione rimase in silenzio, forse per metabolizzare le mie parole.

«Certo che ti eri circondato di amici leali, eh Tremonti?»

All'apparenza quelle parole potevano suonare come sarcastiche ma c'era un barlume di serietà che mi fece intuire che mi capiva.

Forse non come me ma anche lui doveva avere dei problemi simili.

«A te invece che è successo?» domandai invece, ignorando la sua domanda.

Lui incrociò le braccia al petto. «Nulla. Solo uno stronzo che si comporta come tale».

«Hai provato a malmenarlo? Con alcuni serve il pugno di ferro».

«Così da finire nei casini? Non è il caso. Ma mai dire mai».

«Avresti potuto chiamarmi così c'avrei pensato dovuto io. Tanto dopo dovrei andare a fare una visitina al preside».

Queste parole gli fecero esplodere una risata di cuore.

«Stai per caso infierendo?» domandai alzando un sopracciglio. La mia non era una battuta, ero serio.

«Non mi permettereiai Tremonti» replicò lui per poi farsi serio.
«Non è colpa nostra se siamo circondati da gente che gioisce a far soffrire il prossimo, persone che hanno il quoziente intellettivo di un'ameba ammuffita».

Allora non ero io l'unico ad avere modi di dire strani.

Lui abbassò lo sguardo con serietà. «Purtroppo non siamo gli unici di questa scuola ad avere problemi con decelebrati affetti da cretinite cronica con sfumature di omofobia».

Non ero certo che esistesse il termine '"cretinite" ma faceva dedurre subitissimo il significato che racchiudeva.

«Non capisco» ammisi un poco in imbarazzo.

Prima Roberto, poi Akira, poi Pigmalione...e adesso mi diceva che ce n'erano altri? Ma quanti rappresentanti della comunità lgb...ok, quella sigla, c'erano nella nostra scuola? E come avevo fatto a non accorgermene fino a quel momento?

«Hai presente il ragazzo di quarta informatica? Quello con i capelli rosa pastello».

A quella descrizione ebbi l'illuminazione. C'era un solo ragazzo con quella caratteristica così peculiare.

«Parli del nanetto rosa che ricorda molto un puffo?»

«Nanetto non direi dato che adesso ti supera in altezza» ribattè Pigmalione con un sorrisetto divertito.

Si divertiva un po' troppo a infierire, però era piacevole parlare con lui.

Ignorai il suo commento. «Anche se ha i capelli di quel colore come fai a dire che è...gay?»

«Mah, non saprei. Forse solo la mega cotta che ha per il suo prof di italiano che l'hanno capita tutti tranne che il diretto interessato?» Notando la mia faccia perplessa alzò gli occhi al cielo. «Ma dove hai vissuto fino ad ora? In un universo parallelo? Ettore Marconi ti dice nulla?»

A quel nome ebbi l'illuminazione. «Quello alto e muscoloso che fa scoppiare gli ormoni delle mie compagne di classe?» (esclusa Agnese, a lei non aveva mai fatto né caldo né freddo). Ettore Marconi non era altri che il prof d'italiano del corso informatico e della classe di Akira, un ragazzo di ventisette anni che sembrava un modello di Abercrobie. Tutte le ragazze, soprattutto quelle del biennio, emettevevano dei versetti striduli (e talvolta inquietanti) mentre passava per il corridoio.

«E non solo» aggiunse Pigmalione con un sorriso.

Continuò poi ad aggiornarmi, sul quasi certo orientamento poco etero del professor Marconi (povere ragazze che sognavano in un futuro prossimo di diventare le Signore Marconi) e parlando di altri ragazze e ragazzi, rendendomi conto che la realtà che mi circondava era ben diversa da quello che credevo. Ero davvero stato in passato così pieno di me da non osservarmi attentamente attorno?

«Vedi Tremonti, non è difficile. Basta guardarsi attorno per scoprire nuove realtà che non ci si aspetterebbe mai. Purtroppo, però, viviamo in una realtà in cui la gente ha paura delle differenze. Un ragazzo che va contro i loro canoni di mascolinità truccandosi e mettendosi lo smalto alle unghie. Gli danno del frocio, della checca quando non sanno nulla di questa persona e pensano di sparare sentenze che non gli competono. Gli unici giudici della nostra vita dovremmo essere solo e soltanto noi stessi». Portò lo sguardo su di me. «E lo stesso vale per i ragazzi che per colpe non loro non rispecchiano la loro idea di perfezione per incidenti o per malattia che lasciano i segni sul corpo, sfigurandoli o deturpandoli. La gente deve imparare a farsi gli affari propri senza da avere da ridire su tutto o sparare sentenze non richieste».

Dopo quel discorso lo rivalutai ancora di più.

«Non è colpa nostra se la maggior parte della gente è deficiente» dichiarai, facendolo ridacchiare.

Pigmalione fece un cenno d'assenso prima di avvicinarsi. «Vuoi che ti dia una mano ad asciugarti?» si propose poi recuperando un po' di carta.

«E il tuo volto?» domandai, preoccupato per le sue condizioni.

«Non mi farà venire un accidenti al contrario tuo» replicò lui incitandomi poi a togliermi la felpa. Non me lo feci ripetere due volte rimanendo in maglia a maniche corte.

Lui andò a posarla sul calorifero acceso mentre cominciai a strofinai i capelli, con un risultato pietoso visto che la carta mi si sfaldò tra le mani, impiastricciandosi con l'acqua.

Bella mossa Luca, davvero!

Pigmalione con un sospiro mi venne in soccorso, aiutandomi a liberare dai pezzetti, chinandosi verso di me, con la conseguenza di avere a qualche centimetro di distanza il suo petto esile fasciato in una maglia bianca sotto una camicia dalla fantasia scozzese sul rosso.

Fu in quel momento che la porta del bagno si aprì e per poco non mi strozzai con la saliva.

Nel vano della porta si stagliò la figura di Akira, con un'espressione sorpresa stampata sul viso.

«Akira» mormorai e Pigmalione si raddrizzò scrollando le spalle.

«Ops, non era mia intenzione ritrovarmi in quella posizione equivoca» disse, dirigendosi poi verso il lavandino sciacquandosi il volto. Senza trucco il suo volto sembrava più giovane e sparuto.

Si tamponò il volto continuando a tenere sotto controllo Akira che nel frattempo mi si era avvicinato e aveva assunto una posa difensiva. Sembrava quasi che volesse marcare il territorio.

Per quel che mi riguardava poteva fare quello che gli pareva ma così facendo Pigmalione, che non mi sembrava uno sprovveduto, avrebbe capito tutto.

«Lo aiuteresti a rimettersi in sesto?» gli domandò e Akira si limitò a un breve cenno d'assenso.

Pigmalione sembrò soddisfatto e si diresse verso l'uscita. Ma subito prima di scomparire dalla nostra vista lo vidi fermarsi un attimo e mormorare qualcosa che suonò simile a: «Fate attenzione».

L'aveva davvero detto? Naaaah! Di certo me le ero immaginate.

Quando fummo soli alzai lo sguardo verso Akira e lo trovai intento a osservare ancora la porta, la posa rigida, la bocca ridotta a una riga sottile.

D'istinto lo presi per mano, facendolo sussultare. Abbassò lo sguardo su di me e nei suoi occhi ossidiana lessi gelosia.
Un momento, stava forse pensando che...

«Non c'è nulla tra noi» mi affrettai a spiegare.

Ma lui non mi parve tranquillizzato.

«Ti stava troppo vicino» disse continuando a essere contrariato.

«Mi stava aiutando ad asciugarmi oltre che a risolvere un pasticcio che ho fatto con la carta» spiegai indicandomi la testa e poi tutto il corpo.

Akira si propose ad aiutarmi e cominciò a tamponarmi e frizionare la pelle con estrema delicatezza.

Rimanemmo in silenzio per un po' finchè non di lui a romperlo.

«Scusami se ho fatto la figura del ragazzo geloso. So che Pigmalione è un bravo ragazzo, insomma è da quando mi sono trasferito in questa scuola che siamo in classe insieme ed è stato il primo che mi ha rivolto la parola. Però quando l'ho visto in quella posizione, ecco...è come se fossi stato posseduto da un bisogno primordiale di rivendicarti. Essendo anni che covo sentimenti nei tuoi confronti non volevo che qualcuno ti portasse via».

Dovevo ammettere che Akira geloso aveva un che di sexy.

Glielo dissi al che lui arrossì.

«Mi sento un pazzo».

«Non ho mai detto di non amare questa parte di te» puntualizzai mandando visibilmente la sua mente ancora più in cortocircuito.

Lui distolse lo sguardo continuando con la sua attività. Finimmo relativamente in fretta, fu un perfetto lavoro di squadra.

«Cosa ti è successo? Se ne hai voglia di parlare» domandò poi andando a buttare la carta otmai bagnata.

«Nulla. Solo uno scherzo di pessimo gusto da parte di del troglodita di compagno di classe nonché ex migliore amico che mi ritrovo» risposi cercando di buttarlo come se fosse uno scherzo mal riuscito, senza dare l'impressione di esserne rimasto ferito. Solo la gente debole se la prendererebbe per una cosa simile.

Akira assunse una faccia contrita. «Non è stato affatto divertente».

«Non ho mai detto che lo fosse» dissi e quando mi chiese se avevo avvisato il preside dell'accaduto e risposi con la realtà dei fatti, lui si fece più scuro in volto.

«La tua prof è fuori di testa».

Feci spallucce. «È il prezzo da pagare per aver assunto per anni un comportamento sfacciato per cui mi sono guadagnato la simpatia di tutti».

Quando lui fece per proporsi ad accompagnarmi in presidenza per potermi dare man forte rifiutai il suo aiuto.

Dovevo risolvere da solo la situazione e cercare di far capire a Ippolito che scherzi come quello potevano essere simpatici (anche no) all'asilo.

Recuperai la felpa, ancora umida così come i pantaloni e permisi ad Akira di accompagnarmi fino all'ascensore, intimandolo a tornare in classe per non prendersi qualche richiamo sull'essere rimasto troppo a lungo fuori dalla classe.
Scesi di un piano e uscì fuori per attraversare il cortile che portava al secondo edificio.

L'entrata era ampia e spaziosa, la prima cosa che si intravvedeva erano le macchientte e poi agli antipodi vicino alle scale e l'ascensore l'aula magna e la sala conferenze.

Trovai Giancarlo, il portinaio, forse uno dei pochi che capiva il mio sarcasmo, alla dua postazione, null'altro che un cubicolo di fianco alle macchinette.

«Come mai in giro Luca?» mi salutò venendomi incontro con un sorriso.
Era un ragazzo sulla trentina, dai capelli castani e occhi gentili. Talvolta gli altri ragazzi, sopratutto alcuni deficienti di seconda si divertivano a prenderlo in giro, e lui per punizione si divertiva a negar loro l'accesso dalle porte dell'altro edificio. Poteva sembrare un comportamento immaturo ma se lo meritavano, al posto suo l'avrei fatto pure io. Sembrava che mi avesse preso in simpatia fin dal primo anno, e talvolta mi ero fermato a discutere con lui di calcio, di cui era tifoso, non però come il sottoscritto.

«Niente, solo una visita al preside. Sai se è nel suo ufficio?»

Lui assunse un'espressione contrita.

«Cos'hai combinato stavolta? E perché hai i vestiti che sembrano bagnati?»

«Storia lunga Gian, e abbastanza noiosa» tentai ma lui fu irremovibile. Mi condusse verso l'ascensore e mi accompagnò al piano superipre, riuscendo a estorcermi cos'era successo. Non si poteva non dire che Gian non ottenesse quello che voleva.

Lo ringraziai per avermi accompaganto e lo lasciai a borbottare qualcosa sulla sua vendetta in mia difesa. Non pensavo che mi avrebbe fatto così piacere sentire la sua vicinanza però non volevo che finisse nei guai per colpa mia. E gliel'avrei detto se non fosse che le porte dell'ascensore si erano già chiuse alle sue spalle.

 E gliel'avrei detto se non fosse che le porte dell'ascensore si erano già chiuse alle sue spalle

Dal preside fui abbastanza veloce. Fui sintetico ma essenziale nel descrivere le dinamiche dell'accaduto e per tutto il tempo il preside stette in silezio e attento a ogni parola che pronunciavo tanto da mettermi una leggera pressione. Io che ero abituato all'adrenalina sul campo, mi sentivo intimorito da una situazione del genere. Dovevo assolutamente riprendermi.

A racconto finito mi sentì meglio, svuotato di un peso. Non che fosse colpa mia di quello che era successo. O forse era solo il risultato dei miei comportamenti pregressi?

Il preside si tolse gli occhiali e si massaggiò occhi con fare stanco. Mi assicurò con il suo cipiglio calmo e rilassato che avrebbe tenuto conto dell'accaduto parlandone con il consiglio di classe per decidere il da farsi (ero fregato), e mi promise che avrebbe provato ad alleggerire la pena, ma che senza prove avrebbe avuto le mani legate.

Lo ringraziai e tornai in classe con la mente un po' annebbiata e i brividi.

Non sentì le parole della prof, né mi ricordai come fossi arrivato al mio posto.

Non considerai neppure le occhiate di sottecchi di Ippolito, né quelle apprensive di Agnese.

Ricordavo solo di essere stato con la testa poggiata contro la mano e lo sguardo perso nel vuoto.

«Vi dividerò a coppie per fare un lavoro correlato ai batteri d'interesse sanitario più importanti».

"Qualsiasi cosa ma lasciatemi in pace", pensai acasciandomi sul banco. Volevo solo andare a casa.

«La prima coppia sarà costituita da Casale e...Tremonti».

Qielle parole mi attivarono e alzai di scatto la testa. Quasi mi cascò la mascella per lo shock, ruotando un poco la testa verso Quattrocchi che già mi osservava con sguardo d'intesa.

Ora ero costretto a passare del tempo in sua presenza.

E che ca...volo.



 

Profilo instagram della storia dove posto estratti, curiosità legati ad essa:

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Capitolo 37
*** Capitolo 31 ***


Capitolo 31


Non appena tornai a casa, ancora con la mente annebbiata, con anche in aggiunta un mal di testa allucinante, trovai mio padre ad attendermi con un'espressione seria sul viso.

«Di tutte cose che potevano capirare, mai mi sarei aspettato una convocazione dal preside».

Prima che potessi aprire bocca lui aggiunse aspramente: «Mi hai profondamente deluso».

«Non è stata colpa mia. Ippolito...»

«Non attaccarti a scuse e abbi almeno la decenza di tacere. Non mi sono mai sentito così in...imbarazzo, tranne che dopo l'incidente».

Quindi mio padre mi disprezzava da quel giorno? Che sciocco a voler empatia da parte sua.

L'osservai, notando che avevo la vista un po' appannata.

Avvertì il contatto della mano di mia madre prima ancora di vedere la sua figura che mi si avvicinava, mandandomi un attimo nel panico. Avevo i sensi distorti e non riuscivo a percepire al massimo ciò che avevo attorno.

«Luca...hai la febbre».

Ah, ecco spiegato il motivo del mio stato d'essere. Mi ci mancava pure questa.
Sentì mia madre mandare papà a comprare forse il paracetamolo per abbassare la febbre. Lo sentì sbuffare, e dopo insistenti tentativi si convinse. Per fortuna avrvamo la farmacia a poca distanza da casa.

Non protestai quando mia madre si posizionò dietro di me e spinse la sedia a rotelle fino in camera mia, e neanche quando mi aiutò a issarmi sul letto. Se non ci fosse stata lei sarei di sicuro finito per terra.

Mi rimboccò le coperte cone quando ero bambino e poggiò la sua mano fredda sulla fronte, alleviandomi un po' il dolore.

«Fa male» mormorai a fatica, le parole che mi si impastavano in gola.

«Va tutto bene Luca. Passerà, come tutto».

Mi lasciai andare alla morbidezza del letto e al canticchiare basso di mia madre di una vecchia canzone che le piaceva tanto.

Finì con il ritrovarmi in uno stato di dormiveglia, rotto dal momento in cui lei mi somministrò il paracetamolo.

E da pensieri, immagini che sembravano appartenere a un altro tempo.
 

Sapevo di non reggere l'alcool, ma avevo accettato un cocktail uno per non fare la figura dello sfigato astemio, e due per fare uno scherzo a mio padre. Ero ancora arrabbiato con lui, e andare contro le sue volontà mi sembrava l'unico atto di ribellione che potevo permettermi. Per cosa? Non ricordavo.

Sapevo solo che l'etanolo stava cominciando a darmi alla testa. Avvertivo i sensi ampliati e l'ambiente, già colorato da luci stroboscopiche della discoteca, mi sembrava se possibile ancora più caotico. Il martellare della musica assordante mi stava facendo venire mal di testa tanto da costringermi a sedermi e a portarmi le mani sulle orecchie. Quanto desideravo alxarmi e andare a staccare la spina alla console del deejay.

Non appena sentì una mano sottile appoggiarsi sulla mia spalla sussultai, e alzando lo sguardo mi accorsi che si trattava di Agnese.

La sua figura tremolava, come se fosse stata in uno schermo con i pixel impazziti, ma riuscì constatare dal suo sguardo che aveva provato a chiamarmi già da un po'.

«Stai bene? Non hai una bella cera».

Mi sentivo strano, come se la mente fosse scollegata dal corpo.

«Non...non lo so» riuscì a stento a biasciare. Anche parlare mi stava risultando faticosi, proprio a me! Il Re della Parlantina!

Disse qualcos'altro, lo dedussi dal movimento delle sue labbra, ma non capì nulla di quello che aveva pronunciato. Le chiesi, urlando per sovrastare la musica che se possibile si era fatta più assordante, di ripetere e lei aspettò saggiamente la fine della canzone per parlare.

«Non puoi guidare in queste condizioni. Devi chiamare i tuoi che ti vengano a prendere».

«Sono incazzato con mio padre» replicai semplicemente per farle capire che non l'avrei fatto neanche sotto tortura.

Ed era vero. Se l'avessi avuto di fronte l'avrei insultato pesantemente. Peccato che questo pensiero l'avevo fatto troppe volte prima di quel giorno, ma non avevo mai avuto il coraggio di farlo. Chissà, forse l'alcool mi avrebbe dato la sfacciataggine di farmi avanti.

«Metti da parte l'orgoglio. Ti preferisco sano e salvo piuttosto che contro un albero o peggio».

«Sei...una disfattista. Mi piace come si pronuncia questa parola, come arrotondi le lettere con la lingua». Si, forse stavo un tantino delirando.

La vidi alzare gli occhi al cielo. «Devo chiedere al barista cosa contenenva quel cocktail. Ti rende più strano di quello che sei».

Di tutta risposta mi sbilanciai verso di lei in modo da poter poggiare le labbra sul suo collo.

«Sei crudele Agne. Pensavo che ti piacesse questo lato di me» sussurrai solleticandole la pelle con il mio respiro, la mano destra poggiata sulla sua schiena per poter tenere il suo corpo a contatto con il mio, più caldo del normale.

La sentì irrigidirsi al che mi allontanai, cercando il suo sguardo, cosa non facile perché cominciavo a vedere tutto appannato. Si, forse era davvero il caso di fare la chiamata a casa.

Lei evitava il contatto visivo, come ormai accadeva da qualche mese, fatto che ci aveva allontanati. Stavamo ancora ufficialmente insieme, ma in verità non sapevo come si fosse e come si sarebbe evoluto il nostro rapporto.

Mi alzai, o meglio cercai di farlo ma subito mi ritrovai senza equilibrio, rischiando di cascare di faccia per terra e infine calpestato dai ragazzi che avevano ripreso a ballare con il ritorno della musica. Che fine orribile.

Agnese mi prese a braccetto e a stento riuscì a farsi largo tra la gente, senza farsi travolgere e senza farmi cadere. Pur essendo piccolina e gracile possedeva una grandissima forza di volontà. Di forza fisica purtroppo no, ma ehi, mica era colpa sua! Di Ippolito non c'era traccia, era da un po' che non lo vedevo. Ricordavo solo che si era allontanato per andare in bagno, o una cosa simile.

Durante il tragitto sentì di sfuggita una voce distaccarsi dal brusio alto degli altri presenti, che si lamentava dell'assenza delle chiavi della sua macchina. O almeno, credevo di aver sentito bene. La mente mi stava giocando brutti scherzi, visto che le luci sembravano parlarmi.

Non appena aprì la porta del locale fui subito assalito dall'aria frescolina notturna, tipica di fine agosto.

«Puoi tornare dentro Agne. Mi fermerò qui a chiamare. Cercherò di mandarti un messaggio quando verranno a prendermi» le promisi scoccandole un fugace bacio sulla fronte.

Lei annuì e sorrise, o meglio credo dato che anche l'aria fresca non mi aveva rinfrescato la mente, e rientrò lasciandomi da solo.

Mi appoggiai con la schiena contro il muro, sperando di non cadere in avanti, e con le mani intorpidite e dalle dita semi bloccate riuscì a stento a recuperare il cellulare.

Sempre con estrema difficoltà scorsi la rubrica alla ricerca del numero di mia madre. Preferivo lei che ascoltare quella irritante di mio padre.

Non appena riuscì nel mio intento, la procedura mi portò via svariati minuti, mi portai l'apparecchio all'orecchio constatando che non emetteva segni di vita.

Perfetto! Ci mancava pure che non ci fosse copertura. Ma perché pagavo ogni mese la tariffa se poi funzionava così male? Dovevo assolutamente cambiare l'operatore telefonico.

Mi staccai dal muro e avvanzai a passi lenti in direzione del parcheggio, tenendo sempre il cellulare all'orecchio, sperando di trovare una zona in cui prendesse.

Costeggiai la strada cercando di non sbilanciarmi verso la carreggiata. A quell'ora di solito non c'era nessuno ma preferivo evitare di finire asfaltato.

Finalmente riuscì ad avere un segno dal telefono. Dopo due squilli mi rispose la voce di mia madre preoccupata.

«Luca! Grazie al cielo! Dove sei? Non ti abbiamo trovato in camera tua e ci siamo preoccupati tantissimo!».

Per siamo sapevo che intendeva solo lei, ma trascurai questo dettaglio.

«Sono al Luna Rossa. Al Righi» riuscì a rispondere con difficoltà.

Mia madre se ne accorse subito. «Luca cos'hai? Non avrai per caso bevuto?»

Lei era fatta così. La sua priorità era la mia salute, il mio disobbedire era passato senza troppi preamboli in secondo piano, ma non l'avrei scampata, lo sapevo.

«Solo...un bicchiere» ammisi. «Non mi sento molto bene. Potresti...venire...a prender...mi?»

«Dove sei adesso?»

«Sto...andando verso il parcheggio. Dentro c'era...la musica».

«Prendo le chiavi dell'auto e arrivo subito. Trova un luogo tranquillo. Luca, andrà tutto bene».

E le credetti.

Eccome se lo feci.

Mi ritrovai con gli occhi umidi, felice che mia madre non mi avrebbe abbandonato. Sentì nella sua voce una nota di preoccupazione per cui avvertì il bisogno di rincuorarla. Aprì bocca per farlo quando intravidi la mia ombra allungarsi di fronte a me.

Stava arrivando un'auto alle mie spalle.

Essendo sul bordo non avrebbe dovuto avere problemi a passarmi di fianco, e poi essendo vestito con colori chiari il guidatore poteva vedermi senza correre il rischio di essere investito.

Fu per questo che mi ritrovai senza fiato e impietrito dalla sopresa quando sentì la forza dell'impatto sbalzarmi in avanti, facendomi volare di qualche metro.

Caddi sull'asfalto, rotolando di qualche altro metro, scorticandomi la pelle. Ebbi il tempo di vedere l'auto frenare un poco per poi ridare gas per ripiombarmi addosso.
 

Aprì gli occhi di scatto sussultando mentre stavo ritornando alla realtà, ancora attontito e sdraiato mollemente sul letto. La mente era ancora annebbiata dalla febbre, eppure il sogno era vivido nella mia mente, lasciando sulla mia pelle una sensazione fastidiosa.

Mi stropicciai gli occhi sicuramente arrossati e cercai a tastoni l'interruttore della lampada da comodino.

Non mi accorsi di avere un ospite seduto sul letto fin quando non ebbi acceso la luce.

«Akira?» mormorai sussultando per la sorpresa, facendolo sorridere mentre bloccava lo schermo del telefono.

«Sopreso Luca-chan? Non potevo non venirti a trovare».

«Ma così ti attaccherò la febbre».

«Tranquillo. Non me la puoi afferrare dato che non è febbre dovuta a un'influenza di natura virale, ma da una risposta del tuo organismo».

Mi portai le coperte di fronte alla faccia lasciando fuori solo gli occhi. «Ma devi proprio parlare come un libro?» mormorai facendolo ridacchiare.

«Sai che ho una mente scientifica» ribattè per poi allungare una mano verso il comodino per recuperare quello che a una seconda occhiata riconobbi come un bicchiere.

«Ti ho portato un bicchiere per assumere di nuovo il paracetamolo. Me li ha dati tua madre».

Mi tirai su e recuperai il bicchiere che mi stava porgendo.

«Il paracetamolo, o acetaminofene, è una molevola con attività antipiretica e analgesica il cui uso è sicuro. Tuttavia se si asdume a dosi elevate e per periodi prolungati può creare gravi disturbi al frgato oltre che alterazioni gravi al sangue e reni» dissi prendendo la compressa e mandandola giù di botto accompagnandola con l'acqua.

Oddio! Stavo forse diventando un manuale enciclopedico?

«Wow! Ne sai di cose Luca».

A quelle parole per l'imbarazzo mi tirai nuovamente su la coperta in modo da coprirmici.

«È colpa tua. Mi stai trasformando  un nerd» piagnucolai. Certo che con la febbrei trasformavo in un essere patetico.

Akira ridacchiò e si stese al mio fianco.
«Sai che ti stai comportando in modo adorabile».

«Non mi piace. Voglio tornare tosto» bofonchiai.

«E lo diventerai se sai essere paziente».

Rimanemmo in silenzio per un attimo. «Ho voglia di un bacio» dissi, desideroso di un suo contatto più intimo.

Lui acconsentì sfiorando le mie labbra secche prima di passare al bacio autentico, la testa tenuta ferma dalle sue mani fredde, eppure piene del suo calore.

In quel momento ripensai alle analogie di quando era stato Akira a stare male, solo che a differenza sua non stavamo ancora insieme e per questo non ero riuscito a stargli vicino come desideravo.
Quel giorno lui si era aperto a me raccontandomi di sua madre, adesso quello che voleva dare luce ai suoi ricordi era il sottoscritto.

«Ho sognato» dissi non appena lui si allontanò un poco per permettere a entrambi di prendere fiato.

«Spero che fosse un bel sogno» rispose, strofinando il suo naso con il mio, sorridendo un poco.

Scossi la testa. «Più che un sogno mi sembravano...ricordi».

«Hai voglia di raccontare?» disse, facendosi serio, stendendosi vicino, facendo passare il braccio sotto al mio collo.

Ormai da tempo avevo capito che tenersi tutto dentro non mi avrebbe fatto bene. Per questo raccontai tutto quello che ricordavo.

Akira rimase pensoso, lo sguardo fisso sul soffitto.

«Quindi stai pensando che non si tratti di un incidente?»

«È tutto troppo orchestrato per essere solo una coincidenza. Il cocktail, l'auto che mi centra in pieno».

Mi sentivo un complottista. Magari quel cocktail corretto con chissà che sostanza stupefacente era solo la specialità della casa l'automobilosta aveva avuto un malore o chissà cosa.

Mi portai un braccio sugli occhi con fare seccato. «È frustrante non riuscire a ricordare».

«Stai cominciando. Sono certo che ci riuscirai».

«Non siamo in un film. Non è che i ricordi torneranno così di botto».

«Forse non subito ma poco a poco la tua mente riuscirà a rielaborate ciò che è successo».

Mi accoccolai contro il suo petto. Sentì la sua mano passarmi tra i capelli in un gesto di conforto.

«Ho paura di ricordare» ammisi. «Cioè da un lato mi rincuorerebbe perchè ciò che è successo non è del tutto colpa mia ma da un lato ho un certo timore».

Akira di tutta risposta continuò a giocherellare con i miei capelli.

«Non pensarci Luca-chan. Dai tempo al tempo».

«Sei troppo saggio» brontolai, al che sentì il suo petto vibrare mentre lo sentivo ridere.

Forse doveva importarmi nulla, lasciare all'oblio ciò che era successo, perchè se non avessi avuto l'incidente molto probabilmente non avrei conosciuto Akira. O meglio, di sicuro, non mi sarebbe importato nulla di lui. Mi strinsi ancora di più a lui, serrando gli occhi, con la paura che se li avessi aperti l'avrei perso.

Dovetti essermi addormentato perchè quando aprì gli occhi constatai che dalle righe lasciate dalla taparella non filtrava luce, conferma che ebbi dalla sveglia che segnava l'una di notte

Dovetti essermi addormentato perchè quando aprì gli occhi constatai che dalle righe lasciate dalla taparella non filtrava luce, conferma che ebbi dalla sveglia che segnava l'una di notte.

Tastando il letto lo trovai vuoto e freddo, segno che Akira se n'era andato. In effetti era davvero ora tarda.

Mi tirai su, sentendomi ancora un po' debole ma meglio di qualche ora prima.

Scorsi sul comodino un foglietto spiegazzato con poggiato sopra un Kinder bueno.

Scostai il tanto amato dolcetto per aprire il pezzetto di carta per poterne leggere il contenuto, riconoscendo subito la calligrafia ordinata di Akira.

"Ciao Luca,
Lo so, è un'idea stupida lasciarti un biglietto anzichè un messaggio ma lo trovavo un gesto più...carino. Ti sei addormentato (e hai fatto bene) così beme cbe non me la sono sentito di svegliarti, per questo purtroppo sono dovuto tornare a casa senza salutarti.
Mi raccomando, ogni tanto dammi segni di vita, e se ti fa piacere posso tornare a trovarti *^*
Mi sta finendo lo spazio del foglio (ho scritto troppo grande mannaggia!).
Ti saluto ;)

P.S. Voler ricordare non è sbagliato"

Il messaggio era accompagnato da un buffo omino che sembrava Akira e uno che somigliava al sottoscritto.

Scartai il dolcetto permettendomi uno spuntino notturno. Mi sentì in colpa di aver omesso parte della verità.

Gli avevo presentato il tutto come se fosse la prima volta che sognavo eventi come quelli, ma non era così. Era ormai da quasi un mese che facevano capolino nella mia mente sprazi di quelli che ormai consideravo ricordi, frammenti troppo piccoli per dare loro un significato ma che adesso assumevano nuove prospettive.

Non ero complottista, ero da sempre stato certo che quello che mi era successo non fosse stato un semplice incidente, anche quando fin dall'inizio mi avevano persuaso a pensarci, cercando di farmi relegare nell'oblio ciò che mi era successo.

Era come avevo detto ad Akira, avevo paura ma era un mio diritto conoscere la verità.

Dovevo cercare di ricordare il prima possibile, solo così avrei fatto pace con quello che mi era successo.

E forse anche con me stesso.
 

 

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Capitolo 38
*** Capitolo 32 parte 1 ***


Capitolo 32 parte 1


Tornai a scuola dopo neanche due giorni di ozio quasi completo. Akira si era premurato, da bravo secchione, che non rimanessi indietro con lo studio e con i compiti assegnati, addentrandosi, addirittura, nel territorio ostile della mia classe, vista la rivalità che regnava da sempre tra i due percorsi di studio.
Manco da malato avevo vita semplice!

Non ebbi quasi neanche il tempo di metabolizzare dove mi trovavo e cosa dovevo fare della mia vita durante quella lunghissima mattinata di scuola, che mi ritrovai di fronte Quattrocchi, perché Rotturadipalle oltre che essere poco carino era troppo lungo anche solo da pensare.

«Si fa da te o da me?» mi domandò con voce carica di speranza.

Il primo pensiero fu abbastanza sconcio, ma subito dopo capì a cosa si stesse riferendo.

Alzai distrattamente il volto dal banco su cui avevo cominciato a disegnare, con tutte le mie abilità artistiche pressochè nulle, dei palloni da calcio, incrociando gli occhi pieni di speranza del mio carissimo compagno. Non aveva ancora capito che non doveva respirare la mia stessa aria?

Non capivo perchè tale restietudine nei suoi confronti, forse la sua aria saccente da secchione oppure che volesse attaccare bottone con me anche se non gradito.

«Da nessuna parte» fu tutto ciò che ebbi da dire. Non aveva senso perdersi in inutili discorsi con lui, sarebbe stata solo una perdita di ossigeno ed energia e nient'altro.

Lui si aggiustò gli occhiali con fare nervoso. «Ma la professoressa ha specificato che...»

«Non me ne frega in cazzo, se devo essere sincero. Ognuno prepara la sua parte, se la studia e alla fine mettiamo insieme le due cose il giorno della presentazione. Che c'è di tanto difficile?»

Lui non demorse. Dovevo dargli atto che era piuttosto fermo sulle sue posizioni, ma aveva trovato la persona sbagliata contro cui scontrarsi.

All'ennesima lamentela sboccai. «Non mi piace che qualcuno venga a ficcanasare a casa mia e la cosa è reciproca con altri posti. Preferisco lavorare da solo».

«Però con quel tale dell'altra classe ci lavori no?»

A quelle parole mi irrigidì. «Che cazzo hai detto?»

«Sai a chi mi sto riferendo. Il ragazzo asiatico di BA*. Passate un sacco di tempo insieme e molti vi hanno visto andare via in compagnia».

«Cazzo c'entra? Ti rammento che mi ha fatto da tutor per recuperare le materie prima del mio rientro».

Sterilizzare in quelle parole il mio rapporto con Akira mi fece male ma se volevo difendere ciò che c'era tra noi avrei dovuto sottostare a quel sacrificio. Solo che Quattrocchi mi stava mettendo all'angolo, e questo non andava bene per niente. Maledetto stronzo.

«Le vostre lezioni sono finite. Perchè continuare a frequentarvi?»

«Coltivo semplicemente le amicizie che per me contano sul serio» ribattei, stringendo le mani sui braccioli della sedia a rotelle.

«Dovrai concedermi parte del tuo tempo. Non posso permettermi un'insufficienza solo perchè non sei stato in grado di collaborare».

Ah, quindi sarebbe stata colpa mia? Non pensavo che a Quattrocchi interessasse così tanto la sua carriera scolastica. Che fosse un secchione era risaputo ma non a questo livello.

Feci per ribattere quando entrò la professoressa.

«Prof, è vero che la presentazione va svolta a coppie e non singolarmente?» domandò lui con sguardo angelico, non appena fu tornato al suo posto.

Maledetto stronzo parte due.

«Esattamente Casale. Mi sembra doveroso ricordarvi anche che entrambi i membri della coppia dovranno conoscere l'intero argomento che porteranno e non solo la loro parte principale. Per cui collaborare è fondamentale per la buona riuscita della presentazione».

E che cazz...

Gianbattista si voltò verso di me con espressione trionfale tanto da farmi venire voglia di tirargli l'astuccio in faccia, idea scartata solo perchè mi sarei dovuto muovere per recuperarlo.

Rimasi per il resto della lezione pensando a un modo per saborare quest'idea così malsana e inutile.

Suonata la campana dell'intervallo lo ignorai palesemente e, per sfortuna, si levò dalla traiettoria comprendendo la mia intenzione di passare senza guardarmi indietro, anche a costo di asfaltarlo.

Raggiunsi Akira appoggiato poco distante contro il muro, intendo a sorseggiare un succo di frutta all'arancia, facendomi venire sete. Peccato che avessi lasciato l'acqua in classe e non avessi tutta questa voglia di rientrare.

Lui si voltò nella mia direzione e mi regalò un mega sorriso, agitando la  mano libera in segno di saluto. Lo raggiunsi senza poche difficoltà visto che gli altri ragazzi che si erano riversati in corridoio avevano deciso di stazionare nei punti più intelligenti che mi limitavano il transito. Qualcuno si spostò di malavoglia, lo intuì dalle occhiate che mi rivolsero a cui avrei risposto con un elegante dito medio se non fosse che non avevo questa gran voglia di perdere tempo prezioso che avrei potuto trascorrere in compagnia di Akira, e finalmente lo raggiunsi.

Lui dovette intuire qualcosa perchè il suo sguardo si fece preoccupato.
«Luca che hai? Hai tutta l'aria di uno che vuole spaccare qualcosa» disse Akira, aggrottando le sopracciglia.

«La faccia di un mio carissimo compagno di classe che non ne vuole sapere di lasciarmi in santa pace» risposi. Lui mi invitò a fare quattro passi (non propriamente in senso letterale), nel mentre gli spiegai brevemente l'accaduto.

Diversamente da quello che mi aspettassi, Akira scoppiò a ridere.
«Suvvia Luca-chan, non è la fine del mondo. Si tratta solo di una volta».

«Non puoi capire! È un'autentica catastrofe! Dovrei avere a che fare con uno che considera studiare un hobby e che non capirebbe la differenza tra un dribbling e un tiro al volo se glielo chiedessi».

«Quello nemmeno io, se devo essere sincero» si giustificò lui, grattandosi dietro la testa.

«Tu te lo puoi permettere perchè...mi piaci. Con lui mon riuscirei a intavolare una conversazione decente».

Lui arrossì un poco, voltando per un attimo la testa dall'altra parte. Lo adoravo quando il suo corpo reagiva in quel modo alle mie parole.

«Dovreste solo parlare di...su cos'è la ricerca che dovrete fare?» domandò dopo pochissimo, un po' più in sè.

«Una qualche tecnica di controllo inutile! Sarà una noia mortale visto che ogni volta che fa un intervento in classe mi fa venire sonnolenza».

«Cerca di sopportare Luca. Mancano ancora pochi mesi alla maturità e non puoi gettare alle ortiche i progressi che hai fatto finora» ribattè lui e prima che potessi rispondere in qualche modo mi si posizionó davanti e mi bloccò, appoggiando le mani sul corrimano della sedia. «Non ti ho aiutato solo per vederti rovinare tutto, intesi?»

Avevamo raggiunto un posto abbastanza isolato e frequentato raramente, per fortuna così non avremmo avuto problemi, per questo non mi preoccupai più di tanto di essere scoperti.
Avevo già gli occhi ardenti di Akira da tenere a bada.

D'istinto allungai la mano per sfiorargli la sua guancia liscissima.

«Non fremo dalla voglia di lavorare con lui. Ma se sei tu a chiedermelo, lo farò».

Lui di tutta risposta appoggiò la sua di rimando sopra e mi rivolse uno sguardo intenso.

«Non è per me che dovresti farlo, ma per te stesso. Però sono contento di esserti in qualche modo d'aiuto nel prendere decisioni». Accompagnò queste ultime perole con un sorriso dolce, davanti cui quasi mi sciolsi. Mi ero sempre reputato uno tosto ma di fronte alle sue espressioni non riuscivo a non provare nulla.

«Torniamo nelle nostre rispettive classi prima che pensino che ti abbia sequestrato».

Nella mia mente mi balenò, fuori contesto come lo erano la maggior parte dei pensieri che mi frullavano in testa, l'immagine di Akira vestito in maniera sexy con un body in pelle dalla parte superiore costituito da un corsetto con i lacci, e in mano un frustino, di fronte a me legato con le braccia da una spessa corda alla sponda del letto, in sua completa balia, pronto a farmi...

Accidenti! La dovevo piantare con queste fantasie erotiche irrealizzabili e assurde...o forse no?

Osservandolo meglio lo si immaginava di più con espressioni dolci anziché quelle toste da dominatore.

Perché facevo strani pensieri?

«Luca? Terra chiama Luca!»

«Eh?»

Ritornai con la mente sulla terraferma, e trovai Akira a fissarmi strano. Che abbia percepito i miei pensieri sporchi e lussuriosi? Quanto volevo sprofondare dall'imbarazzo.

«A cosa stavi pensando? Sembravi con i pensieri da tutt'altra parte».

Decisi, per salvaguardare la purezza del mio ragazzo, di non metterlo a corrente dei miei pensieri oscuri.

«Il mio compagno, lo stesso con cui dovrei fare questa palla di lavoro, ha dei strani penseri per la testa...su di noi».
Pensieri non sconci come i miei, ma dettagli.

«Di che tipo?»

«È sospettoso sulla nostra "frequentazione"». Mimai le virgolette in aria per quest'ultima parola prima di ruotare la sedia per tornare indietro.

Akira mi si fece appresso a si avviò anche lui con la sua calma, la stessa che sembrava dipinta sul suo bel volto angelico. Il fatto che non fosse turbato da quello che gli avevo appena rivelato mi lasciò un attorno perplesso.

«Non ti vedo affatto sorpreso dalle mie parole».

«Non mi aspettavo che qualcuno se ne accorgesse. Siamo stati così attenti». Forse anche il suo compagno di classe doveva aver capito qualcosa ma sorvolai per evitare che si agitasse per nulla. Non ero affatto preoccupato per Pigmalione. Con Quattrocchi era tutta un'altra storia.

«Ma se pensi che non sia preoccupato ti sbagli. Lo sono anche troppo. Non vorrei che finisca come...» continuò non riuscendo a continuare.

Le sue parole rimasero sospese in aria, ma sapevo cosa volesse dire. Come dimenticarsi del suo ex?

«Non accadrà».

«Forse a scuola dovremmo provare...a prendere le distanze» suggerì lui tristemente.

Eh? Cosa? Stava scherzando!

Osservandolo attentamente capì subito che no, era mortalmente serio.

Ma col...cazzo!

«Giammai! Per stare lontano da te dovranno tenermi a forza».

«È solo per precauzione. Tra noi non cambierebbe nulla» cercò di rincuorarmi, inutilmente. Ormai ero partito in quarta.

«Non voglio rinunciare a tempo prezioso che passo con te solo perchè un frustrato, che non sa fare di meglio dalla vita, si fa gli affari altrui».

Lo fissai negli occhi e lui lo fece di rimando. Non potevo rinunciare a lui, non così.

«Cerchiamo di stare sempre in vista, parliamo del più e del meno senza esporci troppo, in modo da sembrare agli occhi degli altri una comunissima coppia di...amici che dialogano tra loro per passare il tempo» dissi, allungando la mano per stringere la sua. Le sue dita si intrecciarono alle mie, come un naufrago che si attacca al faro che l'ha condotto alla salvezza.

«E per le coccole...c'è sempre casa tua no?» continuai strizzando l'occhio a cui Akira rispose scoppiando a ridere. Ero contento di essere riuscito a fargli tornare il sorriso. Odiavo quando il volto si addombrava. Ma fin quando il mondo non si sarebbe aperto l'unica scelta per poter vivere in pace era nascondere i propri sentimenti dietro a maschere di bugie e illusioni. Speravo che arrivasse presto il giorno in cui avremmo potuto infrangerle in miriadi di schegge e poter vivere così appieno la propria vita.

Ritornammo in prossimità delle nostre classi in tempo per le rispettive lezioni dopo. Salutai Akira con un cenno del capo, come avrei fatto con un qualsiasi altro amico.

Mi fece male ma era ciò che avremmo dovuto fare per mantenere la nostra relazione segreta.

Mi fece male ma era ciò che avremmo dovuto fare per mantenere la nostra relazione segreta

Non ce la feci.

Per quanto ci mettessi impegno ogni volta mi bloccavo. L'avevo promesso ad Akira eppure ogni volta che provavo a pronunciare le fatidiche parole, queste mi rimasero bloccate sulla punta della lingua.

Ogni volta che cercavo approciarmi a Quattrocchi sentivo un fastidio all'altezza dello stomavo che mi dissuadeva dal rivolgergli la parola. Ecco cosa! Mi dava acidità di stomaco da quanto mi stesse sul cazzo! Il Buscofen sarebbe, ahimè, servito a nulla.

Fu così che a distanza di giorni mi ritrovai a non aver pronunciato nulla e a cercare di evitarlo il più possibile.
Ascoltai distrattamente i suoi patetici tentativi di parlarmi, tanto che colsi nei suoi inutili discorsi la parola sabato.

Non ci diedi molto peso, anzi! Decisi di passare l'intero giorno che aveva nominato a fare nulla, tanto avevo domenica per preparare la mia parte di presentazione.

E la voglia di oziare crebbe ancora di più quando la mattina di quel sabato non mi svegliai trovando il mondo esterno sotto una spolvetata di neve. Era ormai da anni che non nevicava come si deve, e questo timido tentativo da parte delle condizioni meteorologiche di farci capire di essere ancora in inverno mi faceva davvero sorridere. Amavo la neve, uno perchè le scuole erano chiuse (poco male se era sabato, non avrebbe smorzato il mio entusiasmo) e si poteva dare inizio a epicissime battaglie a palle di neve. Non per vantarmi ma ero piuttosto bravo e con ottimi riflessi, tanto che Ippolito si ritrovava sempre zuppo e con la neve sciolta che gli colava all'interno del colletto.

Ripensare al passato mi faceva sempre sentire una fitta al petto ma dovevo farmene una ragione.

Non si poteva tornare indietro e il rapporto tra me e Ippolito non si sarebbe rinsanato così facilmente, soprattutto il comportamento che aveva avuto negli ultimi tempi.

Mi avvicinai alla finestra e scattai una foto al mondo al di fuori della stanza.

L'istinto mi suggerì di postarla sul mio profilo social ma ancora qualcosa mi bloccava a farlo. Prima dell'incidente fotografavo qualsiasi cosa, dalla colazione o pranzo che fosse che facevo alle foto dei miei allenamenti, che imploravo di fare ad Agnese.

Il momento in cui avevo preso possesso nuovamente del telefono, appena qualche giorno dopo l'incidente, avevo cancellato ogni foto, testimonianze di una vita che non mi apparteneva più, prima di scagliarlo contro il muro in un impeto di rabbia. Difatti quello che stavo maneggiando non era quello che avevo quel giorno ma uno che mia madre aveva acquistato poco dopo, forse per farsi perdonare degli sguardi di pietà che mi rivolgeva e che sapeva odiassi più di ogni altra cosa.

Non avevo cancellato l'account, non sapevo per quale motivo e ora mi stava osservando di rimando attraverso lo schermo, vuoto e in silenziosa attesa della mia prossima mossa.

La mano si mosse in automatico per inserire la nuova foto, ma mi bloccai prima della conferma.

Non mi sentivo ancora pronto a farlo.

Annullai tutto e lo gettai al mio fianco per poi avvolgermi tra le coperte a mo' di bozzolo, chiudendo gli occhi sperando di non addormentarmi. Volevo solo un attimo di tranquillità prima di chiedere ad Akira se gli sarebbe andata una partita a palle di neve.

Giusto! Perché non chiederglielo già?

Pausa (veloce ma intensa) finita recuperai nuovamente il telefono per comporre il messaggio.

A metà opera sentì qualcuno suonare al campanello di casa.

Doveva essere mia madre di ritorno dalla spesa, così aveva annunciato circa mezz'ora prima mentre ero ancora imbambolato e nel mondo dei sogni, come accadeva normalmente durante ogni weekend.

Aveva le chiavi, perchè suonare come un'ossessa?

Attesi che finisse e accadde per un nanosecondo prima di ricominciare.
Con un mugugno a stento trattenuto tra i denti mi issai sulla sedia a rotelle e mi mossi in direzione dell'ingresso, con tutta la gioia che potessi provare in un momento simile.

Feci scattare la serratura con fare seccato.

«Ma perchè non ti sei portata le chiavi di ca...»

La figura fuori dalla porta non era affatto mia madre.

Doveva essere uno scherzo, e di cattivo gusto.

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Capitolo 39
*** Capitolo 32 parte 2 ***


Capitolo 32 parte 2


Quasi mi cascò la mascella non appena nel ritrovarmi di fronte Quattrocchi, seppellito sotto strati di vestiti per proteggersi dal freddo. A proposito di freddo, cominciavo a sentirlo anch'io, visto che avevo aperto in maglia a maniche corte e pantaloncini corti, per colpa di mia madre che da freddolosa alzava il riscaldamento tanto da trasformare casa in una sauna.

«Non vorrei risultare scortese, ma potresti farmi entrare? Fa piuttosto freddo».

Ma va, capitan Ovvio!

«Cosa ci fai qua? E come fai a conoscere il mio indirizzo?» domandai con sospetto. Ora avrei scoperto che si trattava uno stalker. Che inquietudine!

«È stata una cosa lunga. Ho chiesto in segreteria, spiegando le motivazioni e loro, e vedendomi disperato, visto che mi hai ignorato, hanno chiamato tua madre per avere la conferma di poter divulgare questa informazione. Ed eccomi qui» terminò con fare soddisfatto.

Avevo seguito solo la metà del suo discorso (nel mio cervello si stava propagando il termine stalker in ogni neurone) ma adesso mi toccava risolvere questa grana.

«Bene. Spero che ti ricordi la strada per tornare indietro perché sarà proprio quello che farai».

Feci per chiudere ma la sua mano fu più lesta del mio gesto.

«Dobbiamo fare il lavoro di biologia».

«Ti ho già spiegato come la penso. Non ho alcuna intenzione di stare in compagnia un minuto di più con uno come t...»

Mia madre spuntò da dietro la schiena di Quattrocchi.

Non poteva arrivare prima a salvarmi la vita?

«È un tuo amico Luca?»

Piuttosto che essere amico di uno così mi sarei buttato sotto un treno.

«Per niente» risposi all'unisono con lui: «Siamo compagni di classe».

Gli rifilai un'occhiata gelida intimandolo a sparire, meglio ancora vaporizzarsi nel nulla. Puff, come se non fosse mai esistito.

«Dobbiamo fare un lavoro di coppia insieme di biologia» aggiunse, ignorando palesemente la mia intimidazione.

Che razza di stronzo!

«E cosa ci fai ancora qui fuori? Luca facciamolo entrare prima che gli venga un malanno».

«No» mi limitai a rispondere per non cadere nell'insulto.

«Non comportarti come un bambino. Prima iniziate prima finite, no? Per poi avrei la spesa da poggiare».

Mi feci da parte, osservando un Quattrocchi vittorioso, incazzato come una iena.

Se pensava di aver vinto si sbagliava assolutamente di grosso.

Seguì di malavoglia mia madre e Quattrocchi che subito si comportò come se fosse stato a casa sua, cominciando a elogiarla e a toccare tutto.

Dovevo forse amputargli le mani per farlo smettere? Una soluzione un po' drasticamente splatter, ma mi intrigava abbastanza.

Dopo essere stato convinto (o meglio stressato) da mia madre lo portai in camera mia, con l'unico pensiero che prima iniziavamo, prima si toglieva dalla mia vista.
Anche qui cominciò a tastare qualsiasi cosa.

Possibile che dovesse avere questa mania di toccare tutto?

Non lo sopportavo. Come osava profanare con le sue mani il porter stagionale della mia squadra del cuore? E poi la mia prima coppa vinta a un campionato di calcetto di quartiere quando ero in quinta elementare?

Intravidi Freddy entrare nella stanza e analizzare con i suoi occhi felini il nuovo arrivato. Gli feci un cenno con la mano in direzione di Quattrocchi cercando di non farmi vedere da quest'ultimo.

Avrei tanto voluto ordinargli un epico: "Freddy attacca!" ma il diretto interessato avrebbe capito e non sarebbe servito a nulla.

Speravo di avere instaurato un legame talmente saldo con il gattino da fargli capire il mio desiderio.

Freddy cominciò ad avvicinarsi a Quattrocchi tanto da commuovermi. Bravo Freddy!

Pensiero che mi rimangiai dopo neanche un nanosecondo quando quel traditore di palla di pelo non si comiciò a strusciare sui suoi pantaloni, emettendo fusa che sentivo anche dalla mia posizione.

Dovevo chiamarlo Giuda, altro che come il fantastico cantante!

«Quanto ha?»

«Chi?» domandai ritornando in me, trovandolo a fissarmi, facendomi sentire a disagio.

Lui mi fissò come fossi scemo. Quanto volevo tirargli qualcosa.

«Come chi? Il tuo gatto. È davvero adorabile».

«Qualche mese, non so di preciso» snocciolai voltandomi di lato per non vederlo. Magari così il fastidio sarebbe diminuito.

«Ma come fai a non saperlo? É il minimo che dovresti sapere visto che...»

E che cavolo! Aveva proprio scocciato!

«Cazzo ne so io! L'ho trovato per strada ma non so da quanto».

«Oh» si limitò a dire.

Solo oh? Ed era il primo della classe? Dubitavo delle sue capacità mentali.
Continuò a coccolarlo pensoso.

«Non ti immaginavo tipo da gatto».

«Ah davvero? Cosa pensavi in realtà?»

«Mi sembri più da iguana o da serpente. Sono animali che potrebbero rappresentarti».

«Mi stai per caso dando del rettile?»

«Beh si. Insomma, sei sempre stata una persona irraggiungibile e dall'incidente sempre più chiusa. Guardi con freddezza tutti quelli che ti stanno attorno. Tutti tranne quel ragazzo».

Parlava un po' troppo. E poi non ero un rettile. Solo perché non avevo voglia di avere a che fare con il resto dell'umanità, con le dovute eccezioni, non significava che fossi apparentemente privo di sentimenti.

E prima...ero davvero così spocchiosamente snob e con la puzza sotto il naso?

«Sbaglio o sei venuto qui a rovinarmi il sabato per il lavoro di microbiologia? Non ha senso psicanalizzarmi».

Lui alzò lo sguardo su di me. «Vorrei solo capirti».

«E io non vi tengo. Prima cominciamo prima ognuno torna per la sua strada».

Passammo le ore successive in silenzio, rotto dai nostri respiri, quello di Quattrocchi fastidiosamente rumoroso come se avesse le vie del naso otturate dal muco.
La ricerca consisteva nel cercare e avere poi la capacità di descrivere modi per purificare le acque dolci.

Una palla, ma il programma era così. Preferivo di gran lunga quello di terza dove avevamo iniziato con tecniche di riconoscimento di molecole organiche per poi passare a preparazione di vetrini da osservare al microscopio ottico. Altro che quello che ci aspettava in futuro. Ora c'era l'acqua, poi saremmo passati a procedure indirizzate al campionamento dell'aria e poi del suolo. Che pizza!

Con la coda dell'occhio, mentre ero intento a scarabocchiare appunti su un foglio di quello che trovavo, notavo che Quattrocchi cercava di parlarmi ma sembrava desistere grazie alla mia scarsa voglia di dialogare.

Quando si alzò per andare un attimo in bagno, togliendosi così dalle palle per qualche minuto scrissi prontamente ad Akira. Avevo bisogno di sentire, o meglio leggere, una voce amica.

Tu:
"Somiglio per caso un rettile?"

La sua risposta arrivò dopo poco.

Akira:
"Come mai questa domanda? O.o"

Tu:
"Lo sembro? £.£"

Akira:
"No...non credo. Perchè?"

Gli raccontai brevemente la mia discussione con Quattrocchi. A racconto finito impiegò qualche minuto per rispondere.

Akira:
"Forse all'inizio si. Sei una persona che mostra il suo vero io solo a pochi, mentre con gli altri assume un atteggiamento spavaldo per celare il proprio io"

Akira aveva senza dubbio un futuro da psicologo.
Subito dopo aggiunse:

Akira:
"In verità ho sempre pensato a te come un panda minore"

Ma che bello! Di male in peggio.

Tu:
"O.O come mai un falso procione?"

Akira:
"In verità non so. Solo che mi sembra un animale un po' goffo come te quando devi manifestare i tuoi veri sentimenti"

La discussione stava prendendo una piega un po' troppo assurda per i miei gusti.

Tu:
"Tutto ciò è troppo strano"

Akira:
"XD Sei te che hai cominciato questa strana discussione :')
Hai visto che ha nevicato? Ti andrebbe quando hai finito il lavoro di fare una passeggiata insieme?"

A quella richiesta sentì le guance andare in fiamme. Che scemo mi sentivo a infervorarmi per un'apparente cazzata come quella. Eppure fu quella semplice richiesta a risollevarmi il momento, sgonfiandomi subito dopo. C'era solo un piccolo dettaglio che si frapponeva con prepotenza tra il desiderio e la possibilità di esaudirlo.

Tu:
"Con la sedia a rotelle rischio di impantanarmi nella neve"

Questo limite fisico mi faceva sentire imponente. Dovevo mettere sempre più impegno nell'uso delle protesi per potermi liberare così da queste catene invisibili che mi tenevano prigioniero nella loro morsa invisibile.

Akira:
"Vero...£.£ posso però venire lo stesso? Avrei desiderio di vederti"

Tu:
"C'è da chiederlo? Sai che casa mia è sempre aperta per te"

Fino a qualche mese prima non avrei mai pronunciato parole simili e così dolci. La gente con il tempo cambiava e talvolta in meglio, come sentivo mi era accaduto a livello emotivo. Anche Agnese a volte si lamentava del mio scarso romanticismo quando stavamo insieme. Con Akira era un qualcosa di naturale, e questo lato del mio carattere un po' impacciato da un lato mi incuriosiva, ma dall'altra mi terrorizzava.

Come aveva detto Akira la barriera tra me e il resto del mondo stava cominciando a crollare e non avevo voglia che altri lo vedessero.

Akira:
"Perfetto! A dopo!"

Riposi il telefono sul letto e ripresi in mano gli appunti che avevo ultimato dopo le ricerche fatte su internet.

A proposito...ma quanto ci metteva Quattrocchi in bagno? Era stato divorato dal gabinetto?

Sperarci non era illecito.

Continuai a sottolineare ciò che mi sembrava più utile, scartando il resto.

Quattrocchi tornò reggendo un pacco di biscotti.

«Tua madre pensava che potessimo avere fame e così...ecco tieni».

Me lo porse, notando subito che si trattava di biscotti con gocce di cioccolato sopra. I dolci che preferivo dopo i Bueno.

Mi ritrovai a ringraziarlo con un cenno del capo per poi aprilo e quasi tuffarmici dentro con la faccia. Avevano un profumo talmente invitante che a stento mi trattenni dal cacciarmeli tutti in bocca.

Mormorò qualcosa a voce bassissima, che sembrava una cosa simile: «Non sei affatto come sembri».

«Eh?»

Lui di tutta risposta si aggiustò gli occhiali a disagio.

«Dicevo, hai trovato qualcosa d'interessante?»

Lo fissai per un po' con fare sospettoso. Non me la raccontava giusta, ma se voleva raccontarmi balle l'avrei lasciato fare.

Gli passai il foglio e lo vidi strizzare gli occhi per decifrare la mia fantastica e incomprensibile calligrafia.

«Mi sembrano ottimi spunti da cui partire» finì infine.

"È ovvio che lo siano, li avevo trovati io!" pensai con un moto d'orgoglio salirmi nel petto.

«Ma non è abbastanza per finire il lavoro oggi».

Eh?

Come?

COSA?

Ma col cazzo! Mi stava sottraendo tempo che non sarebbe tornato indietro e ora mi stava dicendo che ciò che avevo fatto fino a quel momento erq quasi del tutto inutile?

Bussarono alla porta prima che avessi il tempo di lanciargli la lampada che avevo sul comodino.

Il volto di mia madre fece capolino dallo spiraglio della porta che aveva appena aperto.

«È arrivato Akira. Stavi aspettando una sua visita?»

Colsi subito la palla al balzo. Dovevo ricordarmi di fare un monumento a quel ragazzo.

«Già. Infatti, credo che per oggi siamo a posto così. In fondo Gianbattista mi ha appena fatto notare che non riusciremo a finire oggi».

Gli rivolsi l'occhiata eloquente di levarsi dalle palle e sperai che ci arrivasse da solo.

Akira fece la sua entrata nella stanza in quel momento.

«Konnichiwa Luca-chan» mi salutò lui con un sorriso, che si smorzò un attimo nel notare Quattrocchi.

Ah già vero, c'era ancora lui.

Akira non si lasciò andare per il momento di stallo e si fece avanti con una mano tesa. «Sei un compagno di classe di Luca, giusto? Mi chiamo Akira».

«Si, ti conosco già. Abbiamo partecipato alle Olimpiadi della chimica insieme l'anno scorso. Sono arrivato secondo, dopo di te».

Sbaglio o sentivo un leggero setore di gelosia provenire da quest'ultimo? Quanto ci godevo!

Il sorriso di Akira vacillò e per un attimo pensai che non si ricordasse di lui. Non potevo fargli tutti i torti, anch'io avrei cercato di dimenticarmi un tipo del genere.

«Quest'anno hai intenzione di partecipare?»

«Non ho molta voglia di arrivare di nuovo secondo. E poi vorrei concentrarmi in vista della maturità» rispose lui.

Che palleeeeee che era!

«A me piacerebbe partecipare» mi scappò e subito Akira e Quattrocchi si voltarono nella mia direzione.

Cos'avevo detto di così strano?

«Tu?» domandò Quattrocchi apparentemente con fare involontario.

«Si, io. C'è qualche problema per caso?»

Lui portò le mani di fronte a sé.

«No, è solo che...non me l'aspettavo da uno come te».

Mi stava per dando dell'idiota?

Glielo chiesi con freddezza e lo vidi muovere i piedi a disagio.

«No, è che...»

«Parteciperò e ti dirò una cosa. E ti dirò di più, se ci sarai anche te ti batterò e così dovrai ammettere di aver avuto torto su di me».

Lui si mostrò sempre più a disagio.

«Credo che possa andartene. Non vorrei farti perdere tempo con una causa persa come me».

Lui provò a dire qualcosa ma si bloccò. Raccolse le sue cose e abbandonò la stanza lasciando me e Akira da soli.

«Non volevo che assistessi a questa scenata» mi scusai voltandomi nella sua direzione.

Lui fece spallucce. «Devo solo ammettere che hai avuto poco tatto con lui».

«Mi ha dato dell'idiota in pratica. Mi sono solo girate le palle in quel momento».

Lui cercò di soffocare una risata prima di propormi di prepararmi per fare il giro concordato. Ero ancora scettico ma mi fidavo del fatto che Akira non mi avrebbe abbandoanto tutto solo al freddo in caso di problemi.

Non me lo feci ripetere due volte e, dopo essermi preparato vestendomi pesante per affrontare il freddo esterno, seguì Akira fuori dalla stanza, ma il mio corpo si irrigidì subito alla vista della figura di mio padre che era tornato dal lavoro. Per un attimo fui tentato a frappormi tra lui e Akira, per paura che potesse contaminarlo in qualche modo con il suo essere crudelmente freddo.

Lui ci vide, alzò un sopracciglio biondo. Da fuori gli assomigliavo abbastanza. Stessi capelli biondo scuro che lui teneva di solito allisciati all'indietro, stessa corporatura robusta ma non troppo e se avessi avuto la possibilità di stare in piedi avremmo avuto anche la stessa altezza.

Gli occhi erano l'unica cosa che avevo in comune con mia madre e a detta sua di suo padre, che era morto assieme a nonna quando avevo solo un anno, investiti sulle strisce pedonali da un pazzo ubriaco. Sembrava una tradizione di famiglia macabra farsi investire. Avevo sentito anche della storia di un cugino di non so che grado che era stato messo sotto da un trattore. Insomma, i mezzi a quattro ruote non erano dalla nostra parte.

Mio padre fissò, con i suoi occhi castani che però riuscivano a trasmettere un freddo paragonabile ai ghiacciai montani, Akira, squadrandolo come se fosse chissà che oggetto di scarso interesse.

«Tu sei?»

«Gommennasai. Non mi sono presentato. Mi chiamo Akira Vinciguerra» rispose Akira inchiandosi un poco, in pura tradizione giapponese.

Mio padre stette in silenzio, prima di pronunciare parole per cui avrei preferito che rimanesse muto.

«Non pensavo Luca che passassi del tempo con persone del genere» disse rivolgendosi a me, non considerando che il diretto interessato del suo discorso era a soli pochi passi.

Feci per parlare ma mia madre decise di intervenire in quel momento.

«State andando a fare due passi? Mi sembra un'ottima idea. Divertitevi» esclamò lei e colsi l'occasione al volo di allontanarci.

Akira non pareva turbato dalla maleducazione di mio padre però sapevo che dentro c'era rimasto male. Le sue origine mezzo giapponese facevano fare pensieri ingiusti e talvolta razzisti nei suoi confronti, non riuscivano a vedere appieno ciò che era veramente ossia un italiano fatto e finito come potevo esserlo io e tutti gli altri.

Mi diressi verso l'ingresso per permettere ad Akira di mettersi le scarpe e io di infilarmi capellino e avvolgermi una sciarpa attorno al collo. Ci preparammo in silenzio, silenzio che ci permise di ascoltare la discussione tra i miei.

«Cosa ci fa quel ragazzo a casa nostra?»

«È amico di Luca. È colui che gli ha fatto ripetizioni per permettergli di tornare a scuola».

«Quello lì? Seria? Cosa potrà mai insegnare un immigrato a un italiano come noi? Certo che la scuola d'oggi sta cadendo davvero in basso se permette a certa gente di frequentarla».

Mano a mano che continuava a parlare sentivo montare il sangue alla testa. Strinsi i pugni per cercare di trattenermi dall'uscire dalla stanza e affrontare mio padre in modo non solo verbale.

«Akira è un bravo ragazzo ed è amico di nostro figlio. Mi basta solo questo» tagliò corto mia madre.

Osservai Akira che doveva senza dubbio aver sentito tutto.

«Non dare retta a quello che ha appena detto. Mio padre è solo uno stronzo».

Lui mi rivolse un sorriso triste e annuì. Gli feci cenno di seguirmi e senza guardarmi indietro guidai Akira fuori.

Come avevo pensato era davvero difficoltoso muoversi con la sedia a rotelle ma per fortuna potevo contare su Akira che mi spingeva da dietro nei momenti più difficoltosi, senza farmi pesare nulla. Era uno dei tanti motivi lo adoravo.

«Dove mi stai portando?»

«Non lontano» disse solo, osservandomi con una strana scintilla negli occhi.

In effetti mi condusse ai giardinetti poco distante da casa e completamente deserti. Solo i pazzi avevano il coraggio di uscire con un tempo del genere. In effetti nè io nè lui potevamo definirci nella norma.

«Mi hai portato qui solo per farmi morire assiderato?» scherzai, anche se non ero poi così lontano dalla realtà.

Lui sorrise, la sua figura vestita completamente di nero in contrasto con lo sfondo candido che ci circondava. Piccoli fiocchi di neve cominciarono ad addornare i suoi capelli corvini stretti in un codino. Mi fermò di fianco a una panchina su cui si era formato uno spesso strato di neve. Fu in quell'istante che mi venne un'idea.

Cogliendo un suo momento di distrazione mi affrettai a raccoglierne un po', modellandola per formare una palla di neve dall'aspetto strano e irregolare.

Ma prima che potessi anche solo alzare il braccio per lanciarla fui colpito in pieno viso. Dopo essermi ripreso dalla sorpresa trovai Akira piegato quasi in due dalle risate.

«Scusami Luca-chan. È stato più forte di me».

«Non mi dire che mi hai portato qui a sommergermi di neve?»

Lui inclinò la testa di lato con un sorriso furbo. «Beccato».

Aveva un aspetto angelico che tradiva la sua natura demoniaca. E io c'ero caduto in pieno.

«Se è così prendi questa».

Lanciai la palla di neve che avevo preparato poco prima e l'avrei beccato se non fosse che si scostò di lato, scansandola.

Non mi diedi per vinto e cominciai a prepararne altre, subito imitato da Akira.

Ebbe inizio la battaglia di palle di neve più epica della storia. Io ne vinsi alcune, Akira le altre.

Alla fine mi trovai quasi a corto di fiato, mezzo infreddolito eppure vibrante di energia. Non mi ero mai divertito così tanto.

Akira si lasciò cadere sul tappeto di neve e cominciò ad allagare braccia e gambe creando così il tipico angelo di neve dei film.

«Sai una cosa? Mi sono proprio divertito» ammisi e lui voltò la testa nella mia direzione, osservandomi dal basso.

«Anche io» si ritrovò d'accordo.

«Sarebbe bello se fosse sempre così» continuò, pur sapendo che fosse una cosa irrealizzabile.

Eravamo in Liguria, per di più in una città costiera. Era già tanto che fosse nevicato una volta in modo così copioso da creare quel panorama quasi da cartolina.

«Dovresti tornare a casa. Stai tremando di freddo e non vorrei che ti venisse nuovamente la febbre».

Mi accorsi solo dopo le sue parole che si, stavo sbattendo i denti e stringevo le braccia attorno al torace.

Ma non avevo questa gran voglia di rientrare.

Glielo dissi e lui mi fissò intensamente.

«È per via di tuo padre?»

Annuì. «Dall'incidente sembra che mal sopporti la mia presenza. Forse per lui sarebbe meglio che non esitessi» ammisi. Il comportamento di mio padre mi aveva dirottato verso quei pensieri.

Akira distolse lo sguardo, alzandolo verso il cielo che si era già scurito.
«Vorrei poterti dire che non è così ma con mio padre ho capito che a volte è così che le cose vanno».

Ripensai a quello che mi aveva raccontato su di lui e mi sentì una persona meschina. Mi lamentavo di un padre che a stento mi rivolgeva la parola e quando lo faceva era meglio per lui che stesse zitto, mentre per Akira era stato la situazione era ben più grave. L'aveva quasi ucciso.

«Quando arriverà il momento giusto andiamo a convivere. Così ci libereremo di parenti inutili» dissi senza filtri, senza pensarci troppo. Era ciò che avevo cominciato a desiderare.

Lui mi fissò con aria sorpresa e le guance tinte di rosso, colorito non del tutto derivato da freddo a cui eravamo sottoposti.

Lui borbottò qualcosa a bassa voce che non capì per poi si offrì di riaccompagnarmi a casa, dopo essersi rialzato. Non ne avevo voglia, volevo stare ancora in sua compagnia, dimenticarmi per un attimo del mondo che ci stava attorno per concentrarmi unicamente del momento al suo fianco.
Ma il tempo era scorso inesorabilmente e per questo mi arresi.

Quando arrivò il momento di separarsi gli strinsi un poco la mano, e lui sorrise per poi augurarmi buona serata seguita dalla promessa di rivederci il lunedì successivo prima di entrare per andare a fare colazione assieme. Non vedevo l'ora.

Rientrai a casa dopo che mia madre ebbe aperto la porta dopo il suono del campanello.

La seguì poi in cucina, gettando distrattamente lungo il tragitto una fugace occhiata alla figura di mio padre seduta sul divano a guardare la tv. Il servizio trasmesso dal tg stava riportando un fatto di aggressione, in un'altra città, a una coppia omosessuale.
«Ma guarda questi froci. Cosa pretendono? Se stessero al loro posto...»

Strinsi i denti e le mani sul corrimano della sedia a rotelle cercando di trattenermi. Purtroppo era per gente come mio padre che Akira viveva nella paura di poter essere se stesso, e così molti altri ragazzi. Per me non ci sarebbero stari problemi di quel tipo. Stavo con Akira? Erano cazzi miei di come vivevo la mia vita, e di certo non dovevo nulla a gente che pareva avere un manico di scopa infilata su per il...

«Noto che ti sei divertito con Akira» disse mia madre con un sorriso non appena la raggiunsi.

Non avevo voglia di parlare di quelle cose con lei. Pensava che tra noi fosse come prima ma si sbagliava di grosso. E poi avevo paura che se mi fossi confidato mi sarebbe scappato qualche dettaglio della mia relazione con Akira. Anche se per me non era un problema, gli avevo fatto una promessa che non mi sarei mai rimangiato.

«Mamma ma da quando hai preso quei biscotti? È da tempo che non lo facevi» domandai invece, per cambiare argomento.

«Infatti non li ho presi io. Li ha portati il tuo compagno di classe, Gianbattista giusto?»

La fissai come se stesse scherzando ma mi resi conto che non fosse così. Era stato un bel gesto e io l'avevo trattato di merda.

L'indomani mi sarei dovuto far perdonare in qualche modo.

 

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Capitolo 40
*** Capitolo 33 parte 1 ***


Capitolo 33 parte 1


Lunedì arrivò in fretta, diversamente dal solito, quando sembrava che i momenti tanto attesi non arrivassero mai.

Avevo messo la sveglia presto, anche se non era stata utile dato che ero già sveglio da un pezzo.

Avevo passato il resto del week end rintanato in camera, per non avere a che fare con il resto dei famigliari. Non avevo voglia di avere a che fare con le occhiate fredde di mio padre e quelle curiose di mia madre. Ne avevo approfittato per studiare un po' (Akira mi aveva, senza dubbio, contagiato con il virus della "Secchiaggine") intervallato da ginnastica fai da te, seguendo l'esempio di quello che facevo in fisioterapia, per ciò che mi rimaneva delle gambe. Dovevo rafforzare la muscolatura per poter pretendere dal mio corpo di sopportare l'utilizzo delle protesi.

Mi sistemai i capelli con una pettinata veloce e un poco di gel. Akira non badava all'aspetto estetiore, era una persona più profonda e matura del sottoscritto, però quel piccolo gesto che faceva parte della routine pre incidente mi diede un po' più fiducia in me stesso, per quanto sembrasse insignificante e banale.

Mia madre era già pronta per accompagnarmi a scuola come ogni mattina. Non appena salimmo in auto, le riferì mormorando a bassa voce ed evitando il suo sguardo, la mia intenzione di far colazione in compagnia di Akira.

Lei sorrise contenta e questo mi diede da pensare non poco. Sospettava qualcosa? Ero stato troppo incauto?

Che scemo e ingenuo che ero stato! Era ovvio che avesse scoperto tutto, a volte la mia faccia era fin troppo un libro aperto.

«Gli amici sono da tenerseli ben stretti. Soprattutto se sono sinceri come quel ragazzo» disse e queste parole mi fecero tirare un sospiro di sollievo.

Giusto, dimenticavo che per mia famiglia fosse impensabile che potesse nascere un rapporto come quello che si stava instaurando tra noi.

Borbottai qualche parola d'assenso per farla felice e passai il resto del tempo a osservare il mondo fuori dal finestrino. Aveva un che di rilassante assistere alle dinamiche tra gli altri esseri umani. Vidi uno prendere la rincorsa per il bus, perdendolo giusto per una manciata di secondi. Quello sarei potuto essere io qualche tempo prima, per questo ero stato al settimo cielo quando mi avevano promesso una macchina.

Quando arrivammo a destinazione trovai già Akira ad aspettarmi, stretto nel suo solito cappotto nero e la sciarpa rossa attorno al collo. Con le mani infilate in tasca muoveva appena la testa come se seguisse un ritmo invisibile. Capì subito che stava ascoltando chissà quale musica. Appena intravide l'auto il suo volto si aprì in un sorriso e si tolse le cuffie avvolgendole attorno al cellulare.

Mia madre fu come al solito la solita appiccicosa, riempiendo Akira di moine (non credevo che l'avrebbe pronunciate se fosse stata a conoscenza del suo orientamento sessuale) prima di ripartire per andare chissà dove. Non lavorando non avevo idea di dove passasse il tempo.

Il bar che aveva scelto era lo stesso della prima volta, quando ancora non stavamo insieme e c'eravamo trovati invasi dal Trio dei Nerd. Speravo che quella volta fossimo da soli, cercando di comportarci da amici ma senza la presenza dei terzi incomodi.

Mi condusse in direzione del tavolo della volta prima e questo mi fece salire la speranza di poter passare il tempo come già speravo la prima volta.

Speranza che si sgonfiò come un palloncino pieno d'aria non appena svoltai l'angolo.

Intravidi il Trio dei Nerd intento a confabulare su non si sapeva che cosa.
Alzai d'istinto lo sguardo verso Akira che mi osservò con espressione colpevole.

«Li ho incontrati mentre ti aspettavo fuori dal bar. Non potevo dire di no» si scusò, e l'incazzo mi passò subito. Non riuscivo a stare arrabbiato con lui, non dopo l'espressione che mi stava rivolgendo.

Piccolo (di faceva per dire dato che avevamo quasi un anno di differenza e lui era il più grande) demonietto dagli occhi a mandola!

Lo seguì dopo che mi ebbe promesso di portarmi la colazione perfetta per farsi perdonare.

Raggiunsi il tavolo del trio e mi ritrovai contro la mia volontà nella discussione per decretare il personaggio migliore dell'Attacco dei Giganti a livello attuale della storia.

«Levi Ackerman è il migliore indiscusso. È l'unico competente in quella banda di "scappati di casa". Praticamente sarebbero morti tutti già da un pezzo se non fosse per lui» stava sostenendo Roberto, più preso del solito. Di norma era il più tranquillo (Anonimo scompariva del tutto dall'ambiente, per cui non era da considerarsi) ma ora semprava che il suo lato otaku l'avesse completamente trasformato.

«Ma se sembra il tipico tsundere della serie "Ho avuto un'infanzia del cazzo, uno zio meglio da perdere che trovare e ho perso i miei migliori amici". Senza contare il suo disgusto verso il testo della gente. Mah! Hanno esagerato con le sfiga. Secondo me il migliore è Armin. Oltre che avere senpre ottime intuizioni è quello che ha sbloccato l'arco narrativo scoprendo che Annie era...»

«Secondo me il migliore è Jean» si intromise timidamente Anonimo, ma gli altri due non lo considerarono, presi dalla loro accesa sfida otaku vs otaku.

Non appena ci avvicinammo si voltarono in simultanea, i capelli di Roberto una zazzera arruffata, quelli di Capelli tinti un po' più disordinati del solito. A vederli discutere così non sembrava che si frequentassero. Ma una delle cose che avevo capito era non mettere in discussione le preferenze di personaggio con un otaku. Ne andava della tua vita. Se volevi sopravvivere a un attacco verbale da parte loro, che non avrebbero mai mollato l'osso fino alla tua resa, era dimostrarsi accondiscendenti. Potevo farcela. Potevo, dovevo sopravvivere.

«Chi è il migliore?» domandarono all'unisono facendomi sobbalzare sul posto. Akira pensò bene di allontanarsi in quel momento lasciandomi in balia dei due otaki scatenati.

Dovevo cavarmela da solo.

Aprì la bocca per parlare.

Non era difficile, era una storia a cui mi stavo appassionando e conoscevo tutti i personaggi coinvolti. Dovevo solo rispondere...

«Eren Jaeger».

Cos'avevo appena pronunciato?

Dallo sguardo che mi rivolsero capì che avevo decretato la mia morte.

Difatti mi immersero di parole contro quel povero personaggio a parer mio sottovalutato. Quello che avevo capito era che di solito piaceva per il suo aspetto e non per i suoi principi, a differenza mia. Che fosse poi un poraccio perennemente sequestrato era tutta un'altra storia.

Akira tornò in quel momento reggendo un vassoio con colazione per se stesso e per il sottoscritto. Finalmente potevo concentrarmi su qualcos'altro.

Akira si sedette al mio fianco e amche lui cadde vittima della domanda dei due nerd.

«Tra i due preferisco Levi. Gomennasai Simo-kun» si scusò lui unendo le mani e inchinando un poco la testa.

Roberto non riuscì a reprimere un sorriso vittorioso alzando due pollici in alto in direzione di Akira, mentre Capelli Tinti borbottò qualcosa sul fatto che non eravamo abbastanza colti per cogliere le sfumature del suo amato personaggio.

In tutto questo finì la colazione poco prima che Roberto si alzasse dalla sedia.

«Facciamo una foto assieme».

Capelli tinti l'osservò innarcando un sopracciglio.

«Perchè?»

Lui arrossì un poco. «Ormai siamo un gruppo, e mi piacerebbe immortalare questo momento».

C'era un che di piacevole nelle sue parole ma l'idea di essere in una foto in compagnia di Capelli Tinti mi fece perdere la poca voglia che potevo avere.

«Mi sembra un'ottima idea» s'illuminò Akira, facendo scattare nuovamente il mio sguardo su di lui.

«Eddai Luca! Sembra una cosa carina».

Non dovevo avere problemi a fare quella maledetta foto, eppure cos'era quel blocco che mi faceva desistere (esistenza di Capelli Tinti a parte)?

Era dall'incidente che non immortalavo la mia immagine in una foto. Era sciocco, eppure quel semplice gesto di catturare un momento in maniera permanente mi sembrava un gesto estraneo. Da quel giorno sembrava che ogni attimo scivolasse via dalle dita, mutevole ed effimero.

Akira dovette accorgersi del mio turbamento perché lo vidi a stento trattenersi dall'allungare la mano nella mia direzione per potermi rincuorare in qualche modo. Non volevo fargli provare pietà nei miei confronti. Era arrivato il momento di affrontare i miei timori.

«Non penso che a Luca possa far pia...»

«Facciamola» me ne uscì istintivamente beccandomi un'occhiata piena di sorpresa e infine di preoccupazione da parte di Akira.

«Sono d'accordo con Roberto. Mi sembra...una bella idea».

Lui inclinò la testa verso di me, in modo da potermi sussurrare all'orecchio.

«Non ti devi sforzare, lo sai questo? Nessuno ti giudicherà».

«Nessun problema, davvero. Dovrò superare il mio blocco prima o poi» stentai di sdrammatizzare, abbozzando un sorriso che non avrebbe convinto neanche mia nonna (se fosse stata viva).

Infatti Akira alzò un sopracciglio, facendomi capire che non credeva a una parola di quello che avevo appena pronunciato e arreso tirò fuori il cellulare mettendolo in modalità timer. Lo posizionò in bilico poggiandolo a un bicchiere in modo che potesse stare in posizione con l'obiettivo posizionato affinchè avvolgesse completamente la mia figura. La mia solitudine nel campo visivo del dispositivo durò poco perchè quasi subito venni circondato dal Trio dei Nerd e da Akira.

Sentivo il respiro di Capelli Tinti alle mie spalle e per un attimo mi balenò il pensiero splatter in cui lui impugnava un coltello per tagliarmi la gola.

Per questo stetti sulle spine per tutta la durata del conto alla rovescia.

Capì subito che Akira era un maniaco perfezionista delle foto perché subito dopo aver analizzato quella appena fatta arricciò le labbra con fare contrariato.

«Luca-chan è venuto con gli occhi mezzo socchiusi e Rob-kun, perchè ti sei girato verso Simo-kun?»

«Mi aveva chiesto una cosa» su scusò lui, per cui Akira riposizionò il telefono per immortalarci nuovamente.

Stavolta fu Anonimo a non convincerlo (ma da quando si trovava lì con noi? Mi ero completamante dimenticato della sua presenza).

E andò avanti così per altri cinque tentativi di foto.

Non ne potevo più.

Incrociai le braccia e alzai gli occhi al cielo con fare esasperato.

Non mi accorsi che Akira aveva fatto partire un nuovo il timer per la foto fino a quando non sentì l'iconico "click".
Lui studiò la foto. «In questà bè...siete venuti...»

«Scusaci Akira. Noi dobbiamo andare, abbiamo il tema d'italiano le prime ore» si scusò Roberto recuperando le sue cose, seguito dagli altri nerd.

«Anche noi dovremmo andare. C'è la partita di calcio a eliminazione diretta per il torneo di scuola tra le nostre due classi» li rassicurò Akira recuperando il cappotto e lo zaino.

"E io non posso giocare" pensai con stizza.

Capelli Tinti fece un gesto di stizza.
«Giocare contro la 5BS non è legale. Hanno un calciatore professionista, per di più attaccante. È ovvio che contro ragazzi che non sanno talvolta com'è fatto un pallone è una vittoria scontata».

Capì subito che si stava riferendo a Ippolito e a quelle parole sentì montare una sorta di gelosia.

Se ci fossi stato io avrei blindato in minor tempo il risultato della partita, portando la squadra in finale senza alcuna possibilità da parte degli altri di poterci battere.

Akira dovette aver percepito il mio nervosismo perchè fu velocissimo a dribblare il discorso su altri argomenti.
Mentalmente lo ringraziai, anche se la mia mente era ormai fissata su un unico pensiero: se tutto fosse rimasto come prima sarei stato io la punta che avrebbe brillato sul campo, regalando una vittoria galattica alla mia squadra.

Mentalmente lo ringraziai, anche se la mia mente era ormai fissata su un unico pensiero: se tutto fosse rimasto come prima sarei stato io la punta che avrebbe brillato sul campo, regalando una vittoria galattica alla mia squadra

Non appena entrai in classe, per poggiare lo zaino prima di raggiungere la palestra, mi mossi verso il banco di Quattrocchi su cui lasciai un blocco di circa una decina di fogli e attesi al mio posto il suo arrivo.

Quando vidi la sua figura minuta varcare la porta feci finta di osservare il cellulare, seguendo invece ogni suo movimento.

Lo vidi fermarsi al suo posto gettando subito un'occhiata incuriosita ai fogli che avevo lasciato.

Li prese e cominciò a sfogliarli, la sopresa iniziale si tramutò ben presto in confusione. Il mio orgoglio ne risentì un poco ma decisi di metterlo da parte. Ero riuscito in quello che non eravamo riusciti a fare in un pomeriggio intenso. Questo perchè ero un genio incompreso.
Lo vidi muoversi nella mia direzione fermandosi a poca distanza dal sottoscritto. Alzai distrattamente lo sguardo.

«Qualche problema?»

«Nessuno. È solo che...come hai...come hai fatto a raccogliere tutte queste informazioni?»

"Google e abilità. Perchè sai, sono geniale" avrei voluto rispondergli sfacciatamente ma mi trattenni.

«Non è che ci volesse molto» risposi sbrigativamente. «Dovresti spostarti. Dovremmo andare in palestra e sinceramente non vorrei scendere in ritardo».

La classe di Akira si sarebbe scontrata contro la mia, ma di sicuro non sarebbe stata la partita perfetta, questo perchè mancava l'elemento determinante...ovviamente il sottoscritto.

Lui si scansò e lo vidi ritornare a posto per recuperare la tuta da ginnastica, facendomi innorridire. Il calcio andava giocato sudando in una maglia possibilmente a maniche corte e pantaloncini corti, per favorire il movimento degli arti inferiori. Solo un barbaro si conciava in quel modo!

Distolsi lo sguardo prima di avere un mancamento (su alcuni argomenti ero piuttosto sensibile) e mi affrettai a spostarmi con la sedia a rotelle fuori dalla classe per raggiungere l'ascensore.

La palestra si trovava nell'edificio di fronte, per cui dovetti anche uscire beccandomi una folata di vento glaciale. Per pigrizia ero rimasto solo con la felpa sopra la maglia leggera e di questo me ne pentì un poco, ma non avevo questa gran voglia di rientrare.

«Luca-chan!»

Mi voltai in direzione della voce e mi ritrovai Akira avvolto nella sua felpa in stile college, nera dalle maniche bianche, con stampato sopra il piccolo logo della scuola sulla sinistra, appena sopra al cuore.

«Hai freddo? Stai tremando».

Non mi ero reso conto che avevo cominciato a battere i denti. Maledetta ingenuità e pigrizia!

Annuì impercettibilmente, gesto che non sfuggì agli occhi attenti di Akira che si affrettò a togliersi la felpa per porgermela, rimanendo con una delle sue solite maglie nere con una stampa di chissà quale personaggio manga.

«Rimettitela, ti prenderai un malanno» lo ripresi severamente cercando di spingere la sua mano versò di sè nel tentativo di fargliela rindossare.

«Mi basta una corsetta e sono dentro. E poi stavo pensando che in palestra se si sta fermi si sente il freddo, dato che non accendono i caloriferi».

Cazzo, era vero!

Strinsi i denti per la mia stupidità, dando il tempo ad Akira ad avvicinarsi e a poggiarmi la felpa sulle spalle. Già avevamo di sicuro una taglia di differenza, dato che lui aveva le spalle più sottili delle mie, per di più se l'avessi dovuta indossare sopra quella che già avevo, correvo il doppio rischio che se la fossi infilata di rompergliela.

Lo ringraziai comunque con un cenno del capo. «Ora vai dentro prima che ti trasformi in un candelotto di ghiaccio».

Lui mi sorrise divertito prima di allontanarsi con una breve corsetta ed entrare così nell'altro edificio. Ripresi il cammino ma fui subito circondato dai miei compagni e quelli di Akira che ostacolarono la mia avvanzata, procedendo come un branco di bisonti disorganizzati. Intravidi Pigmalione con uno sguardo dipinto sul volto che mi fece intuire che volesse trovarsi ovunque anzichè lì.

Mi intravide e mi si avvvicinò, trascinando i piedi.

«Ehi Luca! Stai aspettando che la massa defluisca?»

Il primo pensiero a quelle parole fu qualcosa di fisiologicamente disgustoso, ma che passò in fretta non appena capì il vero significato delle sue parole.

Annuì.
«Se vuoi ti faccio compagnia» si propose affiancandomi.

«Non ti vai a preparare per la partita? Non sei tra i titolari della tua classe» gli domandai alzando lo sguardo.

Lui sospirò. «Purtroppo si. Non sono un tipo da calcio, preferisco di gran lunga altri sport». Portò lo sguardo su di me sorridendo. «Presumo che per un fanatico del calcio come te siano parole sacrileghe quelle che ho appena pronunciato».

In effetti lo erano, e se si fosse trattato di qualcun altro l'avrei insultato e poi mandato a fan...a quel paese.

Lo fissai comunque storto per fargli intuire il mio disaccordo con quello che aveva detto.

«Va a prepararti. Vorrei asssitere a una partita decente e non una schifezza in cui prendete gol a raffica senza poter agire».

«Non dovresti pensare alla tua classe? Dovresti essere contento se ci "stracciassero"?» Virgolettò con le dita dopo aver pronunciato quell'ultima parola. Poi tornò a sorridere, giocerellando con una ciocca. «Oppure ti dispiacerebbe se un certo ragazzo dagli occhi a mandorla, che ha messo tanto impegno per imparare a giocare a questo sport, perda miseramente?»

A quelle parole sentì le goti andare improvvisamente a fuoco. Lo guardai shockato, mentre mi osservava con in sorrisetto innocente.

«Ah boh! Me lo sarò immaginato. Vado a cambiarmi così sarai felice no? A dopo!» mi salutò agitando la mano in segno di saluto in modo impertinente, lasciandomi solo.

Le sue parole erano del tutto innocenti, se non fosse per la nostra situazione.

Pigmalione non le aveva pronunciate con malizia o cattiveria, solo doveva essersi conto che io e Akira passavamo diverso tempo assieme. Non nutriva sospetti sul nostro conto.

Si, doveva essere per quello.

Soddisfatto con me stesso di essere arrivato a quella conclusione mi avviai verso la palestra, prima che mi dessero per disperso.

 

Angolino autrice (dispersa con Luca):

Buonsalve! Scusate il mega ritardo ma il lavoro non mi lascia tregua ^^" Spero che questa prima parte vi sia piaciuta ^^

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Capitolo 41
*** capitolo 33 parte 2 ***


Capitolo 33 parte 2

 

Arrivai in tempo per il fischio d'inizio. La maggior parte dei compagni di Akira non li conoscevo e non mi interessava sapere chi fossero. Intravidi Pigmalione in difesa che sentendo lo sguardo su di sé si voltò completamente verso di me facendomi l'occhiolino. Che tipo strano.
Akira era stato mandato in attacco, non so se costretto o per puro masochismo. Forse entrambe le cose perché osservava di fronte a sé con estremo terrore ma con in fondo allo sguardo la consapevolezza di potercela fare. Lo chiamai e gli feci due pollici alzati nel tentativo di mostrargli la mia vicinanza, a cui lui rispose con un timido sorriso.

Sentì una mezza risatina provenire alla mia destra e voltando il capo trovai Ippolito che mi osservava divertito.

«Come ti senti ad essere messo in disparte, eh Luca? Ti dimostrerò che la nostra squadra può cavarsela anche senza la tua presenza».

Questo era palese visto che si vedeva lontano un miglio che nessuno di loro era un agonista come lui o come ero stato io. Anzi, sarebbe stato imbarazzante se avessimo perso contro di loro. Avrei goduto un sacco.

Speravo che le mie brevi indicazioni che avevo scritto via messaggio la sera prima ad Akira potessero servire. Nel corso delle varie lezioni di quei mesi l'avevo visto impegnarsi tanto, sarebbe stato infelice se non fosse riuscito nel suo intento.

Mi posizionai in uno dei lati della palestra in modo da avere la visuale sull'intero campo da gioco.

La squadra della mia classe era costituita per la maggior parte dei suoi componenti da gente che non sapeva manco che forma avesse un pallone da calcio. Il prof doveva essere nella disperazione più assoluta se aveva reclutato Quattrocchi e l'aveva inserito in difesa. Era una squadra che puntava tutta sul gioco di Ippolito, l'unico che forse avrebbe potuto fare qualcosa. Studiai gli avversari e mi resi conto che nessuno si preoccupava per il mio ex migliore amico, fatta eccezione di Akira e un poco Pigmalione che lo stava osservando dal suo posto in difesa. Il resto o pensava che non avrebbe dato il meglio di sé per via del fatto che ai suoi occhi poteva sembrare una partitina insignificante oppure erano dei completi deficienti.

Per questo, dopo aver tirato su a sorte, al fischio d'inizio la squadra di Akira partì subito all'attacco con aria spavalda, tentando con un affondo nel tentativo di destabilizzare la difesa con un attacco diretto, tentativo che andò a vuoto dopo la chiusura da parte dei miei compagni Yassine e Matteo La Terza che prontamente passarono il pallone a Ippolito che partì con un contropiede nel tentativo di spiazzare la squadra avversaria, gesto che funzionò perchè lo portò a segnare il primo gol a freddo a neanche un minuto di gioco.

Imprecai tra me e me. La classe di Akira non doveva demoralizzarsi, altrimenti sarebbe stata inesorabilmente sconfitta.

Cercai lo sguardo di Akira per suggerirgli l'azione successiva.

Dapprima provai con il labiale, senza successo perchè lo vidi aggrottare le sopracciglia confuso. Passai quindi ai gesti con le mani sperando che capisse qualcosa di più.

Lo vidi annuire in modo impercettibile e lanciarsi in avanti diretto al punto in cui sarebbe atterrato il pallone dopo la rimessa in gioco.

Akira arrivò un attimo prima di Ippolito e mise in atto un "boba" un po' immaturo ma efficace, facendo tunnel, lasciando il suo avversario disorientato un attimo di troppo, permettendo ad Aki di mantenere il possesso palla.

Si fece largo tra i miei compagni, del tutto sorpresi che fosse riuscito ad anticipare un professionista come Ippolito, che vidi rimanere fermo nello stesso punto, testa china e pugni stretti. Infine lo vidi alzare la testa e voltarla verso di me, una maschera di pura rabbia. Negli ultimi anni il ragazzo introverso e debole aveva lasciato spazio a ciò che sembrava serbare nel cuore: una persona orgogliosa e un poco arrogante, caratteristiche che si erano intensificate da quando aveva cominciato a giocare in serie A.

Poi fece un sorriso per nulla cordiale, pericoloso. Aveva intuito che l'intuizione di Akira non era stata casuale ma che c'era stato il mio zampino.

Lo vidi poi spostare lo sguardo su un Akira esultante dopo aver messo a punto il primo gol della sua squadra.

Oh oh. Qualcosa mi diceva che l'avevo messo nei casini.

Per tutto il primo tempo Yassine esercitò un pressing su Akira continuo su indicazione di Ippolito, libero di mettere in atto un forcing che portò la classe dei biotecnologi ambientali già sotto di cinque gol

Per tutto il primo tempo Yassine esercitò un pressing su Akira continuo su indicazione di Ippolito, libero di mettere in atto un forcing che portò la classe dei biotecnologi ambientali già sotto di cinque gol. Dopo aver scoperto il mio innocuo coinvolgimento cercarono di interrompere in modo permanente il nostro contatto visivo, lasciandolo così disorientato. Lui aveva voglia di fare ma era del tutto privo dell'ottica calcistica, ma malgrado tutto provò comunque a mettere in atto qualche azione, ma subito veniva bloccato da qualcuno. Oltre a lui fu solo Pigmalione a provare a fare qualcosa, cercando di recuperare palla durante i passaggi nella sua area. Ma anche lui, per quanto ci mettesse impegno, era inerme di fronte a una squadra plasmata dal gioco di Ippolito, proprio lì al centro della scena a godersi il momento.

Strinsi le mani sul corrimano. Fui preso da un impeto di profonda gelosia. Dovevo esserci io in quel momento in campo. Forse avrei gioito in modo più controllato rispetto al mio solito, ma sarei stato senza dubbio carico d'adrenalina e non di frustrazione come in quel momento.

Perso nei miei pensieri cupamente profondi, non notai che, oltre che essere iniziato l'intervallo e che entrambe le squadre erano andate a rinfrescarsi e idratarsi per il secondo tempo, si era palesata Agnese al mio fianco finchè non prese la parola.

«Posso sedermi accanto a te?»

Strinsi i denti, non la volevo vicino ma non le potevo negare di sedersi dove le pareva. Era stata gentile a chiedermelo, come se volesse tener conto dei miei sentimenti.

"Ma non si è fatta problemi a lasciarti per mettersi con Ippolito" mi sussurrò malignamente la mia voce interiore.

Lei interpretò il mio silenzio come un assenso perché si sedette a terra al mio fianco, stringendo contro il petto le ginocchia.

Restammo in silenzio per un po' lei che cercava il mio sguardo, io che cercavo di ignorarla e concentrando l'attenzione su un punto indefinito della palestra, tutto purché questo significasse non lei.

«È da tanto che vorrei parlarti» disse infine, vedendo che non avrei ceduto.

«Non abbiamo nulla da dirci» risposi a denti stretti.

Non era vero. C'erano parole silenziose che volevano essere pronunciate, ma che per il bene di quello che ci aveva legato per tutti quegli anni era meglio tenerle silenziate.

«Vorrei parlare di noi, di quello che è successo».

Lo sapevo. Non volevo, non mi sentivo ancora pronto ad affrontare quella discussione.

Stetti in silenzio, sperando che capisse il mio rifiuto.

Ma non fu così.

Lei allungò la mano per poggiarla sulla mia stretta sul corrimano, e al suo solo sfiorarmi la ritrassi come se mi fossi scottato.

«Smettila. Non abbiamo nulla da dirci. O meglio, ci sarebbe tanto ma non ho la voglia e il tempo di farlo. Hai fatto una scelta no?»

«Davvero credi che per me sia stato facile?» mi domandò di rimando lei con le lacrime agli occhi.

Mi stava prendendo in giro? Come poteva comportarsi a quel modo?

Questo suo modo di fare mi diede talmente fastidio che partì in quarta. Sapevo che mi sarei pentito dopo per quello che avrei pronunciato, eppure in quel momento sentivo di non farcela più a trattenermi.

«Mi avete tradito. Eravate le persone a cui tenevo più in assoluto mi avete voltato le spalle! Tra voi era cominciata già da prima dell'incidente vero? Non è possibile altrimenti il tempismo con cui vi siete messi assieme».

«Non è così semplice. Le cose sono...»

«A me lo sembrano invece. Ti eri stufata di me e ti sei messa con lui. Tanto era solo questione di tempo no? Avevo notato che non stavi più bene con me da mesi. Ma dirmelo magari mi avrebbe fatto fare meno pensieri e sensi di colpa per una colpa non mia».

Lei si ritrasse sempre più triste e avvilita. «Smettila».

«Ma dai, proprio adesso che ci siamo messi a parlare come desideravi te?»

Quell'ultima frase la dovetti aver pronunciata troppo alta perchè mi accorsi quasi subito che gli altri erano tornati dal loro intervallo e si stavano disponendo in formazione sul campo, gli occhi puntati su di noi. Aleggiava in aria una certa tensione, e capì quasi subito che era rivolta tutta verso il sottoscritto.

Avvertì mormorii, occhiate giudicanti.

Smettetela, non capite nulla.

Strinsi le labbra cercando in tutti i modi di non aggravare la situazione.

«Luca...» provò a intervenire Agnese subito affiancata da Ippolito.

«Sei davvero un ipocrita a trattarla in questo modo. E poi con che diritto?»

Ma senti da che pulpito mi veniva la predica!

«Mi stai pigliando per il culo?»

Forse non lo pensai solo ma lo ripetei a voce abbastanza alta da farmi sentire da lui perchè mi afferrò per il bavero della maglia.

«Chi ti credi di essere a trattarla a questo modo?»

«La difendi? Dopo come l'hai trattata negli ultimi tempi? Sei davvero un...»

Il pugno arrivò improvviso tanto che mi accorsi di tutto quando cominciai ad avvertire la guancia destra pulsare.

Attorno avvertì la maggior parte dei presenti a incitare una rissa. Per quei profani era molto più interessante della partita che stavano disputando.

Diversamente da quello che ci si poteva aspettare da una situazione simile scoppiai inconsciamente in una risata di cuore. Nel frattempo Ippolito si era allontanato un poco sorpreso dalla sua reazione, le nocche della mano arrossate, e mi osservava come se fossi una nuova specie aliena, facendo aumentare le mie risate.

«Sei rimasto esattamente come un tempo. Sei un debole e non appena ti viene detto reagisci inconsciamente» dichiarai asciugandomi una lacrima dall'occhio destro e sfoderando un sorriso. Ippolito se l'era presa con la persona sbagliata, credevo che in questi anni avesse capito ma a quanto pare non era così.

Il prof accorse in quel momento, dopo aver sentito il vociare dei nostri compagni.

«Cosa sta succedendo qui?» tuonò lui notando subito il mio viso arrossato e la mano di Ippolito.

«Voi tutti e due con me. Voi preparatevi per il secondo tempo!»

Gli altri si sparpagliarono subito per rimettersi in formazione mentre noi seguimmo in silenzio il prof che ci condusse in una delle stanze adiacenti dove teneva il materiale per il primo soccorso.

Giunti all'interno, null'altro che un quadrato senza finestre con un armadio chiuso e uno di quei lettini per far stendere il mal capitato di turno, ci passò del ghiaccio secco da applicare sulle nostre parti doloranti. Il contatto con la superficie fu nell'immediato piacevole, ero abituato a utilizzarlo dopo le partite, non per Ippolito che fece una smorfia di dolore. Trattenni un sogghigno. Che debole che era.

Il professore ci chiese nuovamente cosa fosse successo. Io non dissi nulla, volevo che fosse Ippolito a tirare fuori le palle e ad ammettere le sue colpe. Ma lui stesse ostinatamente in silenzio, la mascella contratta e la mano libera chiusa a pugno.

Il prof ripeté la domanda seguita dalla minaccia che ci avrebbe condotti dal preside.

Trattenni un moto di stizza. Eh no! Finire nei casini per colpa sua anche no!

Fu allora che raccontai tutto, con Ippolito che mi fissava con occhi dardeggianti.

A fine racconto il prof rivolse a entrambi (manco fosse stata colpa mia) un'espressione stanca.

«Non dovreste comportarvi così, non alla vostra età. Per il momento la visita dal preside ve la evito, però non posso non segnalare questo comportamento. Scriverò una nota a entrambi e...»

Alt! Fermi tutti! Avevo sentito bene?

Ripetei quell'ultima domanda interiore sperando di aver sentito male. E invece...

«C'è del concorso di colpa. Russo non doveva colpirti ma tu non dovevi provocare».

Assunsi un'aria innocente. Io provocare? E quando l'avrei fatto? Era lui che si era messo in mezzo in affari che lo riguardavano meno di zero.

Lo feci presente e lui mi lanciò un'occhiata eloquente.

«Lo sai perché Luca. Hai quel tuo modo di fare...come dire piuttosto provocatorio a volte. Anche se questo non giustifica la reazione sproporzionata di Russo».

Abbassai lo sguardo e sorrisi aspramente. «Alla fine va sempre così. Sbaglio io e ne fate una tragedia anche quando le cose sono poco gravi, le fa Ippolito ben più gravi e non fate nulla. Mi sembra che vi siano delle leggere ed evidenti preferenze da parte vostra o sbaglio?» a quelle ultime parole alzai lo sguardo, trasudando frustrazione da tutti i pori. Vidi le spalle del prof irrigidirsi. Fece tornare Ippolito in palestra annunciando la sua sostituzione in campo con la loro riserva, e dopo un'occhiata carica d'odio nei miei confronti lasciò la stanza, lasciandoci soli.

«Spiegami quando l'ho fatto con te» ribattè calmo lui incrociando le braccia contro il suo petto muscoloso.

In effetti lui era forse l'unico che non mi trattava come uno scemo oppure come un cactus sotto il sedere.

Stetti in silenzio continuando a rimanere sulle mie posizioni. Stavolta avevo ragione, non ammettevo repliche e non avevo alcuna intenzione di cedere.

«Ecco è questo l'atteggiamento che ti dicevo prima. Questo sguardo di sfida. Luca, ci sono momenti in cui si ha ragione a impuntarsi mentre nelle altre è meglio fermarsi prima di superare il limite. Capisci dove vorrei arrivare con il mio discorso?»

Annuì frettolosamente per potermene andare. Dovevo calmarmi un attimo ma con di fronte il prof era difficile.

Lui emise un sospiro, e mi poggiò una mano sulla spalla stringendola un poco, prima di tornare ad arbitrare la partita.

Rimasi per tutto il tempo ad aprire e chiudere la mano libera a pugno, l'altra che premeva con forza la borsa di ghiaccio secco ormai mezzo sciolto, rischiando di romperlo.

Ero incazzato nero, e se avessi avuto a che fare con qualsiasi essere umano l'avrei mandato elegantemente a quel paese senza pensarci.

Sentivo le urla d'incitamento e gli esultare ai gol da parte di entrambe le squadre.

Ora che Ippolito era fuori dal gioco, almeno una gioia quella mattina, non poteva andare peggio della partita sostenuta dalla 4BA. Avevo origliato i discorsi di due ragazzi di quella classe che si lamentavano di un loro compagno che, durante un'azione decisiva e fondamentale per il risultato della partita che le li avrebbe portati avanti nel girone, aveva sbagliato il tiro dopo il passaggio del pallone esattamente di fronte alla porta vuota, un tiro facilissimo da risultare quasi imbarazzante, regalando la giocata alla squadra avversaria, permettendole così di segnare il gol decisivo del loro 3 a 2. Non meritava di perdere, come classe non era affatto male in verità, c'era anche un mio ex compagno di squadra, un certo Eugeo. Un giocatore nella media, visto che non prendeva sul serio il sacro gioco del calcio, lo si intuiva durante le sue prestazioni che lo facesse solo per hobby. Il calcio andava reso la propria vocazione di vita se davvero si voleva combinare qualcosa di buono. Erano stati però battuti da una delle classi più forti, gli informatici della 4AI, anche loro con un mio ex compagno di squadra Damiano, attaccante che era quasi arrivato al mio livello. Quasi.

Quando mi sentì poi più calmo raggiunsi gli altri, stabilendomi dalla parte opposta rispetto a prima. Agnese sembrava scomparsa chissà dove, poco mi importava.

Il risultato era cambiato un poco. I gol della mia classe erano aumentati di due, gli avversari avevano rimontato e ora si trovavano a tre gol di distacco.

Forza, potevano farcela! Non potevano sprecare questa occasione più unica che rara.

Akira mi notò solo quando mi passò accanto, in possesso e diretto verso la porta avversaria.

Mi rivolse un'espressione preoccupata a cui risposi con un debole sorriso, come a rincuorarlo.

Lui non parve del tutto sicuro ma si riconcetrò sul gioco. Peccato che la sua giocata, che poteva avere del potenziale, fu interrotta bruscamente da Yassine che commise un fallo talmente palese che avrebbe meritato il cartellino giallo. Inaspettatamente il gioco continuò senza problemi, al che il mio spirito calcistico mischiato alla frustrazione accumulata quel giorno, non ce la vide più.

«Quello era da cartellino giallo! Era talmente palese che pure un cieco lo capirebbe».

L'arbitro alias il professore mi fissò duramente e con un gesto mi allontanò dal bordo campo. Vidi Ippolito posizionato nella mia postazione precedente sorridere sotto i baffi, beccandosi per questo da parte mia un bel dito medio. Era tutta la mattina che desideravo farlo, ora mi sentivo molto meglio.

Lui mi fissò male ma non m'importava nulla. Raggiunsi la zona assestante dove c'erano i tavolini da ping pong, stranamente a un'altezza a cui ci sarei riuscito ad arrivare con la sedia a rotelle.

C'erano gli altri ragazzi che non facevano parte della squadra di calcio, ma non appena mi videro si allontanarono in tutta fretta,forse per paura che chiedessi di poter fare una partita.

E questo mi fece ancora di più l'incazzatura.

Con un moto di stizza mi allontanai, uscendo nel corridoio limitrofo alla palestra. Avevo una voglia matta di tornarmene a casa e a gettarmi sul letto e non vedere più un essere umano per il resto della mia vita.

Per questo quando sentì la porta alle mie spalle fui sul punto di girarmi e ad aggredire, chiunque fosse, con tutti gli insulti che conoscevo. Mi girai comunque ritrovandomi Akira di fronte che fece istintivamente un passo indietro alzando un poco le mani come in segno di resa. O per tranquillizzarmi.

Cazzo, come l'avevo guardato per averlo spaventato a tal punto?

Mi sentì un'autentica merda!

Mi portai la mano alla bocca, spaventato da quello che il mio corpo stava provando fino a quel momento, e paura per quello che stavo per fare ad Akira.

Lui mi si avvicinò e mi fece poggiare la testa sul suo petto, prima di avvolgerla tra le sue braccia in una sorta di abbraccio.

Quello era uno dei pochissimi gesti gentili che avevo ricevuto durante la mattinata e abbatté ogni difesa.

Mi ritrovai a piangere, cosa che non facevo in nessuna occasione (forse si, l'avevo fatto solo la volta in cui la mia squadra del cuore era finita in serie B) ben che meno di fronte a un'altra persona. Forse solo di fronte a lui avrei sentito davvero la necessità di sfogarmi.
Lui, ero certo, non mi avrebbe mai giudicato, lo si intuiva dal suo atteggiamento. Mi lasciai andare, sentì le sue dita lunghe e sottili passarmi tra i capelli in lievi carezze.

Rimanemmo qualche minuto in silenzio e in quella posizione finché non avvertì il fischio di fine, solo a quel punto mi staccai da lui che fece un passo indietro per osservarmi in viso.

«Come mai qui? La partita...»

«Tu sei molto più importante» mi interruppe lui.

Avrei voluto dissentire, non esiste nulla di più importante del calcio, ma quel suo gesto mi scaldò il cuore. Mi porse un pacchetto di fazzoletti che estrasse dalla tasca dei pantaloncini che indossava, seguendo le mie indicazioni dettagliate. Non mi ricordavo che avessero delle tasche così capienti. Erano mesi che non indossavo un indumento simile, forse sarei riuscito in futuro a rifarlo. Speravo il prima possibile. Mi soffiai il naso e asciugai gli occhi. Mi diressi in bagno, con Akira sempre vicino, per sciacquarmi il viso. Anima viva doveva anche solo pensare a uno sfogo simile da parte mia.

«Stai bene? Se vuoi possiamo...» cominciò a dire lui immobilizzandosi non appena sentì le voci degli altri in avvicinamento. Si allontanò un poco prima che gli altri ragazzi di entrambe le classi si riversassero dentro come una mandria impazzita. Quelli della mia classe sembravano su di giri, per cui dedussi che la squadra dei biotecnologi ambientali era stata messa ko.

Li ignorai, avvertendo su di me occhiate severe, che mi lasciai scivolare sul corpo come una coperta, incurante del fastidio che si lasciavano dietro. Cosa voleva dirmi Akira prima che venisse interrotto?

Non l'avrei mai saputo, per questo odiai il resto dei presenti più di prima.
Prima che qualcuno mi rivolgesse la parola uscì dal bagno per rintanarmi in un angolo tranquillo. Akira mi seguì a distanza di poco per non dare nell'occhio.

Mi si sedette di fianco, la testa reclinata da poterla poggiare sulla mia coscia destra.

Osai allungare una mano per passarla in mezzo ai suoi capelli setosi.

«Ti ho mai detto che ho un debole per i tuoi capelli?» me ne uscì, facendolo ridacchiare.

«Sei il primo a dirmelo, famiglia a parte. Ho sentito voci che mi davano dell'effemminato, facendomi arrivare al punto di pensare di tagliarli...»

«Non devi dare retta alle cazzate che escono dalla bocca della gente. Se ti piaci così non vedo perché non dovresti farlo per colpa di persone il cui unico hobby è parlare col...per dare aria alla bocca».

Sarei stato più indecoso nell'esprimermi se non fosse che avrei rovinato delle parole abbastanza sagge per essere uscite dalla mia bocca.

Akira poggiò una mano sulla mia e la strinse un poco.

«Come farei a vivere senza la tua saggezza?»

Gonfiai un poco il petto per darmi un po' di arie.

«Non puoi. La mia saggezza è leggendaria a tracciare la via per uno stile di vita senza seccature».

Non era vero. Erano più le volte in cui mi scontravo con qualcuno che altro, ma Akira parve apprezzare il momento, visto che avvertivo il suo capo sussultare mentre il corpo era attraversato dalle risa.

«Ma certo, inferisci contro la mia magnificenza» lo punzecchiai aumentando le risa.

Si staccò e lo vidi asciugarsi una lacrima dall'occhio.

«Scusami Luca-chan. Mi ha fatto troppo ridere come l'hai detto». Gli lasciai un attimo per riprendersi per poi chiedergli di getto: «Usciresti con me?»
Lo feci senza pensare, era un'idea che mi ronzava nella testa ormai da tempo, malgrado non fosse proprio il momento adatto per proporglielo avevo deciso di provarci comunque.

Quella domanda dovette prenderlo in contropiede perchè lo vidi aggrottare le sopracciglia pensoso.

«Ma già lo facciamo».

Mi inumidì le labbra. «Io parlavo di un appuntamento. Di quelli veri, senza sminuire le nostre uscite».

Lo lasciai con un'espressione spiazzata. Era troppo presto? Forse si, erano passate solo poche settimane da quando avevamo deciso di mettersi insieme in gran segreto. Forse era questo che lo preoccupava? Il fatto che se fossimo stati visti avremmo mandato all'aria tutto?

«Non pensavo a cose strane, tranquillo. Avrei optato per una cena in pizzeria e poi cinema» cercai di rassicurarlo, senza cambiare molto la situazione. Distolsi lo sguardo sentendomi infinitamente colpevole. Forse l'avevo forzato troppo, non dovrei correre così all'inizio di un rapporto, soprattutto dopo quello che lui aveva dovuto sopportare.

«Si beh, mi sembrava una cosa cosa bella da fare, ma se non te la senti ti capisco, e...»

«Quando?»

Riportai lo sguardo su di lui e lo vidi pieno di determinazione, manco dovesse partecipare a una missione super difficile e pericolosa.

«Sabato?» domandai di rimando, sorpreso che non mi avesse mandato a cagare.

Lui si alzò, abbozzando un sorriso timido. «Direi che si potrebbe fare. Perché no?»

«Non mi sembri convinto. Se non te la senti non vorrei forzarti in alcun modo».

«No, sono felice che me l'abbia proposto». Azzardò uno sguardo verso la porta da cui eravamo entrati. «Forse è meglio tornare indietro prima che ci vengano a cercare».

Che lo facessero così li avrei mandati a quel paese uno ad uno, ma seguì diligentemente Akira.

Ero su di giri per questo nuovo tassello che andava ad aggiungersi alla nostra storia.

In fondo cosa mai sarebbe potuto capitare?

 

~Glossario calcistico:

Affondo: passaggio atto a superare la linea di difesa

Contropiede: azione di ripartenza da una situazione di attacco di una squadra a una situazione favorevole alla squadra avversaria, utilizzata per cogliere impreparata la difesa

Gol a freddo: gol segnato nei primissimi istanti di gioco.

Rimessa in gioco: ripresa del gioco dopo una qualsiasi interruzione

Boba: tipo di dribbling inventato da Andrés D'Alessandro che consiste nel poggiare la pianta del piede sul pallone, spostarlo verso una direzione e rapidamente calciare verso la direzione opposta superando così il marcatore. Spesso, per la posizione dell'avversario, viene seguita da un tunnel.

Dribbling: gesto tecnico consistente nel superare l'avversario con la palla al piede grazie a una rapida mossa atta a disorientarlo.

Tunnel: gesto tecnico consistente nel far passare la palla fra le gambe di un avversario.

Pressing: tattica di gioco che prevede il disturbo costante verso il portatore di palla da parte di avversari, al fine di prevenire passaggi e recuperare palla.

Forcing: azione d'attacco continua e insistente.

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Capitolo 42
*** Capitolo 34 ***


Capitolo 34 


Ero in preda alla tipica ansia da esordio, solo che la partita che avrei giocato quella sera era quella con il cuore.

Mi ero dato solo una sistemata ai capelli e vestito nel mio solito modo per non destare sospetti soprattutto in mia madre, che non si era risparmiata nel farmi domande. Ma saranno stati cazzi miei con chi passava il tempo?

Avevamo appuntamento in una delle pizzerie al Porto antico, abbastanza vicino alla fermata del bus per spostarci verso il cinema che avevo fatto scegliere a lui, e al mare. Era ormai diventata un'abitudine vederlo, avvertire il suo odore salmastro che aveva qualche sorta di effetto calmante.

Mia madre mi aveva accompagnato parlando per tutto il tragitto, sollevata per il fatto che al ritorno ci fosse Akira.

La salutai sbrigativamente dopo aver letto il messaggio di Aki. Si trovava già all'interno, per questo mi affrettai a spingermi in avanti con la sedia a rotelle.

L'esterno della pizzeria pareva molto accogliente, con piante disposte ordinatamente attorno all'entrata, la tenda verde scuro stonava un poco con il mare a poca distanza ma nel complesso il risultato era abbastanza piacevole alla vista. Le sedie in plastica bianca spiccavano all'interno, attorno a tavoli di forma rettangolare (peccato, non mi sarei potuto sentire importante come Re Artù) dalla tovaglia anch'essa verde selva.

Arrivai di fronte all'entrata della pizzeria ritrovandomi già di fronte a un problema insormontabile. A mettersi tra me e il mio obiettivo c'era uno scalino, banalissimo per uno che poteva muoversi liberamente ma non per me.

Notai quasi subito un ragazzo del locale dirigersi nella mia direzione. Mi seccava non poco chiedere a un estraneo di aiutarmi ma messo da parte l'orgoglio cercai di attirare la sua attenzione, ma come fossi fatto di fumo lui passò oltre per prendere un ordinazione di una famiglia con un bambino urlante che sembrava una sirena di un'ambulanza.

Dato che sembrava ci fosse solo lui a servire era la mia unica speranza.

Non appena smise con la famiglia esigente (ci ha messo la bellezza di cinque minuti, per scegliere una pizza...cose d'altro mondo!) ritornai alla carica.

Questa volta il ragazzo si voltò verso di me. Doveva avere la mia età o appena qualche anno in più, capelli e occhi castani. Un tipo abbastanza ordinario sul cui viso si stampò un'espressione seccata.

«Che cosa vuole? Come ben vede dovrei lavorare».

Ma va! Non l'avevo capito.

«Infatti, avrei problemi con...»

«Tutti abbiamo i nostri problemi. Senta, non mi faccia perdere tempo» tagliò corto lui senza darmi il tempo di replicare, lasciandomi con il braccio teso facendomi sentire un deficiente.

Lo abbassai lentamente mentre osservavo con occhi di fuoco la schiena dello stronzo allontanarsi. La tentazione di chiamarlo e fargli un dito medio era troppa ma non volevo rovinare il momento con Akira.

Tirai fuori il telefono e trovai un suo messaggio.

Akira:
Ciao! Dove sei?

Io:
Fuori dal locale. Ho un piccolo...problema

Piccolo era un eufemismo ma non volevo ingigantire la cosa.

Akira sbuccò subito dalla stanza di destra.

«Luca-chan» mi salutò e non appena abbassò lo sguardo colse subito il problema.

«Accidenti non me n'ero accorto, scusami. Ti do una mano». Prima di poterlo rincuorare che fosse tutto a posto si posizionó alle mie spalle e fece ruotare la sedia in modo da farmi entrare in retromarcia.

Giunti dentro lasciò subito la presa sulla maniglia di spinta, sapendo che non mi sentivo a disagio aiutato da qualcuno, e mi si affiancò.

«Ti faccio strada verso al nostro tavolo» dichiarò conducendomi nella stanza da cui era spuntato e che avevo intravisto di sfuggita in mezzo all'intreccio di steli e foglie delle piante fuori.

Il tavolo era posizionato in modo da essere abbastanza lontani dal resto della gente per permettermi di fare manovre con la sedia.

Akira si allontanò un attimo solo per raggiungere...lo stronzo di prima!

Colsi gran parte delle sue parole:«Si, è arrivata la persona che stavo attendendo. Arigatō gosaimasu...cioè mi scusi. La ringrazio» disse ritornando al tavolo. Era di spalle per questo non si godette la faccia sconvolta dello stronzo non appena si appoggiò su di me. La voglia di infierire era tanta essendo una persona matura mi limitai a trattenere gli insulti limitandomi a un sorrisetto.

Questo si avvicinò e in preda all'imbarazzo più completo prese le nostre ordinazioni e con altrettanta velocità si dileguò in direzione della cucina.

Akira lo osservò con espressione perplessa, per questo cedetti nel raccontargli ciò che era successo.

Mano a mano che procedevo lo vidi addombrarsi sempre di più. Fece per alzarsi ma lo bloccai, poggiandogli una mano sulla sua.

«Vado a cercare il responsabile».

«Lascia perdere Aki».

«Ma quello che ti è successo è un fatto gravissimo».

«Non lo metto in dubbio e ti ringrazio. Ma quello stronzo non merita tutta questa considerazione. Si è accorto del suo errore, la sua punizione sarà questa».

«Ribadisco, sei troppo saggio».

«Talmente poche volte che mi faccio paura da solo»ribattei con un sorriso.

A portarci quanto richiesto fu una ragazza dai capelli castani raccolti con una molletta e un sorriso dolce sul viso.
Lo stronzo lo intravidi al margine della stanza, intento a osservarci preoccupato. Aveva paura che lo mangiassimo? Con la fame che avevo era molto probabile, se non fosse che la pizza era indubbiamente più invitante di lui.

Avevo optato per una margherita con sopra patarine fritte, uno sgarro che raramente mi potevo concedere quando giocavo. Akira invece una marinara, senz'aglio per non far fuggire i potenziali vampiri. Fu in quel momento che scoprì che Akira era affascinato dalle creature paranormali, di tutti i tipi. E che il suo sogno segreto era essere trasformato in vampiro e vivere in eterno. Cercai di immaginarmelo, e la figura che fece capolino nella mia testa era davvero stupendamente sexy.

Arrossì e Akira cominciò a trattenere una risata, sicuramente aveva percepito il mio pensiero non del tutto innocuo, mentre addettava il primo boccone di pizza, subito imitato dal sottoscritto, dopo aver pronunciato in giapponese: «Itadakimasu».
«Cosa vuol dire?».
«Ah è una forma per augurare "buon appetito"»spiegò.

La pasta era morbida e subito avvolse il condimento, creando una perfetta armonia. Da bravo barbaro recuperai una patatina fritta che mangiai da sola.

Notando la faccia di Akira feci spallucce.

«Mi piacciono da mangiare così». Puntai i gomiti sul tavolo, fissandolo intensamente negli occhi. «Ne vorresti una anche te?» gli domandai, cercando di provocarlo prendendone una e sventolandogliela davanti.

Lui dischiuse le labbra pronto a dire qualcosa, parole che gli rimasero imprigionate nella gola. Il suo corpo si protese verso il mio apparentemente con un gesto involontario, ma subito dopo si ritrasse come se fosse stato scottato.

«Cosa c'è?»

Lui non rispose, rimase a testa china, tormentandosi le mani. Capì subito l'origine del suo disagio. Eravamo in pubblico e ai loro occhi dovevamo cercare di apparire come una semplice coppia di amici. Questa situazione mi fece particolarmente incazzare. Dovevamo avere timore di chiunque, dagli sconosciuti la cui unica cosa che gli doveva importare era farsi i cazzi loro, alla famiglia. Quella di Akira aveva trovato un suo equilibrio dopo essere stata distrutta da eventi più e meno prevedibili. Diversamente era per la mia. Se fossero venuti a conoscenza della mia nuova relazione mi avrebbero messo subito alla porta, con mio padre che mi riversava addosso tutto il suo disprezzo e mia madre alle sulle spalle forse fissandomi con biasimo.
Il resto dei miei parenti ancora in vita erano ancora peggio, per cui sarei rimasto da solo.

Notai con la coda dell'occhio che Akira stava mangiando in silenzio, non volevo che il nostro primo appuntamento continuasse in quel silenzio assordante.
Per cui presi la parola per chiedergli del film che aveva scelto di vedere. Lui si illuminò e cominciò a spiegarmi la trama. Era il terzo di tre per cui lui mi diede un'infarinatura dei precedenti. Era un titolo che avevo sentito nominare ma non avevo mai avuto l'occasione prima di quel momento per vederli.

"Maze runner" non c'entrava assolutamente nulla con gli anime che di solito vedeva, però a quando pareva qualsiasi cosa che avesse un alto tasso di nerdagine era apetibile per i gusti di Akira.

Durante tutta la durata della cena e della spiegazione dettagliatissima dei film, che mi parve quasi di aver visto in quel poco lasso di tempo, notai due ragazze sedute a poca distanza, che ci osservavano. Non appena una delle due notò che le stavo fissando tirò una gomitata all'altra che cominciò a ridacchiare. Che avevano da guardare?
Alla fine una delle due si fece coraggio e ci si avvicinò.

«Wǎnshàng hǎo. Nǐ shuō yìdàlì yǔ?*» disse rivolta ad Akira.

Non capì un accidente di quello che aveva appena detto, e lo stesso pareva Aki perchè le fissò perplesso.

«Scusate io...»

«Allora prova con l'altra lingua Angela. Magari questa la capirà» la incitò l'amica ignorando le sue parole.

«Annyeonghaseyo, itallia-eo hal jul aseyo?**»

Non sapevo quale delle due sembrava più complicata.

La ragazza parve delusa. «Insomma capisco che siamo delle estranee ma almeno risponderci». Si battè una mano sulla tempia. «Ah ma che scema, non avrai neanche capito il mio sfogo».

Scema si lo era, ma non per quello che pensava.

Poi rivolse l'attenzione su di me, soffermandosi sul volto dopo aver gettato un'occhiata imbarazzata alla sedia a rotelle. La odiai subito.

«Ho visto che stavi parlando con lui. Potresti tradurre nella lingua madre del tuo amico quello che abbiamo provato a chiedergli?»

Sentivo la necessità di divertirmi per questo feci un cenno ad Aki di stare al gioco. Non lo vidi convinto, lo intuì dalla sua alzata al cielo degli occhi, ma mi lasciò fare. Mi feci ripetere quello che avevano detto e in che lingua, giusto per sapere. Mi poggiai con i gomiti sul tavolo.

«Queste due ragazze, che sembra che ti abbiano preso per uno che non capisce nulla, hanno provato a chiederti in cinese e poi in coreano se sai parlare italiano».

Le due rimasero a bocca aperta.

«Guarda che così siamo in grado di farlo anche noi». Mi gettò un'occhiata e notai in fondo agli occhi un barlume di disgusto. «Ma cosa ci dovevamo aspettare da uno come te?»

«Uno come lui in che senso?» s'intromise Akira serio prima che postessi intervenire. Lo scherzo era finito. Le due lo fissarono come se avessero visto e ascoltato un fantasma. Non ottenendo riscontro sibilò tra i denti: «Anata wa shitsurei***».

Le due parvero non capire.

«È giapponese» specificai con un moto d'orgoglio. Avevo cominciato a farci l'orecchio, non ancora da capirci qualcosa, ma era già un passo avanti.

«Ci state prendendo per il culo?» dichiarò quella che acevo capito si chiamava Angela.
«Ma se sembri uno dei BTS!» rincarò la dose l'altra.

«Watashi wa hāfu****. Metà italiano e metà giapponese» sospirò Akira esasperato.

Queste due ci stavano rovinato la serata già non partita brillantemente ma che sembrava stesse prendendo una bella piega.

«Potreste andarvene? Vorremmo finire di cenare» le liquidai cercando di essere il più gentile possibile.

«Non prendiamo ordini da uno come te».

Stavolta m'incazzai ma rimasi calmo all'esterno.

«Spiegami, illuminami. Cosa appaio ai tuoi occhi da persona illustristissima quale sei e che ha la faccia tosta di commentare con superficialità ciò che non conosce?»

Capiva che la stavo prendendo per il culo, il suo volto si era imporporato dall'imbarazzo e incazzatura.
Se c'era qualcuno che doveva essere arrabbiato in questo momento dovevamo esserlo io e Akira.

«Fa rimangiare le parole al tuo ragazzo» disse l'altra in difesa dell'orgoglio ferito di Angela. Che paladina delle cause perse!

Akira aprì la bocca e la richiuse in evidente stato di shock. Queste due avevano capito come stavano le cose tra di noi? Non era buon segno. E Akira sembrava messo ko con queste parole. Dovevo subito far qualcosa.

«Non è che appena due ragazzi escono da amici, come nel nostro caso, diventano automaticamente una coppia. Voi fujoshi***** siete davvero strane».

A ogni parola pronunciata sentivo come una stilettata di dolore all'altezza del cuore, ma era un sacrificio necessario. Il nostro segreto doveva rimanere tale fino a quando Akira non si sarebbe sentito sicuro del contrario.

«Smettila di fare l'omofobo» mi attaccò Angela.

«Sciacquati la bocca prima di parlare. A essere omofobe del cazzo siete te e la tua amica» ribattei, sentendo il nervosismo salirmi sempre di più. Se avessero continuato non mi sarei più fermato, percepivo il corpo cominciare ad essere attraversato dall'adrenalina.

Strinsi le mani sui braccioli della sedia a rotelle per cercare di calmarmi, non per loro ma per Akira.

«Come osi insultarci in questo modo? Non sei altro che un handicappato del cazzo!» esplose lei, portandosi laano sulla bocca dopo essersi resa conto di quello che aveva appena detto.

Aveva alzato la voce e questo aveva attirato l'attenzione del resto dei presenti. Finalmente, oserei dire, si fece avanti il responsabile dell'attività. Era un uomo sulla cinquantina, dai capelli già brizzolati ai lati e con il corpo massiccio. Si fece raccontare i fatti da parte di entrambi, la deficiente lo fece tra le lacrime (di coccodrillo) agli occhi per suscitare pietà nell'uomo, mentre era abbracciata dall'amica che la stringeva a sè con fare protettivo come se temesse che le saltassi alla giugulare.
Esperienza interessante ma non ero un cannibale, per cui mi limitai a fissarle malissimo.

L'uomo sospirò. «Vi devo chiedere di allontanarvi dal locale. Non approvo queste dimostrazioni maschiliste e retrograde» disse infine rivolto a me e Akira.

Come cosa?
Ci stava prendendo per il culo?
Non poteva davvero aver pronunciato una cosa del genere.

L'essere immondo ci fissò tra le lacrime sfoderando un sorriso di vittoria, a cui ero tentato di rispondere con un bel dito medio, se non fosse che avrei aggravato di più la nostra situazione.

Decisi in quel momento di sfruttare per la prima volta la mia condizione. Tendevo a non farlo, per evitare la pietà altrui ma per impedire che quella serata andasse a scatafascio dovevo intervenire e l'unico modo che mi venne in mente fu quello.

«Va bene, vorrà a dire che divulgherò in giro che questo posto non è inclusivo con i disabili e che il proprietario permette a una ragazzina di insultare i clienti come le pare».

L'uomo sbiancò alle mie parole, e dal mio volto serio capì subito che non stavo affatto scherzando.

«Non avete alcun diritto di minacciarmi» balbettò l'uomo incerto ma ancora troppo saldo alla sua scelta. Mi sa che dovevo rincarare ancora di più la dose. Passare alla seconda arma che avevo a disposizione, ancora più fastidiosa, sperando potesse funzionare.

«Sono certo che mio padre non la penserà come lei». Mi sporsi un poco in avanti. «Alfio Tremonti, le suona famigliare?»

Dal volto dell'uomo intuì che sì, conosceva mio padre e come speravo lo temeva. Mio padre poteva essere quello che era però era davvero in gamba a fare il suo lavoro di avvocato. Ero certo che se il mio bluff non avesse funzionato non avrebbe mosso un solo dito ad aiutarmi, però chi mi vietava di usare il suo nome in caso di necessità? Speravo che non conoscesse questo tizio di persona, ma ero soddisfatto del risultato ottenuto.

Mi sentivo un po' come Draco Malfoy di Harry Potter (mi ero sorbito i film qualche anno prima per colpa di Agnese). L'uomo fasfugliò delle scuse in direzione mia e di Akira e si fece seguire dalle due ragazzine che cominciarono a strillare contrariate.

Soddisfatto riportai l'attenzione su Akira, constatando che mi stava osservando.

«Ho esagerato?» domandai pentendomi un po'. Forse non dovevo essere così incisivo.

Akira si riscosse, cominciando a tormentarsi le mani.

«No, è che non me l'aspettavo. E poi mi sento in colpa. Ti ho lasciato risolvere tutto da solo. Ero come pietrificato, non sapevo come agire. Sono patetico, vero?»

«Non dire più una cosa del genere» l'ammonì severo costringendolo a fissarmi negli occhi. «Non m'importa quello che è successo. Mi fa solo incazzare che se la siano presa anche con te».

Lui azzardò a sfiorarmi la mano con la sua, un tocco leggero delle sue dita pallide, come il volo di una farfalla.

«Su finiamo di mangiare, anche se fredda sarà una mezza schifezza».

La cosa giusta sarebbe stata andarsene dopo aver preso il proprietario a pizze in faccia, ma non lo facemmo per il bene della pizza.

Finimmo però in fretta per lasciare al più  presto quel luogo così retrogrado.
Fuori l'aria si era fatta più fredda, complice il fatto che era febbraio e il sole era tramontato da un pezzo.

Il cinema, che Akira aveva scelto come meta, distava dalla nostra posizione qualche fermata della linea di bus che faceva capolinea poco distante e altrettante di un'altra. Purtroppo era l'unico cinema più vicino, l'alternativa era quello che si trovavava accanto al più grande centro commerciale della città, per cui avremmo dovuto seguire un percorso troppo intricato e troppi mezzi coinvolti.

Vi dirigemmo verso il primo bus che per fortuna era di un formato doppio rispetto ai soliti, e abbastanza spazioso.
La gente non appena salimmo ci scoccò un'occhiata curiosa ma del tutto innocua, illudendomi che le disgrazie quella sera fossero finite.

Quanto mi sbagliavo!

~~~

Durante il breve tragitto Akira passò tutto il tempo a descrivermi tutti i manga che aveva intenzione di farmi leggere, lasciandomi disorientato. Troppe informazioni tutte assieme rischiavano di fondermi la testa.
Scendemmo in fretta per salire sul secondo bus che avrebbe fatto la fermata proprio a pochissimi metri dalla nostra meta.

Per fortuna salimmo a capolinea e il convoglio era vuoto ad eccezione di una coppia, un ragazzo e una ragazza apparentemente appena più piccoli di noi, seduta in fondo intenta a tenersi per mano. Per un attimo li invidiai. Avrei desiderato con tutto il cuore fare la stessa cosa con Akira.

L'autista fu molto gentile a posizionare la pedana in modo da facilitarmi l'entrata, che ringraziai con un cenno del capo. Quindi la gente simpatica e per bene esisteva ancora!

Sentì crescere una sorta di fiducia nei confronti del genere umano, più volte messa in dubbio da atteggiamenti stupidi ed egoistici degli altri.

Fiducia che si sgonfiò dopo appena qualche minuto, dopo che il bus fu partito da capolinea e si fermò alla fermata situata di fronte all'ospedale.
Nei nuovi bus di linea era presente quella che denominavo nicchia, uno spazio circoscritto in cui ci si poteva posizionare con un passeggino per bambini oppure una sedia a rotelle aperta. Appunto, solo una.

Per caso fortuito salì solo una donna di mezza età dallo sguardo stravolto, forse un'infermiera o un medico a fine turno.
Non mi era andata bene una volta, quando ero dovuto recarmi in ospedale per una piccola infezione a uno dei due monconi, e al ritorno mi ero beccato un tizio rompipalle che voleva che scendessi per far spazio a sua madre anche lei in sedia a rotelle. Incazzato nero, più o meno come a mio solito in quel periodo, l'avevo insultato pesantemente sotto lo sguardo degli altri presenti che non fecero nulla per intervenire, anzi! Le loro occhiate sembravano di biasimo e serietà nei miei confronti, come se fosse colpa mia.
Questo ovviamente aveva aumentato la mia incazzatura, facendomi salire la voglia di regalargli un bellissimo dito medio.

Mia madre era intervenuta in quel momento, solo nel modo sbagliato.
Si era scusata con quel tizio, che avrebbe dovuto solo strusciare ai miei...piedi inesistenti per implorare pietà, e sotto il mio sguardo inorridito e shockato aveva afferrato le maniglie di spinta della sedia a rotelle e mi aveva condotto fuori dal bus, come sottofondo le mie lamentele.

Il bus era partito con noi a terra. Lei aveva chiamato un taxi per portarci a casa, e fu quando aveva messo giù la chiamata che l'avevo affrontata.

«Che cazzo ti è venuto in mente?»

Lei non si scompose di fronte alla mia rabbia, il suo volto era rimasto imperscrutabile.

«È una forma di rispetto Luca. Quella donna era più anziana di te, meritava di essere...»

«Eravamo saliti prima noi. Lei poteva benissimo aspettare la corsa successiva. Se c'era dopo venti minuti chissene, aspettava come tutti gli altri essere mortali».

«Bisogna dare la precedenza agli anziani» aveva replicato lei calma.

«Anche se sono a un passo dalla fossa non significa che bisogna trattarli come Dei scesi in terra. Avevamo noi il diritto di rimanere lì e se davvero ci tenevi a me avresti dovuto difendermi da quello stronzo del figlio che mi ha insultato».

«Luca non ti riconosco più. Dall'incidente sei cambiato».

Avevo riso, senza traccia di gioia.

«Te ne sei accorta ora? Quello che ero non esiste più. Ho semplicemente aperto gli occhi sul marcio che esiste al mondo».

Eravamo stati in silenzio all'arrivo del taxi e anche per tutto il tragitto verso casa. Con difficoltà ero sceso dal mezzo e issato sulla sedia che mia madre aveva aperto. Aveva provato a intervenire ma l'avevo bloccata sul nascere. «Lasciami in pace» le avevo sibilato contro e lei aveva ritratto la mano come se avesse paura che gliela strappassi a morsi.
Il distacco da mia madre si era intensificato dopo quell'episodio, già dopo l'incidente mal sopportavo la presenza degli altri, da quel momento avevo chiuso tutti fuori dal muro che stavo costruendo attorno alla mia anima. Muro che solo Akira era riuscito a scalfire.

Lo stesso Akira che stava seduto accanto a me giocherellando con un bracciale che non avevo mai notato, anche lui perso nei suoi pensieri, speravo più allegri dei miei.

«Bello in bracciale» dissi non riuscendo a trattenere la curiosità.

Portò lo sguardo su di me sorridendo appena. «Me l'ha fatto Maiko. Le piace molto come attività».

Lo fissai più attentamente constatando che era costituito da un semplice cordoncino nero con le perline bianche dalle lettere nere, che insieme completavano il suo nome.

«L'ha fatto durante il mio periodo di ricovero in ospedale, quando ancora ero in coma. Era il modo per avermi vicino, così mi ha detto. Poi un giorno me l'ha messo al polso, forse per darmi la forza di riprendermi e in effetti qualche giorno dopo...mi sono risvegliato».

Nella mia mente premeva una domanda di cui temevo la risposta.

«Lei sa cosa ti è successo?»

Rimase in silenzio ma contro ogni aspettativa rispose con in filo di voce. «Ha assistito a tutto. È stata lei che, spaventata da ciò che stava succedendo, ha chiamato zia Marta che ha allertato le forse dell'ordine. È grazie a lei se sono sopravvissuto. L'ultimo ricordo che ho di quei momenti è la sua voce che mi chiamava implorante. Non ho avuto neanche la forza di rispondere al suo richiamo, per rincuorarla. Ho scoperto che mia zia, dopo essere diventata la nostra tutrice legale, l'aveva mandata dallo psicologo, si svegliava durante la notte in preda a incubi indicibili, e talvolta aveva paura di fare anche solo il tragitto macchina entrata di scuola per paura che comparisse nostro padre e le facesse del male come ha fatto con me».

D'istinto chiusi le mani a pugno, provando nuovamente odio nei confronti di una persona che non avevo ancora conosciuto ma che aveva fatto del male ad Akira, lo stesso sentimento che avevo avvertito farsi strada nel mio cuore nel momento in cui mi aveva raccontato i fatti per la prima volta.

Feci per rivelarlo ad Akira ma lui si alzò prenotando la fermata.

«La nostra è la prossima» sentenziò, al che tolsi il freno dalle ruote, che mi avevano impedito di essere sballottato da una parte all'altra, con Aki che mi tenne fermo in attesa di arrivare a destinazione.

Dopo che il bus si fermò Akira si premurò ad abbassare la pedana per permettermi la discesa, sotto lo sguardo attento dell'autista, pronto a intervenire in caso di bisogno, ma per fortuna filò tutto liscio come l'olio.

La fermata per fortuna si trovava a pochi metri di distanza dal cinema scelto, comodo anche per il ritorno a casa. Era un cinema piccolo, che si sviluppava sotto la strada, dandomi subito un senso di claustrofobia. Seguì comunque Akira in biglietteria per l'acquisto.

Trovammo un ragazzo dall'aria stanca che strappava i biglietti per consegnarlo a clienti un po' troppo esigenti e frettolosi. Ma gli andava a fuoco il culo o finivano vittime di combustione istantanea se non aspettavano un attimo?

Arrivò il nostro turno e il tizio mi volse una veloce occhiata.

«Non abbiamo posti in cui potrebbe mettersi con la sedia a rotelle ma possiamo comunque trovarne uno esterno in modo che possa tenere la sedia abbastanza vicina» suggerì lui. Meno che niente dovevamo imparare ad accontentarci.

Strappò i biglietti per il film, istruendoci a chi chiedere per la sedia. Manco il tempo di ringraziarlo che la sua attenzione era già passata al cliente successivo.

Poco distante trovammo il banco da cui si potevano comprare le varie cibarie da consumare nella sala.

«Ti vanno pop corn e cola?» mi propose e accettai di buon grado. «Purchè i pop corn non siano affogati nella nutella» aggiunsi con una smorfia disgustata.

«Quella è una pratica barbara» assentì lui.

Decisemmo di prendere un cesto più grande di pop corn da condividere e un bicchiere per uno di cola.

Dopo aver pagato scendemmo una leggera discesa per raggiungere le sue sale. Peccato che mancava la segnaletica per permetterci di sapere qual'era quella giusta. In una avrebbero trasmesso Cinquanta sfumature di rosso, nell'altra il film che ci interessava.

«Secondo me é quella a destra» dissi con decisione, pur non essendo affatto certo. Lui, malgrado tutto, mi seguì all'interno della sala, che trovammo abbastanza piena.

Forse, dopo un occhiata in piú, avrei dovuto intuire che qualcosa non quadrava. Dalla trama che mi aveva spiegato Aki non mi sarei aspettato così tante ragazze presenti. Certo il prestavolto del protagonista non sembrava male, Akira mi aveva rivelato di aver avuto una cotta platonica nei suoi confronti, ma non mi sembrava da quasi tutto esaurito. Ma se erano contente così, affari loro.

Trovammo i nostri posti disposti lateralmente.

Manco il tempo di posizioarci che subito si materializzò al nostro fianco una ragazza sui venticinque anni dai capelli castani.

Squadrò prima me e poi Akira che con fare dubbioso.

«Siete certi di voler vedere questa proiezione?»

Akira trasudava nerdagine da tutti i pori, il sottoscritto un po' meno ma quanto bastava per poter essere considerati degli ottimi osservatori.

«Certo che si. Problemi forse?» ribattei, al che la ragazza arrossì scusandosi e, dopo che mi fui posizionato sulla poltrona, si allontanò per parcheggiare la sedia a rotelle in una rientranza poco distante, dove potevo controllarla con una rapida occhiata.

Non appena mi sistemai sulla poltrona amaranto abbastanza soffice si spensero le luci e  partì la proiezione.

Nel buio allungai la mano per stringere quella di Akira, che intrecciò le sue dita pallide con le mie. Voltò appena il capo e mi regalò un sorriso dolcissimo, tanto che dovetti trattenermi dal protendermi e baciarlo.

Decisi di rispodere con un sorriso anch'io, sperando non notasse, alla poca luce generata dalle pubblicità pre film, il lieve rossore che si era propagato sulle mie guance.

Non capì nulla dell'inizio, e in effetti ci poteva stare, non avendo visto quelli precedenti.

Solo che andando avanti le cose si fecero più strane non appena comparve un certo Christian, bello certo ma non come il sottoscritto.

Guardai di sottecchi Akira e lo trovai vittima del mio stesso smarrimento.

A un certo punto questo tizio Christian prese la donna, Anastasia, e la sbattè contro la scrivania del suo ufficio, cominciando a farle...

Mi portai le mani davanti agli occhi per coprirmi da quelle scene che facevano sanguinare gli occhi. Due parole: che schifo!

Cazzo! Mi resi conto solo in quel momento che avevamo sbagliato sala!

Aprì un poco le dita per permettermi di osservarmi attorno, e cercando di non fissare lo schermo, anche se l'audio faceva anche troppo bene il suo lavoro, guardai gli altri presenti, per lo più ragazze. Non c'era un minimo di età per questi film? Sentivo i commenti di quelli di fronte a me, le loro risatine stupide che le facevano sembrare a dei criceti...con tutto il rispetto di quei simpatici roditori. Assomigliavano ancor di più alle Chipette.

Non ero un santo, non ero contro il sesso, ma solo contro quelle pratiche che erano solo violenze. Si vedeva che quella donna era costretta con qualche architettura mentale di quell'uomo che era un sex simbol seguito dalle donne di tutte le età.

Come aveva fatto a diventare così famoso, sia il libro quanto i film?

La gente aveva davvero dei dubbi gusti.
«Quanto è figo» sentì esclamare a voce abbastanaza alta la ragazzina che poco prima stava per balzare dalla sedia per buttarsi contro lo schermo nel tentativo di buttarsi sullo stronzo.

«Figo? Ma se è solo un arrapato, un po' bruttino a mio dire, che non sa tenere a posto l'uccello» mormorai, forse a voce un po' più alta di quello che pensavo perchè la vidi girare nella mia direzione con gli pcchi spiritati. Notai che indossava una maglia bianca con stampata sopra la faccia di quello che mi stava importunando il cervello da...solo un quarto d'ora? Quanto sarebbe durata questa tortura?

«Ma non avete un briciolo di amor proprio voi ragazzine affette da sindrome di Stoccolma?»

«Se sei qui anche te significa che ti piace».

«Abbiamo sbagliato sala» mugugnai irritato.

Come osava paragonarci a loro?

«Questa è la patetica scusa che ti dai per non ammettere a te stesso la perfezione di Christian» ribattè lei orgogliosa di aver difeso il suo beniamino.

Fui tentato di voltarmi verso Akira e implorarlo che se in futuro fossi diventato così aveva tutta la mia benedizione di gettarmi giù da qualche dirupo...o finestra se presente, possibilmente da un piano alto.

Prima che potessi dire qualsiasi cosa fummo zittiti aggressivamente dal testo delle ragazze presenti.

Per tutto il primo tempo fui assalito dalla tempesta ormonale delle ragazzine. Dovevano avere la mia età, gli anni che dovevano a parer mio avere per vedere, se desideravano, questi scempi, ma sembravano solo delle adolescenti in calore.

Finito il primo tempo implorai Akira di andarcene. Mi sentì patetico ma non avrei retto ancora un minuto di più lì dentro.

Ero rimasto talmente nauseato da non riuscire a mangiare manco un pop corn.
Akira assentì e recuperò la sedia a rotelle.

Uscimmo in fretta dalla sala, e finalmente riuscì a respirare normalmente.

«Tutto bene?» mi domandò Akira in apprensione.

Mi sentì un poco in colpa ad averlo fatto preoccupare in quel modo.

Annuì, non essendo però del tutto convinto e lo stesso mi parve dal suo sguardo.

«Sono solo rimasto un po'...shockato da quel film. Appena arrivo a casa e noto che mia madre legge quella storia le do fuoco...ai libri non a mamma» precisai alla fine.

Lui ridacchiò. «Immaginavo Luca-chan». Mi osservò con sguardo intenso prima di aggiungere, sempre con un sorriso sul volto: «Qualcosa mi dice che la prossima volta ti porterò all'acquario».
 

 

*Traduzione dal cinese: Buonasera. Parli italiano?
**Traduzione dal coreano: Buonasera. Parli italiano?
***Trad dal giapponese: Siete delle maleducate
****Trad dal giapponese: Io sono mezzosangue
***** termine giapponese per identificare ragazze fan di coppie omosessuali in diverse opere. La loro controparte maschile sono i fudanshi (n.b. Akira è uno di loro 😂)

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Capitolo 43
*** Capitolo 35 ***


Capitolo 35

Di tutte le idee pessime che avevo avuto nella mia vita, quella doveva essere una delle peggiori.

Perché mi ero lasciato trascinare in quella situazione?

Potevo mettere a tacere il mio cazzo d'orgoglio una volta tanto?

Non ero mai stato un amante dello studio, da quando conoscevo Akira avevo iniziato a fare un poco di più ma non avevo acquisito tutta quella voglia di prepararmi alle gare della chimica, almeno non in modo serio.

Per dimostrare che non ero scemo come ci si sarebbe potuti aspettare da uno come me avevo accettato di sottopormi a quella tortura.

Già di chimica non facevo abbastanza in classe la mattina? Perché prolungate l'agonia?

Dovevo essere diventato un masochista.

«Ripetimi ancora una volta del perchè mi trovi qui anziché spaparanzato sul letto a fare nulla».

Akira stirò le labbra in un sorriso, alzando gli occhi al cielo.

«Per arricchire le tue conoscenze in materia e perché vorresti battere il tuo compagno nella competizione?»

Sentirmelo dire mi fece sentire ancora più stupido di quello che ero in realtà.
Abbassai la testa, sbattendola contro il banco. «Voglio morire» mugugnai.

«Non preoccuparti, ci sarò io a farti da spalla su cui piangere».

Ruotai il capo verso di lui, osservandolo con sguardo tradito. «Quand'è che arriveresti alla parte in cui mi tiri su di morale?»

Lui appoggiò il capo contro il palmo della mano sempre continuando a sorridere.

«Dovresti smetterla di non avere fiducia nelle tue capacità».

«Di quali capacità parli? Per esempio quella di parlare prima di pensare ritrovandomi in situazioni come questa?» domandai retoricamente.

«Anche» annuì. Speravo che negasse per consolarmi ma Akira era troppo sincero anche solo per mentire a fin di bene, e questo era uno degli aspetti che mi aveva fatto innamorare di lui.

Gettai un'occhiata a ciò che mi circondava. Tutti eravamo seduti attorno al tavolo lungo e rettangolare che si trovava in aula magna, l'unica sala presente nella scuola in cui potevamo starci senza correre il rischio di morire sardinati. E per tutti intendevo i masochisti che si erano presentati di loro spontanea volontà, con una eterogeneità di età. Andavamo dai primini fino a noi di quinta. Quelli di prima si riconoscevano per lo spaesamento con cui si guardavano attorno. Sembrava che fossero stati costretti indirettamente a partecipare dai loro prof, per questo provai compassione per loro. Quelli di quinta erano solo sei, compreso il sottoscritto, di cui solo Akira dei BA, io e Quattrocchi di BS (evento raro perché di solito la nostra sezione non partecipava) e i rimanenti di CM, chimica dei materiali, due ragazze e un ragazzo dalla faccia abbastanza simpatica ma con cui non avevo mai colloquiato e che non avevo avuto in classe nel biennio. Ero posizionato all'esterno del lato lungo opposto alla porta d'entrata con a fianco Akira. Quattrocchi era seduto di fronte a me ed era da un po' che mi osservava.
Se non fosse che era entrato il prof di impianti di CM e analitica ai BA, che aveva portato il silenzio in aula, gli avrei fatto dono di un bel dito medio.

I prof erano due, uno che si sarebbe occupato dei ragazzi del biennio e uno per il triennio. Ai più piccoli era toccata la prof di organica, la prof Liguori, una donna sulla sessantina e prossima alla pensione, abbastanza bassa e rotondetta molto dedita al suo lavoro. Il suo unico difetto era che parlava molto lentamente, e talvolta mi perdevo durante la spiegazione dopo magari un attacco di abbiocco, dato che era la mia prof di materia. Forse per questo non appena mi aveva visto aveva alzato un sopracciglio con fare dubbioso. Grazie prof per avere fiducia nelle mie capacità.

A noi il prof di impianti e analitica, il prof Cavalieri, un uomo più giovane della collega ma già con i capelli scuri un po' brizzolati. A volte mi chievevo se avesse una vita fuori dalla scuola visto che lo trovavo sempre in mezzo ai piedi a ogni ora e momento. Si andava in laborarorio di organica? Lui era lì a chiacchierare con l'assistente tecnico. Si andava al piano zero in quello di microbiologia? Era lì a chiedere chissà cosa (per quest'ultimo gli andava bene per il fatto che il laboratorio della sua materia era quello di fianco).

Ci dovevamo spostare per e dalla palestra?
Era lì!
Sembrava davvero una persecuzione.

«Quest'anno vi voglio tutti almeno nelle prime posizioni» stava dicendo.

Che esagerato!

Ero una persona abbastanza competitiva, altrimenti non sarei sopravvissuto nel campo da calcio ma ognuno aveva le sue priorità.

Vidi con la coda dell'occhio Quattrocchi che aveva alzato le spalle in un gesto di orgoglio. Vero, lui poteva essere un favorito ma non avevo dimenticato la scommessa che avevamo fatto. Ero intenzionato a batterlo, altrimenti la mia presenza lì sarebbe stata completamente inutile.

Ci consegnò un foglio su cui erano appuntati degli esercizi simili a quelli delle vecchie edizioni delle gare.

I primi erano due problemi di analitica, fattibili se solo mi fossi ricordato le formule da utilizzare, qualcosa di organica e per finire la maggior parte degli esercizi su impianti. Era vero, le gare vertevano su tutti i rami della chimica e sforavano anche nella biochimica. Il fatto che il mio corso, tra i tre, era considerato quello più inferiore ci aveva sempre indotto a lasciare la competizione a quelli di CM e BA, e al tempo stesso questi ultimi che faticavano per le domande di impianti.
Sul foglio mi osservavano degli strani disegni incomprensibili, tanto da farmi salire la disperazione.

Mi voltai verso Akira con fare angosciato trovandolo girato verso la sua vicina di sinistra, una ragazza che sembrava scarsamente avere dodici anni, cosa impossibile dato che si trovava con noi e non alle medie. Aveva i capelli castani acconciati in una treccia lunga di cui non riuscivo a vedere la fine dalla mia posizione e occhi anch'essi castani celati dietro a un paio d'occhiali dalla montatura sottilissima nera e dalle lenti rotonde come quelle di Harry Potter.
Era magrissima tanto da farla sembrare in 2D, ma sembrava essere in possesso di una grande grinta celata dalla sua figura esile e all'apparenza fragile.

Come se avesse sentito il mio sguardo su di sè la ragazzina alzò lo sguardo confermando la mia prima impressione. Se ne fosse stata capace avrebbe staccato la testa a uno se l'avesse provocata.

Stava discutendo con Akira un esercizio dei suoi, diverso da quelli che dovevamo svolgere.

Per un attimo mi sentì geloso di quell'attenzione e premura.

Da brava persona matura mi proruppi in un colpetto di tosse per richiamare la sua attenzione e Aki voltò il capo.

«Scusami Luca-chan, finisco un attimo con Elisa».

La chiamava per nome?
Chi era questa ragazza?
Da quando la conosceva?
Cosa mi ero perso?
Perché cazzo mi facevo tutte queste paranoie?

Lei mi fissò impassibile prima di inclinarsi all'indietro, celandosi dietro la figura di Akira. Cos'aveva in mente?

Incuriosito indietreggiai a mia volta e notai che aveva piegato le dita facendo assumere alla mano la forma di pigna, nel tipico gesto di Lionel Messi, come per dire: "Che vuoi?", il tutto senza farsi notare da Akira preso dall'esercizio, al che mi irritai non poco. Cosa volevo?
Magari che non monopolizzasse il mio ragazzo, per dirne una.

Sentivo che mi stavo comportando da immaturo ma era più forte di me.
Rimasi in silenzio mentre osservavo i due scambiarsi idee sulla risoluzione del problema in questione.

Nel mentre Quattrocchi di fronte a me avvanzava spedito e ogni tanto mi guardava accennando un sorriso. Mi stava per caso prendendo per il culo?
Decisi di concentrarmi sui problemi che potevano essere alla mia portata ma già alla prima frase sentivo i neuroni prendere fuoco.

Volevo tornare a casa!
Perché mi ero impegnato con una cosa che andava oltre le mie capacità?

«Pensavo fossi più competitivo» sentì mormorare Quattrocchi di fronte, per questo gli scoccai un'occhiata gelida. Chi era lui per criticarmi?

«Taci» gli ringhiai contro.

Gliel'avrei fatta vedere chi aveva deciso di sfidare!

Inforcai la penna e cominciai a scrivere come un forsennato sotto lo sguardo sbigottito suo e anche di Akira e della ragazzina.

Sembrava che con la penna volessi ammazzare il foglio, e in effetti era vero. Stavo facendo finta che a ogni risposta data, a ogni croce barrata e calcolo fatto stessi scoccando in colpo a Quattrocchi, avvicinandomi sempre di più alla vittoria.

Finì tra i primi, beccandomi pure un'occhiata perplessa da parte di Akira. Mi sentivo davvero soddifatto di me stesso, come forse non era mai accaduto nella mia vita.

Il prof cominciò a correggere gli eservizi, chiamando un ragazzo per volta. Ogni volta alzai la mano, per dimostrarmi preparato e carico. Tuttavia ogni volta il prof mi ignorava e chiamava altri. Alla fine aveva fatto un giro completo dei nostri mi preparai a rispondere, ma con sorpresa mi saltò.

«Scusi, ci sarei anch'io» dissi, forse in tono più scazzato del consentito.

Difatti lui mi rivolse un'occhiata contrariata.

«Tranquillo non mi aspetto molto dai BS».

In prarica era come dire: "Tollero a stento la vostra presenza ma per me valete meno della suola delle scarpe". Davvero simpatico.

Ma il caro Quattrocchi, che era BS come me, era stato chiamato e gli era stata data la possibilità di rispondere quando uno di CM aveva aveva avuto problemi con un esercizio legato alla biochimica.
Glielo feci notare senza filtri, non mi andava questo atteggiamento così discrimatorio.

Il prof mi rivolse un'espressione che avrebbe rivolto a uno scemo.
«Casale mi sembra l'unico del vostro corso meritevole di star qui».

«Anche io mi sono fatto in quattro a fare questi esercizi e per ora li ho fatti giusti» ribattei, sempre più irritato.

«Sei seduto vicino a Vinciguerra, li avrai copiati tutti».

Lo fissai a bocca aperta. Era professionale che un docente si rivolgesse così a uno studente?

Akira intervenne prima che potessi peggiorare la situazione.

«Questi prof non li ho fatti, mi sono perso un attimo con Elisa con un suo problema».

Tiè! Ben ti sta! Prima di colpevolizzarmi doveva avere le prove!

«Io proverei a controllare. Loro passano così tanto tempo insieme...» cominciò a parlare Quattrocchi, che si bloccò non appena si accorse del mio sguardo inceneritore.

Akira di tutta risposta si alzò e portò il suo quaderno al professore, dove effettivamente non aveva svolto quei quesiti.

Mi trattenni dal fare a Quattrocchi una beffa. Così imparava a fare il lecchino infame.

Il prof lasciò perdere la questione ma continuò a ignorarmi. Che gran bastardo!
Non meritava il mio genio!

Uscimmo di lì che ero un faccio di nervi, tanto da far preoccupare Akira.

«Non prendetela Luca-chan. Sono certo che conoscendoti il prof comincerà ad apprezzarti» tentò di rincuorarmi, camminando al mio fianco, in lontananza vedevo già l'auto di mia madre in attesa.

«Della sua approvazione me ne frega poco e niente. Mi dà solo un enorme fastidio che parta così premunito nei miei confronti. Gli anni scorsi non avevo molta voglia di studiare e sono sempre stato promosso con una media del sei e mezzo stirato. Ovvio che poi si facciano una certa idea di me. Ma un conto è pensarlo, l'altro esternarlo in quel modo».

«Posso parlargli, fargli capire che sta sbagliando completamente su di te».

«Non è il caso, tanto penso che dalla prossima volta non mi presenterò. Tanto alla fine a cosa serve? È solo una competizione tra cervelloni. Non c'è spazio per uno che ha avuto sempre e solo il pallone in testa» dissi, atteggiando le labbra in un sorriso amaro.

«Appunto è una competizione e hai mai mollato di fronte a un ostacolo? Ti rispondo io. Mai! Sei sempre andato dritto per la tua strada, e quando sei caduto ti sei sempre rialzato sempre». Mi gettò un'occhiata. «Anche se adesso è una cosa un po' triste da affermare. Ma se pensi anche ora. Hai deciso di lottare contro ciò che sei diventato per riappropirarti della tua vita. Prendi queste gare come una partita da vincere».

«Come fai a sapere come mi sono comportato in quei casi?»

Di tutto il suo discorso era ciò che mi era rimasto più in presso nella mente.
Lui arrossì, distogliendo lo sguardo con fare imbarazzato.

«Ecco...forse sarei venuto a vedere qualche tua partita» mormorò.

«Qualcuna?»

Dovevo aver sentito male. Akira era venuto a vedermi giocare? Non seppi come interpretare del tutto le emozioni che mi esplosero dentro, un mix d'orgoglio e timore.

«Sì ecco...quasi tutte quelle casalinghe» rivelò passandosi una mano tra i capelli.
Venni assalito dal bisogno primordiale di attirarlo verso di me e baciarlo. Sì, di fronte a tutti senza esitazioni. Mi trattenni solo per lui e la sua richiesta.

«Venerdì dopo scuola ti andrebbe di rimanere a dormire da me? Inizia il weekend, così non c'è il problema scuola per il giorno dopo, in cui possiamo stare un po' assieme».

«Sei troppo ligio al dovere. Se dovessimo saltare un giorno di scuola non è la morte di nessuno».

«Siamo al quinto anno. Ho già fatto delle assenze, non vorrei farne altre».

Alzai le mani in segno di resa. «Mi dichiaro sconfitto. Ci vediamo direttamente a casa tua?»

«Se vuoi ti vengo a prendere nel pomeriggio, così puoi preparare con calma ciò che ti serve».

«Sai, sarebbe funzionale se mi decidessi a lasciare un cambio da te e uno spazzolino di riserva, per queste esigenze» scherzai, e notai che il volto di Akira si fece rosso per l'imbarazzo per la seconda volta nell'arco di pochi minuti.
Come mai...ah! Ah...cazzo!
Ero stato davvero inopportuno!

Tentai di scusarmi ma lui mi bloccò con un cenno della mano.

«Non me la sono presa, tranquillo. È solo che...non me l'aspettavo, ecco».

«Colpa mia che parlo troppo e do aria alla bocca senza motivo» sospirai.

«Mi piace quello che dici» disse, non essnedo certo che l'avesse detto tanto per dire o se davvero ne fosse convinto.

Ci salutammo non appena arrivai dall'auto di mia madre. Ovviamente anche lei volle fare la sua parte, facendomi sentire in completo imbarazzo, salutando Akira come fosse un suo compagno di classe.

Quanto desideravo sotterrarmi.

A casa mi gettai sul letto e subito Freddy venne ad acciambellarsi al mio fianco. Era migliorato da quel giorno in cui io e Akira l'avevamo trovato, aveva il pelo più folto e sembrava più in salute. Sembravano passate ere invece erano solo pochi mesi.
Cominciai ad accarezzarlo sulla testa e a fargli i grattini, che avevo scoperto apprezzare parecchio.
Avevo una voglia matta di fiondarmi a casa di Aki immediatamente e di rimanere lì per sempre ma non potevo.

Freddy allungò le sue zampette anteriori per intrappolare tra le mani munite di cuscinetti e artigli il mio indice sinistro, avvicinandolo al suo musetto, cominciando a mordicchiarlo con i dentini. Mi aveva per caso preso per un croccantino?

Cercai di liberarlo ma la sua presa era forte, e nell'impresa finì con la maggior parte del corpo sul mio petto. Sembrava piccolino ma era davvero tenace, e aveva un che di buffo. Meritava una foto.

Fu per questo che recuperai il telefono per immortalarlo. Dopo lo scatto entrai nella galleria per vedere come fosse venuta, e mi accorsi che avevo inquadrato anche la mia mandibola con un accenno di barba, che non facevo per pigrizia da qualche giorno.

Era davvero una bella foto, così vera e speciale. E poi sia io che Freddy eravamo abbastanza fotogenici.

Entrai su Instagram e mi accinsi a pubblicare la foto. Mi fermai un attimo con il dito sull'icona della conferma della pubblicazione, con fare incerto. La mia bacheca era ferma a una foto di Quel giorno, il momento in cui avevo mostrato con fare orgoglioso la mia maglia di giocatore titolare nella mia squadra del cuore che aveva deciso di credere e investire su di me.

Peccato che qualche ora dopo avevo perso tutto. La maglia me l'avevano lasciata ed era chiusa con cura in una scatola sotto il letto che non avevo più tirato o fatto tirar fuori. Non ne avevo avuto il coraggio, così come avevo perso il deisiderio di immortalarmi o postare qualche mia foto.

Forse era arrivato il momento di fare un altro passo per riprendermi la mia vita.

Aggiunsi qualche tag, senza però descrizione e cliccai sull'icona. In futuro se non me la sentivo di vederla lì potevo sempre cancellarla o archiviarla. Mi fece una strana impressione, prima era all'ordine del giorno un post e storie in cui raccontavo le mie vicissitudini calcistiche.

Bloccai il telefono e lo appoggiai al mio fianco, tornando a concentrare la mia attenzione su Freddy tornato alla carica del mio povero dito.

L'avviso di una notifica fece sobbalzare Freddy che rimase inchiodato sul posto. Riuscì a liberarmi il dito e cominciai a coccolarlo per tranquilizzarlo.

Era arrivato il primo "mi piace" da Akira, fatto che mi soprese perché non sapevo che mi seguisse, con annesso un breve commento.

Poi ne arrivarono altri, a cascata tanto da mandarmi in tilt.

Molti scrissero cose del tipo "Bentornato" o "Dove sei stato fino a questo momento?" e un "Ci sei mancato bro!", quest'ultimo da parte di un mio ex compagno di squadra che ancora giocava e che frequentava anch'egli la mia stessa, pur essendo in un altro corso.

C'era qualcuno che aveva notato così tanto la mia assenza e a cui potevo essere mancato sui social? Non me l'aspettato assolutamente.

Tolsi il suono alla modalità audio per non inquietare Freddy ma dentro di me lo apprezzavo.

La foto ben presto raggiunse i duecentocinquanta like e malgrado fosse un numero irrisorio se paragonato a quelli a cui ero abituato mi fecero commuovere.

Per questo entrai nella modalità di modifica della parte scritta del post per aggiungere la dicitura: "Sono tornato".

Il giorno dopo a scuola mi sentivo su di giri, come non accadeva da tempo. Mi avrebbero potuto tempestare di quattro che non avrebbero avuto il potere di togliermi il sorriso.

Mi trovavo in corridoio in attesa di Akira, che ancora non si vedeva all'orizzonte.

Avevo appena fatto verifica di Igiene. Avevo studiato, con Freddy acciambellato sulle cosce, e speravo sempre in una sufficienza, anche se mi aspettavo di più.

«Ah finalmente ti ho trovato!»

Mi voltai e intravidi Pigmalione raggiungermi di corsa. Anche quel giorno forgiava un look eccentrico, con una maglia rossa morbida che gli lasciava scoperta una spalla (qualcuno aveva avuto il coraggio di dirgli che essendo Febbraio non era l'abbigliamento più corretto? Anch'io soffrivo il caldo, ma non sarei arrivato al suo livello) strappata sui fianchi come se fosse stato artigliato da un licantropo e jeans scuri larghi e con i tasconi ai lati, cargo come mi sugggerì la vocina interiore dopo che Agnese mi aveva ripetuto almeno mille volte quel termine, sopra in paio di scarpe alte nere. Anche quel giorno sfoggiava un trucco nero, dalla matita all'ombretto nero che facevano risaltare i suoi occhi viola tenue. Prima o poi avrei raccolto tutto il coraggio che possedevo per domandarlgi se le sue iridi erano vere o derivate da lenti a contatto colorate, ma non sarebbe stato questo il giorno.

Lo fissai senza capire, al che lui si premurò a spiegare.

«Ho sentito discutere Akira con il prof Cavalieri. Ho sentito il tuo nome e ho pensato di chiedere direttamente alla fonte. Allora...che cos'è successo?»

Perché Aki ti sei messo in questa situazione? Che stupido rischiare di non uscire con la lode per un problema non suo.

Gli spiegai in breve cos'era successo il giorno prima, e Pigmalione rimase ad ascoltare in silenzio.

A racconto finito diede dello scemo (perché dire Testa di Cazzo a un professore gli sembrava troppo irrispettoso) al prof per poi inclinarsi un poco verso di me.

Non era tanto alto, in condizioni normali mi sarebbe arrivato ad altezza naso, ma in quel momento svettava e mi faceva sentire...basso! Non mi sentivo così dalla prima superiore in cui mi ero alzato in altezza.

«Per quanto riguarda la ragazza ti stai riferendo a quella con la treccia di seconda, Elisa Montenapoleone?»

«Si potrebbe. Ma com'è che tutti la conoscono?»
"E per me é stata la prima volta durante quel pomeriggio?" avrei voluto aggiungere ma mi sarei sentito più cretino di quello che mi pareva essere.

Pigmalione si grattò il collo con fare nervoso.

«Lei mi passa libri da leggere. Insomma, ci siamo conosciuti perché lei è venuta a sbattermi contro mentre leggeva un libro piuttosto...interessante e, diciamo, che ci siamo rivolti la parola per quel motivo. Gli altri forse perché, seppur sia ancora piccola  è davvero molto brava dal punto di vista scolastico e umano. La prof di organica è affascianta da lei, e per questo spera che la sua scelta per il triennio ricada in un corso chimico, sai per avere la possibilità di averla come allieva prima di andare in pensione».

Ah. Un piccolo genio. Se non fossi stato a conoscenza dei gusti di Akira avrei quasi pensato che potessero stare bene insieme. Due super cervelloni che avrebbero potuto conquistare il mondo.
Che. paura.
Meglio non pensarci.

«Sembrava...simpatica».

Quanto un cactus, ma anche questo pensiero lo tenni per me.

Lui sorrise. «Vero? Io l'adoro. È una delle poche persone con cui non ho paura di essere me stesso, perché so che qualsiasi cosa dica o sia non mi giudicherà mai».

«E io?» domandai un poco risentito.

«Anche te considero come un amico. Ma è diverso. Lei sa tutto di me».

«E cosa dovrei sapere che non so? Che nascondi un cadavere sotto il letto?»

Lui sorrise appena. «Qualcosa sotto ol letto lo nascondo, ma per fortuna non è un cadavere».

Non era molto rincuorante lo stesso.
Feci per dirglielo ma intravidi Akira avvicinarsi.

Gettò un'occhiata a Pigmalione, molto simile a quella che gli aveva regalato la volta che ci aveva beccati in bagno. Tutto in lui risuonava un senso di possesso e gelosia, e non seppi se esserne lusingato o no.

«Com'è andata la discussione con il prof? Ah già giusto, non è un problema mio. Ci vediamo».

Sorrise con fare impertinente, con l'aggiunta di una strizzata d'occhio prima di dileguarsi, lasciandosi soli.
Gettai un'occhiata ad Akira e lo trovai funereo. Non l'avevo mai visto in quello stato e mi fece non poco paura.

Lo invitai a spostarsi in modo da parlare con calma in un luogo tranquillo, e lui mi seguì in silenzio.

«Non devi rischiare per colpa mia» gli dissi non appena fummo soli.

Lui mi fissò con i suoi occhi ossidiana, straboccanti di emozioni di ogni natura. «Non potevo stare con le mani in mano dopo che lui ti ha sminuito in quel modo».

«È il tuo coordinatore di classe. Cazzo Akira! Potrebbe decidere di abbassarti il voto di condotta o convincere gli altri a farlo con quello della propria materia».

«È solo un numero» ribattè lui calmo.

«Non voglio che butti via tutti i tuoi sacrifici per me».

Ci fissammo negli occhi. Non era una litigata, almeno non di quelle burrascose ma era la prima volta che il nostro discorso assomigliava a una discussione.
Lui si inginocchiò e poggiò la sua testa su quello che rimaneva delle mie gambe, emettendo un lungo sospiro. Gli passai una mano tra i capelli.

«Apprezzo quello che hai fatto per me» iniziai continuando a giocherellare con le sue ciocche setose. Quando una giorno, speravo mai, avesse deciso di tagliarli per me sarebbe stata la fine. «Ma quella era una mia battaglia che avrei dovuto affrontare io. Capisci cosa intendo?»

«Non l'avresti fatto. O sì?»

Alzai lo sguardo al soffitto, constatando che alcune piastrelle in cartongesso che lo costituivano sembravano in bilico, per cui pregai tutti gli dei affinchè mi venisse risparmata la testa.

«Forse prima avrei lasciato perdere, ma ora non posso. Non più. Ed è colpa tua» accompagnai queste ultime parole con un sorriso, abbassando lo sguardo su Akira. Avevo per un attimo perso il mio spirito competitivo, che per fortuna avevo recuperato grazie a lui.

Lui mi fissò aggrottando le sopracciglia.
«Cos'hai intenzione di fare?»

«Aspetta e vedrai».

«Aspetta e vedrai»

 

Scoprì da Akira che il prof Cavalieri si trovava ancora in classe sua, in cui mi feci largo con la sedia a rotelle sotto lo sguardo incuriosito dei compagni di classe di Akira. Solo Pigmalione, appoggiato a quello che doveva essere il suo banco, visto l'astuccio pieno di brillantini che avrei associato solo a lui, sembrava essere consapevole di quello che sarebbe successo.

Mi fermai di fronte al prof che mi osservò con superficialità, come se la mia presenza non lo intaccasse per nulla. Degnò di una breve occhiata Akira con sdegno, facendomi sentire un poco in colpa. Speravo che Akira non avesse problemi da lì in poi.

Ora toccava me. Dovevo ripetergli il discorso epico che mi ero creato in testa. Facile come bere un bicchiere d'acqua.
Presi un bel respiro e parlai.

«Le dimostrerò che sono valido tanto quanto i suoi studenti».

Che schifezza di discorso avevo fatto? Ma chi ci avrebbe creduto?

Lui incrociò le braccia al petto. Sulla cattedra vidi impilati i suoi libri, segno che se ne stava andando e io l'avevo bloccato. «E come pensi di riuscirci?»

«Li batterò uno ad uno fino ad arrivare primo» dichiarai con troppa enfasi. Inutili furono i tentativi della mia mente di frenare le parole prima che uscissero di bocca. Non era quello il mio obiettivo, ma solo superare Quattrocchi, insomma una gara interna nella stessa classe. Che chance avevo di battere dei BA? E poi lui era anche prof dei CM...ah...cazzo!

«Non credo che ci riuscirai».

«Questo è tutto da vedere» continuai, ormai infervorato. Ormai mi ero incasinato e avrei portato avanti questa scelta fino alla fine.

Suonò la campanella in quel momento interrompendo le occhiate in cagnesco che ci stavamo lanciando, senza esclusione di colpi.

L'uomo si fece largo verso la porta dopo aver recuperato i libri, bofonchiando che sarebbe arrivato tardi nell'altra classe, dove aveva lezione, per colpa mia. Seh, credici!

Sentì alcuni commenti dei compagni di clase di Akira che

«È completamente pazzo».

Grazie, me n'ero accorto da solo senza doverlo sottolineare.

«Non ce la potrà fare».

Ma la potevano smettere di gufare?

«Figurati se un BS ci può battere».

Farsi i cazzi suoi no?

«Secondo me può farcela. Lo sottovalutate troppo» si intromise la voce di Pigmalione.

«Ma lo sai chi è? È un calciatore».

«E che vuol dire? Pensate che i calciatori siano tutti stupidi?»

Dalle facce dei suoi interlocutori capì che si, ci consideravano scemi. Una motivazione in più per batterli e cancellare il loro sorriso borioso dal viso.

Salutai Akira e Pigmalione, ignorando gli altri, per tornare in classe, trovando Ippolito appoggiato allo stipite della nostra porta. Era a braccia incrociate, lo sguardo perso in chissà che pensieri. Forse era preoccupato per la partita imminente contro la Juve.

Non appena mi intravide sorrise. «Ho sentito che hai avuto una discussione con il prof Cavalieri. Come ti sei sentito quando hai compreso di essere stato sconfitto?»

Non gli risposi, non avevo voglia di scontrarmi anche con lui. Quella mattina avevo già dato.

Gli passai di fianco, e lo sentì mormorare:
«Ricordati, ci sono battaglie che non puoi vincere».

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