Il Vampiro di West End

di A_Typing_Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo scudo di San Michele ***
Capitolo 2: *** Quattro rose viola ***
Capitolo 3: *** Caccia al Vampiro ***
Capitolo 4: *** Fantasmi ***
Capitolo 5: *** La spada di Dio ***
Capitolo 6: *** Il punto in comune ***
Capitolo 7: *** Come un essere umano ***
Capitolo 8: *** La magione silenziosa ***
Capitolo 9: *** La numero otto ***
Capitolo 10: *** L'angelo senza voce ***
Capitolo 11: *** Celeste come gli dei ***
Capitolo 12: *** Il disegno del Padre ***
Capitolo 13: *** Scambio di segreti ***
Capitolo 14: *** La chiesa di Saint Thomas ***
Capitolo 15: *** I glifi di Grimbald ***
Capitolo 16: *** Amore eterno ***
Capitolo 17: *** La follia più grande ***
Capitolo 18: *** Il cuore del ragno ***
Capitolo 19: *** Prima di New Oakheart ***
Capitolo 20: *** La messa dei Santi Arcangeli ***
Capitolo 21: *** Il caso Harrison ***
Capitolo 22: *** L'incantatore di serpenti ***
Capitolo 23: *** Le conchiglie della strega ***
Capitolo 24: *** Caccia alla Belfast Arena ***
Capitolo 25: *** Come l'Eden ***
Capitolo 26: *** Una notte nel North End ***
Capitolo 27: *** Il mausoleo di Dracula ***
Capitolo 28: *** Il segreto dei Cosworth ***
Capitolo 29: *** Inevitabile ***
Capitolo 30: *** Ritorno ad Ashland Street ***
Capitolo 31: *** Convergenza ***
Capitolo 32: *** Il distretto fantasma ***
Capitolo 33: *** Quiete accesa ***



Capitolo 1
*** Lo scudo di San Michele ***


La macchina nera con la scritta sugli sportelli parcheggiò con un movimento fluido di fronte ad alcuni caseggiati del quartiere di Satbury dall'aria fatiscente. L'uomo dai capelli castani se li spettinò passandovi la mano in mezzo mentre lanciava uno sguardo alle finestre e aprì la portiera.

«Questo è l'ultimo indirizzo conosciuto... diamo un'occhiata?»

«Sembra piuttosto decrepito questo posto, eh?»

«Dovevano demolirlo due anni fa per costruirci una palazzina nuova, ma un cavillo legale ha bloccato il progetto e adesso ci sta dentro ogni sorta di vagabondi... magari c'è anche quello che stiamo cercando, era casa sua prima che lo sbattessimo in gattabuia.»

«Avremmo dovuto lasciarcelo.»

«Non dipende da noi, detective O'Brian... se no ci chiamerebbero procuratore O'Brian e procuratore Purcel

«Sai che mi ero dimenticato che ti chiamassi Purcel?» domandò O'Brian, aprendo lo sportello. «Ti chiamo Purr da una vita ormai.»

«Spiritoso.»

«Sono serio, e poi quando non ti chiamo Purr ti chiamo George.»

«Non so quale sia peggio, chiamami “fratello” piuttosto che George.»

George Purcel si avvicinò alla porta del palazzo cadente e O'Brian lo seguì gettandosi la treccia di capelli rossi sulla schiena dalle spalle larghe. Mentre bussava alla porta stinta dalle intemperie fece scorrere gli occhi blu sulla facciata e sulle finestre per carpire dei movimenti, ma non ne vide alcuno. Purcel bussò di nuovo con più decisione.

«Sai.» disse l'altro poliziotto con aria svagata. «Non capisco perché non ti piaccia il nome George.»

«Perché dovrebbe piacermi?»

«Beh, perché... è un nome normale. Un nome da uomo. Quando lo dici tutti penseranno a George Clooney, no?»

«Non è un bel termine di paragone quando mi presento a una donna, Crowley.»

«Eh, anche questo è vero.» ammise lui. «Scusa se sono schietto, ma Dio non ti ha fatto granché belloccio. Dovresti fare qualcosa per quella stempiatura, sai? Ti fa sembrare più vecchio.»

«Tch, al diavolo. Meglio calvo che rosso, irlandese maledetto.»

Mentre Purcel bussava di nuovo con stizza Crowley scoppiò in una breve risata.

«Qui non c'è un'anima... o forse non ci vogliono aprire.» sbottò Purcel. «Chissà quanta coca sta andando giù per il cesso in questo momento, eh?»

«Se sapessimo come recuperarla dai tubi diventeremmo ricchi.»

Purcel scoppiò a ridere e ridiscese i gradini dell'ingresso.

«Certo, come no... l'integerrimo detective Crowley O'Brian Eusford che rivende della cocaina? Nello stesso giorno si scopre che il Papa non crede in Dio e possiamo dar fuoco al mondo intero!»

«È davvero così difficile pensare che potrei essere corrotto?»

«Non è difficile, è impossibile, cazzo, che domande fai? Non ho mai visto un uomo più onesto di te al mondo, io. Tu sei quello che una volta ha trovato un portafoglio con dentro ottocento dollari, l'hai restituito con tutti i soldi e ti sei anche scusato di aver preso due dollari per saldare il conto del taxi con cui sei andato a casa di quel tizio.»

«Beh, non erano mica soldi miei...»

«E tu sei quello che se solo pensa di aver strisciato una macchina lascia il biglietto da visita per il risarcimento...»

«Non lo fanno tutti?»

«E tu sei quello così onesto che non ha mai coperto nessuno a scuola e che non si è mai fatto coprire da nessuno... andiamo, Crowley, eri quello che alzava la mano per confessare a frate Ignazio che non avevi fatto i compiti! Sei onesto ai limiti dell'idiota, lo sa chiunque!»

«Resto ben stanziato dentro il limite della saggezza.» commentò Crowley.

George aprì la portiera mentre Crowley faceva il giro per mettersi al posto di guida quando il portone sverniciato si aprì e ne uscì un giovane portoricano. Teneva le mani affondate nelle tasche della felpa, portava scarpe da ginnastica nuove fiammanti e un piccolo tatuaggio sullo zigomo, essenziale quest'ultimo per identificarlo: era Ezekiel Hernandez, l'uomo che stavano cercando. Il giovane scambiò uno sguardo con Crowley, si accorse di essere stato riconosciuto e iniziò a correre.

«È lui, fermiamolo!» gridò Purcel. «Fermo, Hernandez! Polizia!»

«Oh, no, dai.» gemette Crowley. «Non scappare, insomma...»

Sospirando richiuse la portiera e seguì il ragazzo che era partito a scheggia e il suo collega che si era lanciato al galoppo dietro di lui: girò l'angolo e lo vide imboccare un vicolo sulla sinistra, mentre George venne rallentato da un veicolo che inchiodò davanti a lui. Si guardò un momento intorno e si avvicinò a un ragazzo che smontava da una moto, confuso dall'inseguimento cui stava assistendo.

«Polizia di New Oakheart, devo requisire il suo veicolo.» gli disse mostrandogli il distintivo. «È un'emergenza.»

«Ma...»

«Presenti qualsiasi lamentela o richiesta di risarcimento al dipartimento di polizia di Oakheart.» replicò montando in sella. «Ma non fare il furbo, l'ammaccatura sulla destra l'ho vista, non l'ho fatta io.»

Diede il gas e tagliò con fin troppa avventatezza la strada trasversalmente, imboccando una perpendicolare che l'avrebbe portato sulla diciassettesima. Era cresciuto tra i quartieri di Satbury e North End, non c'era un vicolo che non avesse percorso, una buca che non avesse preso almeno una volta in macchina, in moto o in bicicletta, un muretto sul quale non si fosse mai seduto, un marciapiede sul quale non fosse mai passato a piedi o in skateboard: sapeva perfettamente dove quel ragazzo sarebbe sbucato dopo aver scavalcato una recinzione divisoria.

Riemerse sulla diciassettesima appena in tempo per vedere Hernandez schizzare fuori dal vicolo di corsa, piegò la moto e gli si mise alle costole. Non appena una madre con un bambino uscì dalla zona di rischio montò sul marciapiede accelerando: in pochi secondi lo raggiunse, stese il braccio e lo colpì sulla schiena mandandolo faccia in giù per terra e arrestando la sua corsa. Crowley frenò lasciando una lunga sgommata nera sul cemento e si girò a contemplare il proprio lavoro con una certa soddisfazione. Fece appena in tempo a smontare dalla moto che George accorse, col fiato corto, e come lui osservò la scena.

«Ma che...?»

«Ezekiel Hernandez, sei in arresto per aver violato i termini della libertà vigilata.» dichiarò Crowley a voce alta e chiara. «E per resistenza all'arresto... le manette, detective Purcel

«Adesso si decide a chiamarmi Purcel.» commentò l'altro. «E nemmeno ha corso, il bastardo.»

Mentre Hernandez veniva ammanettato dal collega Crowley si limitò a sorridere.

 

 

Il dipartimento di polizia dove Crowley era stato trasferito e dove si trovava la squadra omicidi si trovava a Satbury; lui era nato nel North End e dopo il liceo era entrato in polizia senza nemmeno prendere in considerazione di andare all'università. Per tutte queste ragioni non poteva dire di essere pratico del distretto di West End e gli bastò entrarci per notare molte differenze con altre zone della città: il West End era pieno di negozi singolari incastonati in mezzo a boutique e ristoranti, i palazzi di appartamenti erano generalmente di poche unità e ben tenuti, con colori vivaci di facciate e graziosi giardini, e per essere un'area grande quanto Satbury era molto silenziosa e con poco traffico per essere l'ora della pausa pranzo.

Si trattava di una zona dalla media di età molto giovane, con diverse scuole prestigiose e il campus delle facoltà di storia, lettere, arte e scienze sociali dell'università di New Oakheart.

È un posto piuttosto vivace di notte, al contrario di Satbury... ma di giorno è bello ordinato.

Rallentò in prossimità del semaforo e diede un'occhiata alle case: era un bel quartiere residenziale, certo una buona zona per chi pensava di metter su famiglia, visti gli spazi verdi, la buona offerta di scuole e il traffico moderato... non fosse stato per la comparsa recente di un serial killer dal modus operandi brutale e raccapricciante che aveva ucciso e menomato tre bambini in meno di cinque mesi. Un brutto caso davvero, che teneva impegnati quattro suoi colleghi alla squadra omicidi per lunghi straordinari che fino a quel momento non avevano portato a nessun risultato.

Crowley parcheggiò senza difficoltà proprio davanti alla sua destinazione e scese dalla moto puntellandola prima di sfilarsi il casco e sistemarsi la treccia con un gesto divenuto automatico dopo anni. Alzò gli occhi sull'insegna che identificava l'esercizio come una libreria specializzata e negozio di artigianato esoterico, in lettere gialle sullo sfondo viola, e il nome Magick in lettere fronzolute bianche spiccava impossibile da ignorare sull'edificio e serigrafato su tutte le vetrine.

Forse era un'idiozia, ma Crowley era convinto che un poliziotto non potesse prendere un criminale se non pensava come lui, e che fosse questo il motivo per cui non riuscivano a prendere il serial killer battezzato dalla stampa Vampiro di West End: lasciava le vittime quasi senza sangue con un foro sulla gola e il cuore strappato dal petto, firmandosi con strani simboli dipinti col sangue sulla pelle. Se non capivano che cosa significava per lui quel rituale era impossibile che riuscissero a prevederlo né a prenderlo, a meno che il Vampiro non si incastrasse da solo in qualche sciocco modo. Diede una fugace occhiata alla vetrina, perso in questi ragionamenti, e aprì la porta causando il tintinnio di un campanellino.

Dietro il bancone di legno non vide nessuno. Lasciò che la porta si richiudesse e lasciò vagare lo sguardo dentro a un negozio come non ne aveva mai visti: oltre a essere enorme aveva scaffalature altissime di libri, contrassegnate da lettere e numeri come nelle biblioteche, il soffitto era adorno di una serie di strani oggetti appesi tra i quali mazzi interi di piume di pavone e in alcuni espositori di vetro erano disposte punte di cristallo, sfere trasparenti o nere, teschi di animali, candele incise con simboli e statuette di dèi cornuti e dee nude dalle forme armoniose. L'aria del negozio solleticava il naso di Crowley con un profumo nato dalla miscelazione di più incensi e dall'odore tipico della carta stampata.

Non c'era ancora nessuno dietro il bancone e Crowley venne attratto da un libro su uno scaffale vicino alla porta: aveva lo stesso nome del negozio, Magick, e non senza un sorriso di vago divertimento lo prese in mano per leggere il nome dell'autore.

«Aleister Crowley.» lesse.

«Oh, cielo, un corpo del genere meriterebbe proprio l'eternità.»

Crowley girò di scatto la testa verso il bancone. Dalla porta che dava sul retro, la cui tenda si muoveva ancora, era uscito un uomo che lo guardava con un'insistenza quasi imbarazzante appoggiando il gomito al ripiano scuro: aveva lunghissimi capelli color argento legati sulla nuca da un nastro di colore rosso, come rossi erano gli orecchini pendenti che portava ai lobi, la pietra dell'anello sul sottile dito medio e anche i suoi occhi. Con un sorriso più teso sulle labbra si sporse leggermente e Crowley non poté fare a meno di pensare che stesse spudoratamente studiando il suo posteriore.

«Cercavi il libro o i tarocchi? Di Aleister Crowley.» aggiunse, indicando il libro. «Li tengo dietro il bancone, sono articoli che tendono a vaporizzarsi nell'aria, se capisci che cosa intendo.»

«Ah... no, io ero solo curioso. Porta il mio stesso nome.»

Crowley ripose il libro e si avvicinò al bancone: in completa onestà quell'uomo gli suscitava una bizzarra curiosità per i suoi occhi rossi, per lo stile vittoriano della sua camicia con il nastro rosso al collo fermato da un cammeo, per l'interesse che non provava nemmeno a nascondere che aveva verso di lui. Sapeva di trovarsi davanti a un essere umano singolare e lui trovava sempre interessanti le persone strane.

«Ah, sì? E dimmi, in che cosa ti potrei essere utile, agente Crowley?»

«Mh, come sai che sono un poliziotto?»

«La tua cintura.» rispose lui, e l'indicò. «Quel segnetto ve lo fate attaccandoci la fondina.»

«Ah, davvero niente male, hai buon occhio!» rispose Crowley sorridendo. «Ma sono detective, non agente... e Crowley è il mio nome di battesimo. Sono il detective O'Brian Eusford, della squadra omicidi.»

«Eusford... eh?»

«... Sì, c'è qualcosa di strano?»

L'aria meditabonda che gli era apparsa sul viso scomparve all'improvviso e sorrise ampiamente.

«Oh, ma sono in arresto, detective? Se lo sono ti prego, voglio le manette e il manganello~»

«Non vorrei deludere tante aspettative, ma non sono qui per questo... sto cercando un libro... forse, più di uno.»

«Ah, dimmi che cosa stai cercando, detective Eusford, questo umile libraio è completamente tuo finché non sarai soddisfatto.»

Un angolo della bocca di Crowley si sollevò cogliendo un senso vagamente erotico in quella frase, ma non diede altro segno di averlo percepito. Aveva una richiesta molto precisa da fare che si era preparato minuziosamente per tutta la mattina.

«Sto cercando un libro sui vampiri... qualcosa che parli di loro, della loro psicologia... qualcosa che non sia solo letteratura.» disse con una certa delusione interiore: nella sua testa suonava molto meno ridicolo. «Esiste qualcosa del genere?»

«Ovviamente esiste.» rispose lui, con uno sguardo che sembrava brillare di eccitazione. «Posso chiederti come mai ti interessa un argomento così singolare o è una domanda troppo intima per il primo incontro?»

«Mi interessano perché non ne so niente e ne devo prendere uno.»

Qualsiasi altra persona a quella frase avrebbe riso o l'avrebbe preso per matto, ma non quell'uomo, che sorrise se possibile ancora di più. Sembrava un bambino dentro un negozio di caramelle con le tasche piene di spiccioli da sperperare.

«Stai cercando quell'assassino, il Vampiro di West End.»

Non era una domanda e Crowley non fece né segno di diniego né cenno di assenso. Non ne aveva bisogno, comunque.

«Meraviglioso! Vediamo che cosa posso darti, detective. Ci metto un minuto.»

Dato che si era aspettato di vederlo spulciare titoli tramite computer come aveva sempre visto fare a chiunque nelle biblioteche Crowley si stupì di vederlo uscire da dietro il bancone e avviarsi lungo gli scaffali, ma lo stupore fu dissipato quasi all'istante quando poté vedere che portava degli stivali neri alti fino alla coscia con un tacco di dieci centimetri con cui avrebbe potuto forare una lattina di cola senza difficoltà da quanto era appuntito. Quella vista fece salire spontaneo un sorriso divertito al poliziotto che si morse il labbro sentendosi vagamente colpevole per quell'eccesso di ilarità; si coprì la bocca con la mano e guardò una serie di calici adorni di pietruzze nella teca dietro la cassa, ma la distrazione durò solo qualche secondo, poi tornò a guardare l'umile libraio che con quei trampoli riusciva anche a salire sui pioli della scala senza batter ciglio.

Attese circa tre minuti anziché uno, ma non poté dire di essersi annoiato mentre lo guardava aggirarsi a passo sicuro tra gli scaffali a prendere tomi quasi senza guardarli, come se conoscesse l'intera libreria a memoria centimetro per centimetro. Alla fine tornò con una pila che contava tredici libri.

«Archeologia del vampiro non lo abbiamo più, ma posso ordinartelo se pensi ti possa interessare... ci vorrà una settimana, al massimo. Se riesco a trovare il mio amico al reparto spedizioni però posso averlo in due giorni.»

«... Tutti questi parlano di vampiri?»

«Ne ho molti di più che parlano di vampiri, ma secondo la mia personale esperienza questi sono quelli attendibili... per prendere un vampiro non ti interessa sapere chi coniò quella parola, che cosa credeva di aver visto Stoker in Olanda o che il gonfiore cadaverico indusse ignoranti popoli medievali a impalare giovani donne defunte nelle loro bare.» disse lui. «E poi ci sono tanti altri libri che sono pura fantasia, non hanno nessun fondamento se non la creatività di qualche scrittore dell'horror...»

«Sono tanti.» commentò Crowley scorrendone i dorsi. «Non so se troverò il tempo di leggerli tutti quanti.»

«Se vuoi sapere qualcosa di particolare lo potresti chiedere a me, detective Eusford.»

L'uomo si appoggiò con i gomiti al ripiano nero lucido, intrecciò le dita delle mani e vi posò il mento senza smettere di sorridere.

«Mica li saprai a memoria, no?»

«Non ne ho bisogno. Dopotutto, io sono un vampiro in carne corrotta e ossa maledette.»

Crowley lo fissò dritto negli occhi rossi per diversi secondi. Certo, il West End era famoso per ospitare una certa quantità di personaggi insoliti, per citarne uno il famoso Licantropo di West End conosciuto alla polizia per un numero record di denunce per disturbo della quiete pubblica nelle notti di luna piena; era lì che avevano fondato la Congrega della Quinta Luna Crescente, una comunità di adoratori degli spiriti naturali che avevano la bizzarra abitudine di camminare scalzi e intonare cori in determinati giorni dell'anno... ma entrare per la prima volta nel West End dopo anni e trovare un vampiro libraio nel primo negozio in cui entrava?

I tipi strani li conosceva da sempre; dopotutto era di origini irlandesi, e gli irlandesi mai trascorrevano una vita intera senza vedere almeno una volta un folletto o una fata, neanche i più cattolici di loro. Pure nella sua carriera breve in polizia non aveva mancato di incontrare un ladro convinto che fosse un angelo a dirgli cosa prendere e a chi, una donnina che parlava a Santa Lucia, una donna convinta di aspettare il prossimo Gesù nel suo grembo, e un ragazzo che aveva cercato di mordergli un braccio perché era convinto di essere un ghoul e di potersi alimentare solo di carne umana... perché avrebbe dovuto trovare più strano e meno interessante un tizio convinto di essere un vampiro?

Crowley rispose al suo sorriso, abbandonò i libri sulla pila e si appoggiò al bancone. Si avvicinò tanto da lasciare solo pochi centimetri tra il suo naso e quello sottile del sedicente vampiro e sorrise anche più ampiamente quando notò un leggerissimo segno rotondo intorno alle iridi rosse: portava lenti a contatto.

«Un vampiro vero, mh?»

«Sissignore~»

«È la prima volta che ne vedo uno, almeno credo... sei piuttosto umano a vederti.»

«Sai, non amiamo molto farlo sapere in giro... preferiamo far finta di non esistere, e funziona benissimo.»

«E allora... cosa spinge un vampiro a dire a un mortale che è un vampiro?» domandò Crowley, passandosi con finta noncuranza il dito sotto il colletto della maglia. «Stai per mordermi?»

Per un attimo Crowley ebbe il timore che lo facesse davvero: il modo in cui guardò il dito scoprire un centimetro di pelle del collo era lo stesso in cui un disperso nel deserto avrebbe guardato dell'acqua fresca zampillare da una fontanella ed ebbe l'impressione che avesse accennato ad aprire la bocca come per dare un morso, tuttavia non lo fece.

«Beh... non si incontra tutti i giorni un uomo che...»

Ma non seppe mai che tipo di uomo il vampiro non incontrasse spesso perché dal retro apparve una figurina minuscola con il vestito nero che scaricò un calcio sul polpaccio del libraio, facendolo urlare di dolore e saltellare sulla gamba sana. Pronunciò una parola incomprensibile, poi la ragazzina gli pestò il piede di sostegno e lo fece cadere a terra. Crowley, perplesso e vagamente allarmato, si sporse per guardarlo e lo vide tenersi il polpaccio e lanciare un’occhiata mortifera alla ragazzina, con le lacrime agli occhi.

«KRUL! Mi hai fatto malissimo, ma sei pazza?!»

«Ti pago per vendere i miei articoli, non per rimorchiare i clienti!» inveì la ragazza. «Se ti pesco di nuovo a fare il cascamorto ti licenzio di nuovo, mi hai capito?!»

«Tanto mi riassumi tutte le volte!»

La ragazza di nome Krul sollevò il piede, dotato anche quello di uno stivaletto con tacco affilato. Quei due armati di speroni acuminati rimandarono al poliziotto la bizzarra immagine dei combattimenti tra galli organizzate dalle gang ispaniche.

«Mi hai capito, Ferid?!»

«S-sissignora, ho capito...»

«E allora muoviti e lavora, non hai nemmeno finito di etichettare gli athame

«Lo stavo facendo, ma è entrato un cliente!» protestò Ferid rimettendosi in piedi. «Ma se vuoi che ignori i clienti per appiccicare etichette basta dirlo, lo sai?!»

«Non voglio che li ignori, ma non devi flirtarci, e lo fai sempre.» commentò lei seccamente, e guardò Crowley. «Non ti montare la testa, non sei mica l'unico.»

«Non è un po' indisponente, signorina?» domandò Crowley. «Se fosse stato un altro sarebbe uscito di corsa dal suo negozio. Per quanto la possa sorprendere Ferid mi stava servendo benissimo.»

Accennò alla pila di libri posati sul banco, che la ragazza guardò con espressione indecifrabile per un certo tempo.

E praticamente questa è un'aggressione a piede armato. Chissà se me l'accetterebbero come dicitura sul verbale.

«Beh, quand'è così, continuate pure. Anche se preferirei che Ferid continuasse a servirti benissimo a una certa distanza personale.»

«Mi dispiace molto.» rispose Crowley sorridendo. «Ero incuriosito dai suoi occhi rossi e ho voluto vederli da vicino... non succederà più.»

«Bene, allora.»

«Potresti almeno scusarti per avermi scarnificato una gamba!»

«Sai benissimo per quali motivi te lo meriti comunque.»

La ragazza che pur con quei tacchi non arrivava al metro e settanta scomparve in una saletta adiacente, della quale il poliziotto intravide solo una parete coperta da centinaia di ciondoli, senza aggiungere parola. Ferid sibilò come un serpente a sonagli.

«Piccola strega sadica, maledetta subdola schiavista di...»

«Allora ti chiami Ferid, uh? Che origine ha questo nome? Suona bizzarro.»

«Uh... beh, è arabo.»

«Arabo, uh? Non sembri arabo, però.»

«Non lo sono, ho solo un nome arabo.»

«Giusto, è perfettamente sensato.» commentò Crowley. «Sai che cosa significa?»

Ferid lo guardò come se tanto interesse nelle sue faccende fosse strano, il suo sguardo divenne sospettoso.

«A quanto ne so, significa "speciale” o “prezioso".»

«Ehh...? Cavoli, Ferid, è un nome importante... e ce l'hai da sempre?»

«Ma che vuol dire, scusa?»

«Beh, sei un vampiro... non trovi difficile nascondere il fatto che non muori né invecchi mai? Pensavo che ogni tanto cambiassi nome.»

Questo ragionamento lo prese in palese contropiede, ma poi sorrise più che mai. Crowley non poté non trovare divertente che si emozionasse tanto a essere preso sul serio quando era palese che la sua fosse una recita appena smentita dal fatto che si era fatto prendere a dolorosi pestoni da una donna della taglia di una bambina.

«Non ne ho bisogno, io. Ho questo nome da sempre e non lo cambierei mai.»

«Lo capisco... sai, ho un amico che invece cambierebbe nome domani se potesse.»

Crowley rimuginò un po' sul nome di Ferid, su quello di George dal significato tutto sommato poco edificante di “agricoltore”, e sul proprio, dal significato più evocativo di “figlio di un grande eroe”; anche se gran parte delle comunità non irlandesi lo considerava di etimologia inglese e quindi come “bosco dei corvi”.

«Perché tanto interesse per i nomi? Sei un appassionato di onomastica?»

«Oh, no, no davvero… ma sai, sta per nascere un altro mio nipotino, e la mamma mi ha chiesto di scegliergli il secondo nome. Non ho molta fantasia per cose del genere, quindi cerco ispirazione.»

Normalmente quando gli era capitato di accennare alla nascita dei suoi nipotini -benché in realtà fossero i figli dei suoi cugini- la gente si congratulava con lui come fossero figli suoi, porgeva gli auguri, gli chiedeva quando sarebbero arrivati o altre cose. Ferid non commentò nulla e rimase a guardarlo con quell’ambiguo sorriso.

Alla fine si riscosse dai suoi pensieri sui nomi e sulle convenzioni sociali e pensò che avrebbe fatto meglio a sbrigarsi a tornare in centrale se voleva anche mangiare qualcosa.

«Senti, dammi i libri in cui si parla delle loro abitudini e della loro predazione, non posso comprarli tutti oggi, sono venuto in moto.»

«Predazione, uhm? Che termine accurato, detective~»

«Quando riesco guardo National Geographic.»

Ferid sorrise, scelse cinque libri e solo a quel punto usò il computer per leggervi i codici a barre. Mentre strisciava la sua carta di credito Crowley non poté non pensare con una certa ilarità a quanto fosse strano vedere un sedicente vampiro con tanto di abbigliamento vintage usare con tanta disinvoltura un pos. Non smise di sorridere neanche mentre metteva i libri dentro un ampio sacchetto con il logo del negozio e gliela porgeva, seppure quello fosse il congedo.

«Torna a trovarmi, detective Eusford... per gli altri libri, se vuoi una scusa per farlo.»

«Credo che lo farò... per gli altri libri.» replicò Crowley prendendo la sporta. «Grazie, Ferid. Sei stato molto utile.»

«Buona giornata, detective~»

Crowley aprì bocca per ricambiare il saluto e nello stesso momento un fracasso di vetri rotti lo fece tacere. Girò la testa alla ricerca della fonte del rumore senza venirne a capo. Ferid uscì da dietro il bancone e raggiunse un angolino: vicino allo scaffale dove era esposto il libro di Aleister Crowley un piccolo quadretto appeso alla parete era caduto mandando il vetro in frantumi.

Ferid lo raccolse con gran delicatezza nonostante non fosse altro che una stampa di una poesia con un disegno di un uccello nero in calce. Crowley si chiese se non fosse un pezzo di valore insospettabile o se fosse qualcosa di sentimentale, perché Ferid sembrava molto turbato.

«Ehi, è tutto okay?» gli domandò. «Era in vendita o era solo decorativo?»

«Non... non è niente... farò... sistemare il vetro.»

«Beh, tanto meglio... buona giornata, Ferid.»

«Detective, aspetta. Solo un attimo.»

Ferid posò distrattamente il quadretto sul tavolino più prossimo e sparì nella stanza dei ciondoli dove era andata Krul poco prima. Crowley lanciò uno sguardo al quadro e poté scoprire che era una semplice stampa effetto pergamena con scritta la poesia di Edgar Allan Poe chiamata Il corvo, e l'uccello scuro era proprio uno di essi. Che Ferid fosse un ammiratore delle sue opere?

Perché no, è il tipo di letteratura inquietante che gli calzerebbe a pennello addosso.

Ferid ritornò di fretta dalla sala adiacente così come l'aveva raggiunta, gli si avvicinò e gli infilò dalla testa una collana prima ancora che avesse modo di capire che cosa stesse per fare.

«Ehi, che stai...»

«Portala con te, è un amuleto.» gli disse. «Ti proteggerà dal male.»

«Ferid, ti ringrazio, ma io sono irlandese, ho Dio che mi protegge...»

«Se vuoi puoi credere che sia Dio a dirmi di dartelo, ma tienilo.» tagliò corto lui, e glielo infilò sotto la maglia. «Non rifiutarlo, fammi questo favore. Te lo regalo io, portalo addosso almeno per oggi.»

Il suo sorriso era scomparso, aveva un'aria preoccupata e la sua unica priorità sembrava essere che gli accordasse quel favore. Crowley si domandò se non avesse a che vedere con quel quadro rotto, se non fosse un presagio di sfortuna come rompere uno specchio... non credeva a questo genere di superstizioni, ma da buon irlandese sapeva che gli oggetti fortunati esistevano; non poteva arrecare nessun danno alla sua anima immortale indossare un ciondolo regalato con una buona intenzione, quindi pensò che fosse molto più facile per entrambi se glielo concedeva.

«Beh... non è un problema con il tuo capo?» gli chiese sottovoce, vedendola ricomparire sulla soglia.

«Lo pagherò io, non c'è nessun problema con Krul.»

«Mh... beh, a me non cambia niente, quindi se ci tieni tanto...»

«Grazie, detective... allora, arrivederci.»

«Buona giornata, Ferid.»

Crowley attraversò i pochi metri fino alla porta e uscì lasciandosi alle spalle nuovamente il rumore del campanellino.

Ferid rimase qualche istante in piedi a guardarlo camminare sul marciapiede per avvicinarsi alla moto, poi gli voltò le spalle per rimediare ai vetri rotti sul pavimento. Si trovò di fronte Krul, per quanto con quella statura gli arrivasse appena al collo.

«Che cosa gli hai dato, Ferid? Non sarà una delle collane del sortilegio d'amore, vero? Ti prego, dimmi che non è quella.»

«Certo che non lo era...» replicò lui, e le girò intorno andando a scribacchiare un appunto velocissimo su un blocchetto. «Puoi detrarla dallo stipendio? Non ho contanti.»

«Neanche stavolta?»

«Io non ho mai contanti.»

«Hai paura di essere rapinato o che cosa?»

«Senti, Washington aveva l'alitosi, Jefferson era uno sbruffone, Hamilton era una spia britannica e Franklin se lo portasse il diavolo, era di una saccenza insopportabile.» ribatté Ferid. «Grant poi, mai visto un tale guerrafondaio nella mia vita, e porca miseria quanti ne ho visti! Non voglio la faccia di quella gente nel mio portafoglio.»

Krul emise una risata sottile che era molto raro sentire.

«Ah, Ferid, sei davvero una sagoma... ma non mi hai detto che collana gli hai dato, alla fine.»

Ferid sparì nel retro del bancone recuperando la scopa e solo quando vide che al suo ritorno Krul era ancora in attesa di una risposta si rassegnò: non avrebbe mollato l'osso finché non avesse ceduto, ne poteva stare certo.

«Gli ho dato lo scudo di San Michele.»

«Lo scudo di San Michele?» ripeté lei, sorpresa. «Deve andare in guerra domani o che altro?»

Ferid radunò le schegge di vetro, pensieroso, poi si voltò verso la vetrina. La moto non c'era più, Crowley era già andato via.

«Non credo che debba aspettare domani.»

Krul lo guardò con vaga perplessità, ma non replicò e rimase in silenzio mentre Ferid spazzava via i vetri rotti. Prese la cornice della poesia, forse per domandargli che cosa intendesse farne ora, quando il rombo di un tuono venne da fuori dove il cielo si era già fatto scuro. Un rumore familiare fece notare loro che le tende viola che riparavano le vetrine iniziavano a venire scosse da un vento crescente. Stava per arrivare tempesta.

 

 

Quando Crowley tornò dalla saletta dove avevano stipato tre grosse fotocopiatrici con tutte le copie dei suoi ultimi rapporti a malapena notò quanto diluviasse fuori dalla finestra: con in mano le cartelline di otto plichi, le fotocopie sotto il braccio e il naso ficcato tra le pagine a cercare di capire come diavolo quello strumento infernale avesse fascicolato aveva ben poco interesse per le condizioni climatiche.

Raggiunse la sua scrivania ma parte delle sue copie scivolarono da sotto il suo gomito e si sparpagliarono per terra, facendogli alzare gli occhi al cielo con sulle labbra un paio di ricercati epiteti in gaelico. Si chinò sbuffando a raccoglierle e si sedette scomposto sulla sedia cercando di capire come era meglio procedere per riordinarle.

«Ehi, Crowley!»

Alzò gli occhi sulla ragazza che gli aveva parlato.

«Ehi, Chess.»

La conosceva bene Chess Belle, un recente ma promettente acquisto della squadra omicidi con la quale aveva frequentato anche l'accademia di polizia e, per qualche settimana, avevano frequentato insieme anche il suo letto. Come succedeva quasi sempre al detective Eusford, si era lasciato in ottimi rapporti di amicizia con la sua ex. I suoi vispi occhi color nocciola scorsero la scrivania e il caos che vi regnava sopra.

«Hai fatto tardi per sistemare i rapporti?»

«Tardi?»

Guardò il suo visetto che dava ancora l'idea di stare parlando con una ragazzina e realizzò che cosa gli sembrava anomalo: di solito non incrociava Chess al lavoro, lui smontava alle sei e lei entrava in servizio poco dopo per il turno di notte; anche se a causa del serial killer di West End gli orari di tutti erano sottosopra di solito non la vedeva alla centrale. Guardò l'orologio e vide che erano già le sette e sette minuti.

«Accidenti.»

«Se continui con tutti questi straordinari finirà che ti licenzieranno per risparmiare!»

«Di solito non li segno mai... non è colpa di qualcuno se mi metto a sistemare scartoffie quando dovrei andare a casa.»

«Ti do una mano? Sto aspettando il capitano, ho tempo.» si offrì lei.

«No, figurati, che stai dicendo? Prenditi un caffè se hai tempo. Oggi non era neanche tanto male.»

«Dai, ti aiuto, o alla fine della settimana sommergeranno anche un orso grande e grosso come te!»

«Beh...»

Il caos era immenso e quando posò gli occhi sulle fotocopie rimescolate avvertì una vaga fitta alla tempia.

«Grazie, Chess.» cedette alla fine. «Ti devo un favore.»

«Ma che, non ho nemmeno ripagato tutti quelli che mi hai fatto tu all'accademia! Tutte quelle ripetizioni, e le ore che hai passato a insegnarmi a sparare senza che la pistola mi saltasse via di mano? Dovrei sistemarti i fascicoli finché non andrai in pensione!» disse lei in tono allegro. «Neh, Crowley, è nuovo, quello?»

Accennò al proprio collo e Crowley sollevò la mano, toccò la collana che gli aveva dato Ferid e ne fu sorpreso. Aveva dimenticato di averla, nemmeno l'aveva guardata bene e le lanciò un'occhiata rapida. Si trattava di uno scudo a forma di ala piumata con una piccola croce. Sul retro era incisa una frase in latino, ma non si preoccupò di leggerla e cacciò l'amuleto sotto la maglietta.

«Non è niente, è solo un regalo che mi hanno fatto...»

«Un regalo, eh? Una nuova ragazza?»

«No, no... un... un amico e basta.»

Crowley si mise a girare i fogli tutti dallo stesso verso, mentre Chess prese alcuni incartamenti e li spostò sulla sua scrivania per guadagnare spazio. Per caso spostò proprio quelli che aveva posato sulla sportina del negozio. Il logo catturò l'attenzione della ragazza.

«Magick... che negozio è?»

Allungò la mano per prendere la sportina e forse sbirciarci dentro, ma Crowley fu più veloce e l'afferrò, ficcandola nel cassetto con troppa urgenza per farlo passare come un gesto naturale. La ragazza ridacchiò.

«È un regalino per una ragazza, vero? È una cosa sexy?»

«Chess, ti prego... sono irlandese, noi non facciamo regali del genere...»

«Ma smettila con questa storia dell'irlandese tutto casa e chiesa, non ti calza proprio... dai, fammi vedere, ti dico se è un bel regalo per una donna o no!»

«Non è un regalo per una donna, ti ho de... no, Chess, dico sul serio!»

Impedì al cassetto di scorrere per più di un paio di centimetri e incrociò lo sguardo di Chess: sembrava molto divertita.

«Dev'essere una cosa piccantissima se tu ti vergogni di averla comprata!»

«Sono libri, okay? Soltanto libri, e sono per me... ora, possiamo tornare a...?»

George Purcel entrò trafelato nella sala interrompendo la loro discussione: era bagnato fradicio.

«Chess, andiamo, abbiamo una chiamata dal West End! Una bambina di otto anni è scomparsa dal giardino della Congregazione della Quinta Luna, potrebbe averla presa il nostro uomo!»

«Il Vampiro di West End?!» esclamò Chess, e prese giacca, distintivo e pistola. «L'hanno visto?!»

«No, ma un testimone della Congrega ha detto di aver visto la bambina salire su un'automobile!» disse lui. «Andiamo a prendere quel bastardo, la stradale sta cercando la macchina, lo troveremo, stavolta!»

«Siete da soli, Purr?» domandò Crowley.

«Dakin e Dom stanno andando sul posto proprio ora!»

«Vengo con voi.» disse, e prese l'arma infilandola nella fondina.

«Crowley, nemmeno dovresti essere qui a quest'ora, avanti!»

«Sono il più alto in grado tra voi quattro.» tagliò corto infilando la giacca a vento. «Finché non ci raggiunge il sergente o il capitano qualcuno deve prendersi la responsabilità di questo.»

«Ah, fa' come ti pare, testone d'un irlandese!» sbottò Purcel. «Basta che metti il tuo culo in macchina in fretta!»

Non che ci fosse bisogno di farglielo presente: si scaraventò sul sedile posteriore della macchina veloce come se stesse scappando dalla mietitrice in persona e pochi istanti dopo Purcel lanciava l'auto a sirena spiegata per le strade battute dalla pioggia impietosa lungo il percorso più breve per il West End.

Comunicazioni della polizia stradale si susseguivano alla radio alla quale Chess rispondeva comunicando con l'altra pattuglia formata da Dakin Atkinson e Domenic Rosetti, entrambi amici di Crowley da alcuni anni.

Non l'abbiamo ancora perso. Se non lo perdiamo di vista non può uccidere quella bambina come ha fatto con gli altri. Gli serve tempo per il suo rituale.

Gli sembrò un'eternità quella che impiegarono per raggiungere il West End e per attraversarne buona parte per portarsi in zona, ma finalmente ci arrivarono: la stradale aveva perso di vista la Charger turchese per qualche minuto quando poi era riemersa in una zona più a sud, probabilmente sperando di aggirare i blocchi stradali per passare uno dei ponti e raggiungere il distretto di South River.

Quando la stradale comunicò la nuova posizione dell'avvistamento i tre poliziotti sull'auto trasalirono e Chess strizzò gli occhi per cercare di vedere qualcosa nella pioggia. Crowley le prese la radio dalle mani.

«Siamo i più vicini, tenete gli occhi aperti!» esclamò Purcel.

«A tutte le unità stradali in zona West End, detective di terzo livello O'Brian Eusford.» disse nella radio. «Se dovesse cercare di sfondare un blocco non sparate per nessun motivo, ha con sé una bambina. Limitatevi a tracciare la sua posizione, non lo dobbiamo perdere neanche per un attimo.»

«Ricevuto, detective.»

«Eccola!» esclamò Chess. «La Charger del '70 turchese, dev'essere lui, Purcel!»

«Dove accidenti siamo?»

«Credo che siamo sulla Twilight... no, sul Jefferson Boulevard!»

«Dieci-ottanta! Dakin, abbiamo un contatto, sul Jefferson Boulevard, va in direzione del fiume, lo inseguiamo!»

Dopo un vistoso gracchiare la voce profonda di Dakin gli rispose con la consueta pacatezza e fermezza.

«Gli tagliamo la strada... questa volta lo abbiamo in pugno, Crowley.»

«Certo che sì.» commentò Crowley, ma aveva già deposto la radio.

Sfilò la pistola d'ordinanza dalla fondina, aprì il finestrino e venne immediatamente investito da vento freddo e pioggia impetuosa. I suoi occhi si fissarono sulla Charger che aveva accelerato, ma non abbastanza da staccare gli inseguitori. Aveva paura di perdere il controllo in quella tempesta o semplicemente non voleva seminarli?

«Crowley... che cazzo vuoi fare con quella, non puoi sparargli!»

«Sparerò alla gomma.»

«È rischioso per la bambina e tu nemmeno sei un gran tiratore!»

«Ho un brutto presentimento, Purr, bruttissimo.»

«Crowley...» iniziò titubante Chess.

«Quello ci scappa se non lo fermiamo adesso, è il suo territorio! Perché ha rapito una bambina in un posto frequentato come la Congregazione, perché con una macchina così vistosa, quando le altre volte era praticamente invisibile? Ci vuole prendere in giro, se lasciamo che faccia come vuole ci sparirà sotto il naso in un vicolo, in un garage o chissà dove!»

Detto ciò ignorò Purcel che imprecava contro i suoi presentimenti e Chess che gli elencava ottime ragioni per non essere impulsivo, si sporse con il busto dal finestrino e si ritrovò inzuppato come se si fosse immerso direttamente dentro un acquario. Tese le braccia e puntò l'arma davanti a sé, ma di certo erano condizioni terribili per sparare con precisione: riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti, la pioggia era così fitta da rendere i fanali accesi una sorta di bagliore senza forma e negli spruzzi che si sollevavano dall'asfalto le ruote erano praticamente inesistenti...

La Charger inchiodò in un testacoda, i fanali li accecarono e per poco la frenata improvvisa di Purcel non scaraventò Crowley sull'asfalto dato che era fuori dal finestrino fino alle cosce: dovette aggrapparsi alla sirena per scongiurare il rischio ma nel farlo l'arma gli scivolò dalle mani.

Successero molte cose simultaneamente: Crowley si aggrappò al tettuccio per saltare fuori dal finestrino e recuperare la sua arma, Purcel e Chess scesero spalancando le portiere, il conducente della Charger scese e puntò su di loro una Desert Eagle. Scoppiò un lampo nel buio, Chess gridò e cadde a terra, Purcel imprecò e una serie di colpi esplosero; uno di essi mandò in pezzi il finestrino dello sportello dietro il quale il detective si stava riparando.

«Chess! Crowley!»

«La prendo io!»

Sparò dei colpi contro l'uomo senza quasi badarci; erano solo un diversivo per potersi avvicinare a Chess. La raggiunse e lei gli si aggrappò alla spalla con la mano che tremava. Non riusciva a vedere dove fosse stata colpita ma le sue dita erano insanguinate e cercò di soffocare il panico mentre la trascinava di peso al riparo dietro l'auto.

«Va tutto bene, Chess, va tutto bene.» disse, non sapendo se cercava di rassicurare lei o entrambi. «Resta qui, io...»

Il respiro e con esso le parole restarono impigliati nella gola quando si accorse di altre figure lungo il marciapiede, tutte armate di pistole il cui metallo rifletteva la luce dei fanali e del lampeggiante blu. Fu costretto ad abbandonare Chess sull'asfalto per puntare l'arma contro di loro e sparare, ma una dozzina di lampi precedettero di un istante i proiettili. Mentre il finestrino si sbriciolava sull'asfalto Crowley sbatté la schiena contro la carrozzeria con la sensazione di essere appena stato investito in pieno da un camion.

Si portò la mano al petto mentre la destra si lasciava sfuggire l'arma, la sua vista si inclinò e si ritrovò a terra con un dolore sordo al torace, il respiro corto, una pungente sensazione di freddo e la pioggia che gli batteva sul viso. Sentiva un forte ronzio nelle orecchie, tipico disturbo dato dall'esplosione di colpi d'arma da fuoco ravvicinati, e da molto distante gli arrivavano voci che gridavano, rumori, sirene... una sgommata precedette un'altra serie di tuoni, ma Crowley non riusciva nemmeno a girare la testa per vedere cosa stava succedendo. Cercò di dire qualcosa, di chiamare Chess o Purcel, anche soltanto di pronunciare una parola per pregare, ma gli uscì dalle labbra solo del liquido con il sapore ferroso del sangue.

Tutto tacque, tutto tranne la pioggia e il fischio dei timpani. Il cielo era uno sfondo grigio-nero, il lampeggiante blu stava ancora baluginando, ma era tutto quello che vedeva. Il corpo non si muoveva come voleva, a malapena riuscì a muovere le dita, ma sentì solo la ruvidezza dell'asfalto e l'acqua.

«Crowley! Mio Dio, Crowley, mi senti?»

Nel suo campo visivo apparve un viso familiare protetto da un cappuccio antipioggia: cortissimi capelli biondi tendenti al bianco, il naso con la gobba che si era rotto in gioventù, le rughe intorno agli occhi di un delicato colore verde, la bocca dalle labbra sottili e segnata dalle rughe del vizio del fumo... il capitano della squadra omicidi di New Oakheart, Joey Alford, era chino su di lui.

«Crowley, per l'amor del cielo, resisti! Chiamate i soccorsi subito, è ancora vivo!» urlò a qualcuno. «Subito!»

Crowley cercò nuovamente di parlare ma i muscoli della sua mascella erano così contratti da non riuscire a non serrare i denti. Tutto il suo corpo iniziò a muoversi involontariamente mentre il freddo aumentava e la vista si appannava. Alford gli strinse la mano.

«Resta con me, ragazzo, resta con me! Non sei ancora pronto a scoprire se Dio è rosso di capelli come credete voi ubriaconi irlandesi, hai sentito?»

La sua schiena si piegò contratta da una convulsione e Alford tentò di tenerlo fermo come poteva; lo sentì gridare da distanze siderali per sollecitare i soccorsi. Il respiro gli era sempre più difficoltoso e seppe, in un remoto angolino ancora un poco lucido della mente, che stava davvero per andare a conoscere Dio. La mano che Alford non stringeva tra le sue si sollevò quasi di sua propria volontà, dato che Crowley non la sentiva più, e annaspò sul petto. Joey serrò le dita intorno a quella e si chinò per guardarlo negli occhi ancora più da vicino.

«Resta qui, ragazzo... non siamo ancora pronti a lasciarti andare... resta con noi...»

La vista gli parve tornare un po' più lucida, forse solo perché non gli pioveva più sul viso, ma puntò gli occhi blu in quelli del suo capitano. Non sentiva più le estremità, ma le sue dita strinsero con forza quelle dell'uomo. Continuò a guardarlo e a prendere rochi, dolorosi respiri mentre l'uomo iniziava a recitare l’Ave Maria, ma prima che terminasse di recitarla la seconda volta l'udito di Crowley si spense. Pochi attimi dopo i suoi occhi blu si rovesciarono all'indietro e perse i sensi.

 

* La storia sarà aggiornata ogni sabato mattina, salvo eccezioni di necessità, che saranno comunicate sui canali elencati di seguito. Se un capitolo verrà rimandato sarà pubblicato non appena possibile e la notifica sarà inviata ai follower su Facebook e Twitter.

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Capitolo 2
*** Quattro rose viola ***


Joey Alford aveva perso il vizio del fumo da circa dieci anni, sostituendolo dapprima con l'insalubre mania di rosicchiarsi le unghie e in seguito con una quantità spropositata di gomme da masticare: fu sorpreso di veder riemergere quel tic che la sua stessa moglie aveva detestato tanto e dopo cinque giorni tutte le sue dieci dita avevano unghie decimate fino quasi a sanguinare.

Quando un'infermiera entrò nell'ambulatorio si spostò rapidamente alle sue spalle e tentò di sbirciare all'interno. Intorno al letto vide il medico con una piccola pila intento a eseguire un esame di reattività della pupilla, un'infermiera che staccava elettrodi e altre due che si affaccendavano a fare chissà che cosa. Non vide altro in quella manciata di secondi prima che la porta si richiudesse.

«Maledizione.»

Si voltò martoriandosi il pollice già provato, ciondolando verso le sedie del corridoio, quando la porta si riaprì: uscirono tutte le infermiere tirando e spingendo il letto. Tentò di seguirle ma venne bloccato dal medico. Gli ci vollero alcuni secondi per ricomporsi.

«Allora, come sta?»

«Gli esami non evidenziano danni cerebrali, nonostante la massiccia perdita di sangue... i due colpi hanno mancato il cuore di un soffio, uno da un lato e uno dall'altro, e nonostante l'arresto cardiorespiratorio il corpo non ha subito conseguenze... è... non ho mai visto niente del genere nella mia carriera, e ho fatto vari esami aggiuntivi perché... beh, perché non ci si crede.» ammise il medico. «Che posso dire? È un miracolo. Non è morto e tra qualche tempo uscirà di qui praticamente come nuovo. Se non è un miracolo questo non so cosa potrebbe esserlo.»

«Eh! Certo che lo è, dannazione! Posso parlarci adesso?»

«Beh, sì... gli abbiamo tolto l'ossigeno, ora riesce a respirare, quindi può anche parlare... ma è ancora convalescente dall'operazione, quindi non lo faccia alzare né agitare... è nella stanza... Marjorie, nella dodici?»

Un'assistente sanitaria con la divisa color giallo si fermò mentre passava loro accanto tenendo in mano una rosa e guardò il medico vagamente confusa per un attimo, poi annuì.

«Se sta parlando del signor Eusford, sì, nella dodici...»

«Grazie.» rispose Alford.

Cercò per la seconda volta di partire con il suo passo notoriamente spedito, ma la donna lo trattenne per il braccio e gli porse la rosa.

«L'hanno lasciata per il paziente, può portargliela lei?»

Gliela mise tra le mani e si affrettò a tornare al carrello sanitario e spingerlo via con il suo macabro carico di guanti usati, asciugamani impregnati di sangue e altre cose che al capitano ancora davano un solenne fastidio allo stomaco. Abbassò gli occhi verdi sulla rosa, che aveva un lungo stelo senza spine, una corolla di petali di un viola intenso ed era avvolta da un foglio di carta da composizione che era argentata dentro e nera sull'esterno, stretta da un lungo nastro rosso intorno al gambo.

Scrollò le spalle e partì spedito per raggiungere la stanza dodici: trovarvi dentro Crowley che si appoggiava più dritto contro i cuscini con l'aiuto di un'infermiera fu un balsamo per lui dopo quella difficile settimana.

«E il popolo eletto sarebbero gli ebrei? Sono gli irlandesi, piuttosto!»

Crowley girò la testa, incrociò il suo sguardo e sorrise, ignorando del tutto l'infermiera che metteva un nuovo flacone alla flebo nel suo braccio.

«Capitano... oh, non dirmi che quella è per me, ti potrei ammazzare. Lo sai che non sono il tipo di uomo che si conquista con i fiori...»

«Eh? Ah, questa? No, te l'ha lasciata qualcun altro poco fa, non so chi.»

«Vi porto un vaso per quella.» disse l'infermiera. «Devo tornare per portare gli effetti personali del signor Eusford, in ogni caso.»

Senza attendere risposta la donna uscì dalla stanza. Crowley sorrise, chiedendosi con una certa curiosità se non fosse stato Dakin Atkinson a mandargli quel fiore, mentre il capitano si sedeva accanto al letto su una delle sedie per i visitatori. Aveva un aspetto trasandato e vagamente malsano, come di chi non mangia bene e dorme abbastanza da un po'. Lui forse si rese conto di come lo guardava, perché si passò le mani tra i capelli chiari striati di bianco e sospirò profondamente.

«Per la miseria, Crowley... mi hai fatto tribolare per giorni... non ho più l'età per questo stress, lo sai?»

Crowley cambiò espressione e il suo sorriso scomparve. Girò la testa guardando dalla finestra il cielo coperto del primo pomeriggio. Nella sua mente scorsero stralci sconnessi di ricordi: la chiesa di Saint Thomas dove padre Gilbert teneva la messa, la fotocopiatrice inceppata, Ferid saliva su una scala con dei tacchi vertiginosi, Chess cercava di prendere qualcosa dal suo cassetto... Chess che gridava e cadeva a terra sull'asfalto.

Crowley trasalì e deglutì a fatica mentre i lampi e i tuoni degli spari si ripetevano nella sua memoria, poi girò la testa per guardare il capitano Alford. Non si sentiva più niente dentro il corpo se non uno stomaco pesante come un'incudine.

«Da quanto tempo sono qui?»

«Beh... ti hanno operato e poi... sei rimasto incosciente per cinque giorni.»

«Chess... come sta Chess? L'ha colpita...»

La fermezza dello sguardo del capitano bastò come risposta. Cercò di deglutire, ma sentiva la gola completamente asciutta.

«N-no.»

«Mi dispiace, Crowley...»

«Non può essere.»

«Siete finiti dritti in una trappola... quando sono arrivato con i rinforzi della stradale i bastardi si sono dispersi, qualcuno l'abbiamo preso quella sera, ma...» iniziò Alford, e sospirò. «Non c'è stato nulla da fare... eri l'unico ancora vivo quando sono arrivato.»

«L'u... l'unico... che cosa... George? George è morto?»

«Chess... George... Domenic e Dakin, che sono arrivati a vostro supporto... erano già tutti morti quando siamo arrivati...»

L'addome di Crowley si contrasse producendo un involontario movimento delle spalle, si morse il labbro e si coprì la bocca con il pugno serrato stretto così forte da tremare. Vide che la vista gli si offuscava e chiuse gli occhi che bruciavano.

«Mi dispiace, Crowley... se solo fossimo arrivati due minuti prima non avrebbero osato iniziare un conflitto a fuoco con decine di agenti... non ho parole per dirti quanto sono affranto per la loro perdita... ma tu sei ancora qui, e starai bene, questo è...»

«La bambina.» sussurrò con un filo di voce. «La bambina è viva?»

Non vide il capitano chiudere gli occhi come colto da un dolore fisico, ma l'esitazione nella risposta era già un presagio.

«Purtroppo no... l'abbiamo trovata la mattina dopo nel cimitero di Silver Waters... stessa cosa dei casi precedenti...»

In uno scatto d'ira tirò un pugno così forte che ammaccò l'alluminio del comodino e lo scaraventò contro il letto vuoto accanto, ribaltandolo con un fracasso da svegliare un isolato intero. Per un momento di surreale silenzio che seguì si sentì solo una delle rotelline che continuava a girare a vuoto, poi Alford si alzò e lo rimise in piedi trascinandolo al posto di prima.

«Per favore, non perdere la testa, Crowley.»

«Metà della nostra unità è MORTA!» sbottò lui. «Come diavolo è successo?! Stavamo seguendo il Vampiro, da dove sono arrivati quegli altri?!»

«Erano membri dei Silver Fang... tutti molto giovani, probabilmente i novizi pronti per il rito d'iniziazione...»

«Un... rito d'iniziazione?! Ma quale gang si mette a sparare contro dei poliziotti per testare i nuovi?!»

«Abbiamo preso qualcuno di loro, l'alpha era un ragazzo di nome Echevierra, Antonio Echevierra... era quello al volante della Charger.»

«Co... al... volante? Non era il Vampiro?»

«A quanto pare il bastardo si è fatto vedere apposta a prendere la bambina.» disse Alford, stringendosi le mani intrecciando le dita. «E poi, sapendo che avrebbero cercato la macchina, è andato nella zona dei Silver Fangs a dirgli che avrebbe pagato mille dollari per ogni poliziotto che ammazzavano e di usare la sua macchina per l'imboscata.»

«Non era in macchina quando l'abbiamo trovato...»

«No, c'era già Echevierra... vi ha portati dritti in una trappola, mentre quello psicopatico probabilmente stava già torturando quella bambina in chissà quale cantina o magazzino abbandonato, bello comodo e all'asciutto... ci ha fregato completamente, Crowley. Ci siamo cascati in pieno e abbiamo pagato un prezzo altissimo.»

Crowley non riuscì a dire niente, schiacciato da una tormenta di pensieri burrascosi: una rabbia come mai ne aveva provata prima, il dolore sordo al petto che non aveva nulla a che vedere con la ferita fisica, immagini ripescate dalla sua memoria in cui scherzava con George quando erano ancora bambini, di momenti molto meno innocenti condivisi sia con Chess che con Dom e i dubbi mai del tutto fugati su Dakin e sull'interesse che credeva che nutrisse per lui...

L'infermiera fece ritorno con il vaso dove sistemò il fiore, disse qualcosa che Crowley non sentì nemmeno e lasciò una busta con i suoi effetti personali sulla coperta. La sentì andarsene, il capitano non diceva nulla e così, solo per fare qualsiasi cosa che sembrasse normale prese il sacchetto e lo rovesciò sul letto. Non vi trovò vestiti, ma c'era il cellulare, il portafoglio, il distintivo, la cintura, l'orologio, il crocefisso d'oro e un oggetto ammaccato che non riconobbe.

Lo prese tra le dita e quando lo girò gli tornò in mente che cosa fosse: era l'amuleto che gli aveva messo al collo quel bizzarro uomo della libreria. Ammaccato com'era la novena sul retro era difficile da leggere, ma comprese abbastanza parole latine per capire che era una preghiera a San Michele Arcangelo.

«Ti ha salvato la vita, quello.» disse Alford. «Il chirurgo ha detto che ha deviato due proiettili, e non ti hanno colpito il cuore... se non l'avessi avuto addosso avrei trovato cinque miei uomini morti su quella strada, quindi chiunque te l'abbia regalato o venduto dimmi chi è, perché gli vorrei stringere la mano.»

Crowley voltò la testa e posò gli occhi sulla rosa viola nel vasetto prima di allungare la mano e prenderla. L'osservò ma non trovò alcun tipo di biglietto; non ne fu sorpreso. Un sospetto sul mittente di quell'omaggio iniziò a serpeggiare con insistenza in lui quando notò che era lo stesso viola del logo del Magick, poi lo sguardo gli cadde sul nastro rosso: era di pregevole fattura, non era un nastro di fibra artificiale di quelli usati per i pacchetti regalo, era in vera seta color rosso vivo. Sapeva dove l'aveva già visto e malgrado tutto tirò gli angoli della bocca in un accenno di sorriso.

«Forse l'hai visto.»

«Che cosa?»

«L'uomo che mi ha dato quell'amuleto giusto ieri... ah... no, cinque giorni fa...»

«Dove?»

«Beh, sono abbastanza sicuro che sia quello che ha lasciato questa per me.» replicò, accennando al fiore. «L'ha data a te?»

«No, l'ha lasciato a un'assistente sanitaria, almeno credo. L'ha dato lei a me.»

«Niente di irreparabile... ho come l'impressione che lo vedrò di nuovo...»

Avvicinò il fiore al naso, ma il profumo era appena percettibile, come consuetudine delle rose. La ripose nel vasetto e solo allora cominciò a rendersene davvero conto: posso annusare un fiore. Sono ancora vivo.

«Beh, quando lo vedi digli che un capitano di polizia ci terrebbe a offrirgli da bere.»

«Ah, non so se è una buona idea... io continuerei con la stretta di mano.»

«Perché?»

Crowley si appoggiò ai cuscini. Provava un dolore terribile dentro di lui, gli bastava chiudere gli occhi per rivedere un momento con uno o l'altro dei colleghi perduti, sentiva le lacrime trattenute bruciare ancora, eppure provò l'impulso di ridere quando la domanda fece deviare i suoi pensieri in zona Magick, Ashland street 137, West End.

«Oh, è un tipetto un po'... diciamo che... probabilmente è un po' schizzinoso su quello che beve.»

«Non credo di capire, ma...»

«Non importa... se dovessi vederlo lo capirai subito.»

«È un soggetto così eccentrico il tuo amico? Per regalarti quello credevo fosse uno della tua parrocchia.»

«Ah, decisamente non è della mia parrocchia, no.»

«Qualsiasi cosa voglia da bere ti assicuro che gliela offro, non importa quanto costa.»

Crowley emise una secca risata ma dovette soffocarla, gli dava molto dolore al petto. Il capitano l'invitò a sdraiarsi e riposare, ma se pensava di dare un ordine a un irlandese si era sbagliato di grosso: si scambiarono qualche rispostaccia e alla fine il capitano acconsentì di aggiornarlo sul caso, se Crowley si fosse sdraiato promettendo di non affaticarsi. Scivolò quindi più in basso sui cuscini e fissò il soffitto mentre Alford gli rispiegava nei dettagli l'accaduto e tutte le indagini che erano seguite.

Se quel Vampiro pensava di continuare ad ammazzare bambini innocenti e amici suoi nella sua città si stava sbagliando di grosso e appena dimesso gli avrebbe insegnato che cosa succedeva a chiunque si fosse messo contro Crowley O'Brian Eusford.

 

 

Crowley, vestito di tutto punto e seduto sul letto dell'ospedale accuratamente rassettato da lui stesso, rileggeva accigliato il quotidiano del giorno. Lettere cubitali titolavano sull'omicidio numero cinque dell'ormai famoso Vampiro di West End: la quinta bambina sotto gli undici anni a scomparire per poi essere ritrovata priva di vita, quasi prosciugata del sangue e con il cuore asportato dal petto con tecnica efficace ma rudimentale.

Mentre dall'editoriale saliva lo spettro della discriminazione della polizia verso le vittime -quali un'ebrea, una francese, una russa, una figlia della comunità wiccan e un'asiatica- dalle frecciate abilmente sparse dal Witness Bulletin emergeva la semplice, colpevole incompetenza della squadra omicidi di New Oakheart. Il Morning Telegram dal canto suo addossava la colpa alla politica di tagli alle spese per la sicurezza dell'attuale sindaco, ma il Key Press se possibile faceva anche di peggio, accusando la polizia di perdere tempo dietro a delinquentelli di strada -tali classificava i pericolosi Silver Fangs- anziché dare la caccia al predatore di bambine psicopatico.

Ripiegò il Witness con la sensazione che la testa gli stesse esplodendo e si massaggiò le tempie. Sei mesi: cinque terrificanti omicidi di bambini in sei mesi e la polizia brancolava nel buio nel più classico e letterale dei sensi, senza trovare testimoni, indizi, prove; senza avere anche soltanto un sospettato. La sola cosa certa sembrava essere il giorno prediletto dell'assassino: tutti i suoi omicidi erano caduti di giovedì notte.

Ottimo, pensò Crowley stizzito al solo pensiero, basta arrestare tutte le migliaia di abitanti che non hanno alibi per quei cinque giovedì ed è fatta.

«Ehi, Crowley, hai l'aria di uno che è al lavoro ancora prima di essere dimesso.»

Crowley sollevò la testa ma aveva già riconosciuto la voce del capitano Alford. Non sapeva che cosa ci facesse lì, ma immaginò che avesse qualche novità sul caso, o almeno lo sperava: se prima prendere il Vampiro di West End era una questione importante ora era diventata una missione sacra.

«Capitano, novità?»

«Ah, non proprio… sono venuto a prenderti, sapevo che ti dimettevano oggi.»

«Ah... tutto qui?»

«Mi potrei offendere per questo tono... ma immagino che ti aspettassi delle notizie sul caso, quindi capisco la delusione.»

«Scusami… apprezzo che sia venuto, ma sì… avevo sperato in qualche novità… la stampa ci sta massacrando.»

«Strano, era sembrato anche a me di cogliere questo messaggio, così, tra le righe.» ironizzò lui con un sorriso teso. «Ma ora tornerai al lavoro, e tu sei il nostro uomo migliore… troverai anche un valido aiuto in ufficio.»

«Di che aiuto parli?»

«Ho richiesto qualcuno che potesse darci una consulenza... ci aiuterà a trovare quel figlio di puttana.»

Non aveva la minima idea di chi fosse l'aiuto di cui parlava ma per quanto era disperato avrebbe chiesto aiuto persino a una veggente o a un folletto.

Impilò il giornale sopra gli altri sul comodino e lo sguardo del capitano cadde sulle quattro rose nel vaso, private della carta da confezione: la più vecchia ormai chinava la corolla e aveva perso tutti i petali tranne due, una cominciava a piegarsi, una aveva appena iniziato a cedere la bella forma del suo fiore mentre la più nuova era perfetta come un gioiello.

«Quella è nuova… di oggi?»

«Di ieri.» rispose Crowley. «Me le porta sempre di martedì mattina. Forse è il suo giorno libero.»

«Sei riuscito a parlarci?»

«No, le ha lasciate tutte alle infermiere.»

«Non era un tuo amico? Perché si prende il disturbo di portarti un fiore per quattro settimane ma non di entrare a chiederti come stai? Gli agenti l’avrebbero accompagnato dentro.»

«Penso sia perché non ci conosciamo, ci siamo parlati solo una volta.» ammise Crowley con una scrollata di spalle. «Non mi era sembrato, ma magari è un tipo più timido di quanto credessi.»

«Sei sicuro che sia lui?»

«Ah, su questo non ho dubbi.»

«… E perché?» l'incalzò Alford, dato che non arrivavano delucidazioni.

«Ho controllato su internet… sai che cosa significa la rosa viola?»

«Non posso dire che il linguaggio floreale sia un mio cavallo di battaglia, no.»

«Beh, i siti danno tutti lo stesso significato…» esordì, e con pochi tocchi accese lo schermo del suo cellulare e vi lesse direttamente. «La rosa viola simboleggia l'incantesimo

Alford rimase lì con le mani in tasca in attesa del proseguimento, che però non venne perché Crowley ficcò il cellulare nella tasca dei pantaloni con un sorriso che avrebbe avuto uno che aveva appena presentato la prova più lapalissiana del creato.

«… E quindi?»

«E quindi, non mi stupirei se fosse un incantesimo vero.»

«Crowley, o tu hai preso una botta in testa forte dall'ultima volta che ti ho visto, o a me manca un pezzo fondamentale.»

«Sì, ti manca un pezzo, e ti porto a prenderlo. Portami in un posto prima di andare in centrale, per favore.»

«Ah... beh, se è necessario... dove, a casa?»

«West End, 137 Ashland street.»

 

La perplessità di Alford restò ad alti livelli durante tutto il tragitto fino al West End ma raggiunse la totalità quando si rese conto di che esercizio commerciale sorgesse al numero 137. Rimase così stordito che fissò le vetrine mentre Crowley slacciava la cintura, scendeva dall'auto e si avviava lungo il marciapiede verso l'ingresso; solo quando fu certo che non stava scherzando si decise a seguirlo.

Il campanellino annunciò l'apertura della porta. Come la volta precedente non c'era nessuno dietro il bancone, ma Ferid era in piena vista, seduto in cima alla scaffalatura contrassegnata dalle lettere A-B: accanto a lui c'era una pila di grossi volumi dall'aria antica, ne teneva uno aperto sulle gambe accavallate, il tacco a spillo dei suoi stivali poggiava sul piano della scaletta e sembrava molto assorto nella lettura; questo almeno finché non alzò gli occhi rossi sugli avventori.

«Oh, detective Eusford!»

«Ciao, Ferid.» lo salutò Crowley avvicinandosi alla scala. «Cosa fai lassù? Sembri il gufo di Merlino.»

Ferid non rispose ma gli regalò un sorriso ampio come Crowley pochi ne aveva ricevuti, mise giù il libro che stava sfogliando e scese dalla scaletta malconcia con la scioltezza di qualcuno che percorreva un'ampia e dolce scalinata di marmo. Crowley allungò la mano per aiutarlo a scendere dati i tacchi quasi al livello di quelli della volta precedente, ma lui non la prese e con un balzo saltò gli ultimi tre pioli senza nemmeno un indizio che facesse pensare che potesse perdere l'equilibrio su quegli stivali così alti come un qualsiasi altro mortale soggetto a forza di gravità.

La prima cosa che fece fu passare le braccia intorno al collo di Crowley con una confidenza decisamente eccessiva data la scarsa conoscenza tra loro, ma lui quasi se lo aspettava, al contrario di Alford.

«Ah, non puoi sapere quanto sono felice che tu sia uscito dall'ospedale~» gli disse lui, senza considerare assolutamente la presenza di Alford e il suo sbigottimento. «E sei anche venuto a trovarmi appena uscito~»

«Sì, beh, ho qualcosa di tuo.»

«Se parli del cuore lo puoi tenere~»

Riesce a dire cose così straordinariamente imbarazzanti persino davanti ad altri? Decisamente non ha evitato di vedermi in ospedale per timidezza, chissà che cosa ha raccontato alle infermiere di lui e di me...

Crowley non riuscì a non sorridere nonostante questo pensiero e sfilò dalla tasca dei pantaloni un lungo nastro rosso di seta. Gli bastò un istante per capire che Ferid l'aveva riconosciuto.

«Credo proprio che questo sia tuo... non è che li hai finiti, eh, Ferid?»

Ferid si passò la mano nei capelli sciolti e li gettò indietro sulla schiena senza accennare una risposta positiva né negativa. Il suo sorriso si allargò se possibile ancora di più.

«Come fai a dire che è mio?»

«È il tuo nastro per i capelli, lo portavi quando ci siamo visti qui in negozio il mese scorso.»

«Uhm? Non sono sicuro di averne uno di quel colore.»

«Certo che ce l'hai... sono un poliziotto, i dettagli sono il mio mestiere.» insistette Crowley. «E poi, c'è un'altra cosa.»

«Impronte digitali? DNA?»

«Olio di cocco.»

Questa volta Ferid sembrò molto sorpreso, ma si riprese quasi subito e sorrise di nuovo. Crowley dubitava che potesse sembrare più felice persino il giorno del suo matrimonio; i suoi occhi quasi brillavano per l'entusiasmo tracimante.

«Questo nastro odora di olio di cocco.» spiegò, più a beneficio di Alford che di Ferid. «E l'olio di cocco si usa per rendere i capelli lucidi... anche i tuoi, no? Sotto quel faretto al bancone luccicano più di tutto quello che c'è nelle teche del negozio.»

Una volontaria eccedenza di complimenti, non troppo invasiva: una tattica che portava la firma di un certo istruttore dell'accademia di nome Vic Schmidt e che con certe personalità narcisiste dava più frutti che a sconquassare un albero di mele mature, per dirla proprio alla sua maniera. Con Ferid fu uno strike esemplare e l'uomo gli sfilò il nastro dalle dita.

«Sono colpevole, detective Eusford, lo confesso~»

«Sei anche recidivo, direi.»

Estrasse il nastro di seta viola lasciando che Ferid se lo riprendesse sfilandolo dalla mano come aveva fatto con quello rosso e non abbassò il braccio continuando a guardarlo. A lui ci volle qualche istante per notare che il nastro di velluto nero era avvolto intorno al suo polso, ma quando lo vide non ci fu bisogno di dirgli altro: tirò l'estremità sciogliendone il nodo e ne recuperò un giro per volta con tutta la calma di chi si sta godendo il momento. Crowley non riuscì a fingere di non divertirsi quando vide i suoi occhi rossi indugiare sul polso sinistro dove portava solo l'orologio.

«E quello blu dov'è, detective Eusford? Me l'hai sequestrato?»

«Oh, ne manca uno? Devo averlo lasciato nella mia borsa.» rispose Crowley. «Te lo riporterò la prossima volta.»

«Lo spero davvero, mi piace molto quello blu.»

«Ma a voler essere del tutto onesti, Ferid, sono qui per parlare di un'altra cosa di cui sei colpevole.»

Un vago stupore balenò sul suo viso. Non rispose, passando il nastro rosso dietro il collo e sollevandovi la chioma argentata lucente. Gli bastò una manciata di secondi per ottenere una coda fluida retta da un fiocco di seta perfettamente simmetrico, poi tornò a guardare il poliziotto. Crowley tirò fuori dall'altra tasca una catenella e poi fece capolino il misero resto deformato dello scudo di San Michele, dondolando; Ferid allungò la mano toccandolo con palese sorpresa che non riuscì o non volle celare.

«Sei stato tu a darmi questo... e questo ha impedito che due proiettili mi si piantassero nel cuore.» gli disse. «Consapevole o no, mi hai salvato la vita... grazie.»

Ferid sorrise e lasciò la collana.

«È stato un piacere, detective.»

Dalla saletta delle collane emerse una coppia di giovani ragazze, a giudicare dal loro aspetto in età da primo anno di università: avevano scelto qualche braccialetto colorato e la bionda delle due teneva in mano una collana a forma di cuore.

«Ah, scusatemi un momento.» disse Ferid ai due uomini, e raggiunse la ragazza bionda. «Oh, allora hai scelto, tesoro?»

«Sì... spero tanto che faccia effetto...»

«Lo farà, garantito.» le assicurò lui passando dietro il bancone. «E quando tua sorella troverà l'uomo dei suoi sogni tornerai a dirmelo, vero?»

«Se lo trova, verrò a comprarne una anche per me!»

«Funzionano meglio se vengono regalate, sai?»

Ferid guardò l'amica afroamericana della bionda e le fece un fugace occhiolino che le fece ridacchiare entrambe.

Crowley lo guardò con tutto un nuovo interesse: quasi non sembrava nemmeno lui ora che aveva abbandonato quel tono da donna provocante e quella gestualità femminile accentuata. Con le spalle più rilassante, con quel tono cortese ma non affettato in cui emergeva di più il timbro di voce di un uomo, con i movimenti e la camminata sensibilmente meno femminili a Crowley suscitò un interesse separato dalla sua pretenziosità esoterica, una sincera curiosità verso la sua persona piuttosto che un superficiale desiderio di osservarne i modi buffi.

«Eccolo qui, sono bravo con i fiocchi, hai visto?» disse alla ragazza, dandole un pacchetto regalo dal nastro rosso. «Serve anche a te?»

«A me no, sono tutti per me questi!» rispose gioviale la ragazza afroamericana.

«Non posso credere che tu abbia bisogno di tutti questi braccialetti per l'attrazione, bella come sei... sei forse innamorata di un ragazzo cieco?»

La ragazza, dopo essere rimasta in un silenzio imbarazzato per qualche attimo, iniziò a borbottare qualcosa troppo piano perché i due poliziotti riuscissero a sentirla; anzi anche Ferid si sporse un poco sul bancone per ascoltare quello che gli stava dicendo.

«Beh, ha un suo perché, non trovi?» sussurrò con un certo divertimento Crowley al capitano. «Certo si vende benissimo.»

«Crowley, davvero?»

«… Cosa?»

«Lo so già che tu non sei per niente un cliente difficile, ma quel tipo…»

«No… no, ehi, Alford, che dici? No, non sto dicendo che mi interessa, è…»

«Non serve mica che tu lo dica, si vede.»

«… Capitano, con tutto il rispetto… se questo è l'intuito da poliziotto che ti è rimasto, vattene in pensione

«Crowley, devo parlarti di una cosa… volevo aspettare di rientrare in centrale, ma alla luce di…»

Le due ragazze salutarono Ferid con tanto entusiasmo che le loro voci indispettirono le orecchie di Alford e s'interruppe. Ferid le salutò con la mano.

«Se non funziona ricordatevi che io sono sempre qui e sono anche scapolo!»

Ferid non smise di sorridere quando le perse di vista fuori dalle vetrine e guardò i due poliziotti. Assistettero alla sua riconversione: cambiò postura e si appoggiò al bordo del mobile con un appeal inequivocabilmente femminile. Questa sua spaccatura così evidente era fonte di grande curiosità per Crowley, che pur avendo avuto parecchi partner uomini non ne aveva mai visto uno dalle facce così vistosamente diverse.

«Che cosa stavamo dicendo, signori?»

«Nulla, in realtà, ma già che ci siamo posso presentarti il capitano della squadra omicidi?» chiese Crowley, indicandolo. «Ci teneva a conoscere chi mi aveva dato l'amuleto e a offrirgli da bere.»

«Offrire da bere? A me?» domandò lui sorpreso, e si accigliò. «E tu gli hai spiegato a cosa va incontro?»

«Gli ho detto che hai dei gusti sofisticati, sì.»

Ferid girò lentamente intorno al bancone senza staccare gli occhi dal capitano, facendo ondeggiare un po' il bacino a ogni passo gli andò vicino e i due si guardarono negli occhi per un momento che a Crowley sembrò incredibilmente lungo tanto era gravido di tensione. Alford aprì bocca per dire qualcosa nello stesso momento in cui Ferid si avventò contro il suo collo.

Crowley l'afferrò per il braccia tirandolo indietro con uno strattone ma si accorse subito che non lo aveva morso: Alford si toccò il collo con l'aria disgustata di qualcuno che si sente camminare un grosso insetto sulla pelle e Ferid emise un sospiro tremulo denso di piacere frustrato, abbandonandosi di schiena contro il petto di Crowley.

«Ahh, che buon odore... gli uomini maturi non sono i miei preferiti, ma per te farei un'eccezione senza pensarci due volte!»

«Oh, avanti, Ferid, ti sembra il modo di comportarsi?» gli chiese Crowley, cercando di stare più serio di quanto si sentisse con una risata bloccata da qualche parte in gola. «Trattalo bene il mio vecchio capitano.»

«Oh... oh, cielo, detective, non mi avrai mica portato già tuo padre?» domandò Ferid, allarmato. «Se l'avessi saputo mi sarei vestito un po' meglio di così!»

Crowley non riuscì a soffocarla due volte e rise, un po' perché era divertente che avesse davvero pensato che Joey Alford fosse suo padre, un po' chiedendosi in che cosa consistesse il vestito migliore di Ferid coi precedenti che aveva. Alford invece era estremamente serio, non sembrava nemmeno essersela presa per i commenti sull'età. Gli porse la mano molto formalmente.

«Sono Joey Alford, il capitano di Eusford.» si presentò. «Non sono sicuro di aver capito il suo nome.»

«Oh... Ferid. Ferid Bathory. E il lei non serve, non sono così vecchio né così importante.» disse Ferid, con un sorriso. «Sono solo un umile libraio, dopotutto.»

«Da dove vieni, Ferid? Sei di qui, del West End?»

«Ormai sì, ci vivo da tanti anni... ormai è casa mia.»

«Però hai un accento britannico ancora discretamente marcato... sei inglese?»

«No, davvero? E io che credevo d'averlo perso del tutto ormai... spero non ce l'abbiate ancora con la Madre Patria, nel caso vi dico subito che io vivevo in Russia quando avete combattuto per l'indipendenza.»

Crowley ignorò il delirio di Ferid e guardò di sottecchi il suo capitano. Non era da lui fare tante domande a una persona appena incontrata; nemmeno a quelli della sua squadra aveva mai domandato se fossero nati a Satbury o in altri distretti, e quando lo vide allungare la mano e sfiorare l'orecchino rosso di Ferid capì che qualcosa non quadrava. Non si sarebbe mai permesso tanta confidenza con nessuno, non il capitano che conosceva ormai da anni.

Restò a fissarlo mentre parlava di star pensando di regalare a sua moglie degli orecchini per giustificare il suo interesse e dovette dominarsi per non esplodere mentre erano lì.

Probabilmente il modo in cui si congedò da Ferid dieci minuti dopo fu sbrigativo e freddo comparato a come si erano salutati all'arrivo, ma non vi fece caso e a malapena attese che la portiera del guidatore si chiudesse dopo che Alford ebbe preso posto al volante.

«Che cosa diavolo era quella messinscena di prima, capitano?» domandò bruscamente Crowley. «Tua moglie se n'è andata in Francia dieci anni fa. Che erano tutte quelle domande e perché ti interessavano tanto i suoi orecchini, posso saperlo?»

«Sì che puoi saperlo, ma non qui.»

Alford manovrò per uscire dal parcheggio e si immise nel traffico verso Satbury. Solo dopo aver controllato gli specchietti quattro volte in dieci minuti si decise a rilassare leggermente la schiena.

«Echevierra ha deciso di patteggiare stamattina.» gli comunicò. «In cambio ha fatto i nomi dei ragazzi che non avevamo preso e ci ha dato una descrizione della persona che ha incontrato, quella che gli ha promesso i soldi e lasciato la Charger.»

«Che stai cercando di dirmi, che quella persona è Ferid?»

«Ha detto che non sa dire se fosse un maschio o una femmina, era un tipo ambiguo. L'ha detto lui, ha detto proprio ambiguo. Pioveva, era già buio e si copriva il capo con una mantella cerata... aveva anche una sciarpa o qualcosa del genere su naso e bocca, ma ha detto di ricordare sopracciglia chiare, occhi celesti e che l'uomo o donna che fosse aveva un orecchino pendente rosso.»

«Non essere ridicolo, Alford, non può essere lui.»

«E perché? Perché ti ha dato un amuleto che per pura fortuna ti ha salvato? Perché il suo cuore è tuo e puoi tenerlo?»

«Sei veramente uno stronzo quando fai così.»

«Quello voleva ammazzare te e tutti i tuoi amici e io sono lo stronzo?»

«Sopracciglia chiare, occhi celesti e un orecchino rosso, dici sul serio? Posso arrestare dieci persone che calzano questo straccio di descrizione anche solo tra quelli che mi sono scopato nell'ultimo anno!»

«Linguaggio, ragazzo.» l'ammonì il capitano.

«Quello che voglio dire è che non è una descrizione affidabile.» ribatté Crowley, cercando di contenere il suo scatto d'ira. «Non ha saputo dire neanche il colore dei capelli... e poi che ne sai? Non sai di che colore ha gli occhi Ferid sotto quelle lenti a contatto.»

«Perché non te lo fai mostrare, visto che siete diventati amici?»

«Non apprezzo la tua ironia, capitano, e se vuoi che io scopra altri indizi del tutto circostanziali che ti facciano avere uno straccio di ipotesi plausibile che quell'uomo è il Vampiro di West End dovrai chiedere un mandato.» tagliò corto. «E sappiamo tutti e due che nessuno ti firmerà neanche un tovagliolo solo perché Ferid vive nel West End e porta degli orecchini rossi.»

«Quel tizio pensa di essere un vampiro, davvero non ti è venuto neanche un sospetto?»

«Quel tizio finge di pensare di essere un vampiro, c'è una bella differenza.»

«Bene, allora cominciamo dall'inizio... invitalo al distretto a fare una chiacchierata informale con te su dov'era giovedì. Ogni giovedì in cui è morta una bambina.»

«Sono d'accordo, Alford. Cominciamo dall'inizio... da un'indagine che abbia un capo e una coda, per esempio.»

Non si dissero altro lungo la strada fino alla centrale e Crowley guardò fuori dal finestrino per tutto il tempo. Era sconvolto dal dolore come il capitano e probabilmente anche più, era infuriato con il Vampiro per la sua crudeltà e per la sua vigliaccheria come lo era il capitano, voleva prendere il bastardo come lo voleva lui... ma per convincerlo che tra le centinaia di migliaia di persone del West End era andato a inciampare per caso proprio sul Vampiro ci voleva molto di più di un paio di vaghe allusioni. Non avrebbe creduto che quell'uomo fosse un assassino di bambini finché non avesse trovato una pila di rapporti di prove scientifiche e logiche alta almeno quanto i suoi tacchi.

 

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Capitolo 3
*** Caccia al Vampiro ***


Crowley credeva che tornare al lavoro l'avrebbe aiutato a stare meglio, a sentirsi meno colpevole di essere stato il solo a sopravvivere; che tornando a combattere le battaglie quotidiane avrebbe visto il grande disegno di Dio per lui, il motivo per cui meritava di vivere più di Chess, di George, di Dom e di Dakin... ma quello che non aveva previsto era quanto sarebbe stato doloroso rientrare in centrale e vedere le loro scrivanie occupate dalle persone che avevano sostituito i suoi compagni. Sentì una stretta al cuore vedendo che non c'era più la piantina rigogliosa sulla scrivania di Dakin, e gli scacchi fermacarte di Chess non erano più sparsi sulle cartelline come li metteva lei, rigorosamente alternando uno bianco e uno nero.

Raggiunse la sua scrivania con la sensazione di avere qualcosa impigliato in gola, quindi non vi si sedette; deviò verso la caffettiera e si versò una tazza in modo quasi automatico, così come senza prestarvi alcuna attenzione ne prese un sorso. Era caldo, ma non percepì alcun sapore e questo era un enorme passo indietro nel suo combattimento per tornare alla vita.

Girò su se stesso bruscamente e tornò alla scrivania, sedendosi sulla sua sedia cigolante, e prese a spulciare le copie dei rapporti alla caccia di quelli del caso del Vampiro di West End.

Non so chi tu sia, ancora. Non so che faccia tu abbia, ma è successo, bastardo. Non mi hai ucciso e questo è l'errore che ti inchioderà... io ti inchioderò, quale che sia il prezzo.

Per qualche attimo sentì le viscere ribollire di rabbia, ma poi sospirò, abbandonò i fascicoli e si appoggiò contro lo schienale. Lasciò la tazza e si passò le mani sul viso.

No, è sbagliato così... in questo modo non lo prenderò mai... Crowley O'Brian Eusford è l'uomo migliore della squadra omicidi, e lo è perché non si lascia mai schiacciare dalla rabbia o dalla vendetta.

Tolse le mani dal viso e fissò il soffitto beige, respirando profondamente. Iniziò ad accorgersi dei suoni dell'ufficio: dei telefoni, dei passi, del rumore del fax che stampava qualcosa, delle voci di tutte le altre persone che non aveva nemmeno degnato di uno sguardo o di un saluto. Percepì l'odore del caffè, del deodorante al talco di qualcuno, il profumo zuccherino di una ciambella o di un dolce simile e si accorse di avere fame.

Raddrizzò il collo e lasciò scorrere gli occhi tutt'intorno. I colori di tutto sembravano più vividi di prima. Notò le facce familiari così come quelle nuove e le studiò tutte con la spontanea, disinibita curiosità dei bambini.

Rimase lì a osservare per qualche minuto, ad ascoltare le voci, prendendo consapevolezza della questione più importante che non doveva più perdere di vista: era ancora vivo. Era vivo, poteva prendere l'assassino dei suoi amici, ma voleva anche dire che poteva fare ancora tutto quello che gli piaceva di più. Poteva ancora sentirsi importante per la comunità, poteva chiacchierare con gli amici, poteva mangiare il pasticcio di carne, poteva bere birra, poteva ancora sentire tra le braccia il corpo di una donna o di un uomo, poteva fare una doccia calda, e migliaia di altre piccole cose che rendevano la vita praticamente perfetta...

«Eusford?»

Crowley girò lentamente sulla sedia e guardò la donna che gli aveva parlato. La conosceva, era Rachel Bailey, una ragazza dall'aria così dolce da immaginarla molto più facilmente come maestra d'asilo o toelettatrice di piccoli animaletti graziosi piuttosto che come agente di polizia. Ormai aveva trent'anni ma sembrava ancora una ventenne, non la vedeva da qualche anno ma ricordava molto nitidamente quanto gli fosse piaciuto baciare quel viso rotondo e passare le mani fra i suoi riccioli castani, senza voler indugiare su altri tipi di linee curve.

«Ciao, Rachel. Come va?»

«Beh... sto bene, io, e tu?»

«Mh, è una domanda un po' bizzarra da farmi... se tu sei qui e non all'unità interventi speciali ci sarà un motivo.»

«Certo, io... so cosa è successo... mi dispiace, è stata una cosa sciocca da dire. Sono desolata.»

«Ho perso un amico che è cresciuto insieme a me... ho perso dei colleghi che erano più che semplici compagni di lavoro... sì, pensare che io possa dire che sto bene è sciocco, Rachel, anche perché sai che io non mento mai, neanche per far piacere a qualcuno.»

«Sì, so anche questo...»

«Ma se vuoi sapere di me, del mio corpo, ti posso dire che sto bene.» aggiunse Crowley, pacato. «Per aver preso due proiettili nel petto sto quasi troppo bene.»

«Allora è vero quello che dicono...? Ti hanno sparato al petto... sei rimasto in coma, e...»

«Sono stato in coma cinque giorni e ho avuto due arresti cardiorespiratori... e non avrò nessuna conseguenza.»

«È davvero... incredibile...»

«No, non così tanto... avevo un incantesimo che mi proteggeva, forse.»

«Un... cosa?»

«Un incantesimo. Sai, noi irlandesi siamo dei prodigi nel mescolare Dio, fate e folletti, è il nostro mix-and-match preferito.» disse Crowley; scrollò le spalle e bevve un sorso di caffè. «Non badarmi... non ho danni cerebrali per la scarsa ossigenazione, sto solo straparlando perché ho una fame tremenda

Dopo un attimo di smarrimento Rachel sorrise e Crowley si ricordò improvvisamente perché avesse deciso di corteggiarla dopo averle parlato solo una volta mentre erano in coda all’ufficio postale.

«Magari in questo posso aiutarti io.»

La guardò con curiosità mentre trafficava sulla scrivania nascosta da un paio di scatoloni di reperti archiviati, poi gli porse una ciambella glassata avvolta in un fazzolettino. Sì, era un cliché che ai poliziotti piacesse mangiare ciambelle, e in realtà un cliché che non tangeva Crowley O'Brian Eusford in modo particolare, ma aveva abbastanza fame da mangiare persino una zuppa di testicoli di serpente. La prese e fece per addentarla, ma si fermò.

«È la tua colazione, Rachelie?»

Il suo viso arrossì appena e Crowley si rese subito conto che era perché gli era sfuggito il nomignolo di quando stavano insieme. Avrebbe voluto potersi rimangiare quell'ultimo suono: anche se non avevano litigato nel vero senso del termine la storia tra di loro era letteralmente naufragata a causa dell'ossessivo attaccamento di lei e non voleva che pensasse che quella loro relazione fosse un ricordo nostalgico o che avesse mai pensato di dar loro una seconda possibilità.

«Non ti preoccupare, De Stasio ne ha portata una scatola intera, ne prenderò un'altra.»

«De Stasio? Dante De Stasio, della narcotici?»

«Ora è della omicidi, ha chiesto il trasferimento dopo aver saputo che cosa è successo nel West End.»

Crowley diede un morso alla ciambella, assorto. Prima di passare alla squadra omicidi era stato agente di pattuglia per un breve periodo dopo l'accademia, e aveva lavorato tre anni alla narcotici in coppia con Dante De Stasio: un uomo brillante, intelligente, famelico divoratore di informazioni di qualsiasi genere, con la regola d'oro di non fermarsi mai alla prima ipotesi; regola che applicava mirabilmente sul lavoro, alle amicizie, alle donne e persino al carrello della spesa.

È un ottimo acquisto per la squadra omicidi, è uno capace e furbo, pensò Crowley guardandosi intorno per individuarlo, lui mi può aiutare a prendere il Vampiro di West End. Lui almeno non penserà a scaricare addosso a Ferid quegli omicidi solo perché è un istrione di proporzioni cosmiche.

Proprio mentre si chiedeva se Alford non stesse parlando di De Stasio parlando di un aiuto valido alle indagini una figura superò la soglia dell'ufficio e gli bloccò il boccone di ciambella in gola. Si voltò bruscamente sulla sedia anche se l'aveva già addocchiato e gli veniva incontro; cercò un posto per nascondere il dolce ma non fece in tempo a buttarlo in un cassetto a caso.

«Crowley, stai mangiando quella roba, ti ho visto.»

Senza produrre suoni udibili sospirò e richiuse il cassetto.

«Ehi, Horn.»

«Non sembri felice di vedermi.»

«Non è questo... sei... cosa fai qui, piuttosto?»

«Il tuo capitano ha chiesto una profiler all'unità comportamentale e quindi eccomi qui.»

Crowley provò la pulsione di alzare gli occhi al cielo in una muta richiesta di soccorso e per non farsi notare li chiuse per un attimo, ma la bella donna bionda lo conosceva abbastanza da leggerlo piuttosto bene. Dopotutto, se non fosse stata capace di leggere le intenzioni e sensazioni di un uomo che conosceva, come sarebbe stata in grado di farlo con qualcuno di cui non conosceva nulla?

Uno dei suoi tacchi picchiettò il pavimento mentre incrociava le braccia sotto il seno prosperoso in palese irritazione. Crowley sapeva che era in arrivo una sfuriata, anche sua madre faceva sempre così quando era ragazzino e la faceva arrabbiare. Sperò soltanto che non intendesse parlare di nuovo di quella notte sulla spiaggia di Boca Agua.

Tutto tranne Boca Agua, Signore, ti prego.

«Allora, che cosa c'è? Sei contrariato, perché?» domandò lei, con un tono discretamente pacato. «Pensi che puoi benissimo fare tutto da solo? Che non ti serve un profiler? Che non ti serve una donna come aiuto?»

«Horn... ti prego, sai che non...»

«O il problema è che la donna non è abbastanza bella?»

Crowley intrecciò le dita posando i gomiti sulla scrivania e appoggiò la fronte contro le mani, quasi nascondendovisi dietro.

Signore, perché questo, perché adesso?

«Horn... a parte che questo non è né il momento né il posto adatto a discuterne, lo abbiamo già fatto, mi sembra...» esordì, cercando di tenere la voce più bassa possibile. «Non ti ho... respinta perché non eri abbastanza bella...»

«Sì, questo me l'hai detto, ma non ho avuto alcuna risposta chiara sul perché.» disse lei. «Nemmeno il più classico "ho un'altra donna, non posso", proprio niente. Sei solo scappato in piena notte e sei sparito.»

Crowley ponderò che in effetti avrebbe potuto essere un po' più coraggioso sul momento e parlare chiaro subito, ma l'assalto di quella donna era talmente serrato che non era stato sicuro di riuscire a opporvisi a lungo. Dopotutto quel week end a Boca Agua era stato un delirio di perdizione con alcol a fiumi che aveva quasi steso persino lui, un irlandese di buona razza e buona stazza.

«E dire che non mi sembri così intransigente con le tue partner, ne hai per tutti i gusti.»

La pazienza di Crowley, già provata dal penoso discorso e dalla situazione generale, andò in pezzi quando vide i suoi occhi scrutare Rachel con aria critica.

«Horn, per l'amor di Dio, ti ho respinta perché eri ubriaca.» sbottò alla fine, un po' più bruscamente di quanto avrebbe voluto. «Hai ragione, non ho gusti così difficili con le donne, mi basta che siano graziose e che siano una compagnia piacevole quando ci parlo, ma non vado a letto con donne ubriache. Questo mai e mai lo farò.»

Horn rimase in silenzio e nemmeno all'occhio discretamente esperto di un detective ebbe reazioni visibili. Alla fine il silenzio venne rotto dalla voce di un uomo che era alta e salda, eppure non perdeva il suo tono pacato: la voce di De Stasio.

«Vecchio mio, ti avevo detto che un giorno saremmo stati di nuovo compagni.»

«Vecchio mio dovrei dirlo io, sei tu il più vecchio.» replicò Crowley, ma sorrise e gli strinse la mano. «Che vento di burrasca ti porta qui, De Stasio?»

«Che domande fai? Hai un problema grosso, Crowley. Sono venuto ad aiutarti a risolverlo.»

«Avevi detto che non avresti mai lasciato la narcotici.»

«Non la lascerò.» confermò lui. «È troppo importante per me... ma resterò finché non prenderemo il Vampiro di West End. Anche tu sei importante, quindi eccomi. Disponi di me come tuo alfiere.»

La passione per gli scacchi di De Stasio emergeva sul lavoro grazie a simili riferimenti ai pezzi e alle mosse. Avevo provato a incastrarlo a giocarci solo alcuni infruttuosi giorni -il minimo indispensabile per rendersi conto che era un totale impedito - e da allora non aveva fatto altro che rimandare agli scacchi ogni volta di più.

Ciò riportò alla mente a Crowley un certo numero di ricordi delle loro operazioni antidroga e ripensò con una certa nostalgia all'agente Eusford di allora: era come pensare a un bambino pieno di sogni, gli suscitava tenerezza e tristezza insieme. Si riscosse sentendo la mano possente di De Stasio sulla spalla.

«Le mie condoglianze per i membri della tua squadra.» gli disse in tono solenne. «So che uno di loro era il tuo partner, Purcel... che era tuo amico da una vita. So che cosa significa perdere qualcuno di così importante.»

«So che lo sai. Grazie, De Stasio.»

Appoggiò la mano sulla sua per un attimo, sentì le dita dargli un'amichevole strizzata sulla spalla e poi scivolare via. Se le passò tra i capelli di un colore castano scuro che sulla fronte sfuggivano al giogo di un elastico che fermava il resto della chioma in un codino dietro la nuca; Crowley lo ricordava ancora con i capelli corti e li osservò con vago stupore. Poi gli occhi verdi di De Stasio fissarono i resti della ciambella sulla scrivania con disappunto e la sua bocca carnosa si deformò in una smorfia.

«Che è quella robaccia, scusa? Sei così disperato da ingozzarti quell'americanata?»

«Sì, beh, è visto abbastanza male che io mangi Sheperd's Pie alle otto di mattina... e poi non le hai portate tu?»

«Sì, per gli americani che stanno qui dentro! Lascia lì quella roba, ti porto un cannolo siciliano che te lo ingozzi intero da quanto è buono.»

Crowley alzò un sopracciglio, chiedendosi se non fosse un doppiosenso voluto. Poi si chiese da quando aveva cominciato a sentire tutto come un doppiosenso erotico.

E dire che non esco con Connor da un po’.

De Stasio lasciò la stanza nel momento in cui il capitano Alford entrò: sembrava brusco e altero come ogni volta che c'era una questione importante.

«Eusford, il tuo nuovo partner è De Stasio, immagino che vi troverete bene dato che avete già lavorato insieme.» annunciò. «Horn Skuld lavorerà con voi in qualità di profiler. Il caso del Vampiro di West End è vostro. Impiega tutte risorse di cui hai bisogno, ma portami la testa di quel figlio di puttana... con un bulbo d'aglio in bocca, se è necessario.»

Crowley sorrise e sentì di nuovo la sensazione di eccitazione, agitazione e fermento che gli dava il lavoro in certi momenti. La sensazione di essere di nuovo in forze, di nuovo in prima linea, pieno di vita e di voglia di combattere. La caccia era aperta.

 

 

Crowley per qualche ora restò ottimista ai limiti della stupidità e lo era ancora quando entrò nella sala colloqui del carcere di Coniston Island.

Antonio Echevierra era seduto ammanettato al tavolo e Crowley incrociò il suo sguardo. Quegli occhi, così scuri da sembrare neri, erano spavaldi, erano arroganti e soprattutto erano ricolmi di disprezzo. Non che quelli blu traboccassero di amore nei confronti di quel criminale che li aveva attirati in una trappola per gloria personale uccidendo quattro poliziotti e quasi spedendone al creatore un altro, comunque.

Crowley si sedette e De Stasio, entrando dopo di lui, restò in piedi incrociando le braccia e guardando il giovane ispanico dall'alto in basso.

«Allora, Antonio.» esordì Crowley, posando una cartellina di fogli sul tavolo. «Come sta andando il tuo soggiorno a Coniston?»

Il giovane uomo lo guardò con disgusto e fece una smorfia.

«El rojo sigue vivo.» borbottò con il pesante accento spagnolo. «Si quieres un trabajo bien hecho, tienes que hacerlo tú mismo

«Il rosso… di che lavoro parli, Echevierra? Mi volevi morto?» domandò Crowley quasi noncurante. «Eppure non penso di conoscerti, giocavamo a football uno contro l’altro, per caso?»

«Ha fatto male?»

Antonio tirò un sorriso sghembo, sollevando le mani ammanettate e mimando una pistola con l’indice e il pollice. Fece schioccare le labbra in una parodia di colpi sparati a ripetizione e Crowley, suo malgrado, rivide i lampi dei colpi scaricati nel suo torace quella sera.

«Quando ti abbiamo svuotato addosso i caricatori, voglio dire.»

Il muscolo della mascella si tese appena, ma non diede altro segno di cedimento nello sguardo o nella voce.

«Sembra una cosa personale.»

Antonio ghignò e abbassò le mani.

«Considerali besos y abrazos da mio cugino.»

«Tuo cugino?»

«Ezekiel Hernandez.»

Crowley guardò il giovane con tutti altri occhi e non escluse che gli si potesse leggere la paura dentro: non una paura di Echevierra, di Hernandez o dei Silver Fang, quanto dell’idea di essere stato la causa attiva di quell’imboscata.

«Como pueden ver, ho un sacco di amici qui. Anche grazie a te.»

«Ah… sei fortunato, sai, Antonio? Io non avrò i miei amici con me per i prossimi trent'anni come li avrai tu.»

«Se sei venuto per delle scuse non le avrai, cerdo, avrei seppellito anche te se ti avessi sparato di persona.»

Crowley avrebbe voluto avere un sorso d’acqua, ma sarebbe stato un segnale di fragilità chiederne a interrogatorio iniziato. Deglutì i suoi dubbi e si focalizzò sulla questione importante.

«Racconta anche a me quella favoletta sull'uomo che ti ha portato una macchina e ti ha promesso soldi per far fuori dei poliziotti...»

«L'ho già raccontato in tribunale, ho patteggiato, feo

«Raccontalo a me, piccolo stronzo, o vado dalla tua ragazza in Magnolia Road e la perquisisco dalle suole delle scarpe all'ultima treccina che ha in testa senza saltare nemmeno un centimetro.» rispose Crowley serio ma calmo. «E lo farò ogni giorno se solo si permette di guardarmi male, finché non le trovo addosso quello che spaccia e sbatto dentro anche lei.»

«Non minacciare la mia donna, cerdo!»

Crowley si sporse di scatto sul tavolo; De Stasio non si mosse di un millimetro come se sapesse già che si sarebbe fermato prima di sfiorare il ragazzo, cosa che infatti fece. Tese un sorriso di scherno quando si accorse che lo sguardo di Echevierra non era più così audace.

«Hai ammazzato i miei colleghi, Antonio. Non ho più niente da perdere, ma tu sì. Tu hai Juana e tua figlia... come si chiama, Amanda, vero? Dimmi... che cosa succede a tua figlia se arresto la tua donna?»

«Non ti permettere di...»

«Io faccio tutto quello che voglio, bastardo, e se non ci arrivi te lo dico io.» l'interruppe Crowley. «Arresterò Juana e la farò incarcerare a Mount Cherokee, dove ci sono i vostri rivali, gli Steel Hands.»

Ora ci siamo, pensò Crowley quando vide la paura passare nel suo sguardo. Gli Steel Hands ormai erano scomparsi da South River e da West End a causa della violenza dei Silver Fangs e non serviva che gli spiegasse che cosa avrebbero potuto fare alla donna di un Silver Fang se l'avessero avuta a portata di mano. Ovviamente non c'era nulla che Crowley potesse fare per farla incarcerare in un posto o in un altro, ma il giovanissimo Echevierra non era di certo pratico di leggi se non di quelle che infrangeva.

«E a quel punto tua figlia Amanda andrà dalla nonna che vive a... oh, a San Diego, dall'altra parte del paese... sarà molto difficile che tu la veda... e quando uscirai sarà già sposata, avrà figli, una carriera e... nessun ricordo dei suoi genitori.»

«Senti, poli...»

«No, stammi a sentire tu, Antonio. Non so se hai ammazzato tu il mio amico George, né se sei stato tu ad ammazzare Dakin e Dom... ma sono sicuro com'è vero che questi capelli sono rossi...» Crowley si interruppe per toccarseli. «Che tu hai sparato a Chess Belle, e basta questo per collocare te, i tuoi cari e tutti i tuoi amici in fondo alla catena alimentare, mi sono spiegato? Raccontami tutto quello che sai e chiudi con le stronzate, perché io sono davvero quello buono dei due.»

Indicò De Stasio alle sue spalle e lui, fedele al copione che lui stesso insegnava alle reclute, lo guardò freddamente per insinuare per lo meno il dubbio che fosse disposto a fare davvero del male a qualcuno fuori dalle mura di Coniston Island. Echevierra lo guardò, tornò con gli occhi a Crowley e alla fine si appoggiò alla sedia sollevando le spalle.

«Como quieres, hombre terco.» rispose lui. «Que quieres saber?»

«Quiero saber a quién viste con la ninha

«Un hombre guapo.» disse lui, diventando improvvisamente nervoso. «A me non piacciono gli uomini, hombre, ma quello era uno bello, capisci cosa voglio dire?»

«Hai descritto molto vagamente quel tizio, vuol dire che l'hai visto meglio di così?»

«Aveva le sopracciglia tagliate, quelle che si fanno certi uomini dal barbiere, entiendes? Aveva occhi chiari, più chiari dei tuoi.»

«Avevi detto che non sapevi se era uomo o donna.»

«Non sono sicuro.» ammise nervoso Echevierra. «Però, como decirlo... i suoi occhi facevano paura. Una donna non può mettere paura in quel modo.»

Crowley si accigliò. Se Horn avesse potuto leggere i suoi pensieri l'avrebbe preso a schiaffi e non era l'unica donna della sua vita che l'avrebbe fatto, ma pensò di capire che cosa Echevierra volesse dire: in tanti anni da poliziotto non aveva mai incontrato una donna criminale che trasudasse il proprio odio, che tracimasse di follia omicida o che incutesse nel prossimo il terrore come riuscivano a farlo molteplici esemplari di criminali uomini.

«Dammi qualsiasi dettaglio che ricordi, Antonio.» l'incalzò Crowley. «Hai parlato di un orecchino. Descrivimelo.»

«No sabes, un orecchino tipo, da donna... pendente. Ha luccicato quando si è girato verso la macchina e ha preso la chica

«Dimmi le esatte parole che ti ha detto.»

De Stasio posò gli occhi su Crowley con l'aria di stare studiando lui anziché il testimone, ma non disse nulla. Crowley fece finta di non notarlo: avrebbe avuto tempo dopo per parlare dei sospetti del capitano su Ferid Bathory.

«Mi ha avvicinato chiedendomi se ero un Silver Fang, e...»

«Voglio le sue parole.» l'interruppe l'irlandese. «Se puoi, imitami il suo modo di parlare, o il suo accento.»

«Non so farlo, ma aveva l'accento di quelli che parlano bene... quelli che sono stati nelle scuole private, sabes

La notizia non fece molto piacere a Crowley, ma scarabocchiò un appunto in calce a un foglio della cartellina dove si era scritto che cosa chiedere a Echevierra. Gli fece un cenno come a invitarlo a proseguire, ma il portoricano rimase per qualche istante in silenzio a pensare, poi sospirò come arrendendosi a obbedire.

«Ehi, bel ragazzo.» disse, come se non avesse mai detto qualcosa di più imbarazzante nella vita. «Tu, parlo con te. E io gli ho detto di girare al largo se ci teneva a portare a casa intera la gola...»

«Elegante.» commentò De Stasio.

«Continua, Antonio. Voglio sentire le sue parole come se fossi stato lì.»

«Non prendertela, bel ragazzo. Ti voglio far guadagnare qualche soldo. Gli ho... chiesto se mi aveva preso per uno che batteva il marciapiede, e lui ha detto: no, niente del genere, non prendertela. Non sei il mio tipo

Crowley non disse niente ma non si accorse di passarsi la mano nei capelli come faceva quando era preoccupato. Potevano essere parole di Ferid? Per come lo conosceva sì, potevano essere uscite proprio dalla sua bocca.

«Vedi la Charger azzurra? È tua, se la vuoi, ma porta con sé un gran numero di poliziotti. Ti pagherò cinquecento dollari per ognuno di loro che spedirai all'altro mondo.» snocciolò in sequenza Antonio. «D'accordo, veniamoci incontro. Mille dollari. Affare fatto, vieni al garage Marrara a South River nei prossimi giorni.»

Seguì un silenzio denso. Crowley scrisse il nome del garage, ma Echevierra lo notò e fece una risata amara.

«Risparmiati la fatica, hombre. Il garage Marrara ha chiuso nove anni fa, adesso c'è un saponificio.»

«Ne sei sicuro?»

«Dovevo andare a prenderci cinquemila dollari, hombre, certo che sono sicuro che non esiste più.»

De Stasio distolse lo sguardo da Crowley e guardò Echevierra aggrottando le sopracciglia castane. Il giovane portoricano scrollò le spalle.

«L'avevo dato per morto, questo sbirro rosso.»

«C'è altro, Antonio? Ha detto qualcosa quando ha preso la bambina dalla macchina?»

«Sì... le ha detto vieni da me, bambina

«E lei?»

«Lei non sentiva niente, era addormentata, o drogata, non lo so.»

Da come lo dice, non sembra inventato… ma se davvero è andata così i Silver Fang non cercavano me… io non sarei dovuto essere con i ragazzi, il mio turno era finito… è stato… un caso?

Crowley non parlò, richiuse la cartelletta, l'infilò sotto il braccio e si alzò dal tavolo. Non degnò Echevierra di uno sguardo finché non arrivò sulla porta e si sentì chiamare.

«Ehi, hombre! Come la metti con la mia donna, adesso?»

Si voltò lentamente e guardò il giovane. Aveva un viso pulito, piacente nei suoi vent'anni, con la pelle olivastra e capelli tagliati corti... a vederlo per strada avrebbe potuto scambiarlo per un qualsiasi ragazzo del quartiere spagnolo di North End, come ne conosceva tanti, come ne aveva tanti per amici.

Invece aveva scelto una gang, aveva scelto di arruolare bambini per insegnare loro a rapinare e aggredire, aveva scelto di ignorare un assassino che portava con sé una bambina svenuta per uccidere poliziotti con cui non aveva neanche conti personali in sospeso… e al colmo dell’ironia macabra, l’unico di cui poteva volersi vendicare era il solo ancora vivo.

«Antonio, l'uomo che hai lasciato andare uccide delle bambine. Augurati che non prenda la tua la prossima volta.»

«Hombre

«Non sono hombre, né poliziotto rosso, né tutti gli altri nomi che mi hai affibbiato. Mi chiamo Crowley O'Brian Eusford.»

«Eusford, entonces. Juana e Amanda...»

«Io non farò niente finché non la vedrò spacciarmi sotto il naso, se è questo che ti interessa.»

Anche se per salvare Amanda sarebbe una buona idea mandarla via.

Era un pensiero doloroso. Stava ammettendo a se stesso di non sapere se sarebbero riusciti a proteggere la prossima bambina della città.

Lanciò un altro sguardo ad Antonio, fece per uscire ma esitò ancora.

«Antonio, tu resterai qui per i prossimi quindici anni. Se davvero tua figlia significa qualcosa per te, dì alla tua donna di andarsene. Falle andare via da qui finché non prenderemo il Vampiro di West End.»

«Mi mujer y mi hija? Mai.»

«La scelta è tua… ma se io avessi una figlia l’avrei spedita dai nonni in un altro stato.» confessò col cuore pesante, senza incrociare lo sguardo. «Per quanto io possa essere in collera con te, non vorrei mai che ti dicessero che tua figlia è stata uccisa. Pensaci su.»

Crowley lasciò la stanza e De Stasio lo seguì richiudendosi la porta alle spalle. Poteva sentire i suoi occhi sulla nuca da quanto intensamente lo stava scandagliando, ma attese che fosse lui a intavolare il discorso; cosa che fece non appena ebbero superato il muro esterno del carcere di Coniston Island.

Temeva entrambi gli argomenti, ma purtroppo ignorò la sua ultima gentilezza nei confronti di Antonio e puntò dritto all’interrogatorio che l’aveva preceduta.

«Tu hai un sospetto.»

«No, non ce l'ho.»

«Non mentire, Crowley... quelle domande sul tono di voce, sull'accento... sulle parole che ha usato... sembrava che tu cercassi di capire se l'idea nella tua testa potesse essere plausibile oppure no... avanti, chi sarebbe questo sospetto?»

«Non è un mio sospetto, è il capitano Alford a sospettare che quella persona possa essere il Vampiro, e senza alcuna prova sicura.»

«Il tuo capitano è questo tipo di persona?» domandò stupito. «Il tipo che si impunta su un sospettato così, a pelle?»

«Non è quel tipo di persona, ma... questa volta ha preso molto seriamente il suo primo istinto.»

«E chi è questo uomo?»

«Beh... lui... non lo dirai a Horn a meno che non sia necessario, De Stasio?»

«Non capisco perché tu me lo chieda, ma va bene.»

Crowley salì in macchina e strinse le mani sul volante, chiedendosi come spiegare quella bizzarra situazione a De Stasio. Era un uomo logico, pragmatico, razionale, che dava peso alle prove, alla scienza e al buonsenso. Non credeva in dio, nel karma, nella reincarnazione, nella magia e nemmeno nella fortuna come energia imprigionabile o trasferibile tramite rituali scaramantici o simboli. Un uomo simile come avrebbe potuto capire il suo incontro con Ferid, l'amuleto, la sparatoria, la rosa viola, e l'equivoco con il capitano? Lo avrebbe preso per pazzo nella migliore delle ipotesi.

Lui percepì la sua titubanza e sospirò grattandosi la testa.

«È il tuo uomo, Crowley? Per questo sembri così preoccupato?»

Crowley lo guardò confuso per un attimo in cui nel cervello gli passarono decine di domande, tra le quali le più importanti: sa che esco anche con degli uomini? È così evidente che questo pensiero mi tormenta?

«Non... santo cielo, no, Ferid non è il mio uomo... ci conosciamo appena...»

«Ferid? Chi è questo tipo? Dimmi qualcosa di lui mentre torniamo in centrale.» disse De Stasio, sfilando una sigaretta dal taschino e aprendo il finestrino. «Non ti giudico da chi ti porti a letto finché non ha meno di diciotto anni, Crowley. Ha meno di diciotto anni?»

«No, certo che... beh... non so quanti anni abbia, ma penso... forse ventitré, ventiquattro anni...?»

«E allora chissenefrega se te lo porti a letto.» confermò lui, accendendosi la sigaretta.

«Non me lo porto a letto...» sospirò Crowley vagamente abbattuto: sembrava che tutti dessero per scontato che qualsiasi persona il cui nome fosse sulle sue labbra fosse passata nelle sue lenzuola. «È un altro tipo di relazione... so che non sarà facile da capire per te, ma...»

Lungo la trafficata strada di ritorno attraverso il distretto di Red Chapel gli raccontò del loro incontro alla libreria e del regalo provvidenziale che gli aveva salvato la vita. Puntò sfacciatamente un all-in sulla forza dell'amicizia che lo legava a De Stasio raccontandogli anche delle rose viola che gli lasciava in ospedale, dei nastri per capelli e di quello blu che ancora non gli aveva restituito, della sua recita di vampiro e dell'incontro tra lui e il capitano Alford. Dante ascoltò in silenzio fumando con aria assorta e si prese un lungo minuto alla fine del racconto prima di parlare.

«Sì, beh... capisco perché ci tieni a dimostrare che non sia coinvolto... scoprire che l'uomo a cui devi l'essere ancora vivo è lo stesso che uccide i bambini della tua città e i tuoi colleghi sarebbe un brutto colpo per te.» disse De Stasio. «Il mio istinto non pizzica, ma dovrei incontrarlo per darti un parere. Lavora oggi?»

«Credo di sì... è sempre passato di martedì all'ospedale, penso sia il suo giorno libero.»

«Andiamoci.» disse De Stasio con sorprendente buonumore. «Prima di rientrare in centrale. Mi hai incuriosito sul suo conto, voglio vedere questo tuo nuovo strambo amico.»

Crowley esitò. Non sapeva se farlo. Non sapeva come avrebbe gestito la faccenda se De Stasio fosse uscito dal Magick con lo stesso sospetto del capitano. Aveva bisogno di alleati per prendere il Vampiro e non di ostacoli, e qualcuno fossilizzato su un'idea era il peggior tipo di nemico che poteva avere all'interno della squadra.

«Non ti fidi più della mia proverbiale osservazione fredda?»

L'osservazione fredda: era con questa espressione che De Stasio definiva la sua tecnica, la sua filosofia di vita; era così che la insegnava alle nuove leve della narcotici. Osservare tutto dalla distanza, senza lasciarsi influenzare da pregiudizi, sospetti infondati, apparenze, reazioni manifeste di vittime, sospettati e testimoni, persino da ideali, fiducia personale e ogni genere di sentimento. De Stasio insegnava a osservare la realtà rimuovendo tutti i filtri possibili affinché la vista fosse limpida.

In quel momento Crowley si accorse che non stava osservando freddamente Ferid. Lo vedeva attraverso tutto quello che era successo tra di loro, lo vedeva con diversi filtri davanti agli occhi: lo trovava divertente, era stato molto colpito dalla sua cultura e disinvoltura nel suo ambiente, gli era grato per avergli regalato altri giorni di vita... troppi filtri per dare un giudizio oggettivo su di lui. Aveva bisogno del giudizio di De Stasio per rimettere le cose a fuoco.

«Ti porto da lui.» disse alla fine. «Dammi la tua opinione.»

«Eh!» fece lui, divertito. «Sembra la stessa scena di quando mia sorella mi ha portato in incognito alla pizzeria dove lavorava il suo ragazzo. Anche lei mi ha detto le stesse identiche parole, solo me le ha dette in italiano.»

Crowley emise una specie di grugnito di disappunto e fece scoppiare De Stasio in una grassa risata. Passò il resto del tragitto fino a West End a pensare se lo avesse mai sentito ridere nei tre anni in cui avevano lavorato insieme e una volta a destinazione concluse che non si era mai lasciato andare a quel punto.

«È questo?» domandò lui, guardando verso le vetrine.

«Lavora qui, sì...»

«Bene, allora entro.» annunciò sganciando la cintura di sicurezza. «Vado a conoscere questo Ferid. Non gli dico che lavoro faccio, sarò in copertura.»

«Gli fai un favore, lo rattristerebbe sapere che sei un poliziotto e non hai nemmeno un manganello per lui...»

«Come?»

«Ah, niente. Niente.»

«Vado.»

«Ah, De Stasio?»

De Stasio si fermò mentre stava per richiudere la portiera dell'auto.

«Togli la cintura... se vede i segni della fondina capisce che fai il poliziotto.»

«Pensi davvero che li noterebbe?»

«Ha notato quelli sulla mia, la prima volta.»

La notizia entusiasmò De Stasio a prima vista e si affrettò a rimuovere l'arma e la cintura.

«Adesso sono davvero impaziente di conoscerlo.» gli disse. «Lo riconosco anche senza che tu mi dica com'è fatto?»

«Lo riconoscerai a prima vista, ne sono certo.»

De Stasio fece un sorriso che mostrava tutta l'eccitazione della novità e attraversò la strada avvicinandosi in fretta al negozio. Crowley lo seguì con gli occhi mentre entrava, ma da quella distanza non riusciva a vedere chi ci fosse all'interno. Attese qualche minuto, poi appoggiò la fronte al volante cercando di prendersi del tempo per riordinare i pensieri, ma era così confuso che si ritrovò a mani giunte e occhi chiusi a pregare che il Dio degli irlandesi lo aiutasse a fare chiarezza e a conquistare la giustizia.

Era ancora così raccolto quando De Stasio spalancò la portiera e si insidiò in macchina facendolo sussultare; guardò i suoi capelli un poco spettinati e la cravatta allentata con il bottone aperto della camicia e provò una sensazione inedita che elaborò con la bizzarra immagine di un lingotto di metallo che gli cadeva dritto nello stomaco come l'avesse ingoiato.

«De Stasio...»

«Il tuo amico Ferid è matto come un cavallo, Crowley.» sentenziò, sistemandosi la camicia. «Capisco che qualcuno potrebbe avere dei dubbi, era fin troppo eccitato all'idea di mordere il mio collo... ma non l'ha fatto.»

«Co... vuoi dire che hai cercato di farti mordere?»

«Era il solo modo di vedere se fosse disposto ad andare fino in fondo, ma quando ha visto che non lo fermavo si è fermato da solo dicendo che non poteva, che rischiava di prosciugarmi da quanta sete aveva.» disse De Stasio, come se per lui fosse all'ordine del giorno chiedere a uomini sconosciuti di mordergli la gola. «Ergo, la mia deduzione è che non mi ha morso perché del mio sangue non se ne farebbe un bel niente, dato che non è un vampiro e mette su un teatrino per gli avventori del negozio.»

«E la seconda?»

Sapendo che non si fermava mai a una prima e unica ipotesi, era morbosamente curioso di conoscere le altre.

«La seconda ipotesi è che non vuole il mio sangue perché vuole solo quello di bambini.»

«... Mi stai dicendo che sei convinto che potrebbe essere davvero il Vampiro di West End?»

«Sto dicendo che non posso escluderlo, per il momento... ma se ti interessa, la mia terza ipotesi è che non voglia me perché vuole te.»

Gli occhi blu si fissarono in quelli verdi, poi De Stasio ridacchiò prendendo un'altra sigaretta dal taschino.

«Ti sorprende così tanto che lo creda? Chi porta una rosa in ospedale a un uomo che ha visto solo una volta nel proprio negozio, se non uno che ha preso una freccia di Cupido dritta nel petto?»

«Beh...»

Non poteva dire di essere sorpreso. La prima cosa che gli aveva detto era che il suo corpo meritava l'eternità, una frase difficile da equivocare, e tutti quei riferimenti, quelle nemmeno troppo velate avances, l'amuleto, le rose, e il modo in cui l'aveva salutato quella mattina... era difficile ignorare tutti quei comportamenti, e poi aveva letto i due significati della rosa di colore viola: da una parte l'incantesimo, dall'altro il colpo di fulmine.

Non era la prima volta che un uomo si prendeva una sbandata per lui, anzi, poteva ammettere candidamente che capitava spesso, ma era la prima volta che assisteva a una manifestazione così plateale e così immediata nei suoi confronti. Ferid non faceva assolutamente nessuno sforzo per velare le sue intenzioni, nemmeno davanti ad altre persone, e questa era una situazione difficile da gestire per Crowley. Principalmente per inesperienza nel campo.

«Secondo logica, potrebbe essere il Vampiro di West End.» disse poi De Stasio, serio. «Ha un aspetto ambiguo, ha le sopracciglia curate, come dice Echevierra... ha un accento britannico e parla in modo abbastanza ricercato da sembrare uno colto a uno della fascia bassa come i ragazzini criminali della Silver Fang... ma se me lo chiedi, se lui è il Vampiro, o fa cose per divertimento senza una logica utilità o ha una doppia personalità.»

Crowley divenne leggermente nervoso a sentire quell'ipotesi. Aveva già incontrato un uomo con quella patologia mentale: alternava una personalità delicata, gentile e piacevole a una ferocemente sadica e priva di empatia per i suoi simili che aveva ucciso sette persone. L'idea che Ferid potesse essere felice di vederlo sopravvivere ignorando lui stesso il fatto di aver cercato di farlo uccidere gli metteva uno strano brivido sulla schiena, come se un lombrico grosso, viscido e gelido gli stesse strisciando sulla pelle.

«Dici che è... plausibile?»

«Lavoro alla narcotici, gli assassini non sono il mio campo... cominciamo con il dare uno sguardo al profilo che otterrà la Skuld, vediamo cosa dice l'esperta e preoccupiamoci solo di quello che è necessario. Sei d'accordo?»

«Sì.»

Crowley non si accorse dello sguardo che De Stasio gli lanciò, dato che si stava immettendo sulla strada modestamente trafficata, e fu un bene: era già abbastanza impensierito senza aggiungerci la preoccupazione palese che il suo vecchio partner stava mostrando. Non avrebbe tollerato passivamente di essere guardato come una ragazzina ingenua invaghita dell'uomo sbagliato.

 

 

«È una bomba, sai?»

«Ve l'avevo detto. Dovete smettere di mangiare cheeseburger e tamales, vi faranno marcire dall'interno.»

«Erano empanadas!»

«Beh, sono la stessa cosa, no?»

«De Stasio, con tutto il rispetto per la cucina di tua zia, ma tu devi farti una cultura. Meglio ancora una culturista.»

Crowley scoppiò a ridere nonostante avesse la bocca piena, non per la pessima battuta quanto per le facce di Lesky e De Stasio a quell'uscita.

«Beh? Che ho detto?» domandò Gillespie, ignaro del livello infimo della propria ironia. «Non l'avete capita? Una cultura, una…»

La porta della sala riunioni si aprì e ne entrò la biondissima Horn, con una cartella di pelle dall'aria fin troppo professionale per la centrale di polizia di Satbury, e i suoi occhi scandagliarono i quattro uomini seduti al tavolo e i loro contenitori da asporto tracimanti di cibo italiano. Era fin troppo attenta alla linea per apprezzare quella sovrabbondanza di carboidrati.

«Che cosa state facendo?»

«Pranziamo.» rispose piuttosto incolore De Stasio. «Non era ovvio?»

«A quest'ora?»

«Beh, la trattoria di mia zia è sempre strapiena all'ora di pranzo, c'è voluto un po'.»

Horn guardò la lasagna rimasta nella scatola di De Stasio come avrebbe guardato un grosso ratto arrostito intero e poi guardò Crowley. Non fu facile portarsi la forchetta alla bocca: quella donna aveva sempre avuto lo stesso potere di sua madre di farlo sentire in colpa per quasi tutto quello che faceva. Non glielo avrebbe mai detto, ma anche quello era un motivo che lo teneva alla larga da lei, molto più dei fumi dell'alcol.

«Che cosa stai mangiando, Crowley? Sembra che ti piaccia.»

«Beh, è buonissimo... vuoi assaggiarlo? È... sono melanzane... come si chiama, De Stasio?»

«Melanzane alla parmigiana, Crowley, per la miseria, te l'ho detto già tre volte...»

«Ecco, quelle, vuoi assaggiarle, Horn?»

«Seguo una dieta, non posso.»

«Ma è un pasto sanissimo, sono melanzane e salsa di pomodoro!»

«Quanto è ovvio che non hai idea di che cosa mangi neanche quando te lo metti in bocca...»

Horn si sedette al capo del tavolo con l'aria di chi si ritira da una schermaglia inutile con un adolescente cocciuto. Crowley, allibito, guardò De Stasio e lui rispose con un'alzata di spalle prima di mangiare un altro boccone di lasagna. Lesky mangiò in silenzio l'ultima forchettata di straccetti di pollo ai peperoni e Gillespie si mise a vivisezionare le sue melanzane come alla ricerca di una misteriosa aggiunta che spiegasse la reazione di Horn.

«Dato che dovremmo essere al lavoro, pensate che potrei avere la vostra attenzione anche mentre masticate?»

I quattro uomini la guardarono con evidente incredulità, De Stasio su tutti; poi Lesky si pulì la bocca.

«Certo, io ho finito, comunque…»

«Questo davvero mi conforta, agente…?»

«Lesky... Sean Lesky, sono in prestito dagli affari interni, ma prima lavoravo qui alla omicidi.» si presentò lui, poi fece un cenno all’agente accanto a lui. «E lui è l’agente Gillespie.»

«Harry, per servirla, signora!»

«Forse lo sapete già, comunque mi chiamo Horn Skuld. Lavoro per l'unità comportamentale dei federali, e il solo motivo per cui sono qui è compilare per voi questo rapporto.»

Prese dalla sua borsa di pelle un fascicoletto di fogli pinzati, poi si girò e si armò di pennarello per scrivere sulla lavagna della sala riunioni. Scriveva velocissima con una calligrafia stretta e alta di non immediata comprensione. Crowley si accigliò mentre la decifrava.

«Ho letto tutti i dettagli dei rapporti del medico legale, dei reperti e tutto quello che concerne l'indagine; probabilmente mentre eravate in attesa del vostro pranzo...»

Questo potevi anche evitarlo, Horn.

Crowley si prese il suo tempo per mangiare e per riflettere. Horn era sempre stata una ragazza un po’ fredda negli affetti e piuttosto pragmatica ma di consueto era una simpatica compagnia all’epoca del college. Era stato il duro lavoro di profiler a indurire la sua armatura esterna o si era sbagliato a giudicarla fin dal principio?

«Siamo di fronte a un uomo, probabilmente sopra i cinquanta, di etnia caucasica. Probabilmente mantiene un basso profilo, fa un lavoro dove non eccelle o forse l'ha perso, cosa che alimenta la sua frustrazione. Potrebbe avere una famiglia disfunzionale, forse un cattivo rapporto con una sorella o una figlia che gli è stata portata via.»

«No, aspetta, vuoi dire che ha questa cosa con le bambine perché...?»

«Vuole qualcosa da loro. Prende il loro sangue e il loro cuore, quasi come volesse riprenderselo. La mia idea è che abbia investito tempo, denaro e amore in una figura femminile che non l'ha mai ripagato.»

«Che razza di disturbato mentale è questo tizio?» commentò De Stasio, incupito.

«Horn, credi che...»

Crowley esitò un momento quando lei lo guardò, ma doveva fare quella domanda.

«Credi che il nostro uomo sappia che cosa sta facendo?»

«Vuoi sapere se è cosciente di uccidere delle persone? Sì, anche se sul momento di certo percepisce le bambine in modo diverso da quello di una persona normale. Non si rende conto che quelle bambine non sono la persona con cui ce l'ha davvero, non si rende conto che il tempo e l'amore non tornano indietro... ma se mi chiedi se sa che quello che fa è un crimine, sì, lo sa. Sa che è sbagliato, sa che prende qualcosa che non gli spetta secondo nessuno tranne che secondo lui.»

«Come fai a dire quanti anni ha?» domandò Gillespie, vivacemente incuriosito.

«Certi schemi mentali emergono dopo una certa età, quando le cicatrici della mente iniziano a influire sulla percezione della vita...»

Horn si lanciò in una spiegazione piuttosto interessante anche se non molto illuminante per dei profani come gli uomini che aveva davanti, illustrando loro come pensava che l'amore mai corrisposto della misteriosa donna del Vampiro avesse cominciato a erodere la sua mente quando arrivato alla mezza età avevano iniziato a riemergere le questioni sospese.

Crowley l'ascoltò con attenzione fino a un certo punto, quando prese a fare esempi per rispondere a ulteriori domande di Gillespie. Se l'analisi di Horn era attendibile su ogni fronte, Ferid era di sicuro fuori dalla rosa dei sospettati. Questa consapevolezza placò la sua mente così sensibilmente che mise a fuoco fino a che punto era stato scosso da quel dubbio.

«Tutto questo è molto interessante, Skuld.» disse De Stasio. «Ma... non abbiamo trovato nessun punto in comune tra le vittime... come le trova, perché le sceglie? Siamo molto distanti da una conclusione.»

«Abbiamo qualche dettaglio fisico.» ribatté Crowley, pensieroso. «Occhi chiari, pelle chiara, sopracciglia chiare, sui cinquant'anni, ma tiene una bambina di dieci anni in braccio senza problemi, quindi cerchiamo qualcuno in condizioni fisiche buone.»

«La prossima mossa?»

«Lesky, Harry, risentite i parenti delle vittime con queste informazioni e vediamo se salta fuori qualcosa tra i conoscenti o le persone che le bambine potevano incontrare in giro.» disse loro. «De Stasio, prendi chiunque sia libero e riguardate i video che abbiamo sequestrato dei ritrovamenti... non si sa mai che sia tanto megalomane da essere ricomparso a godere mentre ci dibattevamo come pesci sulla battigia.»

«E tu?»

«Voglio organizzare un confronto.»

«Un confronto?»

«Echevierra lo ha sentito parlare e dice che ha un accento particolare.» spiegò per gli altri membri della squadra. «Chiederò a un po' di persone di registrare le loro voci per scovare quale sia quello che ha sentito. Qualsiasi particolarità che il Vampiro abbia è rilevante.»

«È una buona idea.» acconsentì De Stasio. «Echevierra non sa dirci che tipo di accento abbia, ma se lo sente può riconoscerlo.»

Crowley annuì, richiuse la scatola del pranzo senza finirlo e si alzò dalla sedia.

«Horn, batterò il rapporto stasera e ti farò avere anche quello, potrebbe esserti utile per il profilo... Echevierra mi ha detto le frasi che ha usato quando ci ha parlato.»

«Saranno utili...»

Gillespie si ficcò tutto l'avanzo del pranzo in bocca prima di alzarsi, De Stasio s'infilò la giacca e Lesky sgomberò il tavolo dagli incarti vuoti. Dopo aver ricevuto ordini tutti si erano fatti seri e si affrettarono a uscire dalla saletta per mettersi al lavoro: non erano un gruppo di ragazzini in gita scolastica, erano dei poliziotti che prendevano seriamente il proprio lavoro e questo caso più degli altri.

Crowley prese uno dei rapporti fascicolati di Horn e lo sfogliò sbrigativamente per vedere quanto era lungo, poi si accorse che la donna lo stava guardando. Aveva un'espressione che non aveva mai notato prima in lei, neanche quando l'alcol l'aveva stordita: sembrava che non avesse mai visto qualcosa di tanto bello, avrebbe potuto immaginarla guardare uno splendido tramonto sul mare con quell'espressione rapita, ma stava inequivocabilmente guardando proprio lui.

«Che succede, Horn?»

«Eh? Oh, niente...»

«Sembri strana... hai bisogno di riposare, forse?»

«Ah, no, sto bene, solo pensavo... che...»

Era sempre stata una donna forte da quando la conosceva, cioè da quando lei frequentava l’ultimo anno del liceo: non l'aveva mai vista piangere o commuoversi per qualcosa di triste o di romantico, non l'aveva mai vista perdere il controllo per la collera o per l'isteria, anche da arrabbiata restava a suo modo posata. Non gli era mai parsa spaventata, esitante, incline a rifuggire il confronto. Tutte queste cose facevano credere a Crowley che Horn fosse una donna di tempra forte e anche per questo trovava bizzarro vederla incerta su cosa dire o come dirlo, o con l'aria di essere in imbarazzo.

«Sei... mi ero fatta un'idea diversa di te.»

«Nei film i detective sembrano sempre gente in gamba che risolve i problemi in quattro e quattr'otto... magari fossimo davvero così.»

«Non intendevo dire questo...»

«Possiamo parlarne in un altro momento? Vorrei organizzare quel confronto vocale, è più complicato che un confronto visivo.»

«Magari a cena...?»

Crowley la guardò dritto negli occhi, uno azzurro chiaro e l'altro leggermente più verde. Il suo tono di voce si era ammorbidito notevolmente e il suo sguardo era tornato fermo, deciso. Qualsiasi pensiero l'avesse fatta vacillare lo aveva prontamente rimesso a posto. Il poliziotto accennò un sorriso.

«Potrei finire tardi stasera.»

«Conosco un pub che serve buoni piatti che è aperto fino all'una.»

«Mh, allora non ho scuse... d'accordo. Ci sto.»

«Allora, a più tardi. Chiamami quando stacchi. Ce l'hai ancora il mio numero, vero?»

«Certo che sì.»

Horn sorrise, raccolse la sua borsa da lavoro e con un sommesso rumore di tacchi lasciò la stanza. Crowley indugiò qualche attimo nelle migliori memorie che gli offriva la sua vacanza a Boca Agua, poi abbandonò la sala riunioni chiudendo fuori dalla mente tutto quello che non concerneva la caccia al Vampiro nel suo senso più stretto.

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Capitolo 4
*** Fantasmi ***


«Buona giornata!»

Che problema ha questo tizio?

Ferid si attardò solo un altro secondo o due a guardare l'uomo dai modi così bruschi e nervosi da meritare a pieno titolo di essere definito pitbull, poi si inginocchiò dietro il bancone e riprese a sistemare i sacchetti, le scatoline, i nastri e tutte le decorazioni nuove per i pacchetti regalo che Krul aveva lasciato in un demoniaco disordine. Sospettava che lo facesse intenzionalmente per irritarlo – lasciare i nastri srotolati a metà alla rinfusa nella scatola e i sacchetti di misure diverse mescolati – e in effetti centrava in pieno l’obiettivo.

Il Pitbull si avviò a passi pesanti senza nemmeno un saluto brusco o artificioso al suo indirizzo. Sentì il campanellino della porta mentre usciva e lasciò andare uno sbruffo trattenuto fin troppo a lungo davanti a un cliente tanto maleducato. Raddrizzò le bobine di nastri verde smeraldo, viola intenso, rosso fuoco e quelli argentati in diverse larghezze allineati come li teneva di solito, poi prese la scatola dove forbici, scotch, etichette adesive e spillatrice erano buttati alla rinfusa e si alzò in piedi.

Il cuore gli schizzò in gola quando vide la figura appoggiata al bancone e sobbalzando lasciò cadere la scatola con gran fracasso della pesante spillatrice. Gli occhi blu di Crowley guardarono per terra, poi tornarono a guardare lui e sorrise.

«Ehilà, Ferid!»

«Ehilà un corno! Ma da dove sei sbucato?! Mi hai fatto prendere un infarto!»

«Un infarto? Pensavo che il cuore dei vampiri fosse morto... come tutto il resto, no?»

«Ah, lascia perdere.» borbottò Ferid. «Che cosa fai qui anche oggi…? Oh, non dirmi che ti mancavo~»

«Sei troppo nei miei pensieri per mancarmi, ultimamente.» ammise Crowley a malincuore. «Hai dieci... diciamo, quindici minuti per me?»

«Eh...? Quindici minuti? Il quarto d'ora migliore della mia giornata, senza dubbio... dimmi tutto!»

«In realtà vorrei che dicessi tu qualcosa a me.»

Crowley sfilò dalla tasca posteriore qualcosa e Ferid dovette osservare l'oggetto per alcuni secondi prima di capire che si trattava di un registratore vocale in una versione molto compatta. Si accigliò e l'osservò con espressione divertita, ma attese che gli chiarisse da sé le sue intenzioni.

«Mi presteresti la tua voce?»

«Vuoi che ti registri un messaggio da riascoltare, qualcosa come “bentornato, detective Eusford, com'è andata la tua giornata?”, o un motivazionale “hai dato il massimo, sorridi e riposati”? Oppure...»

Ferid occhieggiò alle spalle del poliziotto il negozio deserto, poi la saletta degli accessori, pur sapendo che Krul non era al lavoro e che non era entrato altro cliente se non il rognoso individuo uscito poco prima. Abbassò la voce sensibilmente.

«Vorresti qualcosa di erotico, come una hot line?»

«Perché no?» fece Crowley, prendendolo del tutto in contropiede. «Comincia da “ehi, bel ragazzo”. Poi stupiscimi.»

Premette il tasto rosso con il pollice avviando la registrazione e avvicinò l'apparecchio al suo viso. Ferid, vistosamente sbalordito da quella richiesta, passò gli occhi rossi dalla lucina di attivazione agli occhi color cielo sereno del detective senza riuscire a dire una sola sillaba. Dopo qualche secondo Crowley interruppe la registrazione, con il sorriso più ampio che gli avesse mai visto.

«Allora non sei spigliato come vuoi farmi credere...»

«Beh, ti pare la condizione? Chiedimi di uscire con te se vuoi che ti stupisca davvero!»

«Ah, sono sicuro che mi stupiresti in modi che non posso nemmeno concepire.» rispose Crowley, senza smettere di sorridere. «Ti do un aiutino, vuoi?»

Ferid lo guardò prendere un foglio ripiegato più volte dalla tasca della sua giacca di pelle, dispiegarlo e porgerglielo. Come faceva ogni volta che si trovava sotto il naso qualcosa da leggere il suo primo istinto fu infilare la mano nel taschino e infilarsi gli occhiali da lettura che ingrandivano i caratteri. Scorse le frasi lì riportate in pochi istanti, poi incrociò lo sguardo di Crowley e solo quando vide il suo stupore si accorse di che cosa aveva fatto. Si tolse gli occhiali come se fossero diventati incandescenti e li ricacciò nella tasca come se farli sparire bastasse a cancellare il ricordo stesso della loro esistenza.

«Oh, hai degli occhiali per leggere? Ieri non li avevi... sai, quando eri appollaiato lassù.» disse Crowley indicando la scaffalatura.

Spiegazione estremamente semplice: la mattina precedente non contava di mettersi a leggere qualcosa, doveva solo mettere quell'edizione dell'enciclopedia esoterica in ordine sullo scaffale alto, ma una volta là aveva aperto uno dei volumi e come al solito non aveva resistito al fascino della parola impressa su carta. Si era messo a leggere; ci riusciva lo stesso, gli occhiali lo aiutavano soltanto a non stancarsi facendolo per ore e ore. Ma non avrebbe mai dovuto metterli davanti a qualcuno.

Si massaggiò la tempia pensando febbrilmente a come tirarsi fuori dall'impaccio, e poi sospirò teatralmente.

«Che cosa posso dire, detective? La tua sfolgorante bellezza mi travia! Spazza via le mie fragili difese, mi fa pensare che nessuna arma è troppo potente e nessuna strategia è troppo azzardata per conquistare un uomo come te! Ebbene, lo confesso: dato l'alone di saggezza ed erudizione che mi danno ho voluto che tu avessi una fugace visione del mio fascino alla sua massima espressione! Puoi forse biasimarmi?»

Il sorriso di Crowley lasciò il posto a un vago stupore e Ferid capì all'istante di aver perso la scommessa azzardatissima che aveva piazzato. Abbassò gli occhi sul foglio e scorse di nuovo le frasi; attese un commento che non tardò oltre.

«Caspita, Ferid... devi uscire più spesso se uno come me ti sconvolge tanto.»

Non era scappato infilando la prima uscita praticabile, e dato che era la reazione più gettonata dai malcapitati a cui dichiarava sfacciatamente un interesse poteva dire che non era andata poi tanto male. Non era scoppiato a ridere chiedendogli se fosse fatto di qualcosa o ubriaco o pazzo, che era la seconda reazione comune, quindi era andata decisamente bene.

Nonostante questo si sentì esattamente come ogni volta che gli altri ragazzi a scuola lo guardavano ridacchiando e facendo commenti sprezzanti sul ragazzo con i capelli lunghi, come ogni altra volta in cui il suo essere stravagante si scontrava contro una palizzata di preconcetti.

Non è diverso da tutti gli altri. Ha solo un sorriso più bello quando cerca di prendere quello che vuole da te.

Ferid alzò gli occhi su di lui e seppe che qualcosa era cambiato nel proprio sguardo, perché il sorriso che era ricomparso sul volto del poliziotto dai capelli rossi si stemperò all'istante.

«Vuoi che ti legga queste, dico bene?» domandò accennando al foglio. «Come devo dirle?»

«Come se le dicessi a qualcuno, semplicemente. Sii naturale.»

Ferid guardò ancora una volta le frasi, poi gli restituì il foglio e prese il registratore dalla sua mano. Lo accese e Crowley rinunciò a dare la voce a qualsiasi pensiero avesse, aggrottando leggermente le sopracciglia. Senza guardare né lui né il foglio che teneva sollevato come indeciso se restituirglielo o no, snocciolò una dopo l'altra le battute del singolare copione cercando di pronunciarle con la voce priva di toni artificiali, e non era cosa così semplice: era abituato a falsare il suo tono in presenza di altre persone e per questo preferiva non guardare il poliziotto e fingere di essere da solo a casa.

Se si fosse voltato si sarebbe accorto di quanto infantile stupore animava lo sguardo dell'uomo con gli occhi blu: si era già accorto il giorno prima di quanto la sua voce cambiasse timbro e tono quando parlava con una donna, o almeno con qualcuno che non fosse lui, ma non immaginava che potesse diventare così normale, così naturale, e anche così maschile. Il suo leggero accento britannico ne risultava messo in evidenza, ma si smorzò quando lesse la frase rivolta alla bambina, con un tono molto più flautato.

Ferid staccò la registrazione e lo guardò.

«Andava bene?»

«Come mai quel tono nell'ultima frase?»

«Beh, non hai detto che dovevo dirle come se parlassi con qualcuno? Questa è rivolta a una bambina.» ribatté Ferid, e gli restituì il registratore. «Alle bambine io parlerei così.»

«Sembra sensato.» acconsentì Crowley, e intascò il registratore. «Sei stato gentile, Ferid. Grazie della collaborazione.»

«Non credo che avessi poi una scelta.»

Si guardarono negli occhi per pochi secondi che si dilatarono nell'atmosfera tesa, poi Ferid decise di rompere gli indugi e incrociò le braccia al petto.

«Torni così spesso perché sospettate di me. Pensi che io sia il Vampiro di West End?»

«Lo sei?»

«Non ho ucciso quelle bambine.»

«Hai fatto loro qualsiasi altra cosa che dovrei sapere?»

«Posto che la mia vita privata non è affar tuo finché non sarò in arresto, no. Non c'è niente che tu debba sapere.»

«Non ti innervosire così, Ferid, siamo tra amici. Non sei in arresto e non sei sospettato né più né meno di qualsiasi altro adulto di tutta New Oakheart, ma questo non lo raccontare in giro. I giornali ci fustigano già abbastanza perché non abbiamo piste, e finora il solo depennato dai sospetti sono io perché durante l'omicidio di Gaia Windsor ero in una sala operatoria con il torace aperto.»

Il vago disappunto che trapelò dall'espressione di Crowley soffocò sensibilmente il malumore di Ferid, ma non abbastanza da ripristinare la disposizione mentale che aveva quel mattino. Lasciò comunque uscire un silenzioso ma profondo sospiro per cercare di calmarsi.

«Ti offenderesti se ti chiedessi se ricordi dov'eri la sera dell'otto agosto, o il diciotto luglio? Forse lo ricorderai, era il giorno in cui ci siamo incontrati qui. Erano due giovedì.»

«So benissimo dov'ero. A casa.» replicò Ferid. «Il giovedì è la mia serata di lettura. Sto a casa, mi siedo sulla mia poltrona con un bicchiere di vino e leggo. Lo faccio ogni settimana da anni.»

«E immagino che nessuno possa confermarlo, nel caso? O qualcuno è venuto a trovarti? Un vicino che ti ha chiesto qualcosa, una telefonata che hai ricevuto...»

«Non ho nessuno che mi telefoni, se non il mio capo quando non trova qualcosa, e ciò di solito accade ogni martedì quando ho il giorno libero.» rispose lui in tono incolore. «Non ho vicini, ho un appartamento unico sopra un negozio di ferramenta. Ma se vuoi puoi chiederlo a Pandora.»

«Pandora?» ripeté Crowley, tornando a sorridere. «Sarà mica la tua ragazza?»

«È la mia gatta. Mi è rimasta in braccio tutta la sera. È un po' timida, ma magari la convinci a parlarti.»

«Mhh, non mi piacciono molto i gatti, temo che non le sarei simpatico, ma il mio collega Gillespie è un patito, li adora.» commentò Crowley con fare amichevole. «Una volta ho avuto un cane, Murky, ma è stato quando ero bambino. I cani non ti piacciono?»

Onestamente Ferid non aveva idea del perché gli facesse simili domande, ma dato che non c'erano clienti, non c'era Krul e lui aveva noiosi lavoretti da sbrigare pensò che fare due chiacchiere per quanto inutili non potesse essere così tanto sgradevole. Si chinò a raccattare la spillatrice e la scatola dei sacchetti.

«Non lo so, non ne ho mai avuti.» rispose allora. «Lavoro tanto, non ho tempo per badare a un animale che necessita così tante attenzioni.»

«Lavori così tanto qui?»

«L'apertura è dalle nove alle sette, ma io arrivo prima, c'è sempre qualcosa da fare... gli ordini, il riassortimento, o arrivano le novità, o c'è da rifare una vetrina, o da spolverare. Anche alla chiusura resto ancora a sistemare quello che è stato spostato e non comprato, chiudo la cassa... cose del genere. Mi spiace, detective. Il mio lavoro è estremamente noioso a confronto con il tuo.»

«Forse, ma almeno ne puoi parlare tranquillamente a cena con qualcuno, io non ho questo privilegio... e poi, sembra che ti piaccia il tuo lavoro. Mi sbaglio?»

«Beh... sì. Sì, mi piace questo lavoro. Posso leggere un sacco di cose interessanti, e i libri mi hanno sempre fatto compagnia.»

«Sei un tipo solitario, eh, Ferid?»

«Esserlo è la mia natura. Tu te ne andrai, come Krul, come qualsiasi persona che è entrata o entrerà da quella porta, e io resterò... se ne andranno i vostri figli, i vostri nipoti, e io resterò. Almeno i libri resteranno insieme a me... ah, l'esistenza eterna ha le sue pecche, non credere, detective Eusford.»

Qualcosa nello sguardo di Crowley cambiò e Ferid si allarmò, perché credette di riconoscere una scintilla di un sentimento che aveva sempre odiato ricevere: la pietà. Non era un povero scoppiato traumatizzato e distaccato dalla realtà, non voleva essere guardato come avrebbero guardato un veterano di guerra privo di un arto o un povero bambino deforme che chiedeva elemosine. Lui aveva scelto di essere così.

Si sforzò di ricacciare il suo malumore nel vecchio baule, come gli piaceva definirlo, e tornò a sorridere ammiccante appoggiandosi al ripiano del bancone. Il poliziotto non fece il minimo accenno di movimento per spostarsi e ripristinare una distanza socialmente accettabile tra di loro.

«E a te, detective... a te cosa piace?»

«Ah, io sono irlandese. Noi irlandesi siamo fatti con lo stampo, quindi ci piace mangiare, bere, ridere e lavorare. Sono così anch'io.»

«Anche con un lavoro come il tuo?»

«Soprattutto con un lavoro come il mio.» rispose Crowley con trasporto. «Sono bravo in quello che faccio. Sono utile alle persone e finora ho gestito lo stress in modo encomiabile, se mi perdoni di essere poco modesto.»

«Oh, detective Eusford... a un uomo come te io potrei perdonare praticamente qualsiasi cosa...»

Non sapeva dire che cosa lo spingesse a osare fino a quel punto con quell'uomo: a dispetto di quello che suggeriva l'apparenza non era così tanto ardito quando approcciava qualcuno di praticamente sconosciuto, ma quel detective aveva qualcosa che l'attraeva. Se fosse la sua altezza, il suo fisico robusto, gli occhi blu brillante, i bei capelli rossi o il suo sorriso piacevole sia nella sua versione divertita che in quella più serena, non lo sapeva; forse la combinazione di tutto ciò.

Si alzò sulla punta dei piedi sporgendosi in avanti con sicurezza chiudendo gli occhi, ma prima che potesse raggiungere un altro paio di labbra lo scampanellio della porta lo costrinse a fermarsi. Appoggiò il peso sui tacchi e riaprì gli occhi con un sospiro affranto. Crowley non si era praticamente mosso, ma la figurina esile e minacciosa di Krul si avvicinò.

«Di nuovo tu?!»

«Ahah... certo il tuo capo ha un dono per il tempismo...»

«Non me ne parlare.» borbottò Ferid, poi sorrise guardandola. «Krul, sei tornata~»

«Non darmi a bere che stava comprando dei libri, Ferid.» l'ammonì puntandogli il dito contro.

«Beh, no, in effetti non...»

«Giuro che ti sego a metà, parto da in mezzo alle gambe e vado in su!»

«Quanto sei brutale! Una donnina deliziosa come te dovrebbe essere più dolce e carina nei modi!»

«Portatelo a casa se vuoi trastullartici, non qui, e non nell'orario di apertura!»

«Non parlare in questo modo di un cliente!»

«Ah, so benissimo cosa è venuto a comprare!»

«Ah! Non essere così volgare, Krul, per chi mi hai preso?!»

«E per chi ha preso me, aggiungerei.» disse Crowley a bassa voce.

«Quell'appartamento costoso devi pur pagarlo in qualche modo e immagino come, ma non procacciarti clienti qui dentro!»

Ferid, stai calmo. Stai calmo. Dico sul serio, stai calmo, o questa volta ti licenzia veramente... però, che cazzo!

Ferid sbatté il pugno sul bancone e fissò Krul, dimenticandosi completamente della sua precaria posizione di subordinazione.

«Apri le orecchie, marmocchia! È ora che inizi a portare rispetto verso chi è più grande di te!»

«A te? Neanche in punto di morte.»

«Piccola malefica nanerottola, egoista, incivile, insolente, violenta, dispotica dittatrice marcia fino al midollo!»

Krul gli lanciò uno sguardo tagliente e marciò per aggirare il bancone e raggiungerlo, probabilmente per infierire sui suoi stinchi come era solita fare con quell'atteggiamento da bambina rabbiosa. Venne intercettata da Crowley, a braccia allargate come pronto a placcarla fisicamente, cosa che avrebbe potuto fare con un solo braccio. Lei si bloccò e spostò lo sguardo su di lui.

«Ah, signorina... è colpa mia anche stavolta...»

«Ma non è vero!» protestò Ferid.

«Sono venuto a registrare la voce di Ferid per un confronto audio... era una cosa urgente e sono piombato qui mentre lavora, non avrei dovuto e mi dispiace.»

«Solo perché sembro una bambina non vuol dire che lo sono, so che cosa ho visto.»

«Non ho detto che non stesse succedendo... qualcosa.» replicò Crowley con un certo disagio percepibile. «Ma è colpa mia, non sarei dovuto arrivare così per i miei comodi senza avere neanche un mandato... non se la prenda con lui. Non succederà più.»

«L'hai detto anche l'altra volta.»

«Questa volta è un impegno... non lo disturberò più in orario di lavoro per faccende personali.»

Ferid trovò difficile non intromettersi, dato che il poliziotto si stava prendendo la responsabilità per aver fatto fondamentalmente solo il suo lavoro: non era colpa sua se la sua presenza per lui era paragonabile a una grossa, succulenta salsiccia sventolata davanti a un cane affamato. Tuttavia il suo tono calmo sembrava avere un effetto scudo dalla rabbia di Krul; la dissipava come il vento disperde una colonna di fumo.

«Se hai finito allora fuori. Torna solo se vuoi comprare qualcosa.»

«Sì... sì.» rispose Crowley, preso leggermente in contropiede. «Me ne vado... solo...»

Crowley si voltò e lo guardò dritto negli occhi, come se fosse indeciso se dirgli qualcosa oppure no. Alla fine qualsiasi cosa stesse pensando desistette dal rivelarla e intascò registratore e foglietto con le frasi preparate.

«Ti ringrazio molto, Ferid. Mi dispiace per questo.»

«Non c'è...»

«Stammi bene. Ci vediamo.»

Il modo in cui lasciò il negozio, di fretta e senza soffermarsi per un solo altro attimo a guardarlo, spense qualsiasi saluto prima ancora che Ferid raccogliesse il fiato sufficiente. Strinse i pugni e faticò molto – moltissimo – a convincersi che non era una buona idea scagliare la spillatrice sulla faccia detestabile del suo capo.

«Era davvero necessaria questa piazzata, Krul?»

«Quando vorrò aprire un'agenzia di rent boys sarai il primo a saperlo... e sarai anche il primo a essere assunto. Di sicuro mi faresti guadagnare molto meglio.»

Ferid non rispose e nel silenzio sentì nitidamente i tacchi di Krul sul pavimento mentre si allontanava verso la saletta accessori. Sentì il rumore della chiave che girava nella toppa della porta che dava sulle scale dello scantinato e seppe che era scesa a controllare la nuova partita di artigianato arrivata quel mattino presto da Phoenix.

Lasciò uscire un sospiro e appoggiò la fronte sul bancone per qualche secondo, con gli spalancati fissi su qualcosa che non potevano realmente vedere.

«Rent boys... da quanto tempo non sentivo questo termine?»

Tornò al suo lavoro senza aggiungere una parola e senza canticchiare com'era piuttosto usuale che facesse, assorto nei suoi pensieri, senza vedere alcun cliente fino alle sei. A quel punto riemerse dagli scaffali che stava spolverando e guardò Krul, presa a controllare l'inventario dal computer alla postazione abbarbicata sullo sgabello più alto.

«Krul.»

«Cosa?»

«Posso andare via prima, oggi?»

«Sei arrabbiato?»

«Certo che sono arrabbiato, mi hai trattato malissimo.» ribatté lui acido. «Ma non è il motivo per cui vorrei uscire prima.»

«Intendi dirmi qual è?»

«Se te lo dicessi non mi crederesti, quindi no, non intendo farlo.»

Krul fissò i suoi occhi penetranti su di lui, come se potesse leggere le sue intenzioni come una locandina pubblicitaria. Non riuscendo a farlo, distolse lo sguardo e tornò a prestare attenzione al computer.

«Bene. Vai.»

«Sei ancora capace di chiudere la cassa da sola?»

«Certo che ne sono capace, che cosa credi? Tu sei ancora qui solo perché hai una memoria tale che anche se si rompesse il computer troveresti lo stesso tutti i libri di questo negozio, non perché tu sia capace di svolgere mansioni che non so ricoprire da sola.»

«Beh, allora me ne vado.» tagliò corto Ferid, avviandosi alla porta. «Ciao, ci vediamo domani.»

«Ferid...»

«Non posso, Krul, ho da fare, devo andare a rapire e squartare una bambina a caso!»

«Non scherzare su queste cose, imbecille!»

«Forse non sto scherzando.»

«Sì, come no.»

«Magari ammazzo bambine perché mi ricordano la mia tirannica datrice di lavoro, ci hai pensato?»

Krul esitò un momento a rispondere, poi scoppiò in una risata di scherno forzata come un sorriso durante una tortura medievale.

«Ahah! Passiamo tanto di quel tempo qui da soli che se tu avessi tante palle da ammazzare qualcuno sarei già decomposta a pezzetti in una o più discariche!»

«Grazie della motivazione, Krul, credo che stasera ne ucciderò due.»

Uscì dal negozio con il consueto scampanellio e un sospiro esasperato. Quella donna in formato ristretto non era proprio capace di pronunciare una cosa che somigliasse troppo a un complimento, quindi anche un “mi fido di te” si trasformava inevitabilmente in un attacco volto a sminuire il suo coraggio nell'affrontare i suoi problemi. Ma che cosa sapeva davvero lei dei suoi problemi? Praticamente niente.

Invece di avviarsi sulla destra verso casa andò nella direzione opposta e sedette sulla panchina della fermata dell'autobus. Gettò un'occhiata alla tabella delle linee e degli orari e vide che il prossimo passaggio per Silver Waters era previsto dopo dieci minuti.

 

 

 

Quella notte tirava un forte vento che scompigliò fastidiosamente i capelli argentati di Ferid quando scese dall'auto. Le case in quel quartiere erano tutte simili, appartamenti con finestre adorne di tende e vasi di fiori al di sopra delle insegne di piccoli negozi o botteghe in una lunga fila ordinata. Ferid guardò su e giù lungo la strada stringendosi nel cappotto; l'aria era fredda.

«Quella davanti a te.»

Ferid guardò la casa proprio di fronte a lui, ma nessun particolare nell'oscurità di quella notte tempestosa la distingueva da tutte le altre sulle quali aveva lasciato correre lo sguardo. Con la sensazione di avere il pomo d'Adamo che gli ostruiva la trachea lanciò un'occhiata tesa dentro l'abitacolo, dove la bella signora di mezz'età dai capelli accuratamente arricciati sedeva comoda fumando.

«Cosa c'è?»

«Ho paura.»

«Ah, non fare il bambino, Eric.»

«Non mi chiamo Eric…»

«Lo sai che quando sei con me è questo il tuo nome.» tagliò corto lei. «Digli di chiamarmi quando avete finito. Ti vengo a prendere.»

Lo sportello lo urtò con poca delicatezza quando la donna lo richiuse, ma l'automobile non ripartì. Ferid esitò, occhieggiando la casa e la luce soffusa che si vedeva all'interno, e mosse qualche passo sul marciapiede. Il vento spazzava le foglie sul piazzale di fronte alla vetrina del negozio e un rombo lontano preannunciò un temporale. Salì le scale fino in cima, si fermò davanti alla porta e attese molto a lungo il coraggio per bussarvi sopra; in compenso attese molto poco per vederla aprirsi. L'uomo in vestaglia la spalancò non appena vi ebbe battuto sopra le nocche per la terza volta.

Era un uomo piuttosto anziano, o almeno era la percezione che aveva di un uomo di quell'aspetto, con i capelli brizzolati e qualche ruga vistosa intorno agli occhi e alla bocca. Aveva intensi occhi castani, era alto ma non robusto di spalle e torace, ed era molto magro. Gli lanciò un'occhiata stupita, come se avesse visto un fantasma sulla soglia; poi si ricompose e gli fece un sorriso cordiale. Il suo sguardo gli diede una sensazione di calore e benevolenza che non era abituato a vedere in chi lo guardava.

Allungò la mano dalle unghie molto curate verso di lui e la posò sulla sua spalla.

«Entra, entra... ti stavo aspettando. Entra, non restare al freddo.»

Ferid entrò con la sensazione che i suoi piedi si trascinassero dietro un'enorme palla di ferro. Si voltò e prima che la porta si chiudesse ebbe una fugace visione dei fari di un'automobile che si rimetteva in carreggiata allontanandosi. Vedere l'uomo che bloccava l'ingresso con un chiavistello lo fece sentire in trappola e peggiorò l'impressione di venire soffocato dal suo pomo d'Adamo.

«Vuoi darmi il tuo cappotto? Qui dentro è piuttosto caldo, dovresti trovarti bene.»

Annuì senza minimamente prestare attenzione alla temperatura ambientale e si sbottonò il cappotto. L'uomo l'aiutò a sfilarlo e lo appese con cura, poi si mise a scandagliarlo con gli occhi senza darsi nemmeno la pena di nasconderlo: lo scrutò dagli stivali neri in su, indugiò vistosamente sui suoi fianchi e poi sul suo viso, con uno scintillio negli occhi. Quando allungò la mano verso di lui la sua reazione istintiva fu irrigidirsi, ma non fece altro che passare le dita tra i suoi lunghi capelli.

«Hai una splendida chioma... davvero meravigliosa... quando gli scrittori parlano di rifulgente crine di unicorno devono avere in mente qualcosa di molto simile ai tuoi capelli.»

Rifulgente crine di unicorno? In quale opera si cita qualcosa del genere?

Per la curiosità che aveva avrebbe voluto chiederlo, ma il nervosismo gli impediva di spiccicare una sola parola. L'uomo parve accorgersi di quanto era teso, sorrise più ampiamente e gli indicò la porta sulla destra con un gesto del braccio.

«Prego. Accomodati in salotto, vorrei offrirti qualcosa da bere... del vino aiuterebbe?»

Ferid entrò nel salotto, senza sapere che cosa dire: a quanto ne sapeva chi lavorava per Madame Schiller di solito veniva imbottito di superalcolici, più spesso vodka di scarsa qualità più simile ad acquaragia e tequila così scadente da rendere più appetibile la benzina al confronto; non sapeva dire se il vino sarebbe stato un salto di qualità o solo un'altra forma di somministrazione di alcol aromatizzato.

L'uomo era molto paziente tuttavia, gli indicò il divano e si avvicinò a una vetrinetta che conteneva cinque bottiglie e una strana brocca di vetro. Lesse le etichette, ne scelse una, la stappò con pochi e comprovati movimenti e poi ne versò un sorso in un calice di cristallo finemente lavorato. Ferid si sedette e l'osservò mentre vi faceva roteare il liquido, lo studiava con attenzione annusandolo con aria rapita. Infine ne trasse un sorso e tornò a sorridere.

«Sì... questo...»

Abbandonò il calice e ne riempì uno uguale con il vino, poi lo porse al suo ospite.

«Questo è degno della tua bellezza.»

Ferid esitò un momento prima di prendere il bicchiere con le mani che continuavano a tremare. Lui riempì il suo e prese posto accanto a lui sulla chaise-longue. I suoi occhi di un bruno profondo ripresero a studiarlo; osservò le sue mani o forse il vino che oscillava a causa del tremore, i capelli sciolti che gli ricadevano sulla spalla, la gamba che teneva accavallata sull'altra. Prese un sorso perdendosi nel guardare i suoi stivali con il tacco basso, poi lo guardò di nuovo in viso.

«Non bevi? Hai paura che ti abbia messo qualcosa nel bicchiere?»

«Ah, no... solo, non so se mi piace, il vino.»

«C'è un solo modo per scoprirlo, mio caro ragazzo.» l'incoraggiò lui. «Prendi un piccolo sorso, tienilo in bocca per un attimo, devi lasciare che ti permei la lingua, poi mandalo giù... sentirai molti gusti e profumi in un vino così corposo.»

Ferid passò gli occhi dal viso dall'aria gentile dell'uomo al bicchiere. L'accostò alle labbra e seguì il suo consiglio, prendendo un piccolo sorso che trattenne qualche istante prima di deglutirlo. La lingua gli rimandò così tanti stimoli da non riuscire a identificarne uno predominante e un aroma intenso che gli ricordava i frutti di bosco rimase ad aleggiare in un punto indefinito tra la bocca e il naso. L'uomo sorrise ampiamente.

«Lo senti, vero?»

«Io... mi sembra che sappia di... frutti di bosco.»

«Oh, dici sul serio? Un palato molto raffinato il tuo! È vero, questo vino ha un retrogusto persistente di bacche di bosco come il sambuco e le more. Davvero molto bravo.» si complimentò lui. «Bevine quanto ne vuoi se ti piace. Ne ho anche un'altra bottiglia.»

Ferid annuì, anche se decise di non prendere un bis di vino per paura di andare incontro a pessime conseguenze, e ne bevve un altro sorso più convinto: gli sembrava che il nodo in gola si allentasse.

«Dimmi, come ti chiami, ragazzo mio?»

«Eric.»

«So come ti chiama Madame Schiller... ma non è il tuo vero nome, immagino... vorrei conoscere quello reale.»

«Beh... Ferid. Mi chiamo Ferid.»

«Ferid... porti un nome mediorientale a dispetto dei tuoi toni chiari... ma non risulta sgradevole questa discrepanza, devo dire...» disse lui, toccandogli ancora una volta i capelli. «Bene, Ferid. Io sono Claude Trobiano III. Per quanto sia altisonante, non siamo nobili, solo gente con l'abitudine di chiamare il primo figlio come il loro padre.»

«È un piacere, signor Trobiano.»

«No, ti prego... Claude... ero “signor Trobiano” quando ero insegnante all'università.» disse lui, con una breve risata. «Quanti anni hai, Ferid? Ti va di dirmelo?»

«Diciotto... so che lo dicono tutti, ma io ne ho davvero diciotto da qualche giorno e ho preso da poco il diploma...»

«Oh, ti sei diplomato, molto bene... che materie hai seguito?»

«Beh... ho frequentato il dodicesimo livello di lettere, storia, geografia ed economia, il decimo livello di francese, e...»

L'elenco venne interrotto dallo squillo dell'apparecchio telefonico. Ferid girò la testa cercandolo ma proveniva da fuori dalla stanza, nel corridoio o forse nella cucina. Claude fece un profondo sospiro e si alzò abbandonando il calice sul tavolino.

«Perdonami, ho dimenticato di staccare il telefono... devo rispondere, i miei conoscenti sono abituati a serate in cui stacco il telefono per stare solo, ma si preoccuperanno se suona a vuoto.»

Claude si allontanò e rispose al telefono, che doveva trovarsi sulla parete della cucina. Ferid prese un gran sorso di vino.

«Trobiano… ah, buonasera, Roger… sì… capisco, ma non è un buon momento, onestamente… ho un ospite.» lo sentì dire al telefono con vago fastidio. «È davvero necessario? Credevo di aver lasciato istruzioni precise...»

L'uomo sbuffò con impazienza e tornò sui suoi passi nel soggiorno, fermandosi sulla soglia.

«Ferid, avresti la cortesia di attendere qualche minuto? Il mio collaboratore del comitato per il teatro mi chiede delucidazioni in merito a un appunto che credevo fosse sufficientemente chiaro...»

«Certo.»

«Ti ringrazio molto. Mi dispiace per questo.»

Mentre il professore tornava a discutere al telefono riguardo una pièce teatrale da organizzare in città Ferid si alzò dalla chaise-longue con il bicchiere in mano e si avvicinò agli scaffali ricolmi di libri. Alcuni volumi erano pubblicazioni recenti con copertine rigide, quasi tutti critiche e saggi sulla letteratura classica e il teatro; altri invece erano pesanti tomi rilegati in pelle con titoli stampati in lettere dorate, argentate, rosse e in un caso verde metallizzato. Ferid prese proprio quello sfilandolo dalla fila con l'indice e ne lesse il titolo sulla prima di copertina, perché le lettere sul dorso erano troppo piccole per essere comprensibili in quella bassa illuminazione.

«Una vecchia storia irlandese. Un romanzo di Adam McGee

Ferid l'aprì e si immerse nella lettura del libro che era un romanzo di inizio novecento, prendendo un sorso di vino ogni tanto quasi senza accorgersene. In meno di due minuti era perso tra le colline irlandesi, a bordo di un treno che serpeggiava nel verde verso una piccola città dove lo schivo protagonista doveva recarsi in visita da una misteriosa, anziana parente. Era così assorto da non sentire nemmeno i tuoni che si avvicinavano e uscì dai paesaggi incantati e dall'atmosfera magica della storia solo quando sentì un paio di mani sulle sue spalle.

«Che cosa stai leggendo?»

Ferid voltò la testa pronto a scusarsi per aver curiosato senza permesso, ma l'uomo sorrideva e scorse il testo sulle pagine aperte.

«Una vecchia storia irlandese, eh? È un valevole romanzo, una storia ben scritta in equilibrio tra mostri reali e fantasmi...»

«Mi dispiace...»

«Non scusarti mai di aver letto un libro, ragazzo mio, mai nella tua vita. Leggere non è mai qualcosa da non fare: persino dal più infimo, banale e dilettantesco racconto si può trarre qualcosa... non sai mai quando e come ti potrà tornare utile.» gli disse Claude. «Questo ti ha preso molto, sembra, dato che non mi hai sentito parlare.»

«In effetti, sì... signor, ehm... Claude, potrei... averlo in prestito?»

«Ma certo che puoi. Presto con grande gioia libri e dischi ai ragazzi che li desiderano.»

«Grazie.»

Ferid posizionò tra le pagine aperte il cordino di tessuto verde che fungeva da segnalibro, ma Claude gli impedì di chiuderlo posandovi la mano sopra.

«Non si dovrebbe mai interrompere una storia ben narrata. Leggiamolo insieme.»

«Eh? Vuoi dire... adesso?»

«Certo, adesso.»

«Ma… non… io non sono… beh, non sono qui per questo…»

«Perché no? Ti ho per me per tre ore. Come le impieghiamo dipende soltanto da noi, non è forse così?»

«S-sì, ma… ma non è per questo che mi hai chiamato… no?»

«Ascoltami, Ferid, e ti prego di non giudicarmi troppo male per quello che dirò, e per come lo dirò.» esordì Claude in tono serio. «Ho molti ragazzi nella mia rubrica… molti, che vanno dai tuoi coetanei ad alcuni che sono più vicini alla mia età che alla tua, e con tutti questi io posso fare quello per cui questa sera ho chiamato te… ma finora nessuno di loro, non uno, ha mai letto anche soltanto il titolo dei libri che sono qui in bella vista. Capisci che cosa voglio dire?»

In completa onestà Ferid non riusciva ad afferrare il nocciolo di quel preambolo, così scosse appena la testa.

«Io sono stato un professore per quasi tutta la mia vita… trasmettere il seme della conoscenza è stato lo scopo della mia esistenza, piantarlo nei terreni più fertili e fare in modo che crescesse e diventasse, col tempo, un albero in grado di dare frutti a tutti… so quello che dico, tu ce l'hai. Hai il terreno fertile che serve, hai quel germoglio dentro di te, ed è un dono troppo raro, troppo prezioso. Non devi lasciare che venga strangolato dalle avversità della tua vita.»

Claude gli afferrò il viso tra i palmi caldi e le dita lisce, guardandolo dritto negli occhi con un trasporto emotivo intenso, con una convinzione, con un tono così fervente da far impallidire persino certi pastori al climax del loro sermone.

«Non smettere mai di leggere, ragazzo mio. Non smettere mai di imparare.»

Il vento forte spalancò la finestra facendo sussultare Ferid e gli fece cadere il libro a terra. Dopo un momento di smarrimento fece scorrere gli occhi sul salotto vuoto a eccezione della gatta che dormiva sulla chaise-longue. Si strofinò gli occhi e si affrettò ad alzarsi dalla poltrona per richiudere la finestra, opponendosi al vento tempestoso della notte estiva. Ancora una volta faticò a bloccarla per bene.

«Devo far riparare questa finestra.»

L'aveva detto migliaia di volte in tutti quegli anni lì, senza mai decidersi a farlo davvero, ma in quel momento la maniglia difettosa era l'ultimo pensiero nel miasma della sua testa. Girò lo sguardo verso un ricercato mobile di legno pesante che ospitava tre cornici, le uniche fotografie presenti in tutta la casa. Ignorò le due in cui scorgeva la propria immagine e prese la cornice dorata dove una foto ritraeva un uomo ormai alle soglie della sessantina, con corti capelli brizzolati, il sorriso cordiale e il fisico piuttosto esile sotto la camicia bianca e il gilet beige. L'ultimo ricordo di Claude Trobiano che non fosse compromesso dall'amarezza.

«Sai, ho incontrato un uomo il mese scorso… oggi mi ha detto le tue stesse parole.» disse Ferid, portando la cornice con sé e posandola sul tavolino accanto alla poltrona. «Le parole che mi dicesti quella notte per scusarti di quella telefonata… sarà per questo che ti ho sognato? Non mi era mai successo. Come sai bene, io non sogno quasi mai.»

Raccolse da terra il libro che gli era caduto e lo appoggiò sul ripiano.

«O forse è perché oggi è l'anniversario? O perché sono venuto a trovarti? Non lo so… vorrei solo che tu mi potessi parlare, Claude. Sembro pazzo a raccontare i miei incontri a una fotografia, e se lo dico io vuol dire che è davvero molto strano.»

Voltò la testa verso la finestra quando un tuono potente la fece vibrare, ma nel mentre il suo grasso gatto Baudelaire gli saltò sulle gambe e lo indusse ad accarezzarne il mantello che sfumava dal miele al cioccolato su muso, coda e zampette. Iniziò subito a emettere fusa rumorose.

«Vorrei che l'avessi conosciuto… che potessi conoscerlo adesso… è un uomo divertente, Claude. Ha un bel sorriso e non è mai brusco con me, nemmeno quando divento… beh, esuberante, come al mio solito… ma non so se sarebbe il tuo tipo. Ha i capelli rossi, anche se ti piaceva definirti esteta so che avevi i tuoi parametri, e il rosso non era il tuo preferito. È anche un armadio, è più alto di me. Non sarebbe proprio il tuo tipo, ma a me piace molto. Non che importi qualcosa, comunque.»

Se Claude fosse stato lì con lui gli avrebbe sicuramente domandato perché: gli piaceva sentire tutti i ragionamenti dietro una sentenza, per quanto banale fosse. Grattò le orecchie calde del suo gatto e fissò il lampadario del soggiorno senza realmente badare alle lampadine o ai suoi bracci per un certo tempo, poi sospirò.

«Perché io sono bizzarro, Claude. Sono molto più assurdo di com'ero quando mi hai lasciato, e sarebbe già difficile trovare una donna con una tale sindrome da crocerossina da spingerla a salvarmi. Uomini come quello non perdono tempo con stramboidi della mia risma, specie se sono stramboidi di sesso maschile.» sentenziò con il tono definitivo che avrebbe tenuto per chiudere una discussione con qualcuno che continuava a fare domande. «È stato bello incontrarlo, però. Forse qualche volta lo potrò rivedere. Speriamo che dopo il Vampiro a West End sbuchi fuori qualche altro strano essere, che so... l'Alieno di Frankwood Park, o il Druido della Blair University, così verrà a prendere qualche altro libro. Abbiamo una buona selezione sui druidi.»

Mentalmente si ritrovò a elencare i titoli più validi di quella categoria e prese in braccio il gatto alzandosi dalla poltrona. Si avvicinò alla finestra e guardò il cielo tempestoso illuminato dai lampi, posando la fronte sul vetro. Si sentiva stranamente irrequieto, agitato, come se avesse dimenticato di fare qualcosa di importante, come se fosse in agguato qualcosa o qualcuno al di là di quella finestra. Da qualche parte, nell'ombra...

 

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Capitolo 5
*** La spada di Dio ***


Mh… mi sono dimenticato di chiudere le tende.

Crowley cercò un angolino del letto in cui non arrivasse la luce del sole del primo mattino, ma non riuscì a trovarlo e quindi cacciò la testa sotto il cuscino con un brontolio. Se c'era un motivo per cui odiava la stagione estiva era proprio quello: il sole del mattino entrava nella sua stanza prima che fosse ora di alzarsi e lo svegliava quando dimenticava di accostare le tende, cosa che in tutta onestà ricordava raramente di fare.

Sentì gli anelli della tenda scorrere e aprì gli occhi tirando fuori la testa come una specie di pigra testuggine, potendo scoprire che a chiuderle era stata una figura con lunghe gambe, fianchi tondi, vita stretta, seno prosperoso e una cascata di capelli biondi. Horn si voltò e gli sorrise.

«Va meglio?»

«Sì…»

Horn tornò verso il letto e vi si sdraiò sopra, senza questa volta coprirsi il corpo nudo con il lenzuolo. Allungò la mano passandola nei capelli scarmigliati di Crowley nello stesso momento in cui lui passava la sua sulla pelle liscia della gamba salendo verso l'alto.

«Puoi tornare a dormire ancora un po'…»

«Questo è sleale, Horn…»

«Questo cosa? Non ho fatto nulla.»

«Non ti sei coperta, questa è una bassa, bassa provocazione…»

«Non sono responsabile delle tue turpi fantasie, signor O'Brian Eusford.»

«Sei più che responsabile, ne sei fonte, e anche zampillante.»

«Essere la musa di un pittore non significa vantare diritti sulle sue opere.»

«Devi sempre averla vinta tu in un modo o nell'altro?»

Passò le braccia intorno alla sua vita e strinse quelle morbide forme contro il proprio corpo, godendo del tepore, della pelle liscia e delle memorie recenti che portavano a galla. Rimasero stretti così in silenzio per qualche minuto, tempo che servì al corpo ancora intorpidito dal sonno di Crowley per svegliarsi, e Horn se ne accorse senza bisogno che lui le dicesse qualcosa o tentasse una manovra più diretta.

«Oh-oh, Crowley... sbaglio o ti stai svegliando?»

«Sono sveglio.»

Horn rise, con una risata intrisa di malizioso divertimento che non ricordava di averle mai sentito, nemmeno la sera precedente.

«Sei il tipo di uomo che riesce a farlo appena sveglio?»

«Non lo so, non ci ho mai provato appena sveglio… ma ci sono i presupposti per una buona riuscita.» replicò Crowley. «E tu, sei una donna che riesce a farlo appena sveglia?»

«Stanne certo…»

Horn fece in tempo solo a togliergli il lenzuolo di dosso prima che il campanello emettesse il suo trillo sgangherato che lo rendeva riconoscibile da qualsiasi altro in città. Crowley guardò l'orologio, scoprendo che erano a malapena le sei del mattino, e si chiese chi mai potesse cercarlo a casa a quell'ora. Di solito i suoi vicini lo cercavano di sera intorno all'ora di cena, non certo a ridosso dell'alba.

Raccolse i pantaloni da terra e se li infilò mentre si alzava dal letto. Il campanello suonò altre tre volte nel breve tempo che ci mise per attraversare il breve corridoio e l'ingresso.

«Arrivo, arrivo… insomma…»

Soffocò uno sbadiglio e aprì la porta aspettandosi di trovare uno dei suoi vicini, e in effetti riconobbe i capelli neri e gli occhi verde brillante di Yuuichiro con in mano la copia delle chiavi del suo appartamento, ma accanto a lui incombeva la presenza ben più imponente di De Stasio. Questi gli lanciò un'occhiata truce come mai ne aveva ricevute prima da lui.

«Crowley, maledizione, ti sto cercando da ore al telefono, ma non suona!»

«Ah… credo che si sia scaricato… che succede?»

«Ha colpito ancora. Sempre nel West End, non lontano dall'università.» annunciò in tono lugubre. «Aveva nove anni… senza sangue e senza più il cuore, come le altre vittime.»

«Non ci posso credere, un'altra ancora?!»

Crowley si passò la mano nei capelli, incredulo e furioso in ugual misura.

«Prima ne uccideva una a distanza di uno o anche due mesi… poi tre settimane, e adesso di una sola settimana!»

«Probabilmente la sua psicosi sta peggiorando, ma non posso saperlo… ho chiamato la Skuld ma non mi ha risposto. Sono anche stato dove alloggia ma sembra che non ci sia nessuno… spero che stia bene.»

«Ah, ehm…»

«Sono qui.»

Crowley si voltò e guardò Horn, che indossava la gonna del giorno prima e sopra una sua giacca da sport con la cerniera chiusa fino al collo. Aveva ancora i capelli leggermente scompigliati, ma l'atteggiamento professionale come fosse vestita di tutto punto negli uffici del Bureau. De Stasio la guardò celando ottimamente la sua sorpresa, se davvero non si aspettava di trovarla lì.

«Skuld, non è una buona idea sparire così, non si sa mai con certi squilibrati… stavo facendo un brutto pensiero.»

«Ti ringrazio dell'interessamento, De Stasio, ma sto benissimo.» replicò lei. «Dacci un po' di tempo per prepararci.»

«Sì, questione di un attimo.» confermò Crowley.

«Vi aspetto in macchina.» disse lui, e guardò Yuu. «Grazie dell'aiuto. Ti auguro una buona giornata.»

De Stasio ignorò l'ascensore e imboccò le scale per scendere i molti piani fino alla strada. Crowley guardò il suo vicino di casa più giovane, che sembrava in imbarazzo.

«Scusami, Crowley… il tuo collega ha detto che non rispondevi alle chiamate e io… non ti ho sentito rientrare e non sapevo che avevi compagnia…»

«Non ti preoccupare di questo… non avrei dovuto spegnere il telefono. Scusami, devo sbrigarmi. Ne parliamo quando torno.»

«Certo, sì… a stasera.»

Non esitò oltre e richiuse la porta. Non scambiò nemmeno un'occhiata con Horn e l'atmosfera in cui si rivestirono era diventata tesa, come se due sconosciuti si fossero risvegliati insieme dopo una colossale sbronza.

Crowley non riusciva a non sentirsi in colpa, seppure capisse che non avrebbe potuto fare più di così per prendere il Vampiro; continuava a pensare che mentre lui passava una serata con una donna stupenda una bambina veniva rapita, che in ognuno di quei momenti piacevoli che gli affioravano alla mente quella bambina veniva dissanguata lentamente e privata del cuore mentre piangeva, pregava che qualcuno lo salvasse e nessuno era lì per lei.

Non sapeva se Horn sentisse qualcosa di simile a quello che provava lui o se riuscisse a capire comunque come si sentiva, ma non aveva voglia di intavolare una conversazione del genere. Evitò il suo sguardo anche uscendo, persino nell'ascensore – nonostante la sera prima quella cabina fosse stata teatro di una focosa prefazione – e fu un sollievo salire al posto del passeggero accanto a De Stasio: da quella posizione non poteva vedere la donna bionda in nessun modo se non girandosi.

«Aggiornami.» disse a De Stasio.

«Alex Montoya, ispanico, nove anni. Sì, questa volta è un maschio, e questo probabilmente manda gambe all'aria il tuo profilo, Skuld.»

Horn sul sedile posteriore non parlò e Crowley le lanciò un'occhiata fugace soltanto per scoprire che era molto stupita.

«Tornava dal campo di calcio quando si è avvicinato il temporale… sembra che uno dei compagni l'abbia salutato al bivio vicino al campus e poi è scomparso. L'ha trovato una coppia di operai che taglia per i campi passando dal vecchio deposito ferroviario per raggiungere il capannone dove lavorano. Dissanguato e con il cuore estratto dal petto, come le bambine precedenti.»

«Anche i maschi adesso… ma che sta succedendo? Questi tempi così ristretti, e ora cambia anche tipologia… o ci sbagliamo?» ponderò Crowley, in realtà più a se stesso che agli altri due. «Forse non gli interessano davvero le femmine. Forse è stato semplicemente casuale che avesse scelto solo femmine, finora… ma qualcosa… qualcosa gli sta mettendo fretta.»

De Stasio approfittò di un semaforo rosso per lanciargli un'occhiata, ma Crowley non lo notò, preso dai suoi pensieri.

«Accorcia il tempo, ma il suo modus operandi non sta evolvendo come succede in questi casi con i serial killer… segue lo stesso rituale, uno complesso che richiede molto tempo, che è molto rischioso per lui…» spiegò lentamente, seguendo i suoi ragionamenti. «Se fosse frenesia non credi che accorcerebbe il suo rituale, che diventerebbe più irruento, più impaziente? Qualsiasi sia il suo obiettivo ha fretta di raggiungerlo… mi piacerebbe pensare che ha paura di noi, ma ne dubito.»

«Dovrebbe averne, il bastardo.» osservò l’italiano.

«Ha già dimostrato con quella trappola che può sbarazzarsi di noi senza esporsi, se lo desidera, ed è scattata perfettamente… non ha motivo di avere paura di noi, non abbiamo niente in mano per prenderlo. E lui lo sa.»

«Che cosa facciamo, Crowley?»

«Non lo so, io… non lo so.»

Si massaggiò la fronte chiudendo gli occhi, come se potesse riordinare materialmente i pensieri con le dita, ma non servì a snebbiarsi le idee. Cosa pensasse il fantomatico Vampiro non riusciva a capirlo, neanche tutte quelle interessanti letture portate a termine durante la degenza in ospedale gli venivano in aiuto in qualche modo. Forse il Vampiro non credeva affatto di essere un vampiro, per questo non ne seguiva gli schemi di comportamento… o forse lui non era abbastanza sveglio e intelligente per interpretare correttamente.

«Abbiamo… qualcosa in comune con le altre vittime?»

«Nulla, finora… diversa scuola, squadra di calcio, famiglia ispanica di origine sudamericana, occhi e capelli scuri… la sola cosa in comune è che la famiglia è cristiana come quella della piccola Arnelle, ma sono di diverse parrocchie, quindi dubito che sia più che una coincidenza…»

«Dobbiamo… vediamo di scoprire se ci è sfuggito qualcosa… allarghiamo il raggio di ricerca, vediamo se troviamo qualcuno in comune in un raggio più ampio.» decise il detective, con più fermezza. «Controlliamo i compagni di scuola dei bambini, gli insegnanti, gli inservienti… i conducenti degli autobus che prendono, i negozi dove le famiglie sono clienti fisse… da qualche parte un anello di congiunzione deve esserci. Deve esserci qualcosa…»

«Controlleremo tutto, Crowley, calmati adesso.» gli disse De Stasio. «Resta calmo. Resta concentrato. Non si prende nessuna preda se il cacciatore è cieco.»

Una delle massime più ritrite di De Stasio, figurarsi.

Ma non poté non rendersi conto che aveva ragione: se si lasciava accecare dalla rabbia e fiaccare dalla frustrazione quella battaglia era già finita… ma anche sapendolo era molto difficile controllarsi: un'altra vittima, un altro bambino della sua città che veniva ucciso barbaramente da uno psicopatico introvabile quanto uno spettro…

Una volta arrivati alla centrale, che distava solo qualche chilometro da casa di Crowley, non era ancora riuscito a riprendere il controllo di sé e la situazione che vi trovò non aiutò a calmarlo: i telefoni squillavano come in un'agenzia di broker e la metà degli agenti era assente dalle scrivanie. Marciò verso la saletta del personale, ma trovò soltanto Rachel che si versava del caffè.

«Rachel… dove diavolo sono tutti?»

«Sparatoria a Down Satbury, stanotte… sette vittime tra cui il figlio di un procuratore, i telefoni sono bollenti e i piani alti pressano perché vengano svolte le indagini in fretta prima che le piste si raffreddino. C'è stato anche un omicidio-suicidio, o almeno così sembra, vicino al teatro... anche io andrò a sentire dei testimoni insieme a Gillespie.»

«Che cosa… Gillespie? Ma Harry è della mia unità!»

«Il capitano ha dovuto ridistribuire gli uomini... anche il sergente Naziri è sul campo, per la sparatoria, e il capitano stesso è sul vecchio caso dell'omicidio ai docks.»

«Ma che… come… come accidenti pretende che…»

«Crowley, calmati.» gli intimò De Stasio.

Per quanto l'ascoltò avrebbe potuto dirglielo anche in dialetto ceceno, difatti Crowley lasciò la saletta e si fiondò a lunghi passi dentro l'ufficio del capitano Alford. Lui incrociò i suoi occhi blu e non ci fu bisogno di parlare per comunicargli il motivo della sua insoddisfazione.

«Crowley...»

«Come pretendi che prenda quel bastardo se non ho nemmeno gli uomini per fare un sopralluogo accurato? Non ho nessuno che possa prendere le deposizioni, nessuno che possa andare alla scientifica, dal coroner... devo ancora parlare anche con l'avvocato di Echevierra per il confronto vocale! Come diavolo pensi che possiamo fare questo solo io e De Stasio?! Mi avevi detto che potevo avere tutte le risorse necessarie!»

«Anche con il massimo dispiegamento non hai trovato uno straccio di indizio, Crowley, e purtroppo i piani alti non sono inclini a darti fiducia come lo sono io... il caso del figlio del procuratore ha scavalcato lo psicopatico che uccide bambini della fascia bassa, e anche il caso dei docks che sembra coinvolgere una conoscenza del sindaco è salita di priorità.»

«Cosa... vuol dire che finché il Vampiro non ammazza il bambino di un pezzo grosso non è abbastanza importante prenderlo?!»

«In un mondo ideale tutte le vittime sono ugualmente importanti e meritevoli di giustizia.» commentò mesto il capitano. «Ma non viviamo in un mondo ideale... e la politica si intromette nel lavoro della polizia da quando essa esiste, lo sai bene.»

«E io cosa dovrei fare, Alford? Devo uscire... andare dai Montoya a dire loro che il figlio morto non è abbastanza importante per noi?»

«Sai che non è questo che voglio che tu faccia... fai il meglio che puoi coi mezzi che hai... ho le mani legate ora, Crowley. Cercheremo di chiudere questi nuovi casi in fretta in modo che tu possa riavere gli uomini che ti avevo assegnato.»

«Non è leale. Il motivo per cui siamo a corto di uomini e siamo andati a prenderli in prestito è proprio perché il Vampiro ci ha abbattuto come anatre colpite con un cannone a ripetizione!»

«I Silver Fang hanno fatto questo... lui... da solo è solo un orribile infanticida. Per i piani alti è più importante il fondo della polizia che questi signori ricchi contribuiscono a riempire di generose donazioni in previsioni di favori come questo. Mi dispiace, Crowley... io ti darei tutti gli uomini del distretto, ti darei la Guardia Nazionale se potessi, o i Navy Seals... ma non posso. Semplicemente... tragicamente... non posso

Davanti a tanta remissività del capitano anche l'indignazione di Crowley smorzò la sua intensità. Fissò gli occhi su di lui mentre si massaggiava la fronte, un segno di stanchezza e spossatezza che prese di sorpresa il poliziotto irlandese, che l'aveva visto tanto affranto solo in casi estremamente gravi a seguito di perdite umane. Esitò qualche istante, ma poi ricacciò in gola qualsiasi altra protesta e uscì dall'ufficio. De Stasio lo seguì mentre ripassava davanti a Horn che era in attesa fuori dalla porta a vetro.

«Che cosa...?»

«Sei bambini morti non sono abbastanza per avere una squadra a disposizione, in questo paese.»

«Crowley, ti ho già detto troppe volte di calmarti oggi.»

«Allora smettila di ripeterlo, è evidente che non serve.»

«Non fare il bambino... ha ragione il capitano: facciamo quello che possiamo con quello che abbiamo.» osservò lui con buonsenso. «Su, organizziamoci, qual è la priorità? Il confronto vocale potrebbe darci qualche certezza in più prima di procedere alla ricerca di un sospetto nelle cerchie delle famiglie e dei bambini.»

«E anche questo è un lavoro da rifare daccapo, con uomini che non abbiamo, perché la prima volta l'abbiamo fatto basandoci su un profilo psicologico che non è attendibile

«E adesso sarebbe colpa mia se il tuo capitano non ha agenti da darti?» domandò brusca Horn.

«Non ho detto questo, Horn! Comunque ammetterai che qualcosa non torna, dato che ha preso un maschio! La tua teoria sulla sorellina o la figlia è appena andata a farsi benedire o è una mia impressione?»

«Non prendertela con me solo perché sei frustrato!»

Crowley cercò di replicare ma De Stasio si spostò occupando tutto il suo campo visivo e ciò l'obbligò a incrociare i suoi occhi verdi. Si rese immediatamente conto di quanto stesse perdendo il controllo e chiuse gli occhi cercando di tornare a se stesso. La batosta di Alex Montoya, contro ogni previsione, senza alcuna avvisaglia e così improvvisamente l'aveva colpito. Aveva spostato violentemente il suo baricentro emotivo; doveva ritrovare l'equilibrio il prima possibile, o rischiava di fare qualcosa di molto stupido. Molto più stupido di quello che stava già facendo, come prendersela con il capitano e con Horn.

«Skuld, per favore... noi siamo i poliziotti. Le indagini stanno a noi. Per favore, cerca di venire a capo di questa anomalia. Spiegaci perché ha cambiato schema.»

«Io... lavorerò su questo.»

Horn si allontanò da loro e risalì il corridoio, forse verso una sala riunioni che potesse usare. Crowley sedette sul bordo della propria scrivania, ma non fece in tempo a pensare che fosse meglio mangiare qualcosa per essere più lucido che De Stasio gli scoccò uno sguardo di rimprovero come gliene aveva lanciato solo una volta, al suo primo grossolano errore alla squadra narcotici.

«Ed ecco perché andare a letto con una collega è una pessima idea, amico mio.»

«Non è una collega, è qui solo temporaneamente…»

«Non conta, è nella tua squadra, e ora reagirà in modo ipersensibile alle tue critiche così come al tuo umore. Non fa bene a te né a lei, e ancora meno all'indagine se vi stressate a vicenda.» sospirò l’italiano con un tono di pacato rimprovero da maestro di scuola elementare. «Pensavo che l'avessi capito ormai, che gente con un lavoro come il nostro deve avere a casa chi è in grado di farglielo dimenticare… dobbiamo tornare a una vita normale quando stacchiamo, o ci stiamo solo torturando ulteriormente.»

«Tu non sei sposato, De Stasio, quindi su cosa si basa la tua affermazione?»

«Tu che hai avuto un sacco di partner tuoi colleghi in polizia puoi forse darmi torto?»

«Avevo relazioni spensierate e felici con loro.»

«E come mai sono finite, allora?»

«Non vedo come questo c'entri qualcosa… comunque sono finite semplicemente perché le storie finiscono.»

«Le storie non finiscono senza motivo, e il motivo è che tra due poliziotti o si subisce lo stress doppio o si sa chiudere due parti della tua vita a compartimenti stagni. Tu non lo sai fare.»

«Certo che so farlo. Quando torno a casa mangio, bevo birra al pub, guardo la tv, come tutti gli altri.»

«E leggi libri insensati per entrare nella testa di un assassino che non è nemmeno una tua competenza.» rincarò De Stasio. «Il tuo pub, i documentari e anche i tuoi partner sono break dal lavoro esattamente come le pause caffè. Prima fai pace con questa cosa prima migliorerai la qualità della tua vita.»

«De Stasio... stai esagerando, e se non fossimo amici mi arrabbierei molto.»

«Puoi anche urlare e rompere una sedia se vuoi, ma prima chiediti che cosa saresti se da domani non potessi più fare il poliziotto. Senza una colpa effettiva, senza pene da scontare… semplicemente, il governo decide che gli irlandesi non possono più fare i poliziotti. Che cosa ti resterebbe? Hai a chi dedicarti… qualcosa che ti faccia dire “finalmente ho tempo per te”?»

Non dovette pensarci più di qualche istante, perché gli bastava pensare ai suoi giorni di ferie presi prima di allora: all'euforia dell'ultimo turno seguiva qualche ora di allegria, andava al pub invitando qualche suo amico che magari non sentiva da qualche tempo, beveva tanto e poi andava a dormire. Già il giorno seguente dopo aver ripulito per bene la casa e aver guardato i documentari registrati che si era perso nel periodo precedente si annoiava a morte e tentava qualcosa di nuovo solo per riempire il tempo prima di tornare al lavoro, e talvolta si faceva fotocopiare i rapporti per aggiornarsi in anticipo. Qualcosa a cui dedicare il suo tempo? Non l'aveva.

«Francamente, ci vai giù troppo pesante.» commentò Crowley, sentendosi sconfitto ancora una volta dal suo buonsenso disarmante.

«Questo mi rende il miglior genere di amico… quello onesto.» ribatté lui con un vago sorriso. «Sei un bravo poliziotto e anche una brava persona, Crowley… ma saresti migliore ancora se trovassi il tuo qualcosa

«Se ne vedi uno fammi un fischio.»

Crowley sollevò il telefono per chiamare l'avvocato di Echevierra nella speranza di organizzare il famoso confronto vocale, ma De Stasio non aveva ancora finito la sua seduta di amico-analisi.

«So solo che la Skuld… lascia perdere… è troppo inquadrata, troppo rigida… ti serve qualcuno di più estroso… tipo, un'avventuriera o un'artista. Le donne dell'FBI lasciale dove stanno.»

«Presentamene una, allora.» fece Crowley, digitando il numero leggendolo dal taccuino di appunti. «Sei italiano, qualcuna strana la conoscerai.»

«Anche tu conosci già qualcuno fuori dagli schemi… che ne dici del tuo amico della libreria? Estroso più che a sufficienza.»

Crowley rise mentre sentiva il primo squillo e De Stasio gli diede una pacca amichevole sulla schiena con un sorriso che tradiva l'ironia dietro quel commento, seppure con la voce l'avesse celata benissimo. Lo guardò avvicinarsi a Rachel per dirle qualcosa, poi l'avvocato rispose e rientrò a pieno regime nella modalità detective allontanando tutti i suoi dilemmi personali dalla mente.

 

 

Guardò l'orologio, come era sua abitudine, mentre l’ascensore raggiungeva il suo piano: mancavano quindici minuti alle dieci. Era stanco, era stressato, era demotivato e se aveva mai avuto una giornata di lavoro più brutta che non implicasse la morte di un suo collega non la ricordava.

Lasciò uscire un profondo sospiro mentre la porta trasparente interna si apriva, spalancò la grata abbandonando la cabina calda come un bagnoturco e si bloccò vedendo Yuu fermo fuori dalla porta dell'appartamento.

Gli occhi verdi si posarono su di lui corredati da un sorriso e capì che lo stava aspettando; probabilmente teneva d'occhio il parcheggio dalla finestra e gli era venuto incontro non appena riconosciuta la sua auto.

«Hai fatto tardi, Crowley. È stata una brutta giornata?»

«In realtà è stata abbastanza dura.»

«Ti va di cenare con noi?»

«No, credo che farò una doccia e andrò a letto. Grazie lo stesso.»

«Ma dovrai mangiare qualcosa.» insistette Yuu. «Dai, cena con noi... Mika sta facendo gli spaghetti con i gamberi. Saranno pronti tra poco, ti aspettiamo se vuoi prima fare una doccia.»

Si fermò mentre prendeva la chiave della porta di casa e incrociò di nuovo gli occhi verdi di Yuu, brillanti come quelli di un gatto nel buio, e riuscì a capire che cosa gli sembrasse strano di tutta quella situazione: lui staccava dal lavoro alle sei e trenta ed era a casa alle sette, e di solito cenavano intorno alle otto. Come mai cenavano così tardi, se non perché aspettavano proprio lui?

Cercò qualcosa da dire per sottrarsi all'invito, ma poi le parole di De Stasio di quel mattino gli tornarono in mente. Hai a chi dedicarti... qualcosa che ti faccia dire "finalmente ho tempo per te"?

Conosceva i suoi vicini da due anni, da quando si erano trasferiti in quel palazzo. Mikaela era sempre stato molto sulle sue e Crowley tendeva a non forzare la conversazione con le persone timide, ma Yuuichiro era tutto un altro tipo ed era molto espansivo; lo intrappolava spesso per parecchio tempo a parlare delle più disparate cose quando si vedevano nell'atrio o in lavanderia, giù nel seminterrato.

In pochi mesi erano diventati persone di cui si fidava, persone alle quali aveva dato le chiavi di casa sua, buoni vicini che avevano delle premure per lui – che fosse un pasto preparato e lasciato sul suo tavolo, la scadenza delle bollette scritta sul calendario della cucina, o un flacone di detersivo per lavatrice davanti alla porta quando lui dimenticava di averlo esaurito – e in una certa misura suoi amici.

Magari non avrebbe dedicato loro tutto il suo tempo se avesse perso il lavoro in polizia, ma un po' più del suo tempo lo meritavano, se lo desideravano. Alla fine, fece un sorriso e aprì la porta di casa.

«Mi faccio una doccia veloce, allora. Grazie.»

«Lascio la porta aperta!»

Yuu rientrò in casa lasciando la porta accostata spingendo tra essa e lo stipite lo spigolo di un portaombrelli e Crowley tornò alla sua tana, resa fresca dall'orientamento a nord-est che evitava l'esposizione nelle ore più calde. In poco più di dieci minuti si spogliò, si fece una doccia rapida e infilò la più comoda delle sue combo tuta-canottiera. Dopo altri cinque minuti era seduto nell'appartamento accanto, al tavolo quadrato della cucina, a guardare con sincero divertimento il buffo pappagallino bianco e giallo che passeggiava sulla spalla di Mikaela mentre cucinava.

«Albert è buffissimo, è uno spasso, davvero!» disse Yuu, e tentò di attirare l'attenzione del volatile schioccando le dita. «Albert... ehi, Albert, peek-a-boo! Peek-a-boo!»

«Che cosa stai...?»

«Shh, ascoltalo, ascolta... Albert, peek-a-boo!»

Con enorme stupore di Crowley l'animaletto flautò un verso che assomigliava moltissimo alle parole "peek-a-boo", sollevando e abbassando la testolina piumata più volte. Scoppiò a ridere e si sentì strano, come se ridere gli facesse male, come se non fosse più abituato a farlo e i muscoli fossero annichiliti.

Guardando Yuu e Mika che si parlavano, con il ragazzo dagli occhi verdi che si alzava a prendere l'animaletto e lo rimetteva nella voliera, Crowley ebbe un lampo dalla sua memoria più antica. Rivide la piccola cucina di casa, sua madre che spazientita metteva il piatto del marito nel frigo, e alla fine serviva la cena al figlio con una frase che si ripeteva quasi ogni sera passata a casa dei suoi: papà farà tardi, tu mangia.

«Crowley, stai bene? Sembri distante.»

«Eh? Ah... no, sto bene, Yuu.»

«È così tosta la situazione al dipartimento?»

«Beh, sì, ma davvero, stavo pensando a tutt'altro...»

«Tipo che cosa?» domandò Mika dai fornelli, lanciandogli una breve occhiata intensa.

Il primo istinto di Crowley fu quello di sorridere, fingere di non aver pensato a niente di diverso dal bucato, dall'ultima bolletta o dai pixel morti apparsi sullo schermo della sua televisione, ma anche solo il sorriso d'esordio uscì poco convincente. I profondi occhi verdi di Yuu lo fissarono per i secondi di silenzio che seguirono e alla fine Crowley sospirò appoggiando la schiena contro la sedia.

«In realtà... pensavo ai miei genitori.»

«È successo qualcosa?»

«No… almeno, niente di recente… solo, pensavo che non cenavo a casa con qualcuno da quando vivevo ancora insieme a loro.»

«Non ci hai mai raccontato granché dei tuoi, Crowley.» osservò Mika. «Che tipo di famiglia hai avuto?»

«Non un granché, vedendola con gli occhi di adesso. Scusate se lo dico a voi, so che siete stati molto più sfortunati.»

«Non ti preoccupare, sputa tutto!» l'incalzò Yuu.

«Non è una storia interessante.»

«Il tempo deve passare lo stesso mentre Mika cucina, no?»

Crowley tese un sorriso senza una vera allegria e si passò le dita sulla treccia distrattamente.

«Mio padre è cresciuto nel quattordicesimo di North End... a ridosso di Satbury, poco distante da qui. Era poliziotto anche lui, un agente di pattuglia.» raccontò fissando lo sguardo sulla finestra senza realmente guardarla. «Non ha mai fatto carriera e neanche ci ha mai provato, voleva evitare la corruzione politica ai gradi più alti della polizia… ha messo sempre la stessa uniforme ogni giorno fino al pensionamento, persino le scarpe, anche se gli erano diventate piccole. Non ama i cambiamenti, mio padre. Se dipendesse da lui il mondo sarebbe ancora fermo agli anni ottanta.»

«Beh, sarà orgoglioso di te, no? Che sei un poliziotto come lui, e che sei anche detective della squadra omicidi!»

«È probabilmente la sola cosa di cui è orgoglioso, ma sì, è contento che io sia un poliziotto... mia madre invece no.»

«Fammi indovinare.» disse Mika alzando la voce, visto che stava facendo sfrigolare da pazzi il pesce nella padella. «Ti voleva laureato con un lavoro che ti tenesse al sicuro?»

«Quasi: mi voleva laureato con un lavoro prestigioso. Non ha mai perdonato a mio padre di aver passato la vita fermo dove stava mentre tutti gli si arrampicavano sopra… era anche quel tipo, mio padre, faceva dei favori ma non riscuoteva mai un credito, tanti si sono approfittati di lui negli anni.»

«Quando si parla di essere troppo buoni, eh…?»

«Già, ha sempre fatto infuriare mia madre, ma lui non è un uomo che si muove dalle sue convinzioni… beh, neanche lei. Sono irlandesi tutti e due, dopotutto.»

«"Irlandesi teste dure".» disse Mika, citando un popolare luogo comune.

«A prova di proiettile, probabilmente… mia madre, soprattutto, in quel senso è proprio un generale. Mio padre dice che se mai l'Irlanda andasse in guerra chiederebbero a lei di vincerla.»

«Hai preso da lei il lato forte del tuo carattere, allora!»

«Mah, direi che l'ho semplicemente sviluppato per non soccombere completamente a lei durante l'adolescenza… almeno mi ha permesso di impormi a sufficienza da poter frequentare il corso di arti marziali miste durante gli anni della scuola.»

«EH?! Arti marziali miste?!»

«Oh… non ve l'avevo mai detto?»

«No! Che figata!» esclamò Yuu, trasfigurato dall'entusiasmo. «Devi assolutamente insegnarmi!»

«Yuu-chan, data la differenza di stazza ti potrebbe anche uccidere.»

«Con le MMA puoi ammazzare chiunque, anche se è più grosso di te.» osservò Crowley. «Basta conoscere la mossa giusta e avere una preparazione sufficiente a usarla. Ma se vuoi, se sei libero qualche sera, puoi venire alla palestra con me, dare un'occhiata. Puoi venire anche tu, Mika.»

«Davvero possiamo?! Mika, andiamo!»

«Non sono convinto sia una buona idea…»

«Ma se vogliamo fare l'accademia di polizia è importante anche essere fisicamente preparati!»

«Beh… possiamo sempre dare un'occhiata e valutare…»

«Tranquillo, lo convincerò.» disse Yuu con fiducia. «Lo convinco sempre, lui non è come tua madre!»

«Che cosa hai detto a tua madre per convincerla, a proposito? Ti ha lasciato praticare un'attività così violenta…»

«Non che ne fosse contenta, ma l'ho convinta dicendole che avrei imparato a difendermi… in quegli anni il North End non era proprio tranquillo, sapete, c'erano alcune gang e si sentiva abbastanza spesso di risse, pestaggi e qualche coltellata tra giovani. Funzionò, comunque, mi diede il permesso a patto che continuassi a non uscire con le ragazze.»

«Eh? Davvero?»

«Credo fosse convinta che lo sport stimolasse troppo gli ormoni maschili, e mi preferiva capace di picchiare qualcuno piuttosto che sapere che avevo infranto il voto di castità prematrimoniale.»

«Mi sa che la tua mamma è un po' meno orgogliosa di tuo padre, per questo…»

«Yuu-chan, ma che commenti sono?!»

Crowley scoppiò in una breve risata che, almeno dentro, gli lasciò un retrogusto amaro.

«Hai assolutamente ragione. Mia madre è molto delusa da me per tanti motivi: non ho il lavoro di alto profilo che lei sperava, non mi sono laureato, non ho sposato una donna irlandese e non ho fatto i tanti figli in grazia di Dio che avrebbe voluto per nipoti, e continuo a offendere il Signore con una condotta sessuale esecrabile. Ormai dubito che persino la vita monastica basterebbe per redimermi ai suoi occhi.»

«Crowley, mi dispiace tanto…»

«Di che parli? Ho fatto tutto io. Ho fatto le mie scelte e per quelle ho perso mia madre. Sapevo di ferirla facendo quello che volevo fare.»

«Ma è ingiusto, tu non lo fai per cattiveria, sei… solo così

«Lo sono? Lo sono diventato a opera del Diavolo? Lo sono perché in realtà a Dio non importa di questi dettagli? Ognuno ha la sua risposta e nessuna è giusta, tranne quella di Dio, che però non sapremo se non quando dovrà giudicarci.»

Crowley si perse a osservare la notte fuori dalla finestra, perso in pochi attimi di riflessione sul giudizio di Dio, poi guardò di nuovo Yuu passarsi distrattamente la mano nei capelli mori e notò quanto sembrasse a disagio. Si sentì in colpa per avere intavolato una conversazione tanto deprimente.

«Ah, dopotutto ho un certo talento per i sermoni che fanno sentire in colpa i parrocchiani, vero? Lasciate perdere i miei deliri, quando sono stanco o di cattivo umore, da bravo irlandese, rimugino sulle mie disgrazie. Per fortuna non c'è traccia di whisky in questa casa!»

«Non fa male rimuginare su quello che fa male, di tanto in tanto.» disse Mika, e si avvicinò al tavolo portando un sontuoso piatto da portata traboccante di pasta. «Siamo contenti se vuoi venire da noi, quando hai voglia di rimuginare ad alta voce.»

Si sforzò di sorridere e accolse il gran piatto di spaghetti con più entusiasmo di quanto ne sentisse, anche se aveva davvero fame.

«Caspita, Mikaela, sembra fantastico.»

«Mika cucina benissimo, quando non conta le calorie!»

«Cucino benissimo lo stesso.» replicò lui piccato, e si sedette al tavolo. «Mi dovresti ringraziare di mantenerti così in forma, e invece…»

«Crowley, vuoi…?»

Entrambi i ragazzi lo guardarono sbigottiti per un motivo che Crowley non afferrò, tanto che guardò come teneva la forchetta in mano. I suoi vicini si guardarono in faccia e gli occhi azzurri di Mikaela sembravano quasi angosciati. Tutto nella sua espressione diceva "ti avevo detto che era una cosa grave" e questo mise vagamente a disagio il poliziotto. Solo quando notò che Yuu aveva unito le mani capì che cosa li aveva tanto turbati.

«Ah… non vi preoccupate per la preghiera. Non vi volevo mettere a disagio, so che non siete cattolici.»

«Ma… noi… abbiamo sempre lasciato che la dicessi quando è capitato di mangiare insieme, non è un problema…» disse Mika, esitante. «Non ci dà fastidio…»

«Non c'è bisogno, davvero… mangiamo e basta, okay?»

Purtroppo più che rasserenarli non fece che aumentare le loro preoccupazioni. Sarebbe stato più efficace dire una breve preghiera e fingere che fosse tutto normale, ma... come faceva a essere furioso con Dio per aver lasciato morire così quattro splendide persone e ottimi agenti di polizia e poi ringraziarlo di un pasto al quale avrebbe volentieri rinunciato per essere morto al posto di uno soltanto dei suoi amici? Non era in grado di apprezzare il dono della vita finché non avesse compreso il motivo per cui era più meritevole degli altri di vivere, se non era neanche capace di trovare un indizio sul loro assassino.

«Crowley, per favore, ascolta.»

«Mika…»

Mika afferrò il braccio di Crowley appena sotto il gomito, posando il suo sguardo penetrante su di lui. Assunse un'aria molto seria.

«Non devi sentirti in colpa perché sei vivo e i tuoi compagni no.» gli disse, facendogli seccare la gola in un attimo. «Non è colpa tua se sono morti, non è per codardia che tu sei ancora vivo. Siete stati toccati da una grande crudeltà e tu sei vivo perché eri solo più fortunato di loro… non è una cosa per cui biasimare te stesso.»

«Non è biasimo, è…»

«Non farlo, Crowley. Ogni volta che pensi che è ingiusto che tu sia ancora vivo stai sputando in faccia a tutte le persone che sono felici che tu sia ancora qui e che non abbia riportato conseguenze dalle tue ferite. Come me e Yuu-chan.»

«Santo cielo, ragazzi…»

Crowley si toccò il collo cercando qualcosa da dire che stemperasse quell'atmosfera improvvisamente gravida, almeno per come la percepiva lui, ma non riuscì a pensare a niente di efficace prima che Yuu prendesse parola: ora che il tabù era stato rotto sembrava non vedere l’ora di dire anche lui cosa pensava di quella terribile faccenda.

«Siamo stati davvero in pena per te, lo sai? Vederti tornare a casa sulle tue gambe è stato un vero sollievo…»

«Questo… questo lo apprezzo, ma…»

«Non siamo certo i soli. La signora McCarr ha fatto un voto in chiesa, ha promesso che avrebbe digiunato per sette giorni se tu fossi tornato a casa sano e salvo dall'ospedale.»

Bernadette?

Gli venne subito alla mente con quanto entusiasmo l'avesse salutato al suo ritorno a casa quella cara signora anziana che abitava al piano terra del loro stesso palazzo; ricordava in quante occasioni fosse stata gentile con lui prestandogli detersivo, stendendo il suo bucato al suo posto e offrendogli spesso una porzione abbondante del suo delizioso pasticcio, ma l'idea che potesse aver digiunato per una settimana per salvargli la vita era sconvolgente. Si chiese se altri parrocchiani si fossero uniti al suo voto o ne avessero fatti altri apposta per lui.

«Ma è… ve l'ha detto lei?»

«Certo che no, lei non ci parla con noi.» ribatté Mika, piccato. «Ma ce l'ha detto il tuo prete.»

«Padre Gilbert? Dove lo avete visto?»

«È venuto qui… i primi di agosto, forse?»

«Sì, i primi di agosto.» confermò Yuu. «Il due, o il tre, forse.»

«Voleva sapere qualche notizia, e in che ospedale eri ricoverato… non è venuto a trovarti?»

Crowley esitò, chiedendosi se fosse il caso di essere sinceri e dire loro che era stato tenuto sotto sorveglianza nel caso il Vampiro o qualcuno per suo conto fosse andato a finire il lavoro, e infine decise di non parlarne. Quei due ragazzi sembravano già molto preoccupati così.

«No… beh… in agosto padre Gilbert è molto impegnato, tiene i bambini della comunità mentre i genitori lavorano… in questo clima, con un assassino di bambini in giro, sarà stato ancora più…»

«Il punto…» l’interruppe Mika in tono quasi feroce. «È che erano in tanti a volerti vivo, Crowley, e tu fai loro un torto desiderando di essere morto con i tuoi colleghi.»

Non riuscì più a reggere gli occhi azzurri di Mikaela e preferì fissare un disegnino di un topolino sul bordo di un girasole stampato sulla tovaglia. Era la prima volta a memoria d'uomo che non riuscisse a reggere il confronto visivo con qualcuno, ed era anche la prima volta che Mikaela si mostrava tanto coinvolto emotivamente in qualcosa: era sempre stato un ragazzo freddo, distaccato, diffidente verso gli altri a causa della sua infanzia in casa famiglia a contatto con la dura realtà degli abusi sui minori. Non si aspettava da lui dei commenti tanto forti, tanto intrisi di emotività. Non aveva idea di come reagire.

«E poi tu devi essere il nostro supervisore, quando entreremo in polizia!» esclamò Yuu, con un tono decisamente più gioviale. «Non puoi mica morire prima che succeda, e poi ti dobbiamo tormentare fino al pensionamento!»

Mikaela guardò Yuu per un momento e poi sorrise senza aggiungere nulla. Crowley aveva quasi dimenticato di averglielo detto per scherzo quando aveva suggerito ai suoi vicini, ormai diplomati e alla ricerca di una strada, di entrare nell'accademia di polizia. Aveva detto loro che avrebbe potuto aiutarli a studiare e che se fossero entrati in servizio attivo gli avrebbe potuto fare da supervisore, come De Stasio era stato il suo all'inizio della carriera. Tese un sorriso incerto; era ancora piuttosto scosso nel profondo da quelle rivelazioni inaspettate.

«Beh, se questo ti è chiaro, allora direi che va bene! Mangiamo prima che si raffreddi tutto?»

«Ah… potete aspettare un momento? Sarò breve, lo giuro.»

Entrambi lo guardarono confusi, poi sorrisero quando lui congiunse le mani e vi appoggiò la fronte come faceva sempre per la preghiera. Yuu unì i palmi delle mani e Mika posò i gomiti sul tavolo intrecciando le dita e chiudendo gli occhi.

«Benedici, o Signore, questo cibo che i nostri stomaci sofferenti bramano tantissimo.»

Mika emise una sottile risatina e Yuu gli assestò una leggera gomitata sul braccio.

«Mika, non ridere durante la preghiera!»

«Scusa, scusa…»

«Ti ringrazio per aver rinunciato a chiamarmi al tuo cospetto così presto.» proseguì Crowley, come non avesse sentito nulla. «Così posso mangiare questo cibo stasera. E soprattutto, benedici chi me l'ha preparato e chi mi ha invitato a questa tavola. Amen.»

Crowley risollevò la testa sorridendo alla stupita perplessità dei suoi due ospiti, ma si ripresero quasi subito, borbottarono un amen di risposta e si accinsero come lui a mangiare.

Anche se De Stasio l'avrebbe ucciso se l'avesse saputo Crowley non era un grande amante dei piatti italiani a base di pasta, ma consapevole del fatto che aveva rischiato davvero di essere nel regno dei cieli se non in un posto peggiore si godette quegli spaghetti come non si era mai gustato un pasto in vita sua, e gli sembrò anche di non avere avuto migliore compagnia da molti anni per una cena.

Dopo che Yuu gli ebbe raccontato le più grosse scenate dei clienti dell’azienda per la quale faceva le consegne era decisamente di buonumore e certe scene imbarazzanti con i clienti del fast food dove Mikaela lavorava part-time al bancone lo fecero ridere senza che riuscisse a mantenersi controllato come di consueto.

«Avere a che fare con le persone a volte è proprio assurdo, eh?»

«A volte ti fa impazzire.» disse Mika. «A volte vorrei progettare siti web e starmene tappato in casa tutta la vita.»

«Ma sarebbe un peccato che nessuno ti possa mai vedere, Mika~»

«Appenderò una foto alla porta.»

«Ma le foto non rendono abbastanza bene!»

«Dacci un taglio, Yuu-chan, non posso vivere in casa. Non so progettare siti web.» replicò lui, inacidito come una ricotta scaduta. «Crowley, hai mangiato abbastanza?»

«Anche più che abbastanza, Mikaela. Grazie, era buonissimo.»

«Vuol dire che non hai spazio per una fetta di torta?»

«Torta? C’è anche un dolce? Nessuno me l’aveva detto.»

«Beh, vedi, una volta qualcuno mi ha detto quanto ti piacesse una certa torta… qualcosa tipo una torta al cioccolato…»

Mika si alzò dal tavolo e andò a prendere un contenitore rotondo coperto. Lo posò davanti a lui e Yuu fece un gran sorriso quando lo scoperchiò mostrando una torta a quattro strati decorata con ciuffetti di panna e amarene lucide come pietre preziose.

«Con la panna e le ciliegie, forse?»

«Ragazzi… io… non so come dirvelo.» ammise Crowley, fissando la torta. «Ma quasi quasi vorrei rischiare di morire più spesso.»

«Beh, visto che è una specie di apprezzamento non ti pianterò questo coltello nella mano per quello che hai detto.» rispose Mika, e si mise a tagliare delle fette. «Ma tu cerca di non rischiare la pelle più dell'inevitabile… la torta te la faremo più spesso anche se stai bene.»

«Io e Mika ci divertiamo a cucinare insieme quando ho il pomeriggio libero, non te l'abbiamo mai detto? Lo facciamo spesso!» fece Yuu, e avvicinò tre piattini scompagnati per ospitare i pezzi di dolce. «Non ci siamo divertiti un sacco, Mika?»

«Non è che devi dirgli tutti i dettagli di come abbiamo fatto questa torta, Yuu-chan... vuoi dirgli anche che ti è caduto un uovo sulle scarpe nuove?»

«Ahh! È stato terribile, sembrava cadere al rallentatore quel maledetto uovo!»

Non riuscì a non chiedersi con un pizzico di malizia che cosa Mikaela volesse nascondere sviando il discorso sull'uovo caduto e poi sulla fissazione di Yuu nel comprare sempre qualche nuovo paio di scarpe da ginnastica. Non indagò oltre e li lasciò discutere sugli spazi non equi occupati dalle loro cose nell'armadio e nel bagno mentre lui spazzolava due fette di torta senza la minima traccia di vergogna.

Se non altro io ho tutto l'armadio per me, tutto il bagno per me e tutto il letto per me... beh, la maggior parte delle volte.

Passò un'altra mezz'ora dai suoi vicini parlando di modelli di automobili tentando di dare loro un'opinione obiettiva, dato che avevano intenzione di acquistarne una, e quando raggiunsero un accordo su un modello in particolare che rientrava nel budget e soddisfaceva le loro esigenze pratiche ed estetiche Crowley decise che fosse il momento di congedarsi. Li ringraziò per la cena e la compagnia, entrambe sinceramente gradite e molto rigeneranti a livello mentale, e si ritirò nel suo appartamento.

Fu tentato dai libri appoggiati sul tavolino del soggiorno: magari con la mente più rilassata da quella serata avrebbe potuto cogliere qualcosa di diverso in quei rapporti, focalizzare qualcosa in quei saggi che gli era sfuggito la prima volta che li aveva letti… ma poi si sforzò di ignorarli e decise di mettersi a dormire. Strapazzare la sua mente e il suo corpo non avrebbe aiutato le indagini né la routine della sua vita quotidiana. Doveva riposare, staccare ogni collegamento e allora, solo allora, sarebbe riuscito a vedere qualcosa che prima non vedeva.

 

 

 

Crowley tirò un pugno rabbioso sul volante mentre attendeva che il semaforo scattasse sul verde e l'autoradio si spense per poi riaccendersi, come al solito sensibile a ogni sussulto.

È tutto inutile! Tutto!

Era appena stato spedito a casa da De Stasio, il quale aveva notato quanto fosse rimasto sconvolto dalla nuova scena del crimine. Scoprire che nemmeno l'allerta era riuscita a impedire al Vampiro di trovare bambini da uccidere e menomare era stato un colpo fin troppo duro: dopo aver allertato tutta la popolazione di non lasciare incustoditi i bambini e di istruirli a non seguire nessuno senza il consenso di genitori e tutori credevano di aver messo tutti al sicuro, ma il Vampiro era più disperato o coraggioso di quanto credessero e si era spinto fino ad attirare una bambina afroamericana in una situazione che avrebbero tutti creduto fosse sicura.

L'ultima volta che era stata vista era seduta sui gradini di un negozio di alimentari, quando il cielo era ancora chiaro e la sorella maggiore comprava latte, uova e zucchero per preparare un dolce per la madre. All'uscita della ragazzina la piccola si era volatilizzata senza che qualcuno dei passanti notasse nulla di anomalo, e all'alba la bimba era morta.

Crowley si morse il labbro inferiore e rimise in moto quando la luce divenne verde. Non riusciva a togliersi dalla mente quella bambina più di tutti gli altri, anche perché era la più piccola: soltanto sei anni, una piccola bambina che smaniava per i suoi primi giorni di scuola alle porte, che portava ovunque il suo zainetto con le farfalle, e che poteva essere salvata. Che avrebbe dovuto essere salvata.

Un'intera squadra di detective, una profiler dell'FBI, tutta la rete di informatori di un agente di lunga data della narcotici, una conferenza stampa per mettere in allerta la città e non erano stati capaci di impedire a quel mostro di prendere un'altra bambina. Era frustrante, era ingiusto, era straziante e la sfuriata di rabbia e dolore della madre che l'aveva incolpato dell'accaduto e persino schiaffeggiato non l'aveva aiutato a prendere la tragedia più stoicamente.

Aveva promesso a Mikaela di non fare mai più pensieri del genere, ma quella sera era troppo straziato e furioso per mantenervi fede.

«A cosa servo? Cosa faccio ancora qui se non riesco neanche a fermare quel mostro? Perché diavolo fai così?!»

Inchiodò in mezzo alla strada e fortunatamente l'auto dietro la sua era abbastanza distante da rallentare e superarlo suonando il clacson spietatamente al suo indirizzo. Non badò agli insulti, non si scusò e cambiò marcia per effettuare un'inversione, suscitò qualche altro colpo di clacson e alla fine svoltò in una strada che non percorreva da qualche tempo ma che gli risultava familiare quanto la casa d'infanzia.

Parcheggiò praticamente di fronte all'alto cancello della chiesa di Saint Thomas, a quella tarda ora probabilmente deserta, e scese dall'auto chiudendo la portiera con una calma che strideva con la tempesta che sentiva ruggire dentro la testa. Marciò dentro il cortile dove così tante volte aveva giocato a basket con altri bambini della comunità, tra i quali l'amico George; la sua memoria gli ripropose le belle luci delle luminarie di Natale sulla facciata, l'odore della mela candita che vendevano in autunno per raccogliere offerte, l'eco del coro delle voci bianche lontano nel tempo…

Infine aprì il portone di legno e venne avvolto da penombra, bagliori tremolanti di candele accese, pallidi barlumi dorati delle decorazioni dell'altare e un odore conosciuto, un misto di olio per lucidare il legno e incenso. Il silenzio era opprimente, quasi quanto l'alta sagoma del crocifisso nella bassa luminosità dell'ambiente. I suoi passi riecheggiarono tra le colonne della navata e la volta con affreschi curati ma non sfarzosi.

«Beh, eccoci qui… ancora una volta.» disse, tenendo gli occhi sul crocefisso. La sua voce riverberò nella chiesa vuota. «Tuo il gioco, tue le regole, giusto?»

Non ricordava una sola volta nella sua vita in cui si fosse rivolto con tale diffidenza e arroganza al Signore al quale la sua famiglia gli aveva insegnato a dare ogni onore, ogni gloria e tutta la sua fervente dedizione, ma al momento sperimentava la più classica quanto terribile condizione del credente perduto: la sensazione di essere stato vittima di un'ingiustizia, la percezione che il suo Dio l'avesse risparmiato alla morte per poi abbandonarlo nel buio senza una guida.

Entrò nel confessionale e scoprì che i cuscini sui quali inginocchiarsi erano stati rifoderati dall'ultima volta che ci era stato. Ci si appoggiò, tirò la corda della campanella e attese che padre Gilbert lo raggiungesse, sperando di non interrompere una sua cena tardiva. Aspettò solo alcuni minuti prima di sentire il rumore della porta di legno e vedere lo sportellino aprirsi.

«Apri il tuo cuore e parlami dei tuoi errori con sincerità e senza vergogna. Attraverso me e con il patrocinio di Gesù Cristo il Salvatore le tue colpe saranno perdonate dall'Altissimo, non importa quanto grandi esse possano essere.»

«Spero che tu abbia tempo, perché ho molto da farmi perdonare.»

«Crowley, sei tu…» disse Gilbert, e i suoi occhi azzurri penetranti sbirciarono tra i trafori decorativi nel legno. «Pensavo che non ti avrei più rivisto alla Saint Thomas. Bentornato tra noi.»

«Ho rischiato di non ritornare, padre. In questo periodo la mia fede ha vacillato tanto da pensare che non c'è nessun Dio a guardarci.»

Seguì qualche attimo di denso silenzio e Crowley seppe che la sua confessione aveva fatto breccia nell'amico di lunga data e parroco di Saint Thomas. Gli Eusford si diceva discendessero da cavalieri delle prime crociate e di certo mantenevano viva una fiamma secolare di fede nel dio della cristianità, e anche per questo i suoi ferventi genitori gli parlavano a malapena.

Strinse le dita intrecciate in preghiera e serrò gli occhi, lottando con se stesso. Aveva bisogno di ritrovare la sua comunione con Dio, ma come poteva se non si sentiva colpevole di molti dei peccati che sua madre gli imputava?

«Sei molto tormentato, Crowley, lo vedo… parlami… dei tuoi peccati o delle tue afflizioni.»

«Mi sono confessato ogni domenica negli ultimi diciotto anni, l'ho fatto anche quando mia madre ha smesso di dirmi di farlo, perché io credevo davvero di aver offeso Dio con i miei pensieri e le mie azioni… ma poi ho avuto dubbi, sempre di più… che cosa è giusto e cosa è sbagliato? La Bibbia dice che chi marchia il suo corpo meriterà il castigo, e io devo davvero credere che una donna che tatua il nome dei suoi figli sulla sua pelle meriterà l'inferno? Devo davvero credere che chi porta la croce sulla pelle meriti il castigo? Perché Dio ci ha creato e ci ha dato sogni, impulsi e desideri se non fa altro che castigarci se cediamo? Ci ha creato imperfetti solo per punirci della nostra imperfezione? Che senso può avere questo?»

«Crowley… sai bene che la Bibbia non deve essere presa così alla lettera… dice anche "non mangerete nulla che contenga sangue", eppure continuamente si parla di sacrifici di bestiame, e in tutti i Vangeli si parla di agnelli, tori, montoni e pesci; non hanno forse sangue? Ma perché ora i tatuaggi ti opprimono a tal punto, ne hai fatto uno?»

«Gilbert, ti ho confessato tante volte di avere desideri… di avere una condotta sessuale molto poco cattolica. Ti ho anche confessato di opporre una resistenza ridicola alla tentazione in questo senso.»

«Sì, me l'hai detto.»

«Ma non ti ho mai confessato che tante persone che ho traviato e da cui mi sono lasciato traviare erano uomini. La Bibbia condanna la sodomia così come il furto e i marchi sul corpo, ma io come posso confessare questo come un peccato? Non sono pentito di questo. Non sono pentito di aver trovato persone per le quali provavo affetto e non sono pentito di quegli atti che la Bibbia definisce peccati. Come faccio a chiedere a Dio di perdonare le mie colpe se sono fermo sulla mia decisione di non aver sbagliato?»

«Beh… Crowley, chi deve cedere tra un padre e un figlio che litigano? Il padre arrabbiato o il figlio che non capisce di aver sbagliato e di avergli dato una preoccupazione? Perché il Signore non vuole castigarti, non gode certo a tormentare i suoi figli. Ti lascia scegliere, ti lascia anche sbagliare, e aspetta solo una parola di scuse per perdonarti e fingere che non sia mai accaduto nulla.»

«Non posso e non voglio scusarmi di qualcosa che non ha fatto male a nessuno e che ci ha reso felici.»

«Che cosa posso dire? Anche io ogni tanto commetto peccati. Peccati che potrei evitare solo pensandoci su qualche istante, distogliendo lo sguardo, ignorando il profumo delle torte in periodo di Quaresima…»

Un sorriso increspò le labbra di Gilbert, ma Crowley non guardava attraverso l'intaglio della finestrella e percepì solo la sua leggerezza dal suo tono di voce.

«A volte mi limito ad accettare la mia imperfezione di essere umano, scelgo di cedere, e chiedo perdono a Dio per prendere questo tipo di decisioni a cuor leggero conoscendo la sua misericordia… un padre molto buono cresce figli viziati, in realtà. Le regole servono a mitigare questo effetto collaterale… ma Crowley, non ti disprezza per quello che sei. Non ti disprezza per quello che fai. Se così fosse, non ti avrebbe certo salvato la vita.»

Erano arrivati al punto cruciale del tormento di Crowley.

«E se l'avesse fatto proprio per punirmi?»

«Che cosa vuoi dire?»

«Forse ha voluto castigarmi così per i miei peccati… mi ha tolto persone care, e persone con le quali io ho… e mi ha lasciato vivere per soffrire la loro scomparsa, e la mia impotenza nel dare loro giustizia…»

«Ah… è questo dunque il punto…» disse Gilbert, in tono più serio. «Soffri perché non riesci a prendere l'assassino dei tuoi colleghi… e credi che sia una punizione perché in fondo al cuore pensi che avresti meritato un castigo per i peccati che non hai mai confessato nemmeno a me.»

Crowley non rispose e aprì gli occhi blu soltanto per fissarli su alcuni foglietti attaccati sul legno del confessionale con il nastro adesivo per i bambini più piccoli, elencanti i comandamenti e l'atto di dolore. Non aveva la forza di guardare padre Gilbert, non con il terribile senso di colpa, di impotenza e di confusione che sentiva schiacciarlo come se la mano stessa di Dio gli pesasse sulla testa. Era il retaggio della stirpe Eusford, probabilmente: liberarsi della certezza di essere nati peccatori per peccare e dover conquistare la salvezza fino alla fine dei giorni forse era impossibile, per lui.

«Ma pensi davvero che il Signore che ha dato il soffio della vita a tutti noi ti punirebbe a scapito di George e degli altri tuoi colleghi? Avrebbe dato loro una morte improvvisa e violenta, senza scampo né occasione di essere assolti dai loro peccati, per infliggerti dolore? Crowley, se questa è la tua idea di Dio devi essere venuto ogni domenica unicamente per paura che la sua ira ti colpisse come un fulmine.»

«Io… venivo ogni domenica perché, soprattutto da ragazzo, mi faceva sentire… accomunato a Lui… uscivo da qui e mi sentivo in pace, mi sentivo forte e protetto, come se camminasse accanto a me. Ma ora… non lo sento più… e io ho bisogno che Lui sia di nuovo con me. Di sentirlo di nuovo dalla mia parte.»

«Lui è sempre con te. Lo è anche ora, ma tu non riesci a sentirlo perché ti senti in colpa nei suoi confronti… e se per te è così importante sentire di avere il suo perdono, devi soltanto chiederglielo. Se non pensi davvero di avere sbagliato, chiedigli perdono come lo chiederesti a un amico che per te è prezioso ma con cui non condividi le stesse opinioni su qualcosa. Troveresti un compromesso, non credi?»

Crowley era decisamente poco convinto, e confuso: era davvero giusto trattare Dio come un amico e risolverla come un battibecco tra ragazzini testardi?

«Parlagli tu stesso… hai sempre parlato da solo con il Padre, fin da quando eri bambino... alla scuola cattolica eri il primo a inginocchiarti per la preghiera della sera e dopo che tutti si erano messi sotto le coperte tu eri ancora lì a mormorare… e non è l'unica occasione in cui ti ho sentito rivolgerti a Lui come se fossi certo di essere ascoltato… sarò qui perché il rito lo impone, ma non sei obbligato a parlare con me. In fondo, la confessione è una conversazione a tre fra il penitente, il ministro e Dio.» gli fece notare Gilbert, e sorrise incoraggiante. «Parla con Lui... e saprai che non ha mai lasciato il tuo fianco.»

Crowley si mosse sull'inginocchiatoio, per la prima volta da molti anni sentendosi a disagio in procinto di pregare. La sua esitazione lo ammutolì per diverso tempo, mentre nella sua testa si susseguivano i suoi scatti d'ira insoliti nell'ultimo periodo, le sue brevi, rare e sterili preghiere, i suoi dolorosi fallimenti e il senso di abbandono che provava e che non sapeva se fosse causato dalla perdita degli amici o di Dio, o da tutti loro. Alla fine, con la sensazione di non aver mai fatto tanta fatica a scollare le labbra in vita sua, parlò.

«Sto soffrendo molto, e Tu lo sai.» disse, fissandosi le mani giunte. «Sono assediato da un nemico forte al punto da far vacillare la mia fede... un nemico che minaccia la mia vita e che ha preso le vite di tanti tuoi figli. Io non sono degno di essere la tua spada a causa dei miei peccati e della mia incapacità di accettarli come tali, e se dev'essere così sia come Tu vuoi.»

Esitò un momento, ignaro del fatto che Gilbert lo stesse guardando con intensità dall'altro lato del confessionale, e la sua voce uscì più ferma da quella pausa.

«Ma io ho fatto tutto quello che potevo… noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo contro questo nemico, e solo Tu puoi fare di più. Mi hai già fornito uno scudo per non soccombergli, e se non posso essere la tua spada offrimi qualcuno degno di questo compito, per portare a termine la mia missione e proclamare la tua giustizia contro le forze del male.»

Gilbert tese un sorriso dopo qualche suo minuto di silenzio, e stava per dirgli qualcosa quando Crowley parlò di nuovo; strinse le mani con forza e serrò gli occhi.

«Signore, in Te io mi rifugio. Dio, che sei la mia difesa e la mia forza, Signore, che sei la mia guida e la mia gioia, ascolta la mia supplica. Vieni in mio soccorso, guida i miei passi verso Te che sei l'unico vero Dio, liberami dalle catene della mia schiavitù e salvami dal cammino che porta alla distruzione

Il tono con cui recitò quelle frasi dai salmi lasciava intuire quanto si sentisse abbandonato e Gilbert non si stupì più di tanto quando emise un sospiro tremante e appoggiò la fronte contro il legno del confessionale sotto al crocifisso. Ponderò che fosse terapeutico per lui, dal punto di vista psicologico e spirituale, lasciare che tirasse fuori la propria debolezza per poi superarla.

Dopotutto, nessuno attraversa una simile tempesta nella vita senza un momento di fragilità... nemmeno tu, Crowley.

«So che sono un figlio indegno… lo sono per te quanto lo sono per i miei genitori… sono debole, non provo neanche a resistere alle tentazioni che mi si presentano, e fingo che sia giusto come compensazione del mio lavoro costantemente dedito a proteggere gli innocenti e a condannare i colpevoli secondo la legge che Tu ci hai dato... nascondo la mia debolezza dietro delle scuse e cedo a tutto quello che suscita in me un desiderio, e nonostante… nonostante questo Tu mi salvi...»

Le mani facevano male per la forza di rabbia, frustrazione e disperazione che lo portavano a serrare le dita tra loro.

«Perché? Perché sono prescelto per fermare questo nemico dei Giusti? Allora offrimi la tua spada. Perché sono tuo figlio prediletto? Allora offrimi la tua spada!»

Crowley emise un nuovo sospiro tremante mentre lasciava il peso sui propri talloni e posò le mani sulle ginocchia, con il capo chino. Sentiva un grosso nodo stretto in gola che gli impediva di dire qualsiasi altra cosa e avvertì il bruciore agli occhi che, dopo essere stato per molti anni sconosciuto, era tornato a essere qualcosa di più familiare negli ultimi mesi.

«Ti prego.» riuscì a dire con un debole soffio.

Sentire la voce di Gilbert quasi lo prese di sorpresa; aveva dimenticato che fosse presente.

«Sono certo che dopo tante confessioni sai che cosa devi fare, ma… recita un atto di dolore e un padre nostro per ogni volta che hai volontariamente omesso qualcosa durante la confessione. Consuma dei pasti frugali ed evita alcolici per dieci giorni, per purificare il corpo quanto lo spirito… e vieni in chiesa domenica per il rosario. Saranno tutti felici di rivederti in salute.»

«Sì.» fu la sola cosa che Crowley riuscì a rispondere.

«Ora Dio è con te, come è sempre stato, fino nel profondo del tuo spirito. Va' in pace.»

«Amen.»

Crowley non si mosse anche se era stato assolto e congedato. Gilbert aspettò qualche secondo, poi si alzò e uscì dal confessionale soltanto per aprire la tenda dal lato accanto: davanti a quell'insolita condizione dell'uomo forte che conosceva da anni era molto preoccupato. Gli posò la mano sulla spalla.

«Crowley, sembri stravolto… vuoi venire a sdraiarti un po' in canonica? Non sei certo nella condizione di guidare in questo momento.»

«N-no, sto… sto bene…»

«Francamente non mi sembra.»

«Sto bene, davvero… grazie.»

Si alzò in piedi riuscendo a sembrare molto più stabile di quanto non si sentisse sulle gambe e tese uno dei sorrisi più faticosi di sempre. Bastò per Gilbert, che gli sorrise di rimando.

«Posso chiederti un altro favore, Gilbert?»

«Non mi pareva che me ne avessi già chiesto uno, perciò chiedi.»

«So che è tardi, ma… potrei restare ancora un po'? Ho bisogno di… di essere qui, semplicemente.»

«Ma certo che puoi restare, tutto il tempo che vuoi.» disse lui, e tese il braccio verso il lato destro dell'altare. «Non serve che mi vieni a chiamare… chiudo il portone, tu puoi uscire dalla porta di lato, quando vuoi andartene. Non si può aprire da fuori, come sai.»

«E il cancello?»

«Non chiudo mai i cancelli della Saint Thomas, Crowley… posso chiudere una porta alla quale chiunque può bussare, ma non chiuderò mai un cancello in faccia a un fedele o a un bisognoso, nemmeno a tarda notte.»

Crowley sorrise, stavolta più spontaneamente. Ricordò all'improvviso la proverbiale bontà, gentilezza, disponibilità unite all'ardore della fede che aveva portato uno dei suoi migliori amici d'infanzia a indossare l'abito talare, con grande sorpresa di tutti dato che era sempre stato un ragazzo dall'aspetto piacente e circondato da stuoli di ragazze entusiaste.

Inspiegabile la sua cosciente rinuncia di tutti i piaceri in così giovane età, come era parsa inspiegabile la rinuncia di Crowley alla borsa di studio per lo sport che gli avrebbe aperto le porte di qualsiasi facoltà universitaria della Ulster University di New Oakheart, ma su una cosa i due amici erano sempre stati d'accordo: la vocazione è la vocazione, una voce che chiama irresistibilmente e alla quale non si può non rispondere.

«Resta quanto lo desideri… ci vediamo domenica prossima. Buonanotte, Crowley.»

«Buonanotte, Gilbert… grazie.»

Crowley guardò l'uomo biondo, alto quasi quanto lui che sembrava anche più slanciato con il lungo abito nero, avviarsi verso l'altare e spegnere le candele ai lati del crocefisso, lasciando però accese le basse luci elettriche affinché il suo problematico fedele potesse vedere dove metteva i piedi.

Si mosse e andò a sedersi sulla seconda panca, ma attese comunque che Gilbert chiudesse il portone principale e poi sparisse in canonica prima di immergersi nei propri pensieri per placarne i tumulti.

«Beh… siamo qui, alla fine. Io e te.»

Crowley alzò gli occhi sul Gesù in croce e ricordò come fin da bambino la sua corona di spine lo avesse colpito in modo particolare.

«So che ti posso sembrare un opportunista, ma sai bene perché sono qui… sai che sono affranto e disperato… non ti ho mai chiesto la santità, né la beatitudine, ma questa volta è tutto diverso, e te lo chiedo. Ti chiedo un segno.»

Non aveva mai formulato preghiera più strana a Dio, perché anche se era un cristiano convinto non era mai stato un credulone: non credeva che l'acqua santa curasse le ferite, non credeva alle apparizioni mistiche e alla voce di Dio nella testa di certi individui, non credeva davvero nemmeno nell'esistenza del Diavolo. Non credeva ai misticisti del cristianesimo, alle profezie, ma nemmeno credeva al caso: perché Ferid all'improvviso aveva pensato di doverlo proteggere con un amuleto che si era rivelato essere la sola cosa che avesse impedito la sua morte istantanea, se non perché un essere superiore l'aveva spinto a farlo?

«Hai dato a lui un segno.» disse Crowley, perso nel ricordo di quel giorno. «Hai fatto cadere quel quadretto. Lui l'ha visto e l'ha interpretato come un presagio. Tu gli hai dato un segno per farlo operare secondo il tuo piano… ora, dai a me un segno perché io possa fare lo stesso. Ma che sia chiaro perché io non sono sveglio quanto lui.»

Crowley posò i gomiti sullo schienale della panca di fronte e congiunse le mani intrecciando le dita com'era solito fare.

«Sono disposto a tutto per un segno. Se può essere ammesso in tribunale sono ancora più disposto…»

Non seppe dire se la sua mente fece un bizzarro collegamento con il fatto che la sua vicina prima della pensione faceva le pulizie al tribunale, ma pensò a Bernadette McCarr, la signora anziana che abitava nel suo stesso palazzo. Aveva una feroce diffidenza verso qualsiasi etnia e nazionalità non fosse contaminata da quella irlandese quantomeno per il 25%, ma per lui che era abbondantemente sopra questa soglia era una donnina gentile, premurosa, affettuosa, che spesso gli preparava specialità irlandesi, gli prestava sale, caffè, zucchero, detersivo, sapone e una gran varietà di altre utilità domestiche. Aveva detto di considerarlo come un nipote, ma aveva creduto che fosse solo una cortesia fino a che non aveva sentito del suo voto di digiuno. E dire che era una vecchietta golosa di formaggi e di dolci.

«D'accordo... vuoi una prova del mio impegno, immagino… è giusto che tu me la chieda, visto quanto sono stato fragile nella mente e debole nella fede negli ultimi tempi.» disse lentamente Crowley, e alzò gli occhi sul Gesù. «Non berrò più di un bicchiere di birra al pub… non mangerò neanche una fetta di torta, un cannolo o una ciambella, e…»

Si sentì come osservato e seppe che era il suo senso di colpa a metterlo in agitazione.

«D'accordo. Il mio punto più debole è il sesso. Non farò sesso per un mese, neanche una volta. Neanche un atto impuro per quanto piccolo possa essere. Due. Due mesi. Per due mesi, lo giuro. Due mesi di astinenza monacale per un solo segno.»

Crowley appoggiò la fronte alle mani giunte, chiuse gli occhi e cominciò a pregare: non si era dimenticato di avere una lunga lista di penitenze da assolvere prima di poter essere formalmente assolto a sua volta. Se doveva considerare di aver taciuto molto spesso l'identità di genere dei suoi partner sessuali e ogni volta in modo colpevole, aveva davanti un gran numero di preghiere da recitare e doveva stare concentrato per non perdere il conto.

Il mormorio della sua stessa voce venne interrotto da tanti passi e si voltò per capire da dove arrivassero. Si stupì di vedere un nutrito gruppo di persone che lo guardava, tra le quali distinse diversi colleghi della polizia, negozianti di fiducia, un amico del quartiere spagnolo e altre presenze familiari. Si alzò in piedi.

«Che cosa fate qui?»

«Detective!»

La sottile voce che l'aveva chiamato così venne sommersa dalle voci di tutti gli altri, che parlavano tutti insieme di cose diverse, confondendolo. Scosse la testa stordito da quel coro scompagnato e invece di cercare di domarlo e ammutolirlo si limitò a insinuarvisi in mezzo, scorrendo lo sguardo sulle facce che non cambiarono espressione, alla ricerca di qualcosa. Per ultimi, in fondo al gruppo, vide Mikaela e Yuu e si fermò davanti a loro.

«Crowley, sembri davvero stanco. Dovresti riposarti.»

«Crowley, non ti strapazzare così tanto!»

Quello che vide alle loro spalle stroncò qualsiasi risposta e gli fece sentire dolore al petto come se avesse ricevuto nuovamente un proiettile al cuore: in piedi in un semicerchio stavano i bambini del West End uccisi dal Vampiro, a partire dalla biondissima Neva al sorridente Alex Montoya, passando per i riccioli rossi di Gaia, gli occhi a mandorla di Nagareboshi, il viso da giovane fotomodella di Sarah, le leggere lentiggini di Sophie… e davanti a tutti loro, la piccola, esile Patricia, con occhi neri, treccine di capelli scuri e lo zainetto con le farfalle sulle spalle. Anche se sorridevano i loro occhi non esprimevano calore.

Crowley si piegò sul ginocchio davanti a lei per mettersi alla sua altezza: era davvero uno scricciolo.

«Detective Eusford, perché non hai preso quella persona cattiva?»

«Mi dispiace, Patricia.» le disse. «Non ne sono stato capace. Ho fatto tutto quello che potevo e ho fallito… perdonami.»

«Oh, detective…»

La figurina di Patricia si sporse in avanti allungando le braccia verso di lui, ma un momento dopo lei e tutti gli altri bambini erano scomparsi alla vista: il viso che stava a pochi centimetri dal suo apparteneva a Ferid, ma gli sembrava che in quella visione fosse molto più bello e il suo sguardo molto più crudele di quello che conosceva. Le sue braccia passarono intorno alle spalle e la sua bocca si tese in un ampio sorriso.

«A un uomo come te potrei perdonare qualsiasi cosa… anche di avermi preso…»

Non riuscì a muoversi di un millimetro né a spostare Ferid mentre si avvicinava al suo collo a bocca spalancata, ma prima che potesse morderlo un ammasso scuro informe apparve incombendo su di loro. Pensando che intendesse attaccarli in qualche modo il suo primo riflesso fu di stringere l'uomo tra le braccia e trascinarlo via dal pericolo, ma non appena l'ebbe afferrato si rese conto che non aveva quasi alcun peso, come se fosse un guscio vuoto.

La testa di Ferid si rivoltò tutt'a un tratto di lato con un rumore legnoso e Crowley rimase scioccato nel vedere che era una marionetta: la bocca era uno sportellino aperto, gli occhi rossi erano stati dipinti, dalle maniche della camicia spuntavano solo delle forme sbozzate di mani umane dalle dita unite; alcuni fili erano recisi, altri salivano verso la massa scura senza forma.

Spalancò gli occhi, si raddrizzò di scatto e prese fiato come se fosse riemerso dalle profondità del mare; ansimò pesantemente girando la testa e guardandosi intorno, ma ovviamente non c'era nessuno a parte lui in quella chiesa buia. Si passò le mani sul viso, non stupendosi di scoprirsi sudato, e non appena richiuse le palpebre rivide il suo sogno in rapida successione di immagini: la folla di persone, i bambini uccisi, Ferid che gli parlava e quella massa scura che tirava le fila…

«Se questo era il segno, speravo in qualcosa di più chiaro…»

Crowley si strofinò gli occhi, decisamente stanchi come tutto il resto del corpo, e guardò l'orologio da polso scoprendo che era da poco passata la mezzanotte. Decise che era il caso di andare a casa nell'eventualità che i ragazzi Hyakuya stessero aspettando di vederlo rientrare e di tornare il giorno successivo per ripetere le sue preghiere dal principio con più lucidità, pertanto abbandonò la panca. Si trattenne solo per chinarsi sul ginocchio sul tappeto che attraversava il centro della navata di fronte al crocefisso e segnarsi, poi uscì dalla porta laterale, che quando erano bambini era sempre stata bloccata da un lucchetto.

Quando la richiuse alle sue spalle e mosse i primi passi nel cortile si sentì sollevato, nonostante il vago stordimento dato dalla stanchezza si sentiva di nuovo protetto, come succedeva ogni volta che da ragazzo usciva dalla messa domenicale.

Fu con uno spirito molto più sereno, una mente più calma e un passo più lento che varcò il cancello della chiesa di Saint Thomas tornando alla sua automobile; stava sorridendo quando salendo sentì un curioso rumore. Si bloccò mentre chiudeva lo sportello e ascoltò quel suono acuto, appena stridente, che urtava i suoi timpani. Scese dalla macchina, incuriosito, cercandone la fonte. Non gli ci volle molto perché veniva da un punto vicino, poco più di un metro dal suo portabagagli: la fonte di quel fastidioso stridio era un piccolo fagottino chiaro e Crowley si chinò per osservarlo con un certo stupore.

Era un piccolo pipistrello, con il corpicino coperto di pelo chiaro, le ali aperte scomposte, grandi orecchie pallide e una bocca dai canini aguzzi che si muoveva quando produceva quel suono. Vivendo in una grande città vedeva raramente animali di quel tipo, e di certo non ne aveva mai visto uno come quello.

«È incredibile, è bianco.» commentò sorpreso. «Un pipistrello bianco? Che cosa sei, Ferid che mi sta pedinando?»

Il sorriso di Crowley scomparve e continuò a fissare il piccolo mammifero, mentre il suo cervello elaborava febbrilmente pensieri che quasi non riusciva a cogliere con la mente conscia; e un solo concetto martellante che si ripresentava.

Devo chiamare Ferid.

Era un'idea insana, assurda, una follia. Non aveva idea di come avrebbe potuto spiegarlo agli altri membri della squadra omicidi, al capitano o a Horn. In realtà non aveva idea nemmeno di come spiegare a Ferid quello che voleva o perché lo voleva… eppure che fosse l'illuminazione che aveva chiesto o solo il suo istinto da poliziotto, sentiva che era la cosa giusta da fare.

Si sollevò e andò alla macchina cercando qualcosa che gli potesse tornare utile e ripescò un asciugamano che era rimasto lì dalla sua ultima visita alla palestra; tornò dal pipistrello albino e lo raccolse delicatamente avvolgendovelo. L'animaletto stridette più che mai. Era quasi insopportabile il modo in cui gli faceva vibrare i timpani. Salì in macchina e lo sistemò nel portaoggetti in modo che non si muovesse.

«Certo sei rumoroso per essere così piccolo… dammi tregua, avanti.»

Quasi l'avesse capito il pipistrello stridette più piano e poi tacque, muovendo un poco la testa e gli uncini delle ali sulla spugna. Crowley sorrise, ma distolse lo sguardo per dedicarlo al suo cellulare dove prese a digitare. Furono minuti infruttuosi alla ricerca di un indirizzo e di un numero di telefono che rispondesse al nome e al cognome di Ferid, e allora decise di chiamare il negozio. Mentre squillava il mammifero lanciò un altro suono penetrante e Crowley gli lanciò un'occhiataccia.

«Ehi, shh.»

«Risponde la segreteria telefonica della libreria esoterica Magick, Ashland Street 137, West End!» rispose la voce registrata di Ferid. «Gli orari di apertura sono dalle nove del mattino alle sette di sera tutti i giorni...»

Crowley sospirò e si grattò la testa. Avrebbe dovuto immaginare che non l'avrebbe trovato ancora al lavoro a quell'ora così tarda. Guardò il pipistrello mentre la voce di Ferid finiva di invitarlo a lasciare un messaggio "il meno volgare possibile" che si premurava di ascoltare all'apertura successiva.

«Questo non ti scagiona, sai? Potresti essere Ferid.»

Al segnale acustico Crowley si scoprì insolitamente nervoso, come un ragazzino che cercava di invitare una ragazza al ballo della scuola. Immagine elaborata di fantasia, dato che lui non aveva mai invitato nessuna compagna di liceo al ballo di fine anno, visto che aveva frequentato una scuola cattolica. Dopo qualche esitazione iniziò a parlare, cercando di essere il più sincero possibile e il meno caotico gli riuscisse, ma fu un sollievo chiudere la telefonata. Sospirò.

«Odio parlare con le segreterie.»

Crowley mise in moto e imboccò la strada più breve verso casa. Il pipistrello sembrava essersi agitato, forse per il rumore, e artigliava ancora l'asciugamano cercando di divincolarsene. Non gli piaceva molto l'idea di andare a bussare di notte al suo vicino, ma non gli andava di lasciare quel piccoletto sulla strada dove rischiava di venire schiacciato.

«Non ti agitare tanto… ti porto da Mirto, l'inquilino del terzo piano. È un volontario della protezione animali, saprà che cosa fare con te… certo, sempre ammesso che tu non abbia un negozio da aprire domattina presto.»

Il pipistrello tacque all'istante.

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Capitolo 6
*** Il punto in comune ***


Ferid sbadigliò vistosamente mentre aspettava che la saracinesca elettrica del negozio adornata da un disegno a bomboletta spray si sollevasse abbastanza da consentirgli di entrare dalla porta chinandosi solo un po'. La piazzò alla solita altezza, che lui chiamava "livello Krul" perché era alta a sufficienza per lasciar passare comodamente solo una della sua statura o inferiore, proprio mentre sentiva il rumore di uno scooter che gli era familiare. Si girò e l'uomo con i capelli mori e ricci legati una codina e vistosi tatuaggi sulle braccia si fermò accanto a lui.

«Buongiorno, Ferid.»

«Tempismo perfetto anche stamattina… a volte mi chiedo se non mi spii per sapere quando esco di casa.»

«Forse lo faccio… ma se te lo dicessi perderebbe di… magia.» rispose lui, e gli passò un sacchetto. «Un francese zuccherato e uno shakerato con latte e caramello, giusto?»

«Giusto.» confermò Ferid prendendo la busta con la sua ordinazione. «Grazie, Liam, sei un tesoro~»

«Sì, dillo a Maricela, magari smette di dar retta a quella squinternata isterica di sua madre e torna a casa.»

«Non ti parla ancora?»

Ferid si appoggiò di schiena contro il muro per ascoltare i drammi sentimentali del suo vecchio amico con tutta l’attenzione necessaria.

«Certo che mi parla, ogni volta che telefono ha un nuovo insulto per me.» ribatté Liam, amareggiato, e spense il motore. «Qualche traccia di quel libro? Magari riusciamo a far pace se glielo trovo…»

«Oh, sì, in effetti è in arrivo. Mi hanno garantito che lo consegneranno entro venerdì prossimo.»

«Ah, finalmente una buona notizia…»

«Ma credevo che avreste fatto pace prima che arrivasse, le cose vanno così male?»

«Sul serio, lasciamo perdere per adesso, non ti voglio guastare la giornata coi miei problemi… come se tu non ne avessi.»

«Ma io non ho problemi, William, sono felice come un fringuellino~»

«E lo shakerato con latte? Tu non lo prendi, è per il tuo capo.» osservò lui con sagacia. «Se le prendi il caffè è perché avete litigato per qualcosa… che è successo stavolta?»

«Che vuoi che sia successo? Io sono io e Krul è Krul… litighiamo perché è la reazione più logica per due caratteri come i nostri che entrano in collisione. Come mettere un pacchetto di mentine dentro la Coca Cola.»

«E che hai combinato questa volta?»

«Perché dai per scontato che sono stato io a combinare qualcosa, scusa?»

«L'hai detto tu: come mettere le mentine nella Coca Cola… e se lei è quella che scoppia, tu sei le mentine. Che hai fatto per infilarti nella bottiglia e farla scoppiare?»

Ferid scoppiò in una breve risata, non del tutto priva di amarezza.

«Non ne sono sicuro, ma è così alterata da un po'. Credo che sia gelosa perché c'è un uomo che mi piace e ci ho… flirtato un pochino.»

«Ferid... dai, non fare l'idiota. Non finire come me, che Maricela ormai non si fida più che non guardo nessun'altra. Se ci tieni, tienila stretta.»

«Tenere stretta Krul? Conosco almeno cento modi meno dolorosi di uccidersi e mille ragioni più valide per farlo.»

«Sarà, ma non ti ho mai visto bere tanto come quel cinque luglio.»

Solo un leggero scatto del sopracciglio tradì il suo disappunto per ciò che Liam aveva appena rivangato.

«Le due cose non erano assolutamente correlate.»

«Amico mio, io un gran genio come te non lo sono mai stato. Io al massimo leggo il giornale e solo la prima pagina, forse due; e le grandi cose del mondo le lascio a gente più sveglia di me, ma non sono stupido fino a questo punto.» osservò lui. «Non sei l'unico amico che ho e nemmeno il primo che ho visto reagire in quel modo.»

«Dai troppo peso a quella storia, William… sono serio. Posso averla presa un po' male lì per lì, ma aveva ragione lei. Ah, non dirle che te l'ho detto, gongolerebbe fino alla fine dei tempi se sapesse che le ho dato ragione su qualcosa.»

«Beh, lascia che ti dica un'altra cosa da zotico, anche se ti fa male: tu sei un solitario, e uno dei peggiori che ci siano, mi sa… non ti puoi permettere di perdere il tuo capo. È la cosa che più somiglia a qualcuno che si prende cura di te.»

Ferid rimase interdetto da quel commento, anche perché non si sarebbe mai aspettato che il barista del suo locale preferito arrivasse a dargli consigli di vita. Certo, lo conosceva da quando lavoravano entrambi per la stessa ditta, pertanto da diversi anni; ma fino ad allora non aveva fatto altro che chiacchierare del più e del meno e qualche volta raccogliere una sua confidenza quando l'alcol gli scioglieva un po' troppo la lingua. Raccontarsi i guai con le rispettive donne, Krul e Maricela, era stato il punto di contatto più intimo tra loro.

«Beh, fammi uno squillo se il libro dovesse arrivare questo week end.»

«Non ti trovo domani mattina?»

«Faccio solo il turno serale al locale questo fine settimana, ma se ordini il caffè ho già detto a James, quello nuovo, cosa deve fare.» lo rassicurò William. «Ci vediamo lunedì. Fai il bravo.»

William rimise in moto lo scooter e partì per invertire la marcia e si allontanò nella stessa direzione dalla quale era arrivato. Ferid sospirò pensando che avrebbe volentieri passato l'intera giornata perso nella rilettura di Una vecchia storia irlandese, ma prendersi una giornata con un preavviso così breve avrebbe mandato Krul in bestia come mai prima e purtroppo tra le loro residenze non c'era così tanta distanza da sperare che lei non l'avrebbe percorsa a lunghi passi furenti per venirgli a urlare insulti alla porta.

Si abbassò per passare sotto la saracinesca ed entrò nel negozio, come sempre accolto dal suo caratteristico odore di “libreria magica”, come l'aveva sempre definito. Inspirò profondamente l’odore della carta, dell’incenso e della salvia bianca essiccata.

«Non ci potrebbe essere un posto migliore di questo… se fosse privato, ovviamente.»

Raggiunse il banco della cassa e s'infilò dietro la tenda che nascondeva il retrobottega. Non era nulla di interessante: c'era un attaccapanni per i loro cappotti in inverno, un piccolo frigorifero dove tenere pranzo e bibite, un bollitore elettrico corredato di alcune bustine di tè e caffè solubile e una coppia di tazze. Sul lato destro la scrivania e i raccoglitori che servivano a Krul per il lavoro amministrativo erano stipati in meno di un metro e mezzo.

Diede un'occhiata alla tazza nera, che quando conteneva qualcosa di caldo faceva diventare rosa le sagome stilizzate di svariati pipistrelli: quando l'aveva regalata a Krul per tenerla in negozio l'aveva vista sorridere come una bambina. Era probabilmente l'unica volta in cui l'avesse davvero resa felice.

Mise il bicchiere del caffè shakerato nel frigorifero, dato che il suo irascibile capo non si sarebbe palesato per almeno altre due ore, e portò quello tiepido del suo caffè francese sul piano della cassa, accingendosi a prepararla per la giornata, ma poi notò una piccola spia luminosa che lampeggiava sul telefono del negozio.

«Un messaggio in segreteria? Che rarità.»

Lo era realmente dato che gran parte delle informazioni gli venivano richiesta tramite e-mail o da clienti che passavano di persona in negozio, così si avvicinò il blocchetto per gli appunti e fu con curiosità che premette il pulsante per ascoltarlo. La segreteria gli annunciò che era stato lasciato quella notte, ma non fece in tempo a chiedersi chi potesse essere prima di sentire la voce. La riconobbe all'istante.

«Ahm, uhm… ciao, Ferid… spero che stia ascoltando tu il messaggio, non vorrei metterti di nuovo nei guai con il tuo capo… sono Eusford, della squadra omicidi e… e già lo sai, non so perché te lo dico di nuovo… scusami, il mio cervello va in pappa quando parlo alle segreterie.»

Ferid si ritrovò a sorridere, quasi provando tenerezza nel sentire quell'uomo così impacciato sul nastro. Non lo sentiva né vedeva da tre settimane dopo quel bacio mancato di pochissimo e si chiese se l'imbarazzo di allora non avesse peggiorato l'agitazione del poliziotto.

«Il punto è che… sai che cosa sta succedendo con il Vampiro, immagino… io… non so come dirtelo, ma…»

Ferid prese un sorso di caffè e si appoggiò al bordo del bancone guardando il telefono, divertito come se avesse quel bell’uomo di fronte e potesse vederlo annaspare, esitare e distogliere lo sguardo alla ricerca di un aiuto.

«Ho bisogno del tuo aiuto. Nessuno di noi riesce a capire, a prevedere… nessuno di noi riesce a pensare come il Vampiro di West End, e ho bisogno di qualcuno che sappia pensare nello stesso modo straordinario. Per favore, Ferid, puoi aiutarmi? Se solo potessi venire in centrale a Satbury a parlare con noi, a darmi la tua opinione... per aiutarmi a vedere con altri occhi… sarebbe davvero apprezzato. Appena puoi, per favore, richiamami. Ti lascio il mio numero…»

La voce di Crowley scandì due volte il numero di telefono e Ferid lo scrisse sul blocchetto.

«Non avrei voluto chiederti questo dopo tutto quello che hai fatto per me, ma… sei la mia ultima possibilità. Richiamami presto.»

Ferid smise di sorridere e riascoltò il messaggio dall'inizio, concentrato sulle sue parole più che sul suo tono incerto. Sentì di nuovo la sua richiesta e non se ne stupì meno della prima volta: voleva davvero che lo aiutasse a prevedere le mosse di un assassino seriale?

Disattivò la segreteria e prese un altro sorso di caffè. Il Vampiro di West End era veramente qualcuno che si credeva un vampiro? Le informazioni date dai giornali parlavano di massicce carenze di sangue nei bambini ritrovati, ma da qui a credere che lui potesse riuscire a prevedere le mosse di un suo simile il passo era lungo.

E poi non sono un vero vampiro, perciò… beh, posso solo pensare che la mia conoscenza in merito possa far luce su qualche dettaglio. O che vogliano vedere se mi tradisco per arrestarmi.

«Devi essere disperato in entrambi i casi, detective Eusford… beh, per rivederti vale la pena anche di rischiare un’incriminazione per omicidio plurimo~»

Sollevò la cornetta del telefono e digitò il numero, dando un'occhiata fugace all'orologio. Era certo un orario sgradevole per ricevere una telefonata, ma non poteva farne a meno. Attese impaziente diversi squilli, tamburellando le dita sul bancone, e alla fine uno scatto anticipò una voce ancora impastata dal sonno.

«Pronto…»

«Buongiorno, Principessa~»

«Cosa… cosa c'è? È successo qualcosa in negozio? Una vetrina?»

«Una vetrina cosa?» domandò Ferid, momentaneamente spiazzato.

«Si è di nuovo bloccato il registratore di cassa?»

«No… Krul…»

«È venuto un controllo dell'immigrazione?! Parla!»

«Ci stavo provando, ma non me lo lasci fare!» obiettò Ferid. «E non è successo nulla al negozio, rilassati…»

La sentì sospirare sonoramente.

«Non spaventarmi in questo modo…»

«Ti è passato quel mal di testa di ieri?» le domandò lui, iniziando a rigirarsi la penna fra le dita. «Ti ho preso un caffè freddo con il latte e il caramello amaro come piace a te~ vuoi che te lo porti a letto? Ci metto tre minuti a venire a casa tua~»

«Certo, vieni. Puoi lasciarlo davanti alla porta e andartene.»

«Non importa quanto faccia caldo, tu resti sempre gelida… ma fa parte del tuo fascino, immagino…»

Krul non rispose ma Ferid riuscì a sentire una serie di rumori come una porta e dei fruscii, il che lo indusse a credere che avesse messo il vivavoce. Ne ebbe conferma quando parlò di nuovo e sentì l'eco della propria voce.

«Hai messo il vivavoce? Come mai? Sei in bagno, Krul?»

«Anche se lo fossi non te lo direi di certo, pervertito.»

«Pervertito? Sarei un pervertito se ti chiedessi di farmi sentire il rumore mentre fai pipì. Questo che sarebbe da pervertiti.»

«Se non devi dirmi niente metti giù, pago io il conto del telefono del negozio.»

Un rumore di acqua e un cigolio gli lasciarono intuire che stava riempiendo la vasca da bagno con i piedini a forma di serpente, un pezzo di casa sua del quale era troppo orgogliosa per non averglielo mostrato nella precedente occasione in cui era stato invitato a superare la porta.

«Quando hai risposto eri ancora a letto, vero? Avevi la voce assonnata… porti quella camicetta bianca, per caso?»

«Non te lo direi se la portassi.»

«O te la sei tolta adesso per fare il bagno?»

«Idem come sopra.»

Sarà stata solo un’impressione, ma Ferid aveva sempre la sensazione che Krul si divertisse a stroncare quelle che lei definiva “frasi da Casanova” molto più di quanto non volesse ammettere, tanto che non gli attaccava mai il telefono in faccia in momenti simili.

«Mi fa piacere che la metti ancora. Dopotutto io ho buon gusto nel farti dei regali, non puoi negarlo.»

«Non lo negherò.»

«E poi il bianco ti dona. Quando dormi con quell’aria beata e la camicetta bianca nel tuo letto a baldacchino sembri l’angelo che non sei.»

«FERID!»

La vaga nota di panico nella voce di Krul gli era sconosciuta. L'aveva vista indifferente, irritata, furiosa, persino triste e confusa, ma mai l'aveva vista spaventata da qualcosa o qualcuno nei sette anni che aveva passato alle sue dipendenze. Fu sorpreso tanto da non riuscire a chiederle niente quando sentì una voce maschile parlare.

«Krul, che cosa diavolo sta dicendo?!»

«Non sta dicendo niente, sta solo provocando!»

«Co… Krul? Chi c'è con te?»

«Chi è questo tizio?!»

«…Ma chi sei tu.» replicò secco Ferid.

«Non peggiorare le cose, Ferid!»

«Chi è questo Ferid?!»

«Ehi, dammi il telefono!»

«Non ti avvicinare a mia sorella!»

Sorella?

Ferid ebbe l'insensato istinto di guardare la cornetta, come se potesse rimandargli un'immagine di questo misterioso uomo, ma ovviamente non poteva quindi la riaccostò all'orecchio. Li sentì scambiarsi qualche battuta dai toni decisamente accesi e tacque, rovistando nella memoria alla ricerca di una volta in cui Krul gli avesse detto di avere un fratello. Non trovò neanche un vago accenno.

«Se non è nessuno dimmi chi è!» gridò la voce del ragazzo, tanto vicina al microfono da farlo sobbalzare.

«Non te lo dico perché non sono comunque affari tuoi, Ash.» ribatté Krul, feroce. «Se voglio un uomo me lo prendo, e non chiedo certo il permesso a te. Né a nessun altro, e tu puoi risparmiare il fiato perché i tuoi urli non servono a farmi tornare vergine.»

Ferid emise un sottilissimo fischio a quel commento, ma non disse nulla. Seguì un silenzio e poi un tonfo.

«Tch. Che idiota.»

«È stato davvero brutale, Krul.»

«Con lui è sempre così, se non gli sbatti le cose in faccia non le capisce.» rispose lei. «E comunque è colpa tua… dire quelle cose sulla mia camicia e il mio letto, sei pazzo?»

«Come facevo a sapere che c'è un uomo in casa con te alle sei di mattina? Non lo sapevo che vivevi con tuo fratello!»

«Non viviamo insieme, è venuto a trovarmi per questo week end, lui vive in California.»

«A maggior ragione, come potevo…»

«Che cosa vuoi, Ferid? Hai telefonato a quest'ora solo per fare il romantico? Perché io non sono una Giulietta e tu non sei Romeo.»

Ferid prese un gran sospiro ma non rinunciò a sorridere, anche se con un vago senso di amarezza.

«Dovresti sostituirmi in negozio oggi…»

«Ed è ovvio che dopo questo brusco risveglio la risposta è no.»

«Krul, non sono capricci. Sono convocato al distretto di polizia.»

«Certo, dal tuo detective, immagino!»

Ebbe l’impressione, anche se piuttosto vaga, che il suo tono si fosse ulteriormente inacidito.

«Sì. Dal detective Eusford alla squadra omicidi.» confermò lui con la massima serietà. «Ora… mi sostituisci o devo lasciare chiuso il negozio?»

«… Stai dicendo sul serio?»

«Sì, sono serio.»

«Perché devi andarci?» domandò lei con una velata agitazione. «Sei nei guai? Non penseranno che tu… sia…»

«Se lo pensano non me lo vengono certo a dire… ma vogliono farmi qualche domanda. Capisci che devo andarci?»

«Sì… io… apro io il negozio.»

«Grazie.» le disse, ed esitò un po' a proseguire. «Scusami per prima, con tuo fratello. Non volevo farti litigare con lui.»

«È uno stupido. Gli passerà. In ogni caso, io faccio quello che mi pare con chi mi pare e non è affar suo.»

«Capisco. Meglio così. Allora mi preparo per andare.»

«Ferid.»

Fermò il dito sul tasto della linea appena prima di chiudere la telefonata, con un certo stupore.

«Sì, Principessa?»

«Quando… torni a casa o… beh, fammi sapere qualcosa.»

«Sei preoccupata?»

«Voglio sapere se ti sbattono a Coniston.»

«Così mi porterai una torta con una lima dentro? La voglio alle mele. La torta, non la lima.»

«Così so se devo trovare un altro impiegato.»

«Non mi sbatteranno a Coniston… o almeno, me lo auguro. L'arancione è un colore che fa a pugni con la mia pelle d'alabastro.»

«Beh, non smetto di sperare.»

Questa volta fu Krul a interrompere la chiamata. Ferid sospirò, mise giù la cornetta e si lasciò trasportare dalla corrente di pensieri torbidi per qualche istante fissando lo sguardo sulle piume di un acchiappa-sogni appeso al soffitto. Poi, così come si era perso, si riebbe del tutto e scrisse un biglietto per Krul, che appiccicò sul display del registratore di cassa. Rilesse le parole che vi aveva scritto in bella calligrafia, goditi il tuo caffè nel frigorifero, poi prese quello dove aveva trascritto il numero di Crowley Eusford infilandolo in tasca.

«Dovrei proprio cambiarmi d'abito… non posso certo presentarmi al distretto conciato in questo modo.» considerò, guardando i propri abiti nel riflesso della teca più vicina. «Dopotutto è un'occasione speciale… nessun uomo mi aveva mai chiesto di richiamarlo con tanta premura.»

 

 

Crowley si alzò dalla sedia malconcia di una sala riunioni del dipartimento solo per andare a versarsi un altro goccio di pessimo caffè a temperatura ambiente dalla caraffa che avevano posato in cima a uno schedario per mancanza di spazio sul tavolo. Durante tutto il tragitto distolse lo sguardo dal suo cellulare solo per assicurarsi di centrare la tazza versando, ma quello rimase buio e silenzioso fino al suo ritorno. Si sedette di nuovo con un gran sospiro che De Stasio classificò all'istante come non normale.

«Che succede, Crowley…? Vedo che fissi il telefono, aspetti notizie da casa o qualcosa del genere?»

«Ah… sì e no… aspettavo una chiamata, ma… niente di grave.»

«Mh, capisco…»

Prese un sorso di caffè disgustoso e si ritrovò a chiedersi che cosa gli avrebbero detto il suo stomaco o la sua lingua se avessero potuto articolare una protesta, ma quel suo stupido pensiero e il resoconto della testimonianza che De Stasio stava facendo furono interrotti da un un rumore insolitamente forte di sedie spostate e passi, oltre a qualche voce sovreccitata rara da sentire in centrale. L'uomo di origini italiane si voltò per guardare dal vetro alle sue spalle e Crowley notò che i due agenti alle scrivanie visibili si erano alzati andando all'ingresso.

I due ex compagni si scambiarono uno sguardo perplesso e poi si alzarono per andare a vedere cosa stesse succedendo, senza dirsi una parola. Crowley, che uscì per primo, notò che alcuni agenti erano schierati davanti all'ingresso come se si aspettassero un rapinatore armato.

«Vi ho già detto che non c'era nessuno a perquisirmi di sotto. Che cosa credete che sia, un terrorista?»

Crowley trattenne il respiro e si avvicinò alla piccola folla che si era accalcata, e a quel punto intravide un viso familiare con lunghi capelli color argento.

«Sono stato convocato dal detective Crowley Eusford, potete almeno dirgli che sono qui?»

«Ferid!»

Ferid distolse lo sguardo dall'agente che gli stava impedendo l'accesso e puntò gli occhi rossi su di lui. Un attimo dopo esibì un ampio sorriso.

«Ah, eccoti, detective… potresti dire a questi signori che mi hai chiamato tu? Sembra che in questo paese sia diventato un problema presentarsi quando hai un nome arabo.»

«Sì… Harry, è vero, gli ho chiesto io di venire… è a posto.»

«Grazie davvero. Sentito? Comunque, per farvelo sapere, sono ungherese

Tre agenti decisero che era il caso di tornare al lavoro o almeno di non far notare ai loro superiori che fossero troppo interessati a quell'insolita apparizione, e solo allora Crowley ebbe un violento colpo d'occhio della figura intera di Ferid. Senza riuscire a battere le palpebre né a distogliere lo sguardo studiò i suoi stivali di pelle lucida dal tacco vertiginoso e acuminato, alti fin sopra le ginocchia e chiusi da nastri neri intrecciati lunghi probabilmente quanto un intestino umano; i suoi pantaloni stretti chiusi davanti con un intreccio di lacci simile a quello di un paio di scarpe stringate, la maglia aderente dalle maniche lunghe che avvolgeva il suo busto e le braccia e la bizzarra mantella che gli copriva il petto e dietro l'intera schiena. Avesse avuto una falce in mano sarebbe potuto passare per un Triste Mietitore di tutto rispetto, dato che era completamente in nero dai tacchi agli orecchini.

Ferid si tolse il mantello con uno svolazzo, mostrando a tutti i presenti che la sua maglia gli lasciava completamente scoperta una spalla con il suo taglio asimmetrico, e apparentemente ignaro dell'effetto che faceva su tutti porse la sua cappa a Gillespie.

«Posso lasciarlo a te?»

«Ah… sì, certo.»

«Grazie… con una certa cura, per favore. Non vorrei si stropicciasse.»

Il piccolo sipario diede a Crowley il tempo di riprendersi dal lieve shock del suo abbigliamento, molto più estremo e appariscente di quelli che aveva esibito in sua presenza al negozio. Quando i loro occhi si incontrarono di nuovo gli sorrise, perché aveva focalizzato qualcosa di molto più importante dei suoi vestiti: aveva ascoltato il suo messaggio, era venuto da lui e aveva una possibilità in più di risolvere il mistero.

«Non hai idea di quanto sia felice che tu sia qui.»

«Oh, credimi, si vede~»

«Prego, eravamo giusto in riunione… da questa parte.»

Crowley gli sfiorò la schiena senza riflettere mentre indicava la prima porta del corridoio e non associò a quel gesto l'aria infastidita sulla faccia di Horn. Gli occhi di diverso colore di lei incrociarono quelli rossi di Ferid; vide solo per un attimo il viso di lui ma Crowley capì all'istante che la situazione della sua squadra omicidi si era appena complicata: per motivi che non comprese, si detestavano.

«Oh, quasi dimenticavo… si potrebbe forse avere del caffè?»

«Ah, certamente… De Stasio, puoi…?»

«Certo, torno subito.»

De Stasio oltrepassò la porta della sala riunioni mentre Ferid ci si fermò davanti, guardando il poliziotto italiano con un'aria profondamente rapita. Crowley se ne accorse solo quando entrò e non sentì i suoi tacchi seguire i suoi passi. Fu piuttosto sorpreso di vederlo così assorto nella contemplazione del suo collega, almeno finché Ferid non si decise a dare voce ai suoi pensieri.

«Non sapevo che fosse un tuo collega, detective…»

«Lo conosci?»

«Sì. È venuto in negozio una volta a dirmi cose un po' strane… oh, ma certo.» disse lui, con un sorriso. «Sei stato tu a mandarlo da me, vero? Volevi sapere se ti avrei tradito con un altro uomo affascinante?»

Crowley notò con la vista periferica l'espressione glaciale di Horn, che guardava Ferid come avrebbe guardato una carogna divorata dai parassiti davanti alla porta di casa sua. Il piccolo problema poteva diventare un grosso problema se i suoi due consulenti si prendevano in antipatia reciproca, specialmente se lo facevano perché sentivano di essere in competizione per lo stesso uomo… che fondamentalmente non desiderava nessuno dei due.

«Non vedo come tu possa tradirmi, visto che non abbiamo nessun genere di relazione amorosa… De Stasio che io sappia è interessato alle donne, ma comunque è single. Se ti interessa sentiti pure libero di corteggiarlo come ti pare e piace.»

«Mh, single un uomo come quello? Di sicuro lavora troppo, non c'è altra spiegazione.»

Ferid si sporse per guardare lungo il corridoio alla ricerca dell'avvenente detective. Evidentemente non ne trovò traccia, perché rientrò nella stanza e mosse qualche passo verso il tavolo. Il suo sguardo venne catturato dalla moltitudine di fogli sparpagliati lì sopra, quello di Crowley invece fu attratto dai fiocchi annodati con precisione millimetrica sulla sommità degli stivali, che così alti gli facevano sembrare le gambe lunghe come quelle di una modella. Ma di certo non avevano l'eleganza adatta a una passerella d'alta moda.

«Belli i tuoi stivali da squillo, Ferid.»

Non aveva intenzione di commentare così brutalmente, ma almeno riuscì a strappare un accenno di sorriso a Horn. Ferid lo guardò per un attimo con stupore, poi sorrise anche lui. Girò intorno al tavolo, sollevò la gamba e poggiò suola e tacco affilato sul bracciolo della sua sedia con la disinvoltura di una spogliarellista che provoca un cliente facoltoso. Crowley non sapeva se sentirsi offeso o lusingato da quell'atteggiamento.

«Mica male, eh? Guardali pure da vicino~»

«Ferid... tu non fai servizio escort, vero?»

«Se lo facessi vorresti sapere la mia tariffa?»

Avrebbe dovuto evitare questo tipo di provocazione per svariati motivi: poteva dare a Ferid l'idea che fosse interessato a lui, avrebbe plausibilmente indispettito Horn, era sul posto di lavoro, rischiava di essere ripreso da De Stasio o peggio dal tenente, poteva anche irritare Ferid al punto da farlo tornare sulla decisione di aiutarlo… ma non riuscì a resistere alla curiosità. Posò la mano sullo stivale all'altezza della caviglia e passò il pollice sul lato interno verso l'alto, poi sull'interno della coscia.

Porca miseria, non c'è una cerniera. Li ha davvero infilati e allacciati, ma quanto ci ha messo a indossarli?

Soddisfatto di essersi tolto il dubbio e divertito nell'immaginarlo a stringere quei lacci e infiocchettarli, sorrise e alzò gli occhi sul suo viso.

«Se lo facessi vorrei sapere tutto, e chiamerei anche un mio amico.»

«È affascinante quanto te?»

«In realtà no, ma lavora alla buoncostume.»

Ferid accusò il colpo per una frazione di secondo, ma poi il suo sorriso tornò smagliante e abbassò la gamba troppo lentamente per non essere una manovra voluta.

«Presentami a tutti i tuoi amici, non importa se non sono tutti aitanti come te e il tuo collega qui fuori…»

Crowley lo guardò perplesso, chiedendosi se intendesse dire davvero quello che aveva capito o se la sua peggiore mentalità malpensante stava galoppando. Il ritorno di De Stasio fu provvidenziale per tirarlo fuori dall'imbarazzo dell'incertezza, ma gli rimase il dubbio annidato nella mente.

De Stasio, non notando o forse ignorando intenzionalmente l'atmosfera tesa della sala, sorrise e porse una tazza di caffè a Ferid.

«Alla fine ci siamo rivisti, Ferid.» lo salutò. «Latte e zucchero?»

«Solo zucchero… oh, abbonda con quello, mi piace dolce.» gli disse Ferid mentre gliene aggiungeva diverse dosi. «Ah, basta così… grazie, Dante. Sei gentilissimo.»

Crowley fu piuttosto sbalordito che De Stasio avesse detto il suo nome a qualcuno di completamente estraneo e che quell'uomo estraneo lo usasse con tanta confidenza, dato che nemmeno lui – che lo conosceva oramai da svariati anni – aveva mai avuto l'ardire di chiamarlo Dante. Cosa che a quanto ne sapeva non faceva nemmeno De Stasio senior, Francesco, che lo chiamava per cognome come un conoscente qualunque. Anche vedere De Stasio sorridere cordialmente non era abituale.

Certo ne avete di confidenza per esservi visti una volta soltanto. Il tuo collo dev'essere un capolavoro, De Stasio.

«Beh… mi pare di capire che vi conoscete già abbastanza bene.» commentò, sorpreso di sentire la propria voce così mesta.

«So che risponde al nome di Ferid Bathory, che lavora in una libreria e che… ha un buon naso.»

Quell'affermazione gli giunse del tutto incomprensibile, ma strappò un accenno di risata a Ferid.

«Dante… De Stasio, è giusto? Ora so che lavoro fai.»

«Non proprio, sono in prestito alla squadra omicidi. Lavoro per la narcotici.»

«Ah, una volta ho visto un'operazione della narcotici in un capannone del South River!» esclamò lui allegro. «Avevano i giubbotti antiproiettile, la giacca con la sigla e dei fucili lunghi così~ erano proprio sexy~»

«Tu non eri dentro il capannone, eh, Ferid?» domandò Crowley, senza riuscire a trattenersi.

«Purtroppo no~»

De Stasio si accigliò senza capire quel commento e Crowley si trovò a sorridere divertito ripensando a quello che Ferid gli aveva detto il primo giorno riguardo manette e manganelli.

«Ah, niente… probabilmente gli dispiace non essere stato buttato a terra da poliziotti bardati, ammanettato e preso a manganellate.»

«Prima o poi riuscirò a farmi arrestare in grande stile, e sarà il giorno più bello della mia vita~»

«Fidanzati con un poliziotto o con uno a cui piacerebbe giocare con te a guardie e ladri, piuttosto che farti arrestare per davvero…»

«Oh, è vero! Dante, tu ce l'hai un manganello?»

«In effetti uno ce l'ho, ma non so se è dello stesso tipo che vuoi.»

Le ironie di De Stasio si potevano contare sulle dita delle mani nel corso di un anno, ma di battute a sfondo sessuale Crowley non ne ricordava neanche una e per questo l'osservò basito esattamente come avrebbe fatto se un mattino avesse trovato l'intero dipartimento in tutù rosa.

La cosa che meno si spiegò fu che Ferid lo stava guardando quasi altrettanto sconvolto e sembrava aver perso le parole; a quel punto il poliziotto irlandese capì che aveva avuto ragione a inquadrarlo come un fuoco di paglia: se l'oggetto delle sue avances gli rispondeva con provocazioni dello stesso tipo si trovava senza difese. Si affrettò ad andargli in soccorso.

«Che ne dite se ci mettiamo al lavoro, adesso? Ferid, a te piace leggere, e qui ho un sacco di cose da farti leggere…»

Cercò di raccapezzarsi tra le carte sparse, ma erano finite ovunque.

«Horn, per cortesia, aiutami a… ah, non vi ho presentati… Horn Skuld, profiler in prestito dall'FBI… questo l'avrai capito, è Ferid Bathory, ed è… beh, il nostro consulente speciale.»

«Eh?» fecero in coro lei e De Stasio.

«Sì, beh, è il Vampiro di West End che dobbiamo prendere, no? Ora ne abbiamo uno anche noi.» tagliò corto lui, e ficcò i rapporti nelle cartelline. «È un suo simile, saprà dirci qualcosa che non capiamo.»

«Crowley… sei serio?»

«Sono serio come un infarto, e se qualcuno ha delle rimostranze vada dal capitano a presentargliele, così ne dico quattro anche a lui. Mi taglia le risorse, da qualche parte dovrò pur attingerle.»

Sapeva benissimo che Horn lo stava prendendo per matto, anche se dall'alto della sua elevata istruzione in materia di malattie mentali gli avrebbe affibbiato un'etichetta più precisa; si rendeva conto che sembrava una follia, ma c'era un'unica questione da considerare: non avevano niente, nemmeno con il profiling dell'FBI, quindi sarebbe andato a bussare anche al portone di un castello transilvano per impedire ad altri bambini di morire. Era pronto a dirglielo, ma nessuno dei due colleghi aggiunse nulla e Horn riordinò alcuni fascicoli.

«Ecco… d'accordo, Ferid, so che sono un mucchio di carte, ma dopotutto stiamo indagando da febbraio… troverai le deposizioni di chi ha trovato i bambini, i verbali dei sopralluoghi, i risultati delle analisi della scientifica e i referti del medico legale… se ti disturbano questi dettagli posso…»

«Non serve, grazie. Ho un alto grado di tolleranza per queste cose.»

«D'accordo… allora, comincia dall'inizio… non possiamo farti una copia da portare a casa, comunque puoi riprendere domani da dove ti sei fermato.»

«Domani?»

Ferid si sedette lanciandogli uno sguardo vagamente stupito e Crowley si accorse di quello che aveva appena detto.

«Ah, scusami, sei al lavoro? Quando pensi di poter tornare?»

«Detective Eusford, ti prego… mi hai chiamato perché sai che posso essere persino più sensazionale di quanto pensi… ora, da bravo, lasciami leggere. Voi potete discutere le vostre cose da poliziotti, non mi date fastidio.»

Detto ciò prese il fascicolo in cima alla pila, si appoggiò contro lo schienale, accavallò le gambe appoggiandovi le carte sopra e iniziò a leggere. Crowley fu rapito da quanto velocemente i suoi occhi si muovevano avanti e indietro e in pochi secondi aveva già sfogliato la prima pagina. De Stasio attirò la sua attenzione con un colpetto di tosse e Crowley si sentì proprio come quando al liceo George gli mostrava fumetti o riviste sotto il banco e il loro insegnante li richiamava tossicchiando con insistenza.

«Prima che ci interrompessero, stavo dicendo che ho parlato con il proprietario del negozio di alimentari…»

«Ah, sì, che cosa ha detto?»

De Stasio sedette al tavolo e Horn lo imitò, poi iniziò a parlare di alcuni problemi del quartiere che avevano causato il tragico ammanco di telecamere di sorveglianza sul luogo dell'ultimo rapimento del Vampiro. A un certo punto si bloccò a metà frase con aria irritata puntata proprio su di lui.

«Crowley, perché non andiamo nell'altra sala e lasciamo Ferid a leggere in pace?»

«Ah… beh… d'accordo, sì.»

Non capiva perché avesse tanta urgenza di lasciarlo solo dato che era stato chiaro nel dire che le voci di altri non gli davano fastidio; arrivò a chiedersi se dai commercianti della zona non fosse arrivata qualche informazione spinosa a carico di Ferid che non voleva che sentisse in anteprima, ma De Stasio sedutosi al nuovo tavolo riprese esattamente dallo stesso punto senza rivelare nulla di compromettente. Attese qualche secondo la bomba che aveva temuto, ma non arrivò altro che uno sguardo confuso di De Stasio.

«Che c'è?»

«Scusa, ma perché non volevi farglielo sentire?»

«Non ho cambiato stanza perché non volevo fargli sentire qualcosa.» replicò il collega. «Eri tu a darmi sui nervi.»

«… Io?»

«Continuavi a spostare gli occhi da me a lui ogni volta che girava una pagina. Non te ne sei accorto?»

«Cosa? Davvero?»

«Sì, sembravi uno che assiste a una partita di ping pong… tu l'hai visto, Skuld?»

«Sì, lo stavi facendo, Crowley.»

«Ma dai, davvero?» chiese di nuovo, vagamente divertito. «Non me ne sono accorto per niente! Dev'essere la sua ipnosi.»

«La sua cosa?»

«Ipnosi. È una cosa che fanno i vampiri per attirare le loro prede fuori di casa, perché non possono entrare se non li inviti a farlo.»

«Crowley… sul serio, non è che stai avendo dei disturbi per colpa di quei proiettili?» domandò Horn.

«Ferid è un vampiro, dopotutto.»

«Un vampiro a cui ho appena portato un caffè?»

«Un caffè che non ha nemmeno toccato, De Stasio. È normale. Lo fa per sembrare come te e me.»

«Lui è come te e me… beh, con qualche rotella in meno, ma…»

«Non importa, non lo capite? Ferid è quello che crede di essere. Dategli corda e vedrete. Fidatevi del mio istinto.»

«Mi stai chiedendo di parlare a quello svitato come se fosse un vampiro vero?» domandò Horn con un tono freddo che sfumava nell'indignazione. «Se io credessi ai vampiri, e non ci credo, lui sarebbe un insulto alle mie convinzioni.»

«Svitato, eh? Da te mi aspettavo una classificazione più accurata, Horn.»

«Potrei dirti che è un narcisista con sindrome istrionica di personalità, ti risulterebbe più chiaro?»

«Sindrome istrionica, uh? Suona bene su di lui.»

«Crowley, per favore, ascoltami.» disse Horn, cambiando del tutto il tono. «Perché l'hai voluto qui? Hai dei validi poliziotti, hai me… perché hai chiesto a un civile di leggere dei rapporti di polizia? Cosa pensi che ti possa dire che noi non possiamo capire?»

«Se lo sapessi non avrei bisogno di lui… Horn, ascoltami tu per un minuto.» le disse quando cercò di interromperlo. «L'ho chiamato proprio per questo: perché lui non è come noi, non è come te… pensa in modo diverso. Conosce un sacco di cose, compresa mitologia, esoterismo, campi di cui noi non ci interessiamo perché le consideriamo idiozie per mitomani. È un uomo intelligente, ed è speciale. Non è un ritardato con strane manie.»

De Stasio tacque passandosi le dita sulla corta barba mentre Horn unì le mani e cambiò sguardo. Crowley capì immediatamente che da collega era appena passato a paziente; difatti la sua analisi non tardò ad arrivare.

«Quello che parla è il poliziotto che cerca un assassino o il poliziotto che è stato salvato da un oggetto che quell'uomo gli ha dato?»

«L'amuleto che mi ha dato mi ha impedito di andare al Creatore prima del tempo. Quindi? L'ho conosciuto. È strano, è imprevedibile, è intelligente, ha una memoria incredibile e ha anche uno spirito d'osservazione sbalorditivo.» snocciolò Crowley, convinto ma molto tranquillo. «Sbatte in faccia agli uomini il suo interesse sessuale per loro, ma questo non è né un crimine né un difetto, è un suo modo di fare che credo non corrisponda nemmeno alla sua reale personalità. Se ha un ritardo è sicuramente quello sociale visto come tende ad approcciarsi agli altri, ma è il prezzo che paga per la sua stravaganza; vive in un mondo in cui regna il conformismo e l’essere diversi è un dono svilito.»

Horn non replicò anche se era fin troppo ovvio che volesse farlo, ma De Stasio accennò un sorriso.

«Apologia di Ferid, di Crowley O'Brian Eusford. Prossimamente in tutte le librerie, non solo quelle del West End.»

«Ho un po' esagerato, eh?» chiese Crowley con un sorriso vagamente imbarazzato.

«Forse, ma mi hai convinto. In fondo non può farci alcun danno avere un punto di vista nuovo, ma ricordiamoci di dirgli di non sbandierare in giro quello che scopre quando è qui.»

«Tu, Horn? Sei convinta almeno un po'?»

Horn si mosse nervosamente sulla sedia, ma prima che potesse parlare qualcuno bussò sul vetro della porta. Ferid aveva un'aria seria che portò Crowley ad andare ad aprirgli la porta con insolita fretta.

«Che c'è, Ferid? Perché quella faccia scura?»

«Mi mancano ancora due fascicoli, ma devo dirti qualcosa.»

Era scioccante che fosse riuscito a leggere cinque fascicoli completi in poco più di quindici minuti, ma era molto più interessato a quel qualcosa per pensarci.

«Sarebbe?»

«Beh, che il Vampiro di West End non è un vampiro.» sentenziò lui. «Voglio dire… a noi non interessa prendere gli organi interni di qualcuno. Non li mangiamo, non ci sono di alcuna utilità. Al massimo certi vampiri interessati alla magia prendono ossa dai sepolcri e ne ricavano piccoli oggetti esoterici, ma non siamo degli esibizionisti. Te l'ho detto che preferiamo passare inosservati.»

«Ma ci mette delle ore per dissanguare i bambini… che cosa… cosa pensi che sia?»

«Onestamente? Un impostore.»

«Questo… vuol dire che non puoi aiutarmi, Ferid?»

«Questo non lo so ancora… posso vedere le foto dei bambini?»

«Oh… non erano nei fascicoli? Le abbiamo spostate? De Stasio?»

«Le abbiamo attaccate alla lavagna vicino alla tua scrivania, ricordi?»

«Ah, è vero… vieni, te le faccio vedere.»

Si avviò nel corridoio seguito da Ferid e, dopo un’occhiata tra i due come a cercare l’intesa, sia da De Stasio che da Horn. Ferid calamitò istantaneamente l'attenzione di tutte le persone nell'open office, compresi testimoni e avventori: impossibile stabilire se per l'abbigliamento sopra le righe o semplicemente perché tutti si chiedevano come potesse non stare sciogliendosi dato il caldo afoso.

«Ecco… sono in ordine cronologico… questa è Sarah, poi Sophie, e...»

«Neva.»

La voce con cui Ferid disse quel nome stupì Crowley, che per un attimo non fu nemmeno sicuro che fosse stato lui a pronunciarlo: era una voce del tutto priva dei consueti artifici, simile a quella che aveva registrato, ma se possibile ancora più pura e carica di grande sofferenza concentrata in sole due sillabe.

Le palpebre di Ferid sbatterono più volte mentre distoglieva lo sguardo dalla foto della bambina biondissima per un attimo prima di passare alle lentiggini e ai rossi capelli di Gaia; fu un attimo soltanto ma rimase impresso nella mente di Crowley come marchiato a fuoco.

Quando scorse tutte le fotografie quella sua debolezza sembrava svanita, ma non la sensazione che aveva dato all'irlandese. Quanto a Horn, lo fissava come un cane da caccia che punta una tana di coniglio. Ferid incrociò le braccia e spostò il peso su un piede. Da detective Crowley li interpretò come segnali di nervosismo: stava cercando di sottrarsi da qualcosa, di proteggersi da una minaccia o da un dolore.

De Stasio notò le stesse cose e si avvicinò alla lavagna. Senza un fiato ma con gesti risoluti attaccò sotto i ritratti le cruente fotografie dei ritrovamenti. Crowley lo guardò ma non fece nulla per impedirglielo.

Brutale, ma immagino fosse necessario.

Puntò gli occhi blu su Ferid scoprendo che aveva detto una cosa vera: aveva lo stomaco forte per un uomo che presumibilmente non aveva mai visto cadaveri o brutte ferite. Guardare bambini mortalmente pallidi, esangui, con uno squarcio scuro nel petto non era facile nemmeno per i membri della squadra omicidi. Tirò un sorriso che colse di sorpresa tutti e tre.

«Dopotutto, sembra che ti potrò aiutare.»

«Che cosa hai visto?»

«Non avete trovato alcun collegamento tra i bambini, vero?»

«Nemmeno l'ombra.» confermò De Stasio.

«Beh, io ne ho uno.»

«Quale?»

Crowley lanciò un'occhiata alle foto, chiedendosi se fosse davvero così tanto ovvio da poter essere visto subito, ma poi guardò Ferid e si accorse che il suo sorriso era del tutto privo di allegria.

«Sono io.» disse, e indicò le foto con un cenno della mano. «Li conosco. Li ho conosciuti tutti.»

Per un attimo la rivelazione lo lasciò ammutolito, così come lasciò senza parole l'investigatore italiano e la profiler. Scambiò un'occhiata confusa con loro, poi tornò a guardare lui. Aveva ancora quel sorriso di mascheratura del tutto privo di gioia.

«Ferid… tu… tu mi avevi detto di non avere niente a che fare con le bambine… ricordi di avermelo detto quando sono venuto a registrare la tua voce?»

«Certo che lo ricordo, ma non ti ho detto che non le avevo mai viste… ho detto che non avevo fatto loro niente che tu dovessi sapere.» precisò Ferid. «E poi non sapevo di conoscerli tutti quanti… non sapevo il nome di nessuno di loro, a parte quello di Neva.»

«Che rapporto avevi con questi bambini? Nessuno dei loro parenti ti ha mai nominato.»

«Come ho già detto, Dante, non conoscevo nessuno di loro così bene, e loro non mi ricordavano nemmeno, probabilmente. La sola che mi conoscesse è Neva, perché le ho parlato più di una volta.»

«In quali occasioni?»

«Il vostro cosiddetto vampiro caccia alla Wilde Library di West End.» disse Ferid, e l'indicò sulla cartina dove dei puntini rossi evidenziavano gli omicidi dei bambini. «È lì che li ho visti, tutti questi bambini. È quello il collegamento che vi mancava.»

«Aspetta… vuoi dire che tutti i bambini frequentavano la biblioteca?»

«Non sono sicuro che fossero tutti abituali, ma Neva lo era, e anche la bambina rossa. Me la ricordo, era molto bella.»

«Non ce l'hanno detto. Nessuno, né genitori né parenti.»

«È proprio vicino alla fermata degli scuolabus… ci vanno tanti bambini che aspettano la corsa.»

«Non abbiamo trovato nessuna tessera, però.»

«La tessera serve soltanto se prendi qualcosa in prestito o per accedere alla sezione universitaria.» spiegò Ferid. «La zona dei bambini è accessibile a tutti senza tessera. Prendono i libri e li sfogliano, ci sono dei tavolini in un angolo… si mettono lì e leggono, disegnano, e quando è ora se ne vanno lasciando tutto. Probabilmente nessuno di loro ha mai fatto il tesseramento.»

Crowley non poteva credere che fosse così semplice. Il collegamento tra le vittime che avevano cercato come disperati era sotto il loro naso, ma senza conoscere le regole della Wilde Library non avevano minimamente considerato la sua vicinanza a una zona frequentata da bambini.

«A Neva piacevano i cavalli.»

Ferid osservava la foto di Neva con la maschera che non riusciva del tutto a coprire la sua tristezza.

«Sì… era una piccola promessa dell'equitazione, a sentire il suo istruttore.»

«Lo so, sfogliava sempre libri con foto di cavalli. Il suo si chiama Muka. Mi ha detto che in russo significa "farina".»

«Ferid… come mai hai parlato con Neva? Hai detto che gli altri non sapevi nemmeno come si chiamavano… perché di lei sai così tante cose?»

Crowley gli lanciò un'occhiata, indeciso se fosse o no il caso di mettere le carte in tavola. Alla fine decise di farlo.

«Non è che era, che so… tua figlia data in adozione?»

«Per quanto sbalorditivo sia, non ho figli.» rispose lui sorridendo, ma con la massima serietà.

«Come fai a essere così sicuro? Non lo sono io e sono praticamente cliente vip gold della Play.»

Horn gli lanciò un'occhiata così simile a quelle di sua madre che quasi si aspettava di sentirla dire con forte accento irlandese “questo potevi anche evitarlo”. Lui alzò le spalle.

«Beh? Il sesso responsabile non è mica un crimine!»

Ferid emise una breve risata, anche quella quasi del tutto spogliata del suo tono mellifluo.

«Ne sono sicuro… ho avuto una donna soltanto e se l'avessi messa incinta me ne sarei accorto. Le sono rimasto vicino per un anno intero, dopo quella volta.»

Woah, cosa? Ferid con una donna? È proprio vero, mai dire mai…

«Semplicemente, una volta Neva stava cercando di prendere un libro che stava su uno scaffale alto… ero lì vicino e gliel'ho dato, e abbiamo iniziato a parlare di cavalli e di dressage. Una volta andavo anch'io a cavallo, avevamo qualcosa di cui parlare. Per questo la conoscevo e so come si chiamava.»

«Capisco… ma questo è un aiuto prezioso. De Stasio, dobbiamo andare alla biblioteca. Chiediamo tutti i filmati, interroghiamo tutti i dipendenti, chiediamo gli alibi e mostriamo le fotografie.»

«Vedo se Lesky è libero per darci una mano.»

«Io… aggiorno il capitano.» disse Horn, e si allontanò verso l'ufficio.

Crowley mosse un passo verso la porta, ma si fermò di colpo e si voltò verso Ferid. Era ancora assorto nei suoi pensieri, guardando le tremende foto dei bambini, stringendosi le braccia come se avesse freddo. Era turbato; non c'era modo che potesse nasconderlo nonostante l'invidiabile autocontrollo.

«Ferid… non stare a guardarle più del necessario. Hai già fatto molto e non so come ringraziarti per il tuo tempo.»

«Prendi la creatura che ha fatto questo e mi riterrò ripagato, detective.»

«Te lo prometto… ma adesso vai a casa, rilassati un po'… con un libro, il tuo gatto, o quello che vuoi.»

«Sì… credo che andrò a casa, dopo che avrò finito di leggere gli altri due fascicoli.»

«Bene… hai il mio numero. Chiamami se ti viene in mente qualcos'altro, o se hai bisogno di qualcosa.»

Ancora una volta fece per allontanarsi ma si fermò dopo qualche passo. Si voltò e gli occhi blu scrutarono senza malizia i suoi pantaloni stretti e la maglia attillata. Non avevano tasche visibili. Dopo qualche istante in cui Ferid lo ricambiò con uno sguardo incuriosito si decise a fare quella domanda.

«Come sei arrivato fin qui, Ferid?»

«Mh? Con la metro.»

«Con la metro dal West End?»

«Sì, con la linea dieci… mi sposto sempre con la metro. Non ho la macchina.»

«Prendi la metro… vestito in quel modo?»

«Oh, sei preoccupato per me, detective Eusford? Non serve, come ho detto, la prendo sempre. Non mi è mai successo niente, neanche di notte.»

«Prendi la metro di notte vestito in quel modo?»

«Anche vestito in questo modo, sì.»

«E nessuno ti ha mai molestato? Sul serio?»

Ferid assunse di nuovo l'espressione che più gli riconosceva: quella che aveva sempre tenuto in negozio in sua presenza, con gli occhi che sembravano volerlo spogliare e il sorriso intriso di malizia. Gli si avvicinò con un passo lento e leggermente ondeggiante, dovuto forse ai tacchi o forse semplicemente voluto.

«Mh? Perché, vedermi vestito così ti fa venire voglia di toccarmi, per caso?»

«Non era questo che intendevo dire.»

«No? Sembravi sorpreso che a nessuno fosse venuto in mente.»

«Perché è un abbigliamento provocante… di notte in metropolitana c'è gente poco raccomandabile, gente ubriaca che aspetta solo una scusa per fare a botte o peggio…»

«Molto carino, detective… davvero, non sono in molti a preoccuparsi della mia incolumità… ma non corro alcun pericolo.»

«Senti, ti posso accompagnare io a casa, in fondo sto andando a West End…»

«Hai molto lavoro da fare adesso, no? Non te lo dirò di nuovo: non preoccuparti per me

Crowley esitò qualche secondo, ricambiandogli lo sguardo. Ferid gli diede un giocoso buffetto sotto il mento. Il detective gli afferrò il polso prima che abbassasse la mano e gli fece appoggiare il palmo sul petto, sopra la sottile maglietta bianca di cotone. Ferid non celò la sua sorpresa e non sembrò capire il senso di quel gesto.

«Il tuo amuleto mi ha regalato tutti questi battiti. Mi preoccuperò sempre per te, non c'è modo che non sia così.»

Ferid assunse un'espressione decisamente stordita e meravigliata, quasi turbata, e Crowley sorrise lasciando la presa.

«Crowley, sei pronto?» domandò la voce di Lesky alle sue spalle.

«Sì, eccomi.» gli rispose, e posò la mano sulla spalla di Ferid. «Fai attenzione fino a casa.»

Ferid non gli rispose e Crowley non attese che lo facesse; infilò la sottile giacca color denim che aveva posato sullo schienale della sedia quel mattino e seguì De Stasio, Gillespie e Lesky fuori dal dipartimento.

 

 

La biblioteca intitolata a Oscar Wilde era molto più grande di quanto Crowley pensasse: tutto l'edificio che credeva comprendesse anche qualche facoltà dell'università era in realtà interamente occupato dalla fornitura di testi su migliaia di scaffali. Attraversando la sala principale scorse con lo sguardo le scaffalature alte fino al soffitto cariche di volumi e non poté non pensare a quanto quel posto dovesse piacere a un maniaco della lettura come Ferid: persino lui ne rimase in una certa misura affascinato e si rammaricò di avere così poco tempo per leggere che per smaltire le sue letture sui vampiri aveva dovuto approfittare di un ricovero ospedaliero di un mese.

«Ecco la zona per i bambini.» disse Lesky.

Fu abbastanza inutile che gliela indicasse: i colori vivaci, le scaffalature basse e i piccoli tavolini verdi circondati da sedie e sgabellini rendevano evidente la destinazione d'uso di quello spazio. Non c'era nessun piccolo avventore in quella zona a quell'ora del mattino, ma Crowley la osservò comunque. Era proprio come aveva detto Ferid: c'erano scatole di colori su ogni tavolo, pile di fogli su un ripiano basso e diversi libri presi, sfogliati e abbandonati da qualche piccolo lettore.

«Lì c'è una telecamera.» gli fece notare Lesky, indicandola. «Chiediamo i filmati di quella.»

«Sperando che li abbiano conservati così a lungo.»

«Se non lo chiediamo non lo sapremo mai.» ribatté lui con un tono particolarmente brusco. «Vediamo se il tuo eroe è in quei video.»

«Non è il mio eroe.»

«No? Lo tratti come tale.»

«Sono riconoscente a un uomo che mi ha salvato la vita. Posso chiedere cosa ci trovi di tanto fastidioso?»

«Il modo in cui lo guardi, per esempio. Cosa c'è tra di voi?»

Crowley sentì la muscolatura della schiena irrigidirsi, come sempre quando qualcosa lo irritava sensibilmente. Sapeva che cosa era in arrivo, e non gli piaceva affatto. Era una delle cose che odiava di più in assoluto.

«Niente. Siamo amici, possiamo dire, estendendo un po' il senso della parola.»

«Lo vedono tutti come lo guardi.»

«E come lo guarderei, secondo tutti i piccoli Sean nella tua testa?»

«Beh, se quello è il genere di… uomo… che ti entusiasma capisco perché mi hai mollato.»

«Se tu ti sentissi parlare con le mie orecchie sapresti perché ti ho mollato.» ribatté Crowley. «E a proposito, grazie di ricordarmi che ho fatto una cosa saggia ogni volta che ci rivediamo!»

«Crowley, non volevo che finisse così…»

«Certo che non volevi, hai fatto di tutto per farmelo capire, compreso piantonare casa mia e minacciare la donna con cui sono uscito dopo di te. Sei fortunato che non abbia voluto denunciarti, e ti assicuro che se avevo anche solo un vago ripensamento me l'hai fatto passare.»

«L'ho fatto solo perché ero disperato, tu non…»

Crowley tirò avanti il braccio non appena sentì che gli veniva sfiorato: dai tempi in cui credeva di amarlo gli sembrava incredibile non riuscire a tollerare più nemmeno il contatto della sua mano.

«Io non sopporto che mi si tenga alla catena, te l'ho già detto! Tu non ti fidavi di me e io non tollero la mancanza di fiducia!»

«Avevamo un bel rapporto, non volevo che…»

«Un rapporto senza fiducia non è niente, Sean!»

Non voleva affrontare quella discussione per l'ennesima volta e ancora meno in un luogo pubblico: non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire diceva il detto, e Crowley non aveva mai trovato esempio più palese di Sean Lesky del significato di quel proverbio.

Non importava quante volte gli dicesse di non provare a tenerlo al guinzaglio, di controllarlo o di non piantargli scenate di gelosia. Aveva litigato con lui per decine di motivi, tutti ridicoli pretesti che alimentavano la sua morbosa sfiducia, fino a che dopo quattro mesi di agonia si era deciso a dare il colpo di grazia a quella misera parodia di relazione.

La sua gelosia non era diminuita di un'oncia neanche dopo la rottura, anzi; per mesi Sean aveva continuato a cercarlo fuori dall'ufficio, al pub e nei posti che soleva frequentare per cercare di farlo tornare sulla sua decisione, fallendo miseramente poiché tendeva a criticare i suoi nuovi partner con indomita ferocia.

Lesky lo guardò con lo stesso sguardo di allora, lo stesso delle sue tante scenate. Crowley a sua volta non era meno arrabbiato di allora.

«Non voglio litigare, Crowley…»

«Allora smetti di parlare, subito.»

«Non vorrai dirmi che ti fidi di quel tipo?»

«No, non posso dire di fidarmi. Lo conosco ancora poco.»

«Dimmi allora cos'ha quello scoppiato che lo rende meglio di me!»

«Diverse cose, Sean.»

A partire dal fatto che lui non mi fa domande da sfigato come con chi esco, perché e cos'ha più di lui.

«Dimmi cosa, Crowley!»

Crowley non era un tipo vendicativo, tendenzialmente. Non amava ricambiare le scortesie, convinto che rispondere negativamente a un torto generasse le condizioni perché altri torti ne scaturissero di rimando; pertanto era abituato a ignorare la maggior parte delle insinuazioni, delle offese e delle inciviltà che gli venivano rivolte. Tuttavia Lesky lo faceva impazzire e se solo avesse potuto gli avrebbe messo le mani al collo già da tempo.

Lo guardò con aria truce che avrebbe messo in fuga persino alcuni suoi parenti per la paura, ma Lesky restò lì: era troppo arrabbiato per accorgersi del pericolo in cui rischiava di mettersi… in cui si era già messo, facendolo irritare in quel modo.

«Beh, lui è bello, almeno.» rispose Crowley con il tono più velenoso riuscisse a produrre. «Ogni volta che ti parlo so perché ti ho mollato, ma ancora non ho capito perché ti ho voluto.»

Senza lasciargli il tempo di replicare si allontanò a grandi passi da lui. In realtà ricordava perché l'aveva voluto: quando lo aveva conosciuto sembrava un uomo brillante, affascinante e la sua passione per il teatro gli conferiva un'aura di maturità che andava oltre la sua età. Inoltre era già stato sposato e con un uomo, cosa che all'epoca aveva stuzzicato non poco la curiosità di un Crowley ancora giovane e ingenuo.

Era infastidito: infastidito dall'essere tornato ancora una volta su quella sterile discussione con lui, infastidito per la superficialità con la quale si era lasciato conquistare, infastidito per avergli concesso di fargli perdere le staffe e infastidito anche perché aveva la faccia tosta di prendersela con Ferid, che non era neanche nel novero delle sue conoscenze intime, dopo la bellezza di cinque anni dalla loro rottura.

Quando arrivò al bancone l'aria spaventata della segretaria gli suggerì che non aveva celato a sufficienza il suo malumore e si affrettò ad aggiustare il tiro, tirando un accenno di sorriso mentre esibiva il suo distintivo.

«Sono O'Brian Eusford della polizia di New Oakheart.» si presentò, e la giovane donna bionda si aggiustò gli occhiali scrutando con entusiasmo il distintivo. «Stiamo svolgendo delle indagini. Crediamo che alcune delle vittime del… Vampiro di West End siano state qui come clienti. Ne ricorda qualcuno?»

«Oh, è per questo che volevate i video di sorveglianza…»

Crowley lanciò una rapida occhiata dietro il bancone e vide De Stasio sparire dietro una porta con un'altra segretaria più anziana.

Non perdi tempo, come al solito.

«Sì, ma potremmo dover visionare un bel po' di ore. Se ricordassi qualcosa…»

Lanciò uno sguardo al cartellino, appuntato con cura sulla giacca che conteneva a stento un seno generoso.

«Justine… ci faresti davvero un grande favore. Hai notato qualcuno dei bambini o qualcuno che stona nella sezione dei bambini?»

«N-no, detective, non direi che ci fosse nessuno di sospetto, anche se non ricordo i bambini… a meno che non facciano rumore, non bado molto a loro, devo essere sincera…»

«Justine, forse dovresti dirgli di quel tipo…»

«Eh? Ma no, lui è innocuo…»

«A me sembra sospetto!»

«Di chi parla, signora…?»

«Brenda, detective, sono Brenda Ferreira. Lavoro qui da vent'anni.»

«A chi si stava riferendo riguardo a un tipo sospetto?»

«È un tizio che viene qui tutte le settimane, si aggira nel reparto dei bambini, ma non porta via niente e non accompagna nessuno. Non lo trova sospetto? Quale adulto passa un pomeriggio a gironzolare tra libri illustrati?»

«Brenda, lui non fa niente di male…!»

«Tu non vuoi vedere perché lui ti corteggia!»

Justine iniziò a balbettare arrossendo vistosamente e negò con poca convinzione, mentre Brenda tornava all'attacco come decisa a non mollare finché non avesse convinto un poliziotto della sua teoria.

«Lo tengo d'occhio quando viene, perché un uomo che gironzola intorno ai bambini è di certo un pedofilo, questo mi dicevo, ma forse è proprio il Vampiro di West End!»

«N-non è un pedofilo, è un insegnante!» protestò Justine, riprendendo un po' di coraggio. «Un giovane insegnante, per questo guarda cosa interessa ai bambini, studia nuovi modi di facilitare l'apprendimento!»

«Come sei ingenua, benedetta ragazza!»

«Okay, signore, calma.» le interruppe Crowley. «Ditemi una cosa… state forse parlando di un uomo con i capelli lunghi, con gli occhi rossi e vestito in modo bizzarro?»

Lo sguardo che si scambiarono tradiva una perplessità che gonfiò le speranze di Crowley: non parlavano di Ferid, quindi doveva esserci un altro uomo, un altro sospettato.

«Non direi che è lo stesso uomo che avete in mente, detective… lui è… un uomo molto a modo… veste in modo molto classico, come immaginereste un insegnante… la settimana scorsa per esempio indossava dei pantaloni azzurri, una maglia bianca, scarpe eleganti e una giacca leggera, blu… porta gli occhiali… in inverno mette sempre camicia e gilet… ecco, è questo tipo di uomo.»

«Però ha i capelli lunghi.» osservò Brenda, che non era disposta a cedere le sue posizioni.

«Sì, in effetti… porta una treccia di capelli lunghi…»

«Mostragli la foto!»

Crowley guardò sorpreso Brenda.

«Avete una foto di questa persona?»

«Beh, non proprio, noi…»

«Sì, lei ne ha una!» insistette Brenda, indicando la giovane collega. «Gli ha scattato una foto di nascosto mentre era seduto in quella sedia là a sfogliare un libro! Justine, avanti, è la polizia!»

«S-sì, io… i-in effetti, ho… una foto…»

«Potresti mostrarmela?»

La donna non si mise, come credeva, a cercare una fotografia nello smartphone o nel computer e si allontanò verso un reparto della biblioteca. Indeciso se seguirla o no rimase bloccato lì.

«Ha un forziere sepolto nel cortile o qualcosa del genere?»

Brenda scoppiò in una grassa risata.

«Non è che mi stupirei se avesse altre fotografie di quell'uomo, quando è qui si spenzola dal bancone come se sperasse che lui la prendesse in braccio e la portasse via! Sciocca e romantica, quella ragazza, sciocca e romantica.»

Justine fu di ritorno pochi istanti dopo con un leggero fiatone e porse a Crowley una polaroid. Davanti alla sua perplessità si affrettò a spiegarsi.

«Abbiamo tenuto un evento in primavera… abbiamo restaurato il reparto dedicato alla fotografia e abbiamo avuto Kira Richards, la fotografa paesaggista, come celebrità e…»

«Justine, taglia corto!»

«Ah, sì, insomma… in quei giorni abbiamo scattato delle foto agli avventori della libreria per farne un piccolo pannello e per far vedere ai bambini com'erano le prime polaroid… io… ho… fotografato anche lui.»

Crowley prese la polaroid e la guardò. Rimase a fissarla per un tempo incommensurabilmente lungo o così almeno gli parve, ma fu comunque abbastanza da spingere le due donne a chiedergli spiegazioni.

«È il vostro sospetto, detective?»

«Oh mio Dio, no!» gemette Justine.

Crowley si ritrovò a sorridere e poi a ridere, senza quasi accorgersene, e continuò a studiare la fotografia. Il misterioso professore che frequentava la biblioteca era senza dubbio Ferid, anche se quella sua mise distorceva del tutto l'idea che aveva di lui: indossava pantaloni neri di taglio classico, i mocassini, una camicia verde o azzurro pallido e un gilet nero forse lavorato a treccia; indossava anche gli stessi occhiali che gli aveva visto mettersi per leggere il suo foglio di appunti. Nel momento dello scatto era seduto su una sedia nella zona lettura con un libro aperto su una fotografia di cavalli, e dall'altro lato del tavolo era seduta la piccola Neva.

Niente che non ci abbia detto chiaramente: frequenta questa biblioteca nel reparto dei bambini e conosceva Neva per via dei cavalli.

La briciola di frustrazione che sentiva per aver nuovamente mancato di trovare L'Altro Vampiro, come aveva preso a definirlo nella sua testa, non intaccò il piacere della scoperta di quel lato normale di Ferid, ma nemmeno quella gioia spazzò via del tutto l'amarezza. Quella bambina sorridente non c'era più, il suo cavallo non l'avrebbe più avuta come compagna di passeggiate e Ferid non le avrebbe più parlato. I suoi genitori non avrebbero più collezionato foto della figlia mentre cresceva.

«Potete farmi una copia di questa fotografia?»

«Oh… certo, sì…»

Anche questa volta Justine lo sorprese perché non gli prese la polaroid per fotocopiarla, ma si affrettò a digitare sulla tastiera e cliccare con il mouse sul computer, e dalla stampante uscirono due copie a colori della fotografia che gli consegnò sulle spine, come una studentessa che presenta un pretenzioso progetto scolastico al suo professore.

«Uhm… ho… scannerizzato tutte le polaroid di quel giorno.»

Prima che Crowley potesse dire altro o Brenda potesse sparare la cartuccia che aveva già in canna De Stasio fu di ritorno con una scatola di nastri da visionare e la segretaria più anziana puntò dritto a lui.

«Un'altra firma per la ricevuta, per favore, vogliamo essere certi che nessuno ci accusi di aver fatto sparire qualcosa!»

Mentre Crowley firmava la ricevuta che attestava l'avvenuto sequestro dei nastri della sorveglianza Lesky si palesò, facendo qualche domanda alle segretarie riguardo l'uscita di sicurezza sul retro. I tre poliziotti esposero la possibilità di tornare per sopralluoghi qualora avessero trovato informazioni utili nei video e lasciarono la biblioteca.

Solo alcune ore più tardi, quando Crowley si tolse la giacca per accomodarsi sulla poltrona girevole per visionare filmati, si accorse che insieme alle fotocopie aveva preso anche la fotografia originale dello scatto. Con un accenno di sorriso la ripose nella tasca con cura e si versò del buon caffè preparato da De Stasio, mentre questi avviava la cassetta dei filmati.

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Capitolo 7
*** Come un essere umano ***


 

Crowley salì le scale dell'ingresso alla centrale di Satbury il lunedì mattina, dopo essersi riposato qualche ora a seguito di due turni consecutivi trascorsi ad arrossarsi gli occhi davanti a video tutti uguali e ingurgitare a ciclo continuo caffè buono, caffè pessimo o tè chai zuccherato, in base a chi dividesse il turno con lui tra De Stasio, Gillespie e Nandi.

Fu proprio Manah Nandi, detto Manny, che incontrò per primo quando varcò la soglia alle sei di mattina. L'agente di pattuglia era trentenne da un pezzo – come lui stesso diceva – ma la sua aria gioviale e il suo sorriso sulla faccia piena lo ringiovanivano fino a farlo sembrare fresco di accademia. Fu con tale smagliante sorriso che lo accolse.

«Crowley, già qui?»

«Mi sono messo a dormire subito… in realtà sono praticamente svenuto sul divano.»

«Strapazzarti ti farà invecchiare!»

«Può essere… ma invecchiare pare essere un lusso di pochi, ultimamente.»

L'espressione felice di Manny s'incrinò appena, cogliendo che si stava riferendo ai bambini del West End, e si limitò a rinnovare la sua offerta di aiuto in caso di necessità. Crowley lo ringraziò e salì negli uffici della squadra omicidi, deserti, cercando di riordinare le idee sul da farsi… prima di accorgersi che non erano affatto deserti come si aspettava.

La lavagna bianca vicino alla sua scrivania, ingombra di foto, mappe e appunti rapidi, era stata ripulita e campeggiava da sola la fotografia di Sarah Farstow, la prima vittima. Le altre fotografie erano in mano a Ferid, intento a leggere qualcosa appoggiato sulla scrivania con gli occhiali dorati posati sul naso.

Cosa accidenti sta facendo qui a quest'ora, con i fascicoli della polizia?

Si avvicinò di qualche passo senza fare rumore e si accorse con estremo sollievo che solo le foto venivano dai fascicoli: quelli che stava leggendo con tanta concentrazione erano dei quaderni da campus, scritti fitti fitti a mano. Lo guardò tornare alla lavagna e scrivere qualcosa sotto la foto, ma prima che riuscisse ad aprire bocca per salutarlo lo vide fare una smorfia di dolore. Sollevò il piede sinistro, che era infilato in uno stivaletto blu con tacchi degni di essere classificati come una tortura cinese, e si massaggiò furtivamente la caviglia.

Tornando suo malgrado a sorridere Crowley si avvicinò ancora.

«Ah, allora non sei immune a quelle trappole mortali, Ferid.»

Se Ferid fosse sorpreso di trovarlo alle sue spalle – e l’investigatore era certo che lo fosse, o non gli avrebbe mostrato le sue debolezze mortali – non lo diede a vedere. Si girò a guardarlo, con una faccia che parlava di insonnia come quella di uno studente sotto esami.

«Tenerli per dodici ore è un po' troppo per chiunque, specie se le passi tutte in piedi o quasi.»

Non aveva idea di cosa stesse cercando di fare con quella pila di quaderni e le foto delle vittime, ma qualsiasi cosa fosse doveva averlo tenuto sveglio tutta la notte e quell'abbigliamento total-blue doveva essere stato scelto per una serata fuori. Crowley poté ammirare il pagliaccetto con alamari argentati a forma di giglio e si trovò a pensare che se avesse portato un cappello con le piume e una spada al fianco sarebbe stato facile scambiarlo per un attore nei panni di un moschettiere blu.

Ferid sbuffò senza produrre suoni e si appoggiò al bordo della scrivania roteando l'altro piede con aria sofferente.

«Beh, che ne dici di toglierti quel cilicio dai piedi, sederti e spiegarmi che cosa stai facendo?»

Ferid lo guardò per un momento, poi fece il giro della scrivania e si lasciò cadere sulla sedia con un sospiro, prima di sollevare la gamba e cominciare a trafficare con delle piccole fibbie. Crowley fece un sorriso storto mentre acchiappava la sedia più vicina e la trascinava accanto a lui per sedersi, poi allungò la mano. Anche senza parlare Ferid capì, appoggiò il piede al bracciolo e lasciò che fosse lui a slacciare quelle sue trappole.

Non è proprio capace di scegliersi delle scarpe che siano veloci da mettere e da togliere, eh?

«Ah… ti ringrazio tanto, Detective.» sospirò lui quando Crowley riuscì a sfilargli il primo stivaletto. «È poca strada da casa mia al mio locale abituale, ma ieri sera ero in un altro posto per un evento a tema Edgar Allan Poe… ho camminato più di quanto fosse consigliabile. Come sai, le corse notturne nel West End sono sospese.»

Crowley annuì; era una delle molte misure di emergenza prese dal sindaco per l'emergenza Vampiro. Liberò Ferid anche dall'altro stivaletto.

«Mi dici perché non te li sei tolti?»

«Sono tornato a casa con un certo tarlo nella mente. Mi sono messo a leggere, poi ho preso quelli e sono venuto qui senza… ahh, Detective, vuoi farmi morire~»

Normalmente avrebbe pensato che non fosse cosa consigliabile mettersi a massaggiare un piede dolorante a qualcuno che era ancora a tutti gli effetti un sospettato e che sembrava già così tanto attratto dalla sua persona, ma aveva concluso che per mostrare così la sua sofferenza il presunto Vampiro Immortale doveva essere davvero molto dolorante.

Sapeva come dargli sollievo, gli era capitato spesso nella vita: suo padre, così assurdamente testardo, aveva lavorato per anni con le stesse scarpe con cui aveva cominciato la carriera nonostante gli fossero diventate strette.

«Andrà meglio.» fece Crowley, notando che di riflesso al massaggio le sue gambe si irrigidivano. «Allora, vuoi dirmi prima di tutto come sei entrato qui?»

«Oh, mi ha fatto entrare l'agente di sotto.» rispose Ferid in tono leggero un po’ smorzato dal dolore ai piedi. «Ragazzo simpatico. Bel sorriso. Il tuo nome, d'altronde, pare apra un sacco di porte.»

«Solo se quelle porte sono alla centrale di Satbury o in un pub irlandese, temo.»

«Non è cosa da poco, sai? Prova a fare il mio nome nel mio solito bar e vedrai quante occhiatacce. Non escludo che possano addirittura chiederti di andartene.»

«Per gelosia o perché devi soldi a qualcuno, Ferid?»

«Per nessuna delle due, purtroppo.»

Non aggiunse nulla e Crowley non si sentì di insistere, perché il breve dialogo sembrava averlo già vagamente incupito. Diede un'occhiata alla pila di quaderni sulla scrivania e ai foglietti colorati che spuntavano dalle pagine di ciascuno di quelli. Smise di massaggiare il piede di Ferid, che non protestò ma neanche si decise a toglierglieli da sopra le gambe, e prese uno dei quaderni. Era terribilmente curioso.

«E che cosa stai cercando di fare con questi, ora?»

«Cercavo qualche dettaglio dei miei incontri con i bambini.»

«Vale a dire?»

Crowley sfogliò il quaderno a una pagina con il segnalibro colorato e prese a scorrere le prime righe, scritte con una calligrafia molto curata, corsiva e stretta.

Oggi è una giornata d'autunno ventosa, con aria di tempesta. Mi ricorda la notte in cui ho incontrato Claude per la prima volta. Sembra incredibile, ma la finestra non si è aperta neanche con il vento contro.

Prese la tazza sopra la scrivania a tentoni e bevve un sorso di caffè, ma prima che potesse andare più avanti Ferid si sporse e gli tolse il quaderno di mano con un malizioso sorriso.

«Questi sono i miei diari personali… e quello il mio caffè.»

«Ah… ho… è la mia tazza questa, è stato un riflesso…»

Crowley si affrettò a posare la tazza e cercò di alzarsi per prendersene un po' dalla caffettiera, ma il piede di Ferid premette abbastanza sul suo inguine da farlo bloccare e rimettersi seduto. Ferid si sporse leggermente verso di lui senza smettere di sorridere.

«No, va bene… puoi finirlo.» disse a voce bassa mentre il suo piede premeva leggermente vicino alla zona più sensibile. «È ancora caldo…»

Woah. No, Ferid, non farmi questo. Mancano ancora cinquantotto giorni di voto di castità, e vale anche per il self-service.

Deglutì senza fare rumore e riprese lentamente la tazza. Decise di attribuire quell’ipersensibilità alla stanchezza dovuta ai lunghi turni degli ultimi giorni.

«Grazie.»

«Ma ti pare~» rispose lui, tornato al suo tono consueto e accavallando le gambe. «Comunque, io sono abbastanza meticoloso nelle mie registrazioni. Ho registrato tutti i giorni in cui sono stato alla biblioteca, i bambini che ho visto, cosa facevano e cosa ci siamo detti, nei casi in cui abbiamo parlato… ma purtroppo devo dire che non ho notato nemmeno lì qualcosa di strano. Non ho annotato niente, il che combacia con i miei ricordi di qualche anomalia: nessuna

«E quindi… cosa stavi facendo con le foto?»

«Le stavo mettendo in ordine. In ordine cronologico. Non di quando sono stati uccisi, ma di quando li ho incontrati.»

«Hai incontrato Sarah Farstow per prima?»

«No, anzi. L'ho incontrata per ultima. Ora, devo finire di verificare, ma pare che…»

Ferid si alzò di scatto, prese un foglietto e leggendolo mise in ordine le foto e scrisse sotto delle date e dei simboli, che Crowley non capiva. Attese che finisse, attento al suo lavoro, e alla fine si trovò la medesima sequenza di ritratti che c'era da principio sulla lavagna. Ferid gliele mostrò.

«Ho incontrato Sarah Farstow alla biblioteca in gennaio, circa un mese prima della sua morte. Incontrai Sophie prima di Natale, e Neva in settembre la prima volta. Gaia Windsor è nei miei diari il dodici agosto. Nagareboshi Iida, in luglio. Alex Montoya lo scorso giugno e Patricia il sei maggio.»

«È una curiosa coincidenza, Ferid.»

«Oh, Detective, c'è troppa materia grigia in questa stanza per credere davvero che uno di noi due pensi che sia una coincidenza.»

«Ma la segretaria mi ha detto che tu sei là ogni settimana… perché proprio questi sette bambini e non altri che hai incontrato, per esempio, gli ultimi sette, o tutti quelli che hai visto in dicembre?»

«Semplice. Quasi banale, oserei dire.» rispose lui con una certa amarezza. «Ho rivolto la parola a tutti e sette i bambini, anche solo per un saluto, per passare loro un libro o, come nel caso di Patricia Cole, perché correndo fuori dalla biblioteca mi ha urtato ed è caduta per terra. Le ho semplicemente chiesto se si era fatta male.»

Qualcosa di fulmineo passò negli occhi artificialmente rossi di Ferid e Crowley la notò immediatamente. La riconobbe, perché anche lui conosceva intimamente quell'emozione: la rabbia, la frustrazione, il senso di colpa di aver causato senza volerlo qualcosa di irreparabile. Il poliziotto perse l'accenno di sorriso.

«Ferid.»

«Sono stato io. Non so come, ma sono stato io a designarli.»

«Non devi dirlo. Non è vero. Quello che ha delle colpe è l'uomo che li ha presi, li ha prosciugati del sangue e ha strappato loro il cuore. Sei tu quell'uomo?»

«Non sono io, ma…»

«Quindi la colpa non è tua.»

«Puoi dire quello che vuoi, ma se sei un uomo di logica converrai con me che sembra che il solo motivo per il quale questi bambini siano morti è che io ho detto loro qualcosa.» disse lui, con un tono che voleva sembrare distaccato senza riuscirci appieno. «Ma cosa più positiva… se sono stato scrupoloso come spero, se non ho trascurato di scrivere qualcosa per stanchezza, pigrizia o dimenticanza, posso dirti con quali altri bambini ho parlato prima di Patricia.»

Crowley abbassò la tazza che si era accostato alle labbra e fissò l'uomo in blu con stupore crescente. Si alzò di scatto dalla sedia.

«Puoi dirmi chi sarà il prossimo nel mirino!»

«Sì e no. Non so i loro nomi, ma riporto qualche dettaglio del loro aspetto. Posso dirti la data. Che cosa stava leggendo. È abbastanza per aiutarti a trovarli?»

«Sì! Sì, lo è, perché abbiamo i filmati della sorveglianza!»

Crowley sentì la sua voce vibrare per l'entusiasmo: dopo tanti mesi di vicoli ciechi poteva avere un indizio, poteva trovare il prossimo bambino in pericolo e salvarlo, e con astuzia prendere l'assassino più brutale della storia della sua città. Poteva dare giustizia ai bambini e vendicare i suoi colleghi caduti. Aveva una chance.

«Ferid, per favore, so che ti chiedo molto, ma devi trovarlo… trova il giorno in cui hai parlato a un altro bambino in quella biblioteca! Se quel giorno è entro gennaio dello scorso anno sarete sul nastro, posso vedere il bambino, trovarlo… possiamo salvarlo, e forse il nostro uomo è lì con voi! Deve esserlo, o come farebbe a sapere con chi hai parlato?»

«Spero davvero che sia così facile… ma qualcosa mi dice che non lo sarà.» commentò a bassa voce Ferid, come parlando a se stesso. «Beh, leggerò i diari di nuovo andando all'indietro. L'osservazione dei bambini è il mio hobby, dopotutto. Confido nella mia capacità di essere maniacalmente scrupoloso nelle annotazioni in proposito.»

«Finalmente qualcosa di concreto!» esclamò Crowley, e guardò la lavagna. «Sapevo di aver preso la decisione giusta chiamandoti… sapevo che tu avresti trovato il pezzo fondamentale per risolvere il puzzle.»

«E come facevi a esserne tanto sicuro?»

«Perché Dio mi ha detto di venire da te.»

L'espressione di Ferid tradì chiaramente il suo stupore e ci mise alcuni secondi a ricomporla. Crowley sorrise e andò alla scrivania per recuperare la tazza del caffè.

«Ho pregato perché mi desse la sua spada. Perché, se non potevo essere io la spada, mi guidasse da chi lo sarebbe stato. Da chi avrebbe potuto abbattere il mio nemico…»

Il suo sguardo si posò sul nastro di seta blu nel portaoggetti pieno di graffette. Lo sollevò pizzicandolo tra indice e medio e quello si srotolò fluidamente.

«Tu sei la risposta a quella preghiera, Ferid. Perché sono…»

Esitò un momento, ripensando allo strano sogno avuto alla chiesa di Saint Thomas, ma poi sorrise e si avvicinò a lui, sciogliendo il nastro argentato dalla sua coda. I loro occhi si incontrarono e l'inquietudine al ricordo del volto dipinto sulla marionetta svanì.

«Sono molti i segni che me lo dicono. Sono certo che il nostro incontro non è casuale. Dio ti ha messo sulla mia strada per un motivo.»

«Già, ma sei sicuro che sia il motivo che credi?»

Ferid si passò la mano tra i capelli e continuò a fissarlo. Crowley non riuscì a capire che cosa stesse pensando: non riusciva a cogliere segnali chiari di stupore, di incredulità, di scetticismo, di allegria o altro. Continuò a sorridere e passò il nastro dietro il suo collo sollevando la sua folta chioma per infiocchettarla al meglio delle sue capacità.

«Si chiama fede, Ferid. Questo è il colore giusto, eh?»

Crowley riuscì a produrre un fiocco insospettabilmente curato e ancora una volta tornò alla scrivania per prendere la tazza del caffè.

«Mi capita molto di rado che qualcuno creda in me.»

«Non capisco il motivo, a me sembri una persona molto affidabile e ogni volta che ti ho chiesto un favore hai fatto grandi cose. Non ho motivi per non fidarmi.»

«E il fatto che io sembri essere l'unico plausibile indiziato nelle indagini sul Vampiro non ti dice nulla?»

«Mi dice che il Vampiro è bravo a nascondersi.»

«Possibile che tu non abbia neanche un'ombra di dubbio?»

Crowley scosse la testa, convinto.

«No, è molto bravo a nascondersi.»

«Su di me, detective.»

«Ho un solo dubbio su di te, Ferid, ed è: davvero hai avuto una donna?»

Ferid sembrò essere preso in contropiede da quella domanda, anche perché il tono di Crowley era candido ma indiscutibilmente serio; tale e quale a un bambino che pone una domanda che lo sta pungolando da ore. Trattenne una risata e distolse lo sguardo, andando a sedersi alla scrivania.

«Beh, qualcuno potrebbe dire che prima di affermare che qualcosa non fa per te la devi almeno provare.»

«E com'è andata?»

«Non così male come credevo… ma le donne si sa come sono, no?»

«Che intendi?»

«Sai, bizzarre… volubili. Instabili, a volte. Sanno essere gelide e distaccate, o al contrario ossessive e martellanti… ma lo saprai di certo. Statuario al limite dell'indecenza come sei devi essere torturato dal gentil sesso~»

«Ah, in effetti sì…»

La mente di Crowley gli ripresentò memorie dei giorni di Rachel Bailey e della bella e gelida Miriam che l’aveva fatto tribolare senza mai cedere alla sua corte, ma poi apparve prepotente la breve e turbolenta storia con Sean Lesky.

«Ma le cose peggiori me le hanno fatte tutte gli uomini.» aggiunse, incapace di tenere per sé quel pensiero.

«… Ah.»

«Già.» commentò lui versandosi del caffè. «…Vuoi sapere i dettagli? Sei il tipo che racconta certe cose oppure…?»

«Ne faccio anche a meno, grazie, detective, per avermi preso in considerazione per le tue chiacchiere da pub.»

«Ehh… non te la prendere, Ferid, era solo una domanda.»

«Oh, non sono offeso.» assicurò lui, e si infilò gli stivali. «Solo, se davvero ci tieni a farmi sapere cosa ti piace fare, dovresti farmelo vedere. L'apprendimento diretto è molto più efficace, pare~»

«Sai una cosa?»

«Ne so molte, di quale cosa parli?»

Crowley si riavvicinò alla scrivania e si chinò, porgendogli la tazza di caffè e appoggiandosi pesantemente sul bracciolo. Era abbastanza vicino da vedere di nuovo il sottile cerchio delle sue lenti a contatto.

«Alla biblioteca mi hanno detto che c'è un certo professore che studia le tecniche di apprendimento.» disse, incapace di trattenersi dal sorridere al ricordo della foto. «Chissà se lo hai mai incontrato, mi hanno detto che va spesso…»

L'espressione di Ferid si rabbuiò.

«Ah. Certo, avete i video della sorveglianza.»

Appurato che non avrebbe cercato di negarlo, Crowley sorrise più ampiamente e raddrizzò la schiena mentre lui prendeva la tazza di caffè.

«Non pensavo che fossi capace di vestirti come una persona normale… beh, quasi.»

«So che sono un po' retro… ma sono vestiti… ereditati, per così dire. Erano di Claude.»

«Claude? Chi è Claude?»

Prima che Ferid potesse rispondere il rumore della porta fece girare la testa ai due verso l'ingresso e videro De Stasio entrare con un vassoio di dolci avvolto con cura in carta rosa pallido: dritto dritto dalla pasticceria di sua cugina, l’Annarosa. Li guardò con sorpresa.

«Ehi, che fate voi già qui? Ferid, non seguire i suoi turni di lavoro, ti farà ammalare. Solo un irlandese può lavorare a quei ritmi senza morirne.»

«Oh, certo che no, ero solo venuto a fare una cosetta~»

«Beh, sei fortunato! Mia cugina ha una pasticceria all'italiana, fa dei dolci fantastici! Devi assolutamente provare uno dei suoi cannoli alla siciliana, è una ricetta della Sicilia per davvero, noi non contaminiamo le nostre ricette con quelle americane!»

Entusiasta come ogni volta che si metteva a parlare di ricette italiane autentiche, De Stasio prese ad aprire la carta rivelando un sontuoso vassoio di quelli che avrebbero potuto benissimo sembrare gioielli commestibili: cestini di crema sormontati da frutti luccicanti, grossi cannoli ripieni di ricotta dolce, bomboloni coperti di zucchero, cassatine dai colori vivaci e una brioche scura che Crowley conosceva bene, il famoso cavallo di battaglia della cugina Rosetta.

Il croissant al cioccolato fondente. Dio, che fame.

«Su, prendi, non fare complimenti!»

Dante porse uno dei cannoli a Ferid, che però aveva imbracciato i suoi molti diari e indossato un sorriso di scuse che aveva tutta l'aria di essere autentico.

«Mi dispiace, Dante, devo proprio andare adesso, devo aprire il negozio. Fai conto che io abbia accettato con gioia.»

«Aspetta, aspetta… se non hai tempo portalo con te, mangerai prima o poi, no?»

«No che non mangia.» biascicò Crowley, con la bocca piena di sfoglia e crema al cioccolato fondente. «È un vampiro!»

«Ogni tanto mangiano anche loro… il cibo italiano è troppo buono per rinunciarci!»

De Stasio sfilò dal suo cassetto un sacchetto di carta intonso con il logo della pasticceria – la cui inaspettata comparsa spinse Crowley a spiare nella scrivania per scoprirne alcune decine – e vi infilò un cannolo, un bombolone e una cassata senza colpo ferire. Mise il pacchetto in mano a Ferid come sfidandolo a rifiutare, ma lui dopo un attimo di stordimento sorrise.

«Grazie, Dante. Sei veramente un tesoro.»

Con i suoi vertiginosi tacchi di nuovo in assetto non dovette neanche sforzarsi di mettersi in punta di piedi e a Ferid bastò sporgersi per dare un bacio sulla guancia di De Stasio. Il consulente speciale si trattenne solo un attimo per raccomandare ai due poliziotti di comportarsi bene – qualsiasi cosa intendesse dire con ciò – e scomparve con i quaderni e il sacchetto fuori dalla porta. De Stasio era come congelato, ma anche Crowley ci mise del tempo a riprendersi.

«Beh…»

«Che… diavolo è successo?»

«A occhio e croce direi che ti ha baciato, De Stasio, però non sono sicuro.»

«Intendevo perché l'ha fatto…»

«Non ti conosce così bene. Probabilmente non sa che quando parli di pasticceria italiana ti infervori come in nessun altro ambito della vita e avrà pensato che ci tenessi molto che lui avesse i dolci di tua cugina.»

«Beh, ci tengo sì, se lo vedesse la zia Antonia lo legherebbe a una sedia e lo ingozzerebbe di bomboloni, è troppo magro.»

«Porta me da tua zia Antonia.» commentò Crowley.

«Tu non sei abbastanza mingherlino… ma conoscendola ti darebbe lo stesso cinque o sei bomboloni, per mantenere la stazza.»

«Le donne italiane non conoscono la differenza tra grasso e aitante?»

«Quelle della mia famiglia no.»

De Stasio si toccò il viso dove Ferid lo aveva baciato, con aria ancora stranita, poi notò le fotografie e le date appuntate da una calligrafia sconosciuta sulla lavagna e si accigliò.

«Che sono queste date?»

«Oh! Quasi dimenticavo…»

Crowley si affrettò a deglutire il boccone di dolce e a spiegare al collega che cosa Ferid fosse venuto a fare così presto e cosa fossero i molti quaderni che aveva appena portato via. L'espressione di De Stasio non mutò se non per uno scintillio negli occhi verdi mentre scorreva le date.

«A ritroso… eh? Sembra che questo Vampiro abbia un qualche conto in sospeso con Ferid o lo penso soltanto io?»

«Sembra uno schema troppo preciso per essere casuale, non credi? Questo lo vedo chiaramente…»

«Assolutamente.»

«Beh, suppongo sia il momento buono per indagare un po' ufficialmente su Ferid.» osservò Crowley, e spazzolò il resto della brioche. «Vediamo se salta fuori qualcosa che possa mettere qualcuno in lista.»

«Io vado in sala video. Riguarderò i filmati di queste date per vedere se qualcuno di sospetto osserva i bambini.»

Stabilito il piano d'azione De Stasio prese il suo piccolo caffè d'asporto, un cannolo che addentò sul momento e infilò la porta. Crowley andò a sedersi alla scrivania e si mise in assetto per scartabellare negli archivi virtuali della polizia e in ogni schedario con loro condiviso, già convinto che avrebbe letto qualcosa di interessante sull'umile libraio che tutto era fuorché un banale, noioso impiegato.

 

 

Ferid non si sorprese di trovare la serranda del negozio già alzata e le luci accese quando arrivò: mancavano dieci minuti all'orario di apertura. Si affrettò ad attraversare la strada ed entrò facendo scampanellare la porta e di riflesso voltare la sua datrice di lavoro.

«Dove diavolo eri, Ferid?»

«Sono mortificato, ero al dipartimento di polizia e ho perso la corsa per il West End, ho dovuto farla tutta a piedi… ahh…»

Ferid appoggiò il sacchetto sul bancone e vi si aggrappò come un naufrago a una tavola galleggiante, per poi massaggiarsi il piede. Era abituato ai tacchi ma non a camminarci per chilometri, e quelli non erano neanche del tipo più comodo. Krul si limitò a guardarlo senza lanciarsi in una sgridata e già questo doveva suggerire a Ferid di non essere affatto capace di mascherare il dolore pulsante che sentiva alle piante.

«Quelli sono i trampoli più alti e assurdamente vistosi che ti abbia mai visto indossare.» commentò lei, dandogli un'occhiata dopo essersi sporta – quasi arrampicata – sul bancone. «Non avevi una scarpa più sobria per andare dalla polizia?»

«No… cioè… mi sono vestito ieri sera per uscire e per una serie di circostanze diciamo che non sono passato da casa a cambiarmi e quindi stamattina sono andato così al distretto… penso che morirò di male ai piedi, sono serio…»

«Ci credo. Riferirò al medico che firmerà il certificato di morte. Idee per la tua lapide?»

«Qui giace Ferid Bathory. È felice di non avere più i piedi.»

Ferid sospirò e zoppicò dietro il banco, dove abbandonò la pila dei suoi diari sotto lo sguardo incuriosito di Krul. Se non fosse stato così ottenebrato dalle fitte si sarebbe reso conto di quanto era mansueta la ragazza solitamente irascibile. Lei si spostò i capelli rosa dietro le spalle.

«Sembri appena arrivato in fondo al pellegrinaggio a Santiago.»

«Chissà se vale per essere assolto dai peccati…»

«Immagino dipenda dai tuoi peccati.» commentò lei, e gli avvicinò lo sgabello. «Avanti, siediti. Togliti le scarpe, dietro il bancone non se ne accorgerà nessuno che sei scalzo… anche se sarai vistosamente più basso.»

«Senti chi parla!»

«Sta' zitto, idiota, sto cercando di aiutarti.»

«Non era necessario sottolinearlo!»

«Non è necessario sottolinearlo neanche quando mi insulti chiamandomi “nanerottola”.»

«Questo è perché a volte ti comporti in modo incredibilmente orrendo con me e con gli altri.» ribatté Ferid, sfilandosi la scarpa. «Non si addice a una signorina parlare in quel modo alle persone, gli uomini si convinceranno che sei una irritabile bisbetica e non vorranno mai uscire con te. Vuoi restare zitella per sempre?»

«Conosco un uomo a cui non importa del mio caratteraccio, potrebbero essercene altri.»

Ferid tolse l'altro stivale e alzò lo sguardo, accigliato, alla ricerca di Krul che scomparve nel retro. Ora che non era più distratto dal dolore iniziava a rendersi conto di quanto fosse anomalo il suo comportamento, ma non trovò alcuna spiegazione a quella che – riguardando una donna dal pessimo carattere come lei – poteva senz'altro definirsi gentilezza. Sospirò il più silenziosamente possibile, si massaggiò il piede dolorante e sbadigliò incurante di poter essere notato da chi si trovava a passare davanti alla vetrina. La notte insonne cominciava a farsi sentire.

«Che cosa sono tutti quei quaderni che ti sei portato dietro, Ferid?»

«Oh, nulla di importante… cioè, sono importanti… potrebbero contenere un indizio sul Vampiro di West End, ma non credo di poterti dire più di questo. Mi hanno chiesto di non diffondere quello che ho letto nei dossier e quello che mi viene riportato dai poliziotti sul caso.»

«Uhm? Ti hanno fatto leggere i dossier?»

«Sì… per farla breve, credono che io possa aiutarli a capire come pensa, perché so molte cose sull'esoterismo.» rispose Ferid, e prese un quaderno per leggerne le date annotate in un angolo della copertina. «Può darsi che mi chiamino ancora, ma cercherò di andarci quando potrai stare tu in negozio… capisci che è una faccenda importante, non sto giocando.»

Aprì il quaderno sfogliando le pagine per arrivare a una precisa data e accavallò le gambe come soleva fare per posarci sopra quello che stava leggendo, prima di sentire il lieve peso di Krul che si appoggiava con i gomiti sulle sue spalle e contro la sua schiena. Sentì nettamente un profumo di mughetto dalla sua pelle prima che una zaffata di caffè lo coprisse.

«Sette bambini uccisi… è ovvio che tu non stia giocando. Ti va del caffè?»

Ferid alzò la mano e prese la tazza di caffè più interdetto che mai.

Stranamente tranquilla... insolitamente dolce... qualcosa non va in lei.

«È avvelenato?»

«Sei così paranoico con tutti o solo con me?»

«Tu non hai idea di quanto sospetto susciti quando sei gentile, Principessa, e questo perché sei una stronza totale ogni singolo giorno della tua vita.»

«Beh, tu sei un rintronato totale ogni giorno della tua vita, per cui possiamo dire che conosciamo i lati peggiori dell'altro e non ci siamo ancora uccisi. Ci sono i presupposti per una sopportazione duratura, ormai andiamo avanti così da quanto?»

«Da sette anni, Principessa, sette lunghissimi anni, e se lo dico io puoi credere che siano stati lunghi.»

«Sette anni… e più di un anno, dal quattro luglio.»

Ferid sperò di non aver mostrato segni evidenti del nervosismo che si era appena impennato come un serpente dentro di lui, ed era un serpente grosso quanto un basilisco. Sentire le sue braccia intorno al collo, le dita che gli accarezzavano il viso e il suo seno – per quanto poco notabile fosse – appoggiato contro la nuca non aiutò a rilassarlo.

«Che cosa stai facendo, Krul?»

Sentì una sottile risata all'orecchio mentre le piccole curate mani della ragazza scendevano sul suo petto e prendevano sfilare i bottoni argentati dalle loro asole uno dopo l'altro senza esitazione.

«Krul, smettila subito.»

«Sai che cosa sto facendo… vivi nel tuo Paese delle Meraviglie, ma non così tanto.»

«Sei pazza o… Krul, ci stanno guardando tutti!»

Difatti bastò un'occhiata per vedere decine di persone ferme davanti alla vetrina del negozio a guardare proprio loro. Senza capire come mai ci fosse tanta folla alle nove del mattino davanti al Magick, senza capire perché a Krul fosse venuta improvvisamente voglia di sedurre il suo unico impiegato che persisteva a tormentare con così tanto impegno, tentò di bloccare quella sua manina. Non riusciva a muoversi. Non importava quanto ci provasse, non riusciva a respingerla.

«Ferid…»

Perché sta succedendo tutto questo... perché lo sta facendo, perché adesso, perché qui... perché con me?!

Ferid spalancò gli occhi un sussulto e si rese conto di essere appoggiato al piano che reggeva la cassa, il computer e varia cancelleria, oltre a una pila di quaderni dall'aria nota. Si tastò il pagliaccetto solo per scoprire che era perfettamente abbottonato.

Stavo sognando? Mi sono addormentato seduto qui?

Mosse appena i piedi confermando che non portava le scarpe, quindi si era davvero tolto gli stivaletti. Era disorientato, quando esattamente si era addormentato? Dove iniziava il sogno?

«Ferid… ti sei addormentato in due secondi, sul serio?»

Voltò la testa di scatto, forse per la voce o forse per le note di mughetto che avevano reso vividi i colori del sogno. Krul versò il caffè in due tazze e gliene porse una, con aria vagamente sorpresa.

«Hai una faccia spaventosa, si vede che non hai dormito. Non devi venire al lavoro come uno zombi, ti ho assunto perché voglio un commesso bello dietro il banco. Attira le ragazze nel negozio… e anche gli uomini, direi.»

Ancora confuso dal non riuscire a cogliere il punto di congiunzione tra il vero e il falso prese la tazza calda dalla mano di lei. Notò però un'altra anomalia: aveva le unghie laccate in un tono di rosa molto simile alla sua capigliatura, il che era inusuale dato che le colorava sempre di nero, rosso o viola. Il modo in cui la occhieggiò tradiva tutti i suoi dubbi, infatti Krul abbassò la tazza coi pipistrelli disegnati che stava portandosi alle labbra.

«Mi dici che hai? Sembra che tu sia stato sveglio per un mese, non per una notte.»

«Te l'ho detto, sei tu che sei strana. Hai trovato un uomo?»

L'espressione sorpresa di lei si trasformò con un sorrisetto malizioso.

«Se dicessi di sì, cosa sentiresti?»

«… Compassione, per quel poveretto.»

«Tch! Figurati, l'ho sentito il tono che avevi al telefono quando hai sentito parlare Ash.»

«Ero solo sorpreso, Principessa. Ti pregherei di non vedere niente più di questo.»

«Oh, che brutale, Ferid… l'avessi detto a una ragazza con un cuore glielo avresti spezzato…»

Se tu avessi un cuore forse avrei potuto dirti qualcosa di diverso, già da tempo.

L'ondata di amarezza e nostalgia che sentì per l'ennesimo nodo della sua vita che prendeva una piega dolorosa che non dipendeva dalla sua volontà arrivò quasi a tracimare dalle sue dighe emotive. Contro ogni pulsione istintiva tirò un sorriso e guardò Krul, seduta sul bancone con le gambe accavallate, come se non avesse mai fatto nulla per farlo soffrire.

«Se per caso sentissi una leggera fitta al cuore per la mia totale indifferenza alle tue grazie, lì c'è qualcosa per farti stare meglio!»

Accennò al sacchetto che gli aveva dato De Stasio e rimase in silenzio a sorseggiare il caffè guardandola avventurarvi le manine dentro spinta da golosità e curiosità; due dei suoi tratti più vistosi. Non dubitava che avrebbe scelto il dolce più grande e difatti tra essi prese il cannolo e che staccò un morso senza neanche accennare a un ringraziamento. Non che Ferid se l'aspettasse.

Krul fece un balzello e si sedette più comoda sul bancone.

«Qhudofinfihaeondiopettao?»

«Che diavolo hai biascicato? Avanti, fai la signorina a modo, non parlare mentre mangi!»

Krul alzò gli occhi al cielo e deglutì prima di ripetersi.

«Questo vuol dire che non ti sospettano? Per gli omicidi, insomma.»

«Oh, certo che mi sospettano.»

«Ma hai appena detto che ti hanno chiesto di aiutarli!»

«È vero, ma in qualche modo questo mi ha un po' danneggiato.»

«In che senso?»

«Non posso parlarne, Krul… non posso raccontare in giro delle indagini in corso.»

«Non puoi buttarla lì così e poi tacere!»

Krul piantò il tacco nella coscia di Ferid e anche se lo fece con insolita leggerezza quello era abbastanza appuntito da fare male.

«Ahia!»

«Spiegati! Non ne parlerò a nessuno, nessuno saprà che me l'hai detto!»

«Non posso, sul serio… e poi ormai è ora di aprire, non… Krul?»

Ferid seguì con lo sguardo la feroce donnina che scavalcò il bancone e uscì dal negozio. Basito girò intorno al banco per seguirla, pensando avesse deciso di punto in bianco di tornare a casa, ma poi vide la serranda abbassarsi fino alla solita altezza, un metro e mezzo circa. Lei si chinò appena per rientrare, chiuse la porta con uno scampanellio ed espose il cartello blu, quello che di solito esponevano quando chiudevano un giorno extra per manutenzione o per finire un inventario problematico. Senza dire una parola marciò fino al bancone e si risedette esattamente allo stesso posto, riprendendo in mano tazza e dolce.

«Ora abbiamo tutto il tempo e la privacy necessaria. Siediti.»

«Krul, ti ho appena detto che non posso…»

«Non lo saprà nessuno! Avanti, ho mai tradito un tuo segreto?»

«… Ne hai mai saputi?»

«Non ho raccontato a nessuno dei tuoi nei che fanno un triangolo!»

«Krul, se unisci tre punti qualsiasi fai un triangolo.»

«Ma i tuoi sono un triangolo equilatero quasi perfetto, lo so. Li ho uniti con il pennarello.»

«… Tu che cosa, scusa?»

«Già, e tu non te ne sei neanche accorto, dormivi come una pietra tombale. Potevo anche operarti a un rene e non ti saresti accorto di niente, buffo, vero?»

Buffo? Agghiacciante, piuttosto.

«Su, avanti, prenditi altro caffè e raccontami. Non è tanto giusto chiedere tutti questi permessi alla tua padrona senza giustificarti.»

«Titolare, padrona suona molto male…»

«Padrona suona benissimo. Su.»

Batté leggermente il piede sullo sgabello come a invitarlo a prendervi posto e Ferid, i cui piedi dolevano ancora anche solo reggendo il suo peso, andò a prendervi posto. Era confuso, forse anche come effetto della stanchezza, e decise di arrendersi: una guerra con Krul poteva solo logorarlo ulteriormente.

«Krul, non deve lasciare questa stanza o saremo tutti e due nei guai, d'accordo?»

«Lo so, lo so.»

«Uhm…»

Dopo un ultimo attimo di esitazione Ferid iniziò a raccontare dal principio: del fatto che il detective era venuto alla ricerca di informazioni sul mito dei vampiri, le disse quanto erano state infruttuose le vaste indagini e quanto erano disperati per aver chiesto a lui di offrire loro consulenza. Le disse di aver letto i dossier e di aver scoperto che i bambini erano stati trovati privi di sangue e del cuore in tutti i casi e dei suoi dubbi riguardo il fatto che il Vampiro si ritenesse davvero tale.

«Il cuore, eh?» commentò lei, mentre Ferid si versava dell'altro caffè. «Sembra un macabro rituale, ma l'unica cosa che mi venga in mente con sangue e cuore è legato alla santeria e si fa con quelli del gallo.»

«Ci ho pensato anch'io, ma che senso avrebbe farlo con quello dei bambini? Vale lo stesso per la magia pagana, si fanno potenti incantesimi d'amore con il sangue del pollo, ma davvero non colgo un senso in questo salto di specie.»

«Mh… e ti è venuto in mente qualcosa? Hai detto che sei andato alla centrale senza neanche cambiarti. Qualche lampo di genio?»

«Non proprio, solo… c'è un collegamento che ho trovato tra le vittime… io.»

Krul lo fissò per qualche secondo senza capire, poi si accigliò.

«Tu? Intendi tu… tu?»

«Ho incontrato tutti i bambini alla Wilde Library nel corso dell'ultimo anno… ho parlato più o meno con tutti loro. Capisci che questo non mi pone al di sopra dei sospetti, anzi… ma il detective Eusford non crede che io c'entri davvero qualcosa, o almeno crede che non sia io il colpevole e cerca indizi in un'altra direzione.»

«E ce ne sono?»

«Al momento nessuno. In verità la mia posizione è tutt'altro che sicura… e a quanto ne so potrebbero avermi chiesto consulenza solo per poter studiare le mie mosse e vedere se mi tradisco in qualche modo.»

«Ferid.»

Ferid, che aveva ripreso a ordinare secondo data i suoi diari, non la guardò ma fece un verso per farle intendere che la stava ascoltando.

«Gli omicidi sono sempre di giovedì, ho letto. Tu il giovedì sei sempre a casa a leggere, no?»

«Sì, da anni ormai ogni giovedì… tranne… beh, un solo giovedì in cui sono stato al bar. L'anno scorso.»

Non aveva alcuna voglia di confessare a Krul che il giovedì seguente il quattro luglio aveva preferito di gran lunga andare al bar a regalare a William la più singolare memoria che avesse del suo più insolito cliente. Si tenne sul vago sperando che lei, come aveva promesso, avesse cancellato quel giorno dalla sua mente.

«Ferid, se io… se io dicessi alla polizia che abbiamo passato insieme uno di quei giovedì?»

«Non vedo perché dovresti, dato che non è vero.»

«Ma se lo facessi sarebbero costretti a prendere seriamente l'ipotesi di un altro sospettato.»

«Non stavi sperando che mi mandassero a Coniston? Siamo sulla buona strada, lascia che sia.»

«Sai che non dicevo sul serio.»

«Purtroppo sei più che pessima a far capire quando scherzi, Principessa.»

«So che tu mi capisci comunque.» disse lei. «E so che tu non hai fatto quelle cose.»

«Non vedo come tu possa saperlo… saperlo per davvero. Tanti serial killer vengono descritti da chi li conosce come amabili persone.»

«Lo so perché tu non affronti mai quello che ti fa paura, preferisci sempre scappare. L'hai sempre fatto. Persone come te continuano a scappare per tutta la vita. Non diventano assassini.»

«Speralo per il tuo bene, Krul.» ribatté Ferid, piccato.

«E lo so perché sei abitudinario, e metodico nelle tue abitudini. Sistemi sempre i nuovi arrivi per dimensione e gli scaffali della stessa lettera in ordine alfabetico della casa editrice. Spolveri il negozio partendo sempre dall'angolo e fai il giro, finendo alla teca dei calici. Quando arrivi alzi ogni giorno la serranda alla mia altezza.»

Ferid suo malgrado si decise a guardarla. Fece del suo meglio per celare lo stupore, perché era davvero sconvolto dal fatto che Krul si fosse accorta di così tante sue manie, visto che quando era in negozio pareva badare a malapena a quello che faceva, troppo presa dai suoi ninnoli o dai conti.

«Cambi regolarmente vestiti e abbinamenti, tranne il mercoledì, che porti sempre il fiocco blu. Da qualche settimana invece non ti leghi i capelli il mercoledì.»

Si riferiva di certo al periodo in cui il detective era stato ricoverato in ospedale: il fiocco blu era rimasto a lui insieme alle rose e ne aveva fatto a meno da allora ogni settimana. Ora che era rientrato in possesso del nastro, però, avrebbe di certo ripreso a usarlo come sempre. Krul guardò proprio la sua coda, con un sorriso dall'aria maliziosa.

«Ma vedo che il tuo nastro blu è tornato. Dove lo avevi lasciato?»

«Non lo trovavo più. Pandora probabilmente se l'era portato via per giocarci, ogni tanto lo fa e trovo di tutto sotto i letti, le poltrone e i mobili.»

Krul perse il sorriso e assunse un'espressione seria che Ferid non comprese, dato che lei adorava i gatti.

«Ma cosa più importante, Ferid, non ti addormenti sulla poltrona mentre leggi.»

Come sa che mi metto a leggere sulla poltrona? Non credo di averglielo mai detto…

«Sì, so che ti siedi sulla poltrona, ti prepari qualcosa da bere e leggi per ore e ore. Riesci a leggere anche due libri, a volte.»

«Principessa, pare che quel seminario sulla preveggenza ti abbia giovato.» ironizzò Ferid, leggermente inquietato.

«Nessuna preveggenza. Dalla mansarda di casa mia riesco a vedere la finestra del tuo soggiorno. Il giovedì sera ti vedo sederti a leggere.»

«E cosa fai nella tua mansarda a guardare fuori?»

«Guardo te, no?»

«Credo sia un reato, sai? Stalking, o qualcosa del genere.»

«Chiudi le tende, se ti dà così fastidio.»

«Non hai proprio niente altro da fare? Uscire a trovarti un ragazzo, per esempio.»

«Vuoi smetterla di cercare di trovarmi un marito? Sembri mia madre.» commentò lei, e accavallò le gambe. «Quello che voglio dire è che posso vederti leggere. Succede davvero. Posso dire alla polizia che uno di quei giorni ti ho visto in diversi momenti della notte sempre a leggere.»

«Smetto di cercarti un marito se smetti di cercarmi un alibi… anche perché non ho ucciso nessuno, almeno che io possa ricordare, pertanto non ne ho bisogno.»

Ferid decise che potevano anche chiudere quella spiacevole discussione e prese il suo diario più vecchio, pensando che poteva almeno vedere se da lì avrebbe trovato altre annotazioni utili andando a ritroso. Fece a malapena caso al rumore dei tacchi di Krul mentre scendeva finalmente dal bancone.

«Ferid, sono preoccupata per te.»

«Questo mi sorprenderebbe oltremodo, Principessa.»

«Il fatto che non possiamo essere una coppia non significa che non possiamo essere… insomma… amici, ecco.» fece lei, chiaramente a disagio con l’uso di simili parole. «In fondo viviamo insieme per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno da sette anni… ormai ci conosciamo bene, conosciamo i nostri punti deboli, sappiamo… convivere con i nostri caratteri diversi.»

Ferid preferì fingere di non ascoltare, anche se l'ascoltava molto attentamente. Dopo un anno di assoluto silenzio al riguardo, i sospetti su di lui da parte della polizia dovevano aver smosso acque che riteneva ormai morte e stagnanti… o forse era solo la presenza del detective dai capelli rossi?

«Io… lo sai, ho un carattere difficile. Non socializzo facilmente, il periodo della scuola è stato un incubo e mio fratello… lo vedo un paio di volte l'anno, per qualche giorno. Tu sei la sola persona che ho nella mia vita.»

«Sono mortificato per questo, la tua non è una bella situazione.»

«Perché non vuoi che ti aiuti?»

«Perché non ho bisogno di aiuto, in primis, e secondariamente se davvero vuoi chiamare “amicizia” quella che c'è tra noi ho un altro motivo per voler evitare che tu ti metta nei guai con la polizia, se dovessero scoprire che hai mentito.»

Krul tacque per qualche secondo e quando parlò di nuovo Ferid udì un tono di voce che non sentiva da più di un anno.

«Non vuoi che parli con la polizia per non coinvolgermi… anche se hai paura di cosa succederà se non troveranno un altro indiziato. Ah, non serve negare.» disse lei quando lui accennò a rispondere. «È normale avere paura…»

La sua piccola mano passò leggera in una fugace carezza sul suo viso, spostandogli i capelli indietro.

«Forse hai passato troppo tempo con noi, Ferid… inizi a comportarti come un essere umano.»

Krul si allontanò dal bancone e scomparve, come spesso faceva, nella stanza dei gioielli e degli amuleti. Ferid si sentiva la gola secca e stretta, come non bevesse da ore se non giorni.

La sua recita di vampiro secolare era cominciata molto tempo prima di incontrare Krul, ma iniziando a lavorare al Magick si era rivelata una maschera interessante e divertente per gli avventori del negozio, circostanza che l'aveva consolidata e in certa misura peggiorata. Krul però non gli aveva mai dato retta, neanche per scherzo, trattandolo anzi come un ragazzino alienato la maggior parte delle volte.

Che proprio quel giorno se ne uscisse con un simile commento lo turbava. Tornò a sfogliare il diario alla ricerca della settimana precedente alla biblioteca per cercare di non pensare a quella conversazione e alle inaspettate, intime rivelazioni di Krul.

Non va bene... ricevo una pugnalata ogni volta che torno umano.

Non aveva dubbi su questo, l'aveva visto succedere molte volte, ma anche se gli occhi scorrevano sulle righe in corsivo elegante la sua mente non poteva fare a meno di strappare immaginari petali a una margherita per stabilire se stavolta il colpo gli sarebbe arrivato da Krul o dal detective Eusford.

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Capitolo 8
*** La magione silenziosa ***


Crowley si sedette alla scrivania del capitano Alford, sospirando, e inserì le credenziali d'accesso al database del dipartimento. Il giorno precedente non era stato possibile usare la rete dal suo computer, che aveva deciso di ribellarsi al detective che lo rifiutava quanto più possibile mollandolo proprio nel momento in cui ne aveva assoluto bisogno.

Rimuginò brevemente sulle distrazioni del giorno precedente, che spaziavano dal tecnico informatico in erba all'arrivo di una decina di signore dall'abito vistoso portate lì anziché agli uffici della buoncostume, e finalmente il computer decise di accettare le credenziali e aprire la schermata di default del database: era il momento di scoprire qualcosa di più interessante su Ferid Bathory.

Digitò il suo nome e ripescò tutto sommato meno informazioni di quanto a occhio se ne aspettasse. Senza farsi prendere da nervosismo o sconforto dandosi la colpa di non saper ancora usare per bene un computer iniziò dal principio.

«Luogo di nascita Inghilterra. Inghilterra dove?» commentò a mezza voce, accigliandosi. «Non c'è la città… che razza di idiozia è mai questa?»

Cliccò qui e là, ma non riuscì a reperire atto di nascita o altri documenti e questo gli fece pensare che i suoi dati fossero stati registrati a seguito di autocertificazione, il che era veramente molto strano.

Possibile che sia stato adottato? In quel caso forse i documenti originali sono secretati dal tribunale dei minori.

Continuò a curiosare in vari database. Trovò il numero della patente, immatricolata all'ufficio della motorizzazione di New Oakheart, il che fu di suo una piccola sorpresa non tanto per la sua esistenza quanto per la data di nascita lì riportata.

«Cosa… cosa?»

Crowley si passò la mano davanti alla bocca per celare il sorrisetto divertito che gli era apparso sul viso, anche se nessuno lo poteva vedere dietro le veneziane che coprivano i vetri dell’ufficio.

«Ha trentadue anni, non ci posso credere. Non può essere, forse è un vampiro davvero, non può avere davvero trentadue anni.»

Non dimostrava quell'età nemmeno con gli occhiali e gli abiti più antiquati che potesse indossare e non conosceva molti uomini che si aggirassero intorno a quella cifra e conservassero tanta giovinezza nei tratti e nel modo di fare.

Tirò avanti, ma non trovò nessuna apparizione nello schedario di polizia, il che confermava la sua versione che dichiarava di non essere stato dentro il magazzino assaltato dalla narcotici. Per la verità Ferid poteva sembrare plausibilmente un vampiro: nessun atto di nascita ufficiale, una data e un luogo vago sul documento redatto, nessuna traccia di lui nel sistema sanitario né in quello della polizia. Finché poi alla fine non si decise ad avventurarsi nei complicati registri delle tasse.

Trovò immediatamente un risultato, perché vi era registrato un pagamento delle tasse di successione per un testamento.

Crowley si accigliò e aprì i dettagli al riguardo. I suoi occhi fecero appena in tempo a trovare il nome Claude Trobiano III prima che De Stasio irrompesse nell'ufficio senza bussare, facendolo sussultare.

«Crowley!»

«Ma che modi sono? Non è la casa di Pablo Escobar!»

Nella scia del collega vide poi avvicinarsi Ferid, con un'aria che celava molto male la sua angoscia e un quaderno bianco e nero stretto al petto. Capì immediatamente perché si fossero precipitati a cercarlo e l'urgenza sparò Claude Trobiano III fuori dai suoi pensieri all'istante. Si alzò di scatto dalla sedia.

«L'hai trovato, Ferid?»

«L'ho trovata.» precisò lui. «Ma non so quale sia il suo nome. So in che giorno era lì... ci ho messo un po' a trovarla, l'ho incontrata in febbraio.»

«Andiamo in sala video a cercare una foto della bambina!»

Crowley annuì e chiuse l'accesso in pochi clic, rimandando le sue indagini sui legami di Ferid in un secondo momento. Seguì De Stasio verso la saletta video nel seminterrato e Ferid si accodò a loro. Crowley notò, passando per l'open space e davanti a diversi uffici, che questa volta Ferid attirava a malapena l'attenzione di qualcuno al contrario della prima visita, sebbene non fosse molto meno appariscente di allora.

Crowley lanciò un'occhiata a Ferid mentre scendevano con l'ascensore al piano interrato e si stupì di accorgersi che era più basso del solito. Guardò allora i suoi piedi e scoprì che indossava un paio di stivaletti con il tacco appena accennato, in color testa di moro come i pantaloni e il pagliaccetto. Per qualche secondo si chiese quanti completi possedesse e in quanti colori.

Attraversarono il corridoio che li accolse fuori dall'ascensore e raggiunsero la terza stanza, dove una decina di monitor vecchi erano collegati a mangianastri, lettori e adattatori di varia foggia ed età. La camera era piuttosto piccola e lo spazio era appena sufficiente per accomodare tre persone.

«Questa è la vostra… sala audiovideo?»

«Per essere pomposi, sì.» rispose De Stasio, che si era già seduto ad accendere le apparecchiature. «Prendi una sedia, Ferid, ce ne vorrà un po' per trovare il punto.»

«Qual è la data?»

«Quattordici febbraio.»

«Ferid, alla biblioteca anche il giorno di San Valentino?»

«Non vedo perché no, io sono innamorato dei libri~»

«Devi uscire un po' di più, se vuoi il mio parere.»

«Lascialo stare, Crowley, sembri mia madre. Non è un complimento.»

«Oh, avanti, De Stasio… tu passeresti il giorno di San Valentino in pasticceria perché ami i dolci?»

«No, ma potrei passarlo in Italia perché l'amo.»

De Stasio non si accorse di aver spiazzato Crowley, dato che era concentrato sullo spulciare i nastri, ma Ferid sì e ritrovò almeno un prototipo del suo sorriso. Avvicinò una seggiola malconcia e si sedette accanto a lui.

«Tu sei il tipo romantico che a San Valentino regala fiori, cioccolatini, cene al ristorante, day-off alla spa o cose del genere?»

«Che intendi per day-off alla spa?»

«Oh, forse non arrivi a tanto~»

«Non credo, no…»

«E dire che è così rigenerante…»

Ferid stiracchiò le braccia indietro e si massaggiò la spalla sinistra con un sospiro.

«Dovrei andarci anch'io, per quanto sia lustra la carrozzeria serve la giusta manutenzione per far funzionare la macchina.»

«Stai sprecando il fiato, Ferid, Crowley non ha mai messo piede in un posto del genere, e creperà prima di farsi portare a fare massaggi ai fanghi, idromassaggio al sale o una seduta di aromaterapia.»

«Ah, Dante, sembra che tu ci sia stato almeno una volta~»

«Più di una… per le donne di famiglia è la vacanza-tipo, e ogni tanto accompagno mia madre o mia sorella.»

«Che cosa carina~ ci porti mai una donna tua, Dante?»

«Non me lo hanno mai chiesto e io non sono un uomo molto propositivo quando si tratta di vacanze.» rispose lui distrattamente, riavvolgendo un nastro. «Posso portare un camioncino di dolci a casa, ma aspettarsi da me una vacanza o i biglietti per qualche spettacolo a sorpresa è da ingenui.»

De Stasio arrestò il riavvolgimento e fece andare il video a velocità normale. I familiari corridoi della Wilde Library fecero fare un bizzarro capriccio allo stomaco di Crowley, dopo tante ore passate a fissarli.

«E la tua famiglia, Ferid? I tuoi vivono qui a New Oakheart?»

«Oh, no, no. Hanno vissuto in Inghilterra tutta la vita.»

«Sono ancora lì?»

«Ah, probabilmente. Nella loro casa o nel cimitero sulla collina, chi lo sa. Non li vedo da molto tempo.»

«Mi dispiace per questo… ma hai tua sorella, no?»

«Mia sorella?»

«La ragazza che ho visto in negozio qualche mese fa.»

«Krul? Ma per carità di Dio, Dante, non è mia sorella! Nemmeno ci assomigliamo, che dici?»

Crowley, che stava pensando la stessa identica cosa, lanciò un'occhiata indagatrice a De Stasio: chiacchierare del più e del meno, delle famiglie e delle abitudini non era consuetudine sua e sospettò stesse cercando di appurare qualcosa, di verificare una sua qualche teoria. Che non l'avesse condivisa con lui lo irritò un poco perché la percepì come una mancanza di fiducia.

«Quindi non hai fratelli e sorelle…» commentò lui, dopo che Ferid ebbe chiarito la cosa con insolita veemenza. «Sei proprio solo qui, allora… ma tra tanti posti dove incontrare nuovi amici, perché passi tanto tempo in biblioteca, e in una sezione per bambini?»

Ah, ecco dove volevi andare a parare.

«Incontro nuovi amici, frequento altri posti, certe sere… vado in biblioteca a scoprire cosa piace ai bambini… a guardare quelli che si perdono dentro un libro e lo finiscono prima di andare a casa…» spiegò Ferid, con una inusuale inflessione malinconica. «Ho visto bambini uscire da scuola e andare a leggere anziché andare a giocare a tennis o a lezione di musica. Non sono un insegnante, è il solo modo che ho per… dirgli di continuare a farlo.»

Entrambi gli investigatori lo guardarono, ma Ferid non badava a loro e passò le dita sull'orologio d'oro che indossava al polso. Ancora una volta sorrideva senza allegria.

«Era importante per Claude… è importante anche per me.»

Fu allora che il nome di Claude Trobiano III riemerse nella mente di Crowley, correlato al passaggio di eredità. Era un buon momento per chiedere direttamente a lui una spiegazione.

«A proposito, è…»

«Oh, eccomi~»

Ferid indicò lo schermo dove effettivamente una sua piccola immagine, opportunamente anticata dall'abbigliamento, aveva fatto la sua apparizione al banco. Lo guardarono parlare brevemente con Justine, che Crowley notò essere vistosamente rapita dal suo interlocutore, e poi passare sull'altro schermo mentre attraversava un corridoio, soffermandosi di tanto in tanto ad aprire un libro e poi riporlo.

«Secondo il mio diario, io e Justine stavamo parlando di quello sceneggiato alla televisione, quello basato sul libro di Hancock Langley... sapete, I tre regni di Valiant

Il silenzio colpevole che seguì quell'affermazione venne correttamente interpretato da Ferid.

«La cultura è importante per l'essere umano, e anche di più per chi come voi si trova nella posizione di doversi interfacciare con migliaia di persone con lavori, interessi e ambienti di vita diversi. Non va bene alienarsi dal mondo, sapete?»

«Che cosa stai facendo lì, Ferid?» domandò Crowley, in un’abile manovra evasiva.

«Ah, sto leggendo un libro per bambini, quello che stava leggendo il bambino che ho visto il giorno prima.»

«Il giorno prima? Ma tu non vai il martedì?»

«Sì, ma il quattordici era un mercoledì… abbiamo tenuto chiuso perché stavano facendo dei lavori di manutenzione e non avevamo corrente elettrica al negozio.»

«Oh.»

I tre continuarono a guardare il filmato per una mezz'ora prima che una bambina entrasse nell'inquadratura e dovettero aspettare la terza prima che accadesse: Crowley si piegò istintivamente in avanti verso lo schermo quando la vide avvicinarsi titubante a Ferid, allungare la mano, tirare appena la sua manica per attirare la sua attenzione e poi dirgli qualcosa. Il Ferid nel video sorrise, le indicò il fondo del corridoio in cui si trovavano, e la salutò agitando brevemente la mano quando lei lo lasciò e corse via. Attraverso le varie inquadrature la videro superare il banco di Justine e dirigersi verso un angolo della struttura, dove Crowley individuò il cartello delle toilettes.

«Le hai indicato il bagno?»

«Mh mh. Povera cara, era così in imbarazzo.»

«Pensi che possiamo avere un ritratto valido?» chiese a De Stasio, che stava già riavvolgendo. «Se lo otteniamo possiamo farla vedere e trovarla…»

«Chiedo scusa, ma non sarebbe un problema darla ai media?» l’interruppe Ferid, pensieroso. «Voglio dire, se è davvero la prossima e il Vampiro sa già chi è, potrebbe accelerare e prenderla subito, prima che ci arriviate voi...»

«È una possibilità, ma almeno possiamo cercare da qualche parte con la sua foto, prima di ricorrere alla stampa. Ecco, qui potrebbe… De Stasio?»

L'investigatore italiano era così preso da qualcosa nel video che ignorò il momento in cui avrebbero potuto fermare più nitidamente sul viso della piccola e continuò a guardare, scandagliando la pellicola con i suoi occhi verdi. Non lo considerò affatto, come non avesse proferito verbo.

«Che cosa stai cercando, Dante?»

«Beh… osservavo le altre persone.»

Crowley era molto incuriosito da qualsiasi idea del collega, ma nonostante fosse già febbrilmente lanciato in ipotesi un pensiero inconscio emerse comunque: De Stasio continuava a rispondere a Ferid piuttosto che a lui. Si accigliò sospettoso quando Ferid, per avvicinarsi agli schermi, si sporse in avanti appoggiandosi alla spalla di De Stasio, il quale non sembrava assolutamente infastidito per l'invasione del suo spazio personale.

Forse mi sono sbagliato… forse a De Stasio interessano gli uomini, ma non quelli come me.

«Ho guardato i video in cui compari per controllare anche le altre persone che sono con te… in qualche modo il Vampiro sa che hai parlato con quei bambini, quindi o staziona di continuo alla biblioteca oppure segue te… ma se c'è, si mimetizza con gli scaffali o resta in un punto cieco della biblioteca. Non compare quasi mai la stessa persona, e quando succede sono giorni in cui non ci sei, in altri orari o addirittura dall'altro lato dell'edificio. Non capisco come faccia a saperlo.»

«Uhm, giacché sono qui posso giocare al detective anch'io? Perché mi vengono in mente tre soluzioni a questo dilemma.»

«Sputa, Ferid, mi stai incuriosendo.»

«Beh, la prima è la più ovvia… le persone che cerchi sono sempre nei video, e stanno dietro il bancone.»

Crowley ci aveva pensato e quando guardò Justine le sue rotelle iniziarono a girare tanto da fare scintille: una giovane donna dall'aria dolce, una bibliotecaria, una persona di cui era facile che un bambino si fidasse… e che aveva un interesse spiccato per Ferid. Le dinamiche che potessero trasformare una romantica giovane in una maniaca omicida, però, gli sfuggivano. Si appuntò mentalmente di esporre quella teoria a Horn per avere un parere professionale.

«La seconda?»

«La seconda…» disse Ferid con un improvviso ritorno ai suoi modi melliflui. «È che sia qualcuno in grado di controllare le mie mosse, o quelle dei piccoli, dai nastri della sorveglianza della biblioteca.»

«Qualcuno che controlla i video in loco, o che li copia per controllarti senza essere visto… è plausibile, Ferid.»

«E terza, quella che davvero mi mette i brividi…»

I brividi vennero a Crowley quando vide Ferid scostare la ciocca di capelli troppo corta che sfuggiva sempre dalla codina che De Stasio si faceva quando era al lavoro, spostargliela con deliberata lentezza dietro l'orecchio e avvicinare ancora di più le labbra. Si domandò se ci stesse davvero provando come l'aveva scherzosamente invitato a fare il primo giorno o se, come De Stasio a sua volta, non lo stesse mettendo alla prova.

Il collega italiano, tuttavia, non parve notare nulla di insolito in tutta quella scena, come se stessero mangiando un sandwich a distanza sociale di una scrivania, e lasciò persino che Ferid si arricciasse quella ciocca intorno al dito.

«La terza, che ti mette i brividi?» l'incalzò tranquillo lui.

«Che qualcuno si sia introdotto in casa mia… e abbia letto o copiato i miei diari.»

«È una possibilità concreta? Dove li tieni?»

«In casa mia, nello studio, tutti ordinati sullo stesso scaffale…»

«Qualcuno ha la chiave di casa tua? Un tuo vicino, un amico, un fidanzato?»

«No, no, e sicuramente no~»

«Una governante?»

«Non ho governanti né cameriere, mi occupo io della mia casa.»

De Stasio si girò per guardarlo apertamente in volto e Ferid si rimise seduto composto, e quel minuto di sconveniente prossimità scomparve come una bolla di sapone nel vento.

«Devi essere onesto con noi, Ferid: hai dei nemici, gente che ce l'ha con te per qualcosa? Uno sgarbo al lavoro, una controversia col vicinato, un ex con il quale non ti sei lasciato bene?»

Per la seconda volta in troppo poco tempo Crowley pensò a Sean Lesky e scosse la testa per scacciarlo immediatamente dai suoi pensieri.

«Il mio solo nemico naturale è Krul, ma lei è aggressiva solo con me, escludo che possa pensare anche solo di schiaffeggiare un bambino se ce l'ha con il sottoscritto. Mi ucciderebbe e mi seppellirebbe in giardino e potrebbe farlo benissimo, dato che abita a tre villette dal negozio e siamo soli per un sacco di ore al giorno.»

«Beh, è un po' aggressiva anche con me.» obiettò Crowley.

«Oh, detective caro, era solo arrabbiata, lo fa sempre se qualcuno osa non fuggire alle mie avances e alla sua minacciosa presenza.»

«E riguardo agli ex?» insistette De Stasio, alzando leggermente il volume di voce per interrompere la discussione. «Qualcuno sarà stato poco contento di perdere le tue molte virtù, no?»

«Oh, per esempio?»

«Ferid, ti farò un elenco quando usciremo a prendere un caffè insieme quando i bambini saranno di nuovo al sicuro.»

«Oh, certo, certo~ vediamo, ex, uh? In realtà, devo dirti…»

«Nessun ex?» buttò lì Crowley in tono neutro.

«Oh, beh, io… oh, d'accordo, d'accordo.» disse lui sospirando. «Devo essere onesto, per il bene di quei cari bambini. La verità è che ho avuto amanti, ma nessun fidanzato. Nessuna storia duratura, per dirla come voi della polizia, quindi nessuno che possa essere dispiaciuto di perdermi o geloso in qualche misura.»

Alzò la mano per giocherellare con l’orecchino, quel giorno color marrone cangiante come l’occhio iridescente di un felino.

«Non ho scaricato nessuno di loro, ci siamo… salutati di mutuo accordo allo spegnersi della fiamma. Mi auguro di essere stato sufficientemente eloquente, odierei dover offrire dettagli di poca eleganza. Perdonate la pudicizia.»

De Stasio lanciò uno sguardo penetrante a Crowley, che se ne accorse e lo ricambiò perplesso senza avere idea di cosa stesse pensando.

«Che mi dici dei corteggiatori, Ferid? Di qualcuno che potrebbe volerti o averti voluto ma che tu hai respinto?»

«Persone che ho respinto io? Santo cielo, Dante, da dove ti viene un'opinione così alta della mia persona?»

«Da svariate cose che ti illustrerò sempre quel giorno quando prenderemo quel caffè.»

L'aria audace e provocante che aveva tenuto pochi minuti prima cedette del tutto lasciandogli sul volto l'espressione di chi sia in imbarazzo nell'essere ingiustamente adulato. Crowley riconfermò le proprie impressioni al suo riguardo: l'abbigliamento sgargiante e l'atteggiamento di sensualità ostentata, nonché la sua recita vampirica, erano tutte maschere delle sue vistose insicurezze. Ne era certo, perché gli irlandesi hanno un dono di natura chiamato settimo senso che non sbaglia quasi mai.

«Quindi… nulla?» fece Crowley, con aria più scettica di quanto volesse. «Ferid, davvero perdi ore di vita ad allacciarti stivali assurdamente vistosi e un sacco di soldi per questi vestiti e non riesci a trovarti un fidanzato?»

«Crowley.»

«O forse non ne trovi perché il tuo interesse va altrove?»

«Probabilmente. Preferisco i libri alle persone, detective.»

Il modo in cui Ferid lo guardò era inquietante, perché per la prima volta vedeva in lui le tracce della rabbia, anche se una rabbia fredda e ben contenuta. Era il momento di metterlo sotto pressione e De Stasio lo capì, decidendo di assumere la sua espressione da poliziotto cattivo. Crowley si alzò dalla seggiola fin troppo piccola per uno della sua stazza e con la sua altezza torreggiò su Ferid.

«E perché non leggi, allora? Hai a disposizioni migliaia… che dico, milioni di libri alla Wilde Library. Perché stai a guardare i bambini?»

«Mi piace sapere che cosa leggono, a che cosa si interessano… immaginare che adulti potranno diventare.»

«Smettila, non la beviamo.» disse De Stasio, incrociando le braccia.

«Quanti anni avevano gli amanti di cui hai parlato prima, Ferid? Trenta, venti… diciotto? O meno?»

«Detective Eusford, queste allusioni mi stanno molto offendendo.»

Era evidente, perché la postura era più rigida e le sue sopracciglia sottili si stavano flettendo verso il naso sotto il peso della rabbia.

«Non sono allusioni. Rispondimi: quanti anni avevano? Quei bambini…»

Crowley accennò con la mano agli schermi della sorveglianza.

«Quanti di loro ti sei portato a casa?»

Ah, sì. Sì, così.

Crowley fu felice che Ferid, anziché rispondere con la sua solita pacatezza e con i suoi modi affettati lo fissasse con gli occhi di un lupo che ringhiava: era la reazione più normale per una persona innocente accusata di abuso su minori e soprattutto la sentiva sincera. Era molto importante per Crowley, per spazzare via con certezza anche la più pallida ombra di dubbio e il ricordo di quel sogno.

«Smettila. Nessun bambino è mai stato a casa mia, non ho mai fatto loro niente. Non sono quel tipo di persona.»

«Facci leggere il tuo diario, Ferid.»

Ferid lanciò uno sguardo quasi terrorizzato a De Stasio quando allungò la mano per prenderglielo, e se lo strinse al petto.

«No! Sono cose intime!»

«Quindi non ci troveremmo le tue fantasie sui bambini che ti piace tanto osservare, no? Allora possiamo anche leggerlo.»

«Non potete farlo senza il mio permesso, è…»

De Stasio afferrò il quaderno e glielo tolse dalle mani con un gesto fulmineo. Ferid scattò in piedi tornando bruscamente alla rabbia.

«Che cosa credete di fare?! Non potete farlo!»

«È una prova che un civile ci ha portato, pertanto possiamo.»

«Come vi permettete… io protesto formalmente! Detective Eusford, questo è un abuso nei miei confronti, tu… tu mi hai chiamato!» esclamò veemente, puntandogli il dito contro. «Tu mi hai chiesto, no, mi hai supplicato di venire ad aiutarti! Io perdo ore di lavoro e faccio infuriare Krul per venire qui a togliervi dai guai, e lo faccio solo perché tu me l'hai chiesto come se ne andasse della tua vita, e tu... tu mi stai trattando come se fossi un degenerato, un malato mentale che va in giro a squartare bambini!»

De Stasio voltò una pagina del diario e Ferid gli scoccò un'occhiata che gli prometteva una vendetta sanguinosa, ma non smise di prendersela con Crowley che cominciava a sentirsi in colpa per aver calcato la mano in quella recita. Non gli era mai successo di sentirsi in colpa per aver torchiato un sospettato… ma forse era proprio perché dentro di lui non lo considerava tale.

«Se questo è un interrogatorio formale voglio il mio avvocato presente, se non lo è invece potete andarvene tutti e due aff-»

«Ferid, datti una calmata…»

«Pensavo di potermi fidare di te, invece tutte le tue gentilezze servivano solo a pugnalarmi alle spalle! Sei bravo, lo sai? Non era facile ingannarmi, con tutta l'esperienza che ho nel ricevere coltellate alla schiena! Mi congratulo, detective, ben fatto!»

Se non si era mai sentito in colpa nell'assolvere anche le peggiori parti del proprio lavoro, di certo non si era mai sentito così devastato come quando si accorse che gli occhi artificialmente rossi di Ferid si erano fatti lucidi. Lo vide strofinarsene uno fugacemente con la mano che poi allungò verso De Stasio.

«Rivoglio il mio diario. Non è la prova evidente di un reato, non mi avete arrestato e io non acconsento a mostrarvelo, quindi tornate a prendervelo quando avrete il mandato di un giudice per portarmelo via. Se mai lo avrete, beninteso… lo rivoglio ora, detective De Stasio!»

«Ferid…»

Crowley sfiorò appena la sua spalla prima che lui gli schiaffeggiasse la mano con violenza.

«Non toccarmi o ti seppellisco di denunce, non sei l'unico che ha delle amicizie importanti.»

«Ferid, ti prego, non fare così, non è…»

Ferid riprese il suo diario e gli lanciò un'occhiata così arrabbiata – e al contempo così ferita – che Crowley non riuscì nemmeno a finire la frase. Lui uscì dalla sala video senza dire un'altra parola e si chiuse la porta alle spalle.

Crowley scambiò un'occhiata con De Stasio, lo vide grattarsi la testa come faceva di solito quando era a disagio e comprese che si sentivano nello stesso modo. Esitò qualche secondo, durante i quali il suo sguardo vagò sui video della bimba, e poi infilò la porta per rincorrerlo. Notò subito che era inutile, perché le luci dell'ascensore gli dissero che Ferid stava già salendo.

Non esitò e infilò la scala per riemergere al piano terra. Vide Ferid uscire dall'ascensore e dirigersi alla porta, dove Manny gli disse qualcosa, prima che Sean Lesky ostruisse il passaggio e la visuale.

«Crowley, dov'eri? Ti stavo venendo a cercare in archivio…»

«Non adesso, Sean!»

Lo scostò senza tante cerimonie e si lanciò attraverso l'ingresso, schivando un agente di pattuglia con un ragazzino dall'aria imbronciata che teneva ben saldo per il braccio, ma quando raggiunse la porta Ferid non c'era più. Manny riemerse ancora una volta dalla scrivania – dalla quale si occupava delle mansioni burocratiche e di smistare le chiamate – senza il consueto sorriso.

«Crowley, è successo qualcosa? Quel tuo amico, Ferid, sembrava proprio sconvolto… brutte nuove sul caso?»

«Non posso spiegarti ora, scusami!»

Crowley uscì scendendo i pochi gradini e scandagliò la folla sui marciapiedi, ma riuscì a individuarlo soltanto quando notò un braccio coperto da una camicia dall'insolito smerlo sul polsino alzarsi nel tentativo di fermare un taxi. Fendette la folla al meglio delle sue possibilità e lo raggiunse. Il taxi che aveva cercato di fermare non aveva risposto alla chiamata e lo vide scrutare la strada per trovarne un altro.

«Ferid!»

Ferid si accorse di lui e gli lanciò un'occhiataccia se possibile persino peggiore di quelle della terribile donnina che aveva per capo.

«Ferid, per favore, possiamo parlare un minuto? Un minuto soltanto.»

«No.»

«Mi dispiace, dico sul serio… ma… è il mio lavoro, lo capisci?»

«Il tuo lavoro è abusare delle persone, mentirgli, ferirle e ridicolizzarle? Esemplare, detective, ne sarai orgoglioso.»

«Non intendevo… oh, ti prego, sei un uomo intelligente, più intelligente di me; sai che non pensavo quello che ho detto.»

Ancora una volta un taxi ignorò la chiamata di Ferid e lui abbassò lentamente il braccio, ma non si voltò a guardarlo. Crowley considerò comunque positivo che non stesse più cercando di allontanarsi con tanta urgenza.

«So che non hai fatto niente di male… non capisco ancora perché tu abbia un hobby tanto bizzarro, ma so che non hai cattive intenzioni. Io… ho notato come hai guardato la fotografia di Neva. Ci tenevi a lei, vero?»

«Neva sarebbe diventata una splendida, intelligente donna.» rispose Ferid, sempre evitando il suo sguardo. «Diceva che sarebbe diventata una campionessa insieme a Muka, sarebbe andata al college a studiare letteratura, avrebbe costruito un ranch dove stare con tanti cavalli e avrebbe scritto delle storie d'amore bellissime ambientate in ranch come il suo. Hai mai sentito una bambina di otto anni parlare così? Neva era una perla rara. Il mondo intero ha subito una terribile perdita.»

«E riguardo a te, Ferid? Tu cos'hai sentito?»

I suoi occhi rossi gli lanciarono un’occhiata velenosa.

«All'improvviso sono una persona, detective? All'improvviso, quando me ne sono andato con tutte le mie informazioni, ti sei accorto che ti importa di cosa sento?»

«Non essere meschino, ti prego… te l'ho detto, è il mio lavoro... io so che non sei un pedofilo. Non scherziamo, non sai più in che modo saltarmi addosso, e io non posso essere scambiato per un bambino nemmeno se sei fatto di crack!»

Ferid non rispose e Crowley sospirò profondamente.

«Mi dispiace davvero. Non avrei mai voluto ferirti. Non credevo avresti reagito in quel modo per un diario, io e De Stasio volevamo solo scoprire se avresti cercato di nasconderlo, per sapere se ci fosse qualcosa di compromettente sui bambini…»

C’erano buone possibilità di farsi spedire al diavolo, ma decise di tentare lo stesso.

«Se solo mi facessi leggere qualcosa, se potessi garantire che non c'è nulla di sospetto, potrei toglierti per sempre dalla lista dei sospetti e spostare finalmente le poche risorse che ho su piste molto più sensate… puoi fidarti di me e lasciarmelo fare?»

«C'è… tutta la mia persona in questi diari.» rispose lui, e gli lanciò un'occhiata che era una supplica a tutti gli effetti. «Da queste pagine… esco spogliato di qualsiasi cosa. Preferisco restare un indiziato che mostrarlo a qualcuno.»

«C'è la possibilità che, menzionando i diari come fonte della pista che stiamo seguendo, il capitano voglia vederli… che un giudice ci autorizzi a prenderli tutti ed esaminarli. A quel punto non posso più garantirti che resteranno solo per i miei occhi, o che non arrivino in un tribunale un giorno o l'altro.»

Ferid si morse il labbro e fissò a lungo la copertina del quaderno, dibattendosi in chissà quali tempeste interiori.

«Di che hai paura? Che cosa hai scritto? Se ci sono i dettagli di quello che fai con i tuoi amanti non devi preoccuparti, sono sicuro di aver fatto di peggio. Sono un irlandese di ampie vedute, sai.»

«Non è questo…»

«E mi masturbo anche, quindi non ti preoccupare nemmeno di quello.»

«Detective, per essere irlandese hai proprio una gran linguaccia.»

«Sì, sono pessimo, mia madre sarebbe d'accordo.»

Esibì un sorriso e allungò la mano sfiorandogli la schiena. Oltre all'innaturale sussulto che ebbe Crowley si accorse, toccandolo, che tremava come un gattino bagnato.

Perché trema così? Non sarà certo il freddo, ci sono ventisei gradi, oggi.

«Siamo stati proprio cattivi con te, dopo tutta la fatica che hai fatto per aiutarci… tutte le ore che hai passato a leggere i tuoi diari per trovare informazioni, tutti suggerimenti che ci hai dato, e il lavoro che hai perso per farlo… ti siamo davvero grati, sai?»

«Bel modo di merda di dimostrarlo!»

Ferid arrossì praticamente all'istante e si coprì la bocca con la mano. Crowley non vedeva qualcuno vergognarsi tanto di pronunciare una parolaccia dai tempi in cui frequentava la sezione elementare della scuola cattolica di San Cristoforo. Provò un raro ma intenso senso di tenerezza in quel momento.

«Non ti vergognare, io dico anche un sacco di parolacce!»

«… Oltre ai capelli hai qualche altra cosa irlandese o sei tutto una finta?»

«Lo so, lo so, meritiamo tutte le frecciatine che vuoi spararci, siamo stati proprio delle bestie a torchiarti in quel modo dopo tutto l'impegno che ci stai mettendo ad aiutare, ma non c'è bisogno di tremare così! Ci faremo perdonare, lo prometto.»

«Non sto tremando.»

«Tremi come un gattino fradicio, altroché! Vuoi un abbraccio?» buttò lì il poliziotto, aprendo le braccia.

«Tch… non prendermi in giro, detective.»

«Posso abbracciarti se ti va, davvero. È consolatorio ed è calmante.»

«Ah, lo vorrei proprio vedere, un poliziotto… un uomo come te, abbracciare uno come su un marciapiede, in mezzo alla gente che-»

Crowley passò il braccio dietro la schiena di Ferid e lo strinse; non con forza ma lui emise comunque una specie di squittio. Ponderò che fosse per la sorpresa, dato quanto era rigido, e quando riuscì a distinguerne il battito del cuore lo sentì accelerato.

«Quando propongo di fare una cosa è perché non ho nessun problema a farla, se serve o se è gradita. Ricordatelo per il futuro.»

Ferid non parlò ma le sue spalle si rilassarono progressivamente mentre il tempo passava. Crowley vide diverse persone guardarli, alcuni ridacchiare, altri commentare sottovoce al compagno di passeggiata, ma se non gli importava il parere dei suoi genitori in merito alla sua condotta meno ancora gli poteva risultare rilevante cosa pensassero emeriti sconosciuti. Allentò la presa solo quando sentì Ferid cercare di indietreggiare e lo lasciò senza trattenerlo.

Ora non trema più.

«Allora, va meglio?»

«Non ti farò comunque leggere il mio diario.»

«Beh, è una tua scelta, ma sei consapevole che potrebbero anche decidere di volerli consultare anche il capitano o il giudice, no? Se ti è chiaro questo punto e ti sta bene il rischio, non te lo chiederò più. Sai che non dubito veramente di te… sei la spada di Dio, dopotutto.»

Sorrise alla sua espressione confusa, ma non insistette oltre sui diari: non aveva davvero bisogno di leggerli, il suo istinto diceva che Ferid era più plausibile come vittima che come carnefice e le parole che aveva pronunciato riguardo alle pugnalate nella schiena lo confermavano.

«Che ne dici se ti accompagno a casa in macchina? Non è tanto giusto, ogni volta vieni qui, esci tutto sconvolto e ti facciamo anche fare la metro fino a casa…»

«Non sono sconvolto, non lo ero neanche le…»

«Aspetta qui, prendo la macchina e andiamo.»

«Detective, c'è una bambina da identificare, ti sembra il momento di perderti in sciocchezze?»

«De Stasio passerà le immagini ai tecnici, ricaveremo la foto per il riconoscimento in qualche ora al massimo… anche tu sei importante, Ferid. Hai mai pensato che se qualcuno ti segue e uccide i bambini con cui parli è perché ce l'ha con te? Faremo due chiacchiere su questo mentre andiamo, ti va?»

«Veramente no, non mi va.»

«D'accordo, allora ne parliamo domani, e andiamo a casa senza dire una parola. Aspetta qui.»

Lasciò Ferid sul marciapiede e tornò velocemente dentro, prese le chiavi di un'auto del dipartimento scarabocchiando una firma sghemba sul registro di Manny e tornò fuori. Fu sollevato di vedere che lo aveva aspettato e non si era rimesso a caccia di un taxi, perché significava che almeno la rabbia si era dissipata, anche se qualche tizzone avrebbe continuato ad ardere più a lungo.

Si scusò per l'attesa, gli indicò l'auto e gli aprì lo sportello dal lato del passeggero. Dopo una leggera esitazione Ferid salì e Crowley si mise al posto di guida.

Ancora una volta si diresse nel West End. Quando il suo cellulare squillò borbottò un'imprecazione in gaelico, cercò l'auricolare bluetooth ma non lo trovò. Doveva averlo lasciato nella sua macchina.

«Ferid… per cortesia, rispondi e metti in vivavoce.»

Ferid non si era mai portato dietro nessun telefono, a giudicare dall'assenza di tasche e di rigonfiamenti rettangolari sulla sua persona, ma non ebbe alcun problema a fare quello che gli era stato chiesto. La voce leggermente distorta di De Stasio riempì l'abitacolo.

«Dove sei scappato, Crowley?»

«Sto portando Ferid a casa, poi vado alla libreria a chiedere informazioni… mi fai avere la foto della bambina?»

«Ho appena chiamato Marino, il tecnico video, per migliorare l'immagine.»

«Oh, Max?»

«Ciao, Crowley!» esclamò una voce, confermando che anche De Stasio era in vivavoce.

«Ehi, Max, siamo nelle tue mani!»

«Non è la prima volta! Fidati di me, è buona qualità rispetto a certi sistemi di sorveglianza privati. Te la preparo in un'ora, promesso.»

«Benissimo… appena risolviamo questo casino ti porto a cena, lo prometto.»

«Maxi pizza quattro gusti e paghi tu?»

«Aggiudicato.»

«Mi metto al lavoro subito!»

Crowley sorrise mentre si sentiva l'inconfondibile stridio della sedia con le ruote rotte del laboratorio tecnico. De Stasio tornò a unirsi alla conversazione.

«Ferid come sta?»

Crowley lanciò un'occhiata a Ferid, ma lui guardava dal finestrino come del tutto disinteressato alla conversazione.

«Sta meglio, ma è ancora arrabbiato con noi, siamo stati troppo cattivi.»

«Io sono quello che fa il poliziotto cattivo, tu devi fare quello buono.»

«Non è proprio così che funziona, veramente, ma anche tu devi fare la tua parte e scusarti.»

«Stavamo facendo il nostro lavoro, non è una cosa personale. Ferid mi è simpatico, per quanto strano sia.»

«Beh, ne riparliamo quando torno in centrale.»

Voleva evitare che De Stasio, ignorando di essere udito, potesse fare qualche commento che avrebbe ulteriormente indispettito il loro consulente.

«Alla biblioteca.» lo corresse De Stasio. «Vengo lì appena abbiamo la foto della bambina. Intanto stampo qualche fermo-immagine, voglio verificare se ci sono punti ciechi dai quali il pervertito possa aver osservato Ferid e i bambini senza essere filmato.»

«Ottima idea. Ci troviamo lì.»

La comunicazione fu interrotta e Ferid ripose il telefono nel portaoggetti senza smettere di guardare fuori. Crowley sapeva che quella mattina era stata sconvolgente per lui, sentiva che era ancora turbato, che stava pensando a qualcosa di doloroso… avrebbe voluto fargli qualche domanda, ma temeva che l'avrebbe preso come un altro tentativo di interrogatorio, arrabbiandosi e chiudendosi ancora di più.

«Ah… a proposito, dove ti porto? Oggi è martedì, è il tuo giorno libero, quindi non sei di turno al negozio.»

«No, infatti.»

«Di solito vai alla biblioteca di pomeriggio… vuoi venirci insieme a noi?»

«No. Credo che oggi non andrò.» rispose lui in tono neutro. «Puoi portarmi a casa.»

«Va bene… dove abiti?»

«Ashland Street, 112.»

«Oh… abiti nella strada del negozio?»

«Sì, per questo non ho mai ricomprato l'auto.»

Ricomprato... l'hai venduta, dunque... per rifare il guardaroba o per altri motivi?

Era curioso, mortalmente curioso di svelare tutti i segreti di quell'uomo. Ogni volta che aveva a che fare con lui Crowley si sentiva come se entrasse in un'enorme magione silenziosa e disabitata, con finestre oscurate dalla polvere, piena di mobili coperti da lenzuoli e porte chiuse senza chiavi nelle toppe, e appena riusciva a scoprire un mobile trovava al suo interno cassetti chiusi, se spalancava una porta trovava altri mobili nascosti. Lo frustrava? Più che abbastanza. Lo intrigava? Enormemente.

Nonostante avesse tante domande decise di tenerle per un momento in cui sarebbe stato meno refrattario alla conversazione e per tutto il tragitto fino ad Ashland Street rimasero in silenzio; poi Crowley rallentò per leggere i numeri civici.

«Dov'è… vediamo…»

«Più avanti.»

«Ah, sì, siamo al settantadue.»

Proseguì lentamente fino a individuare il numero centoundici, una graziosa villetta con un piccolo giardino. Subito dopo gli si presentò davanti un piccolo spiazzo in cui era parcheggiato un furgoncino di fronte a una ferramenta, e l'ometto sulla cinquantina che stava scaricando degli scatoloni lo scrutò con sospetto.

«È questo il centododici?»

«Sì, abito qui. Grazie del passaggio.»

Ferid aprì la portiera e scese dall'auto, ma esitò a richiuderla.

«Ferid, mi puoi fare un ultimo favore?»

«Quale?»

«Cerca di non uscire di notte da solo… almeno per qualche tempo. In qualche modo il Vampiro è collegato a te, ti segue… ti controlla. Non esporti più di quanto sia prudente. Se sta continuando a farlo sa che collabori con la polizia. Potrebbe farti del male.»

Ferid lo guardò con aria vagamente stordita, come capisse a malapena cosa gli stava dicendo e probabilmente era così, assorto com'era nelle preoccupazioni che lo stavano rabbuiando da tutto il tragitto. Annuì rigidamente, fece per chiudere la portiera ma poi la riaprì.

«Cosa succede? Qualcosa non va? Vuoi che ti accompagni in casa?»

Crowley allungò la mano per slacciarsi la cintura di sicurezza e scendere, ma si bloccò quando vide Ferid lasciare il suo diario sul sedile del passeggero. Lui si morse le labbra, nervoso.

«Non giudicarmi troppo male, detective.»

Richiuse la portiera e si allontanò sul marciapiede. Crowley guardò interdetto il quaderno e poi passò lo sguardo su Ferid, che stava attraversando lo spiazzo davanti alla ferramenta. L'ometto quando lo vide si toccò la visiera del berretto con un accenno di inchino.

«Oh, siete voi, signore… è arrivato un pacco per voi poco fa, mi sono permesso di lasciarvelo davanti alla porta.»

«Grazie per la premura, Cyrus.»

«Ma vi pare, sono sempre a disposizione per voi… buona giornata, signor Trobiano.»

«Anche a te.»

Ferid raggiunse una scalinata che restava seminascosta alla vista da un imponente oleandro e salì al piano superiore, dove alcuni vasi di piante adornavano il balconcino frontale. Quello doveva essere l'appartamento dove viveva, ma Crowley aveva altro a cui pensare che alle zinnie rosa e gialle.

Che cos'ha detto quello? Signor Trobiano?

Come accadeva talvolta durante un caso tutti i pezzi sembrarono combaciare davanti ai suoi occhi come un puzzle risolto magicamente: il certificato di nascita irreperibile, la tassa di successione per l'eredità di Claude Trobiano III, gli abiti "ereditati", la missione che era importante per l'uomo di nome Claude che sembrava stare a cuore anche a Ferid e lo sconosciuto Cyrus che lo chiamava signor Trobiano.

Era suo padre… Claude Trobiano doveva essere l'uomo che l'ha adottato. Spiegherebbe l'eredità, il nome e anche il certificato introvabile… devono averlo da qualche parte negli archivi del tribunale dei minori, tra le cartelle delle adozioni che sono secretate.

Non poteva certo andare a spulciare quella documentazione se non autorizzato da poteri molto alti, perciò non poteva essere certo, ma essere arrivato alla soluzione di una piccola parte del mistero di Ferid Bathory – o Trobiano che fosse – gli permise di mettere momentaneamente l'anima in pace al riguardo e di tornare a concentrarsi sul Vampiro di West End.

Rimise in moto e svoltò al primo incrocio per raggiungere la Wilde Library, consapevole che avrebbe avuto tempo solo quella sera per mettere mano al diario che Ferid gli aveva lasciato: la priorità era trovare la bambina timida e metterla al sicuro.

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Capitolo 9
*** La numero otto ***


 

La sera seguente fu il primo momento di tregua per Crowley, se così poteva dirsi dato che ancora non si avevano notizie sull'identità della bambina.

Quasi alle nove di sera Crowley uscì dalla doccia, prese la teglietta di pasticcio di carne che la signora Bernadette gli aveva consegnato all'ingresso e si piazzò sul divano con le migliori intenzioni di spulciare decine di documentari registrati e scegliere i più interessanti. Aveva già il telecomando in una mano e il cucchiaio nell'altra quando il suo sguardo si posò sulla poltrona e sul diario di Ferid.

La sera prima non aveva avuto la forza di leggerlo; troppe ore di video, di prove e di cartelle scombinate unite agli aggiornamenti di Horn sul profilo psicologico gli avevano fatto venire un mal di testa così feroce da non riuscire nemmeno a guidare fino a casa, perciò De Stasio l'aveva accompagnato e dopo un paio di pillole si era buttato a letto con la testa sotto il cuscino.

Appoggiò il telecomando piano piano e allungò la mano lentamente verso il quaderno, quasi pensasse fosse un essere vivente che sarebbe scappato se l'avesse spaventato con un movimento brusco. Quando l'aprì non rimase molto sorpreso della bella calligrafia, dato che ne aveva avuto già un assaggio quando aveva tentato di leggerne uno in centrale, ma nonostante fosse un corsivo piuttosto fronzoluto era ben distinto e si leggeva scorrevolmente. Abbandonò le poche righe iniziali su una giornata di forte pioggia e scorse le date fino al quattordici febbraio, prese un boccone di ottimo pasticcio e si mise a leggere.

Ferid scriveva per prima cosa che ricorreva la decima rosa che non gli veniva regalata. Per Crowley questo, come il dubbio se la rosa sarebbe stata ancora rossa o sarebbe diventata bianca, non aveva il minimo significato. Riportava poi il fatto che il negozio era stato chiuso per la sospensione dell'energia elettrica e che Pandora aveva tali e tanti nodi del pelo che lo aveva graffiato più volte mentre cercava di spazzolarla.

Finora sembra più o meno il diario di una ragazzina. Anzi... probabilmente nel diario di una ragazzina troverei almeno qualcosa di relativamente imbarazzante.

Proseguiva poi raccontando della biblioteca. Crowley non trovò nulla di sospetto in quelle righe, Ferid non aveva annotato nulla di inappropriato sulle loro caratteristiche fisiche, limitandosi a indicarne l'approssimativa età, l'etnia come nel caso di un cui notò un bambino ispanico molto assorto nella lettura, e annotava i titoli. Faceva una riflessione su ognuno, sul loro grado di interesse e di cultura, e non faceva altro che riporre le sue rosee speranze nell'età adulta di coloro che dimostravano interesse per la lettura più che per i colori e le immagini, ma senza trascurare o disprezzare questi ultimi.

Crowley arrivò quindi alla fine delle annotazioni del giorno e prese un altro boccone di pasticcio, pensieroso. Era evidente che tenesse in grande considerazione la cultura e che gli facesse piacere vedere tutti quei piccoli lettori, anche se non capiva perché ne sembrasse così profondamente felice. Non c'era assolutamente nulla, comunque, che avrebbe potuto risultare imbarazzante e tanto meno incriminante.

Decise di leggere altre sortite alla biblioteca, per sicurezza, e dall'ottobre precedente quando il diario aveva inizio lesse tutte le annotazioni di martedì. Non vi trovò altro di spinoso: talvolta spazzolava il gatto, a volte leggeva, innaffiava i fiori, puliva casa o sistemava la spesa che si faceva portare, prima di andare alla biblioteca dove faceva sempre la stessa cosa. Descriveva i bambini con qualche dettaglio, annotava le loro letture, dava le sue opinioni in merito. Niente altro, nessuna bizzarra fantasia, nessun tentativo o pensiero sull'ipotesi di portare i bambini a casa, di approcciarli più di quanto fosse sufficiente a chiedere loro cosa leggevano o se gli piacesse farlo.

«Da questo diario emerge solo un candore incredibile… perché mai aveva così paura di farmelo leggere?»

Crowley sfogliò il diario lentamente, chiedendosi se la parte peggiore non fosse negli altri giorni, ma gli sembrava veramente un abuso leggere più di quanto fosse sufficiente per dissipare i possibili sospetti. Ma dopotutto Ferid glielo aveva lasciato, gli aveva dato il permesso di leggerlo anche per intero… con bizzarre parole: non giudicarmi troppo male.

Tornò alla prima pagina, datata sabato sette ottobre, e iniziò a leggere senza saltare più nemmeno una riga.

Nelle ore che seguirono il pasticcio restò a freddarsi, perché era troppo immerso nel mondo – no, nella persona – di Ferid Bathory per pensare di nutrirsi con qualche altra cosa: attraverso il suo diario l’umile libraio ne usciva davvero spogliato delle sue maschere e dei suoi travestimenti e ne emergeva l’indicibile solitudine su tutto.

In diversi mesi non aveva citato una volta un’uscita con amici o amiche, con il suo capo, con un amante né tanto meno qualche accenno a dei parenti, come se Ferid fosse realmente il vampiro secolare che millantava di essere e fosse costretto a isolarsi dagli esseri umani, mortali, che lo avrebbero comunque abbandonato alla fine delle loro vite effimere.

Crowley sospettò che le sue abitudini scandite servissero a riempire i vuoti della sua vita: i lunghi turni di lavoro, le sortite alla biblioteca, il parrucchiere sempre alla stessa ora del martedì, la serata di lettura del giovedì che spesso proseguiva anche in altre sere, il bagno con il bicchiere di vino ogni venerdì e lunedì…

Fu mentre meditava su questo che scorse qualcosa di strano. La calligrafia si era fatta più disordinata, come scritta premendo di più sulla penna e più frettolosamente, più rabbiosamente.

Se soltanto non fossi io, se non fossi stato figlio suo la mia vita non sarebbe un così colossale spreco di tempo… se solo lei non avesse maledetto anche me nella sua follia contro il mondo intero, se non mi avesse lasciato addosso il segno di appartenenza alle tenebre, così lontano da lei avrei anche potuto camminare alla luce del sole!

«Questo… di chi stai parlando?» mormorò Crowley assorto, accigliandosi. «Lei… figlio suo… tua madre?»

Ancora una volta si trovò a rimuginare sul certificato di nascita occultato e dovette contenersi per non far volare la mano al cellulare e tirare giù dal letto qualche sua conoscenza che potesse avere abbastanza qualifiche da sbirciare negli archivi del tribunale dei minori. Si domandò se Ferid avrebbe risposto alle sue domande, se gliele avesse poste di persona.

Proseguì la lettura, sebbene le giornate di Ferid fossero in apparenza tutte molto simili, tutte ugualmente solitarie e con poche varianti. Una nota interessante ma poco chiara arrivò in novembre, in cui scriveva qualche riga in memoria di un caro amico chiamato Nicholas. Crowley non poté non provare una profonda empatia, perché gli sembrava che Ferid fosse anche incredibilmente sfortunato, nel perdere puntualmente amicizie e persone care in un modo o nell'altro.

In dicembre si imbatté ancora nella grafia di quando scriveva di qualcosa che lo faceva arrabbiare, ma qui c'erano dettagli succosi e meno foschi: un avvocato chiamato Price, un inglese, l'aveva cercato per informarlo che aveva ricevuto una sostanziosa eredità, ma più che esserne felice questo sembrava aver fatto davvero infuriare Ferid che non sopportava l'idea di non poterla formalmente rifiutare.

Purtroppo per Crowley non spiegava come mai non potesse farlo, lasciandolo vagamente confuso. Era una data molto più recente di quella del verbale della successione del signor Trobiano, quindi aveva ricevuto una seconda eredità? Da chi? Dai suoi genitori naturali, forse, e per questo desiderava a tal punto rinunciarvi? Che cosa ne aveva poi fatto?

Proseguì la lettura del diario fino alla fine, poco dopo l'inizio di marzo, ma non c'era più alcun riferimento all'avvocato, all'eredità o a che cosa avesse risolto di farne. Chiuse il quaderno con un profondo senso di insoddisfazione, come se avesse scoperto che un appassionante romanzo non aveva le pagine finali con la soluzione della vicenda, e sospirò.

«Non capisco.» disse allora. «Non capisco, che cosa dovevo leggere qui dentro che mi doveva far pensare male di te? Sei un uomo bizzarro, ma lo sapevo già… e in verità, questo diario… questo diario lo mostra molto più normale di quanto non voglia apparire con quelle assurde lenti a contatto e quei vestiti da teatro.»

Crowley gettò il quaderno sulla poltrona e si alzò, lanciando un'occhiata all'orologio: erano quasi le due di notte. Come se il suo corpo si fosse accorto solo in quel momento della stanchezza sbadigliò vistosamente, si stiracchiò e si trascinò a letto abbandonando il pasticcio lì dove si trovava. Non si infilò nemmeno sotto le coperte e chiuse gli occhi, ma non fece altro che continuare a ripercorrere con la memoria le pagine del diario finché quelle non si fusero con un sogno nel quale un avvocato arcigno dall'accento inglese quasi comico gli chiedeva di firmare per decidere se lasciare in eredità a Ferid una rosa rossa, bianca o viola.

Al suono della sveglia, dopo apparentemente un secondo, Crowley non ricordava più che sogno stesse facendo.

 

 

Quando arrivò alla sua scrivania vi trovò De Stasio seduto sopra, con l'orecchio incollato al suo telefono. Dovette bussargli sulla spalla e fargli un gesto eloquente per fargli sapere che era arrivato il momento di togliere il fondoschiena dai suoi rapporti stampati.

«Sì, certo, quindi la conosce? Capisco!» stava dicendo De Stasio quando scese dalla scrivania. «Alla sua scuola, dice? Mi può ripetere il suo nome?»

Freneticamente strappò di mano a Crowley la penna che aveva appena preso per firmare le copie dei suddetti rapporti e questi ingoiò due o tre imprecazioni irlandesi di antico lignaggio. Guardò invece cosa stava scribacchiando: Jessica Cezanne, un indirizzo di West End, e poi Samara Mitchell, nome che cerchiò.

«Perfetto, ma per favore, si rechi all'ufficio di polizia più vicino per depositare formalmente questa dichiarazione. Appena possibile la ricontatteremo anche noi del distretto di Satbury, la ringrazio infinitamente!»

Mise giù la cornetta e Crowley si riprese la penna con una certa stizza non celata.

«Cosa fai alla mia scrivania, De Stasio?»

«Non è il momento delle lotte territoriali, Crowley, abbiamo trovato la bambina!»

«Eh?»

«Ero al telefono con... aspetta. Gillespie!»

«Comandi, signore!» rispose quello, due scrivanie più in là, con la solita voce gioviale.

«Trovami tutte le famiglie Mitchell a West End, e poi quella che ha una figlia di nome Samara!»

«Signorsì!»

Gillespie si fiondò subito sulla sedia e prese a digitare al computer. De Stasio picchiettò il nome che aveva segnato.

«Ero al telefono con una certa Jessica Cezanne, che è tesserata alla Wilde... ha visto la locandina che abbiamo lasciato lì e ha riconosciuto la bambina, dice che è una sua allieva alla scuola di danza. Lei insegna danza classica.»

«Ne è sicura?»

«Certo che ne è sicura, infatti è preoccupatissima per lei… e anch'io. Sai che giorno è oggi, no?»

Crowley annuì rigidamente: era ben chiaro nella sua mente che ormai, per loro come per i genitori di New Oakheart, il giovedì era un giorno da temere. Gillespie si avvicinò alla scrivania mentre Crowley si infilava in bocca il boccone più grosso possibile di un panino con uova e pancetta che rischiava di essere abbandonato a raffreddarsi, come era successo al suo pasticcio di carne.

«De Stasio, dagli elenchi ho trovato undici famiglie di nome Mitchell residenti a West End, la prima che ho controllato ha una figlia di nome Samara. Vuoi che li chiami per conferme?»

«Passami la telefonata, ci parlo io.»

«Subito!»

«Samara non è un nome molto diffuso.» osservò Crowley, scarabocchiando la sua firma il più velocemente possibile sui rapporti. «Possibile che siamo così fortunati?»

«Parla quello che dopo due proiettili al petto e due arresti cardiaci sta qui a mangiare schifezze.»

Crowley guardò il suo panino come se si fosse reso conto solo in quel momento di stare mangiando. Lanciò uno sguardo penetrante a De Stasio mentre deglutiva.

«Ma tu non mangi mai un cheeseburger, o uova e pancetta?»

«Non mischiarmi con gli anglo-americani, per favore.» fece lui secco, e sollevò il ricevitore.

«La tua è una forma di razzismo.»

De Stasio gli fece segno di tacere e Crowley si rimise a firmare e a ingollare il panino il più rapidamente che potesse senza rischiare il soffocamento. Il collega ebbe risposta alla chiamata e inserì il vivavoce.

«Casa Mitchell, chi parla?» rispose una voce di uomo.

«Detective Dante De Stasio, squadra omicidi di Satbury. La prego di non allarmarsi per la chiamata.»

«Squadra omicidi…? Che cos'è successo?»

«Nulla, stiamo conducendo delle indagini… può intanto dirmi il suo nome, prego?»

«Nathan, Nathan Mitchell.»

Benché l’avesse pregato di restare calmo, il signor Mitchell si era innervosito immediatamente.

«Mi può confermare che lei ha una figlia di nome Samara? Le ripeto che non deve allarmarsi per le mie domande.» ribadì De Stasio. «Non ho cadaveri da identificare, quindi non si spaventi.»

«Io… sì, ho due figlie, e la più grande si chiama Samara… ma che cosa succede, perché queste domande?»

«Sua figlia ha i capelli biondi? Quanti anni ha?»

«Sì, ha… undici anni… ma che cosa succede, detective De Stasio; ha detto di chiamarsi così?»

«Sì, Dante De Stasio. Per favore, le spiegheremo nei dettagli non appena saremo a casa vostra. È mio consiglio che la porti immediatamente a casa da scuola.»

«Ma… mia figlia non è a scuola, detective… è andata dalla nonna, mia suocera, sa. È depressa per la recente perdita di un'amica e abbiamo pensato di mandare Samara a casa sua fino a lunedì, è la sua prima nipote… hanno un legame speciale, capisce.»

«Dove abita sua suocera?»

«Ha una casetta nella zona nord di West End, è un'area rurale, come probabilmente sa…»

«Sì, ho presente… per favore, mi dia l'indirizzo preciso e avvisi sua suocera per telefono che stiamo andando lì. È probabile che sua figlia possa dirci qualcosa di un caso e potrebbe, ripeto, potrebbe essere in pericolo.»

«Oh, cielo…»

«L'indirizzo, per favore, prima che lei chiami sua suocera.»

Il signor Mitchell diede l'indirizzo a De Stasio e si affrettò a riagganciare per poter telefonare.

«Bel colpo davvero… sei bravo a parlare con la gente, De Stasio.»

«È ovvio che un genitore si spaventi se un detective della squadra omicidi telefona facendo domande criptiche sulla figlia.» ribatté lui, strappando il foglietto con nomi e indirizzo. «Su, ingurgita quell'ultimo boccone di colesterolo e trigliceridi.»

Che palle.

Crowley obbedì, seppur vagamente seccato, e seguì De Stasio fuori dalla stazione di polizia. Dato che conosceva la zona nord di West End meglio di lui lasciò che prendesse il volante e non persero ulteriore tempo, immettendosi in strada e cercando il percorso con meno traffico.

«Questa bambina è più grande degli altri.» osservò Crowley dopo qualche minuto di silenzio.

«Ha undici anni, sì. È un po' più grande.»

«Pensi che si stia verificando una di quelle evoluzioni di cui parlava Horn ieri?»

«È presto per dirlo, anche perché non sappiamo davvero se l'età sia un fattore importante. Potrebbe puntare qualsiasi persona virtualmente indifesa con la quale Ferid parla… onestamente nemmeno io ci capisco più niente, ma prima mettiamo al sicuro la bambina. Poi facciamo un comunicato alle famiglie, che tutti i bambini che sono stati alla Wilde Library vengano ben seguiti sempre, e nel frattempo noi prenderemo quello squilibrato. Di certo avrà qualcosa a che fare con Ferid, non credi?»

«Di certo… e dopo questo farò una bella chiacchierata col capitano.»

«A che riguardo?»

«Deve assegnare una scorta a Ferid. Quel pazzo lo segue da mesi o entra in casa sua a leggere i suoi diari. Nessuna delle due opzioni mi fa stare tranquillo.»

«Hai ragione… quanti bambini ha in lista prima di prendersela direttamente con lui?»

Crowley guardò De Stasio intensamente, perché qualcosa nel suo tono gli era sembrato insolitamente cauto.

«De Stasio…»

«Che cosa, Crowley?»

«Sei… tu mi credi, vero? Voglio dire, gli credi? Che non è l'assassino che cerchiamo…»

De Stasio rilassò le spalle e assunse un’espressione da poker, tipica dei suoi ragionamenti a mente fredda.

«Quello che so è che ci sono serial killer in grado di uccidere orrendamente senza che nessuno di quelli intorno a loro se ne accorgano… e anche assassini che non sanno di aver fatto quello che hanno fatto…»

«Vuoi dire che hai ancora dei dubbi su di lui?»

«Crowley, se non ti avessero sparato e fossi stato su un tavolo operatorio mentre Gaia Windsor moriva sospetterei anche di te, capisci che cosa voglio dire? È questo il nostro lavoro: soppesare ogni possibilità e trovare prove certe.»

«Ho letto il suo diario.»

De Stasio lo guardò per un attimo, quanto gli consentisse il traffico sulla strada, e tacque per diversi secondi prima di parlare.

«Non avresti dovuto farlo.»

«Mi ha dato il suo permesso, non gliel'ho imposto. Non c'era nulla di compromettente, non ha strane fantasie, non sente voci o altre pazzie del genere… Ferid… è un uomo molto solo. Questo è tutto.»

«Per questo non avresti dovuto farlo, non capisci? Fin dal primo giorno tu non cerchi il Vampiro di West End… cerchi qualcuno che si prenda la colpa al posto dell'uomo che ti ha salvato la vita. Lo vediamo tutti, Crowley… tu lo ammiri per le qualità che vedi in lui, e lo vuoi proteggere per le debolezze altrettanto profonde che ha. Sei il suo guardiano, adesso.»

«Non è così, è ovvio che io voglio prendere l'assassino, non uno qualsiasi che posso incolpare!»

«E se invece i nostri istinti si sbagliassero… se lui fosse tanto bravo da imbrogliare anche noi e scoprissimo che sta facendo tutto da solo? Addirittura che i suoi diari sono falsi, che sta giocando con noi come i serial killer da manuale che vogliono farsi prendere per riscuotere la macabra gloria che si sono guadagnati? Se fosse così… tu lo prenderesti comunque?»

Non è possibile che fosse una recita… tremava davvero. Era sconvolto davvero. Non stava giocando.

Crowley strinse il pugno davanti alla bocca, come non si rendeva conto di fare spesso quando era molto combattuto, e serrò gli occhi. Se Ferid si fosse rivelato essere il Vampiro, oltre ogni ragionevole dubbio… se il procuratore gli avesse imposto di arrestarlo, sicuro di ottenere la condanna esemplare, l'avrebbe fatto? Bastò rivedere i flash di quella notte, Chess che cadeva sulla strada sotto la pioggia, il capitano chino su di lui a pregare, le scrivanie vuote dei suoi colleghi; senza nemmeno arrivare a scomodare le piccole vittime. Riaprì gli occhi.

«Certo che lo prenderei.» rispose, senza vacillare. «E mi proporrei per premere il bottone per l'iniezione.»

De Stasio tese un accenno di sorriso.

«Ora auguriamoci di avere ancora un buon istinto. So che ti si spezzerebbe il cuore se ti sbagliassi.»

«Non trattarmi come se fossi un'adolescente con una cotta, che diamine.»

«Se ti dicessi che lo sembri proprio?»

Crowley gli scoccò l'occhiata più velenosa mai lanciata a chi non fosse un criminale con una fedina lunga almeno quanto la propria altezza, ma De Stasio non la notò e indicò invece qualcosa sul lato destro.

«Eccoci, dovrebbe essere da questa parte. Leggi la numerazione.»

«Eh?»

Crowley guardò dal finestrino, un po' confuso, e notò all'inizio della strada che scendeva verso case con ampi cortili un cartello che recava l'intervallo di numeri civici. Era una novità per lui, dato che dentro la città le numerazioni erano regolari su ogni strada: prendendo come riferimento la Queen Mary Avenue e la Madigans come equatore e meridiano di Greenwich le numerazioni seguivano uno schema preciso che rendeva intuitivo capire dove un certo numero fosse collocato su ogni strada.

«C'è scritto che sono dal 1110 al 1196… che stranezza.»

«Eh… non andare mai in Italia senza di me, ti ritroveremmo solo dopo mesi.»

De Stasio svoltò nella stradina. Non sembrava nemmeno di essere ancora nei confini di New Oakheart, a Crowley sembrava di essere finito da qualche parte in West Virginia o in qualche altra zona rurale d'America. Memore della sua prima infanzia dai nonni nelle zone più basse degli Appalachi a Crowley sembrò quasi di tornare da loro, quando scese dall'auto davanti a una casetta azzurrina con il giardino cintato di roseti, la staccionata di legno e sul retro un ampio orto.

«Chiudi la bocca, Crowley, sembra che tu non abbia mai visto una casa di campagna.»

«Ma questa non è campagna, è il West End.»

«È la campagna del West End… e siamo proprio sul confine, vedi quella macchia di bosco laggiù? Superata quella siamo già nella contea di Dern.»

«Wow, davvero? Abbiamo fatto così tanta strada?»

«Qualche tempo fa avevo una ragazza che viveva a Dern, quindi ho imparato la strada più veloce.»

De Stasio si avvicinò al campanello, ma prima che lo premesse una signora anziana con l'abito a fiori e un grembiule deliziosamente ricamato uscì dalla porta e si fece loro incontro sorridendo.

«Ah, voi siete della polizia, vero? Mio genero mi ha telefonato… ah, che bei ragazzoni siete, sicuri che non siete venuti per me? Eheh!»

De Stasio e Crowley si scambiarono un’occhiata perplessa mentre la signora apriva loro il cancellino.

Non aveva detto che era depressa?

«Signora, non dovrebbe aprire a qualcuno senza sapere chi sia.» la rimproverò con tatto Crowley. «Anche se suo genero l'ha chiamata, non poteva essere sicura che fossimo noi le persone che aspettava.»

«Oh, poco male, non vedo due bei ragazzi come voi da tempo! Sapete, non ho figli maschi e ho tutte nipoti!»

Crowley sospirò scuotendo appena la testa.

«Suo marito è in casa?»

«Ah! A quel disgraziato gli ho dato il benservito vent'anni fa! Entrate, cari, Samara è sull'altalena sul retro… c’è del pane fatto in casa e dell’ottima marmellata di fragole, abbiamo avuto una bella estate quest’anno!»

I due poliziotti seguirono la signora nella casa, che profumava di mele e cannella: era intenta a preparare delle composte in due alte pentole sul fuoco. Crowley scavalcò una cassetta piena di bucce di mele mentre la nonnina apriva la porta sul retro chiamando la nipote.

La cucina era piena di scaffali di barattoli etichettati che andavano dalla marmellata di fragole a quella di nespole, fino a conserve di peperoni, pomodori secchi e altre verdure. De Stasio prese un barattolo di frutti e verdure miste guardandolo sorpreso.

«Ma non mi dire, mostarda?»

La signora rientrò da sola e qualcosa dentro Crowley si accese: l’allarme. Qualcosa non andava, lo sentiva.

«Era lì un attimo fa, l’ho guardata un momento prima di sentire la vostra auto… Samara, tesoro, sei di sopra?»

«Resti qui, signora. Controlliamo noi.»

«Vado di sopra.»

Crowley attraversò una larga sala da pranzo con un ampio tavolo e diverse vetrinette che mostravano tazze, servizi di piatti e bicchieri e infilò la scala scricchiolante che saliva al piano superiore. Il suo istinto mandava scintille come un ferro battuto a martello.

«Samara? Sei qui?»

Non ottenne risposta e si avvicinò alle porte. Bussò piano ad ognuna prima di aprirla, ma non trovò anima viva, se non un gatto acciambellato su uno dei letti.

«Samara, sei in bagno? Rispondi, per favore, la tua insegnante di danza mi ha chiesto di vedere se stai bene…»

Bussò due volte alla porta con la scritta toilette, l’aprì piano piano, ma era vuota anche quella. Entrò per guardare dalla finestra aperta e vide il cortile sul retro, con un grande orto e l’altalena che dondolava molto anche senza vento. Vide De Stasio arrivare dall’altro lato della casa osservando tutt’intorno prima di attaccarsi al cellulare e trasmettere alla centrale una scomparsa di minore. Samara non era in casa né in cortile.

 

 

Crowley, dopo essersi infilato degli stivali adatti camminare nei campi e nella boscaglia, tornò nella cucina della signora Randall, che combatteva la paura per il destino della nipote cucinando e offrendo cibo a chiunque passasse dentro casa sua, ed erano davvero molte persone. La figlia e il genero, invece, sedevano al tavolo con la figlia più piccola, taciturni e pallidi in volto.

«Ah, Crowley, gli stivali ti sono comodi?»

«Sono perfetti, signora Randall, grazie di avermeli prestati. Vogliamo iniziare a battere le zone agricole e il bosco non appena avremo radunato abbastanza persone per coprire tutta l’area.»

«Quindi… nessuna notizia dagli altri?»

Crowley guardò il signor Mitchell e scosse la testa: gli agenti che avevano mandato a cercare la piccola dai vicini, al fiume e all'emporio vicino non avevano trovato traccia di lei né di qualcuno che l’avesse vista poco prima. La moglie emise uno strano singhiozzo privo di lacrime.

«La troveremo. Non può essersi allontanato tanto senza un veicolo, e se ci fosse stata un’auto nei paraggi l'avremmo vista.»

De Stasio entrò e sebbene avesse potuto suscitare ilarità con le sue scarpe italiane avvolte in molteplici strati di plastica e nastro adesivo, nessuno era dell’umore adatto per ridere.

«Crowley, stiamo dividendo le squadre. L’allerta televisiva che ha dato Alford ha radunato parecchia gente, possiamo battere in ogni direzione.»

«Perfetto, allora sbrighiamoci!»

«Avete bisogno di uno spuntino durante la ricerca, miei cari?»

«Tenga da parte pane, burro e marmellata, signora Randall.» le disse De Stasio, con il suo miglior tono rassicurante. «Quando torneremo con Samara ci sarà da festeggiare.»

Crowley lo seguì fuori e si accorse che effettivamente avevano radunato diverse decine di volontari, che erano tutti vicini alla squadra cinofili che stava distribuendo loro delle casacche in colori fluo che li identificava come tali. Passò vicino al gruppo per riunirsi al coordinatore della squadra con i cani da ricerca e a un sergente del dipartimento di West End, ma si bloccò di colpo.

«Avanti, Liam, sbrigati, non abbiamo tutto il giorno!»

«Ci sto provando, ma che diavolo… i tuoi capelli vivono di vita propria!»

«Non devo sposarmi, intrecciali come ti riesce, basta che ti muovi!»

«… Ferid?»

L'uomo che stava invano cercando di dividere la sua lunga chioma in ciocche si girò per guardarlo, ma Crowley non aveva idea di chi fosse. Ferid lo guardò vagamente sorpreso prima di sorridergli.

«Oh, ma guarda un po'. Che fai qui, detective?»

«Cosa fai tu qui, no?»

«Non lo vedi?» fece lui, accennando alla pettorina che indossava. «Mi sono arruolato volontario per le ricerche, e anche Liam. Ah, sì, il mio amico William Bosley, mi ha accompagnato lui fin qui. Liam, il detective Eusford, sai, quello che ha fatto scoppiare Krul.»

Scoppiare Krul in che senso?

«Ah, sì, capisco! Salve!» lo salutò Liam, e gli strinse la mano con vigore. «Speriamo di essere utili!»

«Grazie del vostro tempo… avete mai preso parte a una ricerca del genere?»

«No, mai…»

«D'accordo, vi metterò in una squadra con uno degli agenti, vi guiderà lui sulla procedura. Stiamo per cominciare.»

«Sentito, stiamo per cominciare! Sistemami questi capelli, non voglio rallentare qualcuno perché mi si impigliano in giro!»

«Ah, s-sì, vediamo…»

«Permetti?»

Crowley si fece avanti e Liam sembrò ben felice di cedere il difficile compito a un altro. Il poliziotto passò le mani nella sua coda setosa e divise tre ciocche con movimenti comprovati: aveva una lunga esperienza e farlo su qualcun altro, vedendo bene le ciocche, lo rendeva molto più semplice.

«Sarà un po' frettolosa, ma dopotutto non sei al tuo meglio con i colori fluo.»

«Hai proprio ragione, mi stanno tremendamente.»

Intrecciò velocemente i suoi lunghi capelli e il risultato era persino esteticamente apprezzabile per essere creato da mani non professioniste. La legò in fondo con un piccolo elastico. Liam indicò i suoi capelli ricci e sospirò.

«L’ho donato io, per la causa.»

«Lo incideremo su una targa da qualche parte, Liam, non temere.»

«Rid, non fare l’acido con me, guarda che ho mollato il turno anch’io per portarti qui!»

«Sei pronto ad affrontare la boscaglia, Ferid.» annunciò Crowley, che istintivamente lanciò un’occhiata alle sue scarpe. «Anche se non sono le scarpe giuste, almeno non sono gli stivali da squillo.»

«Oh, certo che ti sono rimasti impressi ben bene, eh? Ottimo~»

I coordinatori, con i giacchetti arancioni, stavano radunando le loro squadre. Crowley individuò uno di loro, un agente che conosceva, e lo indicò ai due.

«Andate con lui, ascoltate bene le istruzioni. Ci rivedremo quando avremo trovato la piccola.»

Senza aggiungere altro raggiunsero l’agente Kinoshita che prese a dare con voce alta e chiara le istruzioni sui segnali col fischietto, sulle distanze da tenere e sul modo di procedere.

Crowley trovò De Stasio poco lontano e lo raggiunse, prendendo da uno dei coordinatori un fischietto e una torcia.

«Quante squadre servono per il bosco?»

«Almeno tre.»

«Sembra più piccolo, visto da qui…»

«Sì, purtroppo invece è piuttosto vasto. Si estende per un po' anche nella contea di Dern, ma abbiamo già avuto il supporto del loro dipartimento, stanno mandando la loro unità cinofila per ispezionare l’area di loro giurisdizione.»

«Bene, allora mettiamoci al lavoro anche noi. Non sprechiamo tempo.»

Non ne abbiamo molto… e sta per piovere. Ti prego, dobbiamo trovarla… dobbiamo salvarla.

Crowley lanciò un’occhiata alle nubi che si ammassavano all’orizzonte. Una volta che si fosse alzato il vento sarebbe arrivata presto una delle tipiche tempeste di fine estate.

 

 

Camminare nel bosco, per quanto non fosse molto fitto, stava diventando difficile con il buio. Ferid avrebbe voluto avere una giacca a vento o qualcosa del genere: si stava congelando con quel vento freddo e la pioggia ormai era abbastanza insistente da diversi minuti e lo stava inzuppando. La sua torcia illuminò intorno a lui una distesa di fogliame e rametti non differente da quelle in cui si era imbattuto fino ad allora, e avanzò per continuare la ricerca, chiedendosi come poteva quella macchia di bosco essere in realtà così grande. La stava percorrendo da ore.

Un segnale con il fischietto riecheggiò da lontano e venne ripetuto da qualcuno più vicino.

Il segnale di sospensione... smettiamo di cercare?

Le sue gambe esultarono, la sua schiena scossa di brividi freddi ne gioì, ma non riusciva ad accettare di fermarsi prima di aver controllato tutta la zona. Invece di tornare sui suoi passi proseguì pian piano, scandagliando il fogliame con la torcia alla ricerca di qualcosa. Aveva percorso poco più di dieci, forse dodici metri quando qualcuno gli toccò la spalla facendolo sussultare.

«Ferid, sono io!» fece William mentre si illuminava il volto con la torcia. «Non hai sentito il segnale? Rientriamo…»

«Perché?»

«Il coordinatore dice che piove troppo e la tempesta peggiorerà. Sta diventando rischioso.»

«Rischioso, vuoi prendermi in giro? Samara potrebbe essere uccisa mentre noi stiamo al calduccio in casa!»

«O potrebbe essere già morta… la verità è che non lo sappiamo…»

«Infatti. Torna pure con gli altri, io continuo.»

Detto ciò Ferid si voltò e riprese da dove aveva lasciato. Si rendeva conto che era stupido cercarla da solo, che avrebbe potuto essere pericoloso per lui se si fosse inoltrato nel bosco, si fosse fatto male o smarrito se nessuno fosse stato a portata d'orecchio. Lo sapeva, ma non poteva tornare a casa, farsi un bagno caldo e andare a dormire pensando che era stato lui, rivolgendo la parola a Samara, a condannarla. La pioggia rendeva difficile distinguere le cose anche con la torcia, ma almeno non c'era pericolo che William si accorgesse della lacrima che gli era appena scorsa sul viso.

«Rid… sul serio, che cosa pensi di ottenere? O si cerca tutti o nessuno… e poi… Rid, se la trovi adesso tutti penseranno che sapevi dove cercarla perché ce l'hai portata tu!»

«Ma chissenefrega, Liam, che diavolo! Tornatene a letto se non vuoi proseguire, ma non seccarmi!»

Ferid proseguì ancora, barcollò a causa di una radice nascosta e cadde sul fogliame bagnato. Liam gli si avvicinò per aiutarlo ad alzarsi; il terreno era diventato fangoso e scivoloso.

«Lo vedi? Vieni via prima di farti male, stupido!»

«Smettila, Liam! Mollami!»

«No, non ti lascio da solo in un bosco durante una tempesta di fine estate! Lo sai come sono violente, e se tira giù uno di questi alberi e ci resti sotto?! Guarda lì, ne ha già sradicato uno così grande!»

Illuminò con la torcia la sagoma, poco distinguibile nella pioggia, di un grosso fusto rovesciato. Ferid smise di lottare contro la stretta di Liam sul braccio.

«Liam… cos'è quello?»

«Un albero caduto alto due volte casa tua, genio!»

«No, intendo… vicino alle radici, lì… lo vedi?»

Ferid si divincolò dalla presa si avvicinò di corsa alle radici del noce abbattuto. Liam lo seguì imprecando e slittando un paio di volte.

«Che diavolo… è un cespuglio, no? Un rovo, sembra.»

Ferid infilò la mano nel cespuglio trattenendo un gemito quando una grossa spina lo graffiò sull'avambraccio, affondò finché le dita non riuscirono ad afferrare quello che aveva davvero attirato la sua attenzione e l'estrasse portandosela agli occhi: era un brandello di stoffa leggera, gialla a fiori. Liam trattenne rumorosamente il fiato.

«Il vestito a fiori…! Cavolo, dici che abbiamo trovato qualche indizio?»

«Suona il fischietto, Liam, subito.»

Non se lo fece ripetere e l'amico portò alle labbra il fischietto, lanciando il segnale che si doveva usare se avessero trovato qualcosa: tre fischi in rapida sequenza, l'ultimo più lungo. Lo fece più volte di seguito senza ottenere un'eco da qualcuno.

Devono essersi allontanati per rientrare. Nella pioggia non ci sentono.

«Mi avvicino, tu non muoverti, Ferid!»

Si allontanò da lui di corsa per ripetere il segnale circa trenta metri più in là e Ferid si sporse oltre i rovi, scoprendo che il terreno scendeva ripido fino al rigagnolo che nella stagione autunnale doveva ingrossarsi fino a diventare un torrente di una certa portata. Sollevò in alto la torcia, strizzando gli occhi nella pioggia battente. Forse con quella scarsa illuminazione non avrebbe notato nulla, in una tale tempesta, se non si fosse mosso: un piccolo piede scalzo sbucava da dietro un ciuffo di piante verdi sul lato dell'alveo.

Ferid si voltò verso Liam, ma la sua torcia era troppo lontana per credere che potesse sentire la sua voce nel vento forte di quella notte. In pochi istanti tantissime domande passarono per la sua testa: se sarebbe riuscito a ritrovare il posto se fosse tornato al punto d'incontro a chiamare aiuto, se Samara avrebbe potuto aspettare i soccorsi, se un qualche tipo di mezzo avrebbe potuto raggiungerli sui sentieri accidentati. Alla fine sfilò il nastro verde dai capelli e lo usò per legare il moschettone della torcia al giacchetto fluorescente, scavalcando a fatica i rovi.

«Ahia, cazzo... nh, rovi di merda!»

L'eroe era un ruolo che calzava molto poco a Ferid, che nella sua vita avrebbe di sicuro scelto di fingere di non accorgersi di un comportamento criminoso o scorretto piuttosto che intervenire in difesa di qualcuno… o almeno, fino a quella sera, era quello che avrebbe detto di se stesso se qualcuno glielo avesse chiesto e non riusciva a credere di essersi davvero avventurato giù per il viscido pendio, da solo.

Raggiunse scivolando la macchia di vegetazione e il cuore gli salì in gola quando vide Samara riversa lì dietro, zuppa di pioggia e di sangue che le usciva dal collo, infangata e graffiata ma indiscutibilmente viva, con gli occhi celesti fissi su di lui e pieni di spavento. Con un coraggio che non si riconosceva e la sensazione di assistere a quella scena piuttosto che farne attivamente parte, prese in braccio la ragazzina.

«Sei Samara, vero? Non aver paura, sono uno di quelli che è venuto a cercarti quando sei sparita dalla casa di tua nonna… tu resisti, d'accordo? Io ti tiro fuori da questo bosco…»

Anche se non so come, pensò Ferid quando guardò da dove era venuto: troppo ripido e troppo scivoloso per pensare di poter risalire l'argine con una bambina in braccio. Si incamminò lungo il letto del fiume con l'idea di avvicinarsi idealmente a Liam e mandargli un segnale, ma poi guardò il tronco di noce sradicato, che dall'argine era caduto dentro il fiume.

Perfetto. Ora speriamo solo che il mio corpo sia forte abbastanza da fare quello che ho pensato.

Sospirò pensando che di certo qualcuno come il detective Eusford sarebbe stato tagliato per questo genere di impresa, ma lì c'era lui e nessun altro. Si avvicinò all'albero e tentò di arrampicarsi sui rami per conquistare il lato superiore del tronco e usarlo come un ponte, ma le scarpe infangate facevano poca presa. Ci mise un tempo che gli parve infinito a salire, anche se fu all'incirca un minuto e mezzo. Con la bambina a fargli da contrappeso frontale riuscì abbastanza agevolmente ad arrampicarsi sul fusto fino alle radici, ma fu un sollievo enorme riconquistare il terreno solido.

«Ce l'abbiamo fatta, Samara, ora ti porterò da un dottore… tu però fai la tua parte e resisti, d'accordo?»

Samara non disse nulla, con il respiro roco ma tuttavia confortante nell'essere la prova che la piccola era ancora aggrappata alla vita. Ferid alzò gli occhi sull'orizzonte e vide la luce della torcia di Liam, che stava andando verso il campo base per trovare aiuto.

Spiccò la corsa più velocemente che poté considerati le orrende condizioni meteo, le scarpe che indossava e il fatto che portava in braccio una bambina di undici anni. Non poteva tenere dritta la torcia, vedeva a malapena dove metteva i piedi e le forze lo stavano abbandonando; non era mai stato un tipo sportivo e la sua resistenza alla fatica era il minimo richiesto per un uomo della sua età e condizione.

Quanto vorrei aver rispettato quel proposito di inizio anno e aver davvero iniziato a fare jogging…

La luce sembrava non avvicinarsi mai e capì che Liam doveva stare, come lui, correndo al campo base. Ogni respiro di aria gelata era come una pugnalata e non riusciva a capire se fosse la pioggia negli occhi o la sua vista che si stava offuscando man mano che gli mancava il fiato.

Inciampò in qualcosa e cadde in ginocchio sentendo delle fitte lancinanti alle gambe; non sapeva se si era ferito cadendo o fosse solo lo sforzo troppo grande, ma non riusciva più ad alzarsi.

Non ce la faccio… Liam, non ce la faccio… detective, dove sei? Da solo io non posso salvarla…

La mano di Samara strinse la camicia di Ferid con una forza inaspettata e quella sensazione schiarì i suoi pensieri con la forza di un tornado. Non aveva il fiato per risponderle, per rassicurarla, ma trovò da qualche parte la forza di strisciare tra le foglie cadute, di ignorare il dolore lancinante quando qualcosa – forse un ramo appuntito – gli affondò nel palmo della mano destra; strisciò fino a raggiungere un tronco giovane e aggrappandovisi riuscì a rimettersi in piedi.

«FERID!»

Ferid alzò di scatto la testa con un sollievo impossibile da descrivere e sorrise seppure le torce che gli venivano incontro lo abbagliassero. Mosse solo un paio di passi incerti prima di cedere; per fortuna De Stasio lo aveva raggiunto e lo tenne in piedi il tempo sufficiente perché Liam arrivasse e lo sorreggesse passandosi il braccio dell'amico intorno alle spalle. Samara rimase tra le braccia di un investigatore italiano stupefatto.

«Ben fatto, Ferid! Ottimo lavoro! Accompagnalo alla base, vi precedo con lei!»

De Stasio corse via come il vento stesso e Ferid si permise di chiudere un momento gli occhi e prendere il fiato. Cominciava a riunirsi con se stesso, a rendersi conto di che cosa aveva davvero fatto, e per la prima volta che riuscisse a ricordare nella sua vita, si sentiva emozionato, meravigliato… orgoglioso.

«Coraggio, Rid… è finita, ora andiamo a riposarci… e ad asciugarci! Credo di avere a mollo anche il cervello!»

Camminarono insieme fino a che non uscirono dal bosco, vedendo le luci blu dell'ambulanza che portava via Samara con le sirene spiegate. Fuori dalla zona alberata la violenza del vento era impressionante e persino la pesante treccia di capelli di Ferid veniva agitata come una bandiera. Il tratto di campi fino al portico della casa dei Randall Ferid lo percorse a occhi praticamente chiusi contro la pioggia, e li riaprì solo quando smise di sentirla martellargli la faccia. Liam scrollò la testa come un cane bagnato.

«Liam… Liam, ma che fai?»

«Ma sì, tanto sei già fradicio anche in posti che non sapevi di avere!»

«Ferid!»

Gli occhi di Ferid si posarono su Crowley Eusford, che era appena uscito dalla porta sul retro, e uno sguardo come quello che gli stava riservando Ferid non lo vedeva da dodici anni. Non si sottrasse al suo abbraccio e nemmeno ci sarebbe riuscito se l'avesse voluto; si sentiva stremato e quindi vi si abbandonò.

«Non posso credere che tu sia riuscito a trovarla… sei stato bravissimo, Ferid!»

Pensò ad almeno sei possibili commenti da fare, dal più sarcastico al più modesto, ma alla fine decise di non rispondere: era ancora così stanco, dolorante e al tempo stesso commosso che non credeva di riuscire davvero a parlare. Da quanto tempo non sentiva provenire da qualcuno tanto calore, tanto calore umano, tanto orgoglio nei suoi confronti? Quando era stata l'ultima volta che qualcuno gli aveva dimostrato che aveva un valore, che non era un’ombra nelle vite di chi incrociava il suo cammino?

Strinse la schiena del detective senza emettere un fiato, eccezion fatta per il suo respiro ancora un po' corto, tenendo la mano destra rivolta verso l'alto. Sanguinava tanto da gocciolare sul pavimento del portico… o era sangue misto ad acqua piovana?

«Per ora lasciamo le cose come stanno… aspettiamo di vedere cosa succede a Samara… noi andiamo a fare un giretto in pronto soccorso. Accertiamoci che tu stia bene e che queste ferite non siano nulla di importante.»

Liam si avvicinò di un passo ai due, con l’aria di sentirsi a disagio all’idea di interromperli.

«Scusami, Eusford… noi volontari possiamo rientrare a casa?»

«Certo… grazie per la collaborazione, Bosley… mi occupo io di Ferid, adesso.»

«Fammi sapere qualcosa domani, Rid, chiamami al bar!»

«D'accordo.» rispose lui con un filo di voce. «Ti ringrazio tanto, Liam.»

Liam scrollò le spalle come a schermirsi dalle responsabilità e sparì dentro la cucina chiamando la signora Randall, ma le voci all'interno vennero attutite dalla porta e coperte del tutto dalla pioggia e dai tuoni. Crowley, che aveva solo allentato la presa sulla schiena di Ferid sentendo che si reggeva in piedi solo grazie a lui, lo guardò di nuovo in volto e sorrise ancora.

«Stai bene?» gli chiese, e gli passò la mano sulla faccia sporca di fango. «Sei messo uno schifo, sai?»

«Grazie tante, detective… ah, sono distrutto… portami in braccio fino in ospedale…»

«Fino in ospedale non credo proprio, ma ti posso portare in braccio fino alla macchina.»

Contro ogni previsione di Ferid, Crowley si chinò e lo prese in braccio come se pesasse quanto Samara.

Con i capelli così inzuppati peserò almeno dieci chili in più del normale, come diavolo ci riesce?

«Mio Dio, Ferid, guarda le tue gambe…»

Il dolore che sentiva non era solo muscolare e non era frutto della sua testa: i pantaloni erano strappati in diversi punti, da alcune aperture si vedevano distintamente graffi profondi che non macchiavano di sangue il tessuto solo perché era quasi del tutto insozzato di fango. Crowley scostò con le dita un lembo dei pantaloni per guardare uno dei tagli, alla vista quello più vistoso, che continuava a sanguinare.

«Devo portarti subito in ospedale a pulire per bene queste ferite… ma trattieni il respiro o affogherai fino alla macchina. Piove che sembra il Giudizio Universale.»

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Capitolo 10
*** L'angelo senza voce ***


 

Ferid si svegliò molto presto quella mattina, disturbato dal via vai degli infermieri nel corridoio, e gli ci vollero alcuni secondi per ricordare come mai stesse dormendo in un letto d'ospedale. Le immagini del ritrovamento di Samara somigliavano ancora più a un incubo nitido che a una memoria ben incisa nella mente.

Sbadigliò e si stiracchiò un po', poi si mise lentamente seduto e mise giù le gambe; i suoi muscoli erano indolenziti. Anche se la luce che veniva dalla finestra era molto debole notò subito i lunghi graffi scuri causati dai rovi. I più fondi erano nascosti sotto una fasciatura che gli avevano fatto sulla coscia. Sollevò il braccio destro e vide altrettanti vistosi segni.

Accidenti, ci vorranno settimane perché scompaiano del tutto.

Sospirò alzandosi in piedi e si mosse fino alla porta, sbirciando nel corridoio. Non trovò nessun viso conosciuto ma un infermiere stava uscendo dalla stanza accanto.

«Mi scusi, infermiere, sa dove sono i miei vestiti?»

«Non li ha con sé?»

«No, me li hanno tolti ieri sera al pronto soccorso… erano inzuppati di fango e di sangue.»

«Ah, sì, siete quelli che cercavano quella bambina… mi spiace, credo che li abbiano presi quelli della polizia… in ogni caso erano strappati e sporchi…»

Ah, fantastico… e adesso cosa faccio, vado a casa in camice? Anche se chiamassi Krul e lei fosse stranamente gentile, non ha le chiavi di casa mia.

«Non ha nessuno che possa portarle un cambio?»

Ferid scosse la testa. Era la prima volta che vivere da solo senza parenti o persone fidate si rivelava un problema.

«Non ho nessun parente e nessuno che abbia le chiavi di casa mia.»

«Capisco… forse posso trovarle qualcosa, aspetti qui.»

L'infermiere si allontanò e Ferid si risedette sul bordo del letto, cercando di coprirsi le gambe il più possibile con il corto camice dell'ospedale.

Non posso certo andare in giro così… se almeno avessi la mia vestaglia.

Sospirò di nuovo perso nei suoi pensieri. Da quando era rimasto solo non gli era mai successo di avere qualche emergenza, di finire in ospedale o di trovarsi in una qualche situazione in cui necessitasse qualcuno che lo aiutasse. Era abituato a vivere da solo, a fare un po' tutto da sé, a costo di camminare per chilometri per tornare a casa se non trovava un treno o un taxi… ma in quel frangente non sapeva che cosa fare. Non sapeva nemmeno da chi farsi aiutare.

Forse è arrivato il momento di lasciare la chiave di casa a qualcuno… o almeno, in negozio… Krul potrà essere inaffidabile con quel suo umore altalenante, ma una volta su dieci potrebbe decidere di essere di aiuto.

L'infermiere fu di ritorno con un fagotto sotto il braccio e gli sorrise.

«Buone notizie, ho trovato uno dei cambi che teniamo qui nella sala del personale… provi la taglia, ma credo che le starà bene. Mi spiace per gli orsetti, ma sono uniformi che mettiamo nel caso ci occupassimo di bambini particolarmente spaventati da aghi e mascherine.»

Ferid prese l'uniforme e vide che la parte superiore, del tutto simile a una t-shirt con lo scollo a V, era bianca con una fantasia a piccoli orsetti. Aspettò che l'infermiere uscisse dalla camera per togliere il camice e indossare la divisa: gli stava leggermente grande, ma era molto comoda e la lunghezza era giusta. Essendo quantomeno presentabile abbastanza per muoversi per l'ospedale uscì dalla stanza, ma non trovò l'infermiere per ringraziarlo. Scrollò le spalle e si avviò verso la scala per consultare i cartelli di indicazioni.

Chirurgia è al piano di sopra… forse è ancora lì?

Si avviò di sopra, senza incrociare anima viva, neanche un infermiere. Solo quando passò nell'area ristoro una delle macchinette automatiche lo informò che erano le sei del mattino. Sospirò di nuovo e fissò le merendine al di là del vetro, con lo stomaco che brontolava ferocemente.

Chissà se c'è qualcosa che posso mangiare, qui dentro… non che importi, non ho soldi, come sempre.

Si accovacciò a guardare i prodotti più in basso, tra i quali succhi di frutta e cracker, seppure le gambe protestassero fortemente per quella sua pessima idea.

«Sei mattiniero, Ferid. Come stai?»

Ferid guardò in alto e vide De Stasio avvicinarsi alle macchinette. Indossava abiti diversi dal giorno prima, era pettinato e sembrava non aver risentito affatto della difficile giornata precedente.

«Io sto bene… e Samara?»

Il nome della bambina venne quasi coperto da un brontolio vistoso, che fece arrossire Ferid quasi all'istante e tirare un sorrisetto a De Stasio. Questi si mise la mano in tasca e prese una manciata di monete, porgendogliele.

«Prendi quello che vuoi, offro io… poca cosa per l'eroe di una famiglia intera.»

«Non sono… vuol dire che Samara sta bene, adesso?»

«È viva, è fuori pericolo. Prendi qualcosa e sediamoci.»

Ferid soppesò un invitante pacchetto di cracker dolci di sesamo, ma poi preferì andare sulla rassicurante dicitura "100% frutta" su una vaschetta di composta di mela e mirtillo. De Stasio si servì di caffè espresso alla macchina adiacente, poi gli fece segno di sedersi a uno dei tre piccoli tavoli. Ferid si sedette accanto alla finestra.

«Quindi che cosa è successo?»

«Tu non ti rilassi mai, eh? Proprio come Crowley.» osservò Dante, e si sedette di fronte a lui. «È stata portata immediatamente in sala operatoria, l'intervento è finito stanotte. È andata molto vicina a diventare l'ottava vittima, ma poi si è stabilizzata, a sentire il medico è stato una specie di miracolo. Non si spiegano come sia potuta non spegnersi con parametri così bassi, se non con un'enorme voglia di vivere.»

Ferid sospirò di nuovo, ma questa volta sentì un peso toglierglisi davvero di dosso. Il secondo boccone di frutta aveva persino un gusto, tanto si sentiva sollevato.

«Non hai ancora rilasciato la tua dichiarazione riguardo ieri sera, vero?»

«Eh? Sì, l'ho fatto.» gli rispose Ferid sorpreso. «È venuto un agente del vostro dipartimento a farmi domande, ha registrato quello che ho raccontato, mi ha tenuto sveglio per un'oretta per farmela scrivere a mano…»

Ferid aprì il palmo della mano destra, dove spiccava un ampio cerotto macchiato di sangue.

«E firmare. Francamente è orrendo tenere una penna con la mano messa così…»

«Chi era questo agente?»

«Uhm, uno più vecchio di te… vediamo… aveva un cognome insolito, ricordo di averlo pensato… Blatsky. No, Lesky. Un cognome ceco, o austriaco, direi…»

«Ah, Sean Lesky… ti è sembrato aggressivo nei tuoi confronti?»

«Più o meno come se lui fosse un leone molto affamato e io un’antilope bella grassa.»

«Lo immaginavo.»

«C'è un motivo per il quale mi odia o solo perché respiro? Credimi, non è così inusuale, per uno come me.»

«Ipotizzo che sia perché respiri troppo vicino a Crowley, ma io non ti ho detto niente, d'accordo?»

Ferid si fermò con il cucchiaino a metà strada verso la bocca. Perplesso, guardò dritto negli occhi verdi di Dante De Stasio che per la prima volta parve riluttante a parlare.

«Perché tanto mistero, Dante?»

«So che Crowley ha avuto una storia con Lesky, tempo fa, ma non sa che io lo so. In genere preferisce che nessuno lo sappia o se ne ricordi, non è finita bene… e Lesky, pare, non si è ancora accorto che è finita. Non farci caso se ti sembra ostile… lo è, ma non è colpa tua.»

Ferid non rispose e continuò a mangiare.

Beh, che eravamo diversi era ovvio a prima vista… io vengo abbandonato ogni volta, lui non viene mollato nemmeno se scarica qualcuno.

«Qualcosa non va? Non ti devi preoccupare di lui, è geloso e scontroso, ma Crowley lo trasforma in una lattina di paté per gatti se prova anche solo ad alzare la voce con te.»

«Oh, non sono preoccupato, Dante, io non sono neanche vagamente così importante da suscitare le ire di qualcuno… di qualcuno che non sia quella cosetta tremenda che mi tiene in negozio, ovviamente.»

«Lo sei ora, Ferid. Hai appena salvato una bambina… hai appena impedito al Vampiro di prendere il sangue e il cuore di Samara.» gli disse De Stasio, gettando nel bidone il bicchierino del caffè. «Adesso hai suscitato le ire di qualcuno… se non lo avevi già fatto prima senza saperlo.»

«Pensi davvero che mi abbia preso di mira?»

«Non è una cosa che penso io… ormai è evidente, non trovi? Sei un uomo di logica. Se si trattasse di un altro nella stessa situazione che cosa penseresti?»

Ferid ragionò brevemente: uno squilibrato decideva di uccidere tutti i bambini ai quali per caso rivolgeva la parola, di giovedì sera quando era di consueto sempre da solo in casa. Per riuscirci – supponendo non fosse una colossale coincidenza – lo seguiva con perizia, lo studiava come tenendolo sotto un microscopio… o aveva scelto a caso facendo ruotare una penna in mezzo a una folla puntando lui, o in una certa misura aveva un legame con lui.

Fu colpito da un'idea e De Stasio se ne accorse immediatamente, cambiando espressione.

«Cosa ti è venuto in mente? Chi?»

«No… probabilmente non è niente di che.»

«Lascialo dire a me, questo. Chi?»

Ferid non si sentiva pronto a parlare a qualcuno di quella teoria, quindi scosse la testa, si alzò dal tavolo e gettò la vaschetta vuota e il cucchiaino di plastica.

«Non ricordo il nome, devo chiedere a Krul se ricorda chi era quello strano tipo che è stato in negozio… beh, Samara dove sta? Può ricevere delle visite?»

«Non so se sia sveglia, ma è nella stanza in fondo, sulla sinistra.»

De Stasio gli indicò il corridoio a lato e fu da quella parte che si allontanò per sottrarsi a quel pericoloso argomento di conversazione.

«Ah, Ferid?»

«Mh?»

«Lo voglio, quel nome. Io ho la memoria lunga, non dimenticherò di chiedertelo.»

Ferid non replicò e si limitò a sorridergli, ma il suo sorriso scomparve mentre gli voltava le spalle e si avviava lungo il corridoio. Non aveva pensato a lui dato che era sicuro che le loro strade non si sarebbero mai incrociate, ma più ci pensava più aveva senso, anche se non capiva come avesse fatto.

Non permetterò mai che uno come te metta le mani anche solo su un paio di vecchie pantofole. Non avrai niente da Claude, non dopo tutto quello che gli hai fatto… dopo tutto quello che stai facendo.

Vide un'infermiera che gli veniva incontro e la riconobbe, era la stessa che gli aveva fatto le medicazioni al pronto soccorso la sera prima.

«Dalila, Samara Mitchell per caso è sveglia?»

«Oh, buongiorno, Ferid… Samara sta ancora dormendo, andremo a farle i prelievi di rito per ultima, per lasciarla dormire un altro po'… una mezz'ora, poco più, comunque.» gli disse, dopo aver dato uno sguardo all'orologio. «Tu dove hai rubato l'uniforme?»

«Oh… me l'ha data un infermiere di sotto, uno con i baffetti.»

«Ah, sì, certo… i tuoi vestiti erano ridotti una pietà.»

«Li ha presi la polizia, mi hanno detto.»

«Sì, per controllare le tracce di sangue e chissà che altra cosa. Gli ho anche chiesto se sapevano che non eri morto.»

Il suo tono irritato gli strappò un accenno di risata.

«Hanno preso anche il mio orologio, che tu sappia?»

«Penso di sì, ma giù in ufficio abbiamo la tua ricevuta per andarli a ritirare quando avranno finito le loro indagini; lì c'è scritto tutto quello che devi riavere. Ricordati di prenderla prima di andare via.»

«D'accordo, ti ringrazio.»

«Ci vediamo più tardi per il controllo del dottore!»

Questo lo fece sorridere meno. Lanciò un’occhiata più truce di quanto volesse alla gentile infermiera.

«Ma io sto benissimo.»

«Non fare il bambino, un prelievo che male può farti?»

«Moltissimo, a seconda di chi se ne occupa.»

«Ho la mano di una fata, lo posso giurare! Te ne accorgerai!»

Ferid sbuffò all'idea di lasciarsi sbucherellare il braccio per la seconda volta in meno di dodici ore, chiedendosi rabbuiato cosa mai potesse essersi sballato nelle sue analisi dopo così poco tempo. Si congedò da Dalila più freddamente di prima e si avvicinò alla stanza di Samara.

Sapendo che dormiva non andò alla porta per sbirciare o ascoltare e ponderò di aspettare lì fuori l’arrivo dell’infermiera che l’avrebbe svegliata per l’ora della colazione; fu allora che vide un infermiere in divisa turchese addormentato seduto sulle poltroncine di attesa nel corridoio.

Non hanno una sala del personale o qualcosa del genere per dormire?

Si bloccò sorpreso quando arrivò più vicino e vide che quello che gli era sembrato un infermiere era in realtà un detective dai lunghi capelli rossi: con le gambe stese su due sedili, riverso sullo schienale e con la testa appoggiata sul braccio dormiva profondamente. Né il libro dalla copertina logora che teneva ancora nella mano né la posizione scomoda erano serviti a farlo restare sveglio.

Ferid gli si avvicinò, gli sfilò il libro dalle dita e si sedette sull'ultima sedia della fila. Il libro era un tascabile di una famosa serie di romanzi rosa ambientati nell'800 e il libraio sorrise all'idea che un poliziotto avesse provato a leggerne uno, date le trame molto lineari e il linguaggio carico di melodramma. Lo aprì e si mise a leggere in attesa di poter fare visita a Samara.

Aveva letto solo poche pagine quando il detective si sdraiò sulle sedie appoggiando la testa sulle sue gambe, facendolo sussultare. Non si era svegliato; emise un lungo sospiro e riprese un ritmo regolare e lento. Ferid guardò tutt'intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno, sentendosi il cuore in gola come se stesse amoreggiando con una delle mogli di un potentato famoso per collezionare teste umane.

Il corridoio era deserto e silenzioso, sentiva da qualche parte il leggero rumore di un carrello e di passi, forse al piano superiore o inferiore o nell'altro reparto. Abbassò gli occhi sul viso di Crowley Eusford.

Oh, Dio, quant'è bello.

Non resistette alla tentazione e con le dita sfiorò il suo viso e scostò i suoi capelli rossi dietro l'orecchio, toccando con il pollice il piccolo bottone d'argento al lobo. Lui non parve accorgersi di niente e continuò a dormire con la bocca socchiusa, che per Ferid era una tentazione altrettanto forte. Distolse lo sguardo ma fu peggio, dato che si accorse che la divisa che gli avevano dato era troppo piccola per lui: la casacca stringeva il suo torace abbastanza da evidenziare i pettorali e i muscoli addominali, era anche corta e gli scopriva una striscia di pelle sui fianchi che mise inspiegabilmente in imbarazzo Ferid che la guardava.

Affondò il naso nel libro, ma per la prima volta nella sua vita una lettura nuova non riusciva a distrarlo dai suoi pensieri.

Oh, ti prego, Ferid! Come se fosse la prima volta che vedi un po' di pelle nuda di qualcun altro!

Crowley si mosse leggermente – nella vana ricerca di una posizione comoda – e la maglietta si alzò ancora qualche centimetro scoprendogli l'ombelico. Ferid deglutì silenziosamente e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, con la quale potesse coprirlo. Purtroppo non c'era neanche uno straccio o un giornale in vista.

Crowley emise una specie di mugolio nel sonno, che attirò sul suo viso l'attenzione di Ferid, e le sue sopracciglia si aggrottarono progressivamente mentre il suo respiro diventava meno regolare.

Sta sognando qualcosa?

«Ahia!»

Ferid sussultò quando Crowley, nel suo sonno agitato, gli afferrò la gamba proprio dove c'era il taglio più profondo sotto la fasciatura. Gli afferrò la mano per spostarla e lui la strinse, mentre la sua espressione si faceva come sofferente, con le sopracciglia aggrottate e i denti stretti. Per fortuna aveva deciso di stritolare la mano sana. Con l’altra, il libretto stretto tra le nocche di indice e medio, scosse la spalla dell’investigatore nel tentativo di riscuoterlo dall’incubo.

«Detective? Svegliati… detective?»

Crowley strinse le spalle respirando ancora più affannosamente ed emettendo un sorta di gemito sommesso, strinse più forte la mano di Ferid ma non si svegliò. Lui lo scosse con più convinzione.

«Detective… insomma, svegliati, detective… ehi… Crowley!»

Con un sobbalzo e il respiro tirato di chi riemerge senza fiato da un'immersione in acqua, Crowley spalancò gli occhi azzurri. Li fece scorrere sul corridoio e poi sul viso di Ferid, ansimando.

«C-cosa… cos'è successo?»

«Niente di importante… stavi facendo un sogno ed eri tutto agitato.» gli disse Ferid, e sorrise accarezzandogli i capelli. «Ora va meglio?»

Crowley emise un sospiro e si passò la mano sugli occhi, aggrottando le sopracciglia. Il respiro si regolarizzò poco dopo.

«Non… non riesco a ricordare cosa stavo sognando.»

«Meglio così, non avevi l'aria di divertirti, sai?»

«Immagino di no…»

Crowley guardò in su verso di lui, stupefatto, come se si fosse accorto di aver parlato per tre minuti con una persona che non era chi lui pensava.

«Ferid, cosa fai qui?»

«Oh, grazie di avermi notato, detective~ dimmi, sulle gambe di chi credevi di dormire?»

Crowley si alzò di scatto e la ciocca di capelli rossi che Ferid si stava rigirando fra le dita gli sfuggì, lasciandolo interdetto. Accavallò le gambe cercando di mascherare meglio che potesse la sua stizza.

«Dove… dov'è De Stasio?»

«Oh, pensavi fosse lui? Vuoi forse dire che le mie gambe non sono la cosa più incredibilmente comoda del mondo?»

«No… cioè, non lo so…» balbettò Crowley, e scosse la testa. «No, volevo solo sapere… che ore sono? È già tornato?»

«Ha importanza?»

«Doveva parlare col capitano per assegnarti una scorta.»

«Quindi non ha importanza, no? Hai dormito in una posizione tremenda, perché non ti sdrai un altro po' qui sulle mie gambe? Posso accarezzarti i capelli, o qualsiasi altra parte del…»

«Vado a vedere se c'è la macchina nel parcheggio.»

Crowley si alzò massaggiandosi la spalla e Ferid emise uno sbuffo sonoro, incrociando le braccia al petto.

«Oh, d'accordo! È tornato, era con me poco fa alla zona ristoro!»

Crowley si girò lentamente per guardarlo e lo fissò per diversi secondi. Ferid se ne accorse lanciandogli uno sguardo con la coda dell'occhio e per nascondere l’imbarazzo che gli suscitava quello sguardo fisso prese a sfogliare il libriccino.

«Ma perché non me l'hai detto subito, scusa?»

Uhm, come posso dirgli ancora più chiaramente che mi piace e che lo voglio vicino quanto più tempo possibile? Prima che capisca che tipo di persona sono… prima che si renda conto che non ho niente di speciale e se ne vada.

Si irrigidì quando vide una testa di capelli rossi appoggiarsi sulla sua gamba e spostò il libro per guardarlo: Crowley sorrideva con gli occhi chiusi.

«Se non vuoi che ti lasci solo basta dirlo, sai? Non sempre otteniamo tutto quello che vogliamo, ma a volte le persone ti danno quello che vuoi se lo chiedi.»

«Non stavi cercando Dante?»

«Se ha parlato con te e non ti ha detto della scorta vuol dire che ancora non te l'hanno assegnata… perciò eccomi, ti terrò d'occhio io.»

«Con gli occhi chiusi? Ah, devi aver fatto carriera solo per la tua bellezza…»

Crowley emise una breve risata divertita.

«Non sei il primo che me lo dice, ma è la prima volta che me lo dicono senza disprezzo… ti ringrazio molto.»

«Vuoi dire che persino uno come te riceve critiche?»

Se Ferid aveva parlato tradendo la sua sorpresa, Crowley non lo era di meno quando replicò.

«Di che parli? Ne ricevo un sacco, per un mucchio di motivi diversi, da quasi tutti quelli che conosco… nemmeno Dio è immune alle critiche, e dovrei esserlo io?»

«Davvero? Mi sembra impossibile.»

«Invece è così… parla dieci minuti con mia madre e ti troverà una sfilza di difetti che ti farà impallidire… anche se più pallido di così diventerai trasparente.»

Ferid ripensò invece alla propria madre, all'ultima volta che l'aveva vista sdraiata in un letto con le tendine tirate, a piangere e urlare contro di lui e contro il resto del mondo fuori dalla sua stanza buia. Sentì una fitta al petto, come la puntura di uno spillone, ma durò soltanto un momento.

Passò la mano nei capelli rossi, chiedendosi se quel sorriso fosse sereno come sembrava o se anche lui sentisse qualcosa di simile, nel suo ampio petto.

«Pensavo che tutte le madri amassero i loro figli per quanto imperfetti fossero.»

«La maggior parte delle madri è così… ma non la mia. Preferiva crescere un figlio devoto che un figlio felice, se doveva scegliere una delle due… ma ho scelto io per lei e ho scelto di essere prima felice e poi devoto.»

Crowley aprì gli occhi e incrociò quelli di Ferid, smettendo di sorridere.

«Ho letto quello che hai scritto di tua madre nel diario… di che cosa parlavi quando scrivevi della maledizione?»

«Credevo di averti venduto un po' di letture riguardo il nostro piccolo problema di famiglia~»

«Ferid, è una domanda seria. Non indispettirmi, sono stato sincero con te.»

La sua ascendenza, il matrimonio deciso a tavolino, la malattia, la pazzia, la sua casa buia… Ferid si mordicchiò il labbro. Non si sentiva pronto per parlare di quella terribile storia a qualcuno, nemmeno al detective che sembrava tenere così in gran conto chi lui fosse dentro.

«Non è una storia allegra.»

«Non ti ho chiesto una barzelletta.»

«Ti basti sapere che mia madre è impazzita, quando ero piccolo. Si chiudeva nella sua stanza, ogni tanto si metteva a urlare e a rompere oggetti lanciandoli contro il muro… era paranoica, credeva che qualcuno l'avesse maledetta e le avesse messo dei demoni dentro. Diceva che aveva perso la grazia di Dio perché non aveva dato a suo figlio un nome biblico.»

«Certo che come ossessioni religiose le nostre madri starebbero proprio bene insieme.» commentò Crowley. «Ma se era così importante per lei, perché ti ha chiamato Ferid?»

«Era un voto che aveva fatto. Quando era piccola era un periodo di tumulto in Ungheria, e un uomo, uno straniero, le salvò la vita… si chiamava Ferid anche lui. Per questo motivo mi chiamo così.»

«Ah, questa è una parte bella della storia… Nomen omen

«Cosa?»

«È latino, significa “un presagio nel nome”.»

«So cosa significa, ho studiato latino anch'io… ma non capisco cosa vuoi dire.»

«Quel Ferid ha salvato tua madre quando era una bambina… non hai appena fatto la stessa cosa con Samara?»

Ferid non fece nulla per nascondere lo stupore e Crowley sorrise di rimando mentre sollevava la mano per dargli un pizzicotto sulla guancia.

«Smettila di parlare come se non contassi niente per nessuno. Non eri un nessuno ieri, oggi lo sei ancora meno.»

A corto di parole – una condizione che gli capitava di rado, in realtà – Ferid ne cercò qualcuna con cui rispondere a quella forte affermazione. Non ebbe fortuna.

«Che state combinando voi due?»

Alzarono entrambi lo sguardo su De Stasio, che li guardava senza alcuna particolare espressione. Ferid non smise di accarezzare i capelli rossi e Crowley non si mosse.

«Vi sembra il posto per le vostre effusioni, nel corridoio di un ospedale? Avete tutti e due una casa, andateci.»

«Ma quali effusioni? Mi stavo riposando, ho la schiena a pezzi, De Stasio… non essere così velenoso.»

«Non mi interessa cosa fate, ma mi interessa se lo fate in un luogo pubblico.»

De Stasio lanciò una busta di carta gonfia di vestiti dritta sull'addome di Crowley.

«E cambiati, con quella divisa stretta e l'ombelico di fuori sembri uno dei Village People.»

«Questo è un colpo bassissimo!»

«Ora hai una vaga idea di cosa possa essere “Dante De Stasio velenoso”.»

«Che cattiveria gratuita… Ferid, diglielo tu che è cattiveria gratuita, a te dà ascolto.»

Crowley si sollevò seduto controvoglia e ispezionò il contenuto della busta, mentre Ferid si trovava ancora una volta senza sapere cosa dire.

«Non credo di poter… chi… sarebbero questi Village People?»

Ferid ebbe un leggero sussulto quando entrambi gli uomini lo guardarono come se avesse domandato chi fosse l'attuale re d'America. Ripensò a quello che aveva detto chiedendosi se avesse detto un verbo sbagliato o qualcosa del genere.

«Ferid, adesso basta.» disse Crowley serio. «Tu non puoi ammuffire in questo modo in mezzo ai tuoi libri polverosi. Devi uscire di più.»

«Ma che cosa ho…?»

«Appena arriveranno i rinforzi alla squadra omicidi e avremo dei turni più umani ti porto a vedere uno spettacolo all'Elysium Theatre... e anche una partita di baseball, andiamo a vedere i Lizards al Belfast Stadium.» decise lui, annuendo alle sue stesse decisioni. «Ci facciamo una birra in un vero pub irlandese e ti porto a mangiare in un ristorante al quale non saprai dire di no.»

«Fanno quattro appuntamenti, ho contato giusto?» s’intromise De Stasio con un accenno di sorriso.

«Sono certo che lui le abbia quattro sere libere.»

«Fai proprio sul serio.»

«Quest'uomo non può vivere tutta la sua vita chiuso in posti con scaffali di libri, è un crimine!»

«Oh oh, addirittura?»

Alcune voci in fondo al corridoio interruppero la conversazione tra i due poliziotti. Ferid vide i genitori di Samara, l'anziana signora Randall con un grosso cesto da picnic in vimini tra le mani segnate dalle rughe e la sorellina, che se non ricordava male si chiamava Camila. Saltellava allegra verso di loro, portando anche lei un cesto, e si fermò facendo un gran sorriso a De Stasio.

«Signor De Stasio!»

«Eh? Che cos'è tutta questa formalità tra di noi? Dante e basta.»

Anche se non gli era mai parso un uomo rude o brusco, vederlo sorridere così apertamente mentre accarezzava la testa della bambina era una visione che faceva sospirare per la tenerezza.

«L'avevi detto tu ieri, vero? Di tenere il pane, il burro e la marmellata da parte per festeggiare quando tornava Sami!»

«Oh, sì, l'ho detto.»

«Sami è tornata, quindi io e la nonna abbiamo portato i panini per tutti! Prendine uno… prendine due, sei grande!»

Camila aprì il suo cestino, pieno di tramezzini avvolti in tovagliolini colorati: saranno stati almeno una trentina. Se Ferid e Crowley si aspettavano di vederlo rifiutare e sottrarsi ai festeggiamenti ne rimasero sorpresi.

«Oh, ti ringrazio molto… ne hai uno alle ciliegie?»

«Sì! Sono questi col tovagliolo rosso! È il mio preferito!»

«Davvero? Anche io vado pazzo per le ciliegie.»

«Prendi tutti quelli che vuoi! Grazie per aver riportato Sami a casa!»

De Stasio guardò la piccola sorpreso, poi sorrise a lei e ai genitori.

«L'ho solo portata per un pezzetto di strada… quello che l'ha trovata e l'ha tirata fuori dal bosco è lì dietro.» disse, e indicò le proprie spalle con il pollice. «Sì, quell'uomo coi capelli lunghi che sta cercando di andarsene senza essere notato.»

«Ferid!» tuonò Crowley, allungando la mano e acchiappandolo per il colletto della casacca. «Non seminare la tua scorta, idiota!»

Gli diede uno spintone con tutta la forza di un uomo così possente e lo spedì in avanti tanto forte che dovette aggrapparsi al braccio di De Stasio per non finire per terra. Incrociò lo sguardo con Camila, che era la sorella maggiore in miniatura, e si sentì così a disagio per la sua genuina ammirazione che dovette dominare l'istinto di nascondersi dietro la schiena dell'italiano.

Lo fece comunque senza potersi frenare quando Nathan Mitchell gli si avvicinò tendendogli la mano; quasi fosse un severo maestro venuto per metterlo in punizione dietro la lavagna.

«Dunque è lei quel volontario che non ha smesso di cercare al segnale del coordinatore… non la ringrazieremo mai abbastanza per essere andato avanti quando nessun altro lo stava facendo più.»

«Erano… pochi metri. Davvero.» disse Ferid con una voce sottile che non si riconobbe lui stesso. «Non che io abbia cercato per chilometri…»

«Ha cercato quanto è bastato per riportarci Samara.» disse la signora Mitchell, con gli occhi lucidi.

Crowley gli lanciò un’occhiata soddisfatta che aveva tutti i tratti di un “te l’avevo detto” silenzioso. Il signor Mitchell, comunque, non sembrava voler rinunciare a quella stretta di mano e si avvicinò di un mezzo passo ancora con la mano tesa.

«Come si chiama?»

Un nodo nella gola impedì alla voce di uscire una seconda volta e onestamente avrebbe preferito potersi trasformare in pipistrello e volare via fino a casa. Crowley gli si avvicinò da dietro e mise la mano sulla schiena, avvicinandosi al suo orecchio.

«Ferid… per queste persone è importante mostrarti quanto ti sono grati. Serve a loro quanto a te… avrai letto tanti romanzi, tanta letteratura con un eroe che cambia le vite di qualcuno… che le salva… che trova un nuovo senso della sua esistenza. Questo è quel capitolo nel tuo libro, Ferid. Vivilo da protagonista.»

Una vita da protagonista?

Fu quell'unica parola a colpirlo più di tutto il suo discorso, che smosse qualcosa dentro di lui. Era come trovarsi dentro la casa di sua madre, nella sua casa buia, ma con il coraggio di spalancare le tende e far entrare il sole.

Solo qualche passo… nella luce del sole.

Ferid deglutì il nodo, lasciò andare il braccio di De Stasio che stava ancora stringendo nervosamente e trovò il coraggio di guardare negli occhi il signor Mitchell, che erano chiari proprio come quelli delle due figlie. Gli porse la mano sinistra.

«Ferid… Ferid Bathory.» si presentò, e sorrise. «Perdoni la mano sinistra, ma la destra al momento è alquanto riluttante alle strette~»

La sollevò mostrando il cerotto sul palmo ed entrambi i signori Mitchell non fecero alcuna obiezione a stringergli la sinistra; Camila gliela strinse con tutte e due le sue.

«Prendi un tramezzino! La nonna fa una super-marmellata!»

«Uhm, non è che ne hai uno senza il burro?»

«Oh! Sì!»

«Andiamo, Ferid, sei troppo magro per preoccuparti di un po' di burro in un panino!» protestò Crowley.

«Si mantiene giovane perché bada a quello che mangia, dovresti imparare da lui invece di beccare come un’oca inferocita.» lo rimproverò De Stasio.

«Hai sbagliato lavoro, dovevi fare il nutrizionista

«Porta rispetto a quello che ti ha trasformato in poliziotto da moccioso ignorante e arrogante che eri quando sei entrato alla narcotici!»

«Voi due

Ferid si voltò a guardarli, sorridendo, ma il modo in cui ricambiarono lo sguardo gli suggerì che l'effetto non era rassicurante.

«Mangiate un tramezzino e fate silenzio. Siete in un ospedale, non comportatevi come due cinghiali che si scannano per le ghiande.»

Nessuno dei due replicò; De Stasio addentò il sandwich alla confettura di ciliegie e Crowley prese quelli che gli stava dando la signora Randall: erano sei. Camila ne porse due a Ferid, uno con farcitura arancione e l'altro rossa.

«Arancia e fragola vanno bene?»

«Grazie~»

Subito dopo arrivò l'infermiera per i controlli di Samara, la famiglia la seguì per andare da lei e Ferid restò con i due poliziotti nel corridoio. Famelico addentò il tramezzino alla marmellata di arancia. Si sentiva stranamente allegro, con una sensazione di solletico allo stomaco a lui sconosciuta.

Con tutti i libri che ho letto, non so comunque dare un nome a questa sensazione… che cosa strana.

«Oh, Ferid.»

«Mh?»

«È la prima volta che ti vedo mandare giù qualcosa!»

«Oh, sì. Di tanto in tanto lo facciamo, per sembrare gente normale. È una tale fatica, credimi~»

«Sì, si vede.» bofonchiò lui, mentre mangiava mezzo tramezzino in un boccone.

«Io l'ho già visto mandare giù qualcosa.»

De Stasio non disse altro nemmeno quando Crowley gli puntò gli occhi addosso come se volesse passarlo da parte a parte con la potenza di una trivella.

«Ah, eccoti qua!»

Ferid sussultò e guardò l'infermiera, Dalila, guardarlo come se avesse trovato un monellaccio mentre scavalcava una finestra per scappare da una noiosa punizione.

«Pensavi che bastasse non farti trovare in stanza per evitare gli esami? Vieni di sotto, avanti, facciamo il prelievo e controlliamo la pressione e i punti.»

«Devo proprio? Guarda che il sangue è roba preziosa per me!»

«Lo è per tutti, cosa credi? Niente bambinate, sii uomo!»

«Ha ragione, sai? Sei un eroe adesso, non puoi farti spaventare da queste sciocchezze.»

«Il dottore ha ordinato gli esami anche a lei, detective, per controllare che lo stress di ieri non abbia dato fastidio al suo cuore.»

A Ferid parve che il viso di Crowley, anche se non aveva cambiato espressione, fosse diventato leggermente più pallido mentre masticava il suo sandwich con una mestizia che prima non c’era.

 

 

Crowley sospirò profondamente e non aprì gli occhi nemmeno quando gli venne tolto il laccio dal bicipite.

«Ecco fatto, ci voleva tanto, detective? Tenga premuto un po' per fermare il sangue.»

Crowley obbedì e aprì gli occhi, senza guardare altro che il soffitto: voleva evitare il contatto visivo con tubi e fialette a ogni costo. Aspettò di sentire l'infermiera portare via il suo macabro carico, ma prima che arrivasse apparve il viso di Ferid nel suo campo visivo. Fin troppo vicino.

«Ti stiamo perdendo, detective? Sono bravissimo con la respirazione bocca a bocca, se serve~»

«Mah, per come sono messo probabilmente mi saresti più utile se conoscessi la tecnica per il massaggio cardiaco.»

Crowley si sollevò lentamente a sedere e si guardò intorno, scoprendo che non c'era più traccia di Dalila e delle sue fiale. Fu sollevato da questo, ma non si era reso conto di ciò che aveva appena detto. Poi colse la preoccupazione dei tratti di Ferid mentre lo guardava.

«Il tuo cuore è così delicato, ora?»

«No, in verità, ma i medici sembrano convinti che un forte stress potrebbe in qualche modo… come dicono? Comprometterne la funzionalità.»

«Quindi hai il cuore delicato, dopo l'intervento…»

«Sono i dottori che hanno il cuore delicato e si preoccupano troppo. Non farlo anche tu, Ferid, io sto benissimo.»

Crowley notò subito che la sua espressione restava impensierita anche con quel sorrisetto sulle labbra.

«Beh, tu dove sei sparito? Non ti avevo detto di non scappare dalla scorta?»

«Non sono scappato, mi sono fatto accompagnare da Dante in un posto qui vicino.»

«Un posto?»

Notò solo allora che Ferid teneva in mano un libro che non era il vecchio, logoro tascabile di prima: a occhio era dello stesso formato ma con molte più pagine, con il dorso di un rosa più acceso e le pagine bianchissime tipiche di una stampa nuova.

«Non ci posso credere, sei andato a comprarti un libro?»

«Non è per me.»

«Posso vederlo?»

Ferid glielo passò senza esitare. Sulla copertina c'era una bella illustrazione a pastello che ritraeva una figura di donna bionda con dei fiori rossi che sbocciavano dalla gola e un cuore luminoso tra le mani. Il titolo, in rilievo e in lettere dorate, era L'angelo senza voce.

«Una scelta piuttosto peculiare viste le condizioni di Samara…»

«L'ho comprato apposta. È la storia vera di una giovane donna olandese, una corista, che diversi anni fa fu rapita da un uomo che si era sentito respinto da lei e che per vendetta le tagliò la gola. Lei è sopravvissuta ma ha perso la voce per sempre… e in quel libro racconta come è arrivata a ricostruire la sua vita pur avendo perso il suo dono più grande.»

Crowley sfogliò qualche pagina e poi guardò il retro della copertina, che in breve accennava alla storia che aveva appena sentito.

«Pensi che aiuterà Samara a… imparare a vivere senza la sua voce?»

«Ho imparato qualcosa da questo libro persino io, e la mia voce come ben sai è ancora perfettamente funzionante~»

Crowley ormai lo conosceva a sufficienza: il suo tono finto allegro non serviva ad altro che a mettergli una maschera, a nascondere le emozioni che potevano trasparirgli dalla voce. Sapeva lo stesso che cosa stava celando.

«Ti senti in colpa, Ferid?»

Guardò Ferid negli occhi e lui non cercò di sfuggirgli. Riprese il libro dalle sue mani.

«Come potrei non pensare che ho un ruolo in tutto questo? Se non avessi queste sciocche manie… se mi fossi reso conto prima di essere spiato… se mi fossi preso una sera per accendere il televisore e riconoscere i bambini al telegiornale… Samara non avrebbe avuto bisogno di qualcuno che la salvasse. Né di imparare a vivere senza poter più parlare.»

«Non. È. Colpa. Tua.» scandì Crowley. «Non devi dirlo. È il Vampiro ad avere la colpa di questo.»

«Non è colpa tua nemmeno l'essere sopravvissuto ai tuoi colleghi, ma tu l'hai pensato.»

«Cosa… come lo sai? Chi te l'ha detto?»

Mentre il suo pensiero correva rapido da De Stasio all’improbabile coinvolgimento di Horn Skuld in quella rivelazione, Ferid scosse lentamente la testa.

«I tuoi occhi me lo dicono, detective… ogni volta che si posano su una scrivania del vostro ufficio… quelle dei tuoi colleghi. Quella accanto alla tua, per esempio, di chi era? La guardi spesso.»

Un dolore al petto che identificava più con l'anima che con il muscolo cardiaco si riacutizzò per qualche istante. Pensare a George era sempre doloroso, nonostante il tempo passasse. Non voleva che qualcuno a parte Dio sapesse come si sentiva a pezzi dentro e aprì la bocca per mentire; per minimizzare quello che Ferid credeva di aver visto… ma non ci riuscì.

Era troppo importante per me… dire che non soffro per lui è come calpestare la sua memoria.

«Era… la scrivania del mio amico George… siamo cresciuti insieme. Siamo stati sempre insieme da quando eravamo neonati, non ci siamo davvero separati neanche quando sono andato a vivere dai miei nonni in un altro stato. Credevo che saremmo rimasti insieme fino alla pensione e anche dopo… che i nostri figli sarebbero stati amici come noi due.»

Rompere quel silenzio fu liberatorio e doloroso. Nel suo torace sembravano mescolarsi la sofferenza della sua perdita e la gioia di poterlo ricordare, di poter raccontare di George a qualcuno che non aveva avuto la fortuna di conoscerlo. Qualcuno che ascoltava con attenzione.

«Una volta per scherzare gli ho detto che i nostri figli probabilmente si sarebbero sposati e saremmo diventati consuoceri… ora mi rendo conto di quanto mi sarebbe piaciuto alzarmi una mattina e scoprire che stava succedendo davvero.»

«Ma non sei stato tu a decidere che non accadrà mai. Come vedi… sappiamo entrambi che non è stata una nostra scelta, ma non possiamo fare a meno di tormentarci comunque.»

Crowley serrò il pugno. Per la maggior parte del tempo riusciva a distrarsi, a vivere come se non fosse successo nulla e a relegare i suoi sensi di colpa e il suo dolore nel momento della preghiera. A volte invece arrivava all'improvviso quell'ondata di dolore che sommergeva tutto e nella quale si sentiva affogare.

La mano di Ferid strinse leggermente il suo braccio all’altezza del gomito.

«So come ci si sente a perdere qualcuno di importante… e so che la sola cosa che si può fare è resistere aggrappandosi a quei progetti che sono ancora realizzabili. I tuoi figli non ti legheranno più a George, ma sei ancora in tempo per vedere i tuoi figli nascere, crescere, sposarsi e legarti a qualche altro tuo amico. Farti diventare anche nonno, forse. Non è abbastanza?»

Crowley abbassò lo sguardo e lo puntò sulle piastrelle, intrecciando le dita come in preghiera davanti alla bocca. La vista si stava appannando a quei pensieri come macigni enormi sul cuore.

«Io vado da Samara… dopo… possiamo andare a casa?»

Crowley annuì appena. Sentì le dita di Ferid passargli tra i capelli per un istante e poi lasciarlo; sentì i suoi passi uscire dalla stanza e rimase solo. Soltanto lui, un Dio che sentiva distante, un germoglio di speranza in un futuro che ripagasse tanto dolore e una paura strisciante che succedesse qualcosa che lo avrebbe ucciso come una gelata.

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Capitolo 11
*** Celeste come gli dei ***


Ferid chiuse il libro che aveva appena finito di leggere e lo posò con noncuranza sul tavolino con un sospiro. Continuò a fissare i bracci del lampadario del soggiorno come intontito finché il suo gatto chocolate point non gli saltò sulla pancia acciambellandovisi come fosse un cuscino qualsiasi. Alzò la mano sinistra e l'accarezzò.

«Che noia, Baudelaire. L'avresti mai detto che tre giorni di riposo avrebbero potuto essere tanto noiosi?»

Naturalmente il gatto non rispose in nessun modo alle parole del padrone se non facendo rumorose fusa per dirgli che gradiva le sue coccole.

«Beh, è un buon momento per togliere le lenti a contatto.» disse Ferid all'indirizzo di se stesso, sentendosi gli occhi un po' asciutti. «Dai, ora spostati, ciccione. Vai a dormire sulla poltrona.»

Il gatto non fu felice di essere spodestato e puntò gli intensi occhi verdi su di lui come a chiedergli come aveva osato farlo, ma Ferid non lo stava guardando, tutto perso in un ampio sbadiglio. Non si era ancora alzato quando sentì il battacchio dare due colpi. Fissò la porta con lo stesso stupore che avrebbe avuto se si fosse ritrovato un orso nel salotto.

Chi diavolo è a quest'ora? Un altro cambio di scorta?

Da tre giorni una pattuglia lo seguiva ovunque, o più precisamente stazionava in incognito davanti a casa sua visto che Krul gli aveva intimato di non farsi rivedere fino a mercoledì per osservare il periodo di riposo che il medico gli aveva prescritto. Dopo un certo tempo cambiavano turno e glielo comunicavano per telefono o con una finta consegna di posta, ma erano passate appena due ore dall'ultimo cambio. Si chiese se non avessero visto qualcosa di anomalo e con questo pensiero vagamente preoccupante andò ad aprire.

«Ehi, Ferid!»

«Tratta il signor Trobiano con rispetto o ti apro un buco nello stomaco!»

«Cyrus, ma che cosa stai facendo?»

Cyrus, il suo affittuario del negozio sottostante, stava infatti puntando il suo vecchio fucile contro Crowley che ne sembrava molto divertito e stava con le mani sollevate pur tenendo delle buste di carta. L'ometto lo fissava come avesse catturato una spia russa.

«Signore, questo individuo si è avvicinato alla vostra proprietà con fare sospetto!»

«Cosa ho fatto di sospetto? Ho respirato?»

«Ridi, ridi… riderai di meno da morto!»

«Cyrus… Cyrus, grazie davvero della tua premura, ma non c'è bisogno di quel fucile.» si affrettò a chiarire Ferid. «È il detective Eusford di Satbury, non corro nessun pericolo…»

«Che cosa fa qui a quest'ora di sera?»

Gli occhi blu di Crowley mandarono un curioso scintillio, come se non avesse aspettato altro che un appiglio per punzecchiare oltre un uomo che gli puntava contro un fucile da caccia.

«Non è che siano affari tuoi chi il signor Trobiano si porti in casa di notte, sai?»

«Zitto!»

Ferid si schiarì la gola e scoccò uno sguardo all'uomo che in verità non amava usare, ma che funzionava molto bene su di lui. Con un gesto solo apparentemente inconscio si passò il dito sul collo e finse di sistemarsi l'orecchino.

«Non voglio ripetermi: i tuoi servigi non sono richiesti. Il detective Eusford è venuto ad aggiornarmi sul caso dato che non posso ancora uscire.» gli disse con un tono molto freddo. «È molto tardi e tu dovresti essere già a casa. Buonanotte, Cyrus.»

«Io… siete sicuro che starete bene, signore?»

«Sono sicuro.»

«Beh… se è così… buonanotte, signor Trobiano. Perdonatemi per questo equivoco…»

Cyrus lanciò un'occhiata mortifera a Crowley, poi imbracciò il fucile come fosse una guardia imperiale e scese le scale. Ferid sospirò mentre il detective abbassava le braccia e lo guardava incuriosito.

«Caspita, Ferid, ti tratta come se fossi un re!»

«Sì, più o meno…»

«E perché?»

«Vorrei poter dire che sono il re del suo cuore, ma lo fa solo perché sono il padrone di casa.» ammise lui, e si spostò per lasciarlo entrare. «Gli do in affitto il negozio qui sotto da dodici anni allo stesso canone, per questo si è auto-eletto cavaliere del mio regno. Probabilmente, se fossimo in pericolo io e sua moglie, proteggerebbe me.»

«Oh… quindi stai cercando di conquistarlo?»

«Eh?»

«Hai detto che vorresti essere il re del suo cuore, un attimo fa.» gli fece notare Crowley, appoggiando le buste sul primo mobiletto sgombro. «Vuol dire che ti piace?»

Cyrus era molto, molto lontano dalle mire di Ferid e non era altro che un equivoco dovuto a come si era espresso, ma invece di negarlo prontamente sorrise dandosi un tono malizioso e gli si avvicinò abbastanza per mettere le mani sulle sue robuste spalle.

«Se ti dicessi di sì, saresti geloso?»

Mi sono accorto solo ora che io e Krul usiamo le stesse tattiche. Che imbarazzo.

«Sarei solo molto sorpreso, dato che siamo uomini estremamente diversi.»

«Oh, credimi, questo si vede molto bene~»

«Voglio sperare che sia vero.» disse lui, e toccò la busta. «Sono venuto a portarti i tuoi effetti personali, il laboratorio ha controllato quello che doveva… i tuoi vestiti però sono un po' malridotti, non credo che vorrai tenerli.»

«Probabilmente.»

Ferid frugò nella busta più grande e bastò poco per rendersi conto che il suo completo verde malachite era bello che andato: gli strappi nel tessuto erano tali e tanti che sia pantaloni che camicia erano insalvabili e il suo pagliaccetto era talmente intriso di fango e sangue secchi che stava rigido come fosse fatto di cartapesta. Anche le sue scarpe erano rovinate e sentì una fitta di dolore; gli piacevano davvero tanto.

Fece per prendere la busta piccola e si accorse che Crowley lo stava guardando con una certa concentrazione in un angolo al di sotto del suo volto. Sorrise più ampiamente.

«Oh, detective, se non smetti di fissarmi così mi scivolerà via di dosso la vestaglia~ dimmi, ti piace?»

«Sì, molto.» disse lui con sua sorpresa. «Il blu ti sta proprio bene, davvero.»

Allungò la mano per toccare il bordo della manica larga e lo tese per studiare il disegno di pavoni e fiori di pesco.

«È seta 100% dipinta a mano.» osservò il detective, mentre i suoi occhi scorrevano la manica. «I pavoni sono tutti diversi.»

«Occhio fino e mani delicate, detective~»

«Hai addosso proprio una cosetta di lusso, Ferid… beh, anche tutt'intorno hai delle cosette di lusso.» continuò lui, facendo qualche passo nel salotto. «Mobili antichi, tappeto iraniano fatto a mano… ti tratti proprio bene.»

Si è accorto che il tappeto è fatto a mano? Dubito che persino un antiquario nella media se ne accorgerebbe a una sola occhiata.

«Ah, tu devi essere Pandora!»

Crowley si chinò, prese il gatto che gli era andato incontro facendo le fusa e gli grattò la testa. Baudelaire fece più fusa che mai.

«Ah, tu sei una gatta che mi piace.»

«No, lui è un gatto. È Baudelaire.» lo corresse Ferid, e indicò la gatta squama di tartaruga che lo fissava dalla poltrona. «Quella lì è Pandora.»

«Oh, ne hai due… o ce ne sono altri?»

«No, loro due, sono già abbastanza impegnativi, credimi.»

Il poliziotto grattò le orecchie marroni del micio guardandosi intorno con palesi curiosità e sorpresa.

«Hai proprio una casa accogliente, Ferid. Dico sul serio. Già che sono qui ti dispiace farmi vedere dove tieni i tuoi diari? A proposito, te l'ho riportato, l'ho messo nella busta piccola.»

«Fai come se fossi a casa tua, detective… guarda pure in giro dove vuoi. I miei diari sono nello studio, quella porta lì.»

Gliela indicò, ma Crowley sembrava titubante.

«Davvero posso guardare in giro? Non sono qui in veste ufficiale, dopotutto.»

«Per questo puoi fare tutto quello che vuoi… ti posso offrire qualcosa? Un bicchiere di vino? Un goccio di sherry?»

«Meglio di no, devo guidare per tornare a casa.»

«Un po' di caffè, allora?»

«Oh… beh, perché no. Grazie.»

Ferid sorrise e andò in cucina, lasciando che il poliziotto girasse per casa con il gatto in braccio. Mise a fare del caffè nella sua piccola macchina e gettò la busta dei suoi vestiti rovinati direttamente nella pattumiera. Attese lì che il detective finisse il suo giro nelle stanze e nel frattempo aprì la busta più piccola. Rimise subito al polso l'orologio d'oro e infilò l'anello con la pietra rossa.

Ah… ora va molto meglio.

«Ferid!» esclamò Crowley entrando, strappandogli un leggero sobbalzo. «Il tuo bagno è bellissimo, sembra quello di un grand hotel!»

«Oh, se la mia casa ti piace così tanto potresti trasferirtici.»

«È in vendita?»

«Non proprio, ma fa parte del pacchetto completo~»

Crowley studiò il mobilio della cucina e il pavimento in cotto italiano.

«Ora capisco perché non porti gli amanti a casa, se la vedessero cercherebbero di sposarti anche solo per questa.»

«Tu lo faresti?»

«Scherzi? Se non lavorassi a Satbury io potrei uccidere per una casa del genere!» disse Crowley a sorpresa. «Anche se probabilmente sarebbe sprecata per uno come me… lavoro quasi tutto il giorno e non sono proprio il tipo di persona che ti aspetteresti abbia una casa come questa… beh, d'altronde, quel tipo di persona sei tu alla grande. Tu potresti sembrare un qualche conte, duca o simile e vivere in una villa o in un castello.»

Improvvisamente Ferid si sentì la bocca asciutta. Senza rispondere si alzò e piazzò sul fornello il suo bollitore: da buon inglese, non era mai un momento inopportuno per una tazza di tè.

«Oh, ma guarda… questo è tuo padre, Ferid?»

Ferid si voltò verso il soggiorno ma non riusciva più a vedere il detective, pertanto attraversò il corridoio e si affacciò sul salottino: era in piedi vicino alla finestra e teneva in mano la cornice con la fotografia che immortalava lui e Claude durante l'ultimo compleanno festeggiato insieme.

Sembra che il tempo del silenzio sia ormai finito.

«Oh, no. Quello è Claude, mio marito.»

Ferid non poté in nessun modo celare il divertimento mentre guardava l'espressione attonita di Crowley, che dopo un lungo silenzio passò da lui alla foto più volte. Poi l'indicò con il dito.

«Questo è tuo marito?»

«Lo era, il mio povero marito si è spento molto tempo fa.»

«Tu… tu sei stato sposato?»

«Sì, ma non è stato per molto… in verità siamo stati sposati per otto mesi, circa. Ci siamo sposati in dicembre e Claude se n'è andato l'anno dopo, in agosto.»

«Ah… mi… mi dispiace molto, Ferid.»

«Grazie, ma non serve fare quella faccina triste, sai? Come ho detto, se n'è andato da tanto tempo. Sono andato avanti e non mi rende triste parlare di lui. Sai… quando il dolore si attenua rimangono solo i ricordi belli, e io e Claude siamo stati felici nel nostro poco tempo insieme.»

Già… quando è stato che ho ricominciato a sorridere pensando a te? Non riesco più a ricordarlo.

Ferid prese la fotografia e sorrise, come ormai era automatico, quando vide il suo viso dall'aria gentile. Rimise la cornice a posto con la parvenza di una carezza sul vetro.

È buffo… sembra che in qualche modo te l'abbia fatto conoscere, l'uomo di cui ti ho parlato.

«Ti posso chiedere com'è successo?»

Lui annuì, senza smettere di sorridere. Non era mai riuscito a parlare con nessuno del suo matrimonio e del suo lutto, con la poca confidenza che aveva con i suoi cosiddetti amici.

«Vivevamo già insieme da un anno, più o meno, quando ci siamo sposati… Claude aveva già sconfitto il cancro una volta, prima che ci conoscessimo, ma poi quello è tornato… e stavolta se l'è portato via. Non c'è stato nulla da fare, lo ha spento in pochi mesi.»

«Dev'essere stata molto dura per te. Mi dispiace davvero tanto, Ferid, credimi.»

Ferid emise una risatina sommessa e gli accarezzò il viso.

«Come potrei non crederci, se mi guardi con quegli occhioni tristi? Su, non voglio che tu sia triste in casa mia~»

Un segnale doppio avvisò che il caffè era pronto, il bollitore stava emettendo il consueto rumore di quando l'acqua stava per bollire. Ferid passò l'indice sulle labbra del detective.

«Niente più argomenti deprimenti per stasera, okay? Siediti, ti porto il caffè.»

Ferid tornò in cucina, versò il caffè in una tazza di porcellana inglese dipinta di rosso cremisi e oro e riempì la sua tisaniera di acqua bollente per il consueto infuso rosso intenso. Quando tornò in soggiorno vide Crowley sdraiato sulla chaise-longue: si era davvero messo comodo come fosse casa sua.

«Ah, quant'è comodo, ne voglio uno uguale!»

«Oh, se hai dodici… diciamo, diecimila dollari ti trovo io qualcuno che te lo venda~»

«Dodicimila dollari, sul serio?!» fece Crowley, e guardò lo schienale imbottito prima di ridere. «Incredibile! Tu vai davvero pazzo per le cose belle ed eleganti, non capisco che cosa pensavi di fartene di un poveraccio bifolco come me!»

Ferid posò le due tazze sul tavolino. Esitò meno di un secondo, poi appoggiò il ginocchio sul velluto e si mise a cavalcioni sugli invidiabili addominali del detective, che come tutto il resto si irrigidirono all'istante. La sua faccia diceva chiaramente che si era reso conto di quanto si fosse scoperto ingenuamente.

Ferid sorrise sentendosi come non gli capitava da parecchio: come un leone che affonda i denti nel collo di un succulento erbivoro.

«Se vuoi te lo mostro, quello che penso di farmene di uno come te…»

«Ehm, no, grazie, penso di averlo appena capito.»

«Sei sempre così timido, detective Eusford?» gli chiese divertito, tirando lentamente il nastro infiocchettato che chiudeva la vestaglia. «Bisogna sempre assediarti in questo modo per averti?»

«No, io di solito… Ferid, non sei nudo sotto la vestaglia, vero?»

«Stai per scoprirlo~»

«No, fermati, time out

Crowley gli afferrò la mano per impedirgli di slacciare la vestaglia.

«Ferid, io non mi spiego perché tu impazzisca in questo modo quando mi vedi e credimi che mi sorprende e mi lusinga quasi uguale, ma davvero, non posso farlo.»

Guardò gli occhi blu per diversi secondi in silenzio, cercando di capire che cosa nascondesse, ma non ci riuscì. Il suo sorriso si indebolì un po' mentre si avvicinava al suo viso.

«Cosa non va? C'è qualcun altro o sono un po' troppo per te?»

Certo che sei troppo, Ferid. Sei troppo strano per chiunque. Troppo complicato. Troppo difficile per qualcuno come lui… troppo persino per uno uguale a te, se mai esistesse.

«Sono impegnato, Ferid… sto… uscendo con Horn.»

«Horn? Horn Skuld, la donna bionda che ho visto in centrale?»

«Sì, lei.»

Ah, la fedeltà… quest'uomo è così prezioso…

Passò la mano sul suo viso e fu quasi doloroso trattenere lo smodato desiderio di baciare le sue labbra, che erano così vicine.

«Dimmi… cambieresti idea se ti dicessi che acconsento a mantenere segreto quello che succederà qui stasera?»

«No, Ferid. Perché lei non si merita di essere tradita e neanche tu meriti di essere usato.»

Così prezioso… fin troppo prezioso per finire nelle mie mani.

«Capisco…»

Ferid sorrise più convinto e si alzò dal divanetto, sistemandosi la vestaglia ben chiusa.

«Perdonami, detective. Ti avevo giudicato male, non succederà più~»

«Ferid…»

«Sì?»

Si chinò per prendere la tazza e si sedette sulla poltrona, annusando il profumo di frutti che saliva dal liquido rosso scuro. Si sentiva stranamente tranquillo dopo un rifiuto tanto netto dall'uomo che sognava da mesi. Non sentiva dolore e quella novità lo spiazzava, anche se continuava a sorridere. Lo guardò sollevarsi e mettersi seduto, scrutandolo come se dovesse svenire a momenti.

«Se posso darti un consiglio senza che tu la prenda male… smettila di fare così.»

«Così come, detective?»

«Di proporti come se fossi un prodotto in prova per trenta giorni e reso gratuito. Tu sei veramente un uomo speciale. Non ti devi accontentare di qualsiasi uomo ti dia uno straccio di attenzione… né di uno che ti fa il favore di trovare una notte o due per te.»

Restò interdetto da simili parole perché l'ultima volta che le aveva sentite era stato dodici anni prima, ma la maschera sorridente resse il colpo senza intaccarsi.

«Terrò in considerazione la tua gentile osservazione, detective Eusford, grazie.»

«D'accordo… allora io… ti chiamo se abbiamo delle novità.»

«Non bevi il tuo caffè? Non ci ho messo un filtro d'amore dentro, lo giuro. A proposito, se mai le cose con la signorina Skuld non dovessero andare più che felicemente al Magick ne vendiamo, una dose per ventidue dollari.»

«Non ti mette a disagio che io resti dopo quello che è appena successo?»

«E che cosa è successo? Non mi sono accorto di nulla di inusuale~»

Crowley lo guardò per qualche altro attimo, poi tese un sorriso e prese la tazza del caffè.

«D'accordo, facciamo a modo tuo… mh, ha un ottimo profumo questo caffè.»

«Ventidue dollari anche quello.»

«Ventidue? Ma che diavolo… c'è qualcosa che non costi un occhio dentro questa casa?»

«Tu, detective… sembra che tu non abbia prezzo~» osservò in tono leggero Ferid. «E questa tisana. Costa meno di un dollaro a scatola, ma inspiegabilmente non riesco a fare a meno di questo intruglio al melograno e pesca.»

Parlarono qualche altro minuto di infusi di frutta e di un disgustoso tonico cinese che Crowley si era costretto a ingurgitare per qualche mese l'anno precedente nella speranza di trarne qualche giovamento fisico, poi il caffè finì e il poliziotto si alzò congedandosi dal suo ospite. Ferid l'accompagnò alla porta per poterla richiudere con la sicura come di consueto.

«Ah… c'è una cosa che volevo chiederti… quello.» disse lui sulla porta, guardando il suo orologio d'oro. «Di solito si regalano orologi del genere a chi va in pensione… pensavo fosse di tuo padre, ma immagino che fosse…»

«Sì. Apparteneva a Claude. Lo toglieva solo per fare il bagno, lo ha sempre portato da quando glielo hanno regalato… fino a pochi giorni prima che morisse, quando lo ha passato a me. Mi fa pensare a lui, quindi lo porto sempre anch'io.»

«Anche l'anello è suo? Sembra antico.»

«Ti racconterò questa storia la prossima volta che verrai a trovarmi~»

Crowley sorrise e uscì sul balconcino.

«Tornerò, lo prometto. Si sta bene sul tuo divano.»

«La prossima volta resta a dormirci, così posso offrirti un bicchiere di quel vino~»

«Non ci penso nemmeno, chissà quanto costa…» fece lui fingendo preoccupazione, e rise divertito. «Buonanotte, Ferid. Se dovessi aver bisogno di qualcosa…»

«Non dirlo, detective, o ti chiamerò per uccidere i mostri sotto il mio letto… ogni sera.» l'ammonì con un sorriso provocatorio. «Buonanotte.»

Chiuse la porta, chiuse il chiavistello e vi appoggiò la fronte sospirando. Pandora si strusciò contro la sua gamba tenendo ben dritta la coda simile a uno spolverino.

«C'è mancato poco, eh, Pandora? Per un secondo ho pensato di riuscirci… ma dopotutto è meglio così.» sentenziò, e prese la gatta per tornare in soggiorno. «Devono essere i miei nei, ogni volta che li faccio vedere a qualcuno quello decide di piantarmi, quindi… BAUDELAIRE!»

Il gatto non scosse nemmeno l'orecchio e continuò a leccare la tisana dentro la tazza finché Ferid non lo spinse giù dal tavolino.

«Stupido felino obeso, devi assaggiare anche la tisana?! Se continui così ti faccio mettere un palloncino gastrico, non m'importa quanto costerà! Pss, via, via!»

Baudelaire abbandonò con riluttanza la tazza e continuò a guardarla leccandosi i baffi mentre Ferid la riportava in cucina.

«Ah, non credere che te la darò. Non la berrò io, ma non l'avrai nemmeno tu, mio subdolo amico.»

E ne avevo bevuti appena due sorsi mentre parlavo con il detective…

Ferid svuotò la tazza nel lavandino, ma non aveva voglia di prepararsene dell'altra, perciò andò in bagno e prese a far scorrere l'acqua per riempire la vasca. In quei pochi minuti rivide nella sua mente i momenti da poco passati, quanto era stato emozionante arrivare tanto vicino all'oggetto del suo desiderio e quanto frustrante non essere in grado di conquistarlo… e alle sue parole. Parole gentili che non era abituato a sentire rivolte a lui.

Tolse l'orologio e lo posò sul ripiano di marmo, poi si sfilò la vestaglia e si immerse nella vasca da bagno. L'acqua era così calda da bruciare leggermente sulla pelle; una sensazione che gli piaceva moltissimo. Sprofondò fino al naso e chiuse gli occhi.

Non posso credere che esista un altro uomo che vede in me quello che vedeva Claude… dopo tanto tempo pensavo veramente che non fosse possibile.

Ferid si raddrizzò e si passò le mani sul viso per sciacquarselo, perché sentiva formicolio intorno alla bocca. Aprì e chiuse più volte le dita, rimpiangendo di aver dimenticato di mettere un disco prima di mettersi nella vasca. Rimuginò su cose casuali, come qualche voce da mettere nella lista della spesa o su quale sito avesse comprato gli stivali che si era rovinato nel bosco, poi si guardò le mani, incapace di sopportarne il fastidio più a lungo.

Perché sono così intorpidite? Di solito formicolano un po' per l'acqua calda, ma sono così… insensibili… che diavolo succede?

In effetti quando cercò di afferrare una bottiglia di balsamo non percepì quasi per niente il motivo scanalato sulla superficie. Cercò di massaggiarsi le dita, ma la sensazione di formicolio salì rapidamente verso i gomiti e dai piedi verso le ginocchia. Diede un colpo di tosse, tentò di uscire dalla vasca prima di ritrovarsi le gambe come addormentate ma venne interrotto da un violento e improvviso conato. Ne seguì un altro altrettanto prepotente, ma non rigettò niente.

Ma che cosa diavolo ho?

Si aggrappò al bordo della vasca con mani che non gli restituivano alcuna percezione se non del formicolio, riuscì a mettersi in ginocchio, seppure anche quelle fossero come scomparse, ma non poteva mettersi in piedi. Ebbe un altro conato e quando si riprese cercò con gli occhi un appiglio che lo aiutasse ad alzarsi, ma anche quelli sembravano stare abbandonandolo e se li strofinò per snebbiarsi la vista, senza successo.

A dispetto dell'angoscia che gli cresceva dentro rapidamente il battito sembrava rallentare, come se stesse per addormentarsi, così come il respiro era inspiegabilmente lento. Aveva la sensazione che il cervello stesse spegnendo a compartimenti tutto il suo corpo, senza aver però interrotto i pensieri. Non capiva che cosa gli stesse accadendo ma non gli piaceva affatto.

Devo arrivare in soggiorno… devo arrivare al telefono.

Allungò le mani sul pavimento per cercare di strisciare fuori dalla vasca con il minimo rischio di subire danni ad arti che non sentiva come suoi e che erano stranamente rigidi. Si fermò a causa di altri conati di eccezionale intensità e quando si calmarono di nuovo si chiese se non fosse uno strano sogno: gli sembrava di essere perfettamente lucido e sveglio, ma con il corpo che non rispondeva ai comandi e le forze che gli venivano meno. Qualsiasi cosa avesse letto riguardo il campo medico al momento non lo aiutava a capire né a trovare un modo di chiamare aiuto.

Sentì la propria voce come da una distanza chilometrica pronunciare parole che era ben consapevole avrebbero sentito solo due gatti nella stanza accanto e si toccò il ventre quando un altro conato si presentò. Anche se era appena uscito dalla vasca gli sembrava di bruciare più di quando ci si era infilato.

Sto per morire? Ma perché… di che cosa? Cosa mi sta succedendo, così all'improvviso?

La sensazione di calore, intorpidimento e formicolio era ormai in tutto il corpo, non vedeva quasi niente, come se avesse inforcato degli occhiali completamente appannati dal vapore. Non riusciva nemmeno a capire come potesse sentirsi tanto male ed essere così consapevole di come il battito del cuore rallentava.

Una vaga sensazione di freddo sulle braccia e i colori sfocati che cambiavano furono i suoi indizi che qualcosa stava succedendo, poi da molto distante, ovattata come se fosse sotto il mare, udì una voce che gli sembrò di conoscere, o almeno sperò di aver riconosciuto.

Cosa fa il detective Eusford ancora qui? È davvero qui? Non capisco… non capisco, non posso sentirlo con nessun senso! Non sento niente!

Tentò di forzare la voce, ma non udendo quasi nulla non sapeva se aveva davvero detto quello che pensava. Restò in quello stato per un tempo esageratamente lungo, a lui parvero come ore, in cui alcuni colori si avvicendavano incomprensibili davanti ai suoi occhi, voci e suoni come di un altro mondo che non avevano alcun senso comprensibile, sensazioni che gli facevano sperare che qualcuno lo stesse spostando per portarlo via, e come unica certezza la sensazione di stare bruciando da dentro e altri violenti conati.

Questo dev'essere l'inferno… se non lo è, allora mandatemi lì… subito!

 

 

Crowley iniziava ad avere male alla schiena e si girò di nuovo sul fianco sulla brandina, appoggiando il libro aperto sulla gamba.

«Ferid… dormi ancora?»

La sola cosa che sentì in risposta fu il segnale regolare del monitor che controllava il suo battito cardiaco. Crowley si alzò, dolorante in vari punti, e si avvicinò al suo letto. Ferid continuava a dormire sotto una coperta termica che serviva a mantenere la temperatura che a un certo punto era crollata; reazione normale di un avvelenamento da aconito, secondo quanto gli aveva riferito il medico.

Crowley non aveva mai assistito una persona in ospedale per qualcosa di grave: quando era ragazzo suo padre era andato in ospedale per subire un'appendicectomia, un paio di volte c'era finito un suo collega per una lussazione o una ferita superficiale da taglio. Tutta lì la sua esperienza nell'attendere il mattino nella corsia di un ospedale, nel resistere alla corrosione mentale della paura e nell'avere fede senza avere un ruolo attivo in una situazione difficile.

Si chinò sul letto osservando quel volto tranquillo. Anche se non era sveglio era lo stesso un sollievo vederlo così, dopo aver assistito a quella sua terribile condizione la sera precedente. Lo aveva sentito ribollire di febbre altissima, irrigidirsi come un manichino e sussultare come in una crisi epilettica, tentare di rigettare il veleno che aveva in corpo e quei pochi minuti prima che arrivassero i soccorsi gli erano sembrati ore; lì, senza poter fare nulla.

«Ormai è mattina.» gli disse piano. «Vado a prendere del caffè e torno subito, okay?»

Diede una leggera stretta alla sua spalla, rimboccò la coperta fino al collo e lasciò la stanza.

È così stressante… non posso pensare a cosa dev'essere stato assistere suo marito mentre moriva di cancro.

Non riusciva davvero a togliersi dalla testa quell'idea durante quella notte. Sì, suo padre aveva il diabete a uno stadio mediamente avanzato, ma le preoccupazioni che gli dava non erano neanche paragonabili a quelle che aveva avuto nelle ultime otto ore, che a loro volta dovevano essere una frazione infinitesimale di quelle che aveva affrontato Ferid.

«Crowley, sei ancora qui?»

Sussultò leggermente per lo spavento: assorto nei suoi pensieri e intontito dalla stanchezza non si era affatto accorto dei passi di De Stasio verso di lui. Si massaggiò la spalla sospirando.

«Ferid non si è ancora svegliato.»

«È fuori pericolo?»

«Sì, sembra sia passato del tutto… ma finché non si sveglia non sanno se ha riportato danni permanenti.»

Seguì un breve silenzio interrotto solo dal suono leggero dei tasti del distributore e dal sommesso rumore del caffè versato nel bicchiere di carta.

«Capisco. Quindi è stato l'aconito?»

«Sembra di sì… lo hanno curato per questo. I risultati saranno pronti doman… ah… stamattina.»

«Ora dovresti andare a casa e riposarti un po', Crowley.»

«Non vado da nessuna parte finché non sono sicuro che starà bene.»

Crowley sorseggiò il caffè del distributore, il cui solo pregio era l'essere ben caldo. Si mise a guardare le bottiglie d'acqua allineate dietro il vetro della macchina adiacente.

Dovrei prendere dell'acqua per Ferid. Ha le labbra secche, avrà sete quando si sveglia.

Si frugò le tasche ma non trovò altre monete, così infilò la carta di credito per comprare alcune bottigliette di acqua. De Stasio attese in silenzio per un po', pagò un caffè per sé e ne offrì un secondo al collega, che non esitò ad accettarlo. Anche se sapeva che significava che una discussione difficile era dietro l’angolo.

«Dev'essere stata dura, ieri sera. Ho letto la dichiarazione che hai sottoscritto.»

«Sì… pensavo di resistere meglio allo stress, facendo parte della squadra omicidi.»

«Non è il tipo di cosa al quale questo lavoro ti prepara… essere presente mentre una persona cara ti sta forse morendo tra le braccia.»

Eccolo di nuovo, il tono cauto che De Stasio sfoggiava quando era pronto ad analizzare la reazione di qualcuno. Lo stava studiando e non capiva perché sentisse la necessità di farlo.

«Che cosa vuoi dire con questo?»

«Non cercherai di negare che lui ti piace, vero? Ormai è evidente.»

«Piace anche a te, ormai è evidente.»

«Non mi piace così tanto.» rispose De Stasio in tono leggero. «Ma lascia che te lo dica, Crowley… il capitano non è stato felice di leggere la dichiarazione, è a tanto così dal toglierti il caso.»

«Che cosa? Che diavolo stai dicendo?»

«Ha lasciato correre per la scarsità di personale dopo l'agguato e ti ha affidato il caso nonostante tu fossi intimamente coinvolto con tutti i tuoi colleghi uccisi… ma adesso crede che tu non sia più in grado di agire professionalmente.»

Se aveva pensato di superare il vaglio di De Stasio mantenendo la calma e ascoltandolo appena, era ormai evidente che la sua strategia non era più applicabile.

«Che cosa ho fatto di sbagliato? Se mi viene tolto un caso voglio avere ben chiaro il motivo!»

«Alford ha letto la dichiarazione e si è chiesto perché non hai dato alla scorta gli effetti personali di Ferid. Pensa che li abbia usati come scusa per andare a trovarlo, e ne sono sicuro anch'io.»

«E questo fa di me un poliziotto inaffidabile? O mi state dicendo che credete che sia stato io ad avvelenarlo?»

«Non sai fingere così bene… no, non penso che Alford sospetti che tu stia cercando di assassinare un testimone della tua indagine. Ma lo capisci, vero? Che cosa pensa che succederà.»

Crowley si rese conto di guardarlo con sguardo vacuo, ma il suo cervello era come inceppato. De Stasio sospirò.

«Te lo spiegherò. Metti il caso che arrestiamo un qualsiasi ex di Ferid, un ex collega o qualcuno che ce l'ha a morte con lui, tanto da cercare di farlo impazzire o di farlo arrestare. Metti che si vada al processo e che Ferid debba testimoniare, e che debba farlo anche tu. Non così inverosimile, anzi, plausibile, ti sembra?»

Crowley annuì: era quasi certo che in quel frangente sarebbero stati chiamati entrambi al banco dei testimoni.

«Bene… ora pensa a un avvocato difensore agguerrito che dichiara: “Signori e signore della giuria, il mio cliente è qui oggi soltanto perché quell'uomo, Ferid Bathory, ha deciso di vendicarsi dell'imputato incastrandolo per omicidio plurimo, con la complicità del suo amante, il detective Eusford della polizia di Satbury, che è stato a capo delle indagini”.»

«Ma sei… dico, sei pazzo? Nessuno crederebbe a una cosa del genere.»

«No? Perché no? Perché tu sei integerrimo? Loro non lo sanno. Perché Ferid non è il tuo amante? Francamente difficile da dimostrare, viste quante avventure hai e che impressione suscita lui.»

Crowley fissò il collega senza riuscire a trovare parole adatte a esprimere quello che sentiva, perché non lo capiva: era scioccato, perplesso, anche irritato e preoccupato.

«Un avvocato capace può infiocchettare una cosa del genere ad arte e ottenere un'assoluzione… basta che uno dei giurati abbia il dubbio che sia vero.»

«Questo… andiamo, è ridicolo, non abbiamo idea di chi sarà arrestato, non sappiamo quante e quali prove avremo, è solo una tua congettura… e soprattutto, non siamo amanti… De Stasio, ti prego, non lavorare di fantasia.»

«Hai scritto di aver perso il cellulare a casa sua, che era sul divano.»

«Su un divano. Ho forse scritto che era in mezzo alle lenzuola? No, cazzo.»

«Voglio solo dire che questo mi dice che non sei andato a dargli i suoi effetti e a chiedergli come sta prima di andartene.»

Non sopportava di essere bersagliato dai dubbi di De Stasio e ancora meno sopportava che stesse succedendo soltanto perché era risaputo che lui avesse una vita sentimentale vivace.

«No, infatti. Sono entrato perché volevo chiedergli di farmi vedere dove tiene i diari… mi ha lasciato dare un'occhiata in giro e mi ha offerto del caffè. Ci siamo seduti a parlare un po' e sono andato via.»

«Nient'altro?»

Qualcos'altro era successo, o per meglio dire quasi successo, ma il succo della questione era che lui non aveva fatto niente di sbagliato: aveva rifiutato di farsi coinvolgere in una relazione più intima con Ferid. Fissò gli occhi blu in quelli verdi di De Stasio.

«Niente.»

«Crowley… ti conosco. Non manca molto prima che tu non riesca più a distinguere la realtà oggettiva da quella che tu interpreti come tale. O ti allontani da lui o Alford ti estrometterà.»

«A voi importa solo questo, vero? Che Ferid sopravvivesse era importante solo perché sembra essere il solo ad avere la chiave per portarci all'assassino. Se non fosse stato altro che un consulente che abbiamo interpellato per i disegni sui corpi e per il rito del Vampiro avrebbe potuto morire senza fare troppi danni.»

«Nessuno ha mai detto niente del genere.» replicò secco De Stasio.

«Non era necessario che lo diceste, è evidente dalle vostre argomentazioni.» ribatté Crowley, traendo un poco di fermezza dal leggero cedimento del collega. «Ho una notizia per te e anche per il capitano: Ferid è una persona, prima che un testimone. Una straordinaria persona, che se si lasciasse conoscere per com'è dentro sarebbe amato da un sacco di gente, compreso se stesso. Ma non ha nessuno, ha soltanto me.»

«Quello che non capisci è che Ferid ha trentadue anni, non dodici. Ha perso la famiglia, ma se non ne ha una sua, se non ha un compagno o degli amici è una sua scelta. È lui che ha deciso di vivere da lupo solitario.»

Quelle parole fecero impennare qualcosa dentro Crowley, che si levò sibilando come un serpente. Stritolò il bicchierino vuoto del caffè prima di accorgersi di stare perdendo il controllo e si costrinse a respirare profondamente prima di dire qualcosa di cui potesse pentirsi. Ma era impossibile tacere davanti a una simile asserzione.

«Quindi ha deciso lui che il cancro si portasse via suo marito, perché gli piaceva vivere da solo.» disse, senza riuscire a soffocare un'inflessione sarcastica e sprezzante che non si sentiva propria. «Sì, di certo ha lanciato un malocchio su di lui per farlo morire perché ama vivere in una casa vuota circondato di ricordi. Ha perfettamente senso.»

Spiazzato dalla vicenda che ovviamente non conosceva, De Stasio non rispose chiudendosi nel silenzio con un'espressione che tradiva il suo imbarazzo per quella che era ben più di una semplice gaffe. Crowley gettò il bicchierino.

«Che amarezza, l'uomo della proverbiale Osservazione Fredda che sputa sentenze senza sapere nulla.»

Si allontanò da lui, rabbuiato, prese le due bottiglie di acqua e tornò verso la stanza. Non poteva davvero credere che l'uomo che gli aveva insegnato tutto, quello che era capace di chiudere i sentimenti in cassaforte pur di effettuare un'analisi priva di filtri e fraintendimenti, potesse giudicare la vita di Ferid senza sapere nulla di lui e della sua storia. Non era il Dante De Stasio che credeva di conoscere e si chiese perché si comportasse così.

Trovò l'infermiera nel corridoio davanti alla porta e gli sorrise.

«Il paziente è sveglio.»

Crowley la guardò per un attimo senza capire che cosa gli stesse dicendo, a causa del marasma di pensieri che aveva in testa, e ci mise qualche secondo a elaborare.

«Davvero?»

«Sì, la temperatura è stabile e il battito regolare. Il dottore passerà tra un’ora a controllarlo di persona e potrete parlare direttamente con lui.»

Crowley sospirò di sollievo e improvvisamente si sentì molto meno stanco.

«Grazie a Dio.»

«Se aspetta un minuto, io e la mia collega cambiamo il paziente. Dopo può entrare a parlargli.»

«Io… sì, certo. Aspetto qui.»

L’infermiera entrò nella stanza con un camice a triangolini piegato sull’avambraccio. Sentì la voce di Ferid lamentarsi di stare morendo di fame e questo bastò a farlo sorridere.

Quel matto… viene avvelenato e quando si sveglia il primo pensiero è per la fame.

Si appoggiò alla finestra guardando il tempo cupo, piovoso di quel giorno. Pensò se fosse il caso di telefonare ai suoi vicini e dirgli che cosa era successo per non farli preoccupare della sua assenza, ma prima che potesse prendere il cellulare sentì una voce dentro la stanza. Si girò di scatto verso la porta e continuò a fissarla finché una delle due infermiere non uscì con le lenzuola usate.

«Ecco fatto, può entrare.»

Non se lo fece ripetere: intascò il telefono, prese le bottiglie e tornò nella stanza. Una terza infermiera, con l’uniforme bianca anziché gialla come le altre due appena uscite, era vicino al letto con un flaconcino azzurro in mano. Ferid era seduto appoggiato contro una pila di cuscini.

«Non ci posso credere. Ero in ospedale appena qualche giorno fa, che tristezza!»

«Non ci starà per molto, tornerà a casa presto… tenga gli occhi chiusi per un minuto, per il collirio.»

«Dà fastidio!»

«È una formulazione ad alta densità. Stia a occhi chiusi per un minutino, il fastidio sparirà non appena sarà assorbito.» gli disse la donna, con un tono da mamma alle prese con figli capricciosi. «La febbre secca le mucose e non può ancora bere molto.»

Ferid sbuffò ma tenne gli occhi chiusi mentre Crowley si avvicinava al letto.

«Bene, c'è qui il suo fidanzato, quindi su col morale!»

Crowley, che si era completamente dimenticato di quella bugia, si sentì avvampare la faccia e fu una fortuna che Ferid non potesse vederla; ma la sua espressione tradiva una certa perplessità. Non disse comunque nulla e attese che l'infermiera uscisse lasciandolo solo con il sedicente fidanzato.

«Dunque, chi è mai che si fregia di tale titolo senza il mio consenso~?»

«Ah… non è come pensi.»

«Oh, sei tu, detective? Sono sorpreso, davvero sbalordito, credimi.»

«Non è… ho detto una bugia per restare con te stanotte.» ammise lui, e si sedette accanto al letto. «Non volevano nessuno che non fosse un parente stretto, quindi ho… sì, ho mentito.»

«Le tue menzogne sono totalmente adorabili, detective, davvero… io l'apprezzo, sai? Ma dubito che la signorina Skuld la penserebbe allo stesso modo se le giungesse all'orecchio.»

Il senso di colpa fece muovere Crowley sulla sedia come fosse ricoperta di puntine da disegno.

«Ah… già che ne parliamo, a questo proposito… ho mentito anche su questo.»

«Uh?»

«Io e Horn siamo usciti, è vero, ma è stato ormai un mese fa. Siamo andati a pranzo o a cena qualche altra volta, ma senza che succedesse altro, quindi non siamo una coppia. Non abbiamo parlato di… proseguire la nostra relazione.»

Ferid restò in silenzio per qualche attimo.

«Beh, questa è già meno adorabile.»

«Mi dispiace davvero, Ferid. Io non sono il tipo che accampa scuse e mente, solo che… credevo che avresti insistito se ti avessi detto che semplicemente non me la sentivo di…»

Ferid aprì gli occhi che gocciolarono come conseguenza del collirio, li asciugò con il lembo del lenzuolo e Crowley si bloccò a metà frase. Ferid lo guardò aggrottando le sopracciglia, chiaramente ignaro di cosa l'avesse folgorato.

«C'è qualcosa di strano nella mia faccia?»

«I tuoi occhi… sono celesti.»

Lo sguardo di Ferid saettò immediatamente sul comodino, come se vi potesse trovare sopra le sue assurde lenti a contatto rosse, ma vi trovò solo un bicchiere, l'acqua e il libro che Crowley stava leggendo quella notte. Era visibilmente in imbarazzo ma il poliziotto non capì il motivo.

«Immagino che questo significhi che mi hanno tolto le lenti a contatto.»

«Ma per quale motivo, in nome di Dio, li nascondi con quella pagliacciata?»

Riemerse un ricordo nitido dei suoi anni della San Cristoforo, delle lezioni di arte che a lui erano sempre servite tanto poco: il loro insegnante, un prete molto sensibile all'arte sacra di qualsiasi religione della storia umana, una volta disse loro che il celeste – il colore del cielo del mattino, diceva lui – era il più largamente usato nelle arti sacre di tutti i popoli, dall'Egitto all'Asia fino all'Europa rinascimentale. “Il celeste è il colore degli dei… compreso il nostro amato Padre”.

Quel pensiero lo colpì con inaspettata violenza in quel preciso momento.

«Possiamo glissare su questo argomento e tornare a te che ti scusi delle tue infantili bugie per scaricarmi? Lo preferivo molto.»

Avrebbe potuto tenere il punto ed esigere una risposta, ma temeva che se l'avesse fatto avrebbe voluto anche lui una risposta sincera sul perché rifiutasse di cedergli con tanta ostinazione. Decise che per il momento era forse una cosa saggia tenere ognuno quel piccolo segreto per sé.

«Beh, che altro posso dire? Mi dispiace, non è da me mentire, ma non volevo che credessi che fossi tu ad avere qualcosa di sbagliato.»

Contro ogni sua previsione Ferid tese un sorriso.

Ha un'espressione tutta diversa con quegli occhi chiari… quanti altri volti ha? Quanti strati ci sono ancora da vedere sotto le sue maschere?

«Ti prendi buona cura di me, anche se non ne capisco il motivo. Mi dispiace, sto diventando problematico da gestire, vero?»

«Te l'ho già detto, non mi offro per fare qualcosa se non desidero farla.»

L'infermiera entrò di nuovo con il vassoio della colazione più scarno che Crowley avesse mai visto nonostante la sua degenza di quell'estate fosse stata prolungata: una ciotola di brodo, una galletta di riso simile a polistirolo e la più piccola porzione di spinaci al limone mai vista dal poliziotto.

Ne mangio di più quando li preparo a casa solo per assaggiare se sono abbastanza salati.

Stranamente Ferid non protestò né sembrò deluso, anzi ne pareva entusiasta.

«Sto morendo di fame~»

«E pensi di sfamarti con quella roba?»

Ferid guardò il vassoio, scoperchiò il brodo e lo annusò.

«Beh, è un po' abbondante, ma ho fame, quindi penso mangerò tutto.»

«Abbondante… sei serio?»

Ferid non rispose perché aveva cominciato a sorseggiare il brodo e il modo in cui sospirò poco dopo Crowley l'imitava quando si scolava una mezza birra al Leprechaun dopo una giornataccia al lavoro. Non lo sorprese che fosse così magro, se quello era lo standard di quanto mangiava.

«Ah, meno male, è ancora caldo~ fa un sacco freddo qui o sembra a me?»

«Beh, la tua temperatura interna è bassa…»

«Strano, perché ieri sera mi sembrava di andare a fuoco… a proposito, che cosa ho avuto?»

Crowley lo guardò stupito, ma poi pensò che ovviamente non poteva saperlo essendo rimasto in uno stato di incoscienza in un letto della terapia intensiva per quasi tutta la notte. Si sfilò la giacca e gliela mise sulle spalle, prima di cominciare a raccontargli tutto: del fatto che era tornato indietro a prendere il cellulare che era sul divano, che aveva sentito i suoi conati e non aveva ricevuto risposte, che aveva sfondato la porta e l'aveva trovato nel bagno febbricitante e incosciente. A quel punto Ferid lo interruppe.

«Purtroppo non ero affatto incosciente, solo che i miei sensi non rispondevano più… non sentivo niente al tatto, non sentivo le voci e vedevo poco o niente, ma sono rimasto cosciente per un bel pezzo… ah, che imbarazzo, davvero.» disse lui, sospirando teatralmente. «Avrei preferito che tu mi vedessi nudo su un letto di lenzuola di seta rosse cosparso di petali di rose, non durante un'emergenza medica~»

Beh, fra le due l'avrei preferito anch'io.

«Se ti può confortare ero più preoccupato di farti sopravvivere fino all'arrivo dell'ambulanza che di guardarti, perciò non possiamo propriamente dire che ti ho visto.»

«Il tuo disinteresse verso le mie grazie mi uccide, detective. Ho sempre pensato di essere dotato almeno di una bella forma.»

«Ferid, sii sincero… se tu mi trovassi per terra nel mio bagno che sussulto come un tarantolato ti preoccuperesti di salvarmi la vita o ti fermeresti a guardare come sono fatto?»

Ferid sorrise divertito, fin troppo divertito da quell'ipotesi, e guardò il soffitto come fosse estremamente combattuto sul da farsi. Crowley si rabbuiò, anche se pensò che stava certamente fingendo. Era la sua specialità fingersi diverso da com'era e sembrava non intendesse mollare questo suo hobby tanto presto.

«Mhh, chi può dirlo? Dipende molto da quanto sia mozzafiato il tuo corpo nudo~»

«Errore, Ferid: non ho mai detto che sarei stato nudo, ho solo detto “se mi trovassi per terra nel bagno”.»

«Ah! Questi sono i vostri trucchi da interrogatorio, vero? Okay, ero distratto! Fammi riprovare, stavolta risponderò giusto~»

«Certo sei vivace per essere appena stato avvelenato, non c'è dubbio…»

Ferid fissò i suoi occhi celesti nei suoi con tutt'altra espressione. Crowley si rese conto solo allora – sentendosi un idiota – di avergli solo raccontato di come lo aveva trovato ma non di che cosa avesse scatenato il caos. Si passò la mano nei capelli, in imbarazzo.

«Perdonami, non volevo dirtelo così… ma è quello che è successo. Sei stato intossicato da una pianta velenosa, l'aconito…»

«Oh, beh, certo, questo era ovvio.» disse Ferid, masticando l'ultimo pezzetto di galletta.

«Ovvio? Vuoi dire che… è qualcosa che usi? Al negozio, o…»

«No, intendevo dire che era ovvio che mi avrebbero avvelenato con quella, è l'unica sostanza che funziona sui vampiri.»

«Ferid, ti prego, non è un gioco.»

«Ma lo so, amore

Crowley lo guardò perplesso e poi si accorse dell'infermiera che era entrata a riprendere il vassoio. Lei fece loro un sorriso e lui si sentì di nuovo arrossire. Si coprì la faccia con la mano e fu allora che si rese conto che non gli capitava di arrossire ormai da anni e l'aveva fatto due volte lo stesso giorno. Ferid ridacchiò allegro.

«Devi recitare fino alla fine, detective, così si tiene una copertura. Ci sta ancora guardando dal corridoio, ci diamo un bacio?»

«Ferid, ti prego, smettila. Sono l'unico in questa stanza a trovare importante che tu sia stato avvelenato?»

«Oh, già, stavi parlando di lavoro~ dimmi tutto, caro~»

Crowley prese un profondo respiro intimandosi la calma.

«Qualcuno deve averti dato qualcosa di contaminato… stanno facendo una perquisizione in casa tua, comunque, l'ha predisposta il capitano, per trovare tracce di veleno… che cosa hai mangiato ieri?»

«Pensi fosse nel mio cibo?»

«Credo di sì, perché… ah… mi dispiace dovertelo dire, ma il tuo gatto è… è stato avvelenato anche lui. Sai, il gattone che ho preso in braccio.»

La notizia della morte del suo gatto sembrò ferire Ferid molto più del fatto che qualcuno avesse attentato alla sua vita e il suo sorriso sbiadì completamente. Deglutì in silenzio e strinse l'orlo della coperta.

«Baudelaire è… morto, quindi?»

«Sì… mi dispiace.»

Ferid prese un sorso d'acqua dalla bottiglia e Crowley notò che i suoi occhi celesti si erano inumiditi. Gli lasciò tutto il tempo che gli occorreva per lasciargli attutire il colpo e passarono alcuni minuti prima che parlasse di nuovo, con la voce non del tutto ferma né gioviale come prima.

«Potresti far controllare il barattolo rosso che è nella credenza sopra i fornelli?»

«Che cosa c'è dentro?»

«Quel mio infuso di melograno, quello che mi piace molto. Quello che avevo bevuto ieri sera con te.»

«Credi fosse lì?»

«Quando sei andato via ho lasciato la tazza sul tavolino e quando sono andato a riprenderla Baudelaire ci stava bevendo dentro.» spiegò lui, torcendosi il lembo del lenzuolo intorno all’indice. «Aveva la mania di saltare sui tavoli e leccare tutto quello che trovava…»

«Capisco… dirò alla squadra di controllare lì per prima cosa, se non hanno già fatto i controlli di quello che c'era in cucina.»

«E… Pandora? È morta anche lei?»

Crowley esitò, riflettendo. Fin dal momento in cui aveva sfondato la porta era stato in una sorta di trance, aveva dovuto schiarirsi molto le idee prima di rilasciare una dichiarazione completa, e non era sicuro di aver visto l’altro felino. Poi isolò un singolo ricordo.

«No… non credo, ieri quando ti hanno portato fuori sull'ambulanza mi pare fosse seduta sulla finestra, sembrava che ti guardasse… vuoi che telefoni per sapere dov'è?»

«Sì… dovrò… se è viva, dovrò chiedere a qualcuno di occuparsene finché non andrò a casa… telefonerò a Cyrus…»

«Ah… questo potrebbe essere un problema…»

«Non sarà morto anche lui?!»

Istintivamente gli salì una breve risata e con la mano gli fece segno di stare tranquillo.

«Ah, no, ma ieri sera… insomma, tra la scorta e l'ambulanza c'è stato un po' di trambusto. Quando ha visto che ti portavano via e ha visto me uscire da casa tua…»

«Oh, non ti avrà sparato, spero!»

«Per fortuna no, ma mi ha aggredito con una zappa… oh, non mi ha colpito, uno di quelli della tua scorta l'ha atterrato prima che mi arrivasse abbastanza vicino da colpirmi. Mi ha urlato cose terribili, sai? Ripensandoci ora sono un po' turbato, non mi era mai successo, e io di lavoro faccio il poliziotto.»

Il tono leggero con cui raccontò l’episodio in realtà molto più grave della tentata aggressione riuscì a calmare Ferid almeno in parte.

«Oh, sono mortificato, detective, terrò i miei domestici più disciplinati d'ora in poi~»

«Per ora te lo discipliniamo noi in cella, poi si vedrà.» disse Crowley alzandosi. «Chiamo qualcuno al dipartimento, mi faccio dire che ne è della tua gatta… e gli dico di controllare la credenza, barattolo rosso.»

Uscì nel corridoio e prese il telefono, chiedendosi se chiamare De Stasio o direttamente il capitano. Decise per quest'ultimo per affrontare la questione della sua estromissione dal caso del Vampiro e compose il numero prima di venire avvicinato dall'infermiera che aveva recuperato il vassoio. Lei sorrideva con aria gioiosa.

«Scusami se sono indiscreta, ma tu e il tuo fidanzato avete già scelto una data?»

La gola di Crowley si asciugò come gli avessero puntato un phon acceso alla massima potenza in bocca.

«N-no… lui non è…»

«Capisco, anche io e la mia fidanzata non abbiamo ancora deciso se maggio o settembre! Ma la primavera sarebbe meglio, non trovi? Voi siete indecisi sul periodo o…?»

La voce del capitano rispose dal cellulare e l'infermiera tacque, si scusò con un gesto e si allontanò da lui. Crowley salutò Alford distrattamente, dimentico di tutta la rabbia per l’ingiustizia che credeva di aver subito da lui, e decise che prima che Ferid venisse dimesso doveva andare a dire la verità su di loro a tutto il personale, prima che passasse di bocca in bocca in tutto il West End.

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Capitolo 12
*** Il disegno del Padre ***


 

«Sbrigati, detective, ti prego, ho fame~»

«Sta' buono, Ferid, non fare il bambino.»

«Ho~fa~me~»

«Se non la smetti la mela me la mangio io e ti do solo il torsolo.»

Ferid emise una risatina divertita e Crowley si concentrò di nuovo sul frutto che stava sbucciando con particolare attenzione. Ne tagliò uno spicchio e glielo porse.

«Tieni questo, così stai zitto per un po'.»

Ferid alzò gli occhi dal libro che il poliziotto gli aveva portato e guardò lo spicchio che gli stava offrendo. Crowley intuì dal sorriso malizioso che era in arrivo un'altra bordata a sfondo sessuale e chiuse mentalmente le paratie stagne, ma riuscì a stupirsi comunque del modo esplicito in cui passò la lingua sullo spicchio.

«Mh, è dolce~»

Lo prese con la bocca e poi tornò al suo libro, rosicchiando la mela non meno velocemente di un coniglio. Crowley sospirò e prese a tagliare altri spicchi mettendoli sul vassoio.

«Non avevamo già fatto un discorso riguardo al tuo modo di proporti?»

«Propormi? Sto solo giocando, detective, se mi stessi proponendo te ne accorgeresti subito.»

«Lo sappiamo tutti e due che la tua è una recita, proprio come quella del vampiro… se decidessi di starci e ti saltassi addosso scoppieresti a piangere.»

Non distolse lo sguardo dalle righe del romanzo, ma annuì convinto.

«Ovviamente sì, devi pesare un sacco! Enorme come sei mi schiacceresti come un topolino~»

«Da come lo dici sembra quasi che l'idea ti alletti.»

«Forse scherzo… o forse hai ragione~»

Crowley fissò i suoi occhi celesti e il suo sorrisetto lezioso a lungo. Poi posò i resti della mela e il coltello sul tavolino e si arrampicò sul letto, cosa che strappò un gridolino sorpreso a Ferid, seguito da una gran risata. Lui alzò le braccia per allontanarlo da sé.

«No, ti prego, sono convalescente!»

«Paura, eh?»

Crowley fece attenzione a non toccare il tubo della flebo e scese dal letto con un gran sorriso in faccia.

È bellissimo quando è spontaneo. Doveva essere un capolavoro prima che si coprisse di veli e di maschere… e forse, sotto è ancora la stessa persona.

«Ah, lei dev'essere il fidanzato del signor Trobiano

Crowley si voltò verso la porta, sorpreso di sentire quella voce. Guardò l'uomo non molto più vecchio di lui, con le sopracciglia cespugliose, i capelli castani pettinati indietro e fissati a lacca come sempre, gli occhi azzurri dalle proprietà radiografanti, la solita cravatta nera a motivo di piccoli trifogli verdi e l'anello con la croce di Santa Brigida. Non si era sbagliato: era entrato proprio Hank McCray, da poco nominato sergente della squadra omicidi e vecchio amico della comunità irlandese e della parrocchia di Saint Thomas. Sorrise d'istinto.

«Hank, chi si rivede!»

«Mi vedresti più spesso se ti degnassi di venire in chiesa.»

Avrebbe dovuto aspettarsi una ramanzina in questo senso da lui.

«Beh, sono successe parecchie cose… prima sono stato in ospedale, poi ho avuto da fare con le indagini…»

«Sì, ovviamente Gilbert ci ha detto tutto anche a messa, ma comunque l'ho saputo subito dal capitano… purtroppo mi ero operato proprio due giorni prima alla schiena, per quelle ernie che sai. Ho dovuto aspettare che il medico mi desse il via libera prima di tornare al lavoro.»

«Quindi sei tornato… sei qui in veste ufficiale, dopotutto.» commentò Crowley, dando un'occhiata al suo completo. «Sei qui per quello che è successo ieri a Ferid?»

«Sì e no. Mi hanno dato subito il comando delle indagini sul Vampiro di West End… visto che ne parliamo, non sei stato riassegnato, solo che il capitano ti prega in ogni lingua che conosce di obbedire agli ordini e di non fare di testa tua.»

Dato che Crowley si aspettava di essere come minimo convocato al distretto, sgridato peggio che dalla Madre Superiora alla San Cristoforo e poi relegato alla scrivania per settimane, non poté non pensare di aver avuto un'insperata dose di fortuna.

«Non mi ha sospeso? Beh, è già andata bene.»

Perso in pensieri di gratitudine non si accorse subito di come Hank fissava Ferid, ma poi lo notò e subodorò un vago pericolo: Hank aveva la pessima abitudine di sospettare che chiunque non fosse un frequentatore di chiese fosse a prescindere un criminale incallito.

«Il tuo fidanzamento è passato inosservato in parrocchia, ma deduco sia lui il motivo per il quale la stai disertando da tempo.»

«Ah… no, non siamo fidanzati. L'ho detto per poter stare qui con lui la notte scorsa.»

«Era convincente.» osservò lui con la stessa severità che avrebbe potuto avere sua madre.

«Ah, mi sa che ti ha visto scendere dal letto~»

Sì, senza dubbio l’ha visto.

«Era solo un gioco, Hank, davvero. Niente di cui ti debba preoccupare.»

«Beh, tanto meglio.»

No, non l'ho convinto. Nemmeno un po'.

Hank estrasse uno dei suoi fidi taccuini: da quando era entrato in polizia vi annotava di tutto eppure era sempre uguale, motivo per il quale tutti si erano convinti che ne avesse comprato uno stock di almeno un centinaio. Di tanto in tanto si scommetteva ironicamente sull'anno in cui li avrebbe finiti e avrebbe cambiato modello, o per lo meno il colore. Verde Irlanda, naturalmente.

«Ho parlato coi medici per farmi aggiornare un po' su tutto, con De Stasio, con Lesky e con la famiglia Mitchell… ovviamente anche con quel tizio che abbiamo in custodia per aggressione, un tale Cyrus Elias Brown. Lei si sente sufficientemente bene per fare due chiacchiere con me, signor Trobiano?»

«Oh… sì, ma sono il signor Bathory. Trobiano era il mio defunto marito, ho ripreso il mio nome dopo la sua scomparsa… ma volendo può portarsi avanti e chiamarmi signor Eusford~»

«Ferid, ti prego!»

Ferid ridacchiò e gli lanciò un'occhiata birbante. Crowley osservò McCray appuntarsi qualcosa nel taccuino e scosse la testa.

«Quando è scomparso suo marito?»

«Molti anni fa… probabilmente quelle scarpe erano ancora nuove quando è successo.»

Hank si guardò le scarpe e lo fece anche Crowley, seppure le conoscesse bene: il suo collega irlandese aveva solo tre paia di scarpe, e quello beige era quello ufficiale da lavoro, canonico quanto il grembiule di un cuoco. Hank sembrò insospettirsi per le osservazioni di Ferid o per l'imprecisione della sua risposta.

Non si sono presi bene da subito o sembra a me?

Crowley sfiorò il braccio di Ferid per attirare la sua attenzione: doveva cercare di smussare gli spigoli prima che fosse tardi.

«Questo scorbutico individuo, Ferid, è il sergente Hank McCray. Un irlandese vero, nato a Cork, non un semino sperduto come me. Non ha la minima idea di cosa significhi essere cortesi, ma non è una cattiva persona. Sii sincero nel rispondergli e sarai a posto.»

«L'avevo intuito dalla cravatta.» gli sussurrò Ferid, e ridacchiò divertito guardandola.

Hank diede un colpetto di tosse e li scrutò con quegli occhi chiarissimi, persino più chiari di quelli di Ferid.

«La prima cosa che devo dirle è che al momento la sua gatta è nella clinica veterinaria Reed & Lawton, vicino al nostro dipartimento. L'agente Bailey l'ha portata lì per essere accudita e può andare a prenderla appena uscirà.»

«Oh… ma…»

«So dov'è, ci lavora un veterinario che abita nel mio palazzo.» gli disse Crowley, cogliendo il suo cruccio. «Ti ci porterò io appena ti dimetteranno.»

Ferid sorrise e annuì.

«D'accordo~»

«La seconda cosa è che non può rientrare al suo domicilio in Ashland Street.»

La notizia lasciò basiti entrambi, anche se molto di più l’inquilino dell’appartamento al numero 112.

«Stiamo analizzando tutto dopo aver trovato tracce di aconito nel vino rosso, negli infusi e anche in un prodotto per i capelli.»

Ferid smise di sorridere e Crowley guardò il vecchio amico sbalordito.

«Stai scherzando, Hank?»

«Sai bene che non lo faccio mai. Stiamo analizzando tutti i prodotti per uso alimentare e cosmetico in casa e anche gli abiti. Come forse sapete, l'aconito può avvelenare anche se assorbito dalla pelle, quindi cerchiamo in ogni oggetto o prodotto che vada a lungo contatto con la pelle. Capirete entrambi che sono molti in una casa e che ci vorrà tempo per assicurarci che sia sicura.»

La sua voce era neutra e monocorde, come leggesse un discorso preparato da altri. Crowley si domandò se quelle parole chiare e dall’impronta premurosa non fossero farina del sacco di De Stasio.

«Ha un amico o un parente che la possa ospitare per un certo periodo?»

Ferid abbassò gli occhi osservando distrattamente la copertina del libro, quasi l’avesse sfiorato il pensiero di rifugiarsi in uno dei suoi amati universi cartacei, e scosse la testa.

«Nessuno? I suoi genitori, o…»

«No, sergente. Non ho nessuno.»

«Capisco… beh, questo rende le cose relativamente più semplici. Le troveremo un posto a spese della contea durante tutto il periodo della sua protezione, nel distretto di Satbury, in modo che possa trovarsi vicino alla centrale che si occupa dell'indagine. In parole povere, a me.»

«Ma… non posso abitare a Satbury, io lavoro nel West End, e…»

«Non può andare al lavoro. Ci arriva che qualcuno ha appena cercato di ucciderla, senza alcun riguardo per chi avesse potuto essere suo ospite? Qualcuno che, emerge dall'indagine finora, la segue e conosce le sue abitudini. Deve diventare il meno rintracciabile possibile ed essere controllato.»

La sua espressione era uno specchio chiaro di quanto lo terrorizzasse stare lontano dalla sua libreria e dalla sua casa, lontano dalle confortanti abitudini che si era creato per scandire le sue giornate. Si morse il labbro inferiore e strinse la mano sul cuore. Crowley gli mise la mano ferma sulla spalla, ma guardò Hank.

«Starà con me.»

«Con te?»

«Vivo a Satbury non lontano dalla centrale, in un palazzo dove tutti gli inquilini si conoscono… c'è il guardiano notturno, le telecamere di sicurezza, e si accede alla scala antincendio dal corridoio… è un posto sicuro. Nel mio appartamento c'è spazio per due persone, può stare con me. A te sta bene, Ferid?»

Ferid non rispose anche se era evidente, oltre ogni dubbio, che avrebbe preferito tornare a casa. La sua espressione gli ricordò un bambino al quale aveva dovuto dire che l’avrebbero portato via degli sconosciuti assistenti sociali e che non sarebbe più potuto tornare dai suoi genitori.

«Non puoi ancora tornare a casa… se indossassi qualcosa, o se ci fosse dell'aconito nel tuo letto… se ti avvelenasse di nuovo quante speranze ci sono che io o qualcun altro arriveremo lì per salvarti? Lo hai visto quanto è rapido, non riusciresti a chiamare qualcuno. Non puoi voler correre questo rischio per davvero.»

Davanti a un rinnovato silenzio Hank perse un po’ della sua pazienza.

«Quella casa non è sicura. Gillespie mi ha informato che gli agenti nella perquisizione hanno trovato leggerissimi segni di scasso sulla finestra del soggiorno, che è facilmente accessibile a chiunque. Probabilmente il colpevole è entrato da lì.»

«La prossima volta potrebbe entrare e spararti.» disse Crowley, serio. «O peggio, potrebbe farti la stessa cosa che ha fatto ai bambini. Tu potrai essere così pazzo da voler correre questo rischio, ma io no. Starai con me finché non sarai al sicuro nella tua casa.»

Ferid alla fine annuì, ma sembrava ancora turbato. Crowley non se lo spiegava; si aspettava che almeno recitasse la sua commedia e si fingesse entusiasta di andare a vivere sotto il suo stesso tetto. Hank chiuse il taccuino e lo ripose nella tasca della giacca.

«Non sono mai stato a casa tua, devo ispezionarla per garantire che sia un posto difficilmente accessibile agli estranei.» disse allora, tornato al suo tono pragmatico. «Andiamoci subito. Se è idonea predisporremo che stia con te e ritoccheremo i tuoi turni in modo che tu possa controllarlo di persona il più possibile.»

«Sì, certo… ma davvero, è un buon posto…»

Crowley si alzò dallo sgabello quando Ferid strinse l'orlo della coperta e così facendo calamitò la sua attenzione. Cercava di sembrare distaccato, ma i suoi occhi dicevano chiaramente quanto fosse furioso.

«Fareste prima a mettermi in una stanza con vista a Coniston, già che ci siete.»

«Ferid… non prenderla così male, vedrai che riusciremo anche a divertirci insieme… e poi, prenderemo il Vampiro molto presto e tu potrai tornare a casa come se niente fosse successo!»

«Non sapete neanche chi sia.»

«Dacci un po' di credito, dai. Siamo pur sempre la squadra omicidi di New Oakheart… e soprattutto, abbiamo validissimi consulenti.»

Non riuscì a strappargli il sorriso che sperava, ma almeno la sua rabbia parve placarsi.

«Ora fai il bravo, okay? Porto Hank a vedere se il mio nido è adatto per te e quando torno ti porto via di qui. Ti porterò anche qualcosa per vestirti e prepararti.»

«Bene.» disse Hank, e fece un cenno a un agente di pattuglia. «L'agente Coperano resterà qui e controllerà tutto per la sua sicurezza.»

La donna che entrò accennò un sorriso a Ferid. Crowley ricordava d'averla vista qualche volta ma non le aveva mai parlato, anche se si fidava di lei: conosceva suo fratello Gary da un paio di anni ed era un poliziotto fidato, dai saldi principi. Fisicamente però lei non gli somigliava, con la pelle scura, capelli mori e occhi profondi color castagna era molto più latina del fratello.

«Con me è in buone mani! Sono Angela Coperano!»

Crowley uscì dalla stanza facendo un cenno di saluto a Ferid, ma lui non lo notò concentrato com'era sulla vivacità di Angela. Sorrise, confidando nel fatto che lei riuscisse a risollevargli il morale mentre lui era via e che avrebbe trovato il solito commediante allegro al suo ritorno.

 

 

Crowley aprì la portiera a Ferid e lo guardò scendere tenendo il trasportino che imprigionava la sua esagitata gatta. Era una visione bizzarra con addosso una tuta bianca e rossa che Mikaela aveva generosamente donato alla causa, tuta che aveva acquistato via internet di una taglia più grande della propria.

Errore provvidenziale, Mikaela. Non c'è modo che i miei vestiti non gli cadano di dosso.

Gli occhi celesti di Ferid osservarono il palazzo di mattoni rossi per tutta l'altezza fino al tetto, ma non disse niente. Lo seguì fino all'ingresso, studiando l'ambiente in modo non diverso da un gatto diffidente, e il suo sguardo fissò a lungo il banco della portineria.

«Di giorno non c'è nessuno, il nostro portiere Savann fa solo un turno di notte. Le copie delle chiavi sono al sicuro in un posto che conosce solo lui… e io, nel caso ci sia qualche emergenza durante il giorno e io sia presente. C'è comunque una telecamera, eccola lì.»

Gli indicò la telecamera tondeggiante, messa ben fuori dalla normale portata di un uomo e puntata sulle scale e l'ascensore. Crowley prese le chiavi di casa e si avvicinò alla gabbia in ferro battuto dell'elevatore, ma si fermò poiché notò che stava scendendo.

«Questa gabbia è qui da anni… pare che uno degli inquilini abbia fatto installare l'ascensore a sue spese e lo chiuse in questo modo perché gli altri non lo usassero.»

«Mh, forse lo farei anch'io.» commentò Ferid.

Le porte si aprirono e il suo fruitore, Ares Mirto, ne uscì: la leggera cicatrice vicino all'occhio, gli occhiali da vista tondi, la barba brizzolata disordinata e il sorriso erano gli stessi di sempre.

«Oh, Crowley!»

«Ares.»

«Quando vuoi puoi venire da me a fare un saluto a Ferid!»

Crowley si irrigidì all'istante e Ferid si accigliò lanciandogli un'occhiata perplessa. Ares, ignaro dell'effetto che aveva creato, diede una pacca sulla spalla al poliziotto.

«Abbiamo provato a rimetterlo in libertà, ma sembra che si sia affezionato, quindi è tornato già tre volte! Ora lo tengo io in una casetta apposita sulla scala antincendio al mio piano, puoi venire a vederlo nel tardo pomeriggio prima che esca per la caccia!»

«Sì, ehm, perché no… può darsi che passi.»

«Di che cosa sta parlando?» domandò Ferid, con l'aria incuriosita, fissando Crowley.

«Ah, dieci giorni fa Crowley è tornato a casa una sera con un cucciolo di pipistrello albino, uno splendido esemplare di appena una settimana o poco più di vita!» spiegò Ares entusiasmato, prima che Crowley potesse anche solo provare a troncare il discorso. «Insomma, torna a casa di notte, mi bussa, mi porge questa creaturina dentro un asciugamano e mi fa “tu sai che cosa farne, prenditi cura di Ferid”!»

Crowley tentò di restare impassibile ma si sentiva comunque avvampare la faccia. Ferid aveva riconquistato quel suo sorrisetto malizioso.

«Oh, quindi Ferid è il pipistrello?»

«Beh, l'ha chiamato così e io gli ho lasciato il nome dato che era maschio…»

«Ma tu guarda.»

«Ehm… Ares, ci dobbiamo sbrigare, scusaci. Ti faccio sapere se abbiamo bisogno di aiuto con la gatta.»

«Oh, certo, volentieri! È stato un piacere, lei è…?»

«Ferid, quello antropomorfo.»

Ares lo guardò perplesso e Ferid lo salutò con la mano sorridendo come se non si fosse mai divertito tanto. Crowley si affrettò a chiudere la gabbia e premere il bottone dell'ultimo piano, anche a costo di scusarsi in un secondo momento per la sua scortesia. Non disse niente e fissò le lucine passare da un piano all'altro, ma sentiva lo sguardo di Ferid addosso.

Mancava solo un piano all’arrivo quando Ferid parlò, ma non disse nulla di tutto ciò che Crowley si era immaginato durante la salita.

«Grazie.»

«Mh? Di che cosa?»

«Di pensarmi.»

Crowley attese in silenzio, ma lui non aggiunse altro che spiegasse il senso di quel ringraziamento. Il suono dell'ascensore annunciò che erano arrivati, perciò il padrone di casa aprì la gabbia e la tenne aperta per lui.

«L'appartamento sulla sinistra è il nostro.» l’informò, indicando la porta. «Di fianco abitano i nostri vicini, una coppia di ragazzi, Mikaela e Yuu. Sono simpatici e molto gentili. Ti puoi fidare di loro, li conosco bene… ecco qua, il nido

Crowley aprì la porta di casa e appena girò lo sguardo verso la cucina si accorse di aver lasciato sul tavolo la bottiglia vuota della birra. Ferid entrò dietro di lui ma la prima cosa che notò, nel piccolo disimpegno tra bagno e camera da letto che era proprio davanti alla porta, fu la libreria. Gli andò vicino e scorse i libri; quella vista fece irritare e intenerire Crowley nella stessa misura.

«Ferid, non è che potresti considerare qualche altra cosa in casa oltre ai libri?»

Lui non disse nulla ma distolse lo sguardo e si girò, guardando la zona giorno della casa: una semplice composizione di cucina, un piccolo tavolo quadrato, un divano che dava le spalle alla zona cottura, un tavolino illuminato dalla luce che veniva dalla finestra e un grande televisore addossato alla parete. C'erano pochi quadri e gingilli, Crowley aveva un'idea piuttosto minimale della casa, soprattutto dovuta al fatto che doveva pulirsela da solo. L'unico accessorio del salotto era un alto mobiletto pieno di dvd, la maggior parte collezionati quando era ragazzo.

«Come vedi, è tutto qui, non è grande come il tuo appartamento né arredata così bene.»

«Non mi aspettavo la Reggia di Caserta, se ti preoccupava questo.»

«Di qua c'è la camera da letto.»

Gli fece strada, sebbene fosse difficile perdersi. Entrò nella stanza davanti alla porta d'ingresso, anche quella molto poco arredata, e con un gesto del braccio invitò Ferid a entrare a guardarla: una camera con un letto ampio, una lampada dal lato della finestra, una cassettiera che dava una parvenza di ordine celando il caos che c'era dentro e l'armadio a muro sulla parete in fondo. Ferid guardò con vago interesse il piccolo mobiletto che ospitava un computer e la sedia da ufficio. Lo usava di rado e che ricordasse l'ultima volta era stata per giocare al solitario in una lunga notte insonne.

«Come vedi c'è abbastanza posto per tutti e due.»

«Oh, quindi dormiremo insieme, detective?»

«A meno che tu non voglia il divano, e non te lo consiglio. Non è comodo come il tuo.»

Non poté non notare che Ferid aveva guardato fugacemente il letto con un'espressione tesa.

«Qualcosa non va? Pensavo ti avrebbe divertito l'idea di dormire insieme.»

«Sì, lo pensavo anch'io.»

Ferid non disse altro e uscì dalla stanza, lasciandolo perplesso. Lo vide andare a liberare la sua gatta dal trasportino, dal quale uscì con circospezione guardandosi intorno. Crowley diede una rapida occhiata al bagno, ma vide che era sufficientemente in ordine per essere presentato.

«Ferid, vuoi vedere il bagno o hai troppa paura di scoppiare a piangere perché non assomiglia nemmeno vagamente al tuo?»

«Sembri tu quello spaventato… quasi come se temessi il mio giudizio.»

«Oh, puoi giurarci. Non temevo il giudizio di qualcuno su casa mia da quando ci venne a cena mia madre.»

Ferid emise una risatina flautata e si avvicinò, entrando nella stanza da bagno.

«Come vedi ho la vasca. Non è così grande, ma puoi ammollartici tutte le volte che vuoi. Io uso la doccia, ma il rubinetto funziona.»

Ferid si sedette sul bordo della vasca e osservò tutt'intorno, con l'aria vagamente triste. Crowley immaginò che si sentisse disorientato all'idea di perdere la sua bella casa per un tempo indeterminato, con tutto ciò che conteneva.

«So che non è molto, ma è casa tua finché vorrai. Mi casa es tu casa, letteralmente.» fece Crowley con un sorriso che voleva essere incoraggiante. «Posso fare qualche altra cosa per te? Voglio che sia a tuo agio qui, perciò se vuoi qualcosa…»

«Oh, non ho bisogno di niente altro, a dispetto dell’apparenza io sono molto adattabile… solo…»

«Solo?»

«Ti va davvero bene? Questi sono i tuoi spazi… ti sta bene davvero condividerli con me?»

Ah, ma quante altre volte dovrò dirgli che non mi offro per qualcosa se non mi piace l'idea di farla?

Crowley sospirò e si appoggiò allo stipite della porta.

«Sono anche tuoi. Ho proposto, tu hai accettato. Ora sono i nostri spazi.»

Ferid tese un sorriso appena accennato.

«L'hai detto anche prima… l'appartamento sulla sinistra è il nostro. I nostri vicini

«Dovrebbe farti capire che sono pronto a condividere tutto quello che ho con te.» ribatté Crowley. «O quasi, insomma…»

«Oh, ci sono delle esclusioni? Quali sono?»

«Al momento, direi il mio conto corrente anche se non credo che tu ne abbia bisogno, la pistola d'ordinanza e tutto quello che di norma è coperto alla vista da un paio di boxer.»

«Ehh?! Detective Eusford, non sarai mica per la castità prematrimoniale!»

Fu forse un vago senso di colpa di matrice cattolica a spingerlo a schivare la domanda.

«E tu?»

Ferid si alzò dal bordo della vasca e si avvicinò, sorridendo con tanta malizia che Crowley fece d'istinto un passo indietro nel corridoio.

«Ti sorprenderebbe sapere che io e mio marito eravamo già sposati quando abbiamo deciso che era il momento di fare l'amore?»

«Enormemente.»

«Non slogarti la mandibola, caro~»

Gli diede un colpetto sotto il mento e andò nel soggiorno, dove Pandora stava ancora esplorando sospettosa la casa, e si rivolse a lei con un buffo tono infantile per chiederle come le sembrasse l’arredamento.

Se era sorpreso della rivelazione di Ferid? Lo era eccome, non poteva negare di aver pensato che il suo matrimonio con un uomo così tanto più grande di lui fosse iniziato con una relazione sessuale: durante le indagini per morti violente o sospette gli erano capitate mogli giovanissime e avvenenti con mariti dell'età giusta per fare loro da nonni, legati a loro da desideri lussuriosi.

Beh, potrebbe mentire. Non sarebbe la prima volta… ma di solito, mi mente per sembrare più dissoluto, non più verginale.

«Che cos'è questo strano posto, eh, Dora? È la casa del detective Eusford, quell'omone rosso che non ti piace affatto~»

«Perché non piaccio alla tua gatta? All'altro gli piacevo.»

«Baudelaire era uno a cui piaceva chiunque… Pandora è una bestiolina strana, pensa che lei fa le fusa a Krul. L'adora, quella strega.»

«Ah.»

«Ti abituerai, Dora…»

Lo guardò accarezzare le orecchie screziate della gatta, poi lei si infilò sotto il tavolino e zampettò verso il mobiletto dei dvd. Qualcosa non andava in Ferid, e dubitava che fosse solo la perdita di un gatto. Gli nascondeva qualcosa e soprattutto quello che non diceva gli rivelava cose che avrebbe preferito non albergassero in lui.

«Ferid, possiamo parlare di una cosa, ora che siamo soli?»

«Oh, vuoi parlare di qualcosa di erotico? Non ti racconterò cosa piaceva a mio marito, mi spiace.»

«Non mi interessa questo, ma vorrei parlare di qualcosa di intimo.»

«Quanto intimo?»

Strinse il pugno. Era deciso a non permettergli di sottrarsi al confronto con questo genere di mezzucci.

«Ferid, perché sembri il solo a non aver paura del fatto che qualcuno là fuori cerca di ucciderti con questa ostinazione?» gli domandò a bruciapelo, sperando di coglierlo indifeso. «Non che mi importasse, ma… non mi hai neanche ringraziato per averti salvato la vita. Né me, né i dottori… perché sembra che tu non voglia vivere?»

«Oh, è miele quello?»

Ferid andò verso il barattolo appoggiato nell'angolo della cucina, ma Crowley lo bloccò passandogli il braccio intorno all'addome e stringendolo contro di sé. Sapeva di abusare del fascino che Ferid subiva, ma non si sarebbe vergognato di alcun mezzo se l’avrebbe portato a vincere quella sua resistenza.

«Non scappare, Ferid. Dobbiamo parlare di questo.»

«Ooh~ caspita, detective, non so se ho mai avuto un uomo che mi prendesse così forte~»

«Non scappare. Rispondimi.»

«Prego, continua pure a persuadermi con la forza~»

«Ferid, non farmi arrabbiare. Per quale motivo sembra che tu voglia morire? Se mi sto sbagliando sarò lieto di sentirtelo dire.»

«Oh, cosa ti posso dire, detective? Quando sei vivo da così tanto tempo la morte comincia ad essere un'attrattiva irresistibile.»

Ferid cercò di spostargli il braccio, ma lui lo serrò più forte con entrambe le braccia. Con la sua schiena appoggiata contro il petto sentiva il suo battito accelerato che smentiva la tranquillità della sua espressione.

«Smettila con queste recite, non conosco vampiri che bevono brodo di manzo, mangiano spinaci e non rimarginano graffi di rovo in cinque lunghi giorni. Metti su questa commedia per Krul, per i clienti del negozio, ma non con me.» gli disse Crowley piano, proprio all'orecchio. «Non ti lascerò scappare finché non avremo parlato.»

«Perché tanto accanimento? Non è poi molto… accidenti, certo che hai le braccia forti!»

Ferid smise di cercare di liberarsi, dato che non riusciva neanche a spostare di un centimetro le sue braccia ben allenate, e con un sospiro si appoggiò all'indietro contro di lui. Crowley non allentò la presa, neanche quando lui appoggiò la nuca sulla sua spalla; fu anzi allora che decise di affondare il colpo decisivo.

«Pensavo ti fidassi di me. Parlami.» gli sussurrò. «Io non sono come gli altri che ti hanno pugnalato.»

Ferid sorrise, ma ottenne solo di esprimere un'indicibile amarezza.

«Quando non ti rimane nessuno è difficile trovare un motivo per vivere.» rispose alla fine, dopo una lunga pausa. «Le persone che mi erano più vicine sono quelle che mi hanno pugnalato più a fondo… le persone più care sono quelle che ho perso per prime. Non ho una carriera, non ho un reale scopo. La mia vita non è nulla che l'umanità non possa perdere.»

«Non dire mai più una cosa del genere in mia presenza o giuro che non rispondo più di me.»

«Se stai per dirmi qualcosa riguardo al dono della vita risparmiamelo, te ne prego.»

«Io faccio il poliziotto, Ferid. Sono nella squadra omicidi e ho iniziato nella narcotici. Ho visto tali e tante di quelle vite sprecate…»

Una lunga, troppo lunga serie di volti si avvicendarono nella sua memoria. Persone che avevano scelto la peggiore strada tra le molte che si dipanavano di fronte a loro, spargendo un po’ di inferno tutt’intorno, su chi odiavano e anche su chi amavano.

«Persone… intelligenti, sostenute da famiglie amorevoli, che potevano diventare qualcuno, che potevano fare del bene alle persone, diventare mostri… distruggere delle famiglie, fare una strage di innocenti, togliere delle figlie ai loro genitori, delle madri ai loro bambini per potere e denaro. Queste sono le vite che l'umanità può perdere senza piangere, non la tua.»

«Puoi anche dire così, non cambierà quello che…»

Crowley lo lasciò e l'afferrò per le spalle, voltandolo bruscamente verso la stanza. Fissò gli occhi azzurri su di lui: voleva che capisse cosa pensava, che cosa avrebbe dovuto pensare di se stesso.

«Vedi questa stanza? La immagini arredata in un altro modo? Io sì. Ogni giorno da quando sono uscito dall'ospedale.»

Non capiva, naturalmente. Ma era pronto a spiegare.

«A volte mi siedo sul mio divano e guardo la mia casa. La immagino come sarebbe se ci abitasse un altro ragazzo, uno che ama la natura e la riempirebbe di piante. O una donna romantica, che mette le tende di pizzo e la tovaglia a fiori sul tavolo. Sai perché? Perché se la tua vita inutile non si fosse intrecciata con la mia qui adesso vivrebbe qualcun altro. Perché io sarei con il Padre degli irlandesi.»

Ferid non rispose, ma la sua espressione non era cambiata. In quel momento capiva appieno che cosa dovevano aver provato Yuu e Mikaela nel vederlo struggersi nel senso di colpa mentre loro erano così felici che fosse vivo… ed era insopportabile.

«Questo è successo solo perché tu hai dato un amuleto fortunato a un uomo che non avevi mai visto prima e che non sapevi se avresti mai rivisto… perché hai cercato di proteggerlo pur non sapendo se davvero meritasse di vivere.»

Quel pensiero gli tornava in mente ogni singolo giorno. Era emozionante poterlo rivelare, non gli aveva mai dato voce finora.

«Non sapevi chi ero. Non sapevi se ero corrotto, se ero un bugiardo, se ero un uomo violento o se ero un uomo retto e giusto. Mi hai voluto proteggere comunque… persone che fanno questo devono essere protette a ogni costo. Al prezzo di dieci… anche cento vite come quelle che ho visto sprecate.»

Si rese conto di stringere ancora con troppa forza le sue spalle e allentò la presa.

«Non dire più che la tua vita è inutile. Ogni volta che lo pensi… stai sputando in faccia a chi è felice che tu sia ancora qui. E io lo sono.»

Ferid non replicò nemmeno questa volta, ma il modo in cui si strinse le braccia gli suggerì che doveva aver fatto breccia almeno un po'. Gli lasciò le spalle e aprì la credenza.

«Ti piace il miele? Io lo metto sul pane tostato, di solito, quando mi va qualcosa di dolce. Me ne preparo un po', tu ne vuoi?»

«Sì… grazie.» rispose lui, con poco più di un filo di voce.

«Hai toccato la gatta, vai a lavarti le mani prima di mangiare.»

Avrà bisogno di qualche minuto per ricomporsi. Fa sempre così quando si espone.

«Sì.»

«Mentre mangiamo mi farai la lista… ti serviranno un po' di cose. Farò la spesa oggi pomeriggio, ho preso l'intera giornata di permesso e tu puoi stare a casa, Mikaela tornerà dal lavoro tra poco. Se avrai bisogno potrai andare a bussare di là, dai vicini.»

Ferid andò in bagno e Crowley si trovò a sorridere. Come ogni buon irlandese era cristiano e credeva che nulla, assolutamente nulla accadesse per caso. Sapeva che non era un caso che quel quadretto fosse caduto, che avesse turbato Ferid al punto di dargli l'amuleto, con tutto ciò che ne era conseguito. Non era un caso che avesse deciso di prendere le buste e portargliele proprio la sera in cui restava avvelenato, e non era casuale nemmeno la loro temporanea convivenza: era parte del disegno di Dio che gli dava l'occasione di curare la solitudine di Ferid in modo che potesse realizzare tutte le grandi cose che era destinato a fare.

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Capitolo 13
*** Scambio di segreti ***


 

Quando il telefono vibrò rumorosamente all’orario stabilito Crowley buttò il braccio sul comodino per spegnerlo come fosse stata una lacerante sirena antincendio. Sospirò stropicciandosi gli occhi.

L’avrò svegliato?

Si girò per guardare l’altra metà del letto, ma vederla completamente intonsa lo fece scattare seduto come se si fosse trovato uno scorpione sul cuscino. Buttò all’aria le coperte e si alzò scoordinato come ogni mattina, attraversò la stanza e spalancò la porta socchiusa.

Dov’è scappato, quel…

Prima ancora che potesse finire di prospettare lo scenario in cui Ferid era scappato nottetempo per tornarsene nel West End si bloccò incespicando nel soggiorno. Ferid era seduto sul divano, con le gambe accavallate, un libro aperto sul ginocchio e la gatta acciambellata accanto: sembrava assorto nella lettura, ma avvicinarsi gli mostrò che nonostante la postura dritta aveva gli occhi chiusi.

Mi ha fatto prendere un colpo. Un altro scherzo del genere e finisce che mi prende un accidente sul serio.

Massaggiandosi il petto in un riflesso automatico Crowley si avvicinò al divano, si chinò e gli tolse pian piano il libro dalle mani. Lui non se ne accorse, quindi ne dedusse che stava proprio dormendo. Lo scosse leggermente posandogli la mano sul ginocchio.

«Ferid.» gli sussurrò. «Ferid, perché stai dormendo qui?»

«Mh…?»

Ferid spalancò gli occhi e lo guardò con l’aria confusa di chi non riconosce la persona che gli sta parlando.

«Non sto dormendo… sto leggendo, io…»

Ferid lanciò uno sguardo assonnato alle proprie mani, che non avevano più alcun libro da reggere. Sospirò piano e chiuse gli occhi di nuovo.

«Perché non sei… Ferid? Ehi, Ferid, che sei, narcolettico?»

Lo scosse un po’ più vigorosamente dalla spalla, ma Ferid aprì gli occhi solo per un attimo.

«Non riesco a dormire…»

«Mi sembra che ci riesci benissimo… perché non sei venuto a letto, scusa?»

Ferid alzò la testa di scatto e lo guardò. Si strofinò gli occhi.

«Oh, detective… hai detto qualcosa?»

«Ti ho chiesto perché non sei venuto a letto a dormire.» ripeté Crowley pazientemente. «Invece di dormire qui seduto come una statua di sale.»

«Oh… non riesco a… a…» e si interruppe per un vistoso sbadiglio. «A dormire con qualcun altro…»

Sempre più problematico, eh?

«D'accordo… adesso però io devo prepararmi per andare al lavoro… puoi andare a dormire un po’ nel letto e… Ferid.»

Lo resse dalla spalla per evitare che si accasciasse di lato, addormentato. Riaprì di nuovo gli occhi, ma ormai era chiaro che non era lucido a sufficienza da sentire che cosa gli stava dicendo. Sospirò esasperato, ma poi passò un braccio sotto le sue ginocchia, l’altro dietro la sua schiena e lo sollevò di peso.

«Sarò onesto con te: non mi è mai successo di prendere in braccio tre volte una persona adulta, e non avevo mai preso in braccio un uomo prima di te. La tua sta diventando una brutta abitudine.» gli disse mentre lo portava in camera. «Se volevo portare a letto delle persone in braccio facevo dei figli.»

«Dei figli… uh?»

«Ah, allora mi ascolti.»

Arrivò al letto e vi adagiò Ferid, che sembrava molto distante dall’essere lucido abbastanza da sapere che cosa diceva o cosa stava succedendo: era certo che al suo risveglio non avrebbe ricordato niente di quella conversazione. Gli rimboccò la coperta.

«Li terrei sempre con me…»

«Mh?»

«I bambini hanno bisogno dei loro genitori…»

Crowley guardò Ferid sorpreso, ma lui non disse altro e il suo respiro si fece più lento: si era riaddormentato.

La densità dell’aria nella sua stanza sembrava diversa da prima, mentre prendeva i vestiti e poi ne usciva. Aveva letto gli stralci quasi incomprensibili del suo diario dove parlava – presumibilmente – della madre, ma Ferid non aveva detto altro dei suoi a parte il fatto che non li vedeva da tempo e che forse erano morti. In ospedale poi gli aveva detto della follia della madre, della sua paura dei demoni, ma non era del tutto sicuro che stesse dicendo la verità o che quella fosse la versione completa della storia.

Passò tutto il tempo sotto la doccia a girarsi quella frase nella mente, a fare ipotesi, accantonarle e scartarle e quando si avvolse il telo intorno alla vita si stava ancora chiedendo se il tempo da passare insieme fosse sufficiente a rompere il ghiaccio e intavolare un serio discorso che gettasse un po’ di luce sull’oscurità che avvolgeva l’infanzia di Ferid.

«Ehi, tu. Che stai facendo?»

Crowley si fermò a fissare Pandora che era pericolosamente vicina a uno dei rarissimi ninnoli di casa: una statuetta di Santa Brigida, patrona femminile d’Irlanda, santa alla quale sua madre era devota. La gatta puntò gli occhi gialli su di lui.

«Non ti azzardare.»

Quasi l’avesse sentito e volesse sfidarlo, allungò la zampina e fece oscillare la statuina.

«Ehi! Piantala!»

Pandora tornò a fissarlo con occhi come fanali e con una zampata più convinta buttò giù la statuina. Crowley non poté fare altro che guardarla cadere e rompersi in due parti sul pavimento. Ne contemplò i resti con una vaga fitta al cuore per qualche secondo, perché era un regalo che gli era stato fatto quando si era diplomato.

«Tu… tu sei veramente una bestia senza rispetto.» sibilò Crowley all’indirizzo della gatta. «Sappi che se non ti ho ancora lanciata dalla finestra è solo perché a Ferid dispiacerebbe moltissimo.»

Pandora schizzò sotto il tavolo della cucina dove si appollaiò su una sedia per guardarlo da un punto più riparato e più lontano dalla finestra. Crowley raccolse le due parti della statua e le mise sul tavolino, riproponendosi di tentare di incollarle non appena fosse tornato a casa. Raggiunse la cucina e prese la padella, ma sentì l'asciugamano tirare mentre si spostava per aprire il frigorifero: Pandora glielo aveva artigliato.

«Ma falla finita.» le disse lui, liberando l’asciugamano con uno strattone. «È ora che cominci a comportarti come una gatta educata, sai? Anche tu ti devi adeguare. La situazione con il tuo padrone è già abbastanza complicata senza che ti ci metta anche tu.»

Lo sguardo andò alla terrina di pasticcio di carne e patate dentro il frigorifero e il pensiero scivolò inesorabile alla sera precedente.

«Se mamma scopre che qualcuno ha vomitato la mia sheperd’s pie è la volta buona… è la volta che mi disconosce legalmente.»

Prese le uova e le appoggiò sul ripiano, poi prese un cucchiaio e l’affondò nel pasticcio freddo prima di metterselo in bocca, con aria vagamente triste.

«È buono. È buono anche freddo.» bofonchiò. «Pensavo di essere bravino a cucinare, quando mi ci metto. Mi ci sono messo davvero d’impegno per questo. Non capisco.»

Che Ferid non fosse riuscito a mandare giù più di due bocconi prima di correre in bagno e rigettare tutto nel water era una ferita nel suo orgoglio di uomo e soprattutto di uomo irlandese. Certo, si era scusato, e aveva anche asserito più volte che fosse buono, ma restava il fatto che al di là di quanto bene riuscisse a mentire l’aveva proprio vomitato.

Crowley prese un’altra cucchiaiata di pasticcio e richiuse il frigo, poi allungò il boccone a Pandora sulla sedia.

«Su, assaggialo tu… ha un buon odore, no? Ecco, quindi sei d’accordo con me, è buono davvero.»

Osservò la gatta far sparire tutto e leccarsi ben bene i baffi.

Magari non è proprio colpa del pasticcio. Forse il suo stomaco è ancora delicato per colpa dell’avvelenamento... avrei dovuto pensarci. Dev’essere troppo pesante per lui ora.

Non era molto esperto nel prendersi cura degli altri facendo cose come cucinare o provvedere a delle necessità speciali e al momento aveva la sensazione di avere in casa un bambino difficile appena adottato piuttosto che un coinquilino adulto e autosufficiente. Se davvero Dio voleva che questo ruolo di guaritore d’anime toccasse a lui avrebbe dovuto impegnarsi di più per aggiustare il tiro.

Mise a bollire dell’acqua, si vestì velocemente e poi tornò a dedicarsi alla colazione. Consumò la sua a base di toast, uova e prosciutto e lasciò spinaci al limone e uova in un piatto nel frigorifero. Lasciò il caffè ancora caldo nel thermos e lo mise in bella vista sul tavolo, dopodiché scrisse un messaggio per Ferid su un foglio e ve lo appoggiò contro cercando di leggerlo con altri occhi, per capire se la sua scrittura potesse essere difficile da leggere.

La colazione è nel frigo, il caffè è di stamattina. Se squilla il telefono, non rispondere. Torno per l’ora di cena. Non uscire!

Sperò con tutto se stesso che gli desse retta soprattutto per l’ultima cosa, ma non poteva chiuderlo a chiave in casa senza neanche dirglielo prima, perciò fu con un residuo di preoccupazione che lasciò l’appartamento. Stava attaccando un post-it per Mikaela sulla porta quando quella si aprì e Yuu lo vide, con un piccolo sussulto.

«Oh, Crowley!»

«Scusa per lo spavento. Stavo lasciando un biglietto per Mikaela.»

«Sta dormendo adesso…» disse Yuu, e uscì sul pianerottolo chiudendo la porta. «Che cosa volevi? È per quello che mi diceva ieri, del tuo amico a casa tua?»

«Beh, sì… per farla breve, ha avuto una nottataccia e io non tornerò prima di stasera. Volevo che gli desse un’occhiata intorno all’ora di pranzo, quando torna dal lavoro, per sapere se ha mangiato.»

«Ah, però oggi Mika fa il turno il pomeriggio, per questo sta ancora dormendo. Non vedrebbe il messaggio.» gli disse Yuu, poi sorrise. «Ma posso dargli io un’occhiata, quando torno per la pausa pranzo!»

«Oh, adesso ti danno la pausa più lunga?»

«Oh, non te l’ho detto! Adesso faccio le installazioni per la Norcorp, quindi consegno e installo a casa. Da adesso ho i turni dalle sei alle dieci e poi dalle due alle sei, quindi torno a casa per pranzo. Do un’occhiata io al tuo amico… non sta bene, mi ha detto Mika.»

«Ah… beh, non posso dire che non sia così… appena avrò un momento di tempo vi spiegherò la situazione, ma di fatto non deve uscire da solo, mai… possiamo dire che è sotto protezione come testimone. È turbato da quello che è successo ultimamente e al momento ha problemi sia a dormire che a mangiare, pare… quindi, per favore, tenetemelo d’occhio mentre non ci sono, okay?»

«Woah! Un testimone?! Non ti preoccupare, io e Mika lo controlleremo tutto il tempo!»

«Non serve così tanto… credo… spero.»

«Fidati di noi!»

«Mi fido di voi, o non gli avrei detto di venire a bussare qui se avesse avuto bisogno di qualcosa.»

Yuu annuì con il solito entusiasmo che gli faceva brillare gli occhi. Crowley non riuscì a non sorridere e, pur sapendo quanto l’irritasse essere trattato da ragazzino, sollevò la mano e gli scompigliò i capelli.

«Ehi-!»

«Congratulazioni per la tua promozione, Yuu. Ora mi aspetto di vederti studiare di più per l’accademia.»

«Lo farò di certo, e sarò detective in meno tempo di quanto ce ne hai messo tu!»

«Ooh? Questo è proprio difficile, chissà se ci riuscirai…»

«Certo che ci riuscirò!»

Era molto infantile nel suo modo istintivo di promettere, ma ciò gli ricordava un Crowley appena adolescente che gli pareva ormai scomparso da tempo… ma molto compianto per quella sua innocenza e ingenuità.

«Attenderò il momento di chiamarti detective Amane

«Succederà prima di quanto credi, Crowley!»

Crowley sorrise divertito e chiamò l’ascensore, poi lanciò uno sguardo sorpreso al ragazzo che stava scendendo le scale. Lui lo vide e si fermò.

«Non lo uso mai… è parte dell’allenamento per la prova fisica!»

Così detto, scese le scale di fretta. Crowley scosse la testa: lui ricordava d’essere sempre stato un pigrone da quel punto di vista, correre e camminare a lungo l’aveva sempre stancato anche per la noia, oltre che per la fatica. Non gli sarebbe venuto mai in mente di fare dodici piani di scale a meno che il palazzo non fosse in fiamme… e considerato quanto detestava correre, non era sicuro nemmeno di farlo in quel caso.

 

 

Ferid assestò la quarta penna nei capelli con precisione chirurgica e con lentezza tolse le mani dalla crocchia. Assicuratosi che non sarebbe crollata al primo movimento brusco lasciò andare un sospiro e si avvicinò alla vasca da bagno chiudendo il rubinetto. Il sapone che aveva trovato nell’armadietto aveva creato una montagna di bolle impressionante di un vago colore rosa e non poté non chiedersi se non fosse stato abbandonato lì da una qualche ex ragazza.

Lasciò andare un lungo sospiro mentre si immergeva nella vasca di acqua così calda da fare male e appoggiò la testa sul bordo. Per fortuna la sua pettinatura di fortuna reggeva, sarebbe stato troppo seccante bagnarsi tutti i capelli e doverli asciugare.

«E speriamo non succeda più niente.»

Si prese qualche minuto per massaggiarsi le spalle, duramente provate dallo schienale duro del divano, mentre per l’ennesima volta quel giorno si domandava quando fosse andato a dormire nel letto di Crowley. Non ricordava di essersi alzato dal divano, ma a un certo punto doveva averlo fatto, dato che si era svegliato in un bozzolo caldo di coperte e lenzuoli.

Prese il telefono senza filo, che aveva appoggiato sul portaoggetti della doccia. Aveva una sacrosanta paura di fare quella telefonata, ma non poteva più rimandarla. Digitò il numero e ascoltò gli squilli, sperando quasi che non rispondesse, invece poi sentì una voce che non era la segreteria.

«Libreria esoterica Magick.»

«Principessa, dovresti dire buonasera, libreria esoterica Magick, come posso aiutarla?»

Dall’altra parte si sentì un attimo di silenzio, poi Krul urlò il suo nome così forte che lo costrinse a staccare il telefono dall’orecchio, seguito da una sfilza scioccante di insulti in inglese e in romeno. Stava gridando qualche cosa dal suono minaccioso proprio nella sua lingua madre quando all’improvviso buttò giù. Ferid fissò la cornetta a occhi spalancati.

«Ma che… ma con tutte le donne del mondo dovevo scegliermi proprio questa psicotica? Se non è masochismo questo non so cosa lo sia.»

Ferid sospirò e ricompose il numero, massaggiandosi il collo nell’attesa.

Beh, non che a una donna a posto con la testa potrebbe mai venire in mente di uscire con me, dopotutto.

«FERID, MA DOVE DIAVOLO SEI?!»

«E se non fossi stato io a richiamare ma un cliente?»

«C’è il numero in entrata sul display, ritardato!» rispose lei, sgarbata come sempre. «Ma si può sapere dove diavolo sei?! Oggi dovevi essere al lavoro, vengo a casa tua e trovo quei dannati nastri scena del crimine dappertutto!»

«Beh, diciamo che…»

«Quei deficienti di poliziotti non mi hanno detto niente, sono dovuta andare fino alla centrale a buttare giù a calci la porta della squadra omicidi per sapere che non eri crepato!»

«Perdonami, Principessa, è colpa mia, non ho pensato a chiamarti ieri…»

«E mi volevano anche arrestare per oltraggio a pubblico ufficiale!»

«…Chissà perché ciò non mi sorprende affatto.» ammise in sincerità Ferid. «E perché non l’hanno fatto? Ti hanno chiesto di tornare con i tuoi genitori?»

«A giudicare dalla tua acidità stai benissimo!»

«Da che pulpito~ ma sul serio, se sei in negozio vuol dire che sono riusciti a buttarti fuori prima che ci fossero vittime. Sono impressionato dalla loro bravura.»

«Mpf! C’era il tuo cavaliere, sai. Il tuo eroe

«Buffo che tu lo chiami così.»

«Sì, insomma, quell’Eusford, O’Brian, o come dannazione si chiama. Mi ha detto che sei stato di nuovo in ospedale e che eri in un posto sicuro, ma che accidenti significa? Dove ti sei nascosto?»

«Krul. Sei andata dalla squadra omicidi a cercarmi?»

«Certo che ci sono andata, e se ti avevano ammazzato perché non sono capaci di arrestare un pazzo gli cavavo gli occhi con una palettina da caffè, a tutti! Lasciar morire il mio database vivente, non glielo avrei mai perdonato!»

«Sarò sincero, non so se questo sia una specie di apprezzamento o se dovrei sentirmi depresso perché per te sono una specie di supercomputer.»

«Interpretala come ti pare, tanto lo fai sempre.» tagliò corto lei. «Ma allora dov’è che sei?»

«Se non te l’ha detto Crowley non posso certo dirtelo io… e tu non avresti dovuto piombare lì. Ora saprà che ti ho raccontato tutto.»

«Crowley?»

«Uh? Sì. È il nome del detective Eusford.»

«E da quando tu usi i nomi di persona di qualcuno che conosci da meno di cinque anni?»

«Beh, non lo faccio, in realtà. È la prima volta che lo chiamo così, mi è scappato senza pensarci.»

La spiegazione venne accolta dal silenzio e questo suggerì che Krul l’avesse considerata una risposta soddisfacente. Ferid si attorcigliò una ciocca corta intorno al dito e sorrise.

«Oh, Principessa, non mi dire che sei gelosa? Tu sarai sempre la mia unica principessa… la regina indiscussa del mio cuore~»

Krul borbottò un certo suggerimento su dove potesse mettersi il cuore, mentre dal suo capo del filo la porta dell’appartamento si apriva.

«Volevo solo dirti che per un certo periodo non potrò più venire in negozio, quindi se hai bisogno dovresti chiamare quel ragazzo che ha lasciato il curriculum quest'estate anche per la prova. Magari lui ha tempo.»

«Quindi davvero sei chiuso da qualche parte! Dove ti hanno nascosto?»

«Sono nascosto, quindi non posso dirtelo. Ti richiamo un’altra volta per spiegarti.» disse velocemente Ferid, sentendo dei rumori proprio fuori dalla porta. «Ci sentiamo presto, Principessa, ti amo~»

«Crepa!»

Ferid chiuse la telefonata e sospirò.

O mi vuoi vivo o mi vuoi morto, Krul. Deciditi una buona volta, benedetta ragazza.

La porta del bagno si spalancò facendolo sussultare e si immerse un po’ di più quando Crowley, invece di richiuderla, entrò nella stanza con un sorriso solare.

«Ah, ecco dov’eri! Bene, sono arrivato al momento giusto!»

«Al… mo…» balbettò Ferid, prima di riuscire a ricomporsi. «Oh? Non vorrai mica unirti a me per un bagno rigenerante, detective Eusford? Staremo un pochino stretti in questa vaschetta, ma con la volontà si può avere tutto~»

«Ma che hai in testa, si può sapere?»

Crowley si inginocchiò davanti alla vasca studiando i suoi capelli con curiosità e Ferid se li toccò, ricordandosi delle penne che ci aveva infilato in mezzo per tirarli su.

«Sembri una geisha.»

«Oh, davvero? Saresti mica interessato al mio mizuage, detective?»

«…Beh, forse. Non so che cosa sia.»

Ferid si appoggiò al bordo della vasca e passò il dito indice sotto il suo mento. Lui non si ritrasse, quindi era dell’umore per giocare.

«Una geisha inizia la sua istruzione come tale molto presto… e… beh, è un rito di passaggio, si può dire. Quando raggiunge l’età giusta, fa sapere a coloro che sono più interessati a lei che è pronta per la sua prima volta nel letto di un uomo… per il suo mizuage~»

«Oh, Ferid, questo è molto interessante, ma ho come l’impressione che il tuo mizuage sia andato da un po’ di tempo.»

«Ti lascerei a bocca aperta…» disse Ferid lentamente, passando il dito sulle sue labbra. «Se fossi del tutto trasparente sul mio livello di candore, sai?»

«Perdonami, ma non ci credo.»

«Eppure è così… vedresti in me un giglio di tale purezza che ti sentiresti in colpa a volerlo corrompere~»

«Ah, su questo non ci conterei. Se il giglio è d’accordo io corrompo senza esitazione.»

Ferid non si aspettava una risposta del genere con un tono tanto serio e rimase fermo lì dov’era, mentre il poliziotto si alzava in piedi e prendeva l’accappatoio appeso accanto alla doccia, aprendolo per lui.

«Avanti, fuori di lì, fiorellino. Diventerai una prugna secca.»

«Ma sono appena entrato!»

«Dai, insomma, vuoi che ti preghi? Ti ho comprato un regalo e voglio dartelo subito!»

«Mh? Un regalo per me?»

«Sì, ma non posso dartelo finché stai a mollo come una papera!»

«Una papera. Questa poi.» commentò Ferid, sedendosi sul bordo della vasca. «Potevi almeno paragonarmi a un cigno, ti pare?»

«Non mi piacciono i cigni, sono animali cattivi. Le papere sono molto più carine e sono animaletti amabili, li hai mai visti? Alla fattoria di mio nonno ne vedevo sempre. La mamma cammina e i paperotti la seguono passo passo.»

Ferid decise che era inutile replicare su quel punto, uscì dalla vasca da bagno e infilò le braccia nelle maniche dell’accappatoio prima di chiuderselo addosso. Era molto più grande della sua taglia, ma certo era comodo e morbido. Si sfilò le penne dai capelli lasciandoli ricadere sulla schiena, con le punte che arrivavano all’altezza dei suoi lombi.

«Sai, Ferid… tu sei bellissimo.» gli disse Crowley, prendendolo in contropiede. «Ma penso che la tua bellezza sia anche il tuo peggior nemico.»

«In che senso?»

«Sì, insomma… ti ci concentri troppo. Non è sbagliato che tu ti prenda cura del tuo dono, ma lo usi come se fosse la sola cosa che hai, il che è… beh, ridicolo. Sei molto più affascinante quando non fai finta di essere una donna, per esempio.»

«Oh, è piuttosto difficile che io possa passare per una donna per davvero, detective.»

«Sì, ma quando sei preoccupato o qualcosa ti distrae dalla tua recita tu non parli, cammini e ti muovi come una donna, quindi reciti, non è ovvio?»

«Cosa c’entra questo con le papere e tutto il resto?» domandò lui, nella speranza di svicolare un discorso che si stava facendo minaccioso.

«Quello che volevo dire è solo che… beh, io non ti giudico. Non sono qui a fissarti per dirti dove sbagli e dove non sei perfetto. Semplicemente… perché non provi a essere quello che sei e basta? Sei un uomo e non mi pari un transgender, quindi perché non sei… semplicemente l’uomo che sei? Perché cerchi di essere più femminile?»

Ferid fissò il proprio riflesso nello specchio, sistemandosi i capelli senza replicare, ma vedeva benissimo che Crowley lo fissava negli occhi dal suo riflesso.

«Vorrei che ti comportassi qui come fai a casa, quando non ti vede nessun altro. Tutto qui. Io ho avuto… donne maschiaccio, donne graziose e delicate, donne sexy da far paura… come uomini virili e uomini infinitamente meno maschili dello stereotipo sociale… ah… mi sto un po’ perdendo, ma quello che voglio dire è…»

Prese un sospiro e tese un sorriso accennato.

«Non devi impressionarmi e non hai bisogno di questi atteggiamenti femminili per sedurmi, se questo è davvero quello che stai cercando di fare. Non devi far finta di essere qualcosa di diverso, di raro, o di speciale, perché lo siamo tutti. Va bene… qualsiasi tipo di uomo tu sia, basta che sia vero.»

Ferid lo guardò negli occhi attraverso lo specchio. Si rendeva perfettamente conto che la bellezza di quell’uomo gli faceva desiderare una storia seria o almeno un’avventura con lui, ma non poteva ignorare da quanto tempo era solo e quanto poco fosse capace di gestire una relazione con qualcuno. Non sapeva che cosa davvero voleva da lui, né da se stesso.

Crowley sorrise e gli strofinò le mani sulla schiena con tale foga che quasi lo mandò a sbattere contro il mobiletto.

«Allora, sei asciutto? Andiamo!»

Lui lo sospinse verso la porta con quelle sue grandi mani, con la stessa determinazione di un cane da pastore che porta le pecore verso il recinto.

«Ma che modi… ehi… non toccarmi il sedere!» protestò Ferid, spostandogli la mano proprio da lì. «Guarda che è una molestia sessuale!»

«Oh oh, addirittura? Eppure l’altra sera sembravi impaziente che lo facessi!»

«L’altra sera era l’altra sera!»

«Ahah, anche questo è vero, ma poco fa con il tuo mizukage?»

«Mizuage! E poi non importa, posso cambiare idea anche ogni due secondi, sai?»

«Caspita, allora bisogna sbrigarsi con te quando sei disponibile!»

Crowley fece una risata allegra che Ferid non gli aveva mai sentito fare e non riuscì a impedirsi di pensare che bel suono fosse. Raggiunsero il soggiorno, dove due scatole, una quadrata bassa e l’altra rettangolare, erano impilate sul divano. Ferid le guardò con una certa curiosità.

«Vuoi fare un gioco con me, Ferid?»

«Con questo preambolo sono tentato di schiantarti un bel no in faccia, sono sincero.»

«Oh, non chiuderti a riccio in questo modo… sono pur sempre una brava persona, non farei mai intenzionalmente qualcosa che possa ferirti… mi credi veramente capace di estorcerti una frase di consenso estrapolata dal contesto per farti qualcosa di brutale?»

«No, ma sono tante le persone che non credevo capaci di farmi del male che l’hanno fatto.»

«Allora motivo in più per fidarti di me… ti mostrerò che esistono persone che non ti faranno male anche se abbasserai la guardia.»

Non voglio parlare di questo. Non voglio pensare a quelle cicatrici che mi porto ancora dietro. Perché quest’uomo vuole sempre parlare di questo?

Ferid si spostò i capelli dietro l’orecchio tentando di nascondere l’irritazione.

«Che gioco vuoi fare, detective?»

«È un gioco di fiducia. Lo facevamo negli spogliatoi della palestra alla San Cristoforo, la mia scuola cattolica.»

«Sto per sentire qualcosa che mi farà avere paura delle scuole cattoliche per il resto della mia vita?»

Crowley ignorò il vago nervosismo di Ferid e anche il suo sarcasmo, come se non lo avesse proprio sentito.

«Ogni volta toccava a uno diverso di noi… dopo la doccia indossavamo il telo o l’accappatoio, com’è normale, no? Il gioco è questo: dovevi allargare le braccia e chiudere gli occhi, mentre gli altri ti toglievano l’accappatoio e ti vestivano, poi dovevi uscire dallo spogliatoio così com’eri.»

«E che scopo ha tutto questo a parte il pubblico ludibrio?»

«Beh, ti devi fidare dei tuoi compagni. Potevano metterti i vestiti a rovescio di proposito, o quelli di un altro… e qualcuno fosse stato uno stronzo avrebbe potuto portarsi una macchina fotografica o una videocamera e registrarti mentre eri nudo, è una grande prova di fiducia esporsi in questo modo.»

«Stai cercando di dirmi che hai intenzione di togliermi l’accappatoio di dosso e vestirmi?»

«Diciamo di sì, ma dato che tu sei diffidente quanto quella stronza della tua gatta cercherò di essere il meno invasivo possibile.»

Il poliziotto lanciò un’occhiata truce verso il felino, ma continuò a dedicare a lui un sorriso tranquillo. I suoi occhi blu sembravano amplificare la serenità che emanava nei suoi confronti e l’ultima cosa che sembrava voler fare era qualcosa di fisicamente o psicologicamente violento.

«Tu mi sorprendi, detective Eusford. Sei grande e grosso, fai il poliziotto della squadra omicidi, eppure per certi versi sei come un bambino.»

«Per noi comuni mortali la vita è troppo breve per prenderla così seriamente! Allora, Ferid? Ci stai o non ci stai?»

Ferid sospirò lentamente e si prese qualche istante per rifletterci. Essere fragile, mostrarsi vulnerabile agli altri era qualcosa che non gli piaceva, che lo metteva a disagio. Aveva permesso così tante volte che qualcuno gli affondasse un coltello nella schiena da preferire vivere con un’armatura sempre addosso.

Gli tornarono in mente le parole di Krul sul fatto che si stesse di nuovo comportando come un essere umano, le sue paure, la sua paranoia che il prossimo attentatore fosse già armato alle sue spalle.

Ma lui è diverso… ha fatto così tanto per me in questi mesi. E se a lui, come a Claude, importasse davvero di me? Posso permettermi di perdere un altro uomo tanto straordinariamente gentile?

Con il battito del cuore accelerato e un coro di voci sconclusionate che gridavano mille motivi per non farlo, Ferid chiuse gli occhi e allargò leggermente le braccia.

«È un buon inizio.» fece Crowley con un tono allegro. «Vedrai, ti insegnerò a fidarti di nuovo di qualcuno. Non ti deluderò.»

«Auguratelo.» gli rispose lui, stupendosi di quanto uscì minaccioso.

«Ahah, che paura che faceva questo tono…»

Si irrigidì appena quando sentì un paio di mani non sue slegare con lentezza la cintura e poi sfilargli di dosso l’accappatoio. Sentiva freddo. Sentì il rumore di una scatola aperta, di carta smossa; poi la mano di Crowley guidò la sua dentro una manica di tessuto liscio e morbidissimo. Fece lo stesso con l’altra e aggiustò sulle spalle quella che – gli era chiaro da come se la sentiva cadere addosso – era una vestaglia.

«Sembra che io abbia azzeccato la tua taglia.»

Crowley fece scivolare la sua chioma da sotto con dita delicate; si spostò davanti a lui e chiuse la vestaglia, legandogli la cinta non troppo stretta.

«Ora puoi aprire gli occhi, sei vestito… beh, più o meno.»

Ferid aprì gli occhi e guardò Crowley in volto prima di qualsiasi altra cosa: il suo sorriso tranquillo fece scivolare via la sua agitazione per quello che era appena successo.

«Non per vantarmi, ma ho scelto bene. A te piace?»

Ferid allora prestò attenzione alla vestaglia di seta: aveva un taglio simile a quella blu che Crowley gli aveva visto indossare quella sera a casa sua, ma era di un intenso rosso scuro, come un robusto Pinot nero, con un delicato ricamo damascato. Aveva ragione sulla taglia, perché era perfetta, non troppo larga, né troppo attillata. Suppose che il fatto che fosse dello stesso colore della pietra del suo anello e degli orecchini che portava più spesso non fosse casuale.

«Certo è un bel pezzo di sartoria, detective. Non è qualcosa che si trova a dieci dollari nei mercatini.»

«Si possono dire un sacco di brutte cose del mio pessimo romanticismo, ma nessuno ti dirà mai che faccio regali da pezzente, sai?»

«Oh, sul serio? E io che stavo cominciando a pensare di essere un privilegiato…»

Crowley si grattò la testa e facendolo una ciocca di capelli rossi rimase dritta come un’antenna, ma non poteva accorgersene senza specchiarsi.

«Un po’ lo sei, è stato imbarazzante entrare in un negozio di intimo femminile.»

«Ma a chi vuoi farla bere? Con tutte le donne che devi aver avuto?»

«Io sono irlandese, noi non compriamo intimo per le nostre donne. Noi lavoriamo, portiamo a casa i soldi e loro si comprano l’intimo da sole.»

«Oh, deciditi, o sei un bravo ragazzo irlandese o sei quello che corrompe tutti i gigli che gli capitano davanti. Non puoi essere tutti e due.»

«E invece posso.» tagliò corto lui, e lisciò una piega della seta sulla spalla. «Ma vedi di tenerla cara, perché non torno là a comprarne un’altra. La commessa mi guardava in modo terribile.»

«Terribile perché stavi comprando una vestaglia?»

«Lo giuro, pareva che avesse visto Big Foot…»

«Ma questo è normale, detective Eusford, ti sei mai guardato nello specchio?»

«Fai un commento sulla mia altezza e ti prendo a pugni, Ferid, sei avvisato.»

«Sai quanto incredibilmente raro sia di questi tempi un uomo bello come te che va in un negozio di intimo e compra una vestaglia così pregiata per la sua fidanzata, invece che uno squallido completino adatto a una prostituta?»

Crowley non rispose, leggermente interdetto, e Ferid si accigliò mentre lanciava uno sguardo alla scatola più piccola.

«Ti prego, dimmi che lì dentro non c’è niente del genere.»

«Oh… oh, no, no. Certo che no.» lo rassicurò lui con aria distratta. «È davvero una cosa così rara…?»

«Quasi unica, mi sento di dire. Probabilmente ti guardava così perché sognava di trovare anche lei un uomo come te.»

«Ma guarda… e io che credevo che gli uomini meno cattolici facessero sempre di queste cose…»

«Tu… un giorno parleremo per bene di questa tua idea irrealistica degli uomini di oggi.»

«Non so se tu sia la persona più adatta per dirmi come sono gli uomini di oggi, non hai detto poco fa che sei candido come un giglio?»

«Non vuol dire che non sappia come gli uomini pretendono di trattarti. Anzi, proprio perché lo so continuo a restare single.»

«Oh.» fece lui, sorpreso. «Allora sì, dovremmo proprio parlarne. Mi sa che sarebbe una conversazione illuminante.»

Crowley prese la scatola vuota del negozio, sempre con quella certa aria pensierosa. Ferid gli afferrò la manica, appena sopra il gomito, prima che si allontanasse da lui.

«… Mi piace molto. Grazie.»

«Di niente.» rispose lui, sorridendo. «Dai un’occhiata a quelli… non sono altrettanto sicuro che incontrino il tuo gusto.»

Ferid guardò la seconda scatola, si sedette sul divano e l’aprì scoprendo che contenevano un paio di stivaletti neri. I passalacci con la borchia a forma di giglio araldico gli suggerivano che ci avesse messo tutto l’impegno per trovare qualcosa di particolare che si adattasse al suo stile gotico e il laccio fatto da un nastro spesso a righe bianche e nere lo entusiasmò a livelli adolescenziali, ma riuscì a mantenere un certo contegno.

Ha anche indovinato la misura, incredibile... ah, che l’abbia vista sui miei stivali che hanno controllato in laboratorio?

Notò che era in attesa di un commento con una tensione apparentemente inspiegabile: altre commesse lo avevano guardato strano?

«Sono molto carini, detective. Mi chiedo dove tu sia andato a scovarli.»

«Ho i miei informatori.» disse lui scrollando le spalle. «Ho pensato che almeno un paio di scarpe ti sarebbero servite, nel caso noi si riuscisse ad andare da qualche parte nei prossimi giorni. Dopotutto ti avevo promesso una partita dei Lizards, uno spettacolo all’Elysium e una birra al pub, non posso portartici scalzo.»

«E una cena. Non dimenticare la cena~»

«Hai ragione, anche una cena.»

«Detective Eusford, posso farti una domanda?»

«Tutte quelle che vuoi, tanto c’è sempre il quinto emendamento.»

«Perché lo stai facendo?»

Crowley smise di cercare di infilare la scatola sullo scaffale troppo corto della libreria e lo guardò.

«Facendo che cosa?»

«Mi ospiti a casa tua, anche se potevo stare in un altro posto a spese mie o della contea. Cerchi di accudirmi, quando è evidente che non è un ruolo che ti è consono, di coccolarmi, altra cosa che non sei abituato a fare… perché?» insistette Ferid. «Io ti ho salvato la vita, sì, ma tu l’hai salvata a me, e con molti meno danni conseguenti. Il tuo debito è ripagato.»

«Oh, sì. Lo so questo, ma semplicemente… credo che tu abbia bisogno di me adesso, e a me non dispiace la tua compagnia, quindi smettila di martoriarti sui perché e goditi quello che la vita, o in questo caso io, ti offro.»

Ferid distolse lo sguardo per osservare la sua gatta, che si stava strisciando contro la sua gamba, e l’accarezzò distrattamente fingendo di non accorgersi che lui continuava a guardarlo.

«Certo che sei bello diffidente, Ferid. È davvero così impensabile che qualcuno possa affezionarsi a te?»

«È capitato molto di rado, sai.»

«A me non pare. Avevi un marito devoto, a quanto mi è sembrato di capire, e a me oggi è piombato in ufficio un uragano rosa che ha candidamente promesso di accecare in modo molto creativo chiunque sarebbe stato ritenuto negligente e responsabile per questo della tua scomparsa.» gli disse lui, con un sorrisetto piuttosto ilare. «Me per primo. Cielo, fa davvero paura quando è arrabbiata, e dire che è alta la metà di me… ma da quanto è preoccupata direi che non si è bevuta la tua storiella sul vampiro immortale.»

«La cosa che fa ridere è che lei dice a tutti i clienti che è una strega, mentre la sola cosa da strega che ha è il suo pessimo carattere.»

«La cosa che fa ridere me è che continui a parlare come se nessuno ti volesse e sei circondato da persone che vogliono sapere che tu stai bene… anche se sono un miserabile poliziotto con un debole per le tentazioni della carne, a letto o alla griglia, e una piccola strega irascibile.»

Senza aggiungere altro Crowley portò la scatola nella camera da letto e lo lasciò solo, con la testa che ronzava da tanti pensieri aveva.

 

 

Ferid si appoggiò contro la testata del letto e sospirò, passandosi la mano sullo stomaco. Era sollevato di essere riuscito a mangiare lo sformato di verdura portato dai vicini di Crowley senza dover correre a vomitare tutto quanto in bagno; non sarebbe riuscito a resistere un altro giorno a digiuno quasi totale.

«Via, tu, vai sul divano.» disse Crowley, spingendo Pandora verso il salotto con la punta del piede. «Non dormirai nel mio letto, Cosetta.»

«I gatti non ti piacciono, eh?»

«Quel gatto non mi piace, è perfido… e a lei non piaccio io, è evidente.»

«Non prendertela. A Pandora piace Krul, ti dà un’idea di quale carattere abbia.»

«Giustamente. Gatti e streghe sono un abbinamento classico.»

Ferid scoppiò in una risatina e Crowley raggiunse il letto sedendosi sul bordo. Gli porse una tazza fumante dal profumo familiare.

«Ma… questo è…»

«Sì, l’infuso al melograno che ti piace. Caso vuole che Mikaela ne abbia un po’ in casa.»

Ferid prese la tazza, che era avvolta da un copritazza di lana viola e si godette profondamente il calore che passava nelle sue mani e il profumo che si alzava dal liquido rosso scuro come vino. Era come riavere un piccolo pezzetto di casa, qualcosa di familiare, qualcosa di suo che lo riportava in un posto della sua mente in cui si sentiva a suo agio.

«Fammi mettere qui.»

Per il sobbalzo dello stupore quasi spillò qualche goccia di infuso quando sentì una mano allargargli le ginocchia e nella sua testa passarono all’incirca una ventina di manovre evasive applicabili prima che si rendesse conto che non stava per subire un approccio sessuale irruento: Crowley si sdraiò sulla schiena e appoggiò la nuca poco sotto il suo ombelico con un profondo sospiro, poi restò immobile con gli occhi chiusi.

«…Detective Eusford, forse è una domanda stupida, ma che cosa stai facendo?»

«Mi rilasso.»

«E devi farlo usandomi come cuscino?»

«Ti dà fastidio? L’avevamo fatto anche in ospedale.»

«Oh, no, non proprio~ eri sulle mie gambe, quella volta~»

«Ah, è vero… beh, posso stare così? In verità sei comodo.»

«Suppongo che ciò sia una specie di complimento.»

«Beh, sì. I migliori cuscini sono le donne e gli uomini con taglia ridotta.»

«…Stavo pensando di berlo, ma credo che te lo rovescerò sulla testa.»

Crowley spalancò gli occhi e sollevò la mano afferrando il fondo della tazza, prima di scoppiare in una risata nervosa.

«Scusami, scusami… commento poco delicato!»

Ferid emise una specie di brontolio, spostò la mano e si portò la tazza alle labbra.

«Fa’ come vuoi, ma sei consapevole che solo uno strato di seta ti separa dalle parti meno nobili di me medesimo, per quanto trascurabili siano?»

«Dai, non fare l’offeso, solo là in giro ci sono dei mostri, parola mia.» disse lui, spostando la testa leggermente più in basso e chiudendo di nuovo gli occhi. «Ma no, non mi disturba affatto. Quando Connor me lo lascia fare non c’è nemmeno quella nel mezzo.»

«Mh? Connor?»

Ferid fece un sorriso e passò le dita tra i capelli rossi. Nonostante una tale vicinanza intima non poteva dire che si sentisse a disagio.

«Chi è Connor? Il tuo fidanzato? Il vero motivo per il quale sei così determinato a non cedere alle mie lusinghe?»

«Nessuno dei due… Connor è… vediamo… come potrei spiegare?»

Crowley aprì gli occhi blu e li puntò sul soffitto, passandosi il dito sul mento con aria pensierosa.

«Credo di poter dire che è il mio amante.» concluse infine, in tono incerto. «So che non ci amiamo, e so che non ci sarà mai qualcosa di serio tra di noi, ma nonostante questo…»

«Oh, cielo, quindi hai un uomo con cui sfoghi i tuoi bassi istinti senza ritegno~»

«Sì, sì, direi che è un’ottima definizione di Connor.»

«Mhh, ora sono curioso… che tipo di uomo è?» gli chiese Ferid, chinandosi abbastanza da entrare nel suo campo visivo e guardarlo negli occhi seppure alla rovescia. «Che cos’è che ti seduce tanto di lui?»

Crowley gli lanciò uno sguardo indagatore, e senza conoscere i retroscena della gelosia di Sean Lesky non poteva sapere che si stava chiedendo fino a che punto fossero simili le loro intenzioni nel fargli una domanda di quel genere.

«Non vuoi dirmelo? Non ti devi vergognare, puoi dirmelo se ti piace solo perché ha un enorme…»

«Non mi vergogno.» l’interruppe lui. «Stavo solo pensandoci.»

«Non sembri avere le idee chiare o è una mia impressione, mh?»

«Non le ho mai avute su di lui… Connor è… un’anomalia nella mia vita, mettiamola così. Mi fa comportare come non è la normalità per me. Mi convince che voglio cose che non avevo mai pensato di volere, e poi me le dà. Onestamente, non sono il tipo di uomo che sono quando c’è lui, ma… è una specie di carnevale. Prendo una pausa da me e divento qualcun altro, per gioco, diciamo.»

«E ti piace, questa festa?»

«Beh… direi di sì. Sì.»

«Allora continua a goderti i festeggiamenti, detective Eusford… anche se con uno stregone del genere sembra il Mardi Gras di New Orleans~»

«Non che possa festeggiare quando voglio… Connor è un militare, un navy seal, quindi è in missione anche per lunghi periodi. E poi te l’ho detto, non siamo impegnati. Quando torna in città di solito mi chiama e usciamo, ma so che non vede soltanto me, né gli ho mai chiesto una storia seria…»

«Mhh, un navy seal~ dev’essere proprio un macho, eh? Accidenti, che competizione spietata che c’è per te, io passo~»

«A lui piacciono gli uomini robusti e ha una fissazione per i capelli rossi… io non sono così selettivo, non arrenderti così facilmente!»

«Ah, no, ora sono proprio depresso, ho il cuore a pezzi e voglio piangere… ma non sono abbastanza idratato per riuscirci.»

Prese qualche sorso di infuso mentre Crowley ridacchiava divertito.

«Oh, Ferid, quanto siete diversi…»

«È ovvio, mi hai visto? Io non durerei un’ora nei navy seals.»

«No, intendevo… ah, non fa niente.»

Ferid non insistette e si limitò ad accarezzargli i capelli.

È buffo che non ami molto i gatti, perché quando si lascia accarezzare lo sembra proprio… gli piace davvero.

Crowley fissava il lampadario, un’anonima plafoniera bianca, con aria molto assorta: qualsiasi cosa stesse pensando doveva coinvolgerlo molto. Poi, come nulla fosse, alzò il braccio e passò la mano sulla gamba di Ferid, dalla caviglia in su. Lui la guardò con una vaga apprensione, ma quella si fermò sul ginocchio dopo aver leggermente scostato un lembo della vestaglia.

«Ricordo di averlo notato anche quella sera.» disse poi, distogliendo lo sguardo dal lampadario. «Nonostante stessi male, l’ho notato quando ti ho preso in braccio per metterti sulla barella. Le tue gambe sono lisce.»

«Oh, sì, lo sono. Puoi accarezzare dove vuoi, sono liscio dappertutto~»

«Stai attento a queste frasi, se fossi un uomo peggiore lo prenderei per un invito.» l’ammonì Crowley. «Quanto al dappertutto, ho dei dubbi.»

«Ah, che uomo di poca fede! Ti dico, dappertutto. Se non ci credi prova.»

«Ferid, mi stai stordendo. Ti stai ritirando oppure no? Ci stai provando oppure no? Dimmelo chiaramente, guarda che non sono abbastanza intelligente da arrivarci da solo. Mi farai scoppiare il cervello.»

«No, questa volta voglio solo dirti uno dei miei segreti, detective… sei curioso?»

Crowley lo guardò per un attimo, poi si sollevò e si mise in ginocchio davanti a lui. Gli puntò addosso uno sguardo tanto saldo e profondo che in battaglia avrebbe convinto qualsiasi nemico a ritirarsi.

«Ferid, non lo devi fare se non hai davvero dell’interesse per me e non devi svelarti se non ti senti a tuo agio nel farlo.»

Ferid sorrise spontaneo. In verità non ricordava una sola volta in vita sua in cui si fosse sentito così tanto a suo agio con un altro uomo, in una casa non sua, in una situazione in cui la sua testa continuava ad avvertirlo di non avere un vantaggio sufficiente a sentirsi al sicuro. Piegò le gambe mettendosi in ginocchio come lui e sciolse lentamente il fiocco della cinta.

«Volevi che fossi me stesso, vero? Ti voglio mostrare una delle mie più intime stranezze. Sono molto pochi a saperlo, in verità… c’è una sola persona ancora vivente oltre a me che lo sa. Con te diventerebbero due, vuoi saperlo?»

Il suo sguardo vacillò. Era evidente che aveva pungolato la sua curiosità, anche se forse avrebbe preferito mostrarsi più maturo e rimandare un’intimità troppo precoce.

«Con questa premessa non riuscirei mai a dire di no.»

«Un detective come te avrebbe dovuto notarlo, dato che mi hai già visto due volte senza veli… mi ferisce, vuol dire che non mi guardi con attenzione.»

Ferid aprì la vestaglia, che gli scivolò anche giù dalla spalla sinistra. Crowley tacque qualche istante, le sue sopracciglia rosse si aggrottarono lievemente e poi i suoi occhi azzurri come il cielo estivo si abbassarono per esplorare – Ferid ne era certo – un corpo che la sua moralità gli aveva imposto di non osservare nelle occasioni precedenti. Esitò un po’ prima di allungare la mano e sfiorare il suo pube con la nocca di un dito.

«Come il corpo di un ragazzino, non è vero? È così rado anche sotto le ascelle, vedi? Proprio come quando avevo dodici anni.»

«Vuoi dire che tu sei proprio… così?»

«Oh, sì.» disse Ferid, in parte divertito dalla sua espressione stupita, mentre richiudeva la vestaglia. «Ho una forma di ipotricosi, è una cosa che ho preso da mia madre.»

«È una malattia?»

«Sì, una malattia ereditaria… si può trasmettere ai figli oppure no, proprio come il colore chiaro degli occhi o altri geni. Io l’ho presa, ma quella di mia madre era molto più grave. Lei non aveva neanche le sopracciglia e quando era ragazza ha fatto un intervento per non portare una parrucca per sempre. La mia forma, inspiegabilmente, non ha mai intaccato i miei capelli. Ma se le guardi da vicino, le mie sopracciglia sono un po’ rade, per fortuna sono chiare e si nota poco.»

Crowley si sporse a guardarle, con l’aria stupefatta di un bambino che va per la prima volta al luna park e resta abbagliato dalla musica, dai colori e dalle luci. Gli suscitò una strana forma di tenerezza, non dissimile da quella che gli davano alcuni bambini nelle loro piccole, grandi meraviglie.

«Ti dà dei problemi questa malattia, Ferid?»

«Oh… no. No, nessun problema. Non ha alcuna conseguenza, oltre al fatto che… beh, che faccio pochissimo attrito~»

«Capisco… quindi… non è di questa malattia che parlavi nel tuo diario, no? Ho letto quello che scrivevi della maledizione di tua madre che era arrivata a te, o qualcosa del genere.»

Ferid perse un poco del suo buonumore del momento. Non era sicuro di cosa fosse scritto nel diario che aveva dato a Crowley, dato che da anni scriveva ogni giorno qualcosa e ne aveva svariate decine.

«Ah… scrivevo questo?»

«Sì… di che cosa parlavi? Tu non sei mica pazzo, quindi non parlavi neanche di quello, no?»

«Abbastanza segreti per una sera soltanto, detective~»

Crowley sospirò, lo guardò fisso per qualche istante, poi si arrese e scese dal letto arraffando un cuscino.

«D'accordo… un segreto per un segreto, mi pare giusto. Connor in cambio della tua malattia mi pare equo… ora devo pensare a che cos’altro ti posso raccontare in cambio di tua madre, io non ho dei segreti veri e propri.»

«Dove vai, detective?»

«Vado sul divano, così puoi dormire bene stanotte… hai passato la nottata quasi in bianco in salotto, no? Devi riposare.»

«Ma tu nemmeno ci entri tutto in quel divano.»

«Posso sopravvivere… se la tua gatta non mi uccide nel sonno, ovviamente.»

Ferid esitò un momento, durante il quale le voci nella sua testa gridarono mille motivi, quasi tutti immaginari, per i quali rischiava terribili conseguenze a farlo, ma poi sorrise e abbassò la coperta.

«E se invece dormissi qui, vicino a me?» gli chiese, battendo la mano sul materasso. «Ah, però devi giurare che sarai un gentiluomo~»

«Io sono sempre un gentiluomo.» ribatté lui piccato. «E soprattutto ho un accordo con Dio per un certo periodo di astensione.»

Crowley buttò il cuscino sul letto e si sfilò i pantaloni, ripiegandoli con cura: non si accorse dell’espressione stupita di Ferid, che fece in tempo a ricomporla in un certo sorriso malizioso.

«Ah, allora è questo il motivo per cui non ti puoi concedere~»

«Non ridere, è una cosa seria.»

«Non rido per il tuo voto, rido per le bugie che hai detto per non ammetterlo~»

«Beh… me lo merito. Di questo puoi ridere.»

Certo, avrebbe potuto essere abbastanza divertente da riderne, ma Ferid tacque per tutto il tempo mentre Crowley si preparava per dormire e recitava una preghiera sottovoce. Si chiedeva se piacesse a Crowley, se gli piacesse tanto che avrebbe voluto averlo, quando avesse adempiuto al suo contratto con Dio… e si chiedeva, senza darsi una risposta chiara, che cosa lui avrebbe fatto se avesse scoperto che era così. Non era ancora convinto che nel mondo ci fosse una seconda possibilità, un altro Claude Trobiano… un altro uomo in grado di amare tutte le sue stranezze.

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Capitolo 14
*** La chiesa di Saint Thomas ***


 

Quando Ferid si svegliò era già mattina e una luce soffusa che veniva dalla finestra glielo suggerì non appena aprì gli occhi. Se li strofinò e si stiracchiò con sacrosanta calma, prima di allungare la mano di fianco e sentire il letto vuoto: quel gesto si suscitò un momento di malinconia, riportandogli alla mente i giorni in cui aveva appena perso Claude e allungava per abitudine la mano dalla sua parte del letto per svegliarlo.

Non ho mai domandato a Claude perché ci tenesse a essere svegliato subito appena mi svegliavo io. Se si alzava per primo, mi lasciava dormire per un po’.

Pandora saltò sul letto iniziando immediatamente a fare le fusa e sollevò la coda a ricciolo non appena la sfiorò sulla schiena.

«Dove hai seppellito il detective Eusford, Dora? Mh? Dubito che la tua lettiera fosse abbastanza grande.»

Ferid ridacchiò e strinse la gatta a sé, grattandole la pancia, e smise solo quando lei gli afferrò la mano dandogli un morso senza stringere e prese a dargli i suoi calcetti senza tirare fuori le unghie. All’improvviso lei schizzò via e si nascose sotto il letto.

«Dora, sei proprio pazza.»

«Lo penso anch’io.»

Ferid girò la testa di scatto verso la porta e vide che Crowley stava sedendosi sul bordo del letto, con due tazze di caffè fumante in mano.

«Oh, ecco perché è scappata, è arrivato un enorme uomo coi capelli rossi~ con del caffè pour moi? Mi potrei sciogliere dalla contentezza~»

«Non lo fare» gli disse, con un sorriso. «Buongiorno, Ferid. Come hai dormito?»

«Ho dormito… il che è già sorprendente, si vede che la tua presenza è così calmante che riesce ad acquietare persino un’anima tempestosa come la mia~»

«Come riesci a sparare queste scemenze appena sveglio? Io appena sveglio a malapena mi ricordo chi sono.»

«Io non l’ho mai saputo davvero, quindi ho molte meno cose a cui pensare quando mi sveglio~»

«Così pare… ma sei hai dormito mi accontento di sapere questo. In effetti hai l’aria riposata.»

Gli porse una delle tazze del caffè, che spandeva un delizioso aroma. Ferid la prese e inspirò il profumo a fondo.

«Mh, ha un profumo meraviglioso~»

«Considerati un privilegiato, di solito riservo questo caffè costoso ai miei amanti, la mattina dopo. Tu l’hai avuto solo per aver ronfato beatamente.»

«Oh, quelle chance

«In realtà non volevo sfigurare dandoti la mia solita brodaglia.» ammise Crowley, prendendone un sorso senza incrociare il suo sguardo.

«È divertente, sembra che tu voglia rendere la tua casetta e la tua dispensa all’altezza del mio sontuoso castello~»

«Un po’ è vero, tu sembri abituato a un sacco di cose belle, come un principe.»

«Oh, grazie, detective… di aver detto “principe” e non “principessa”, per prima cosa.»

Crowley non rispose e bevve dalla tazza, quindi Ferid l'imitò e sorseggiò in silenzio. Il caffè era piuttosto buono, con delle note di frutta secca che avvertiva distintamente in fondo al palato. Si sorprese che quel silenzio, allungatosi per minuti, non diventasse imbarazzante.

«Tuo marito ti portava la colazione a letto, qualche volta?»

«Uh? No, soltanto la mattina del mio compleanno l’ha fatto… ci teneva che la facessimo insieme a tavola, come tutti gli altri pasti.» rispose Ferid, oscillando la tazza. «Però mi spazzolava i capelli tutte le mattine.»

«Eh, davvero?»

«Claude è sempre stato affascinato dal riflesso dei miei capelli.» disse con apparente noncuranza, e vi passò le dita nel mezzo. «Fin dal primo momento in cui mi ha visto… li chiamava rifulgente crine di unicorno

Si aspettava che Crowley ridesse di un simile paragone, ma non lo fece. Allungò la mano e sollevò una ciocca di capelli argentati, guardandola assorto prima di lasciarla ricadere sulla coperta.

«Sì, penso di capire che cosa intendesse dire.»

«Uhm… detective, sembra a me o c'è odore di bruciato?»

«…Oh, i toast!»

Crowley si alzò incespicando nel lenzuolo, imprecò sonoramente quando rovesciò il caffè per terra e partì spedito verso la cucina. Ferid si mise suo malgrado a ridere tanto forte che si beccò un rimbrotto dall'altro lato della casa. Senza riuscire a ridimensionare neanche un poco il sorriso che aveva in faccia Ferid si alzò dal letto, si infilò la vestaglia e portò in cucina la sua tazza vuota. Pandora lo seguì con la coda ben dritta.

«C'è qualcosa di salvabile per colazione, detective?»

«Per degli umani o per dei maiali?» fece lui seccato.

«Se è salva per i maiali basta fare un altro toast per me~»

«…Ehi, grazie!»

«Ahah, tu sei un po' porcellino a quanto ho sentito, quindi puoi mangiarlo~»

«Spietato, come quella bestia di Satana che è il tuo gatto.» sentenziò Crowley, rabbuiato. «Ma siccome sono un povero fesso, troppo gentile come il mio vecchio, vi terrò lo stesso in casa mia.»

«Oh, che fine ha fatto casa nostra, i nostri vicini, e quel che è mio è tuo

Crowley avvicinò la padella al piatto di fronte alla sedia che Ferid aveva scelto e gli diede un colpetto sulla fronte con il manico di gomma della paletta.

«Ahi!»

«Ricordatelo la prossima volta che ti verrà in mente una cattiveria da dirmi!»

«Non voleva essere una cattiveria, e poi del maiale non si butta via niente, no?»

«Ah, sei bravo ad arrampicarti… ma ti farai male, scendi dallo specchio.»

Crowley gli servì le uova nel piatto e mise nuove fette di pane a tostare, poi versò dell'altro caffè per entrambi e aprì una scatoletta di tonno nel piattino di Pandora prima di sedersi al tavolo.

«Magari se le do da mangiare facciamo amicizia. Ha funzionato con il cane di mio zio.» disse lui in risposta allo sguardo sorpreso di Ferid.

«Mi sorprende che tu ci voglia provare.»

«Io ci provo sempre a diventare amico di qualcuno, con tutto quello che ho.»

Intuì che quella frase era in parte rivolta a lui e ciò lo fece sorridere.

«Sembra di sì.»

«Ma non hai ancora mangiato niente di quello che ti ho dato, sappi che non mi arrendo finché non lo farai.»

«Come no? Ho mangiato le uova, e anche il toast con il miele.»

«Parlo della mia sheperd's pie!»

«Oh… ehm, a questo proposito, c'è una cosa che dovrei…»

Ferid si interruppe bruscamente quando, toccandosi l'orecchio per il nervosismo, si accorse che gli mancava uno dei suoi orecchini rossi a goccia. Allarmato guardò per terra e quando non lo vide scattò in piedi e fece la strada a ritroso fino alla camera. Dovette frugare tra i cuscini per trovarlo e se lo rimise al lobo con un sospiro di sollievo.

Non avrei sopportato di perderlo… anche se in effetti, dove poteva essere se non in casa?

Tornò in cucina dove Crowley stava mangiando il suo bacon abbrustolito con aria incuriosita.

«Avevo perso un orecchino.» gli disse allora sedendosi. «Ma l’ho trovato, era nel letto.»

«Per la miseria, sembrava che ti fossi perso un rene.»

«Beh, li cambio a seconda di cosa indosso, ma ci tengo a questi. Mi sarebbe dispiaciuto se non l'avessi più trovato.»

«Sono un regalo di tuo marito anche quelli?»

Fu sorpreso di quell’associazione, ma poi rifletté sul fatto che il poliziotto sapeva molto poco di lui e del suo matrimonio.

«Oh, no. Non portavo ancora gli orecchini quando ho sposato Claude…»

«Da come ti sei spaventato di averne perso uno pensavo fosse una cosa sentimentale.»

«Oh, se la vuoi vedere così, in un certo senso… sai, erano di Krul, questi orecchini.»

«…Della streghetta? Sul serio?» fece lui, masticando. «E perché li ha dati a te?»

Il tono di vago sospetto poteva essere solo nella sua testa o uscito strano per il boccone di uova e bacon, ma Ferid si allarmò comunque.

«Beh, gliene avevo prestati un paio che non ho più rivisto, quindi ho preteso uno scambio, tutto qui. Adoro metterli per ricordarle che l'ho privata di qualcosa… ora posso farti io una domanda, no? Ho risposto alla tua~»

«Questa è una bugia, i segreti rivelati devono essere veri per valere!»

«Ma è vero, invece… perché dovrei dirti una cosa del genere per non dirti che me li sono comprati da solo, o che me li regalò davvero mio marito? Non ho problemi a dirti tutte le cose che Claude mi ha regalato… se non che difficilmente mi ricorderò tutto…»

«No!»

«No cosa?»

Crowley lo fissò con un sorriso che si allargava sempre di più ed emise una breve risata.

«No, Ferid, ma davvero?»

«Davvero che cosa?» chiese lui, leggermente urtato. «Smettila di ridere e spiegami!»

«È lei? Lei è la donna che dicevi di aver avuto?»

Come diavolo ha fatto a capirlo da… da che cosa, in realtà? Che cos'ha visto nei miei orecchini che gliel'ha fatto pensare?

Crowley rise e si batté la mano sulla gamba trionfante, facendo sussultare Pandora che lo fissò coi suoi occhioni gialli.

«Ci ho preso! Ci ho preso, ce l'hai proprio scritto in faccia!»

«Smettila, guarda che non sei divertente!»

«Niente battutina, questo significa che è vero! Mh, mi hai detto una cosa quella volta… che non avevi figli perché…» disse esitante, aggrottando le sopracciglia e schioccando le dita più volte. «Ah… mi hai detto che avevi avuto una sola donna e le sei stato vicino per oltre un anno.»

Che memoria.

«E questo come ti dice che sia Krul?»

«Beh, è l'unica persona che incontri ogni giorno, e… niente, in realtà ci ho pensato per la piazzata che mi ha fatto ieri. Si è presa un bel disturbo a venire fino qui dal West End solo per urlarmi contro. In pratica, più intuito che deduzione.» ammise Crowley. «Beh, è per questo che è così scostante, perché avete rotto? Non sarà mica stata così anche prima.»

«È sempre stata così, anzi, era pure peggio.»

«Per la miseria, Ferid, che coraggio. Io non so se ci sarei riuscito… e com'è che sei riuscito a infilarti in un tale squalo?»

Ferid spezzò la fetta di toast, ma non trovò la voglia di mangiare, in quel momento. Si sentiva lo stomaco strizzato e si dibatté nel dubbio, indeciso se parlare o no… ma prima che la logica potesse fare le sue valutazioni, la voce uscì senza disturbarsi ad informarla.

«La ammiravo. Ha un carattere forte… fortissimo. Anche troppo, ma… io sono un debole, lo so. Invidiavo la sua combattività. Non rinuncia mai a quello che vuole, mai, non importa quanto costi, e più l'universo le si oppone e più desidera piegarlo.»

Ferid diede un'occhiata di sfuggita a Crowley, per notare che non stava sorridendo ma lo ascoltava con attenzione. Accavallò le gambe sotto il tavolo e si rigirò la cinta della vestaglia tra le dita.

«Per quanto sia una nanerottola perfida, moltissimi clienti vengono per lei… piace a tanti uomini, e lei usciva con chiunque… con chiunque avesse il coraggio di chiederglielo, almeno.»

Lo sguardo di Ferid era perso; guardava verso Crowley ma senza concentrarsi su di lui lasciava che la sua vista continuasse a cercare un focus. L’effetto sul suo viso fu quello di un’espressione glaciale.

«Ero geloso, detective. Avrei voluto buttare fuori tutti quelli che entravano per parlare con lei… ma ovviamente, non ne ho mai avuto il coraggio. Sono sempre stato un codardo.»

«Ferid, non…»

Ferid chiuse gli occhi e sollevò il palmo verso di lui, zittendolo all’istante.

«Lasciami finire, per favore. Non ne ho mai parlato a nessuno e… ho bisogno di farlo ora che sento di averne la forza.»

Crowley lo guardò con una certa apprensione, ma poi annuì. Ferid sospirò ed esitò qualche attimo prima di proseguire.

«Non ho mai trovato il coraggio di dirle che cosa sentivo e sono rimasto a guardare quelle persone uscire con lei per periodi più o meno lunghi, e soffrivo del suo silenzio più che se fosse venuta a raccontarmi quello che faceva con loro.»

Erano ferite ancora fresche, gli bastava pensarci per ricordare esattamente quanto dolore e furore provava quando Krul arrivava al lavoro il giorno dopo senza dire una parola e lanciandogli solo lunghe occhiate silenziose.

«Credevo di nascondermi bene, ma lei lo sapeva e l'anno scorso… beh, doveva andare alla festa del quattro luglio con un uomo che le ha dato picche all'ultimo secondo, quindi ha chiesto a me se volevo accompagnarla. Ti lascio immaginare con quale tono arrogante lo fece; come una regina che invita un contadino alla sua festa di compleanno.»

«Posso immaginare.»

«Nonostante questo… mi ha sorpreso, perché era gentile quella sera. Stranamente gentile… ed era anche triste, anche se sorrideva. Lo sapevo che era triste ma non le ho chiesto perché, credevo che non mi avrebbe risposto.»

«E…?»

«Si è irritata sempre di più. Alla fine è scoppiata e mi ha chiesto perché diavolo non parlavo. Perché non le dicevo che era una fortuna che quel Matthew le avesse dato buca, che era un idiota come tutti quelli con cui usciva, e altre cose… insomma, ha sbraitato per dieci minuti e allora ho capito che lei si era accorta di ogni singola cosa che avevo pensato in quegli anni.»

Crowley era una platea molto soddisfacente: nonostante mangiasse e bevesse come non stesse succedendo nulla non gli toglieva gli occhi di dosso. La sua pausa di pochi secondi bastò a pungolarlo abbastanza da convincerlo a incalzarlo ancora.

«Beh? E poi, che le hai risposto?»

«Poi l'ho baciata. Ancora uno dei più grandi rimorsi della mia vita.»

«Ah! Ma perché, scusa?»

«Perché quando l'ho fatto le ho dato delle aspettative su di me. Abbiamo passato una notte insieme, se posso dirlo una bellissima notte.»

Ferid si fermò per qualche istante, scorrendo le più belle istantanee che aveva nella memoria. Prese un altro po' di coraggio per concludere la storia con il suo tragico finale e cancellare quell’accenno di sorriso al suo interlocutore.

«Il giorno dopo, lei mi ha detto che non avrebbe mai funzionato e che avrebbe fatto finta che non fosse mai accaduto.»

«Eh? Ma… Dio santo, Ferid, non ci credo che scopi così male.»

«Ma figurati, Krul è il tipo di donna che ti butta fuori casa a metà dei lavori se fai schifo.» commentò Ferid, torvo. «So benissimo perché l'ha fatto, e lo sapevo anche in quel momento: voleva che combattessi per lei. Che le dicessi che si sbagliava, che non poteva far finta di niente… che non le avrei permesso di far finta di niente. Voleva che le mostrassi del coraggio.»

«E tu che cos'hai fatto?» l'incalzò Crowley.

Ferid trattenne a stento una risata amara e lanciando uno sguardo alla finestra si mordicchiò il dito. Si sarebbe pentito di quella conversazione, ne era sicuro.

«Quello che faccio sempre. Ho taciuto… ho accettato la sua scelta senza fiatare, perché sapevo di non essere abbastanza. Le ho dato ragione e mi sono arreso senza combattere. Per questo lei continua trattarmi in quel modo.» concluse Ferid, ancora senza incrociare gli occhi blu. «Continua ad essere così aggressiva quando flirto con qualcuno per farmi vedere come avrei dovuto comportarmi per essere un uomo degno di lei.»

«Se reagissi come lei saresti un pazzo e saresti già a Coniston.» obiettò Crowley, scrollando le spalle. «Ma capisco perché non volevi parlarne. Siamo sempre spaventati dal giudizio di altri uomini, se raccontiamo le nostre debolezze. Una donna non può capire quanto sa essere spietato un uomo con i suoi simili per sentirsi migliore.»

Ferid si raddrizzò sulla sedia e si ficcò in bocca un pezzo di toast, ma era quasi impossibile ingoiarlo. Lo mandò giù con un lungo sorso di caffè.

«Ehi, Ferid… ti posso fare una domanda? Ma devi essere sincero, okay?»

Alzò controvoglia lo sguardo su di lui e attese in silenzio.

«Tu… non è passato poi così tanto tempo… cosa provi adesso per lei? La ami ancora?»

Ferid aprì la bocca per rispondere un secco “no”, ma si limitò a sospirare.

«Non lo so. Sono sincero, me lo chiedo spesso e non so rispondere. A volte penso di amarla, ma poi…»

«Ma poi?»

Non sapeva se fosse il caso di dare voce a quel pensiero, ma oramai gli aveva già detto tutto: tanto valeva andare fino in fondo.

«Solo una volta ho davvero risposto a Krul dicendole cosa pensavo di lei e quanto mi stava facendo arrabbiare.»

Crowley non gli chiese niente e qualcosa nella sua espressione sorpresa gli diceva che aveva capito anche lui dove stava andando a parare.

«Sì… quando ci ha visti insieme nel negozio e le ho detto di portarmi rispetto. Non le avevo mai detto niente del genere in faccia.» ammise Ferid, un po' a disagio nei suoi stessi pensieri. «Per te… ho combattuto, per così dire. Da quando ti conosco sono… meno codardo, almeno un briciolo. Per quanto uno come me possa vantarsi di qualcosa di tanto piccolo.»

«Ferid, tenere testa a una donna del genere non è da tutti, non devi vergognarti di quello che hai fatto… o che non hai fatto. Abbiamo tutti, o quasi, una relazione che ci fa vergognare di come l'abbiamo gestita. Anch'io ce l'ho.»

«Quella con Sean Lesky?»

Ferid si pentì all’istante di aver detto quel nome, perché il solo suono cancellò l’espressione tranquilla di Crowley e i suoi occhi blu lo fulminarono con un’aggressività che non gli riconosceva. Sapeva di dover spegnere quella fiamma prima che diventasse incontrollabile.

«Chi ti ha parlato di lui?»

«Oh, si sta facendo un po’ tardi, vero? Tu preparati, sistemo io qui…»

«Siediti

Davanti a un simile sguardo da tigre non si sognò nemmeno di ignorare quell’ordine perentorio e si risedette, sentendosi il cuore battere in gola.

«Chi ti ha parlato di Sean Lesky?»

«Io… lo conosco, è l’agente che ha preso la mia deposizione sul ritrovamento di Samara.»

«Non giocare con me, Ferid: chi ti ha detto che abbiamo avuto una storia?» gli chiese di nuovo, sporgendosi sul tavolo. «Te l’ha detto lui? Che cosa ti ha raccontato di noi… di me?»

Nonostante il cuore che gli batteva ferocemente contro il costato e quegli occhi fissi addosso Ferid venne pervaso da una bizzarra sensazione di calma improvvisa, che ricompose la sua espressione tanto quanto la mente.

«Che cosa doveva raccontarmi, Crowley? Devo andare a chiedere a lui quali sono i tuoi scheletri nell’armadio?» gli domandò di rimando. «Perché all’improvviso sembri furioso? Hai intenzione di aggredirmi, per caso?»

Fu un sollievo quando dopo un attimo il suo sguardo si ammorbidì e si risedette, perché se avesse avuto davvero intenzione di picchiarlo dubitava di riuscire anche solo a uscirne intero. Lo guardò infilarsi le dita tra i capelli e tirarli indietro solo perché tornassero esattamente come prima, ma almeno sembrava di nuovo l’uomo gentile che conosceva.

«Perdonami, Ferid… ti ho spaventato?»

«Neanche poco, a dire la verità. Che diavolo sei, Dottor Jekyll e Mister Hyde?»

«No… no, scusami davvero… solo che quell’uomo è davvero… è un individuo pessimo. Era incredibilmente geloso, cercava di controllare con chi mi incontravo e chi chiamavo.» raccontò brevemente, come se spiegarlo in velocità lo rendesse meno doloroso. «Quando gli ho dato il benservito ha cominciato a seguirmi e a minacciare le persone con cui mi vedevo. È arrivato a tanto così da una denuncia per stalking. Crede… beh, lui sa che tu mi piaci, e pensavo che ti avesse detto qualcosa per allontanarti da me.»

Corrispondeva alla vaga traccia che Dante gli aveva dato nella loro breve conversazione, ma decise comunque di non rivelargli chi gli avesse parlato di Lesky. Se non altro, aveva visto il lato di Crowley che era capacissimo di trasformarlo nella “lattina di paté per gatti” che aveva citato l’italiano.

«Relazione difficile, eh?»

«Mah… forse tutto sommato neanche difficile come la tua.» minimizzò lui. «Almeno Sean ha avuto il buonsenso di farsi trasferire fuori dai coglioni invece di rischiare la pelle continuando a rompermeli.»

Dato che il suo ospite era visibilmente a disagio, Ferid pensò che fosse il caso di stemperare quell’atmosfera.

«Oh, cielo, quanto sei sexy quando fai il poliziotto cattivo~»

«Eh? Ma dai, vuoi dire che devo fare questo per accenderti?» fece Crowley, con un tono seccato finto quanto una maschera di cartapesta. «E io che mi stavo impegnando a essere gentile…»

«Non ti ho appena detto che sono impazzito per quella psicotica bisbetica di Krul? È ovvio che amo essere calpestato e umiliato fino alle lacrime!»

«A-ah…»

Crowley non riuscì a restare serio un secondo di più e scoppiò a ridere; subito dopo di lui a Ferid non bastò la mano premuta sulla bocca per evitare di ridere e continuarono per un bel pezzo, sotto gli occhi della gatta che sembrava rimproverarli per un tale indecoroso comportamento. Quando riuscirono a frenare almeno un po’ la loro ilarità Crowley sussultava senza fiato piegato sul tavolo e Ferid aveva il singhiozzo, oltre che le lacrime agli occhi.

«Aah, mi fa male tutto…» gemette Crowley toccandosi l'addome.

«È co-colpa tua…!»

Crowley rise di nuovo nel sentirlo singhiozzare ma durò poco, dato che non aveva più fiato e sembrava aver corso per le scale fino all’ingresso. Ferid tentò di trattenere il singhiozzo e si asciugò le lacrime. Non ricordava un solo episodio della sua vita in cui avesse riso tanto da piangere, né l’ultima volta in cui si fosse sentito tanto leggero.

 

 

Crowley spulciò gli abiti appesi alle grucce uno per uno. Non ricordava una volta in cui avesse ispezionato un negozio con tanta cura se non per obbligo di un mandato emesso dal giudice.

L’ultima volta che sono venuto al centro commerciale ho trovato una maglia che mi piaceva e ho comprato tutte quelle che avevano, tipo una dozzina. Questo è il mio concetto di shopping per me stesso.

Pescò dal mezzo un maglioncino sottile color azzurro che sembrava della misura adatta, ma dubitava che un colore così chiaro incontrasse i gusti di Ferid: finora l’aveva visto solo con completi di colori scuri, come il blu, il marrone, il nero e il verde profondo.

«Come ti sembra, detective?»

Crowley si voltò verso Ferid, che aveva aperto la tenda del camerino e ne era uscito. Fu molto sorpreso di quanto una semplice camicia bianca gli stesse bene; meno lo fu di quanto attillati fossero i pantaloni che si era scelto. Nonostante questo non poteva dire che non fosse una bella vista.

«Oh, ti sta proprio bene. Pensavo ti avrei scambiato per un cameriere, ma mi sa che hai troppa classe per sembrarlo.»

«Molto bene, mio profano amico, cominci a capire con chi hai a che fare… era ora.»

Crowley alzò gli occhi sul soffitto e scosse la testa, ma il gesto non passò inosservato.

«Che cos’era quella faccia, detective? Scetticismo, forse?» gli domandò lui. «Io sono uno schianto con qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa

Aveva tutte le intenzioni di minimizzare e scusarsi per non discutere, ma poi lo sguardo gli cadde su una rastrelliera; un’idea birbante gli passò per la testa e gli fece tendere un sorriso vagamente malizioso.

«Qualsiasi cosa, dici? Proviamo.»

Allungò la mano e agguantò il capo che aveva visto pochi minuti prima, notandolo solo per quanto gli era sembrato insensato: una salopette nera in tessuto liscio e leggero, da donna, che stava sotto il cartello a lui quasi incomprensibile che lo indicava come urban chic. Ferid non sembrò intimidito come si aspettava, anzi sorrise sicuro e gliela levò dalle mani.

«Esigo che tu ti inchini a me dopo questa riprova, quindi comincia a spolverare il pavimento.»

Scomparve dentro il camerino, canticchiando come aveva fatto per tutto il tempo, e Crowley prese il cellulare puntandolo sulla tenda pronto a immortalare per sempre un momento che prometteva di essere esilarante per molto tempo, se non per un’intera vita. Si era appena appoggiato contro la colonna di specchi per stare più comodo quando Ferid ne uscì.

Non solo non faceva ridere, ma quella specie di straccio che Crowley avrebbe usato sì e no per la polvere segnava il suo punto vita leggermente stretto, se possibile allungava ancora di più le sue gambe abbinato alla camicia con le maniche arrotolate e appena sbottonata lo rendeva paurosamente sexy. La mano che teneva il cellulare si abbassò senza che se ne accorgesse e lo fissò più di quanto sarebbe stato decente fare: sembrava anche più giovane con un abbigliamento del genere, ma era tutt’altro che ridicolo.

Ferid emise una risatina soddisfatta.

«Ora, da bravo, inginocchiati al tuo sire~»

«Non è… oh, okay… okay, d’accordo. Ho voluto fare lo stronzo, me lo merito.»

Non si guardò neanche intorno per controllare che nessuno fosse abbastanza vicino da notarli. Si piegò sul ginocchio come aveva visto fare tante volte ai cavalieri nei film e si sentì un poco sacrilego a pensare che era lo stesso modo in cui si inchinava al crocifisso in chiesa; prese la mano di Ferid e posò le labbra sull'anello con la pietra rossa.

«È sufficiente?»

«Per questa volta sì~»

«Non sarà una prossima volta, non sfiderò mai più la tua bellezza. È un suicidio.»

«Aww, che carino sei~»

«Su, vai a cambiarti, ormai hai abbastanza roba, no?»

«Che dici, la prendo questa? Se ti piace la prendo.» gli disse con una certa inflessione maliziosa. «Vorrei vederti più spesso con quell'aria meravigliata quando mi guardi!»

«Peccato che tu non riesca a vedermi mentre leggi, ce l’ho per tutto il tempo quando leggi così veloce che ti si sfocano gli occhi.»

«Davvero?!»

«Davvero.»

«Davvero davvero?!»

«Davvero davvero.» tagliò corto Crowley, e gli diede una spintarella. «Su, togliti quello e prendi tutto quello che vuoi comprare.»

Ferid scomparve per l’ennesima volta nel camerino, ne riemerse con la camicia e i pantaloni neri di un cambio precedente e un gran mucchio di vestiti che gli scaricò tra le mani.

«Ah, quanto pesano~»

«T-tutti quanti?»

«Dante ha detto che non si sa quanto ci metterà il laboratorio a controllare che i miei vestiti siano utilizzabili, no? Ho bisogno di cambiarmi tutti i giorni!»

«Tutti i giorni…? Che ne dici di una volta ogni due giorni, Ferid? Facciamo un po’ di economia…» disse lui, seguendolo verso le casse vedendo a malapena dove metteva i piedi. «Io non sono ricco, faccio il poliziotto, ho la casa arredata all’Ikea e i vestiti presi in saldo all’outlet…»

«Non sono mica un parassita, contribuirò alle spese di casa!»

«E come, visto che non hai neanche la carta di credito?»

«Io ho molte carte di credito. Solo che sono nel mio appartamento, ergo, sotto analisi come tutto il resto.»

«Quindi ora come ora non ne hai, giusto?»

«Ah, non importa, non importa. Mi faranno credito.»

«…Che?»

Prima che riuscisse a farsi dare spiegazioni raggiunsero una cassa libera, dove una giovane commessa con il viso pieno di lentiggini li accolse salutandoli cordialmente e passò i loro acquisti al lettore di codici.

«Oh, anche questi, cara signorina.» le disse Ferid, porgendole due etichette. «Sono di quello che ho addosso.»

«Oh… okay!»

«A proposito, ho un piccolissimo disguido per il pagamento… caso vuole che un incendio si sia divorato la mia casa, motivo per… tutti quelli.» disse Ferid, indicando le cinque sportine piene di abiti. «Le mie carte di credito non sono nelle condizioni di essere passate a lettore, capisci cosa voglio dire? Ma puoi controllare che ho un conto che uso regolarmente nei vostri magazzini, anche se sono cliente di quello che avete nel West End.»

Ma cosa sta cercando di fare?

«Puoi controllare, tesoro? A nome Ferid Bathory. Troverai anche la mia carta fedeltà, che non ha fatto una fine migliore delle mie carte di credito.»

«Oh, io… posso controllare, ma… mi dispiace molto per quello che le è successo, signor Bathory, ma non so se posso autorizzare una spesa sospesa, dovrei parlare con il direttore…»

«Non conosco il vostro direttore, ma se volete delle referenze potete chiamare direttamente il signor Spencer.»

«Il… signor… chi?»

«Il padrone della catena, mia cara ragazza. Mi batte a golf regolarmente, ahimè, ma sua moglie Wilhelmina è un’affezionata cliente della mia libreria, ci conosciamo da anni. Certo, non sa ancora che cosa mi è successo, il caro Spencey, ma di sicuro l’autorizzerà ad aprire un conto per me. Salderò non appena otterrò una nuova carta dalla mia banca.»

Crowley lo guardò perplesso. Non credeva che il libraio di un negozietto tanto singolare potesse avere contatti con persone a livelli socialmente elevati e si interpellò su quanti pezzi grossi fossero in qualche misura interessati ad arti occulte ed esoterismo.

«Io… non trovo la sua carta fedeltà nel database.» disse la ragazza, ansiosa. «P-può essere che sia perché la usa solo nell’altro magazzino… m-ma se è così, se mi fa registrare il suo documento d’identità, posso aprirle il conto e dirlo al direttore, così può pagare appena può…»

«Oh, certo… oh.»

«Ti manca qualcosa, Ferid?» domandò Crowley, vagamente divertito. «Per esempio, la patente?»

«Già, non ho neanche quella.»

«Tanto abbaiare per niente.» sospirò poi, e si avvicinò alla commessa porgendogli la sua carta. «Lascia perdere questo squinternato. Non prende spesso aria, sai.»

«Oh… capisco…»

La ragazza fece una risatina nervosa.

«La carta fedeltà lei ce l’ha?»

«Oh, certo… oh.» fece lui, tastandosi le tasche. «Era sul tavolo… Ferid, hai preso tu la carta?»

«Ma chi la tocca la tua roba?»

«Eh, ma non c’è bisogno di rispondere così solo perché qualcuno in questa città non sa che giochi a golf con il signor Spencer, no?»

«Mpf.»

«Perdonalo, è davvero un riccone snob. Prova a cercare la mia tessera, ti dispiace? Crowley O’Brian Eusford. Ecco, si scrive così.»

Le porse uno dei suoi biglietti da visita, con i suoi numeri di telefono inclusi, e le fece il suo miglior sorriso.

«Puoi tenerlo, nel caso qualche altro cliente bruto ti desse fastidio. Attirerai un sacco di attenzioni con quelle deliziose lentiggini.»

«B-beh, in realtà io… beh…»

La ragazza infilò nella cassa una tessera dal marsupio che teneva in vita e dopo un suono del computer infilò la carta di credito.

«Così è più facile, no? Era un peccato non farvi usufruire dello sconto su tutte queste cose…»

«Sei un angelo… oh, Angela? Avevo ragione, visto? Tu, bestia, ringrazia che Angela è una ragazza gentile, non come te!»

«Sì, grazie, Angela.» rispose Ferid in tono piatto.

Pochi minuti dopo avevano raggiunto l’auto parcheggiata fuori dal grande magazzino e Crowley salì al posto di guida dopo aver stipato gli acquisti sul sedile posteriore. Ferid aveva una strana espressione in volto mentre si allacciava la cintura.

«Non avevi la tessera fedeltà, vero, detective?»

«Io, una tessera fedeltà di un grande magazzino? Se ne ho una, l’ha fatta un altro col mio nome.»

«Non ti vergogni di averla imbrogliata? È come rubare, e tu sei un poliziotto.»

«Rubare? Non è rubare, se avessi avuto la tua tessera ti sarebbe spettato quello sconto.»

Crowley si sporse un po’ per controllare la carreggiata e attraversò l’incrocio immettendosi sulla Madigan, densa di traffico a quell’ora. Il silenzio che veniva dal sedile accanto tuttavia lo turbò e fu con un sinistro presagio che lo guardò.

«Ferid, tu avevi davvero quella tessera, vero?»

«No, mai avuta.»

Dovette trattenersi per non inchiodare in mezzo alla carreggiata e fissò Ferid come se gli avesse appena confessato di essere davvero il Vampiro di West End.

«Tu… le hai detto che l’avevi!»

«Era una bugia, naturalmente.»

«Questo è sbagliato, Ferid! Tu… tu l’hai derubata, è come se le avessi preso i soldi dalla cassa!»

«Ehi, sciacquati la bocca prima di dire una cosa del genere a me.» l’ammonì lui, puntandogli l’indice contro. «Io stavo solo cercando di farmi aprire un conto per saldarlo la settimana prossima, quando spero di poter riavere almeno quello c’è nel mio portafoglio. Tu hai fatto tutto di testa tua, invece di pagare al posto mio hai cercato di farti fare quello sconto, quindi tu hai derubato quella cassiera… e l’hai fatto anche da infame, visto che ci stavi anche provando

«Io non ho… non… s-sei tu che me l’hai fatto fare! Io ho creduto a quello che stavi dicendo!»

«Ma io non ti ho mai chiesto di farlo, no? La colpa è tua, che hai pensato di aver capito e hai messo su quella scena. Disonesta quanto la mia.»

Crowley girò bruscamente in una strada laterale, facendo suonare diversi clacson.

«E ora che cosa stai facendo?»

«Ora torniamo in quel negozio e tu spieghi che bella frittata hai combinato!»

«Oh, certo. Torna da quella cara ragazzina a dirle che le facevi delle moine solo perché volevi uno sconto che non potevi avere. Ne sarà proprio felice, sarà ancora più orgogliosa delle sue deliziose lentiggini quando saprà che la stavi prendendo in giro.»

«Non la stavo… voglio dire, sono davvero delle deliziose lentiggini…»

«Suona sempre meglio, avanti così, detective Eusford.»

Crowley esitò quando arrivò all’incrocio. Avrebbe dovuto svoltare a destra per tornare verso il negozio, ma quando pigiò il pedale svoltò a sinistra: non se la sentiva di mettere a disagio una ragazza di diciotto, venti anni al massimo per colpa di una sua stupidaggine.

Ecco perché non devi mentire, Crowley! Lo vedi? Ogni volta che lo fai combini un guaio. Non lo devi fare.

«Non credere che finisca così, Ferid. Domani torno in quel negozio, vado dal direttore e gli spiego cos’è successo, e pagherò quello che mi hanno scontato. Tu non ti azzardare a buttare via quella ricevuta.»

«Smettila di trattarmi come un imbroglione, non te lo dirò di nuovo.»

«Non esiste neanche quel signor Spencer, vero?»

«No, ma non avevo alcuna intenzione di rubare, l’avrei pagata a giorni.»

«Questo non è il modo di fare, è da disonesti mentire così!»

«Io lavoro per vivere, l’ho sempre fatto, anche quando ero ricco abbastanza da vivere di rendita. Insultami pure su quanto sono incapace a letto, quanto sono ridicolo vestito come piace a me o su quanto sono codardo, ma non mettere mai in dubbio il fatto che non mi prendo qualcosa che non mi sia guadagnato.» ribatté Ferid, gelido. «E quanto al conto, sarai rimborsato fino all’ultimo centesimo. Io non vivo approfittandomi delle altre persone.»

Man mano che percorreva la strada verso casa Crowley si calmava. Capì che non era così grave, perché probabilmente sarebbe bastato compilare un modulo, questione di qualche minuto, per fare una tessera nuova. Avrebbe parlato con il direttore, chiarito l’equivoco e rimesso tutto a posto, senza che Angela avesse dei problemi per essersi fatta imbrogliare da lui… perché era successo, e non lo poteva negare.

Si vergognava di essersi comportato in quel modo, di aver mentito senza che ce ne fosse una ragione dalla validità inoppugnabile, e poi subentrò anche il senso di colpa per il modo in cui aveva parlato a Ferid.

Gli lanciò un’occhiata e vide che guardava dal finestrino, esattamente come la volta che si era offeso per l’interrogatorio vessante che gli aveva fatto nella sala video.

«Ehi… Ferid.»

Non si sorprese che lui non rispondesse.

«Ti spiace se andiamo in un altro posto, prima di andare a casa?»

«No, sapevo che volevi andarci. Andiamo.»

«Cosa… lo sapevi?»

«Sì. So che vuoi andare alla tua chiesa.»

Come fa a saperlo, se l’ho deciso appena un momento fa? Non credo di avergli detto dove si trova e che abbia pensato che siamo vicini…

«Non entro in una chiesa da quando avevo diciassette anni.» commentò Ferid con una certa noncuranza. «Portami a vedere la casa del Padre degli irlandesi.»

 

 

Quando Ferid entrò dal portone spalancato della chiesa di Saint Thomas nel quartiere irlandese di North End – ad appena quattro fermate della metropolitana da casa del suo ospite – venne immediatamente colpito dall’affresco ben tenuto sulle volte ad arco, dalle colonne in marmo marrone ai lati della navata e dalle vetrate colorate in fondo, alle spalle dell’altare.

«Oh, è proprio una bella chiesa…»

«Vero? È proprio una bella chiesa.» confermò Crowley, annuendo con aria convinta. «Non credo di avertelo mai chiesto, ma tu sei cattolico? So che tua madre lo era, ma…»

«Sono stato educato come tale, se questo è il senso della tua domanda.»

«Beh, meglio così, qualcuno di quelli qui dentro mi potrebbe sparare per aver portato un profano qui.»

«Ah, che commovente la carità cristiana.»

«No, intendevo che…»

«Crowley, ragazzo mio!»

Ferid vide una signora anziana, leggermente ingobbita, avvicinarsi a lui sorridendo e prendergli le mani; erano enormi rispetto a quelle piccole di lei. Attirate dalle parole della signora altre persone gli si fecero incontro chiamandolo per nome, salutandolo e chiedendogli come stava e dove fosse stato.

Ferid tirò un vago sorriso – non del tutto esente da una genuina invidia – all’idea che la sua lunga assenza dalla sua comunità religiosa potesse averli tanto inquietati e si ritrasse, lasciando che loro potessero parlargli senza fare caso a una figura estranea che avrebbe suscitato più domande di quante risposte avrebbe potuto dare.

Camminò sul lato destro della navata, tra le panche in legno pesante e le colonne, scorrendo lo sguardo sugli altari laterali dov’erano esposti quadri di santi. Arrivò in fondo e lanciò uno sguardo all’ultimo altare, dedicato all’annunciazione: nel dipinto l’arcangelo Gabriele portava la notizia della concezione alla Vergine Maria. Era particolarmente bello e attraversò il corridoio per avvicinarsi e ammirarlo meglio nelle sfumature e del panneggio molto curato.

Molto bello, davvero. I colori sono vividi e intensi, anche se lo stile sembra preraffaelita.

Lo guardò per diversi minuti, poi si voltò e si avvicinò al presbiterio: l'altare era molto semplice, con due candelabri identici ai lati e una lunga tovaglia ricamata.

«Ferid.»

Ferid si voltò sorridendo, pensando che Crowley si fosse finalmente districato dal nugolo di fedeli per raggiungerlo, ma non vide nessuno. Stupito girò la testa tutt’intorno, ma non vide un’anima viva vicino a lui né qualcuno che guardasse nella sua direzione: il solo rumore che sentiva vicino era il leggero gorgogliare dell’acqua corrente che cadeva a filo da un rubinetto nell’acquasantiera sottostante.

«Un’acquasantiera… non l’avevamo, a casa.»

Vi si avvicinò, rabbuiato di aver pensato alla casa dei suoi genitori come a una casa vera, dato quanto vi era stato infelice. Quasi senza accorgersene mise le dita sotto il filo d’acqua, assorto nei ricordi di quella buia casa nel Sussex. L’ultima volta che ricordava di aver pregato sperando di essere ascoltato era piccolo, era ancora un bambino; era inginocchiato da solo nella cappella privata mentre la pioggia martellava contro il tetto e le finestre colorate, e piangendo implorava di essere liberato da quella prigione insopportabile.

Prima di andarmene ho dovuto aspettare altri otto anni… Dio non ha mai ascoltato me, non gli è mai importato di quanto fossi solo e disperato. Se esiste un Dio che ignora un bambino che soffre in quel modo, non voglio omaggiarlo di altro se non del mio disprezzo.

Ferid sussultò quando girò la mano verso l’alto e si allontanò dall’acquasantiera come se bruciasse, guardando il palmo con quegli strani segni rossi con il cuore bloccato in gola; ma dopo un attimo era tutto scomparso. Incredulo guardò entrambe le mani, con le dita che tremavano ma perfettamente pulite e bagnate solo da acqua cristallina.

Che cosa diavolo... cos’è stato, un momento fa? C’era un disegno sulla mia mano!

A malapena notò i bambini che si avvicinarono all’acquasantiera, preso com’era dalla sua momentanea allucinazione, ma poi il respiro tornò tranquillo e sentenziò che doveva essere stato solo un gioco di ombre o un riflesso che gli era sembrato qualcosa di diverso. Un altro bambino si bagnò le dita e si segnò la fronte, ma la bambina con lui era molto piccola e non arrivava a toccare l’acqua.

«Ricky! Ricky, bagnami!»

«Non rompere, che palle!»

Oh oh, piccola linguetta biforcuta, anche in chiesa?

Il bambino andò via, ma la bambina sembrava disperata.

«Ricky! Se non mi aiuti non posso ricevere la benedizione di Gesù!»

Ricky non tornò sui suoi passi e la piccola emise un verso simile a un singhiozzo, tentando di nuovo di arrivare all’acqua: anche in punta di piedi non sfiorava l’acqua all'interno, per qualche centimetro appena. Ferid si avvicinò e lei lo guardò.

«Posso aiutarti?»

«Puoi benedirmi con l’acqua?»

Oh, questa bambina sta davvero chiedendo a me di essere benedetta? Ci sarebbe da ridere se non fosse una così macabra ironia.

«Ti prego!»

La bambina sembrava così disperata che Ferid si convinse che non ci sarebbe stato niente di male ad accontentarla: al massimo Dio avrebbe continuato a fingere che lui non esistesse e la bambina sarebbe stata solo una bimba felice con la fronte bagnata. Bagnò allora il dito indice nell’acqua, si chinò un po’ e segnò una croce sulla fronte della piccola fedele.

«Ricevi la benedizione di Nostro Signore Gesù Cristo.»

«Amen!»

«Ecco fatto, ora puoi andare~»

«Grazie mille, padre!»

Ferid rimase attonito mentre lei correva via verso il portone e si guardò gli abiti senza capire che cosa, a parte il colore nero, potesse averla convinta che lui fosse un prete. Non ne venne a capo.

«Ah, eccoti, Ferid! Dov’eri scomparso?»

Questa volta Crowley c’era davvero e gli veniva incontro lungo la navata. Ricompose la sua espressione in fretta, deciso a nascondere l’equivoco con la bimba così come lo strano fenomeno dei segni rossi sulla mano.

«Oh, curiosavo in giro. È una bella chiesa davvero.»

«Volevo presentarti agli altri ma mi sono girato e tu non c’eri, si saranno convinti che ho un amico immaginario.»

«Se devo essere immaginario voglio almeno essere un amante immaginario~»

«Ferid, per carità, non in chiesa.»

«Crowley.»

Ferid sbirciò dietro la spalla prima che lui si voltasse verso la voce e vide un uomo piazzato, quasi calvo ma con brillanti occhi blu, occhiali in metallo molto sobri, camicia e giacchetto grigio e l’aria seria su un volto segnato dall’età… ma nonostante questo molto, molto familiare.

È il padre di Crowley?

«Oh, papà!» disse lui, confermando i suoi sospetti. «Ci sei anche tu?»

«Dovrei chiederlo io, sei tu quello che manca da un bel pezzo.» ribatté il padre. «Sembra che tu stia bene.»

«Sì, sto bene… tu, invece, come stai?»

«Mah, sono passato a tre al giorno.»

Qualsiasi cosa significasse, la notizia rabbuiò l’espressione di Crowley mentre quella di suo padre non cambiò.

«C’è di peggio, ragazzo, c’è di peggio. Il buon Dio ha cura di tutti noi nel modo migliore, dopotutto.»

«Sì, papà, ma tu devi riguardarti anche da solo, non…»

Gli occhi penetranti del signor O’Brian fissarono Ferid, che all’improvviso si rese conto di non essere trasparente per tutto il resto del mondo.

«Oh, sì! Papà, questo è un mio amico, si chiama…»

«Ferid Bathory.» completò lui, sorprendendoli entrambi. «Certo, mi ricordo ancora di te. Sei cresciuto tanto, ma non sei molto cambiato.»

Crowley passò uno sguardo attonito da suo padre a Ferid più volte, sebbene quest’ultimo fosse basito quanto lui.

«Pa… papà, tu conosci Ferid?»

«Sì, certo. L’ho conosciuto quand’era appena arrivato negli Stati Uniti.» rispose l’uomo senza un accenno di sorriso. «Stavamo controllando da qualche tempo una zona qui nel North End, per certi tizi che usavano dei ragazzini per attività illegali, e scoprimmo che non aveva nessun parente e nessun tutore qui in America. Aveva sedici anni allora. Stessi capelli lunghi color argento, portamento da signorotto e occhi da cerbiatto impaurito: in mezzo a quella marmaglia saltava all’occhio come un clown a un funerale.»

Ferid si sentì come se all’istante gli fossero stati strappati tutti i vestiti di dosso. Fu terribile quell’immersione in un passato che credeva dimenticato per sempre, come se fosse stato attaccato da uno squalo che lo trascinava nel profondo di acque gelide che gli facevano stringere il petto.

Crowley gli lanciò un’occhiata confusa vedendolo stringersi le braccia come a proteggersi da quei ricordi, ma non parlò.

«Ha detto che era scappato e che i suoi genitori erano persone violente, quindi non l’abbiamo rimpatriato e il tuo vecchio gli ha trovato un letto alla Saint Matthew, a Red Chapel. Alla fine ti sei diplomato?»

«S-sì… sì, signore.»

Ricordava finalmente chi fosse: era l’uomo che aveva preso la sua dichiarazione riguardo agli abusi dei suoi genitori insieme a una donna dell’assistenza sociale, l’agente O’Brian, che lo aveva anche accompagnato di persona fino alla scuola cattolica nel distretto di Red Chapel, a sud di Satbury. A quanto ricordava di quel giorno lui e il preside, padre Karl, avevano parlato con confidenza, come se fossero stati amici da tempo.

«E sei riuscito ad andare al college?»

«Ah… no, signore. Dopo il diploma ho trovato un lavoro.»

«Che lavoro fai?»

«Ora lavoro in una libreria, nel West End.»

«Una libreria… beh, pur sempre qualcosa, visto com’eri indirizzato quando ti abbiamo pizzicato. Beh, avrò qualcosa di bello da raccontare al prossimo poker con i miei colleghi di allora. Fa sempre piacere quando scopriamo che qualcuno l’abbiamo salvato, rende più dolce la vecchiaia. Arrivederci, Ferid.»

L’ex agente voltò loro le spalle e si avviò verso le panche in fondo, ignorando il figlio che lo chiamò tre volte senza risultato.

«Sordo come una campana quando non vuol sentire.» borbottò lui. «Ma che vuol dire questa storia?»

Questa volta lo ignorò anche Ferid, che partì a passo spedito e raggiunse l’uomo.

«Agente O’Brian!»

«Non sono più agente da un po’, ragazzo…» disse l’uomo, voltandosi. «Che cosa c’è?»

«Io… la posso ringraziare, signor O’Brian?»

«Non ce n’è bisogno. Siamo poliziotti e mi sono sempre preso cura della mia comunità. Eri nel North End allora e facevi parte della mia comunità, era il mio dovere.»

«È comunque… mi ha salvato da una vita che poteva essere breve, oltre che infelice. E poi, la voglio ringraziare anche per suo figlio.»

«Per Crowley?» fece lui con un certo stupore, mentre gli stringeva la mano. «In che senso?»

«È un buon poliziotto… uno che si preoccupa delle persone e non solo dei crimini. Come lei. È anche un buon amico.»

«Sì, eh? Beh, non mi sorprende. Ha buon sangue irlandese nelle vene. L’ha cresciuto una brava donna.» rispose O’Brian, con un tono burbero. «Sì, buon sangue e buona madre. Riguardati, ragazzo. Dio sia con te.»

L’ex agente riprese a camminare e andò a sedersi nell'ultima panca in fondo. Ferid si portò la mano al petto con la netta sensazione che le lacrime gli stessero salendo da dentro lo stomaco piuttosto che scendere da sotto le palpebre. Fece fatica a ricacciarle, ma venne più facile quando sentì una stretta delicata sul braccio.

«Ferid… ehi, ma che è questa storia che conosci il mio vecchio? Perché non me l’hai detto?»

«Non… non ricordavo l’agente di quel giorno finché non ne ha parlato lui… non sapevo che fosse tuo padre.»

«Mi stai dicendo la verità?» gli domandò lui, ammorbidendo un poco un certo tono di sospetto. «O non volevi dirmi che eri stato arrestato?»

«Sono stato arrestato per errore, non avevo fatto niente… dico sul serio.»

Crowley esitò un momento, ma la sua espressione era trasparente ed era evidente che non era convinto.

«Papà ha detto che dei tizi usavano i ragazzini per attività illegali, per quanto ingenuamente qualcosa stavi pur facendo…»

Ferid cercò con tutto se stesso di tacere e trovare il modo di minimizzare, ma fu un breve e inutile sforzo.

«Sai cosa stavo facendo? Stavo morendo di fame, detective.» replicò allora, incapace di celare del tutto la rabbia. «Non mangiavo da giorni, ero solo, non sapevo che cosa fare e mi sono mescolato a un gruppo di ragazzini sotto il Dakaton Bridge perché ogni volta che qualcuno di loro saliva e poi scendeva da una macchina un uomo che era lì dava loro qualcosa da mangiare.»

Allora Ferid non lo sapeva, ma poi aveva saputo anche lui ciò che tutti a New Oakheart sapevano: il Dakaton Bridge era il posto dove trovare compagnia per ogni gusto e ogni tasca, ed era questa nozione che aveva fatto spalancare tanto quegli occhi blu.

«S-scendeva da… ma che cosa ti diceva la testa?!»

«Che avevo fame, ecco cosa diceva, ma tu che ne sai? Tu eri un bambino, te ne stavi alla tua scuola cattolica a cantare nel coro e giocare a pallone con la certezza che avresti avuto da mangiare non appena avessi avuto fame… che qualche adulto ti avrebbe dato tutto quello di cui avevi bisogno! Io non avevo nessuno, e non avevo niente, nemmeno i vestiti che indossavo! Avevo rubato anche quelli!»

Irritato gli passò accanto per uscire dalla chiesa, ma il suo braccio robusto ancora una volta lo bloccò.

«No, okay… scusami, ti prego. Non ti volevo aggredire, solo sono… sbalordito, capisci? Ogni volta che penso di averti capito scopro qualcosa di nuovo e…»

Esitò un momento quando vide con quale sguardo truce Ferid lo stesse guardando.

«Non ti arrabbiare, Ferid. Non ti stavo criticando, deve… essere stata molto dura per te. Hai ragione, io sono stato un privilegiato… niente genitori violenti o pazzi, niente vita di strada, non sono mai stato solo e il massimo della fame che ho patito è stato quando mamma mi mandava a letto senza cena quando rovinavo i vestiti buoni giocando a rugby.»

La voce di Crowley sembrava implorare il perdono a ogni sillaba.

«Non ho mai perso la persona che amavo, né ho dovuto assistere qualcuno malato. Non sono mai stato lasciato dalla persona che credevo di amare. Nonostante il lavoro che faccio, so di essere fortunato. Nonostante quello che è successo lo scorso luglio… so di essere un bastardo fortunato.»

«Sì. Lo sei… fortunato

«Per questo… ogni volta che qualcosa ti fa soffrire… ogni volta che ti torna in mente qualcosa che ti fa soffrire… parlamene… okay? Spiegami tutto quello che senti, perché non posso capirlo da solo. Ma posso darti conforto lo stesso, magari.»

I molti fedeli presenti alla chiesa si affrettarono a sedersi, perché in quel momento un prete alto e biondo dall'aspetto giovane si avvicinò all’altare, iniziando a prepararlo per una funzione. Crowley distolse lo sguardo da questi per tornare a guardarlo.

«Senti… caso vuole che oggi facciamo una messa per i malati della parrocchia di Saint Thomas… ti va di restare insieme a noi?»

«Se dico di no mi dai le chiavi della macchina per tornare a casa?»

«Non ti lascio andare in giro da solo, quindi se non vuoi restare andiamo a casa tutti e due.»

Crowley aveva già infilato la mano in tasca alla ricerca delle chiavi e Ferid lanciò un rapido sguardo al soffitto quando un tuono non troppo lontano rimbombò al di fuori. Provava una strana sensazione, come se non solo lo stomaco ma l’intero suo corpo fosse un guscio cavo abitato da farfalle agitate.

«Va bene se resto, anche se non ricordo nessuna preghiera?»

Sarebbe valsa la pena di imparare a memoria lunghe litanie anche solo per l’espressione meravigliata e felice che Crowley gli lanciò dopo quella frase: quella che avrebbe avuto un bambino che sotto l’albero di Natale trova tutti i giocattoli che aveva anche solo sognato, un cucciolo di cane e il fratellino che chiedeva ai genitori da anni.

«Va benissimo, basta che tu sia qui! Dopotutto, Dio ha gli occhi su di te, farai da catalizzatore.»

Detto questo ficcò le chiavi di nuovo in tasca e andò a sedersi alla seconda panca sulla sinistra. Ferid lo seguì sedendosi accanto a lui e in pochi minuti padre Gilbert iniziò la santa messa rivolgendola in modo particolare a Santa Rita definendola una guaritrice.

Ferid passò gran parte della cerimonia a guardare l’altare laterale a lei dedicato, il più vicino a dove era seduto, mentre intorno a lui i fedeli della Saint Thomas rispondevano in coro alle preghiere enunciate dal loro parroco.

L’unico momento in cui si distrasse da esso fu quando diverse persone si alzarono dalle panche per mettersi in fila di fronte all’altare, ma Crowley rimase seduto dov’era, con gli occhi chiusi e le mani con le dita intrecciate.

«È l’Eucarestia, no? Tu non vai, detective?»

«Per oggi solo i malati faranno la comunione con Dio.»

Ferid scorse la fila di persone e tra i primi posti vide quello che conosceva come agente O’Brian; vista che gli diede una leggera stretta allo stomaco.

«Tuo padre è in fila… è malato?»

«Sì… ha il diabete. Per questo è andato in pensione presto.»

Ferid lo guardò per un lungo minuto finché non ricevette l’Eucarestia e tornò verso il suo posto, poi vide la bambina che non arrivava all’acquasantiera.

«E quella bambina?»

«Anche Mary è malata. Ha una malattia degenerativa che già le impedisce di distinguere bene le cose, si sta come… mangiando i suoi nervi ottici e potrebbe farla diventare anche sorda, col tempo. Non c’è ancora una cura per questo.»

Improvvisamente aveva molto più senso che la piccola l’avesse scambiato per un parroco, dati i vestiti neri e la vista confusa. Ferid lanciò uno sguardo gelido al crocifisso, come ricordava di avergliene scoccati molti dopo la morte del suo amico Nicholas.

«Come fai a sopportarlo, detective? Come fai a venerare un Dio che permette a tuo padre di ammalarsi e che condanna una bambina a vivere una vita senza vista e senza udito? È un Dio sadico, che dispensa sofferenza e si fa pregare per cancellarla.»

«Si chiama Fede, Ferid… credere in qualcosa di onnipotente… anche senza capire perché non agisce come tu pensi sia logico.» rispose lui, con una leggera esitazione nella voce. «A volte è molto, molto difficile… ma… un bambino che non riceve solo dolci e caramelle lo trova ingiusto, no? Non capisce che suo padre mette dei limiti e delle regole per il suo bene, ma quando lo capirà sarà grato. La Fede è così, noi siamo tutti bambini che vorrebbero solo caramelle e giorni di cielo sereno per giocare fuori, senza capire che la pioggia è importante quanto il sole.»

Crowley tornò al suo mormorio di preghiera e dopo qualche istante di riflessione Ferid guardò la fila, con la piccola Mary che riceveva la sua benedizione, dato che era troppo piccola per aver già fatto la prima comunione.

Se non sei disponibile a fare qualcosa per lei, di certo non ti prenderai la briga di ascoltare una mia preghiera. Continua pure a farti adorare in lungo e in largo. Io mi arrangio da solo… come sempre.

Ferid si alzò dalla panca e si trovò l’angolo più nascosto della chiesa dove isolarsi per il resto della funzione e immergersi in cupe memorie dei suoi giorni bui; e lì rimase finché un uomo con i capelli rossi non riuscì a scovarlo e lo scortò fino alla macchina, coprendogli la testa con la sua giacca perché la pioggia non lo toccasse.

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Capitolo 15
*** I glifi di Grimbald ***


Un rumore indistinto svegliò Ferid all’improvviso. Spalancò gli occhi celesti sul soffitto consapevole di aver sentito qualcosa, ma non seppe dire cosa e la casa era immersa nel silenzio. Intontito si puntellò sui gomiti e girò la testa, cercando la fonte di un rumore che potesse averlo svegliato, ma sembrava tutto tranquillo; persino Pandora era immobile acciambellata sulla sedia davanti al computer.

Una mano più grande della sua si mosse sul suo addome e l’uomo alla quale apparteneva sospirò profondamente nel sonno. Ferid lo guardò e scosse la testa divertito: mentre dormiva aveva invaso l’altra metà del letto e di fatto erano entrambi in poco più di un metro di materasso.

Il rumore si ripresentò e lo fece sussultare, convinto com’era di averlo solo sognato: qualcuno bussava alla porta dell’appartamento. Guardò la finestra per avere un riferimento di luce, ma sembrava ancora piuttosto buio e ne dedusse che dovesse essere mattina presto.

Chi può bussare a quest’ora?

Sentì bussare di nuovo e fissò la porta d’ingresso attraverso il disimpegno, poi lentamente spostò il braccio di Crowley e scivolò fuori dalle coperte. Mentre girava intorno al letto facendo quasi nessun rumore cercò di sistemarsi l’enorme t-shirt che il suo ospite gli aveva dato come indumento da notte, probabilmente larga anche a lui, ma quella persisteva nel cadergli da una spalla o dall’altra. Quando fu davanti alla porta esitò prima di avvicinarsi allo spioncino, ma si rilassò almeno in parte quando vide Dante De Stasio bussare nuovamente alla porta e guardare l’orologio da polso.

Aprì la porta quel tanto che glielo consentiva il meccanismo a chiavistello.

«Oh, Ferid.»

«Dante… che cosa fai qui?» gli chiese lui piano.

«Sono venuto per parlare di una cosa… Crowley sta ancora dormendo?»

«Sì… è successo qualcosa?»

Improvvisamente venne colpito da un angosciante pensiero: era venerdì mattina.

«Oh, no, ne avete trovato un altro?»

«No, no… non ci sono arrivate segnalazioni di ritrovamenti né di bambini che mancano all’appello… è stata una notte tranquilla.» gli rispose l’italiano, con la sua voce più calda e rassicurante. «Mi fai entrare?»

Ferid annuì; richiuse, aprì il chiavistello e abbassò la maniglia, ma prima che potesse aprire più di qualche centimetro la mano di Crowley la sbatté e l’altro braccio lo afferrò trascinandolo un passo indietro.

«Non aprire mai la porta.»

«Va tutto bene… è solo Dante.»

«Sono De Stasio.» disse lui da fuori. «Crowley, apri, imbecille.»

«Oh?»

Crowley passò da quell’aria seria a una faccia sorpresa e aprì la porta. De Stasio sembrava vagamente seccato, l’irlandese invece non dimostrava alcun imbarazzo.

«Ancora a letto a quest’ora, Crowley? Ti dovresti vergognare.»

«Quest’ora… che ore sono?»

«Quasi le nove di mattina. Di nuovo al pub ieri sera?»

«No, che dici? Siamo stati in casa, proprio come due scolaretti delle scuole cattoliche…»

«Allora vergognati il doppio.»

De Stasio entrò e si chiuse la porta alle spalle, mentre Ferid guardava dalla finestra del soggiorno per accorgersi che era la giornata grigia a falsare la luce. Quando tornò a lui vide che lo stava guardando fisso, e Crowley stava invece guardando il collega con sospetto.

«Chi ti ha dato quello straccio, Ferid? Una maglietta degli Spartans non è buona neanche per fare da culla a una nidiata di ratti.»

«Fuori da casa mia, rinnegato.» gli sibilò Crowley.

«Ferid mi ha detto di entrare.» ribatté lui con vaga ilarità. «Ti dispiace vestirti? Un uomo che mi riceve in mutande mi mette in imbarazzo.»

Crowley fece un buffo verso, a metà tra una sbuffata e una pernacchia, e andò verso la camera da letto.

«Anche Ferid è in mutande, l’hai notato?»

«Quell’orribile maglietta è peggiore di qualsiasi altra cosa che potrei vedere di lui.»

«Tifavi Spartans anche tu!»

«Beh, abbiamo tutti dei peccati giovanili.»

«Rinnegato. Rinnegato!»

De Stasio fece un sorriso storto e guardò Ferid, che onestamente non aveva la minima idea di che cosa stessero parlando: lo sport era forse l’ultimo dei suoi interessi per quanto variegati fossero.

«Ti racconteremo la diatriba degli Spartans in un altro momento.» gli disse, indovinando la ragione della sua perplessità. «Ho qualcosa per te.»

«Per me?»

Senza parlare estrasse una busta che teneva sotto la giacca e l’appoggiò sul tavolo della cucina, prima di mettersi a curiosare nelle credenze a caccia, forse, di qualcosa da mangiare. Ferid l’aprì e scoprì che erano alcuni suoi effetti personali: il suo portafoglio con le carte di credito, le tessere e gli assegni, la chiave di casa, l’orologio di Claude e un cellulare. Perplesso guardò quest’ultimo oggetto davanti e dietro, prima di guardare Dante.

«Questo non è mio. Io non ho un cellulare.»

«Ora ce l’hai, gentilmente offerto dalla contea. È una scheda vergine, quindi se ti chiamano rispondi, perché è qualcuno di noi del dipartimento. Siamo i soli a conoscere questo numero.»

«Ma io vivo qui, adesso. Potete chiamarmi in qualsiasi momento a casa del detective.»

«Crowley non vuole che rispondi al telefono e pensiamo che sia una buona idea. Dopotutto stiamo cercando di nasconderti per quanto possibile, quindi meno contatti non sicuri hai col resto del mondo e meglio è, per adesso.»

Ferid studiò lo schermo con una certa perplessità e con curiosità, perché anche se ne avevano uno per gestire le prenotazioni dei clienti del negozio non ne aveva mai posseduto uno personale.

«Quindi, quando ti chiamo rispondimi, anche di notte!»

Ferid guardò l’italiano, accigliato per la stranezza del suo tono di voce più alto del normale e per l’inflessione vagamente allusiva, poi si accorse che Crowley era di ritorno.

«De Stasio, se ti piace così tanto puoi tenerlo a casa tua, lo sai? Non sono un tipo possessivo, possiamo dividercelo come due bravi genitori divorziati fanno con i figli.»

Per qualche motivo Dante trova divertente punzecchiare la sua gelosia… che tra l’altro, sembra non esistere.

«Ferid? Mettitela.»

Ferid dovette voltarsi per vedere che gli stava tenendo aperta la vestaglia. Sorrise e l’infilò, obbediente, lasciando che fosse lui a liberare i suoi capelli esattamente come aveva fatto quando gliel’aveva regalata.

«Grazie~»

«Di niente. De Stasio, vuoi del caffè?»

«Suppongo non sia espresso.»

«Naturalmente no, la sola cosa italiana che ho è la fame vorace che mi prende davanti a un piatto di spaghetti.»

«Allora non lo voglio.»

«Oh, detective, io prenderei molto volentieri una tazza di tè, o anche due~»

Crowley lo guardò stupito, come se gli avesse chiesto una colazione a base di zuppa di pesce, ma poi rimise a posto il barattolo del caffè e prese il bollitore.

«Arriva.»

«Come sei servizievole, Crowley. Hai passato una bella serata, forse?»

«In realtà, sì, molto.»

Ferid si limitò a sorridere quando Dante lo guardò alla ricerca di una spiegazione più dettagliata. Quel giovedì era stata la serata di lettura più bella che avesse mai passato, a leggere ad alta voce un libro mentre Crowley l’ascoltava con la testa appoggiata sulle sue gambe. Non aveva mai condiviso il suo rito con qualcuno dopo la scomparsa di Claude e l’aveva percepito ancora più intimo di allora.

«Sai, De Stasio… da quando ti conosco non ti ho mai sentito fare tante allusioni sessuali come da quando conosci Ferid.»

«Fatti due domande e datti due risposte, dunque.»

«Vuoi venire anche tu, la prossima volta? Facciamo un sandwich.» disse Crowley, prendendo dal frigo bacon e uova. «Io non sono avaro, sai.»

De Stasio emise una sottile risata.

«Non spaventare Ferid, Crowley. Sembravi quasi serio.»

«Dovrebbe spaventarsi per un sandwich? Io sono bravissimo a farli, quelli col tonno sono deliziosi.»

«Ah… okay, mi hai preso, stavolta.»

Crowley fece un sorriso divertito e si mise a cucinare, mentre De Stasio si sedette di fronte a Ferid intavolando una conversazione molto funzionale su come si trovasse nel suo nuovo alloggio per il tempo sufficiente affinché la colazione fosse ultimata: quando bacon croccante, uova al tegamino e tè furono sul tavolo con una tazza extra per l’italiano, lui cambiò sguardo.

«In realtà non sono venuto solo per il telefono e i tuoi effetti di prima necessità, Ferid.»

«In realtà lo sospettavo.» ammise lui. «Dunque, che cosa è successo?»

«Il capitano e McCray mi hanno autorizzato a mostrarti qualcosa che era stato tenuto segreto… che non ti abbiamo fatto vedere neanche nei fascicoli, perché solo il capitano e il sergente lo sapessero e si evitassero fughe di notizie.»

«Lo hanno fatto davvero?» domandò sorpreso Crowley.

«Sì, per evitare di incappare in qualche mitomane, soprattutto. Ma ora, dopo quello che ti è successo, si sono convinti che tu possa essere escluso dai sospettati e quindi sei promosso a consulente specialissimo.»

«Oh, ma che bello~ ma se sono budella di corvo appese a feticci di legno voglio mangiare, prima.»

«No, sono disegni. Simboli, sembra.»

Dante estrasse alcune immagini nel formato di una fotografia standard e le passò sul tavolo sparpagliandole. Non appena il suo sguardo passò sui simboli composti di trattini, puntini e triangoli si rabbuiò e guardò Dante come se avesse fatto una pessima battuta.

«Mi stai prendendo in giro?»

«Che vuoi dire? Che cosa sono?»

«Dove hai trovato questa roba?»

L’espressione dell’italiano tradiva l’irritazione di non comprendere il motivo del suo disappunto.

«Sui corpi dei bambini. Il Vampiro li ha incisi sulle loro schiene, probabilmente dopo averli dissanguati e uccisi e prima di lasciarli nel luogo del ritrovamento.»

«Ma stiamo scherzando, avanti…»

«Ferid, che cosa sono?» s’intromise Crowley. «Vuol dire che li conosci?»

«Naturalmente li conosco, ma mi chiedo… beh, mi chiedo chi diavolo d’altri potrebbe mai conoscerli.»

I due detective si scambiarono un’identica occhiata confusa. Sebbene l’idea di diffondere quella stupidaggine in altre menti lo ripugnasse capì che era necessario e si fece coraggio con un respiro profondo.

«Sono glifi di Grimbald.»

«Glifi di che cosa?»

«Glifi di Grimbald.» ripeté lui, e bevve un sorso di tè. «Sono contenuti in un testo raro correlato alla tradizione vampirica, Linguaggio segreto della Dinastia della Notte, di Helga Torres.»

«Vuoi dire che arrivano da un libro, tipo, super antico?»

«No, per niente. Il libro della Torres è un testo stampato nel 2015, quando dico che è raro intendo dire che è uno spreco di pagine che per fortuna è stato riprodotto in una quantità estremamente limitata.»

«Ferid, non ti avevo mai sentito mettere tanto disprezzo parlando di un libro!»

«Perché questo è una porcheria.» infierì lui. Provava una sensazione di liberazione a poterlo criticare apertamente. «Ci sono nozioni ovvie, basilari del folklore vampirico, cose che sanno anche i bambini grazie alla moltitudine di opere derivate dal Dracula, miste ad assolute scemenze inventate dalla Torres, e persino discordanti tra loro. Un capitolo piuttosto consistente di questa vigliaccata parla dei glifi di Grimbald, che lei attribuisce a un sedicente conte Grimbald di Svezia, mai esistito secondo le cronache dell’epoca né nei volumi di genealogia e araldica. Glifi che sostiene siano la lingua degli abitatori della notte.»

«E non lo sono?»

«I vampiri sono sempre stati mescolati al tessuto sociale dell’uomo, per quale motivo avrebbero dovuto inventare una lingua diversa? Vivono tanto a lungo da imparare decine di lingue, e secondo tradizioni molto più accreditate gli Antichi parlano latino tra di loro… e soprattutto, non hanno interesse nei propri simili e quindi non ha senso che inventino una lingua per tramandare memorie o cultura dei vampiri ai… posteri.»

«Oh, sì, è vero, questo l’ho letto anch’io.»

«Mh… e quindi, questo sarebbe un libro poco diffuso perché non… affidabile, diciamo?» domandò De Stasio, scorrendo le foto.

«Sì e no. Il principale motivo per il quale è raro è che l’ha pubblicato una casa editrice minore, oserei dire amatoriale… il tipo di casa editrice che invece di pagare gli autori gli chiede di coprire le spese di stampa, mi spiego?»

«Sì, ti spieghi chiaramente.»

«Probabilmente in tutti gli Stati Uniti ci saranno in giro meno di duemila… forse anche di mille copie.»

Crowley ingoiò il boccone di bacon, gli occhi fissi sui simboli.

«Stai dicendo che il Vampiro ha usato un codice in un libro inventato per… per… quale motivo, De Stasio, secondo te?»

«Perché è uno psicotico, forse? Avrà preso per vere le idiozie di questi libri.»

«Io penso di sapere perché.»

I due poliziotti fissarono Ferid: persino De Stasio faticava a celare lo stupore.

«Vi stava mandando dritti dritti da me.»

«Oh… dici che servivano a mandarci al Magick alla ricerca di un libro che decifrasse questi simboli?»

«Vi sorprenderebbe? Siamo la libreria esoterica più fornita da qui alla costa occidentale, se c’era un posto dove trovare gli alfabeti e i codici esoterici era certo il Magick. Quel miserabile cane scabbioso voleva che mi notaste e che mi arrestaste al posto suo per gli omicidi.»

«Dici che era il suo scopo?»

«Ne sono sicuro… i bambini con cui parlo, nelle sere in cui sa che sono sempre solo senza testimoni, emulando il modus operandi di un vampiro… lo sanno tutti che cosa fingo di essere, al negozio. Non è certo un segreto, e anche se lo fosse stato lui avrebbe saputo anche questo.»

«Ha un senso…»

De Stasio fissò i suoi occhi verdi dritti su di lui.

«Ferid, non l’ho dimenticato. La tua rabbia mi dice che ricordi quel nome. Dammelo

«Quale nome?» domandò Crowley, passando lo sguardo da uno all’altro. «Quale nome? Ferid, il nome di chi

«Pascal Trobiano. Questo è il nome.»

De Stasio estrasse un taccuino simile a quello di McCray e lo trascrisse con una scrittura corsiva fluida, bassa e allungata.

«Chi è?»

«Tecnicamente, il mio figliastro. È il figlio di mio marito Claude.»

«Hai anche un figliastro?» fece Crowley, con la stessa aria scioccata di quando aveva guardato la fotografia nella sua casa.

«Claude aveva due figli dal suo primo matrimonio, Claude IV e Pascal. Il maggiore è morto da ragazzo, in un incidente stradale insieme alla madre, la prima moglie del mio compianto consorte.»

«E Pascal dov’è?»

«Non lo so… lui mi ha detto… Claude intendo, mi ha detto che suo figlio era in carcere in Francia per un grave reato e che sperava che anche una volta che fosse uscito non si rifacesse più vivo. A quanto diceva è stato un delinquente fin da ragazzino.»

«Ma se è in carcere in Francia, come fa a cercare di incastrarti?»

«Me lo disse ormai dodici anni fa, a quanto ne so potrebbe anche essere uscito… non ho mai saputo quale fosse la sua condanna.» ammise Ferid, che non si capacitava di non aver mai chiesto oltre. «Ma se fosse uscito e ritornato, di certo ce l’avrebbe con me. Non è citato nel testamento di Claude se non dove dice che affida al mio giudizio se Pascal abbia le intenzioni di ricostruirsi una vita onesta e abbia bisogno di risorse a tale scopo.»

«E tu non mi sembri incline a dividere, giusto?»

«Non mi vergogno di dirlo, Dante: non darò a quell’uomo neanche una tazzina sbeccata da ciò che apparteneva a Claude, piuttosto regalo tutto quanto per la beneficenza.» replicò gelido. «Pascal era tutto quello che restava della famiglia di Claude dopo la scomparsa del figlio maggiore e di sua moglie. Avrebbe dovuto essere il suo sostegno, e non ha fatto altro che tormentarlo e divorare i suoi soldi come una locusta. Non gli permetterò di speculare su suo padre anche dopo la sua morte.»

«Capisco il tuo punto di vista, e comunque è un tuo diritto, se il testamento dice così.» commentò De Stasio in tono neutro. «Ma certo se Trobiano ha scoperto che il suo vecchio ha lasciato tutto a un marito dell’età per essere suo figlio si sarà infuriato.»

«Quanti anni ha questo Pascal, adesso?»

Ferid dovette fare mente locale per riuscire a rispondere. Claude era sempre stato reticente sulla propria famiglia, sia sui suoi cari perduti che sull’ingrato figliolo superstite.

«Se ricordo bene, ne ha quarantadue, o quarantatré. Non ricordo la data di nascita esatta.»

«Le tue bizzarrie aumentano a dismisura, Ferid, hai un figliastro che è un sacco più vecchio di te.»

«Anche la seconda moglie di Giacobbe era più giovane di quasi tutti i figli della prima moglie, sai?»

«Oh, sì, è vero anche questo.»

De Stasio lanciò uno sguardo incuriosito a Crowley, forse sorpreso che prendesse per dati di fatto accadimenti registrati in uno dei libri più rivisti e censurati della storia, ma non intervenne.

«Controllerò questo Pascal Trobiano. Ho un contatto nell’Interpol… un uomo gradevole come una poltrona di rovi, ma ha una buona posizione, in cambio di un favore a rendere mi trova tutto quello che si sa di questo tizio.»

«Stai parlando di quel giapponese, Ichinose?»

«Sì, parlavo di lui… perché?»

«Mi diverte che trovi cose sempre più moleste per descriverlo.»

«Non è un hobby, è lui che diventa sempre peggio.» ribatté De Stasio, passandosi la mano nei capelli, di fatto spettinandosi. «Potrebbe metterci ore a rispondermi, ma nel frattempo chiamerò in giro per recuperare una copia di quel libro. Mi ripeti il titolo?»

«Non serve cercarlo, abbiamo una copia del libro della Torres.»

«Davvero?!»

«Oh, davvero.» confermò Ferid con un sorriso amaro. «Krul non mi perdonerà mai per averla ordinata, dato che non la venderemo nemmeno in mille anni. Una delle molte cose che non mi perdonerà per quanto lunghe possano essere le nostre vite.»

«Quindi posso andare alla libreria a chiederle di darci il testo per scoprire che cosa significano.» concluse De Stasio. «Bene, andrò subito.»

«Questo affare funziona?»

Ferid sollevò il telefono che De Stasio gli aveva portato.

«Certo che funziona, a cosa pensi serva? A vibrare a comando? Ti avrei portato qualcosa di meno costoso per quello.»

«De Stasio, per la miseria.» lo rimbrottò Crowley. «Cosa c’è in Ferid che ti sveglia gli ormoni?»

«Dimmelo tu.»

«Shh, bambini, non litigate.» li interruppe Ferid mentre digitava. «Papà sistema tutto, state buoni.»

Attese due squilli, avvolgendosi una ciocca di capelli intorno all’indice, prima di sentire una voce familiare rispondere.

«Libreria esoterica Magick.»

«Buongiorno, zuccherino mio

La comunicazione venne interrotta e lui ridacchiò divertito. Il suo sorriso non venne intaccato dalle facce ugualmente perplesse dei due poliziotti e richiamò il negozio.

«No, tranquilli, è normale… dolcissima, buongiorno a te~»

«Se lo fai una terza volta ti denuncio per molestie sessuali!»

«Sai che ti darebbero retta solo perché sei una puffetta rosa, vero?»

«Che cosa vuoi, Ferid?!»

«Ci sono clienti in negozio, Principessa?»

Seguì un momento di silenzio, come se la ragazza stesse controllando.

«Se ci sono, sono morti e vagano in cerca della porta per l’aldilà.»

«Era difficile dire “no, Ferid caro, non c’è nessuno, parliamo pure”?»

«Difficilissimo.» ribatté lei. «Quando torni? Mi dici dove ti hanno nascosto? Sto impazzendo a trovare le cose qui dentro!»

«Potrei tornare prima del tempo se tu mi aiutassi facendo una cosetta per me, gioia dei miei occhi~ lo faresti per me?»

«Ma figurati se lo faccio.»

«Per riavermi indietro non lo faresti?»

Probabilmente i giorni di lavoro da sola l’avevano già messa alla prova, perché neanche il suo smisurato orgoglio riuscì a farle dire di no.

«Che diamine vuoi?»

«Il libro di Helga Torres per caso l’hanno comprato?»

«Tch, perché, l'ha mai fatto qualcuno che non fosse un suo parente mosso a pietà o un libraio imbecille?»

Ferid incassò la frecciata stoicamente.

«Benissimo, fagottino di gioia, ora muovi i tuoi adorabili piedini e vammelo a prendere.»

«Prima di tutto dacci un taglio con questi soprannomi vomitevoli, e subito dopo: i tuoi ordini ficcateli in…»

«Ehi ehi, Principessa, niente parolacce~»

«Ti ho già detto che cosa fare con i tuoi ordini.»

«Krul.» fece lui, con tutt’altro tono. «Basta capricci. Prendimi quel libro, mi serve. Adesso

Krul tacque per un secondo e poi parlò, abbandonando anche lei il tono brusco e iracondo. Era diventata seria.

«A cosa ti serve un libro simile? Sono barzellette. Niente di più, lo sai.»

«Certo che lo so, ma tu prendimelo comunque.»

«Intendi dirmi perché?»

«Vorrei, ma non posso. Sappi solo che riguarda la mia consulenza.»

Seguì un altro momento di silenzio.

«Dove lo trovo?»

«Sotto la L, amore mio. Linguaggio segreto della Dinastia della Notte, no?»

«Perché non puoi fare come tutti i librai e ordinare per nome dell’autore?»

«Perché di norma i clienti cercano per titolo o per argomento, non per autore. Lo sapresti se passassi meno tempo a far bollire le tue erbette e a infilare perline di legno incise in braccialetti.»

«Probabilmente.»

Mhh, docile. Dev’essere un po’ triste, non è mai stata una settimana senza vedermi fin da quando sono diventato suo cliente.

Sentì camminare, poi il cigolio della scaletta. La sentì mormorare sillabe come faceva sempre quando cercava un libro e poi tossire con un’insistenza allarmante.

«Tutto okay, Principessa?»

«Un c-corno, questo maledetto libro ha più polvere di un sarcofago egizio! Ma perché è tutto pulito tranne questo?!»

«Beh… lo disprezzo in modo particolare…»

Ferid ignorò le espressioni corrucciate e confuse dei due uomini di fronte a lui e fissò la fetta di limone galleggiare nel fondo di tè della sua tazza mentre in linea Krul dava qualche altro colpo di tosse sporadico.

«Non posso dire di non capire. In effetti lo brucerei io stessa. Beh, che cosa ti serve da questo deplorevole spreco di alberi?»

«Ti ho trovato un delizioso passatempo, mia cara… ti mando delle foto di alcuni glifi di Grimbald, mi cerchi il loro significato?»

«Stai scherzando, i glifi di… ma sei serio?!»

«Credimi che sono umiliato oltre ogni dire a dovermi rifugiare per conoscenza in un simile mucchio di str… ampalerie.»

«E non mi dirai niente?»

«Al momento non posso proprio, ma se finiamo in fretta questa storia ti dirò tutto quanto… lo faccio sempre, no? Ho qualche altro segreto, per caso?»

Inspiegabilmente, Crowley ridacchiò.

«Ma non ha senso questa domanda, se tu mi tieni un segreto io come faccio a saperlo?»

«Com’è sveglia la mia piccola~»

«No. No, il piccola non te lo faccio passare, no.»

«Pasticcino va bene?»

«Perché mi dai tutti nomignoli di cose piccole?!»

«Perché tu sei una cosa piccola… che cosa pretendi, che ti chiami Golia? Non è romantico!»

La sentì cedere: ogni volta che si arrendeva emetteva un verso che era insieme un sospiro, un brontolio e un ringhio.

«Abbastanza idiozie per oggi, Romeo! Allora, come me li manderai questi glifi?»

«Devo prenderci un po’ la mano, ma ho un cellulare, adesso esploro. Non conosco questo modello.»

«Un cellulare? Caspita, bentornato dal Medioevo, Ferid.»

«Grazie Gioia, ti mando le foto. Scrivimi appena sai che cosa significano, d’accordo? A più tardi, Passerotto, ti amo~»

«Smettila, sei rivoltante!»

Ferid chiuse la conversazione prima che lei potesse proseguire e sorrise con particolare convinzione a Dante.

«Mi aspetto dei ringraziamenti appassionati per tutto il tempo che ti ho fatto risparmiare, Dante~»

«Prometto solennemente che li avrai.»

«Devono per forza essere appassionati?» domandò Crowley, che riprese a mangiare il suo bacon con scarso entusiasmo. «Perché non so se De Stasio ne sia capace, è uno strano tipo di italiano.»

«Insultami su tutto, ma non dire che sono un italiano anomalo.»

«Ma è vero, gli uomini italiani sono divertenti, spiritosi e passionali. Tu no.»

«Non tutti gli uomini di un paese rispondono allo stereotipo che il resto del mondo gli attribuisce.» ribatté Dante, versandosi altro tè. «Tu sembri un irlandese, secondo te? Scopi troppo per esserlo.»

«E tu scopi troppo poco per essere italiano.»

Ferid tossicchiò rumorosamente, alzando gli occhi dalle funzionalità del telefono che stava esplorando. Fissò prima Dante e poi Crowley con una certa fermezza.

«Vi dispiace parlare dell’impiego dei vostri apparati genitali in separata sede o quando io non ci sono? Onestamente, se non avete intenzione di usarli con me non sono interessato a conoscere i dettagli di quanto e come e dove li usate.» disse loro. «Non c’è niente di più disgustoso della vanagloria maschile.»

Tornò al telefono, che aveva configurato un servizio di messaggistica che Krul usava anche per le prenotazioni dei clienti del negozio, mentre gli altri due osservavano un colpevole silenzio per qualche istante.

«Ti dà proprio fastidio…»

«Sono conversazioni che mettono a disagio chi le ascolta, non ci arrivate da soli?»

«Non ti ho imbarazzato quando ti ho parlato di Connor, però.»

«Mi stavi raccontando di qualcuno che conosci, e non mi hai detto come, dove e quanto giocherelli con le sue appendici… oh, pare che ci siamo, facciamo un tentativo?»

Completamente indifferente all’improvviso imbarazzo di Crowley prese uno dei fogli con un glifo, l’inquadrò e scattò la foto. Aveva una buona qualità. Uno ad uno fotografò tutti i simboli e spedì le acquisizioni nella chat che aveva aperto dal numero di cellulare di Krul. Le spunte gli confermarono che erano arrivate alla destinataria.

«Sembra che ce l’abbiamo fatta.» osservò distrattamente, più con se stesso che agli altri due.

La spunta sul display cambiò colore e pochi secondi dopo un messaggio l’informò che lei stava scrivendo, anche se scomparve quasi nel momento stesso in cui apparve.

Questo è il tuo numero adesso?

Tre tocchi bastarono per risponderle affermativamente.

Posso chiamarti su questo numero se ho bisogno di te?

Ferid sorrise, temporaneamente dimentico dei due poliziotti e disinteressato a quello che si stavano dicendo, e digitò sulla tastiera sulla parte bassa dello schermo.

Chiamami se ti senti sola.

L’applicazione gli disse che lei stava scrivendo, ma poi smise e non ci furono risposte. Non poteva dire di essere sorpreso ed era certo che non avrebbe mai avuto una risposta a quel messaggio, quindi abbandonò il telefono sul tavolo e lanciò uno sguardo a Crowley.

Per quanto mi sembri incredibile pensarlo, non sono più solo come lo sono stato in questi anni.

I suoi pensieri si interruppero quando Dante si alzò dal tavolo, e Crowley si alzò dopo essersi infilato in bocca tutto quello che restava nel piatto.

«Sarò onesto, vederti mangiare fa quasi schifo, Crowley.»

«Cercherò di sopravvivere a questa ferita mortale al cuore.» ribatté lui distrattamente. «Ferid, è meglio se vado anch’io al distretto, a quanto pare dobbiamo aspettare ancora qualche giorno per reintegrare l’organico. Siamo ancora troppo pochi.»

«Oh… certo, capisco.»

«Te la caverai senza di me, no? Sei autosufficiente da un pezzo, ormai.»

«Sono più autosufficiente di te sotto molti aspetti, detective, te lo posso garantire.»

«Era vagamente allusivo questo o sembra a me?»

«Ah, chissà~»

«Ferid, appena ti fa sapere qualcosa di quei glifi, per favore chiama.» gli disse Dante, allungandogli un biglietto da visita. «Questo è il mio numero, nel caso che Crowley non possa rispondere o sia al laboratorio o dal coroner.»

«Oh, d’accordo, ma Krul è pur sempre una principessa. È pigra, potrebbe volerci tutto il giorno.»

«Non importa, possiamo sempre lavorare ad altro mentre aspettiamo, ma se non ci lavorerà avvertimi e andrò a prendere io la copia del libro.»

«Di certo la renderesti felice, odia quel volume quasi quanto me. Sai, è naturalista, per lei un albero si deve tagliare per qualcosa che valga la pena.»

De Stasio parve improvvisamente interessato.

«Per caso fa parte anche lei della Congregazione wiccan come i genitori di Gaia Windsor?»

«Ne fa parte, ma non partecipa mai alle celebrazioni. È una cosetta solitaria, lei.»

«Vi siete proprio trovati.» osservò Dante, con aria seria.

«Niente affatto! Lei sta da sola perché non va d’accordo neanche con se stessa, io sono molto socievole invece~»

«Fin troppo, direi… io ci sono stato al college, ma neanche alle feste mi avevano sbottonato la camicia tanto in fretta.»

«De Stasio

Crowley, che si stava infilando la giacca davanti alla porta, lo guardò con una fenomenale faccia da poker del tutto inespressiva.

«Hai finito con le chiacchiere?»

«Non essere così geloso, Crowley. Stava annusando la mia acqua di colonia, sai che ha un prodigioso naso? Ha indovinato che profumo è.»

«Sì, sono certo che Ferid ha uno sproposito di talenti straordinari, ma non è il momento di parlarne. Hank si arrabbierà.»

Dante De Stasio accennò un sorriso e invece di dare il biglietto da visita in mano a Ferid si sporse per infilarlo sotto il cellulare, di modo che si trovò molto vicino al suo orecchio.

«È geloso di te.» gli sussurrò in un soffio udibile a fatica.

«Vuoi che mi avvii per primo, dicendo al capitano che ti sei preso un permesso?»

«Eccomi, eccomi.» disse Dante. «A più tardi, Ferid.»

Crowley gli lanciò un’occhiata strana, come combattuto se dirgli o no qualcosa.

«Chiamami comunque oggi, anche se Krul non ti ha fatto sapere niente.» gli disse alla fine. «I ragazzi qui di fianco ti terranno d’occhio, ma così sono sicuro che stai bene mentre non ci sono.»

«Oh, che carino che sei quando sei preoccupato per me~»

«Ti ho già detto che mi preoccuperò sempre… e in questo momento, anche più di allora. Quindi non strapazzarmi che ho il cuore delicato.»

«Mh, ma non avevi detto che non era vero?»

«È verissimo, quindi non mi strapazzare.»

«Bugiardo~»

Dopo avergli strappato la solenne promessa di non uscire, di non fare nulla di pericoloso e di chiamare per qualsiasi minaccia potesse pensare essere una possibilità, Crowley e De Stasio lasciarono l’appartamento. I muri sottili, l’eco della tromba delle scale e il silenzio caduto dentro casa permisero a Ferid di sentire che cosa si stavano dicendo.

«Non ti ingelosire, Crowley, non è che lui mi interessi… ma è divertente vedere quanto interessa a te. Sei molto preso.»

«Non ho mai detto che non ci tengo a lui. Te l’ho detto fin dal primo giorno, no?»

«Sì, ma è molto meglio di così… per lui hai messo il lavoro in secondo piano, più di una volta. Hai trovato quella cosa importante a cui dedicare il tuo tempo?»

Qualsiasi cosa avesse risposto Crowley, se l’aveva fatto, era stata coperta dal rumore metallico della gabbia dell’ascensore che veniva aperta. Non sentì più voci e il ronzio dell’elevatore che scendeva fu l’ultimo suono proveniente dal corridoio. Silenziosamente, quasi furtivamente, come se non volesse svegliare qualcuno dal sonno leggero che dormiva sul divano, Ferid si versò dell’altro tè.

«Quella cosa importante a cui dedicare il tuo tempo

Ferid restò a rimuginare lunghi minuti sul significato di quella frase, su quanto esattamente un uomo che lo conosceva da meno di tre mesi potesse considerarlo una parte importante della sua vita, e inevitabilmente ciò lo portò a pensare ai due grandi amori della sua vita, Robert e Claude.

Con Robert, un ragazzo del paese rurale vicino alla sua casa d’infanzia, era stato fuoco improvviso bruciato in poche settimane grazie soprattutto a una vivace curiosità adolescenziale; con Claude un amore scoccato in meno di venti minuti grazie all’ammirazione che quell’uomo aveva per la sua bellezza e per la sua famelica ricerca della conoscenza.

Che cosa vede in me un detective, un uomo dall’anima semplice, che può avere chiunque altro e chiunque altra? Ha visto attraverso i miei artifici, a tutte le mie recite più o meno intenzionali… ma che cosa ha visto, esattamente? Che cosa c’è in me al di là di un commediante, di un libraio dalla memoria portentosa… al di là di una bellezza straordinaria?

Ferid si alzò dalla sedia e, ancora assorto nelle sue riflessioni, prese lentamente a riordinare le stoviglie. Aveva la netta impressione che quel viaggio avrebbe svelato la sua reale identità quanto quella del Vampiro di West End.

 

Diverse ore dopo Ferid era così impegnato che lo squillo acuto del cellulare lo prese del tutto di sorpresa, dimentico persino della sua esistenza. Abbandonò il mestolo sul bordo di una pentola e si allungò sul tavolo per prenderlo, riconoscendo un numero familiare sul display.

«Buonasera, Principessa, ti manco già?»

«Che stai farfugliando? Ah, ti riferisci allo stupido messaggio di stamattina.» commentò Krul. «No, imbecille. Ho trovato i tuoi preziosi glifi.»

«Oh, di già? Hai lavorato proprio tan-ahia!»

Ferid lasciò ricadere sopra la pentola il coperchio che aveva cercato di sollevare, causando un fracasso metallico spaventoso.

«Che è successo?»

«Ahh… n-niente, Principessa, niente… per motivi a me sconosciuti il detective Eusford ha in casa un coperchio dal manico infido che diventa incandescente quando sta sopra una pentola, per la gioia di ustionare le dita di chi prova incoscientemente a sollevarlo…»

«Dire che ti sei scottato era troppo banale per te?»

«Avrebbe perso di poesia, non trovi?»

Ferid aprì il rubinetto con il gomito e ficcò le dita sotto l’acqua con un sospiro.

«Di nuovo la mano destra… che cosa ha fatto questa mano per meritarsi un tale accanimento del fato, mi domando?»

«A me vengono in mente un paio di cose.»

«Krul, ti prego, hai fatto finta di non ricordarti di quella sera per un anno e più, continua così

Lei rimase in silenzio dall’altra parte e dopo qualche altro istante Ferid chiuse l’acqua e controllò i danni: i polpastrelli erano arrossati e bruciavano, ma non sembrava nulla di grave.

«Se riuscissi a farmi bastare queste tre dita, potrei svaligiare una gioielleria senza lasciare impronte.»

«Congratulazioni, sei un passo più vicino all’anonimato dei vampiri.»

«Grazie.» rispose lui senza particolari inflessioni. «Allora, dicevi di aver trovato quei glifi?»

«Sì, li ho trovati, e la mia personale idea è che siano presi a caso.»

«Cosa dicono?»

«Bacio, Fuga, Giardino, Notte, Oro, Segreto, Vergine.» snocciolò lei con aria annoiata.

«Come, prego?»

Ferid la riascoltò con più attenzione elencare il significato dei glifi, ma non ne cavò più senso della prima volta. Se li fece ripetere di nuovo appuntandoli su un blocchetto che stava attaccato con una calamita al frigorifero, ma non fece altro che fissare le parole dalla grafia sghemba da mano sinistra con le sopracciglia aggrottate.

«Principessa, sei sicura che siano giusti?»

«Certo che ne sono sicura, li ho controllati per bene tutti quanti.»

«Mhh… non hanno lo stesso numero di lettere… iniziale, finale… mi verrebbe da dire che sono sostantivi, ma non lo so. Segreto e Vergine potrebbero essere intesi come aggettivi…»

«Mi vuoi spiegare a che cosa ti servono queste idiozie?»

«Non lo so davvero, onestamente… ma tu sta’ zitta come una tomba vuota, Krul.»

«Come sempre.»

«Magari fosse vero.» commentò Ferid secco. «Beh, pare il Vampiro abbia scritto questa roba sui bambini che ha ucciso.»

«Cosa? Ma perché… che diavolo, questa roba non la conosce nessuno, come sperava che qualcuno riuscisse a decifrarlo?!»

«La mia idea è che volesse mandare la squadra omicidi nel nostro negozio…»

«Nel mio negozio.»

«… Alla ricerca del significato di questi, in modo che notassero me… e si insospettissero.»

«Vuoi dire che fin dall’inizio cerca di incastrarti?»

Ferid rimestò il sugo di carne nella padella e quando sentì il rumore del portapenne spostato, per qualche motivo, immaginò Krul seduta sul bancone come così spesso faceva. Pensarci aveva un qualcosa di nostalgico.

«Io credo che stia cercando di fare esattamente questo.»

«Ma chi si prenderebbe mai tanto disturbo per vendicarsi di un idiota come te? Vale a malapena la fatica di prenderti a schiaffi.»

«Mi commuove sempre sentire le tue affettuose lodi del sottoscritto.»

«Non c’è di che.»

«Piccola nanerottola perfida.»

«Bada a quello che dici o ti licenzio in tronco.»

«Ah, questa è bella, davvero… se decidessi di non tornare al Magick tu ti faresti tutta la strada fin qui sulle tue belle ginocchia per pregarmi di tornare, sei persa senza di me.»

«Io, inginocchiarmi per te? Morirò prima di farlo, sta’ sicuro.»

Certo, sarebbe stato opportuno ignorarla, lasciar cadere il discorso e semmai tornare a cercare di dipanare una matassa intricata di indizi confusi… ma si era irritato oltre la misura.

«Strano, sono sicuro di avertelo già visto fare e… sì, eri proprio davanti a me.»

A lei non sfuggì a che cosa si stava riferendo.

«Che pervertito.»

«Pervertito? Non te l’ho mica chiesto io, sai?»

«Non hai detto che dovevo continuare a non ricordarmelo?»

«Perché sei stata tu a dire che avresti fatto finta di niente, io non ho mai detto che me ne sarei dimenticato.» precisò Ferid, scostando il coperchio bollente con uno strofinaccio. «Io ricordo ogni minuto e ti posso garantire che continuerò a farlo per sempre. Sei difficile da dimenticare.»

«Oh, Ferid, ti sei proprio superato con le frasi da sfigato.»

«Saranno anche da sfigato, ma questo sfigato sta andando avanti con la sua valigia di ricordi. E tu?»

Seguì un momento di silenzio totale dal lato del negozio.

«C’è un cliente. Ci sentiamo, Ferid.»

«Dev’essere uno di quegli spettri, per riuscire a entrare senza far suonare il campanello della porta.»

«Crepa

La comunicazione venne interrotta e Ferid abbandonò il telefono sul tavolo, scuotendo la testa. Si chiese quanto a lungo Krul sarebbe rimasta sospesa in quella specie di limbo nel quale non sapeva che cosa voleva, senza sapere se conservare il suo orgoglio o se provare per la prima volta nella vita a smussare qualche spigolo per riuscire ad accostarsi a qualche persona senza ferirla. Per motivi opposti, lui e Krul erano fin troppo simili nelle conseguenze in cui andavano incontro con i loro atteggiamenti: per orgoglio estremo o per paura altrettanto forte non facevano che bruciare il terreno intorno a loro, lasciando solo una devastazione che odorava di cenere e fumo.

«Quando ritorno devo parlare a quella ragazza da persone adulte.»

Annuito a quest’affermazione come concordando con se stesso, Ferid archiviò la pratica e si rimise a dedicarsi alla preparazione della cena, discretamente più complessa della media di ciò che preparava normalmente per se stesso.

Aveva ultimato la preparazione da dieci minuti e stava demolendo a colpi di spugna e sapone la quantità di stoviglie sporcate nel processo quando sentì prima la gabbia dell’ascensore e poi la chiave che girava nella toppa. Crowley la spalancò bruscamente.

«Mi auguro che tu sia almeno moribondo, Ferid! Non dovevi chiamar-»

Si bloccò alla vista del tavolo apparecchiato come se non ne avesse mai visto uno e lanciò uno sguardo attonito a Ferid, al grembiule blu, ai piatti e alla terrina di sheperd's pie appoggiata sul ripiano. Ferid chiuse il rubinetto, si asciugò le mani e lo guardò sorridendo.

«Sei pronto per cenare?»

«È… hai cucinato?»

«Non dirmi che credevi sul serio che uscissi ad attaccarmi al collo di qualcuno per mangiare.»

«No, ma… è…»

Crowley lanciò un’altra occhiata alla tavola e sembrava fin troppo sorpreso da una cosa così semplice. Ferid posò lo strofinaccio e attese pazientemente che riordinasse i pensieri.

«L’ultima volta che sono tornato a casa e ho trovato la cena pronta vivevo ancora con mia madre.»

«Oh, ma davvero?»

«Sì… a volte Bernadette mi dà qualcosa quando rientro, o i ragazzi mi lasciano la cena sul tavolo da riscaldare, ma… questo è… non è proprio la stessa cosa.»

«Deduco che tu non abbia mai convissuto con qualcuno dei tuoi… fidanzati, possiamo chiamarli così?»

«No, infatti… sono abbastanza geloso dei miei spazi e dei miei tempi… delle mie abitudini, anche. Convivere con qualcuno di solito ti porta a scontrarti con le abitudini degli altri, e se non ti piace diventa difficile poi tornare indietro… capisci che cosa voglio dire?»

«Capisco che quello che hai deciso di fare per me è un grande sacrificio.»

Crowley lanciò un’occhiata tesa verso di lui e alzò le mani, quasi si stesse preparando a frenare uno scatto d’ira causato dalle sue parole, ma Ferid era molto tranquillo e ben lungi dall’arrabbiarsi.

«Ah, no, non intendevo metterla giù in quel senso!»

«No, ma è sottinteso. È una cosa normale, dopotutto… un po’ meno normale è che tu non abbia trovato nessuno che ti invogliasse a provare, come mai? Sei così difficile come uomo? Non lo sembri.»

«No? In realtà sono un tipo complicato.» disse Crowley, rilassandosi alla sua reazione tranquilla, e si tolse la giacca. «Non sopporto il minimo tentativo di controllo… mi irrita la gelosia, voglio il mio sabato sera libero davanti alla televisione a guardare i documentari mangiando chili di patatine e voglio anche il venerdì sera al pub per la consueta birra con i miei amici, che non è mai una soltanto. Io chiedo solo che gli hobby di chi sta con me non siano illegali, quindi mi disturba che qualcuno mi dica cosa devo o non devo fare del mio poco tempo libero… è così grave?»

«Posso capire… questo significa che questa sera andrai al pub?»

Crowley lo guardò con vago stupore.

«È venerdì, no? Non esci?»

«Ah… no, no. Questa volta no.»

«E perché? Non dovrai mica tornare a fare il turno di notte, spero.»

«No, solo… oggi non vado, tutto qui.»

«Guarda che io sono perfettamente al sicuro qui, se ti preoccupi di questo.»

«No, sei… so che è sicuro, per questo ti ho detto di stare qui… la sera c'è anche il guardiano, e i ragazzi qui accanto sono a casa… so che sei al sicuro.»

Il nocciolo del problema allora era l’altro.

«E non devi preoccuparti nemmeno di lasciarmi solo… ho abitato con il mio gatto per dodici anni. Non soffrirò di solitudine perché tu passi qualche ora a bere al pub.» ribatté Ferid, sfilandosi il grembiule di dosso. «È vero che Baudelaire non c’è più, ma non era poi di così tanta compagnia, è sempre stato un grasso pigrone. Però faceva delle fusa da sembrare un fuoribordo, l’hai sentito anche tu quando l’hai tenuto in braccio.»

«Sì… no, cioè… sei sicuro che ti stia bene? Sono stato fuori tutto il giorno…»

«E quindi? Sarai qui per la cena, faremo due chiacchiere, e poi potrai uscire a vedere i tuoi amici, o le tue amiche, quello che sono, non ti chiederò con chi uscirai.»

«Ma potrei tornare tardi… non ti disturba?»

«Dovrebbe? Non siamo mica sposati. Non ancora, almeno~» fece Ferid portando la terrina sul tavolo. «Ma se vuoi farmi una proposta prometto di prenderla seriamente in considerazione~»

Crowley fissò la terrina e Ferid alternativamente, aggrottando le sopracciglia rosse.

«Con queste premesse potrei anche farlo davvero.»

«Uomo complicato, ma dove? Sei come un bambinone~»

«Ma prima devo sapere come cucini. Saper cucinare è un requisito irrinunciabile in una brava moglie irlandese.»

«Peccato che io non sia irlandese, non sia cattolico e nemmeno una brava moglie, ma detto questo spero che la cena sarà… che cosa pensi di fare, detective Eusford? Fila a lavarti le mani, non fare il cavernicolo!»

«Ah, giusto, giusto. Chiedo scusa.»

Crowley si alzò dalla sedia velocemente quanto vi si era seduto e scoppiò in una breve risata mentre entrava nel bagno. Ferid dovette aspettare che tornasse prima di potergli fare quella domanda.

«Cosa c’era di divertente?»

«Ah, niente, niente…»

«Ho detto qualcosa di buffo?»

«Beh… in effetti, sì.» ammise alla fine lui, sedendosi. «Mia madre chiama mio padre per nome solo quando è arrabbiata. L’ha sempre chiamato agente O’Brian… e mi ha fatto ridere che nemmeno tu mi chiami mai Crowley.»

«Oh, che paragoni pericolosi, detective. Non ti starai abituando all’idea?»

«Sto solo pensando che Dio mi sta dando tantissimi segni per dirmi che tu non sei un caso.»

«Ne sembri proprio sicuro.»

«Perché lo sono.»

Ferid tacque quando lo vide unire le mani per la preghiera prima del pasto e ancora una volta rifletté sul fatto che i suoi, per quanto devoti, non avevano mai pregato prima di consumare un pasto. Quando ebbe finito di ringraziare per il cibo e per chi gliel’aveva preparato Crowley sorrise e gli lanciò un’occhiata.

«Sarò brutale, Ferid. Non puoi chiedere a un irlandese di essere gentile nel giudicare una sheperd’s pie.»

«Se avessi avuto paura del giudizio non avrei preparato proprio questo, non credi?»

«Oh, siamo sicuri di noi, eh? Allora sarò onesto senza riserve.»

«Lo saresti stato comunque… le bugie sono pericolose, detective. Prima o poi ci si rivoltano contro.»

Quel commento, detto quasi senza malizia in riferimento alla sua bugia in ospedale, sembrò turbare il poliziotto in una certa misura. Per cercare di cancellare quell’involontario disagio si affrettò a riempirgli il piatto.

«Ora mangia e sentiamo il giudizio supremo, su.»

«Sì, okay… tu… tu riuscirai a mangiarlo, Ferid? L’altra volta tu…»

«Avevo ancora lo stomaco un po’ sottosopra! Sono sicuro che stavolta non avrò problemi, non preoccuparti per me.»

«D'accordo, allora…»

Fu con una sorta di esitazione che affondò la forchetta e prese un piccolo assaggio; quasi fosse sicuro di bocciarlo su tutta la linea e fosse anche preoccupato di doverglielo dire. Mentre masticava però parve sorpreso e iniziò a sezionare lo strato di purè di patate con aria sospettosa.

«Questo… che cosa hai messo in queste patate? Non è la sheperd che conosco…»

«Ah, te ne sei accorto? È il mio segreto per il purè di patate, la noce moscata. A mio marito piaceva moltissimo preparato così.»

«Noce moscata… avevo in casa qualcosa del genere?»

«No, ma i tuoi vicini sì. Quel ragazzo brunetto che è venuto l’altro pomeriggio è molto gentile… un ragazzo vivace, ha un bel sorriso. Mi ricorda un po’ te… non vi somigliate, ma sorridete nello stesso modo.»

«Yuu sarebbe contento di sentirlo, penso, credo mi abbia preso come una specie di modello… il perché non lo so ancora.» disse Crowley, scrollando le spalle. «Ma la tua sheperd è buonissima, Ferid, sono colpito. Veramente colpito.»

«Non ti dovresti sorprendere così tanto, no?»

«No? Perché?»

Ferid si sporse sul tavolo avvicinandosi a lui abbastanza da potergli sussurrare all’orecchio.

«Io sono inglese~»

Crowley scoppiò in una gran risata.

«È vero, l’avevo dimenticato!»

«E tuo padre te l’ha ripetuto anche ieri, ma davvero sei detective, tu?»

«Sono proprio imperdonabile, hai ragione… ma visto che ne parliamo, esattamente tu da dove vieni?»

«Uhm, beh… dal Sussex.» rispose Ferid con una certa cautela.

«Sussex, uh? Sei sempre un sacco vago.»

«Oh, d’accordo. Stavo in una casa di campagna, nella zona più a nord del West Sussex… a sud di una città che si chiama… Crawley.»

«Una città che si chiama come, scusa?»

«Crawley

«Ferid, tu continui a sostenere che noi non siamo collegati in alcun modo?»

«Oh, ti prego, non è nemmeno scritto uguale.»

«Se lo pensi davvero perché hai esitato a dirlo?»

Ferid mangiò in silenzio e Crowley come reazione ridacchiò. Il pasticcio era riuscito ottimamente.

«E comunque, non vivevo a Crawley, solo poco lontano.» precisò. «Non vedere segni di Dio dove non ce ne sono, avanti.»

«D’accordo, d’accordo! Hai detto che era una casa di campagna, tipo una fattoria, o…?»

«No, era più una… villa. Una villa di campagna. Ma avevamo una stalla con dei cavalli. Erano la passione di mio padre.»

«Beh… tu lo conosci il mio vecchio. Il tuo com’era?»

La conversazione stava prendendo una piega che Ferid non aveva immaginato e che non gli piaceva, ma se c’era qualcuno che poteva accettare i suoi sentimenti al riguardo era proprio quell’uomo seduto con lui.

«Come me. Un uomo che preferiva scappare dai problemi piuttosto che risolverli.»

«Parli di tua madre… dei suoi problemi?»

«Sì… quando lei ha cominciato a peggiorare, lui è… semplicemente scappato. Spariva per giorni per andare da qualche parte, a trovare parenti, clienti… per curare certi affari… più lei peggiorava e più a lungo lui stava fuori.»

Crowley si fece serio e abbassò la forchetta.

«E ti lasciava a casa con una madre tanto disturbata?»

«Sì… io… non ho mai lasciato la casa e il parco finché non sono scappato in America. Se sono uscito quando ero piccolo, lo ero tanto da non ricordarmelo. Dopotutto mamma ha iniziato ad ammalarsi poco dopo la mia nascita, altro motivo per il quale credeva che fossi io il motivo per il quale aveva perso la protezione divina.»

Ferid continuò a mangiare mentre il silenzio si dilatava tra di loro, poi anche Crowley riprese a mangiare con aria pensierosa. Alla fine, quando lui ebbe spazzolato tre porzioni di pasticcio, lo guardò con un certo sorriso pieno di calore quanto una giornata di luglio.

«Ehi, Ferid… che ne dici se ti porto con me al pub, stasera? Ti va?»

Ferid lo guardò perplesso.

«Come, prego?»

«Vieni con me al pub. Ti presento quei sei o sette ubriaconi che mio padre conosce da tutta la vita, sono lì quasi tutte le sere, sono tipi simpatici… così non devi per forza stare a casa da solo. Beviamo qualcosa e quando sei stanco torniamo. Non è lontano da qui.»

«Pensi che andare a bere lasciandomi a casa da solo ti faccia sembrare come mio padre, per caso?»

Qualcosa di quasi impercettibile attraversò il blu degli occhi di Crowley e Ferid seppe di aver visto giusto, e che il racconto sul padre aveva influenzato la sua percezione di quello che stava per fare. Fece del suo meglio per sorridergli.

«Questo è un posto sicuro. Nessuno mi può fare del male, no? Smettila di tormentarti, sciocco ragazzo, e preparati per uscire. I tuoi amici ubriaconi ti aspetteranno con impazienza per svuotare un fusto o due.»

Crowley esitò, guardandolo per diversi secondi con un’aria colpevole dipinta in volto.

«Sei sicuro di non voler venire?»

«Oh, no, davvero, in realtà non mi piace la birra. No, credo proprio che metterò via questi piatti e poi… sì, mi farò un bel bagno, un po’ più tardi… oh, ma se ti piace questo programma puoi restare e bruciare un po’ di quelle calorie giocando con me a trovare tutti i modi in cui possiamo riuscire a incastrarci in due in quella vaschetta~»

«Posso essere terribilmente sincero con te, Ferid?»

«Addirittura terribilmente? Dimmi tutto~»

«In questo momento se non avessi in piedi quel famoso patto con il Signore resterei.»

Ferid restò attonito, con le forchette in mano, guardandolo come se avesse appena urlato una frase insensata di punto in bianco. Emise quasi inconsciamente una risatina per dissimulare l’imbarazzo.

«Oh, cielo, ti ho conquistato con il mio pasticcio? Che strike~»

«È successo prima di stasera… chissà se sarai in grado di capire quando?»

Crowley sorrise alla sua aria stupita e si alzò dal tavolo, sparendo nella camera da letto.

È successo… ha detto? Ha detto davvero che… l’ha detto!

Pandora gli saltò in braccio in cerca di coccole e Ferid passò distrattamente le mani nel suo folto pelo screziato bianco, nero e rossiccio, con lo sguardo perso nel vuoto. Scorse alcune memorie passate insieme al poliziotto senza venire a capo con certezza del momento del quale parlava.

Forse dopotutto sono io che non lo osservo bene… non me ne sono accorto.

«Beh, allora io vado, va bene? Ferid?»

Si accorse del suo ritorno solo quando gli accarezzò il viso spostandogli i capelli dietro l’orecchio.

«Stai bene?»

«Eh? Oh, certo, sì. Sto bene.»

«Probabilmente farò tardi, se c’è Fionnula mi incastrerà a raccontarmi di quello che è successo ultimamente a lei, ai suoi fidanzati e alle sue amiche, lo fa ogni volta tra una birra e l’altra… sai, spilla la birra al Leprechaun.» spiegò lui. «E non la vedo da un mese, avrà un sacco di cartucce da sparare… perciò, non serve che mi aspetti. Quando sei stanco mettiti a dormire.»

A Ferid sembrò proprio che Crowley stesse per chinarsi verso di lui – per dargli un bacio, forse? – quando la sua gatta mandò un soffio minaccioso che lo fece indietreggiare, ma non abbastanza velocemente da impedirle di graffiargli il dorso della mano.

«Oh, ehi, stai calma, Cosetta!»

«Pandora! Brutta pestifera, perché l’hai fatto?! Degna compare di quell’altra strega, non c’è che dire!»

Ferid la sospinse per terra, dove lei atterrò con il pelo così gonfio da sembrare grande il doppio.

«Ti ha fatto male?»

«No, no... no, guarda. Non sanguina nemmeno, ha preso solo un po' di pelle.»

«Mi dispiace, non so che cos'abbia... è vero che non è molto affettuosa, ma di solito non fa così.»

«So io cos'ha: il demonio dentro. La prossima volta che vado in chiesa prendo dell'acqua santa da farle bere.» disse Crowley, e guardò oltre la spalla di Ferid verso la gatta. «E se non la bevi te l'infilo con un clistere, capito? Non credere che non lo faccia. Non ho dimenticato la mia Santa Brigida.»

Pandora fissò Crowley agitando la coda e Ferid non aveva mai visto tanta acredine tra due specie considerate socievoli tra loro. Senza aggiungere altro alle minacce precedenti Crowley lo salutò di nuovo, senza accennare a quel movimento sospetto di poco prima, e lasciò la casa.

Ferid, ricadendo in quello stato meditabondo quasi subito, sparecchiò la tavola e passando davanti al frigorifero si sentì come se avesse inghiottito un cubetto di vetro: si era dimenticato dei glifi di Grimbald. Si affrettò a risciacquare i piatti per poi telefonare a Dante De Stasio, ma non appena infilò la mano sotto l'acqua corrente ricordò un'altra cosa che gli era passata di mente: il simbolo rossastro che credeva di aver visto sul palmo della mano quando si trovava nella chiesa di Saint Thomas, che ora si rendeva conto essere senza dubbio uno dei glifi di Grimbald.

Chiuse l'acqua e studiò in silenzio il proprio palmo, del tutto pulito se non per il leggero segno rimasto dalla ferita riportata nel bosco.

Indubbiamente, tutta quella storia stava assumendo tinte fosche difficili da interpretare.

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Capitolo 16
*** Amore eterno ***


O al Leprechaun hanno cambiato birra o io sto diventando vecchio.

Crowley riaprì il getto della doccia per lavarsi di dosso la schiuma e si sciacquò il viso con le mani per l’ennesima volta: aveva addosso una sensazione di stanchezza che associava al ricordo – invero confuso – di nottate molto più lunghe e molto più dissolute di quella tutto sommato piuttosto innocente appena superata.

Dio mio, sono a pezzi... per così poco? Forse sto per ammalarmi, o qualcosa del genere...

Chiuse l’acqua e attese qualche secondo, poi strizzò i lunghi capelli rossi con le mani.

Stanno diventando un po’ troppo lunghi... la settimana prossima farò un salto a farmeli accorciare.

Allungò la mano alla cieca fuori dalla doccia, senza trovare l’asciugamano. Si sporse di più, toccò il metallo freddo ed esplorò tutta la lunghezza, ma non c’era traccia del suo telo da bagno. Perplesso aprì completamente lo sportello paraschizzi e gli occhi gli confermarono quello che la mano già sapeva: non c’era. Non era scivolato a terra, né era stato appoggiato per distrazione sul lavabo, o sul termosifone a parete.

Non l’ho preso? Eppure ero convinto di averlo messo proprio qui...

Scrollò le spalle e scavalcò il bordo della vasca con più attenzione del solito, per non scivolare, e quando allungò la mano verso il gancio che normalmente reggeva il suo accappatoio si fermò come congelato per diversi secondi, al termine dei quali tese un sorriso che era divertito e irritato in egual misura.

Ma vedi tu quello stronzo di un nerd... vuoi la guerra, Ferid? Sono pronto, tu credo proprio di no.

Strizzò ancora un po’ i capelli oltre il bordo della vasca, poi se li gettò – ancora lontani dall’essere asciutti – sulla schiena e uscì dal bagno. La porta della camera da letto era aperta e non vedeva nessuno sul letto, ma non entrò a controllare: la televisione era accesa a basso volume in salotto e fu lì che andò.

Trovò Ferid seduto sul divano come di consueto con le gambe accavallate e un libro aperto sul ginocchio. Dato che sembrava ignorare la sua presenza, o quantomeno troppo assorto a leggere per notarla, Crowley diede un paio di colpi di tosse che gli fecero alzare la testa.

«Oh!»

Ferid alzò il libro e lo usò per coprirsi la faccia dagli occhi in giù, Crowley ne era certo, per celare un sorriso fin troppo compiaciuto.

«Detective Eusford, io ti avevo creduto quando mi hai detto di essere un bravo ragazzo irlandese! Non ti credevo un simile sfacciato!»

Non riuscì a reprimere quella specie di ghigno che gli affiorava alle labbra mentre incrociava le braccia e si appoggiava allo spigolo del muro.

Ho voglia di strozzarlo e di baciarlo allo stesso tempo. Non mi era mai successo.

«Ma chi può dire di conoscere davvero qualcuno? Prendi me, per esempio: credevo di conoscere i miei asciugamani, e invece ora scopro che se ne vanno a passeggio mentre io sono sotto la doccia.»

«Ma non mi dire! Sfacciati anche loro quanto te!»

«Non è che li hai visti passare, eh?»

«Oh, in effetti sì. Il tuo telo è uscito dalla finestra.»

E con un cenno della testa indicò la finestra del soggiorno, che era sollevata di poche dita per far entrare un filo di vento. Crowley la guardò, valutando che Ferid era troppo intelligente per aver davvero buttato i suoi asciugamani dalla finestra per uno scherzo, poi tornò a guardare lui: ora che aveva abbassato il libro lo vedeva chiaramente sorridere malizioso.

«Mh, e mica gli hai chiesto quando pensavano di tornare?»

«No, ma hanno detto di non aspettarli per cena.»

Crowley stava chiedendosi cosa fare come prossima mossa quando vide Ferid scavallare le gambe, sporgersi per riporre il libro e prendere la tazza di tè che stava sul tavolino: addocchiò subito un angolino di tessuto bianco proprio sotto la sua natica.

Ah, ora sei mio.

Si raddrizzò e marciò deciso verso il divano, lo raggiunse e tolse la tazza di mano a Ferid prima che riuscisse a chiedergli o a dirgli qualcosa. Non che ne fosse in grado: l’aveva preso così di sorpresa che non riuscì a fare altro che balbettare sillabe sconnesse mentre puntando il ginocchio sul divano lo spingeva giù contro i cuscini e gli andava sopra di peso.

«Wah, c-che… sei tutto bagnato!» protestò lui, mentre i suoi capelli rossi e zuppi gli sgocciolavano sulla faccia. «N-non è diverten- perché ridi?!»

«Perché è divertente!»

«Guarda che sei pesante, togliti!»

Dato che sapeva benissimo di non essersi appoggiato più di quanto necessario Crowley non badò alle sue proteste e ancora meno badò al suo fiacco tentativo di spostarlo spingendolo dalle spalle; era così bagnato che una delle mani di Ferid perse la presa come se avesse cercato di prendere una saponetta sotto la doccia e lui ne approfittò per affondare il viso tra la sua spalla e il suo collo.

Sapeva che i suoi capelli l’avrebbero inzuppato a dovere, ma non si aspettava che le resistenze di Ferid sarebbero cessate quasi all’istante.

Mi dispiace, Ferid, ti tocca aspettare… come tocca a me, d’altronde… però…

Esitò e fu lì lì per desistere, poi alla fine diede un leggerissimo morso sul lato sinistro del collo. Non sentendolo protestare affondò i denti con appena più convinzione e saggiò la pelle con la punta della lingua. Aveva un sentore dolce, come lo era l’odore che gli riempiva il naso. Lo sentì sospirare quando con la mano scese lungo il fianco.

«Preso!»

Sollevò Ferid dal bacino quel tanto che bastava a sfilare il telo da bagno sotto di lui, poi si rimise seduto guardandolo trionfante mentre lo sventolava come una bandiera.

«Sei troppo facile da distrarre, Ferid, ho fatto più fatica a rubare il berretto a un bambino impegnato a guardare la televisione!»

Ferid, il cui ultimo pensiero sembrava essere il telo, non si era praticamente mosso e lo guardava deluso come un bambino a cui cade il gelato per terra.

«Tutto qui? Puoi distrarmi ancora un po’, se vuoi…»

«No, purtroppo non posso.»

«Accidenti.» fu l’unica, afflitta replica di Ferid.

Con un sospiro sconsolato si rimise seduto e si riappropriò della tazza portandola alle labbra. Crowley si avvolse il telo intorno al corpo prima di rimettersi seduto.

«Dalla tua mestizia deduco, con le mie affinate capacità da detective, che quello che hai visto non ha deluso le tue aspettative.»

«No, infatti.» rispose lui in tono decisamente avvilito. «Confermo il mio primo giudizio: il tuo corpo meriterebbe davvero l’eternità.»

«Non so quali siano i requisiti per meritare l’immortalità, ma so che il tuo non merita le fiamme dell’inferno, quindi lo salverò impedendoti di traviare un devoto figlio di Nostro Signore.»

«Sto cominciando che non sia poi un prezzo così esagerato… bruciare per te, intendo.»

«Ah, che dici? Nessun uomo può valere l’inferno, questo è certo… c’è del tè anche per me?»

Ferid annuì con aria assente e rimase silenzioso e assorto per tutto il tempo che Crowley ci mise a versarsi una tazza di tè e tornare a sedersi. I capelli bagnati avevano lasciato una macchia umida sullo schienale e se li spostò sulla spalla di modo che le punte sgocciolassero sul telo che gli copriva le gambe.

«Non è il caso di fare quella faccia, dai… e poi la cicatrice rovina un po’ tutto, no? Non è sconcertante?»

Ferid girò lo sguardo e lo puntò senza esitazione sulla cicatrice verticale tra i suoi pettorali: il ricordo indelebile della sua operazione a cuore aperto in quella notte di luglio.

«È solo una cicatrice, e neanche così terribile… tutti ne hanno almeno una, se non sono vissuti sotto una campana di vetro.»

«Tu non ne hai, non ne ho viste.»

«Non hai guardato bene.» ribatté lui seccato. «Come al solito puoi vedere una mosca bianca a seicento metri nella tundra e non vedi me qui davanti.»

«Ohi… dai, non la buttare giù così tragica. Dov'è questa cosa mastodontica che non ho visto?»

Ferid esitò un po’, poi tirò su la manica destra fino sopra al gomito. Lì, poco sotto la giuntura, c’era un segno riconducibile a una vecchia bruciatura molto lineare. Se Crowley non avesse saputo di dover cercare una cicatrice non l’avrebbe mai notata su una pelle così chiara.

Lui si indicò un punto nel costato, più in basso del pettorale e più a lato.

«Ne ho una anche qui. Me la sono fatta da bambino, con la punta di una lancia… di un’armatura ornamentale, ovviamente.»

«Oh, sai che anche Gesù fu ferito al costato con una lancia?»

«Crowley, ti prego, smettila di parlare di Dio ogni secondo

«Oh! Mi hai chiamato Crowley! Allora ti ho fatto arrabbiare, mi sa.»

«Sì che mi fai arrabbiare, non mi stai ascoltando…»

«Ah, anche io ne ho un’altra, guarda, guarda. Questa ha una storia vecchia.»

Crowley appoggiò la caviglia sul ginocchio per mostrargli la pianta del piede destro, dove aveva ancora due segni paralleli della ferita. Ferid fece una leggera smorfia quando li vide.

«Deve aver fatto proprio male quella…»

«Un male del diavolo! È stato quando ero bambino e stavo dai miei nonni, sai, hanno una fattoria in Virginia…»

«Un po’ lontano per il week end, eh?»

«Beh, forse, ma in realtà i miei all’epoca lavoravano tutti e due e io ho abitato lì da quando avevo… tipo tre anni o giù di lì, fino a quando non ho iniziato la scuola cattolica, e ci sono tornato tutte le estati fino a che non mi sono diplomato.» spiegò lui, con entusiasmo crescente. «È un gran bel posto, è una fattoria bella grande, mio nonno tiene le mucche, i maiali, i tacchini e i conigli, e ha un sacco di campi… beh, insomma! Mi aveva detto di pulire le gabbie dei conigli e dargli da mangiare, ma io e mio cugino Nathaniel ci eravamo messi a giocare e…»

«Hai anche un cugino?»

«Oh, sì, Nathaniel e sua sorella Charity, sono figli del fratello di mio padre, zio Frank. Vivevano nella fattoria vicina e li vedevo ogni giorno, e io e Nathan abbiamo la stessa età, quindi giocavamo insieme… ci eravamo messi a giocare anche quel giorno e mi sono dimenticato dei conigli, quindi quando è entrato mio nonno nel fienile gridando il mio nome ci siamo spaventati a morte! Siamo saltati giù da sopra le balle e io sono saltato sopra un rastrello coperto di paglia che non si vedeva, questo è il risultato.»

«Ahi.»

«Dovresti chiedere a mio nonno di raccontartelo, si piscia sotto di risate a raccontare di quel giorno!»

«Ma non fa ridere per niente.»

«Perché non è finito!» disse Crowley con un gran sorriso. «Sono saltato sul rastrello, un male del diavolo, porca miseria. Mio nonno è arrivato urlando e io son scappato via dal fienile praticamente su un piede solo! In realtà era preoccupato e voleva vedere se era una cosa grave, ma io lo sentivo urlare brandendo il forcone e pensavo volesse suonarmele, quindi ho continuato a scappare. Quando è riuscito a prendermi avevo superato di corsa tutto il campo e stavo scavalcando la recinzione dei campi del vicino…»

Alla fine il racconto riuscì a rompere l’aria abbattuta di Ferid, che suo malgrado sorrise.

«Mio nonno quando c’è un’annata di magra mi telefona e mi dice di andare a correre nel campo con un piede che sanguina, pare che non abbia mai avuto un raccolto tanto buono come quell’anno. In zona sembra sia diventato un buon auspicio quando un bambino si ferisce a un piede; sai come sono i contadini.»

Questo ulteriore aneddoto riuscì a strappare l’accenno di una risata a Ferid prima che prendesse un altro sorso di tè.

«Macabro e terribilmente ingiusto. Ora immagino vecchi contadini che costringono i nipoti a saltare sui chiodi per farli camminare nei campi.»

«Non credo arrivino a tanto… beh, speriamo.» fece il poliziotto, con una risata leggermente nervosa. «E tu? Le tue cicatrici hanno una storia divertente?»

«Divertente? No, niente del genere. Nessuna storia, in verità.»

«Ma va’, tutte le cicatrici hanno una storia!»

«Non proprio. Mi sono bruciato sul gomito sul tubo di un motore che scottava, niente di interessante da raccontare.»

«Beh, un bambino che si infilza il costato con una lancia non può essere una storia noiosa, ti pare?»

«Invece lo è, perché non è stato niente di che… la servitù le aveva tirate giù dalla parete per sostituire la carta da parati, le ha appoggiate su un tavolo con le punte sporgenti e io ci ho preso contro.»

«Ah, capisco…»

Avvicinò la tazza alle labbra per bere, ma si bloccò e gli lanciò uno sguardo costernato.

«C-cosa, hai detto servitù?»

L’espressione che passò negli occhi di Ferid era indiscutibilmente il terrore di chi si accorge di aver messo un piede in una tagliola.

«Hai detto che stavi in una casa di campagna, ma le case di campagna non hanno armi ornamentali sul muro!»

«La mia sì.»

«No, le ville di campagna le hanno… e i cavalli… l'anello!»

Crowley gli prese la mano e guardò l’anello come se potesse dargli ragione, sebbene l’avesse visto da vicino già altre volte. Ferid ritrasse la mano bruscamente.

«Smetti di fare il pazzo, per favore.»

«Ferid, che ne diresti di un pochino di onestà?»

«Non ho mai mentito, vivevo in campagna e mio padre collezionava cavalli. Non ho mai detto di essere nato povero o che altro.» ribatté lui, quasi ringhiandogli contro. «Non lo racconto a nessuno, perché nessuno vuole intorno persone interessate ai loro soldi! Sono più a mio agio ad avere un lavoro modesto e a tenere segreto il mio conto in banca… o per meglio dire, i miei conti in banca.»

«Ma io non lo sono, a me potevi dire la verità.»

«A tutti fanno gola i soldi facili… più sono, più persone ne restano ammaliate. Anche tu devi avere un prezzo, solo non sai quale sia.»

«Questo non è vero. Io non ho un prezzo.»

«Sì, ce l’hai.»

«No, non è vero.»

«Ce l’hai.» insistette Ferid, e lo fissò. «Pensa di poter avere così tanti soldi da fare tutto quello che vuoi. Tutto

«Non c’è niente che voglio al punto da vendere quello in cui credo.»

«No? Nemmeno curare tuo padre?»

Crowley, che stava per aggiungere altro, si interruppe. Non riusciva a capire dove stesse andando a parare quel discorso ma non gli piaceva; gli sembrava di essere sotto la lente d’ingrandimento di De Stasio.

«Con la pensione di agente di pattuglia probabilmente non può curare il suo diabete al meglio, non è vero? Pensa a tutte quelle persone in chiesa che hanno una malattia. Che forse non hanno accesso alle migliori cure possibili, ai trial più promettenti, alle strutture più avanzate… davvero non ti venderesti per un prezzo abbastanza alto da permetterti di aiutarli?»

Crowley non riuscì a guardarlo più a lungo e questo lo turbò ancora di più: era la prima volta che non riusciva a sostenere il suo sguardo. Lo posò invece sui resti abbandonati della sua Santa Brigida dentro uno svuotatasche, struggendosi al pensiero che potesse avere ragione.

Non si sarebbe venduto per diecimila dollari, o per cinquantamila, forse neanche per il doppio o il quadruplo; ma avrebbe potuto dire che non si sarebbe venduto per una cifra così assurdamente alta da permettergli di fare letteralmente qualsiasi cosa?

Qualsiasi cosa, come pagare le spese mediche di tutte quelle persone malate che conosceva, ristrutturare la casa andata a fuoco recentemente di una famiglia della sua parrocchia, finanziare in modo consistente un ospedale, una missione cattolica, costruire un pozzo dove non c’era acqua per chilometri, case sicure in città devastate da disastri naturali o afflitte dalla guerra, sostenere mogli e figli di colleghi di polizia che li avevano lasciati prematuramente...

Gli venivano in mente talmente tante cose che avrebbe potuto fare se avesse avuto tanti soldi da non poterli contare che si rese conto che, messo davanti alla concreta possibilità di averli, avrebbe considerato un egoismo rifiutarli per onore.

«Stai cercando di ferirmi?» domandò poi a Ferid, con la voce non del tutto ferma. «Perché è crudele cercare di farlo per ripicca.»

Crowley sentì un asciugamano posato delicatamente sulla testa, senza sapere da dove l’avesse ripescato, ma non gli importava.

«Non sto cercando di ferirti e non voglio svilirti. Solo, sei un uomo, e sei un uomo buono. Non sei arrogante abbastanza da non avere un prezzo, soprattutto se quel prezzo è in vite umane.»

Ferid si alzò dal divano.

«Sei un poliziotto, no? Lo sai. Dovresti aver visto abbastanza da sapere che con la leva giusta si può far chinare la testa persino a un mostro… o macchiare le mani di sangue a un angelo.»

Ferid gli passò davanti e andò al ripiano della cucina; il leggero acciottolio di ceramica e del cucchiaino gli disse che si era versato un’altra tazza di tè. Subito dopo tornò a sedersi accanto a lui e ne fu sorpreso, perché credeva che si sarebbe allontanato per evitare di proseguire oltre la conversazione.

«Ne parli… con uno strano tono.» gli disse, cauto. «Sembra che tu abbia un’esperienza amara di questo… hai scoperto qual era il tuo prezzo?»

«Più di una volta.» ammise lui, contro ogni previsione niente affatto restio a parlarne.

Pensò subito a Claude Trobiano, quell’uomo così tanto più anziano di lui, e al fatto che se come aveva già detto era morto da dodici anni voleva dire che l’aveva sposato poco più che diciannovenne. Non riusciva a non pensare che fosse stato un matrimonio di convenienza, nonostante tutto l’amore che Ferid diceva fosse esistito tra loro: probabilmente il brutto effetto collaterale d’essere un poliziotto della omicidi era il fossilizzarsi di preconcetti quando venivano ripetutamente riscontrati nella realtà.

«Me lo racconti?»

Quasi non si era accorto di essere stato lui a fare quella domanda. Ferid lo guardò per un attimo, perse lo sguardo nella tazza del tè come volesse leggervi se fosse o no una buona idea, e alla fine tese un sorriso privo di allegria.

«Raccontarle tutte sarebbe lungo, ma tu… vuoi sapere di mio marito, non è vero?»

«Cosa te lo fa pensare?»

«Sei un poliziotto. Avrai visto decine di mogli giovanissime accanto a uomini anziani e avrai avuto sempre ragioni per dubitare di loro… dubiti anche di me, immagino. Lo hanno fatto tutti… un ragazzo così giovane e così bello che appare all’improvviso e inizia a vivere in casa con un anziano vedovo solo e ricco… hanno tutti pensato che lo avessi preso all’amo, lo so.»

«Ed è andata così?»

«Sì… e no.» rispose lui. «È una storia lunga. Sono disposto a raccontartela, se prometti di mantenere una mente aperta.»

«Io ho in piedi quella specie di circo a tre piste con Connor da cinque anni, è ovvio che ho una mente aperta.»

Non solo, ma per amor di decenza limitiamoci a quella.

«Per spiegarti come sono finito a sposare Claude devo ripartire da un po’ prima. Tuo padre ti ha già detto che sono stato alla Saint Matthew e ti ho detto che mi sono diplomato lì, la primavera prima di compiere i diciotto anni.»

Crowley annuì e bevve un sorso di tè meccanicamente.

«Dopo il diploma ero confuso, non avevo nessuna idea di che cosa fare della mia vita. Non mi sentivo forte abbastanza per cercare di costruirmi una carriera, quale che fosse, quindi ho deciso di rimandare il college a quanto avrei saputo che cosa fare… la prima cosa, mi sono detto, è trovare un posto dove vivere! Non potevo più rimanere a scuola, quindi ho trovato un lavoro in un posto che offriva un alloggio ai dipendenti, per prima cosa.»

«A Red Chapel, essendo un quartiere altamente turistico, è abbastanza facile. Molti lavoratori vengono in città per la bella stagione, quando gran parte degli alberghi e dei resort di Red Chapel sono sempre al completo.»

«Infatti è andata così. Mi hanno assunto in un centro termale vicino al lido, ho fatto una formazione di un mese con un dipendente che lavorava lì da qualche anno, e poi ho lavorato per tutta la stagione estiva. È stato duro ma anche divertente, ed è stato un sollievo scoprire che ero in grado di lavorare senza troppi problemi.»

«Hai incontrato lì Claude?»

«No, ma ho incontrato lì Holly. Era la proprietaria del centro, e di alcune altre attività sul litorale. Quando la stagione stava volgendo al termine mi sono reso conto che non sarei riuscito a mantenermi fino alla primavera successiva, gli affitti come forse sai a Red Chapel sono mostruosamente alti. Non è una zona per viverci, per i lavoratori part-time.»

Crowley annuì: il lussuoso distretto di Red Chapel attraeva ben altri turisti rispetto alle famigliole con bambini in t-shirt e berretto da baseball; con il suo lido alla moda, le boutique di grandi firme, gli alberghi a quattro e cinque stelle e i ristoranti di chef rinomati era una zona che in termini di prezzi faceva concorrenza diretta al distretto di Holden, con la sede della Borsa, il più grande centro commerciale del paese e gli uffici amministrativi e legali di svariate multinazionali collocati in grattacieli caratteristici ed edifici di design.

«Non sapevo come far fronte all’inverno, avevo paura di non trovare un altro lavoro, perché per più di un mese non avevo ricevuto alcuna risposta dalle persone alle quali mi ero proposto. Poi, un giorno, Holly mi ha telefonato.»

Fece tintinnare il cucchiaino mentre lo girava nel tè; sembrava immerso nella sua memoria.

«Mi ha detto che aveva un lavoro per me se lo volevo, uno che mi avrebbe permesso di non avere più problemi con l’affitto o le bollette. Ovviamente io sono andato dove mi aveva dato appuntamento, anche se erano le nove e mezzo di sera mi sono preparato e sono uscito subito.»

«Un appuntamento così urgente alle nove e mezzo di sera?»

«Non mi importava quanto fosse strano, e poi mi disse di trovarmi davanti a una discoteca, quindi non mi sembrò niente di sospetto. Ho creduto fosse uno dei suoi locali, che volesse mostrarmelo e darmi un lavoro lì.»

«Non era così?»

«Non proprio… l’ho trovata lì davanti, insieme ad Arthur, il ragazzo che mi aveva fatto la formazione alla spa. Fu allora che mi disse che la sua principale attività era la sua agenzia di rent boys, e che tutte le altre sue attività, dove effettivamente lavoravano solo ragazzi giovani, erano vetrine della sua mercanzia.»

«Che cosa?»

«Anche io ero stato tutta l’estate nella sua vetrina e tanti clienti dell’agenzia avevano chiesto di me, quindi aveva deciso di reclutarmi. Non avevo ancora compiuto diciotto anni, ma mi ha mandato a chiamare per affiancare Arthur una sera e… vedere che tipo di lavoro fosse.»

«Ma che diavolo… è fin troppo ovvio che tipo di lavoro era! L’avrai mandata ad affogarsi in un secchio, mi auguro!»

L’espressione o forse il suo tono lo fecero ridere di gusto.

«In un secchio, dici?»

«L’hai fatto, vero?»

«No, non l’ho fatto~» disse lui con un tono inspiegabilmente allegro. «Per fortuna non l’ho fatto.»

Crowley non ne colse il senso ma aspettò che bevesse il tè e si decidesse da solo a proseguire.

«Come mi ha chiesto lei, ho affiancato Arthur per alcune sue uscite. Essendo minorenne non facevo nient’altro che accompagnarlo a qualche festa, aspettarlo mentre faceva il suo lavoro e cercare di schivare gente ubriaca, in maggioranza uomini, che cercava di allungare una mano su di me. Oh, niente di particolarmente pericoloso o molesto, rilassati… qualcuno che mi appoggiava la mano sulle gambe, o sulle spalle, cose del genere.»

«Ma perché… voglio dire, davvero non ti faceva… paura? Un lavoro del genere ti espone a rischi di ogni tipo… le malattie e i maniaci e non per forza in quest’ordine; non ti spaventava?»

«Sì. Sì, mi spaventava, ma Arthur… beh, lui sembrava stare bene. Diceva sempre che Holly si prendeva cura dei suoi ragazzi, e sembrava vero… quindi ho continuato ad andare, e poi… ho compiuto diciotto anni.»

Crowley accostò la tazza alle labbra per nascondere un certo nervosismo, ma si accorse che era già vuota e la abbassò.

«Holly mi ha dato un altro nome per la sua agenzia e la sera del due novembre mi ha portato a casa di un suo cliente… niente feste per me. In un certo senso si è presa cura di me, mi ha scelto un cliente affidabile e molto tranquillo per il mio primo lavoro.»

«Vuoi dire che… quel… quel cliente era Claude Trobiano?»

«Sì, era cliente di Holly da molti anni… Claude non ne ha mai fatto mistero, aveva moltissimi uomini e ragazzi nella sua agenda. Io ero una novità assoluta, Holly l’ha chiamato per dirgli che aveva un ragazzo nuovo e ha combinato l’incontro. Ah, avevo paura, detective.» ammise lui con un accenno di sorriso, e si passò le mani nella coda di capelli argentei. «Ero spaventato a morte e a ogni passo che ho fatto fuori dalla macchina di Holly fino alla porta ho pensato di scappare… ma per andare dove, mi sono chiesto? Non avevo nessuno, non avevo un posto dove stare e nemmeno soldi, ormai.»

«Penso che avrei avuto paura anch’io, al tuo posto.»

«Molto diplomatico~» fece lui. «Ma era stato un po’ il terrorismo dei più grandi… pensano sempre che avranno meno lavoro se arrivano i più giovani, quindi provano a spaventarli. Mi raccontavano di uomini che ti obbligano a bere una bottiglia di tequila, di donne che ti picchiano con quello che capita e che ti spengono le sigarette addosso, di sere in cui da un cliente solo all’improvviso ne apparivano due, tre, quattro… e ti risparmierò gli scenari più volgari che mi prospettavano.»

«Sì, grazie, ho già la pelle d’oca.»

«Prova a vestirti, detective~»

Crowley sbuffò come unica risposta al suo consiglio.

«Vai avanti, dai.»

«Dicevo: ero spaventato a morte. Vedere Claude sulla porta e il suo aspetto gentile non mi calmò, perché mi aspettavo che sarebbe diventato un mostro poco dopo, o che non fosse l’unico in casa… ma lo era. Era solo, ed era un uomo gentile.» raccontò, con un tono che andava ammorbidendosi. «Mi offrì un bicchiere di vino pregiato, mi chiese di dirgli il mio vero nome… si scusò con me quando un suo collega gli telefonò interrompendomi mentre gli parlavo del mio diploma. Sembravo un suo gradito ospite, anziché una… bambola seduta sul divano.»

Crowley non sapeva che cosa pensare di Claude Trobiano. Aveva visto le fotografie a casa di Ferid e gli era sembrato un uomo normale, aveva un aspetto gentile e cordiale, ma sapere che aveva una passione tale per i giovani ragazzi gli faceva sentire qualcosa di avverso nei suoi confronti.

«Mentre parlava mi sono alzato e sono andato a guardare i libri sulla scaffalatura… sono ancora oggi nello stesso posto di allora, nel soggiorno, e anche i libri sono gli stessi. Ne ho preso uno, e…»

Ferid guardò davanti a sé, allungò la mano destra e ritrasse il dito medio, come se stesse sfilando un libro invisibile da una mensola di volumi allineati. Sembrava molto coinvolto in quel ricordo.

«Ho cominciato a leggerlo, e questo… ha cambiato la mia vita per sempre.»

«Il libro?»

«Claude era stato un insegnante di letteratura e di storia del teatro. Aveva una profonda dedizione all’insegnamento… amava l’idea di trasmettere l’amore per la conoscenza, di fare la sua parte nella trasformazione dei bambini in adulti di cultura, di talento… che contribuissero allo sviluppo dell’umanità.»

In quel momento Crowley comprese le parole pronunciate da Ferid nella sala video della centrale riguardo a una missione importante tanto per lui come lo fu per Claude.

«Nulla lo ammaliava più di una mente curiosa, e quando mi ha visto leggere quel libro lui ha capito che io avevo il dono che lui amava di più. Aveva comprato il mio corpo per tre ore, e le abbiamo passate sul divano a leggere insieme quel romanzo, bevendo lui vino e io tè, e poi ha chiamato Holly dicendo che avrebbe pagato il supplemento e che mi voleva fino a mattina.»

«Ma sul serio?»

«Sì… abbiamo letto tutto il libro, e poi me lo ha regalato. Ha scritto una lettera per Holly e me l’ha data prima di lasciarmi uscire, la mattina dopo.»

«Che cosa gli ha scritto?»

«Che avrebbe pagato per l’esclusiva. Che mi voleva soltanto per lui. Holly non mi ha più preso altri appuntamenti se non con lui, ne abbiamo avuti tanti… in dicembre ero a casa sua quasi ogni giorno, e in tutto quel tempo mi ha toccato soltanto per accarezzarmi i capelli.» spiegò lui, con un tono amorevole mai sentito prima. «Era pazzo di me dal primo giorno, e io… non avevo mai avuto nessuno che mi stesse così vicino… che mi chiedesse di continuo che cosa volevo, che cosa pensavo di ogni cosa, e che mi facesse così tanti complimenti.»

Guardarlo attorcigliarsi l’indice in una ciocca di capelli e contemplare un angolo vuoto del suo salotto con così tanta dolcezza e nostalgia gli fece provare un bizzarro solletico allo stomaco. Sospettando di avere assunto un’aria cupa che non si sapeva spiegare usò l’asciugamano sulla testa per celare il proprio sguardo.

«Non avevo mai avuto qualcuno che mi amasse a trecentosessanta gradi, come faceva lui. Era sempre gentile, e generoso… si preoccupava della mia salute… mi preparava il tè ogni mattina, mi comprava nuovi libri, mi portava a teatro e a fare spese… mi seppelliva di regali senza un’occasione particolare… cercava di farmi ridere il più possibile… faceva tutto quello che poteva per compiacermi e per farmi stare bene… come adesso fai tu.»

Crowley, che a stare lì fermo ad ascoltare iniziava a sentirsi imparagonabile a un uomo devoto a quei livelli, fu preso in contropiede da quel commento e di riflesso smise di strofinarsi l’asciugamano sui capelli.

«Sono qui con te da pochi giorni… ma sto davvero bene. Mi sento come se avessi riavuto mio marito.»

Imbarazzante. Un po’.

«Non proprio, però, vero?»

«Per il sesso? Non preoccuparti di quello, io e mio marito non l’abbiamo mai fatto.»

«Cosa? Ma… ma non avevi detto che dopo sposati l’avevate fatto?»

«No, ho detto che eravamo sposati quando abbiamo deciso che era il momento di farlo… ma mio marito era già malato e non ha fatto altro che peggiorare negli ultimi mesi. In totale sincerità, io volevo farlo comunque, prima che se ne andasse… quando ci siamo sposati continuava a dire che mi avrebbe avuto soltanto quando sarebbe stato degno di me, ma non ha mai pensato di esserlo e io volevo che… se ne andasse sapendo che lo era. Ma non è proprio stato possibile, non sarebbe mai riuscito ad avere un rapporto. Non aveva quasi neanche la forza di parlare.»

Crowley non sapeva come si sentiva esattamente ascoltando quelle storie sul defunto marito di Ferid: in piccola parte gli pareva di essere geloso di un rapporto breve ma tanto profondo, era confuso dalla particolarità di quella relazione e incredulo che fosse tanto platonica, ma non dubitava che fosse vero. Lo sguardo di Ferid era pieno di una dolcezza tale che non lasciava dubbio che parlasse di qualcosa a cui teneva davvero.

Intrappolò le ciocche mosse dei suoi capelli rossi nell’asciugamano, e solo quando capì che Ferid non intendeva continuare decise di fare quella domanda che fra tutte ronzava più forte.

«Che cosa… intendeva dire con degno di te? Era pronto a prenderti pagandoti a moneta sonante o sbaglio?»

«Sì, ma questo era prima.»

«Prima di cosa?»

«Prima che si innamorasse di me. Te l’ho detto, lui vedeva delle meraviglie in me… vedeva solo cose belle, talenti che ammirava, doti che mi riconosceva… si era convinto che essendo anche molto più vecchio di me avesse molto da dimostrare prima di potersi proporre.» spiegò con un sorriso che tradiva un velo opaco sulla conclusione di quella storia. «Ma Claude era davvero un uomo straordinario… con una cultura enorme che non era limitata a letteratura, storia, musica e teatro. Era spiritoso, indulgente, e… in verità non so trovargli un difetto, se non l’essere stato oltremodo severo con se stesso incolpandosi della condotta del figlio più piccolo.»

Crowley riuscì a produrre un sorriso, ma fu incredibilmente difficile.

«Non scherzavi quando dicevi che eravate stati felici insieme.»

«No, non mentivo… anche se dopo tanti anni ho fatto l’abitudine a stare senza di lui, ora che abito di nuovo con qualcuno mi rendo conto di quanto mi è mancato.»

Ferid si abbarbicò sul divano a gambe incrociate e dondolò la tazza con un sorriso dipinto sulla faccia che confermava che il tempo doveva ormai aver trasformato il dolore in nostalgia; quel suo sorriso e quella dolcezza nel suo sguardo rievocava l’amore che quell’uomo gli aveva dimostrato, la felicità di quel periodo e il lungo, travagliato periodo di dolore che era alla fine maturato in una sorta di nostalgica serenità.

Crowley, con una vita costellata di relazioni brevi e per lo più superficiali basate sul sesso e su uscite divertenti e poco altro, non aveva la minima comprensione reale di un rapporto tanto profondo. Sceglieva i suoi partner in modo casuale, secondo ispirazione per così dire, tra le persone che conosceva e con le quali si trovava bene a lavorare o a parlare. Non aveva mai cercato negli altri qualcosa che gli mancava, né gli era capitato di accorgersi di averla trovata per caso.

Colse in quel momento l’abissale differenza di vissuto che li separava.

«Ferid… tu… che cosa cerchi?»

«Mh?»

«Quando vedi un uomo… o una donna, anche… che cosa ti fa pensare che lo vuoi? Perché uno anziché un altro?»

«Da dove ti viene una domanda del genere, adesso?»

«Hai trovato una relazione molto profonda con tuo marito… qualcosa che, in totale onestà, io posso immaginare a fatica. Mi chiedevo se in un uomo tu… cercassi un’altra relazione come questa, o se puntassi a qualcosa di diverso, ora.»

«Entrambe le cose, detective Eusford. Ho avuto una bella vita con Claude e vorrei qualcosa di uguale, ma vorrei anche qualcosa di diverso… vorrei qualcosa di più… completo. Quell’amore che è scritto dei romanzi, che resiste a tutto, che supera il tempo, persino il confine della vita… ah, so che è una leggenda, un sogno non diverso da quello della vita eterna… ma è questo che mi affascina davvero della letteratura sui vampiri.»

L'espressione perplessa di Crowley doveva essere molto chiara, perché Ferid ridacchiò.

«Troppo veloce? Proverò a spiegarmi meglio.» disse lui, sorridendo. «Il fascino dei vampiri… si può dire che sia nel loro stesso mistero, nella dannazione dell’anima che congela un corpo nella sua forma, nella loro eternità o nella paura della notte e dell’ignoto che rappresentano. La loro eternità, in particolare, li rende il desiderio di perdizione dell’uomo…»

Dall’inizio di quella discussione Crowley riuscì a sostenere di nuovo lo sguardo degli occhi celesti.

«Vivono nel sogno segreto dell’uomo di soggiogare la morte, di sfuggire al decadimento del corpo, di conquistare una vita senza fine e con essa l’immunità di fronte a Dio per la lussuria, l’egoismo e tutti i peccati possibili… ma per me… i vampiri sono il sogno di una vita senza fine… una vita senza malattia e senza separazione… il sogno di trovare la mia persona e vivere un amore veramente eterno.»

Crowley guardò il sorriso di Ferid per un tempo che gli sembrò dilatarsi veramente all'infinito.

«Ma va’.» disse alla fine, sentendosi spiazzato. «Chi lo pensava che fossi un uomo così romantico?»

«Ehh?! Vuol dire che non si era già capito?!»

«Ma proprio per niente!»

«Come sarebbe, con tutte le rose che ti ho mandato! Vuoi spezzarmi il cuore o che cosa?»

«Quelle non valgono, volevi solo portarmi a letto, lo so

«Ah, quanto sei crudele! Ecco perché ti piantano tutti, sei veramente mostruoso!»

«Sai, se lo dicessi senza ridere saresti più credibile.»

Ferid lo guardò di nuovo ed emise un curioso risolino a labbra serrate in un largo sorriso.

«Credibile, dare del mostro a te? Non farmi ridere, Crowley~»

«Oh, questo va molto meglio.»

«Questo?»

Crowley allungò la mano sfiorò il mento di Ferid. Lui non solo non si ritrasse, ma si sporse un po’ verso di lui.

«Dillo di nuovo.»

«Crowley~»

«Ancora?»

«Crow~ley~»

«Come suona bene…»

Se in qualche modo era riuscito a resistere la sera prima alla voglia di dargli un bacio prima di uscire di casa, in quel momento non riuscì nemmeno a pensare che sarebbe stato meglio evitarlo: era già vicinissimo alle sue labbra, quasi quanto la volta in cui Krul li aveva interrotti nel negozio, quando il suo telefono squillò sul tavolino facendolo sussultare e interruppe l’ennesima occasione.

«Scusa… è De Stasio, devo rispondere.»

Non aveva mai avuto meno voglia di rispondere a una telefonata di lavoro, ma prese lo stesso il cellulare e si accorse che quella in entrata era una chiamata video e non una normale. Si accigliò, visto che non ne capiva lo scopo, ma rispose comunque. Dopo un attimo di schermo nero apparve De Stasio, seduto a quella che sembrava la scrivania di un ufficio in disuso; dietro di lui erano stipate scatole e scatole di rapporti vecchie che non avevano trovato spazio nell’archivio.

«De Stasio, che succede? Perché questa novità?»

«Volevo vedere se eri presentabile, sto per aggiungere Skuld, Alford e McCray per un aggiornamento veloce.»

«Non sono presentabile.»

«Lo vedo, quindi vestiti almeno. Dov’è Ferid? È meglio se c’è anche lui.»

«Ah, eccolo, è qui.»

Crowley l’indicò con il pollice, senza pensare che De Stasio non potesse vederlo se non avesse girato l’inquadratura: non era affatto abituato alle videochiamate né a fare video in diretta social o alcuna di tali stravaganze moderne.

Si girò a guardare Ferid, dato che non aveva risposto all’appello pur avendolo sentito in vivavoce, e un momento dopo se lo trovò incollato alla bocca. Per quanto scientificamente impossibile sentì quasi rizzarglisi i capelli in testa e rimase senza fiato anche se il bacio era stato breve e castigato come quello di una ragazzina.

Ma cosa… ma che diavolo… ma è fuori di testa!

«Fe… Ferid! Sono in videochiamata, idiota!»

«Ma che vuoi che sia, non ci ho nemmeno messo la lingua!»

«Ma tu sei fuori, ma ti sembra il momento?!»

«Oh, quanto la fai lunga. È Dante, no? Che problema c’è? È un uomo di mondo, sa come vanno queste cose.»

«Sì, ma lui…!»

Dovette lottare per trattenersi e non andare oltre.

Lui non sa che vado anche con gli uomini, che diamine!

«Crowley, guarda che lo so.» disse De Stasio al telefono.

«C-che… che cosa sai?»

Il sorrisetto sulla faccia del suo collega non faceva presagire nulla di buono e Crowley si sentì stringere la gola leggermente.

«Lo so che vai con gli uomini. Anche con gli uomini.» si corresse lui. «E lo so da molto prima che tu incontrassi Ferid. Onestamente non so perché tu ci tenessi tanto a non dirmelo, ti ho detto più volte che non ti giudico da chi ti porti a letto se non ha meno di diciotto anni, e te l’ho detto perché è assolutamente vero.»

Non che si vergognasse di quello che faceva, perché non l’aveva mai fatto, ma per qualche motivo il giudizio di De Stasio, suo amico e suo mentore agli inizi della carriera, valeva più di quello di tutti gli altri. Forse perché era il suo mentore, forse perché era un uomo che ammirava e che voleva quasi emulare almeno professionalmente, la sua disapprovazione sarebbe stata dolorosa da sopportare.

«Adesso che lo sai legati i capelli e mettiti qualcosa addosso, che devo aggiungere gli altri alla conversazione. Dobbiamo parlare dei glifi e decidere se prenderli come qualcosa di sensato e indagarci sopra.»

«I glifi… oh, ti hanno fatto sapere cosa significano?»

«Beh… sì… ieri.» rispose lui, sorpreso. «Ferid, non gliel’hai detto?»

«Oh, dev’essermi passato di mente… sai, stavamo facendo un discorso estremamente importante poco fa~»

«Tu… tu hai saputo il significato dei glifi e ti sei messo a nascondere asciugamani, sul serio?»

«Ma quei glifi non hanno un senso, parlarne è inutile!»

«Ferid! Io sono un poliziotto, te lo ricordi, vero?! Non sei qui perché siamo sposati, sei qui perché da qualche parte qualcuno cerca di ucciderti e io cerco di salvarti, ti ricorda qualcosa? Raccontami queste cose prima delle altre cazzate!»

Se solo non fosse stato così offuscato dalla sua stessa insensata rabbia avrebbe notato quella che crebbe in Ferid a seguito di quelle ultime parole nei secondi in cui non se le rimangiò.

«Sei tu che mi hai chiesto di raccontarti le mie cazzate!»

Ferid trattenne il fiato e si coprì la bocca, esattamente come aveva fatto la volta precedente in cui gli era sfuggita una parolaccia davanti a lui.

«Sei veramente… impossibile!» sbottò poi, e sparì in camera da letto.

«Ferid… Ferid! Non scappare come al tuo solito, vieni qui!»

«Per la miseria, Crowley, litigate come due liceali.» commentò De Stasio. «Non l’aggredire, a che serve? In parte ha ragione, non sembrano avere un qualche senso logico, quelle parole. In ogni caso ti avrei aggiornato io, o McCray, al tuo prossimo turno.»

«Non sta a lui decidere cosa devo o non devo sapere su un caso che seguo!»

«Crowley. Sappiamo entrambi, anzi, tutti e tre che ti sei arrabbiato solo perché ti ha messo in imbarazzo. Ora molla qui il telefono così non vi sentirò, scusati decentemente e tornate tutti e due. Skuld non ha tutto il giorno per aspettare noi.»

Si sentì vagamente in colpa per aver esagerato il tono con Ferid, ma continuava a pensare che avrebbe dovuto dirgli dei glifi subito, per prima cosa.

Per quanto gli sembri di avere di nuovo suo marito, non lo sono. Per quanto io gli voglia bene, il mio lavoro è proteggerlo prendendo il Vampiro di West End, innanzitutto. Il resto può aspettare... deve aspettare.

Aveva appena appoggiato il telefono e si era alzato dal divano quando Ferid tornò dalla camera, con l’espressione ancora irritata, porgendogli degli abiti. Non rispose al suo incerto ringraziamento e si rimise sul divano, di nuovo a gambe incrociate. Fu in quel momento, mentre si vestiva in un angolo fuori dal campo visivo della telecamera, che pensò di non averglielo mai visto fare prima: era ben impresso nella sua memoria in molteplici occasioni con le gambe accavallate in modo elegante.

«Non ti avevo mai visto con le gambe incrociate.» gli disse, incerto se avrebbe ricevuto una qualche risposta.

«Mh? Oh, beh, a casa ci sto spesso. Quando non mi vede nessuno, a casa dei miei era una cosa da zoticoni, quindi… penso sia sempre una cosa da non fare in pubblico.»

Beh… ho avuto quello che ho chiesto. Sta mollando tutte le maschere e le inibizioni… ma ora mi chiedo se lo saprò gestire…

Crowley infilò per ultima la maglia e tirò su le maniche com’era abituato a fare, prima di risedersi sul divano di traverso, di modo che Ferid potesse vedere lo schermo da sopra la sua spalla. De Stasio annunciò che avrebbe aggiunto McCray, Alford e Horn alla chiamata e Crowley attese, chiedendosi se non fosse rimasto l’ultimo poliziotto a Satbury così arretrato sull’uso di un cellulare. Si rabbuiò all’istante quando si sentì toccare i capelli e fissò Ferid nel quadretto della telecamera.

«Smettila, per favore.»

«…Volevo solo legarti i capelli…»

«Non importa, non li vede nessuno.»

Sembrava che Ferid volesse dirgli qualcosa, ma poi rinunciò e il suo sguardo si abbassò verso un punto imprecisato del tavolino o del pavimento. Si rese conto subito di essere pericolosamente alterato e che avrebbe finito con il ferirlo seriamente se non si fosse dato una calmata, così chiuse gli occhi e si pizzicò l’attaccatura del naso.

Non è successo niente, no? Stavi per baciarlo tu prima che squillasse il telefono, non serve negare che lo volevi. Dante se l’aspettava da settimane ormai… forse fin dal primo giorno in cui gli hai parlato di lui. Ora dacci un taglio. Gli hai detto che gli avresti insegnato a fidarsi. Prenderlo moralmente a sberle non è il modo per farlo, perciò dacci un sacrosanto taglio.

Sospirò e riaprì gli occhi, vedendo lo schermo diviso in più riquadri con visi familiari: il più nitido era quello di Horn, con i capelli biondi impeccabili seduta a una scrivania di vetro che non apparteneva al loro distretto. Hank si aggiustò al volo la cravatta e Alford sistemò l’inquadratura, centrando il proprio viso con il telefono appoggiato da qualche parte sulla scrivania.

«Ferid.» disse piano Crowley, voltando appena la testa. «Fammi un favore, ti prego.»

«Che cosa?»

«Legami i capelli. Non sono abituato a tenerli così e mi stanno dando fastidio.»

Ferid sorrise e gli passò le mani tra i capelli rossi per districarli prima di mettersi a intrecciarli, mentre Crowley osservava Alford mentre presentava brevemente McCray a Horn, che evidentemente non si erano ancora incontrati data l’improvvisa partenza di lei per certi affari importanti a Quantico.

Quel suo istinto irlandese gli diceva che stava per succedere qualcosa di grosso.

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Capitolo 17
*** La follia più grande ***


«Bene, ci siamo tutti, direi.» disse De Stasio. «Come ha chiesto il sergente McCray, siamo qui per un aggiornamento delle indagini, ma visto che riteniamo sicuro che Ferid non lasci il suo nascondiglio era l’unico modo per renderlo direttamente partecipe.»

Uh oh, che significa questo?

«Prima di tutto, come sta, signor Bathory?» gli chiese con tono sospettosamente cauto Hank. «Si trova a suo agio lì o dobbiamo considerare una nuova sistemazione per lei?»

«Oh, no, io sono molto a mio agio qui. Mi sento molto sicuro anche quando sono da solo.»

«Tu, Crowley, sei d’accordo a tenere questa sistemazione?»

«Certo, ormai io e Ferid siamo diventati amiconi, no, Ferid?»

«Amici del cuore~ l’hai capita? Del cuore

«Oh, noto che la tazza di tè perennemente tra le mani non è la sola cosa british che hai.»

Ferid ridacchiò così piano che Crowley dubitò che qualcuno fosse riuscito a sentirlo. Hank aveva assunto un cipiglio da falco preoccupante, ma ritenne che l’unico pericolo fosse la sua scomunica personale dalla comunità di Saint Thomas.

«Bene, il primo punto da discutere oggi è quello dei glifi.» disse Alford. «Questi simboli impressi sulle schiene dei bambini sono allora delle parole, ma secondo una… specie di alfabeto immaginario, è così?»

«Sì, è così.» confermò Ferid celando appena la sua avversione. «Una scrittrice il cui pseudonimo è Helga Torres ha autoprodotto un libro pieno di assurde idiozie sui vampiri, disegnando simboli mai riscontrati prima nella storia di qualsiasi civiltà, e attribuendogli un significato inventato.»

«Siamo sicuri di questo?» domandò Horn. «Mi chiedevo se i simboli non potrebbero essere stati riattribuiti ma presi da un’altra fonte, più attendibile, che potrebbe essere il vero riferimento del Vampiro. Per esempio, qualcosa di precolombiano, come questo.»

Horn mostrò una fotografia stampata e ingrandita di un simbolo. Crowley avvicinò il telefono aggrottando le sopracciglia e Ferid, come un grosso pappagallo invadente, si sporse sulla sua spalla per studiarlo con interesse scientifico.

A lui sembrava che il simbolo potesse assomigliare a uno dei glifi a sufficienza da dare dubbi, ma Ferid scosse la testa.

«No, Lamat è effettivamente simile, ma è un caso. I glifi di Grimbald sono molto più semplificati e geometrici rispetto alle scritture precolombiane conosciute, che sono come piccoli ma articolati disegni.» ribatté. «Inoltre, la cultura precolombiana è ancora estremamente misteriosa per gli studiosi e di quel poco che i popoli successivi hanno potuto svelare, è una delle civiltà dove si riscontrano meno tracce mitologiche riconducibili al vampiro europeo. Scegliere una simile scrittura sarebbe stato un bel miscuglio… ma cosa più importante, se mai i glifi di Grimbald fossero stati simili a una scrittura sudamericana la mia streghetta l’avrebbe di certo saputo.»

«Streghetta?»

«Si riferisce alla proprietaria della libreria, Krul Tepes.» le spiegò rapidamente Crowley. «Ma sei sicuro che se ne sarebbe accorta?»

«Naturalmente. È laureata in archeologia con una specializzazione in civiltà amerinde. Difficile trovare in tutto il paese qualcuno che sappia quanto lei in proposito.»

«Archeologia con… diamine, la prossima volta che la incontrerò mi sentirò un Neanderthal.»

«Tranquillo, lei pensa che lo sei dal primo momento~»

«Quindi possiamo supporre che il significato sia semplicemente quello che abbiamo già.» osservò De Stasio, guardando dei fogli sulla scrivania che erano probabilmente le foto dei simboli. «In questo caso, dobbiamo dare loro un’importanza? Skuld, la mia domanda è: quanto del comportamento del Vampiro è rituale e quanto è una presa in giro?»

«Tutto indica un individuo metodico, preciso… maniacale. La mia opinione professionale è che tutto quello che fa, dalla scelta della vittima al luogo in cui posiziona i corpi, sia calcolato e messo in pratica con perizia. Per lui è importante quel sangue, è importante il cuore, è importante il messaggio che lascia e dove lo lascia. Nulla è fatto per prendere in giro la polizia.» rispose lei, intrecciando le lunghe dita eleganti tra loro. «Ho visto molti casi. Un assassino che gioca con la polizia scrive i loro nomi sui muri, lascia oggetti della squadra sul posto. Scrive lettere o lascia messaggi chiari, a volte registrazioni, o telefona addirittura. Ci sono serial killer che inviano alla polizia indizi e indovinelli sfidandoli a sventare il prossimo crimine.»

Crowley aveva in mente casi relativamente recenti di simili predatori, ma nessuno di sua competenza.

«I più folli e meno intelligenti sperimentano sempre qualcosa di nuovo, come simboli magici o satanici, per poi saltare a invocazioni a Dio, o a perversioni sempre più confuse e scollegate: sfruttano l’illogicità per confondere e traggono idee da qualsiasi libro, film, rivista o cosa che sentono dire ad altri per lo step successivo. Non ci troviamo di fronte a qualcosa del genere.»

«In questo caso possiamo dare per certo che il Vampiro dà un senso a queste parole.»

«Scusate se mi intrometto, ma potrei sapere quale senso, dato che sono l’unico a non saperlo?»

«Ops~»

Dopo avergli sussurrato questo all’orecchio Ferid si spostò per riempirsi di nuovo la tazza.

«Elencandoteli in ordine cronologico sono notte, giardino, segreto… poi…»

De Stasio si interruppe momentaneamente confuso dalle carte che aveva davanti e gli cambiò l’ordine.

«Bacio, oro, fuga, vergine

«…Non mi viene in mente niente.» ammise Crowley.

«Come a nessuno di noi, in tutta onestà. Li abbiamo letti in diverso ordine, anche all’inverso dato che sembra abbia scelto le vittime in ordine inverso rispetto a come Ferid le ha incontrate, ma non ho notato niente…»

«Ferid, passami quella.»

Ferid lo guardò smarrito, prima di notare che stava riferendosi a una busta della posta e alla penna che ci stava sopra, e gliele passò.

«Reggi il telefono.» gli disse, e prese a scrivere le parole. «Quindi, Sarah è notte… Sophie è giardino… Neva è segreto…»

«Sarei felice di capire che diavolo ti sta ronzando in testa, Crowley.»

«Shh.»

Normalmente non si sarebbe permesso di zittire il capitano in quel modo, ma il suo istinto stava solleticando e continuò a scrivere i nomi e il significato del glifo, finché non ebbe l’elenco e prese a rileggerlo grattandosi con la punta della penna tra i capelli rossi. Ferid sorrise e guardò gli altri colleghi sullo schermo.

«Genio all’opera~»

«Beh, mentre Crowley si aliena a pensare alle sue teorie geniali, ti aggiorno su un’altra questione, Ferid.» disse De Stasio. «Ho chiamato quel mio contatto all’Interpol, e a quanto ho saputo il tuo figliastro è morto lo scorso novembre.»

«Co… cosa?»

«Pascal Trobiano, è morto il tredici novembre dopo essere stato coinvolto in una rissa con altri detenuti là dove stava scontando trent’anni… anche se non l’avresti visto per altri quattordici almeno, non ti devi più preoccupare di lui. Credo che vedendo che tutti i suoi famigliari erano deceduti non si siano preoccupati di informare anche te.»

«Sei… è una cosa sicura?»

«Sembra una cosa sicura, sì… è stato sepolto in un cimitero locale dato che non hanno chiesto a nessuno di disporre del corpo. Se per caso volessi che riposi insieme al resto della famiglia Trobiano, potrai chiedere al tuo avvocato di occuparsene.»

«No che non voglio.» rispose lui subito.

«Sì, immaginavo avresti detto così, ma te lo sto dicendo perché è tua facoltà farlo e… una volta qui puoi anche autorizzare l’analisi del DNA sulla salma, nel caso temessi che non gli appartenga.»

«Capisco… ma se tu mi dici che non c’è niente che faccia dubitare, mi fiderò di te.»

«Mi farò mandare l’incartamento per essere più sicuro.» gli rispose De Stasio. «Se ci fosse qualsiasi dubbio te lo farò sapere immediatamente, ma per ora penso che sarebbe meglio individuare un altro possibile sospettato.»

Crowley sentì tutto questo come da molto distante, mentre cercava di capire che cosa in quella parola notte lo stuzzicasse tanto, ma senza arrivare a niente. La frustrazione ebbe la meglio e sospirò.

«Oh, niente di fatto, tesoro? Riposati, non farti venire l’emicrania.»

«So che significa qualcosa. Il mio settimo senso pizzica.»

«Quanti sensi hai esattamente?»

«Otto.» replicò Crowley. «Beh, riguardo agli altri sospettati, come siamo messi?»

«Escludendo il figliastro morto di Ferid? Stiamo a zero.»

«In realtà, uno lo abbiamo.» disse McCray, accigliato più che mai. «Stiamo scavando nel passato della bibliotecaria della Wilde, Justine Lafaye.»

«Justine? Ma state scherzando?»

«Era presente a ogni tua visita alla biblioteca… non è un’idea così campata per aria, sai?» osservò Crowley. «E poi è pazza di te, no? Forse è una di quelle ragazze stalker e s’è arrabbiata quando ha scoperto che non sei un professorino a modo come le hai dato a bere. È uscita di testa e ora ti vuole far arrestare per omicidio plurimo. Visto che non ci è riuscita, ha deciso di farti fuori e basta.»

«Non è mica divertente, Crowley.»

«Non è mica una barzelletta, è una teoria per spiegare sette omicidi e due tentati. Non deve far ridere.»

«Prenderete un granchio, quella ragazza è un angelo.»

«Sai quante reti riempiamo di granchi?» domandò Alford, serio. «L’importante è pescare il bonito prima o poi.»

«Le vostre battute di pesca mi stanno costando un po’, lo sapete?»

«Ferid… stiamo facendo tutto il possibile. Per favore.» fece Crowley a mo’ di rimprovero.

«D’accordo, d’accordo.» ribatté lui, giocherellando con l’orecchino. «Chiedo scusa.»

Anche se diceva di trovarsi bene Crowley comprendeva quanto fosse difficile per lui essere catapultato da un giorno all’altro in un altro distretto, senza poter tornare al lavoro che amava e alla sua casa confortevole e familiare, con la sua libertà e la sua routine intatte. Avrebbe voluto confortarlo ma non poteva farlo davanti al resto della squadra nel modo in cui avrebbe voluto, quindi si limitò a posare la mano sulla sua gamba e stringere leggermente.

Una voce estranea alla conversazione si fece sentire nel momento di silenzio che seguì le scuse di Ferid, e Horn si alzò dalla scrivania.

«Scusatemi un momento.»

Scomparve dall’inquadratura per un attimo, scambiò qualche parola appena comprensibile con un uomo che non si vide e poi tornò alla scrivania con una tazza di caffè in mano e un certo tenue sorriso.

«Chi c’è con te, Skuld?» domandò De Stasio.

«Nessuno, è entrato mio marito per darmi il caffè e dirmi che porta la bambina al parco.»

Qualcosa di grosso e ghiacciato scivolò lentamente giù per la gola di Crowley e quando arrivò allo stomaco sembrava pesare quanto un’utilitaria.

Mio… marito? Horn ha un marito? Non è… possibile!

«Pensavo si trovasse a Quantico.»

«È così, io e mio marito viviamo vicino alla sede dell’FBI. Lui lavora a Manassas.»

Vive con suo marito… e ha una figlia? Non è possibile, non… non ha detto niente di questo quando siamo usciti insieme!

Avrebbe voluto poter prendere Horn da parte e chiederle perché non sapeva nulla di un marito e di una figlia che di certo non erano apparsi nell’ultimo mese, ma non poteva e faticò a trattenere il marasma di emozioni che stava provando. Si sentiva tradito, preso in giro, e non gli piaceva.

Non aveva corteggiato lui Horn per primo, non aveva fatto nulla per riaccendere la vecchia fiamma di Boca Agua: era stata lei a tirare fuori quella storia, a invitarlo a cenare con lei, e anche a proporgli di finire quella serata a casa sua.

Perché l’ha fatto… perché, se aveva un marito a casa e una bambina?

Non vide sul volto di Horn alcun segno di vergogna e non osava guardare il riquadro per paura che la sua faccia invece riflettesse tutta la vergogna che provava in quel momento. Andare a letto con persone impegnate non era una possibilità per quanto lo riguardava e l’unico uomo sposato con il quale era stato era proprio Sean Lesky, che tuttavia era separato già da tempo quando lo aveva conosciuto e non viveva più con l’ex marito. Si sentiva irrimediabilmente sporco, come se si fosse appena rotolato nel recinto dei maiali di suo nonno.

De Stasio, dietro un’espressione sufficientemente indifferente, sembrava fissare gli occhi verdi proprio su di lui e non l’aiutava a sentirsi meglio: era l’unico in quella conferenza oltre a loro a sapere che tra i due c’era stato qualcosa. Sebbene Alford e McCray stessero riepilogando quanto già sapevano della giovane bibliotecaria lui non riusciva a concentrarsi su altro che non fosse quella sera, ma per quanto ci pensasse e ripensasse non riusciva a cogliere il minimo accenno a un marito, un fidanzato, un qualsiasi altro uomo; tanto meno uno a una figlia.

Non si rese conto di stare involontariamente stritolando il ginocchio di Ferid finché lui non posò la mano sulla sua. Mollò la presa subito e Ferid intrecciò le dita con le sue, senza dire niente e senza guardare altro che lo schermo del telefono. Era un gesto piccolo, ma riuscì a calmarlo molto; abbastanza da tornare quantomeno presente alla riunione.

«Cercheremo informazioni nei precedenti posti di lavoro e presso la scuola… se tende allo stalking, avrà dei precedenti di questo comportamento.»

«Sì, è molto probabile.» considerò Horn. «Questo genere di comportamenti emerge nell’adolescenza. Se è una stalker deve averlo già fatto, con un ex ragazzo, una cotta giovanile, un professore…»

«D’accordo, procederemo in questo senso. Ferid, tu non hai altro da segnalare? Qualcuno che ce l’abbia con te?»

«Il solo che possa venirmi in mente è il fratello del mio capo.»

«Per quale motivo?»

«Ho preso la prima volta sua sorella. O meglio, questo è quello che lui crede, quella era ben lungi dall’essere immacolata.» precisò Ferid. «Ma vi prego, non fatele domande su questo. Se scopre che l’ho raccontato a qualcuno sarà lei a uccidermi.»

«Diciamo che per ora non hai altri sospetti, mh?» abbozzò De Stasio. «D’accordo. Facci sapere qualsiasi cosa ti venga in mente, anche se fosse una vecchia storia, dei tempi della scuola o simili.»

«Ci penserò su.»

«Bene… a questo punto possiamo aggiornarci. Grazie della tua partecipazione, Skuld.»

«Di niente. Sono sempre a disposizione per il vostro caso. Vi farò avere il mio profilo sul sospettato aggiornato con le novità.»

Horn si scollegò dalla videochiamata, il suo schermo divenne nero e poi scomparve, lasciando più spazio per gli altri colleghi di Crowley. Alford prese la parola.

«Crowley, per oggi non c’è bisogno di te, sono arrivati due rinforzi dall’unità frodi informatiche che ci aiuteranno a smaltire i colloqui con gli insegnanti dei bambini, quindi avremo tempo per fare le nostre indagini sui dipendenti della biblioteca.»

«Capisco… farò il turno di notte.»

«No, niente turni di notte per te.» replicò lui. «Dato che il principale testimone e potenziale bersaglio vive a casa tua, è bene che tu possa sorvegliarlo il più che sia possibile. Non ti daremo più turni di notte, anche se questo significherà che in parte il tuo lavoro è aumentato. Dovrai tenerlo d’occhio e stare a casa, per evitare ogni rischio. Se devi per forza uscire, applica il protocollo protezione testimoni.»

«Io… sì, ho capito.»

«Bene. Uno di noi si farà vivo per dirti cosa scopriremo oggi di interessante.»

Dopo brevi saluti i tre poliziotti si scollegarono uno dopo l’altro. Anche se De Stasio, rimasto per ultimo, lo fissava come se avesse qualcosa da dire decise di non farlo e chiuse la telefonata. Ferid smise di sorridere e lanciò a Crowley uno sguardo preoccupato che non aveva niente a che vedere con l’ordinanza di contenimento forzato che gli era stata imposta.

Gli prese il telefono dalle mani: se il marito era davvero appena uscito con la piccola allora Horn doveva trovarsi da sola in casa.

A meno che non ci siano altri figli!

Il telefono squillò diverse volte e si domandò se lei gli avrebbe risposto. Stava quasi per desistere quando sentì lo scatto.

«Immaginavo che chiamassi.» gli disse lei.

«Quindi sai perché l’ho fatto.»

«Hai delle domande, presumo.»

«Presumi bene! Horn, tu sei sposata! Da quanto tempo?!»

«Da più di tre anni.»

Ancora una volta ebbe l’orrenda sensazione di un peso ghiacciato, come un lingotto gelido, che gli cadeva nello stomaco.

«T-tre… anni? Sei… sposata da tre anni?»

«Sì, è così.»

«Perché… Horn, tu non me l’hai detto! Eri sposata quando siamo usciti e non mi hai detto niente! Perché?!»

«Sei davvero tanto ingenuo, Crowley?»

«Che cosa significa?»

«Se ti avessi detto che avevo un marito e una figlia con lui, e che eravamo in crisi da qualche mese… tu saresti uscito con me?»

«Certo che no! Voglio dire, a cena di certo, ma non avrei mai…»

«Per questo non te l’ho detto. Volevo un’avventura, per chiarirmi le idee… per capire se volevo ancora mio marito oppure no. Quando ti ho visto in centrale… non la prima volta, ma quando abbiamo fatto quella riunione… ho pensato che tu fossi l’uomo adatto. Se non volevo più mio marito avrei voluto un uomo come te, che è molto diverso da lui.»

«Ma lo senti quello che stai dicendo? Tu mi hai usato, mi hai mentito perché sapevi che se mi avessi detto la verità non mi sarei prestato al tuo gioco!»

«Sì, è vero, ti ho mentito per questo… ma visto che tu hai mentito a me a Boca Agua, possiamo dire che sia pari e patta, ora.»

Crowley aprì la bocca per replicare, ma non sapeva che cosa dirle: era tutto sbagliato, era stato un terribile colpo basso e non si era mai sentito usato e abusato in quel modo. Era un comportamento vile, per come lo vedeva lui.

«Horn… non è… corretto quello che hai fatto.» le disse con la voce più bassa di prima. «Tu… hai scelto al posto mio. Dovevi dirmi che tu e tuo marito eravate in crisi e lasciar decidere a me se volevo dividere la responsabilità del tuo tradimento con te.»

«Mi dispiace che tu l’abbia presa tanto sul personale, Crowley, ma non lo è. Non l’ho fatto per vendetta, ti ho scelto perché mi piacevi, perché mi sei sempre piaciuto dalla prima volta che ci siamo incontrati… Boca Agua mi ha ferita, ma mi hai spiegato perché mi hai piantata in quel modo. Non ce l’avevo con te e non credevo che ti avrebbe turbato.»

«Stai scherzando, vero? Mi hai usato senza dirmi niente e vuoi anche che non faccia male?»

«Non hai fatto niente di sbagliato se non lo sapevi. Ti sei goduto quella serata insieme a me… come ho fatto io. Soltanto questo dovresti pensare.»

«Vallo a dire a tuo marito che non è niente di sbagliato!»

«Gliel’ho detto, che cosa credi? Sa che cosa è successo, e quando gli ho detto che mi era mancato abbiamo deciso di riprendere da dove ci eravamo bloccati. Come vedi, è tutto a posto… non c’è motivo per cui affliggerti, perché nessun altro ti sta biasimando.» replicò lei in tono calmo. «Non mi pareva di averti illuso che ci sarebbe stato un seguito e tu non ne hai parlato. C’è qualche altra cosa che ti turba?»

«Visto che me lo chiedi, c’è! Io sono cattolico, Horn, l’adulterio è un peccato!»

«Poco male, non è adulterio se la donna non ti dice di essere sposata.»

«E hai comunque scelto al posto mio!»

«Sì, l’ho fatto. Più che scusarmi non posso fare altro, ormai è successo, quindi fossi in te andrei oltre.» disse lei con un tono lievemente più freddo di prima. «Non sei un bambino. Comportati da uomo e passaci sopra. Anche tu avrai spezzato il cuore di qualcuno prendendo una decisione per entrambi, no? Ho preso una decisione per il mio matrimonio, per mia figlia. Darti un piccolo dispiacere è un prezzo accettabile per questo.»

«Ma come pensi che…»

«Ci sentiamo, Crowley, possibilmente quando avrai finito di arrovellarti su questa storia.»

Una telefonata riagganciata bruscamente non gli faceva così male dall’ultima volta che aveva parlato con sua madre la vigilia di Natale. Si sentiva stordito, ferito e anche umiliato: non si era mai sentito trattato come un giocattolo conveniente da uno dei suoi partner, che erano di norma persone delle quali si fidava e che lo affascinavano. Si era sbagliato di grosso a giudicare Horn e aveva pagato un prezzo alto per la sua superficialità.

«Crowley…» esordì Ferid, dal divano. «Senti, ehm…»

«Ho bisogno di un whisky.»

«Cosa?»

Crowley non rispose, si ficcò il cellulare in tasca e si mosse puntando dritto alla vetrina della cucina dove teneva i superalcolici. Ferid scavalcò di slancio lo schienale del divano e s’insinuò nello spazio irrisorio tra lui e il tavolo appena in tempo per piazzarsi a braccia spalancate davanti alla credenza.

«No.»

«Spostati, Ferid.»

«No, non berrai whisky alle otto e mezzo del mattino, mi hai sentito?»

«Questa è casa mia e quello è il mio whisky. Fuori dai piedi o ti sposto io.»

«Ubriacarsi di prima mattina non è il modo di affrontare i problemi!»

«Non te lo dirò una terza volta: spostati

«No

Ferid fissò gli occhi dritti dentro quelli di Crowley mettendoci tutta la risolutezza che riuscisse a racimolare nel suo corpo e dopo qualche secondo credette di aver vinto, quando lo vide sospirare. Subito dopo gli afferrò le gambe e lo sollevò come fosse un bambino, buttandoselo sulla spalla alla stregua di un sacco di patate, e prese a marciare verso la camera.

«Ehi! Che diavolo di modi sono questi?! Mettimi giù, che cosa credi di fare?! Comportarsi da King Kong non è accettabile da un uomo adulto!»

«Fa’ silenzio, non voglio sentirti.»

«Non ti azzardare a darmi degli ordini, che cosa- ahia!»

Ferid si tenne la testa e la scosse, stordito, dopo essere stato scaricato sul letto con la delicatezza che avrebbe usato un pirata nel buttare a mare il carico di troppo della nave. Vide Crowley voltargli le spalle e uscire dalla stanza e si rialzò di scatto.

«Dove vai? Non mi voltare le spalle mentre ti par-»

Crowley sbatté la porta alle proprie spalle e per poco Ferid non ci si scontrò. Afferrò la maniglia per riaprirla e ripartire all’inseguimento, ma non vi riuscì. La girò e tirò più volte prima di capire che l’aveva chiuso dentro.

Mi ha chiuso dentro... mi ha chiuso a chiave in una stanza!

«Crowley! Ti sembra un comportamento maturo?! Apri questa porta!» gli gridò, e prese a battere il pugno sulla porta. «Non ti azzardare a trattarmi come una specie di cane molesto da educare, mi hai sentito?! Crowley! Apri questa porta o giuro su Dio che te ne pentirai!»

Accostò l’orecchio per sentire qualcosa, ma non sentì altro che un tintinnio di vetro.

«Crowley… Crowley, ti prego, non bere… non serve a niente, io ne so qualcosa… Crowley, mi stai ascoltando? Per favore, vieni qui, parla con me!»

Seguì ancora silenzio e Ferid bussò di nuovo sulla porta, più piano di prima.

«Sei ancora lì? Crowley… dai, fammi uscire. Ti preparo una tazza di tè, e poi puoi piangere quanto vuoi sulla mia spalla… oh, vuoi sdraiarti tra le mie gambe? Ci stai comodo, no? Possiamo farlo adesso!»

Ferid non ottenne nessuna risposta e si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che gli potesse permettere di aprire la porta, ma non ebbe alcuna illuminazione che non contemplasse lo sfondamento. Doveva convincerlo, non c’era un altro modo.

«Una volta che avrai bevuto quella bottiglia avrai guadagnato solo un mal di testa terribile e il tuo dolore sarà ancora lì quando tornerai sobrio, e ti sentirai solo un cretino! Avanti, io sono qui, perché non troviamo insieme una soluzione?»

«Non c’è una soluzione.» rispose la voce di Crowley, non così lontana dalla porta. «Sono andato a letto con una donna sposata che non mi ha detto di esserlo.»

Oh, allora c’è ancora.

«Oh, dai... lo sai che non è davvero un problema… voglio dire, non la vedevi da anni, no? Vive in un altro stato, come potevi saperlo, se lei non ne parla? Che colpa hai se lei non è stata sincera con te?»

Crowley non rispose. Bussò di nuovo.

«Mi apri adesso?»

Il padrone di casa non rispose e Ferid sospirò. Non aveva mai avuto tanta voglia di prendere qualcuno a testate, ma aveva la sensazione che avrebbe avuto la peggio se ci avesse provato.

«Ho appena bevuto quattro tazze di tè, se mi scappa la faccio nel tuo armadio, sappilo.»

«Oh, questa è proprio una cosa volgare, detta da te.»

«Sarebbe più volgare farmela addosso, quindi non ho nessuna intenzione di lasciare che succeda.» ribatté lui, vagamente seccato. «Sono arrabbiato, Crowley. Ti approfitti della tua stazza indecente per fare l’arrogante con me, per costringermi a parlare di quello che vuoi e per non parlare di quello che non vuoi. Questo non è un comportamento degno di un uomo che dice di essere onesto.»

«Non ti ho chiuso dentro perché non voglio parlare. Ti ho chiuso dentro perché voglio bere e tu stavi in mezzo.»

«Vuoi bere perché vuoi evitare di parlare! Cosa credi, che sono nato ieri? Non ho due secoli, ma sono più vecchio di te, e che tu ci creda o no so come ti senti, per questo ti sto dicendo di non bere!»

«Io sono irlandese, Ferid, non inglese. Noi beviamo whisky, non tè.»

«Sono inglese e pertanto un intimo estimatore del gin, che cosa credi, che non mi sia mai ubriacato?»

«…Ti sei ubriacato? Davvero?»

«Sì, più volte di quanto sono disposto a confessare, e me ne sono sempre pentito.»

Con sua enorme sorpresa la serratura scattò e la porta si aprì lentamente. Crowley, che aveva un bicchiere in mano e la bottiglia nell’altra, si appoggiò allo stipite e gli allungò quest’ultima.

«Allora possiamo ubriacarci e pentircene insieme, ti va?»

«No, per tre motivi.» replicò Ferid, e gli tolse bottiglia e bicchiere dalle mani. «Primo, il whisky non è di mio gradimento; secondo, sono neanche le nove di mattina; e terzo, se ci ubriachiamo tutti e due puoi fare ciao ciao al tuo voto di castità… in realtà puoi dirgli ciao anche se ti ubriachi tu da solo.»

«Vuol dire che non mi fermeresti?»

«Io? E come pensi che ci riuscirei? Mi hai appena caricato sulla spalla e scaricato sul letto come niente fosse, no? Se ottenebrato dai fumi dell’alcol mi saltassi addosso non potrei fare assolutamente nulla per impedirtelo~»

«Non ci proveresti nemmeno, eh?»

«Per quanto possa essere rasoterra la stima che hai di me, io rispetto il voto che hai fatto. Per questo ti sto dicendo di non bere, non sono abbastanza forte di volontà per tutti e due~»

Ferid appoggiò bicchiere e bottiglia sul bordo del mobile del computer, poi allungò la mano e passò il dito sotto la catenella dorata del suo crocifisso.

«Ti ho convinto?»

«Mi hai convinto.»

«Evviva~»

«Strano che tu sia felice, mi ero convinto che stessi ancora cercando di portarmi a letto… anche se adesso il letto è il mio.»

«Portarti a letto per poi vederti piagnucolare in quel modo perché ti ho fatto rompere una promessa col tuo Dio? Per carità.»

«Non stavo piagnucolando.»

«Oh, lo stavi facendo, Crowley, credimi~»

«Non ero così imbarazzante e patetico.» rispose lui, con un’incertezza palese sul viso. «…Non lo ero, vero?»

«Mi appello al quinto emendamento.»

Un’ombra di disappunto piegò leggermente le sopracciglia folte di Crowley.

«Se fossi mio amico ora minimizzeresti la cosa per farmi sentire meno stupido.»

«Tuo amico? Non voglio essere niente di tanto banale per te!»

«Ma non è banale per niente.»

Ferid si passò la nocca del dito sul mento come fosse molto assorto a ragionare su qualcosa, mentre l’altro indice continuava a scorrere lentamente le maglie della collana d’oro.

«Preferirei essere qualcosa di estremo, come... l’amore della tua vita, per esempio.»

«Potresti ridimensionare leggermente le tue aspettative, Ferid?»

«Che ne dici allora della follia?»

«Che?»

Ferid sorrise e gli si avvicinò ancora di più, tirando leggermente la collana e fissandolo negli occhi blu, che gli ricambiarono lo sguardo con vaga perplessità.

«Sarebbe bello essere la tua follia più grande… quella che ti fa cambiare la prospettiva della vita, rivedere tutte le tue priorità, e che cambia per sempre il corso della tua esistenza… questo sì che sarebbe qualcosa che varrebbe la pena diventare.»

La serietà che Crowley aveva dipinta in faccia lasciò interdetto Ferid, il cui solo scopo era di risollevargli il morale senza il minimo secondo fine.

«Sei in assoluto l’uomo più singolare che io abbia mai incontrato, e non c’è dubbio che tu abbia già cambiato il corso della mia esistenza, fin dal primo giorno. Sai, Ferid… potresti essere accontentato, questa volta.»

Ferid lo fissò per qualche istante, poi scoppiò suo malgrado in una risata fin troppo nervosa.

«Direi che sei già matto a sufficienza~»

«E la tua grande follia qual è, Ferid? Tu ce l’hai avuta una follia che ti ribaltasse da sopra a sotto?»

«Crowley, ti sei accorto o no che sono scoppiato come un pop corn?»

«È evidente che non hai idea di cosa significhi essere scoppiati sul serio… non gira gente abbastanza strana in quella libreria.»

«Vuoi dire che esiste gente peggiore di me e Krul?»

Lui sospirò e si passò la mano tra i capelli ancora umidi, scuotendo la testa.

«Ferid, fai il tè.»

«Eh? Da dove esce questo, adesso?»

Crowley sorrise.

«Hai detto che mi avresti fatto il tè, e che potevo stendermi tra le tue gambe, no? Allora fai il tè e ti racconterò della gente squinternata che incontri quando fai il poliziotto da dieci anni. Oh, Ferid?»

Ferid, che si era mosso verso la cucina vagamente stordito dalla piega che aveva preso quel discorso, si voltò verso di lui e si vide mettere tra le mani bottiglia di whisky e bicchiere.

«Rimettili a posto già che vai di là, grazie.»

Riprendendosi dal momento di confusione gli sorrise.

«Con grande piacere~»

Lasciò la stanza e arrivò in cucina, dove mollò bottiglia e bicchiere per accendere il fuoco sotto il bollitore. Si stava domandando dove esattamente il detective avesse ripescato quel pesante bicchiere da superalcolico quando lo sentì camminare fino al soggiorno.

«Tu non hai un altro uomo o un fidanzato di cui non so niente, vero, Ferid?»

«Io? Che importa se ce l’ho o no? Non mi pare di essere venuto a letto con te~»

«Per esempio… De Stasio.»

Ferid si fermò mentre metteva il tè dentro la teiera e si voltò a guardarlo. Sorrideva, ma qualcosa nel suo tono gli suggeriva che fosse serio.

«Io e Dante… è un po’ che ti frulla quell’idea in testa, anche se non capisco da dove ti sia venuta. Sei stato tu a dirmi che a lui interessano soltanto le donne.»

«Beh, quando ci sei tu lui è strano.»

«Non l’hai capito? Ti provoca, perché sa che piaccio a te. E credo che voglia suggerirti di farti avanti. Ah, giuro che non è una comoda bugia per girare la corrente a mio favore~»

Crowley, appoggiato allo spigolo del muro tra soggiorno e porta del bagno, incrociò le braccia come quando era uscito dalla doccia: stava frugando nella sua testa a caccia di prove in questo senso, o almeno Ferid ne era convinto, per questo lo sorprese ciò che disse subito dopo.

«Oppure, William Bosley?»

Senza più altre piccole preparazioni da fare in attesa che l’acqua bollisse, Ferid voltò le spalle al fornello e si appoggiò al bordo del mobile della cucina, con un sorriso sicuro sul viso.

Persino la sua gelosia è così tenera…

«Pensi che Liam sia il mio fidanzato? Un fidanzato non mi avrebbe lasciato sotto quel portico, inzuppato, infangato e ferito, non credi?»

«Il tuo amante, magari?»

Ferid emise una risatina divertita.

«Liam il mio amante… è probabilmente l’unica persona che sappia quasi tutto di me che io non abbia mai nemmeno baciato. No, Crowley, Liam è solo un vecchio amico… lavoravamo insieme prima che io andassi a lavorare per Krul, e adesso fa il barista nel mio bar preferito. Tutto qui.»

«È davvero tutto?»

«Oh, no, in effetti: la sua fidanzata Maricela è una cartomante appassionata ed è mia cliente da anni. Ora sì, è tutto.»

Crowley non rispose e continuò a guardarlo dritto negli occhi.

Pare che l’interrogatorio sia una prassi comune anche fuori dal lavoro.

«Da tutte queste domande devo dedurre che tu stia pensando di spingere il nostro rapporto un po’ più avanti?» gli domandò Ferid, prendendolo palesemente di sorpresa. «Perché ti interessa se io ho una… vogliamo chiamarla tresca? Una tresca con il tuo collega, o se William è il mio amante, se non hai in testa di farmi diventare qualcosa di tuo?»

Crowley smise di sorridere, ma non aveva alcuna traccia di rabbia, irritazione o vergogna sul viso. La sua faccia da poker era di nuovo all’opera.

«Qualcuno. Qualcuno, non qualcosa. Le cose non amano.»

«È una tacita conferma?»

«Sono solo curioso… la curiosità mi brucia dentro da sempre, e brucia in modo quasi insopportabile.» disse Crowley, e tornò a sorridere con allegria. «Se mi avessi visto da bambino inseguire le ranocchie per sapere dove andassero a dormire sapresti quanto so diventare morbosamente curioso.»

«Ma la tua non è solo curiosità… o è per curiosità di sapere se avevo usato il tuo collutorio che hai provato a baciarmi, prima?»

«L’hai usato?»

Ferid scoppiò a ridere e scosse la testa prima di prendere il bollitore e versare l’acqua nella teiera.

Per essere uno onesto stai diventando sfuggente come una saponetta bagnata.

«Se sei così mortalmente curioso, no, non ho usato il tuo collutorio, e no, non ho fatto nulla di erotico o di romantico con Dante, e no, Liam non è e non è mai stato il mio amante, e no, non c’è nessun altro che tu non conosci intorno a me. E come bonus, no, non ho nemmeno figli segreti.»

«Questo lo apprezzo. Mi piacciono i bambini, ma li preferisco quando non escono dal nulla, se capisci cosa voglio dire.»

«Dimmi un po’, Crowley… io come dovrei interpretare questa conversazione, secondo te?»

«Che vuoi dire?»

Per quanto sapesse nascondersi bene a volte, la nota di tensione nella sua domanda non sfuggì a Ferid. Seppe che era l’occasione giusta per intavolare quel discorso; rimandare sarebbe stato più un problema che un vantaggio.

«Perdonami l’immodestia, ma non sono uno stupido… la tua morbosa curiosità è emersa dopo aver saputo che la tua vecchia fiamma era sposata con figliola annessa, e la prima cosa che ti viene in mente di fare è chiedermi se io abbia annessi e connessi che tu non conosci. Ora sono un tantino confuso, quindi seguo il tuo esempio e faccio domande dirette: che cosa vuoi da me? Vuoi che siamo amici o stai cercando qualcos’altro?»

Crowley non distolse lo sguardo dal suo e non sembrò in imbarazzo, ma si fece serio.

«Vorrei essere all’altezza del mio insegnamento e rispondere in totale onestà, ma la verità è che non so cosa rispondere.» fece lui appoggiando la testa contro lo spigolo del muro. «Volevo ripagare il mio debito. Questo volevo farlo e ci sono riuscito. Poi ti ho conosciuto meglio, ho visto quanto eri fragile con addosso un’armatura troppo pesante da portare, e ho pensato di volertene alleggerire. Sì, volevo essere tuo amico, e aiutarti a diventare forte.»

«E adesso non è più così?»

«Sono… successe tante cose in così poco tempo, e ora tu sei qui, e abiti con me… starai con me ancora per un po’. Sono ancora incerto su che cosa sento, ma posso ripetere quello che stavo dicendo prima: sei un grande caos nella mia vita. Ma mia nonna dice sempre che il caos arriva per rimettere le cose a posto in un modo nuovo.»

Ferid non si era mai sentito rivolgere parole del genere e non sapeva neanche se fosse in qualche modo in grado di elaborarle.

«Quindi dobbiamo solo aspettare che la tempesta si plachi e vedere cosa è ancora al suo posto e cosa no?»

«Per buttarla sul filosofico, sì. Ho bisogno di tempo.»

«Bene, dunque aspettiamo.» replicò Ferid, rimuovendo le bustine del tè. «Sarà un’esperienza nuova per te, immagino.»

«Mh? In che senso?»

«Sei abituato a prenderti subito o quasi quelli che ti stimolano, non è così? Probabilmente tutte quelle relazioni sessuali che hai sono il tuo modo di chiarirti le idee su qualcuno. Sbaglio?»

L’espressione sorpresa di Crowley gli fece capire che la sua freccia era volata in pieno centro e che non se l’aspettava affatto.

«Ma dato che non puoi averne per via del tuo voto e che io non mi concedo tanto facilmente, dovrai lavorare di testa, caro mio~»

«Tu non ti concedi? Mi sei saltato addosso sul tuo divano, letteralmente

«Oh, posso anche averlo fatto, qualche volta… sì, mi sono concesso per poco o niente, è vero. Ma questo era prima.»

«Prima di che cosa?»

«Prima che qualcuno mi dicesse di… vediamo… non accontentarmi di qualsiasi uomo mi dia uno straccio di attenzione, né di uno che mi fa la grazia di trovare una notte o due per me; mi pare fosse così.»

Crowley riconquistò ancora una volta il sorriso.

«Ah, questo è proprio un ottimo consiglio. Te l’ha dato un amico?»

«Chi lo sa… ci sta ancora pensando su, pare~» ribatté Ferid in tono leggero. «Il tè è pronto, possiamo andare a godercelo di là?»

«Dopotutto è meglio se ci sediamo qui come due persone civili…»

Crowley si avvicinò alla cucina e prese dalla credenza un’altra tazza.

«È paura quella che sento, detective Eusford? Hai paura di me? O di te?»

«Non ti ho appena messo in una posizione sgradevole, dicendoti che non so cosa voglio da te? Deve metterti a disagio un… momento intimo adesso.»

«Se preferisci evitare contatti intimi va bene… ma a me piace tenerti vicino. L’affettività ormai mi è sconosciuta da tempo, come immaginerai, ma è una di quelle cose alle quali ci si abitua velocemente.»

Ferid sorrise e prese la sua tazza e la teiera.

«Camera da letto, allora?»

Crowley non rispose, ma quando Ferid ignorò il tavolo e puntò dritto verso la camera l’investigatore lo seguì senza protestare.

 

 

Qualche tempo e due tazze di tè più tardi, Crowley era seduto sul letto accanto a Ferid appoggiato comodamente contro la testata e aveva appena finito di raccontare a quest’ultimo della nottata memorabile in cui la polizia di Satbury aveva arrestato il giovane che credeva di essere un ghoul e che aveva cercato di staccargli un pezzo di carne dall’avambraccio. Avendo avuto per la maggior parte amanti che erano nelle forze di polizia era difficile raccontare qualcosa che riuscisse a impressionarli, ma Ferid era un pubblico molto più coinvolto. Se stava fingendo lo stava facendo superbamente.

«È incredibile, Crowley! Ma quindi ti ha morso davvero?»

«Oh, sì, ma per fortuna ho avuto l’istinto di aprirgli la mandibola invece di cercare di ritrarre il braccio, non so nemmeno io perché.»

«Ti ha ferito?»

«Nulla di importante, è guarito del tutto in due settimane.» lo rassicurò lui, e gli mostrò l’avambraccio protagonista dell’evento. «Vedi? Non si vede più niente.»

Ferid passò la mano sulla pelle come se si aspettasse di trovarci una scritta in braille. Dopo qualche secondo di silenzioso rimuginare lo guardò negli occhi.

«Quante altre storie del genere hai da raccontare?»

«A questi livelli di follia non molte, ma di gente strana ne ho a sperdere. Dopotutto tu non eri così tanto strano ai miei occhi.»

«Oh, lo immagino, devo esserti sembrato quasi noioso al confronto… e io che credevo che fosse stato l’apice della carriera quando è venuto in negozio un tizio a rivendicare la proprietà del locale in nome della congregazione, una certa Compagnia della Notte. Neanche la fantasia di trovare un nome più originale, è stato un po’ deludente come pazzo.»

Crowley abbassò la tazza che aveva avvicinato alle labbra per bere, con la sensazione di essere appena stato folgorato.

«Che cos’hai detto, Ferid?»

«Che è stato deludente, un pazzo lo immaginavo più… creativo, capisci cosa intendo?»

«No, di quella congregazione.»

«La Compagnia della Notte? Perché, esiste davvero?»

«Ecco cos’era!»

Palpò le tasche alla ricerca della busta sulla quale aveva scritto gli appunti.

«Cos’era cosa? Che cosa cerchi?»

«Gli appunti… quelli dei glifi… ha detto che il primo glifo, quello che significa notte, era quello sul corpo di Sarah?»

«Sì, era il suo.» confermò lui. «Che cosa ti è venuto in mente, Crowley?»

«Il senso.» rispose Crowley, con un senso di eccitazione crescente. «Il glifo è notte, e Sarah è stata trovata in un magazzino dismesso di un’azienda che si chiama Nitro Tech Company. Abbreviato, Ni.Te.Com

«Oh! Pensi sia collegato al posto in cui avete trovato i bambini?»

«Può essere… allora… Sophie Arnelle l’abbiamo trovata in una zona incolta vicino al fiume…»

«Può essere un giardino, in un certo senso.»

«E Neva in fondo a un vicolo cieco.»

«Uhm, segreto forse è un pochino stiracchiato in questo caso, non trovi?»

Crowley ci pensò su e concordò con la sua osservazione e la sua sensazione di trionfo cominciò a sgonfiarsi come un soufflé malriuscito.

«Però…»

Crowley guardò Ferid, che si era fatto serio e pensieroso e lo vide tormentarsi l’orecchino.

«Però Gaia Windsor l’hanno trovata a Silver Waters sotto una statua ornamentale… lo ricordo bene, perché anche il mausoleo dei Trobiano a Silver Waters ha una statua e ho avuto paura che fosse la stessa, ma era una riproduzione di Amore e Psiche, la statua di Canova… e… beh… è quasi un bacio, quello di Eros e Psiche. Il glifo bacio ha senso.»

«Davvero? Non ho visto personalmente la scena. C’era quella statua?»

«Sì, ne sono sicuro. Sono sicuro, ho controllato io stesso. Te l’ho detto, avevo paura che si trattasse del mausoleo dei Trobiano.»

«Che vuol dire che è quasi un bacio, comunque? È un bacio o no?»

«Beh, è… Amore e Psiche. Vuol dire che non la conosci?»

Crowley scosse la testa genuinamente anche di fronte alla perplessità di Ferid: l’arte non era una delle sue passioni e che gli risultasse neanche lo era di qualcuno dei suoi partner, quindi non era mai stato particolarmente esposto alla conoscenza in quel campo.

«Beh… Psiche è semisdraiata, così…»

Ferid stese le gambe fuori dal letto e si sdraiò sulle sue puntellandosi su un gomito, alzò il braccio passandoglielo sulla nuca e gli piegò appena la testa come se, effettivamente, cercasse il bacio di un amante.

«Tiene le braccia dietro la testa di Eros e i loro visi sono vicini, in questo modo. Non è un bacio, ma… è un bacio in potenza d’essere, a volerlo chiamare così.» spiegò Ferid, prima di abbassare il braccio. Eros tiene Psiche tra le braccia e le accarezza il viso. È l’abbraccio di due amanti.»

«Ah… per questo dici che è quasi un bacio. Ho capito.»

«E ci sono altre cose che tornano nella tua idea, sai?» aggiunse lui raddrizzandosi. «La bambina giapponese ha il glifo oro, e l’avete trovata alla vecchia miniera.»

Un palpitare accelerato animò nuovamente il suo petto mentre i pezzi cominciavano ad assomigliare a un’unica immagine sensata. Crowley posò la tazza sul comodino senza neanche guardare, si alzò dal letto come avesse avuto le molle e acchiappò le scarpe poco lontane.

«Devo andare in ufficio a spiegare questo a De Stasio. Devo guardare le foto… devo essere sicuro di questo.»

Aveva già la giacca in mano quando si ricordò che in linea teorica lui non avrebbe dovuto lasciare Ferid da solo a meno che non fosse il suo turno di lavoro, e si girò a guardarlo. Lui stava sorridendo.

«Non preoccuparti per me, detective Eusford, io sono al sicuro qui. Se lo sono mentre sei di turno perché dovrebbe essere diverso oggi?»

«Io… vuoi venire anche tu? Piuttosto che stare a casa, magari preferisci uscire e…»

«No, temo che se mi portassi senza autorizzazione ci sgriderebbero tutti e due.»

Crowley pensò a McCray e non poté che concordare: inoltre assumeva un cipiglio di disapprovazione quando li vedeva insieme tale che Crowley non ne vedeva l’uguale da quando la Madre Superiora l’aveva bacchettato sulle mani per aver rotto una finestra con il pallone da rugby.

«Forse… ma non ti sentirai solo?»

«Cambia qualcosa dalle altre volte in cui sei stato via?» domandò Ferid divertito. «Non mi metterò a fissare la porta in attesa del tuo ritorno come un cagnolino, se avevi paura di questo… posso attingere alla tua collezione di dvd, sì?»

«Ma che domande, certo che puoi. Mi casa es tu casa, ricordi?»

«Allora starò bene.»

«D’accordo, allora, ci vediamo stasera… resterò a seguire questi nuovi delle frodi informatiche, da quelle parti stanno al computer tutto il giorno… non sanno interrogare un testimone, né un sospettato, e probabilmente svengono a vedere il sangue…»

«Come te, no? Specie se è in una provetta~»

Crowley diede una scrollata di spalle che sperò risultasse abbastanza neutrale, ma dentro fu ferito nell’orgoglio nello scoprire che Ferid si era accorto del suo piccolo problema di incompatibilità con gli aghi e le provette di sangue. Prese le chiavi e il cellulare.

«Vuoi che ti porti qualcosa? Per cena.»

«Oh, no, grazie, caro, non voglio niente di particolare~»

«Okay, allora a più tardi.»

Aprì la porta, ma poi si trattenne e guardò Ferid, con le due tazze vuote in mano, che si fermava nel soggiorno a guardarlo di rimando.

«Che c’è, Crowley?»

«Quasi dimenticavo di dirtelo. Puoi guardare quello che vuoi, ma non mettere su L’alba degli eroi

«Uh? Perché, è un brutto film?»

«Perché dopo dieci minuti di film inizia un porno.»

Ferid lo guardò sbattendo le palpebre più volte.

«Come hai detto, scusa?»

«È uno scherzo che mi hanno fatto i miei compagni in accademia di polizia quando hanno saputo… beh, che venivo dalla scuola cattolica e che non avevo mai avuto una ragazza. L’ho tenuto come ricordo di quanto sia traumatico il passaggio all’età adulta, alle volte.»

Ferid scoppiò a ridere così forte che quasi si lasciò scivolare di mano una delle tazze. Crowley scosse la testa e uscì dall’appartamento.

Ferid stava ancora ridendo a crepapelle quando l’ascensore gli si chiuse alle spalle.

 

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Capitolo 18
*** Il cuore del ragno ***


Mikaela Shindo, nonostante il cognome di origine giapponese, aveva capelli dorati come il grano maturo e leggermente mossi come quelli di un angelo, come tante persone gli avevano detto in più occasioni. Vi passò la mano nel mezzo per toglierseli dal viso sudato e alzò gli occhi azzurri sull'orologio: erano quasi le due del pomeriggio e fu con una certa urgenza che buttò all'aria il lenzuolo e raccolse i pantaloni da terra.

«Yuu-chan, sono quasi le due.»

«E allora?» rispose lui con ancora il respiro appesantito. «Oggi non dobbiamo lavorare… non alzarti, stai qui con me!»

«Non possiamo stare a letto tutto il giorno.»

«E chi lo dice?»

«Io.» tagliò corto Mikaela, e infilò pantaloni e calzini. «Alzati e ricomponiti, io vado di là.»

«Di là dove?»

«Da Crowley, no? Vado a vedere se il suo amico ha bisogno di qualcosa.»

«Oh, sì…»

«Te n’eri già dimenticato, vero?»

«Non dimenticherei mai una cosa così importante!»

«Te n’eri dimenticato, lo sapevo.»

«Non fare lo stronzo, Mika!»

«Perché no?»

Mika tese un certo sorriso con malizia e si chinò sul letto avvicinando il viso al suo.

«Lo so che ti piace. Ti stuzzica.»

«Non puoi usare questa scusa ogni volta!»

«Posso, finché continua a essere vero.»

Spense la sua risposta con un bacio sulle labbra e si raddrizzò, cercando con gli occhi la maglia che si era tolto, ma non riuscì a vederla.

«Mika, resta a letto ancora per un pochino.»

«No, Yuu-chan, devi rispettare i tempi di cooldown. Devo riprendermi, sei troppo irruento.»

Yuu non fece altro che sbuffare all’indirizzo del soffitto e Mika sorrise mentre si alzava alla ricerca di qualcosa da indossare nell’armadio. Prese una felpa con il cappuccio, bianca e gialla, che di solito metteva soltanto in casa.

«Vado di là e torno.»

Un brontolio indistinto fu la sola risposta di Yuu e Mika rise mentre usciva dalla camera da letto e puntava dritto alla porta. Trovò lì appiccicato il post-it di Crowley che chiedeva loro di dare un’occhiata a Ferid perché sarebbe tornato solo per cena e trovò divertente l’idea di avergli attaccato l'abitudine di scrivere post-it: una fissazione di lunga data, per lui.

Si avvicinò alla porta accanto e bussò, ma non ottenne alcun genere di risposta. Bussò più forte e attese, ma ancora una volta nessuna risposta, perciò bussò ancora.

«Ferid, se ci sei rispondimi, per favore.» disse ad alta voce, e bussò ancora. «Sono Mika, il vicino di Crowley. Voglio solo sapere se va tutto bene.»

Mika accostò l’orecchio alla porta e sentì due distinte voci parlare, ma un crescendo di musica gli fece sospettare che venissero dalla televisione accesa. Pensò che non fosse tanto alta da impedirgli di sentirlo bussare e decise di entrare.

Speriamo che non abbia messo il catenaccio. Con la mia stazza non la sfonderò mai.

Per sua fortuna bastò girare la sua copia della chiave nella toppa per spalancare la porta. Entrò e notò la televisione accesa su un film, un gatto squama di tartaruga che gli puntò addosso gli occhi gialli come due fanali accesi, ma nessuna traccia di esseri umani.

«Ferid?»

Bastò un’occhiata per notare la sua assenza nella zona della cucina, ma notò lo stesso qualcosa di particolare: la ciotola dove gli aveva preparato dell’insalata mista era quasi vuota, ma tutte le ciliegine di mozzarella che ci aveva messo erano state scartate in un piattino. Colto da improvvisa luce di comprensione marciò verso il bagno e fu lì che trovò l’uomo che cercava, chino sulla tazza del water a rimettere il pranzo.

Bene ma non benissimo.

Attese qualche secondo che il conato passasse e che si ricomponesse con qualche colpo di tosse.

«Eccoti qua.»

Non fu sorpreso di spaventarlo, dato che la televisione e il voltastomaco dovevano aver ottimamente coperto i colpi alla porta e la sua voce.

«C-chi diavolo sei tu?»

«Oh… sono Mikaela, il vicino di Crowley…»

«Oh… oh.» fece lui con l’aria confusa. «Credevo che Mikaela fosse una ragazza…»

«Non sei il primo che si fa ingannare.»

Grazie, madre, per esserti fissata tanto sulla Carmen da dimenticarti che avevi un figlio maschio.

Allungò la mano verso di lui.

«Ero venuto a vedere se avevi bisogno di qualcosa e dato che non rispondevi ho aperto. È passato?»

«Sì... sì, sto bene. Mi dispiace per questo momento imbarazzante.»

«Tranquillo, non è imbarazzante. Non ero io a vomitare in un cesso.»

Ferid gli lanciò un’occhiata vagamente infastidita mentre lo aiutava a rimettersi in piedi.

«Ma l’avresti potuto evitare se avessi detto subito che il lattosio ti fa quell’effetto.»

«Ehm…»

«Perché non lo hai detto a Crowley che hai vomitato quella sheperd’s pie per via delle quantità industriali di burro che ci ha messo dentro? E continuerà a cucinare tutto in quel modo. Stanne certo, so quanto burro compra, quindi diglielo che sei intollerante al lattosio.»

«Co… come lo sai?»

«Deduzione.» replicò Mika. «Hai vomitato la sua sheperd’s pie, Crowley mi ha detto che non vuoi il latte nel caffè e nel tè. Hai mangiato il mio sformato di verdura, dove non metto burro né formaggio, ma sei stato male per un’insalata… hai scartato la mozzarella, ma suppongo tu sia stato male per il latte che deve aver gocciolato sul fondo.»

Ferid non rispose, ma il suo sguardo si incupì leggermente.

«Non è che questo silenzio ha a che vedere con la voce che m’è arrivata all’orecchio di un tizio che finge di essere un vampiro, vero? No, sono certo di no… Crowley mi ha detto che sei un uomo intelligente, e suicidarsi con il lattosio per un gioco di ruolo sarebbe da coglioni.»

«Non ha niente a che vedere con… sono più di quindici anni che nessuno prepara per me qualcosa con il latte o il burro, non ci ho pensato a dirglielo…»

Mika incrociò le braccia. Il vetro della doccia gli restituì una riproduzione del suo sguardo gelido – che Yuu così spesso gli rimproverava – indebolita dall’increspatura della superficie.

«E qual è l’illuminata ragione nel seguitare a non dirglielo?»

«Non… non è capitato l’argomento di conversazione!»

Mika lo scrutò come gli veniva naturale fare ogni volta che Yuu gli propinava una palese scusa e anche se Ferid non lo conosceva sembrava averne colto il senso, perché rifuggì il contatto visivo. Mika accennò un sorriso.

«Beh, il tuo pranzo è stato un nulla di fatto, ma Crowley ci ha detto di prenderci cura di te. Perché non vieni di là a prendere del tè? O dell’infuso di melograno, se preferisci. Crowley ha detto che ti piace quando è venuto a chiedermi di dargliene un po’. Posso preparare qualche sandwich, nemmeno io ho ancora pranzato.»

Ferid ponderò la questione per un tempo un po’ troppo lungo e Mika aprì bocca per abbozzare e ritirarsi in casa senza metterlo ulteriormente a disagio, ma in quel preciso momento lui annuì.

«Grazie, volentieri.»

«Oh, bene. Rinfrescati un po’, mi serve un minuto per tirare giù il mio ragazzo dal letto e rivestirlo. Non è abituato agli ospiti, sarebbe capace di aggirarsi nudo per casa.»

Mika, che si aspettava che Ferid restasse sorpreso o che si mettesse a ridere prendendola per ironia, si stupì di sentirlo sospirare sconsolato.

«Magari lo facesse anche Crowley!»

Fu lui a mettersi a ridere senza riuscire a trattenersi: Crowley aveva detto molto del suo nuovo coinquilino, ma si era guardato bene dall’accennare in qualsiasi modo e misura al suo interessamento particolare. Mika non poté non domandarsi quanto in realtà il suo vicino avesse omesso di dire sulla loro relazione, ma improvvisamente si sentì più bendisposto a conoscere il quarto inquilino del dodicesimo piano.

«Lascio la porta aperta. Ti aspetto.»

Ferid annuì e Mika lasciò l’interno ventiquattro per tornare al ventitré, e non si stupì di trovare Yuu in cucina, completamente nudo, che beveva il succo d’arancia fresco di frigorifero direttamente dalla bottiglia.

«Yuu-chan!»

«Mhh?»

«Ti ho detto cento volte di non bere dalla bottiglia!»

«…Ma ci siamo solo io e te in casa!»

«Già, ma se dovessi dare del succo d’arancia a Crowley? Chiedilo a lui se gli farebbe piacere bere sapendo che ci hai bevuto tu!»

«Ma è già capitato quando andavamo ad allenarci insieme, lui beve dalla mia bottiglia senza fare storie.»

Mika fissò i suoi penetranti occhi azzurri in quelli verdi di Yuu, che lo guardava con quella sua aria innocente che sembrava non capire mai che cosa irritasse il suo ragazzo.

Okay, non è il momento per discutere di questo.

«Ah, basta così. Metti via la bottiglia e fila a vestirti.»

«Cosa? Perché?»

«Niente storie, vai, subito!»

«Vado, vado, vado!»

Yuu lasciò la bottiglia alzando gli occhi al cielo in una muta esasperazione e andò in camera da letto a raccattare i suoi vestiti. Mika scosse la testa e dopo aver attaccato il bollitore elettrico preparò sul tavolo tre tazze e la teiera migliore che aveva, una blu scuro che aveva se non altro il pregio di non avere crepe. Quando Yuu tornò in completo jeans più maglietta stampata notò la stranezza subito.

«Oh… tre tazze?»

«Ho invitato Ferid a prendere del tè. Deve annoiarsi un po’ di là da solo tutto il giorno.»

«Tu che inviti uno sconosciuto in casa?» sillabò Yuu, sbalordito. «Mika, sono fiero di te!»

«Co-ehi… Yuu-chan, dacci un taglio!»

Tentò di divincolarsi dal suo abbraccio più simile a una presa di wrestling, ma poi si sentì bussare sulla porta e Yuu lo lasciò andare.

«È un brutto momento?»

«N-no, Ferid, questo idiota stava solo facendo mostra di se stesso.» gli disse Mika, sistemandosi la felpa. «Entra… lo conosci il mio idiota di ragazzo, vero?»

«Certo che mi conosce! Ciao, Ferid!»

«Buon pomeriggio, Yuu.» disse lui con un sorriso accennato.

«Beh, io vado a fare il bucato, se non vi dispiace!»

«Cosa? Il bucato adesso, Yuu-chan?»

«Desolato, ma devo proprio lavare la mia uniforme! Voi due fate pure le vostre chiacchiere, divertitevi, io torno tra un po’!»

«Yuu-chan!»

Ma Yuu ignorò completamente Mika, parlando a macchinetta con Ferid del suo lavoro come installatore e di quanto fossero puntigliosi i capi su orari e uniforme mentre recuperava la cesta della biancheria, poi li salutò di nuovo e uscì dall’appartamento. Ferid lanciò a Mika uno sguardo smarrito.

«Di solito non si comporta così, è emozionato perché ti ho invitato.»

«Dato che si è appena volatilizzato dubito che fosse perché smaniava di ammirarmi, dico bene?»

«È contento perché… beh, perché io non sono un tipo socievole. Non mi piace conoscere persone nuove, vedo abbastanza seccatori al lavoro.»

«Che lavoro fai, Mikaela?»

«Lavoro da Mandy's…»

«Che posto è? Un ristorante?»

Mika si accigliò e scrutò l’uomo per capire se la sua fosse una presa in giro o una domanda per simulare educata ignoranza. Non era né l’una né l’altra: Ferid sembrava non conoscere uno dei più imponenti colossi del fast food dolce in America.

«Non lo conosci?»

«No, direi di no.»

«Beh, se sei intollerante al lattosio non sarai un grande frequentatore di Mandy's… è un fast food specializzato in frullati, milkshake e colazioni. Io lavoro al banco, quindi vedo centinaia di persone tutti i giorni, quasi tutte sgarbate, irritanti e fastidiose, quindi non mi mettono una gran voglia di conoscerne altre.» spiegò lui, mentre prendeva a spalmare sul pane della crema di avocado. «Crowley mi ha detto che tu invece lavori nel West End.»

«Beh, data la mia attuale condizione non posso lavorare, ma sì, sono un libraio. In una libreria specializzata nel West End.»

«Una libreria specializzata… vuoi dire la libreria Magick in Ashland Street?»

«Oh, ci conosci?»

«Sì.» ammise Mika con una certa sorpresa. «Ci sono venuto una volta a cercare un libro, ma c’era una ragazzina al banco. Una con i capelli rosa e il vestito da gothic lolita

«Oh, è il mio capo, Krul~»

«Il tuo… capo?»

«Quella ragazzina ha ventinove anni, alla data odierna.» rispose Ferid con aria allegra, e si mise a scandagliare i titoli dei libri della sua nutrita collezione. «Probabilmente sei venuto di martedì, è il mio giorno libero… ah, ecco. Questo

Sfilò dallo scaffale il libro che aveva acquistato al Magick qualche anno addietro, un testo che approfondiva la storia e la vicenda della setta religiosa chiamata Figli della Virtù, e sorrise sicuro sfogliandolo.

«Questo è quello che hai comprato da noi. È nel nostro catalogo.» affermò senza la minima esitazione. «Hai diversi titoli sulla psicologia delle sette, come mai ti interessa un argomento del genere?»

Per fortuna che Crowley l’aveva descritto come un tipo schivo, pensa se l’avesse definito un estroverso.

«È una questione un po’ privata, non vorrei parlarne.»

«Oh, troppo intimo per il primo incontro? Capisco, nessun problema~»

Rimise il libro a posto e diede le spalle agli scaffali; nel farlo si voltò verso il tavolino che Mika aveva sistemato davanti alla finestra del soggiorno e il suo sguardo si posò sulla bella scacchiera che ci teneva sopra. I suoi occhi celesti si illuminarono in modo inequivocabile mentre si avvicinava alla scacchiera in legno pesante e prendeva uno dei pezzi, la Regina, per studiarla con attenzione.

«Che notevole pezzo d’artigianato hai qui, Mikaela… è tua la scacchiera?»

«Sì, è mia… me l’ha regalata Yuu-chan, l’ha trovata in un mercatino privato, gli eredi di una proprietà stavano vendendo tutta la roba che avevano trovato nel magazzino. Giochi a scacchi anche tu?»

«Oh, è davvero tanto tempo che non gioco… lo facevo quando ero un bambino. Mi ha insegnato un amico.»

«Perché non facciamo una partita?»

«Uh? Ma io non sono un gran giocatore, davvero.»

«Non puoi essere peggio di Yuu-chan, che è il solo con cui posso giocare.»

«Beh… allora, perché no?»

Ferid rimise al suo posto la Regina dei pezzi bianchi, raffigurata come una nobildonna dall’abito bianco e blu. Mika si affrettò a versare il té e a mettere i tramezzini con salmone e avocado in un piatto, poi avvicinò il carrellino al tavolo come facevano sempre lui e Yuu quando mangiavano qualcosa giocando: non succedeva più da qualche tempo ed era passato parecchio dall’ultima volta che aveva affrontato un avversario che non conosceva.

«Visto che ti attiravano i bianchi, prendili tu.» gli disse, indicandogli la sedia da quel lato. «Prego.»

«Sembra che ti piacciano gli scacchi, Mikaela. Ti sei entusiasmato.»

Suo malgrado Mika sorrise mentre sedeva di fronte a lui.

«È vero… in realtà mi piacciono. È il mio gioco preferito… anche se…»

Ferid si bloccò mentre prendeva una delle tazze dal carrello.

«Anche se?»

«Mi chiedevo se volessi giocare alle mie regole.»

Ferid lo guardò sorpreso per un attimo, ma poi mise dello zucchero nel tè e sorrise con una certa dose di malizia.

«Mh, non posso proprio dire di non essere incuriosito… quali sono le tue regole?»

«La verità. Voglio un tuo segreto per ogni pezzo che ti prendo.»

Mika sorrise più naturalmente possibile: non voleva che pensasse che fosse un modo creativo per imbastire un interrogatorio, ma quella variante del gioco era sempre stata in grado di rendere divertenti anche le partite con avversari non alla sua altezza.

«Va da sé che io ti dirò i miei quando prenderai un mio pezzo. Più vale il pezzo, più importante dev’essere il segreto.»

«Oh, e come farai a sapere se sto inventando o se sto dicendo una cosa vera?»

«Sei qui davanti. Ti guardo negli occhi. Saprò se menti.»

Ferid tese un sorriso se possibile ancora più malizioso e lo fissò negli occhi.

«Sono stato partorito da un topo blu su una mongolfiera in volo.»

Mika si sentì come se lo stomaco gli fosse improvvisamente caduto fuori dal corpo.

La lettura del linguaggio del corpo era la sua specialità, era una dote sviluppata fin dalla tenera età per capire se dovesse aspettarsi dei guai dai genitori instabili che aveva avuto e poi affinata con studi personali e letture specifiche; ne voleva fare il suo cavallo di battaglia quando fosse diventato un poliziotto ed essere affidabile quanto e più di una macchina della verità… ma da quello che vedeva, dai segnali che Ferid mandava, sembrava che l’assurdità che aveva appena detto fosse vera.

Com’è possibile dire una cosa simile e non mandare neanche uno dei segnali della menzogna?

Ferid continuò a sorridere alla sua costernazione e prese un sandwich.

«Ci sto. Giochiamo alle tue regole, Mikaela. Sarà divertente.»

«Io… facciamo una prima partita tradizionale. Hai detto che non giochi da tanto, ti servirà a riadattarti al gioco.»

«Ah, che gentile~ molto bene, allora posso aprire?»

Mika fissò gli occhi sul volto di Ferid mentre osservava i pezzi scolpiti in toni blu, mangiando il sandwich. Lui mosse un pedone e il ragazzo replicò la sua mossa senza esitare, ma qualcosa dentro di lui continuava a ronzare come uno sciame di api furiose.

Quest’uomo non è trasparente come crede. Sa mentire, e sa farlo maledettamente bene… devo dirlo a Crowley. Deve stare in guardia.

Mika studiò l’uomo che aveva di fronte molto più attentamente del suo gioco, mentre la partita era in corso e i due ne approfittavano anche per consumare il pranzo. Fu molto confuso da quell’osservazione, perché leggeva i segni dell’esitazione, del nervosismo, dell’euforia quando riteneva di aver trovato una strategia o una scappatoia di gioco: era un normale, inesperto giocatore di scacchi.

Forse mi sono sbagliato, prima? È possibile che sia stato solo un caso che non trasparisse niente? O è adesso che sta fingendo e mi sta ingannando?

Mika decise che la partita preliminare non aveva altri spunti per lui e la chiuse nelle tre mosse successive.

«Oh!» fece Ferid quando Mika gli annunciò lo scacco matto. «Accidenti, non lo avevo proprio visto… beh, te l’ho detto che non sono un bravo giocatore. Non facevo una partita da più di vent’anni.»

«Giochi comunque meglio di Yuu, e lui ci prova ogni settimana.»

«Oh, non servono le lusinghe… ma sai, io imparo in fretta, se qualcosa suscita il mio interesse.»

«Vediamo se il tuo soggiorno da Crowley basterà per battermi.»

«Sei molto sicuro di te, Mikaela, non c’è dubbio~ ma tutti i comandanti sono sicuri della vittoria appena prima di essere colpiti e cadere.»

L’arte intimidatoria non gli manca. Non sembra l’uomo che Crowley mi ha descritto quando abbiamo parlato di lui.

Mentre riallineava re e regina dal mantello rosso, cavalli inalberati dal drappeggio purpureo, alfieri con la spada e dettagliate torri Mika ripensò a quella conversazione con il suo vicino. Gli aveva dipinto il suo nuovo coinquilino come una persona delicata dal carattere piuttosto fragile, introverso e restio alla conversazione, un amante dei libri dalla vita solitaria condivisa per lo più con i suoi gatti… ma l’uomo che aveva davanti gli sembrava tutt’altro che introverso; era sicuro, temerario in un certo senso, gli trasmetteva l’idea di una personalità forte che però anziché scontrarsi con quella degli altri preferiva adattarvisi come acqua.

Che avesse solo finto di essere così fragile per conquistare la fiducia di Crowley, che era un uomo che tutti sapevano non avrebbe mai voltato le spalle a una persona che credeva avesse bisogno di lui?

Avevano finito di mangiare ed era rimasto solo un po’ di tè da sorseggiare quando iniziarono la partita con la regola di Mika; la mossa di apertura di Ferid fu diversa, come ben più raffinata parve fin da subito la sua strategia. Mika fu il primo ad appropriarsi di un pedone e rimosse il soldato piegato sul ginocchio con due dita.

«Il pedone è un pezzo piccolo, perciò un piccolo segreto… dimmi il tuo hobby più strano.»

«Mhh, se questi sono i tuoi piccoli segreti chissà cosa mi chiederai per la mia Regina.»

«Ti consiglio di non perderla, se l’idea ti spaventa… dunque?»

«Hobby, uhm? Direi che quello più strano è… scrivermi in un quaderno tutti i passaggi più belli dei libri che leggo… tutte le battute e le scene più romantiche che trovo~»

Sembra che dica il vero.

Mika non replicò e mise il soldato sul bordo del tavolo. Era determinato a venire a capo di quel mistero entro la fine della partita.

Erano nel pieno del gioco, con diversi altri pezzi allineati ai bordi della scacchiera, quando Yuu fu di ritorno dalla lavanderia con il cesto della biancheria. Non sembrò risentirsi quando il suo saluto non ricevette risposta; i due giocatori erano concentrati, ma non necessariamente sui pezzi e sulla loro disposizione. Mika conquistò con una mossa non propriamente strategica il suo secondo alfiere.

«Dato che quello precedente era il tuo defunto marito, l’altro alfiere non può che essere un’altra persona estremamente importante per te.»

«Vuoi un’altra persona importante della mia vita, mh? Beh, quella persona è di certo Nicholas.»

«Chi è?»

Mika lanciò un’occhiata distratta a Yuu che si avvicinò a loro solo per prendere la teiera e riportarla in cucina, poi tornò con gli occhi a Ferid.

«Chi era.» lo corresse lui, e prese l’alfiere per osservarlo con un vago sorriso. «Nicholas Hunter era il nostro capo maggiordomo. Era un uomo paziente, pacato, con una voce tranquilla e avvolgente… sapeva farsi rispettare senza gridare e senza dare punizioni. Era il mio migliore amico… era il padre che non avevo, il fratello maggiore che non ho mai avuto. Mi consigliava dei libri da leggere e quando mi serviva il tè mi chiedeva a che punto ero arrivato e se mi piacesse.»

«Sembra un rapporto affettuoso, per un maggiordomo.»

«Mio padre non c’era mai, mia madre era sempre più malata… ero un bambino solo. Probabilmente fu questo il motivo per il quale si permise di comportarsi in modo così affettuoso con me… parlare con lui all’ora del tè era il miglior momento della giornata.»

Ferid posò l’alfiere accanto all’ultimo pezzo della fila – un pedone – con delicatezza.

«È stato Nicholas a insegnarmi a giocare a scacchi, era un appassionato… passava spesso le sue sere o giornate libere a giocare con me. Aveva una bella scacchiera di marmo, grande quanto questa, con degli splendidi pezzi in vetro… li ricordo ancora: la regina bianca aveva le ali d’angelo.»

«Un brav’uomo, direi… era anziano?»

«No, affatto… era sulla cinquantina quando iniziò a occuparsi di me al posto della governante. Qualche anno dopo si ammalò e si spense quando avevo nove anni compiuti da pochi giorni. Ah, fu un colpo difficile da incassare, Mikaela… ero di nuovo solo, e lo sono rimasto finché non ho conosciuto Claude.»

Lui annuì; si sentiva particolarmente vicino a quell’uomo contraddittorio nei suoi racconti di smarrimento e solitudine. Due sensazioni che gli erano state amiche in passato.

«Non dev’essere stato facile per te, Ferid. Capisco almeno in parte che cosa significhi.»

«Oh, Yuu, per cortesia, verresti qui un momento?»

Mika, perplesso da quell’uscita del suo avversario, guardò Yuu che sembrava sbalordito quanto lui. Abbandonò la teiera che stava risciacquando e si avvicinò a loro.

«Non mi chiedere un consiglio sulle mosse, io faccio schifo a scacchi!»

«Oh, no, no, volevo solo che tu assistessi.»

«A cosa?»

Ferid usò la sua regina per tagliare in diagonale la scacchiera e la posizionò, facendo sentire una leggera stretta allo stomaco a Mika, al posto della sua controparte in abiti rossi.

«Scacco matto.»

«No, non lo è…» fece Yuu incerto, e aggrottò le sopracciglia studiando la scacchiera.

«Certo che lo è… vero, Mikaela?»

Mika scandagliò la scacchiera, ma sapeva che aveva ragione: la sua prima mossa era obbligata, doveva tagliare dal gioco la regina bianca per evitare lo scacco matto alla mossa successiva, ma quella lo avrebbe messo spalle al muro e sarebbe stato matto in tre mosse. Ferid lo sapeva, ne era sicuro, e per questo voleva che Yuu assistesse alla vittoria.

Mika sospirò. Normalmente si sarebbe arreso subito, ma…

«Ora, quale segreto può valere questa regina…?»

«Risponderò alla fine della partita.»

Ferid fu palesemente sorpreso e Mika spazzò via la regina in veste blu con la sua ultima torre rimasta. Sorrise con una vaga amarezza, tenendo il pezzo in mano, mentre lui faceva la mossa successiva secondo lo schema che immaginava stesse seguendo e così chinò il suo re e si arrese.

Yuu sembrava un bambino che vede per la prima volta una candelina a scintille su una torta.

«Pazzesco! Ferid, hai vinto?!»

«Oh, sì… ma ho barato.»

«Uh?»

Ferid fece un sorriso e guardò Mika.

«L’ho ingolosito. Gli ho raccontato un segreto bello succulento con il primo alfiere… nella speranza che sarebbe stato abbastanza curioso da lasciarsi tentare dal secondo alfiere che gli ho messo proprio dove volevo che portasse quel cavallo. Lo ha fatto a discapito della sua strategia micidiale e ho vinto.»

«Mi hai imbrogliato, Ferid.»

«Sì, l’ho fatto… ma il segreto è vero: Claude era davvero la persona a cui devo di più nella mia vita.» disse lui, e rigirò la regina tra le dita. «Ora posso riscuotere il segreto di questa regina?»

«Mi sembra corretto, dopotutto l’hai presa.»

«Una regina è il pezzo più importante… quindi… perché non mi dici la ragione di tutti quei tuoi libri sulle sette?»

Yuu gli lanciò un’occhiata nervosa, ma Mika era pronto ad affrontare quell’argomento. Dopo così tanti anni scappare dal passato non era una soluzione che si sentiva di applicare.

«I miei genitori erano entrambi dentro una setta religiosa quando siamo nati io e mia sorella Carmen… lei aveva due anni più di me. Era una sorta di fondamentalismo cristiano, quello dei Figli della Virtù, con regole molto severe. Il loro capo era un egomaniaco manipolatore, che asseriva di essere un profeta di Dio…»

«Sì, conosco i Figli della Virtù. Conosco quasi ogni libro del catalogo, l’ho letto anch’io.»

«Quindi sai che nel loro delirio gli adepti furono tutti convinti che alcuni dei loro figli fossero reincarnazioni di angeli… compresi gli angeli caduti.»

«Mika, non sei obbligato a raccontarlo, anche se stavate giocando con le verità.» l’interruppe Yuu. «È una storia… tua. È una cosa privata.»

Si sforzò di produrre un passabile sorriso per Yuu.

«So che non sono obbligato, ma non ho niente di cui vergognarmi, Yuu-chan… non più.»

Non l’ho mai avuto, ma erano così bravi a farti pensare quello che volevano.

Mika passò le dita sulla fila di pezzi che aveva rubato al suo avversario, ma tenne gli occhi fissi su quelli celesti di Ferid.

«Convinsero mia madre che io e mia sorella fossimo due angeli caduti incarnati, e che per questo eravamo ribelli, piangevamo di notte e Carmen aveva l’asma. Per loro, un figlio meno che perfetto era un demonio, non poteva essere creatura di Dio.» proseguì Mikaela, e si fermò per farsi coraggio per la parte più cruenta della storia. «Uno dei fedelissimi del capo, insieme a mio padre… loro… uccisero Carmen, convinti che fosse la volontà del Signore, e se non fosse stato perché avevo bagnato il letto e stavo cercando di asciugare il lenzuolo in cortile senza che i miei se ne accorgessero avrebbero ucciso anche me.»

«Vuoi dire che non ti hanno trovato lì? È per questo che non ti hanno ucciso?»

La mancanza di vistose ed esaltate reazioni di orrore fu rincuorante per Mikaela. Era abituato a occhi sgranati, smorfie, bocche nascoste da mani, espressioni di raccapriccio, di incredulità e persino di rabbia seguita da vuote critiche tracimanti di vendetta nell’ordine di “avrebbero dovuto fargli l’iniezione” e opzioni di morte meno dolce.

Trovare negli occhi di Ferid una traccia di tristezza inespressa a voce e gesti gliela fece percepire come un’empatia più profonda e più sincera delle molte reazioni vistose e proseliti di sedicenti giustizieri. Era tranquillo nel raccontargli la storia. Non si pentì di aver voluto quella partita di verità.

«Sì. Mio padre entrò nella stanza, ma io ero fuori e vidi l’altro uomo portare fuori Carmen e metterla nel bagagliaio della macchina. Sono scappato via e al mattino mi sono imbattuto in una signora che portava in giro il suo cane, credo di averle detto che avevano ucciso mia sorella, ma non lo ricordo. Ero in stato di shock e non ricordo neanche come arrivai dalla polizia, credo mi ci abbia portato quella signora.»

«Quindi è per questo che ti interessa la psicologia delle sette… una di quelle ha segnato la tua vita.»

«Sì. Non ricordo nulla del processo, non ho testimoniato, ero troppo piccolo. Quello che ti ho raccontato l’ho riscoperto da adolescente, trovando vecchi articoli, libri, e riparlando con chi era nella polizia allora.»

«Capisco che sia stato tremendamente difficile venirne fuori. Sei un ragazzo forte.»

«Chi non è mai stato parte di una setta non capisce… pensa che siano comunità di gente toccata che prega e lavora come fossero in un monastero, ma non è così. Sono sottomessi al loro leader, gli viene tolta la libertà e la volontà… è una forma di schiavitù. Hanno catene che non si vedono ma forti abbastanza da trattenerli.»

Ferid sorrise, contro ogni previsione.

«Capisco perché Crowley si fidi tanto di voi. Tu sei un ragazzo intelligente… emotivamente intelligente, che è ancora più raro a trovarsi. Sì, tu ce l’hai.»

«Ce l’ho che cosa?»

«Hai un dono raro. Crescendo così sarai un albero in grado di offrire frutti a tante persone. Salverai tanti altri che, come i tuoi genitori, sono schiavi con il cuore alla catena.»

Mika non trovò parole per replicare una simile intensa affermazione, sconvolto di quale travolgente effetto ebbero su di lui. Yuu invece fece uno smagliante sorriso.

«Visto? Te lo dico sempre anch’io! Mika è speciale, io l’ho capito dalla prima volta che l’ho visto!»

«Ah, sì? E com’è che vi siete incontrati?»

«Ferid

«Mh?»

Ferid si voltò verso Mika e lui gli mostrò la dama dal mantello blu che teneva in mano.

«Non stai dimenticando che anch’io ho preso la tua regina, vero?»

«Uhmm, che cosa mai mi chiederai? Ti ho già detto dove sono nato, di Nicholas, di Claude… non ho altri grandi segreti…»

«Raccontami la tua esperienza sessuale più imbarazzante.»

«MIKA!»

Mikaela voltò lentamente la testa verso Yuu, che come al solito aveva messo su l’aria scandalizzata di un bambino davanti a un argomento che invece era senza dubbio nelle sue corde.

«Beh? Che c’è? Siamo tutti adulti qui.»

«Ferid, non rispondergli, Mika fa queste domande per scherzo!»

«Beh, no, Yuu, è evidente che è una domanda alla quale esige una risposta… solo, mi domando che cosa intenda per imbarazzante.» ponderò Ferid picchiettandosi il mento con l’indice. «Intendi imbarazzante nel senso che qualcuno ha fatto qualcosa di ridicolo, o che mi hanno visto, o che ho fatto qualcosa di estremamente perverso, o…?»

«Io non voglio sentire, vado a lavare i panni!»

«Li hai appena lavati.» gli fece notare Mika senza nemmeno guardarlo.

«Lavo quelli di Crowley!»

«O forse una che è stata una cilecca pazzesca?»

«Raccontami quella che secondo il tuo giudizio è stata la più imbarazzante.»

Mika non riuscì a evitare di farsi sfuggire una sottile risata quando Yuu infilò veramente la porta e se ne andò: non dubitava che sarebbe veramente andato a prendere la biancheria del vicino e avrebbe passato un’altra ora di sotto in lavanderia. Ferid guardò la porta appena chiusa e poi il suo ospite biondo.

«Vuoi veramente la risposta a questa domanda? Perché purtroppo credo che non sarà divertente ascoltarla.»

«Nemmeno il segreto della mia regina è stato divertente da sentire. Se vuoi rispondere io ti ascolto.»

«Oh, te lo racconterò, se vuoi… ma dato che sei così cortese da darmi l’opzione del silenzio, prima ti farò un regalo e ti spiegherò perché quella frase del topo sulla mongolfiera ti sembrava vera.»

Mika lo fissò, senza la certezza di essere riuscito a mascherare lo stupore. Si era accorto che quella contraddizione tra l’impossibilità della frase e la sincerità dei segni lo aveva impensierito per tutto il tempo?

«Me l’ha insegnata un esperto di linguaggio del corpo… o meglio, durante un suo seminario ci ha fatto creare una frase insensata da usare come chiave per tutte le sue lezioni. È diventata come uno stimolo-risposta: ogni volta che la dico qualsiasi azione o reazione involontaria del viso e del corpo sono come inibite.»

Mika sbatté le palpebre più volte, scioccato dall’esistenza di una simile possibilità. Ferid svuotò l’ultimo sorso di tè nella sua tazza.

«Purtroppo non sono così bravo da riuscire a farlo quando mento su cose importanti, perché divento lo stesso nervoso. Avrei dovuto continuare il suo seminario, ma Las Vegas è un po’ lontana per andarci così spesso.»

«Vuoi dire che qualcuno può insegnare a inibire i segnali inconsci?»

«Te l'ho appena dimostrato, no? Ti farò avere le date dei suoi prossimi seminari, se vuoi. Credo che impareresti moltissimo da lui.»

«E come ti è venuto da dire una frase come “sono nato da un topo blu”?»

«Beh… non lo so, mi ha chiesto una cosa assurda e io l’ho detta. Ero nervoso, è venuto a chiederlo a me per primo tra una trentina di persone, credevo di vomitare.»

Quindi è questo il motivo? Ha imparato una tecnica psicologica basata su stimolo-risposta e la usa per dimostrare che è perfettamente in grado di mentire in modo convincente... senza poi saperlo fare? Usa questa strategia per farti pensare che non tutto quello che dice di vero lo sia? Ma se le cose stanno così, tutto quello che mi ha raccontato durante la partita è vero?

Mika occhieggiò i pedoni bianchi, allineati; non ricordava per quale esattamente di quelli aveva posto una domanda di poco conto come la cosa che più lo metteva di buonumore. Una domanda banale alla quale – come ai pedoni sulla scacchiera – dava un peso relativamente insignificante, ma alla quale Ferid aveva risposto sinceramente che era il sorriso di Crowley a illuminare la sua giornata più di qualsiasi altra cosa.

«Quindi vedere Crowley sorridere ti fa davvero quell’effetto?»

«Oh, mi rende molto felice, sì. Quando lo vedo penso che se è ancora qui è per merito mio, e allora… tutto il mio dolore, tutta la fatica che ho fatto per continuare a vivere quando non volevo più farlo, acquistano un senso. Un bellissimo senso.»

«Per merito tuo? Che significa?»

«Oh, non ve l’ha detto? Che crudele da parte sua!» protestò Ferid con un tono da bambino.

«Detto che cosa?»

«Sai della sparatoria dello scorso luglio, no?»

«Sì, certo. Crowley ha rischiato la vita seriamente…»

«Due colpi non sono arrivati al cuore perché portava un robusto amuleto sotto la maglietta, lo Scudo di San Michele. Gliel’ho dato io quella mattina, quando è stato in negozio.»

Il bizzarro solletico che Mika sentì espandersi dallo stomaco fino al petto gli era poco familiare: tendeva a tenere ben controllate le sue emozioni e a calibrare l’empatia, ma non poté fare niente per tenere a bada l’enorme emozione che provava.

Aveva conosciuto la persona che aveva salvato Crowley dalla morte certa e inevitabile, quella che senza saperlo si era accollata il suo ruolo e protetto la nuova famiglia che aveva.

«Quindi… molto egoisticamente, la sua presenza mi fa sentire importante. È una sensazione che mi è sconosciuta, ma mi piace molto. Mi fa sentire orgoglioso, e anche l’orgoglio è qualcosa di cui leggevo soltanto nei libri, fino a poche settimane fa.»

Mika esitò qualche secondo, indugiando sul suo volto, poi sorrise e prese a ricollocare i pezzi al loro posto.

«Non te l’ho ancora detto, ma ora posso farlo. È un piacere conoscerti, Ferid.»

Ferid rise con vago imbarazzo a quella sua uscita, ma continuò a sorridere mentre ricomponevano la scacchiera. Mentre iniziavano una terza partita Mika si rese conto di aver allentato le proprie difese, ma per la prima volta nella vita il pensiero di esporsi non lo riempì di angoscia.

 

 

Crowley faticò ad aprire la porta con le cose che aveva accatastate tra le braccia, tra le quali una grossa teglia di pasticcio di pollo e prosciutto di Bernadette e un vistoso mazzo di fiori, e la spinse con il ginocchio per spalancarla.

«Sono tornato… prima che ti emozioni, Ferid, i fiori sono per te, ma non li ho comprati io, sono…»

Si bloccò quando vide il soggiorno e la cucina vuoti, con un certo disordine sparso sui ripiani.

«Ferid?»

Posò la teglia di cibo sul tavolo insieme ai fiori, alle chiavi, al libro e alle fotocopie dei fascicoli che si era portato dietro, ma nel frattempo non ottenne alcuna risposta. Attraversò la casa e trovò la gatta acciambellata sul letto, ma non il padrone.

«Ferid, sei di nuovo ammollato nella vasca? Lo fai apposta per tentarmi o…?»

Ma la vasca era vuota come tutto il resto della stanza da bagno. Cominciò seriamente a preoccuparsi.

Ma dov’è andato? Mica si sarà nascosto nell’armadio, no?

Tornò in cucina e solo quando vide il contenitore dell’insalata che aveva lasciato Mika ebbe l’idea di cercarlo dai vicini; non senza preoccupazione, dato che si chiedeva cosa potesse essere successo per convincerlo ad andarci. Andò alla porta del numero ventitré e bussò con una sgradevole sensazione di ansia che non migliorò neanche quando il solito sorridente Yuu gli venne ad aprire.

«Ehi, Crowley!»

«Ciao, Yuu… senti, Ferid non c’è, hai…?»

«Oh, è qui.» disse lui, e indicò con il pollice il suo soggiorno. «È tutto il pomeriggio che lui e Mika giocano a scacchi.»

«Tutto il pomeriggio che cosa?»

«Che Ferid e Mika giocano a scacchi, hai sentito bene.»

Quasi Yuu leggesse la sua perplessità crescente, si spostò esattamente nel momento in cui Crowley decise di irrompere in casa e vedere con i suoi occhi: per quanto incredulo fosse Ferid era proprio seduto al tavolino della scacchiera con Mika ed entrambi erano così presi dalla partita che non uno dei due pensò di alzare la testa verso il quarto incomodo.

Questa poi!

«Non so se gli scacchi siano così interessanti o se sia una gara di resistenza, non so come facciano a bere così tante tazze di quella sciacquatura di piatti e non dover fare pipì.»

«Ma com’è successo, esattamente?»

«Non ne ho idea.» ammise Yuu scrollando le spalle. «Mika è andato di là da te a vedere se aveva bisogno di qualcosa e quando è tornato ha preparato il tè e ha detto che mi dovevo vestire perché aveva invitato Ferid.»

«Ha del… miracoloso.»

«Sì, è meraviglioso, ma quando chiacchierano non sento la televisione!»

«Quando chiacchierano?»

«Sì. Oh, sì, chiacchierano. Come due ragazzine a un pigiama party.»

«Guarda che ti sento, Yuu-chan.» disse Mika, che con una mossa aveva istantaneamente rabbuiato l’espressione di Ferid. «Ciao, Crowley.»

«Ah, ti sei accorto che ci sono.»

«Certo, ma non mi potevo distrarre nel momento cruciale.»

Ferid, dal canto suo, sospirò con aria imbronciata e depose il suo re con un gesto stizzito, prima di lanciare un’occhiata a Crowley. Un momento dopo si allarmò come se fosse stato fissato da un poliziotto mentre stava svaligiando una cassa aperta.

«Sei già qui? Che ore sono?»

«È quasi ora di cena.»

«Ops… scusami, Crowley, mi sono messo a giocare e…»

Crowley scambiò un’occhiata confusa con Yuu e tornò a ricambiare lo sguardo di Ferid.

«Scusarti di che cosa?»

«Non ho preparato niente per la cena…»

«Non mi pareva di avertelo chiesto.» osservò Crowley scrollando le spalle. «Bernadette mi ha dato del pasticcio di pollo e prosciutto, quindi per stasera siamo a posto.»

«Ah, a questo proposito, ci sarebbe una cosa che dovrei dirti…»

«Niente che non possa aspettare domattina, no?» l’interruppe Mika, e sorrise. «Stasera è la tua sera documentari, vero, Crowley? Stai pure tranquillo, Ferid può cenare da noi. Farò il cous cous di pesce, è una mia specialità.»

«Oh, sembra buono, Mikaela. Davvero posso restare?»

«Non mi hai ancora battuto senza imbrogliare, no?»

Crowley riusciva a stento a credere che Ferid, che trovava così difficile gestire relazioni sociali normali anche con le persone più tranquille e alla mano, riuscisse ad andare così d’accordo proprio con un tipo diffidente e riservato come Mika, che persino lui aveva fatto fatica a conquistare anche con il sostegno di Yuu.

A quest’ultimo lanciò un’occhiata e un vago sorriso, ma lui sembrava essere molto contrariato.

«Crowley, ti faccio compagnia io per cena! Pasticcio di pollo e prosciutto, eh? Mi sa che non l’ho mai assaggiato, ma se dici che è buono mi fido!»

«Eh? Uh… beh, lo è…»

«Ottimo! Mika, torno più tardi, eh?»

«Non dare fastidio a Crowley, mi raccomando.»

Yuu gli passò davanti e puntò alla porta accanto; i due giocatori si erano messi a riordinare la scacchiera mentre quello biondo iniziava a illustrare la sua ricetta per il cous cous, quindi Crowley non li interruppe e richiuse la porta uscendo. Yuu sembrava insolitamente torvo.

«Che è successo, Yuu? Ferid ha combinato qualcosa?»

«No, no, niente.» fece lui, ficcandosi malmostoso le mani in tasca. «No, figurati… solo che…»

«Che?»

«È irritante! Finora solo io sono stato quello a cui Mika ha raccontato i fatti suoi, l’unico di cui si fida, e gli ha raccontato tutto quanto! Lo conosce da…»

Guardò l’orologio sulla parete.

«Nemmeno cinque ore!»

«Mmh… beh, forse capisco perché è successo.»

«Cioè?»

«Beh… Mikaela e Ferid sono simili. Evidentemente è istintivo, come per gli animali… si riconoscono come parte della stessa razza.»

«Tu dici?»

«Sono stati tutti e due traditi dai loro genitori in maniere simili… si sono ritrovati tutti e due senza casa e senza famiglia, alloggiati dove c’era un posto per loro… ma almeno Mikaela ha trovato te. Lui non è stato così fortunato da trovare una persona che riuscisse ad alleviare la sua solitudine per tutti questi anni, ma sono tutti e due ancora diffidenti verso gli altri per via del loro passato.»

Yuu ponderò la questione accarezzandosi il mento.

«Mh, può essere, ma pensavo che due persone timide non riuscissero a parlarsi senza qualcuno che facesse da ponte.»

«Ma Mikaela e Ferid non sono timidi. Sono solo poco inclini a fidarsi delle persone, è una cosa diversa.»

Non poteva sapere che cosa fosse passato nella testa di Yuu, ma qualsiasi cosa fosse gli aveva fatto arrossire le orecchie a velocità allarmante.

«S-suppongo di sì.» concesse con fare sbrigativo. «Allora Ferid non è un tipo timido?»

«Ti basti sapere che la prima volta che l’ho visto mi ha detto che trovava il mio corpo così bello che pensava meritasse di durare in eterno.» gli raccontò Crowley con una certa ilarità. «La seconda volta mi è quasi saltato in braccio e la terza volta ha provato a baciarmi.»

«Salute!»

«Non è un tipetto noioso, Ferid; affatto. Solo è diffidente, e non è tanto stabile. Ha un umore altalenante, insomma.» precisò quando vide le sopracciglia sottili di Yuu aggrottarsi. «A volte è molto chiuso, non vuole parlare di quello che sente e che pensa, e si incupisce. Altre volte invece ha proprio bisogno di buttare fuori tutto, e in quei momenti è totalmente trasparente. Lui vorrebbe qualcuno con cui parlare di tutto, qualcuno di cui si fida, ma ha avuto sfortuna finora e ha paura di esserlo sempre.»

Crowley mise i fiori dentro un bricco di latta che non usava mai e Yuu, assorto in un silenzio meditabondo, tolse dal ripiano la ciotola dell’insalata e il bicchiere lì abbandonato.

«Beh… si assomigliano, sì… anche Mika era così quando è arrivato in orfanotrofio. Non parlava con nessuno, non voleva giocare con nessuno, e stava sempre seduto negli angoli.»

«Negli angoli?»

«Sì, sai… negli angoli delle stanze. Rannicchiato per terra, o nel posto a sedere più vicino all’angolo, lontano dalle porte e dalle finestre… sembrava che si aspettasse che suo padre sarebbe entrato e l’avrebbe colpito alla schiena se solo gli avesse dato l’occasione. Una ragazzina più grande di noi, lì in orfanotrofio, lo chiamava “il ragno”.»

«Il ragno? Ah, perché stava negli angoli?»

«Già.»

Crowley prese i piatti li riempì di pasticcio. Anche se sapeva che i suoi vicini prima di essere una coppia di fidanzati erano stati una coppia di fratelli nello stesso orfanotrofio a Squall’s End, il distretto più orientale della città dalle antiche radici francesi, non aveva molti dettagli di com’era stata la loro vita quotidiana all’istituto Hyakuya.

«E come siete diventati così inseparabili? Non credo che tu me lo abbia mai detto.»

«Oh, l’ho preso per sfinimento! Sono andato a parlarci tutti i giorni di continuo, anche se lui non rispondeva, e a chiedergli di fare insieme le cose più sceme che mi venivano in mente. Non che lui mi rispondesse, eh, figurati.»

«E quindi com’è successo?»

«All’improvviso.» rispose Yuu, come se non ne fosse ancora certo lui stesso. «Un giorno uno dei ragazzi è stato dato in affidamento a una famiglia, era quello che stava in camera con me, e Mika è rimasto turbato. Non so se avesse paura dell’affidamento o se avesse ripensato ai suoi e a Carmen… ma la notte me lo sono trovato in camera che singhiozzava come un disperato! C’è voluto un sacco per calmarsi e alla fine ha dormito nel mio letto. Da allora siamo diventati amici.»

«Ma perché è venuto a piangere proprio da te?»

«Te l’ho detto, l’ho sfinito! A quel punto lo sapeva che se c’era qualcuno che l’ascoltava ero di sicuro io!»

«Una tecnica abbastanza brutale. Non penso di poterla usare con Ferid. Mh… e poi comunque, Ferid parla. Parla un sacco. Molto più di me.»

«Eravamo dei bambini, Crowley! Tu hai le tue tecniche e a quanto ne so funzionano benissimo, c’è un via vai qui che consumi gli zerbini!»

«Consumo gli zerbini perché compro quelli da due dollari e novantanove.»

«Sai che cosa intendo dire!»

«Sì, lo so che cosa intendi, ma non ho dei problemi a portarmi a letto Ferid. Se volessi potrei andare di là, prenderlo in braccio, portarlo in camera e farlo anche subito, lui non mi direbbe di no, e se lo dicesse sarebbe una specie di capriccio.» precisò lui, ficcando il piatto nel microonde. «No, sto solo cercando di capire.»

«…Di capire cosa?»

«Se… mhh…»

Non so se ho voglia di dire al mio vicino diciottenne che io con dieci anni in più non so chiarirmi le idee su un uomo.

«Se ti piace o no?» buttò lì Yuu.

«So che mi piace, ma… Yuu, tu come sai che Mikaela è la tua anima gemella?»

«Non so se siamo anime gemelle.» rispose lui, spiazzandolo. «Ma so che è l’anima con cui voglio stare, questo sì, e mi basta.»

Yuu sfilò il piatto dal microonde e ci mise il secondo.

«Come posso spiegarlo… lui tira fuori il meglio di me, e io credo di tirare fuori il meglio di lui… e poi, conosciamo tutti i lati peggiori che abbiamo e ormai… beh, ci piacciono anche quelli, possiamo dire! Non abbiamo segreti e ci diciamo sempre tutto quello che non va, se capita, così litighiamo.»

«Litigate… di proposito?»

«Fa bene! Mika diventa insopportabile se non parla subito della cosa che lo infastidisce, gli fa ribollire le viscere per ogni scemenza! No, no, molto meglio tirargliela fuori subito, come il veleno di vipera.»

Crowley si mise in bocca una cucchiaiata di pasticcio, pensieroso.

Non pensavo che io e Yuu fossimo così diversi nel gestire le nostre questioni personali… e sembra che lui lo faccia anche molto meglio di me.

«Ma penso che tu non possa fare lo stesso con Ferid… voglio dire, vi conoscete da poco, io e Mika ci conosciamo da undici anni, e li abbiamo passati insieme giorno per giorno. Non è mica una cosa da ridere, c’è un gran lavoro dietro! Ho imparato a conoscerlo e mi sono adattato… e lui si è adattato a me. Un po’ tocca farlo per forza.»

«Sì, anche questo è vero… ti invidio, sai?»

Yuu lo guardò perplesso mentre prendeva il suo piatto dal microonde.

«Tu, invidiare me?»

«Beh, sì. Invidio un po’ tutti voi, anche Ferid. Anche se per poco, anche lui si era costruito un rapporto incredibilmente intimo e profondo con suo marito… sembra che io sia il solo a non saperlo fare… a non sapermi adattare, a non riuscire a passare sopra i difetti dei miei partner. Chi lo sa, forse io non sarò mai in grado di sperimentare una relazione come quella che avete tu e Mikaela, o come quella che Ferid ha avuto con Claude.»

«Ma che, pensi che io o Mika lo riusciremmo a fare con chiunque?» bofonchiò Yuu mentre mangiava. «Ci riuscirai anche te, quando penserai che ne vale la pena! Se no una storia diventa solo una massa enorme di stress e frustrazione, ecco tutto!»

Crowley lo guardò con aria stralunata, chiedendosi se durante la notte un alieno replicante avesse preso il posto di Yuu: non sembrava il ragazzo un po' infantile, iperentusiasta e dalla visione semplice della vita che credeva di conoscere.

Cinque ore con Ferid ed è invecchiato cinque anni?

«Ma Ferid ti dà un sacco di pensieri, Crowley, non è che stavolta ti vuoi sistemare? Eh?»

«Io penso ogni volta di volermi sistemare, ma non è mai la volta buona.»

«Non intendevo sistemarti tra le gambe di qualcuno, Crowley!»

«Ehi.» fece lui, piccato.

«Non fare quella faccia! So che è divertente e tutto, ma ormai sarai in quell'età in cui cominci a pensare che sbronzarsi al pub ogni venerdì, mangiare schifezze, lavorare tantissimo, passare gli amanti come sfogliassi un catalogo e tornare a casa senza trovare nessuno non è quello che speri di fare per il resto della vita!»

«Chi sei e che cosa ne hai fatto di Yuuichiro Amane?»

Yuu trattenne rumorosamente il fiato.

«Mi hai scoperto? Come hai fatto?»

«Yuu è il mio giovane pupillo, lui viene a chiedermi di insegnargli i trucchi che conosco, non mi viene a dire di mettere la testa a posto!»

Yuu scoppiò a ridere e puntò i suoi intensi occhi smeraldini su di lui.

«Forse te lo sto dicendo perché è ora di ricambiare tutti i consigli che mi hai dato finora.» disse, poi scrollò le spalle e cambiò espressione in una molto simile a quella di un folletto perfido. «O forse te lo dico solo perché stai diventando vecchio!»

«Guarda che ti rispedisco di là al pigiama party.»

«No, tutto ma non il pigiama party, signore, mi faccia restare!»

Con quello scambio di battute e la risata del ragazzo il discorso venne chiuso, i due si misero a mangiare sul divano accordandosi su quale documentario guardare dalla serie di programmi registrati e quando parlarono di nuovo stavano commentando il ritrovamento eclatante di un enorme quanto sconosciuto animale marino sulle spiagge della Nuova Zelanda.

 

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Capitolo 19
*** Prima di New Oakheart ***


Crowley aprì gli occhi domenica mattina con la sensazione di aver dormito per svariati giorni di seguito e quasi intontito nello stesso modo. Ci mise parecchio a registrare il livello di luce che filtrava dalla finestra e a ricollegarsi con gli ultimi pensieri coscienti che aveva avuto prima di dormire, e quando ci riuscì si voltò di scatto verso l’altra metà del letto. Era vuota ma non intatta, e questo lo portò a studiare la stanza: solo quando individuò i vestiti accuratamente piegati sulla sedia e l’assenza della vestaglia si rilassò e lasciò ricadere la testa sul cuscino.

Allora è tornato… non l’ho sentito mettersi a letto.

Sentì allora un acciottolio dalla cucina che identificò con il tintinnio di una tazza sul piattino e poi una voce familiare, appena udibile sul rumore della pioggia, che canticchiava. Quasi nello stesso momento identificò un forte odore di caffè e uno più dolce, fruttato.

Sembra porridge, o qualcosa del genere… sta preparando la colazione?

Fissò ancora insonnolito il soffitto mentre i pensieri saltavano da una parte all’altra senza un apparente senso, come un grillo esagitato.

Con tutti quelli che mi sono passati per casa la mattina abbastanza presto da farlo, nessuno mi ha mai preparato neanche un caffè… beh, a parte Connor, lui fa sempre le frittelle al miele. Chissà se è perché è un uomo goloso di dolci… non gliel’ho mai chiesto.

Spaziò alla ricerca di una volta in cui potesse avergli detto qualcosa al riguardo, ma la sua concentrazione era piuttosto fragile e si ritrovò a pensare a tutt’altro e dopo poco scivolò in un sonno costellato di frammenti sconnessi di ricordi e di sogni, dal quale riemerse solo quando un rumore che assomigliava moltissimo al tintinnio i posate contro vetro o porcellana arrivò da molto vicino al suo orecchio. Sentì il peso di Ferid schiacciare il bordo del materasso quando vi sedette, ma non aprì gli occhi.

«Detective Eusford~» disse la sua voce, curiosamente contraffatta e bassa. «Detective Eusford, sveglia~ sono quasi le nove del mattino~»

Crowley si sentì accarezzare la faccia, ma non dalle sue dita. Ci mise qualche istante a capire che doveva essere la zampa di Pandora.

«Svegliati, detective Eusford~» ripeté Ferid con quella vocetta, mentre le zampette della gatta prendevano a stuzzicargli la guancia e l’orecchio senza sosta. «Se non ti svegli subito metterò la mia pancia pelosa sulla tua faccia~»

Per qualche motivo Crowley trovò quella scenetta esasperante quanto divertente e suo malgrado sorrise. Le zampette continuarono a molestarlo ancora di più e capì che il marionettista si era accorto che era già sveglio. Infilò la testa sotto il cuscino.

«Mhh, Ferid… che modo orrendo di svegliare la gente…»

Un balzello sul materasso gli suggerì che la gatta doveva essere saltata via dopo essere stata usata come una marionetta dal padrone, che dal canto suo ridacchiò divertito e spostò il cuscino.

«Sorgi e brilla, mio principe, è un giorno senza sole se non ti alzi… infatti sta piovendo~»

«Ho sonno, voglio dormire fino a mezzogiorno.»

«Anche io vorrei passare tutti i miei giorni a leggere in veranda mentre guardo le stagioni passare, ma ahimè, non possiamo sempre avere tutto quello che vogliamo~» disse lui, e appoggiò il vassoio sul letto. «E soprattutto devi andare a messa~»

«No, non devo…»

«Invece sì, è domenica~»

«Ma non posso fare quello che mi pare, l’hai sentito il capitano, no…?» fece Crowley, e sbadigliò raddrizzandosi goffamente. «Se mi stanno dando meno turni in centrale è per stare qui a controllare te…»

«Se sono al sicuro da solo quando lavori per dodici ore per quale motivo non lo sarei per un’ora mentre tu sei a messa? Anzi, in definitiva…» ponderò lui con aria assorta. «Non pensi anche tu che iniziare a cambiare orari e abitudini in modo troppo vistoso potrebbe far pensare al Vampiro che lo fai per un motivo e di conseguenza portarlo dritto dritto qui da me?»

«Cosa ti fa pensare che il Vampiro controlli me? Cercava te, non me.»

«Il che è la stessa cosa.»

Crowley, che aveva appena preso la tazza di caffè, lo guardò prendendone un sorso: era ancora un po’ troppo intontito per seguire il suo ragionamento.

«L’hai dimenticato? Legge i miei diari, quindi lui sa chi sei e sa che sei qualcuno per me. Probabilmente ti controllerà, soprattutto se ti ha visto entrare a casa mia quando sono stato avvelenato. Certo, non sappiamo se questo sia successo, dato che la scorta non ha notato nulla, ma…»

«Hai scritto di me nel tuo diario?»

Ferid fu palesemente stupito da quella domanda.

«Ma è ovvio, no? Lo hai letto uno dei miei diari, lo sai che annoto pressoché tutto quanto, comprese le più stupide assurdità. Come potrei non aver scritto niente di un uomo come te? Oltre a essere un poliziotto a caccia del più famoso serial killer degli ultimi venti anni, eri anche l’uomo più bello che mi fosse mai capitato di incontrare… e con il quale io sia riuscito anche a parlare, figurati, eri l’evento del secolo

«Addirittura.»

Ferid strinse le spalle e prese la tazza del tè dal vassoio.

«Che vuoi che ti dica, Crowley… la mia è una vita deprimente.»

Crowley si accigliò appena.

«Ah, siamo passati dall’evento del secolo al minimo sindacale per emozionare una vita deprimente…»

«Ah, ti sei offeso?» gli chiese lui con un certo sorrisetto.

«Sì, da morire.» rispose il detective in tono noncurante, e prese a studiare meglio il vassoio. «Porridge?»

«Il meglio che la vita possa offrire dai fiocchi d’avena, no?»

Crowley, che stava prendendo una delle ciotole di porridge alla frutta, si bloccò con lo sguardo vacuo. Ferid lo notò e smise di sorridere.

«Che succede?»

«Sotto la neve a fiocchi…»

«Cosa? Neve a fiocchi?»

Ferid guardò dalla finestra seppure fosse coperta dalla tenda, ma il rumore contro il vetro era inconfondibilmente quello di grosse e pesanti gocce di pioggia.

«Che c’entra la neve?»

«Oh… niente, niente… solo… quando hai detto fiocchi mi è tornato in mente quello che stavo sognando… nh, più o meno…»

Crowley si massaggiò la fronte e chiuse gli occhi per cercare di rievocare il sogno che stava facendo, ma oltre a quell’accenno alla neve ricordava solo i lampeggianti della polizia… e non era neanche sicuro che appartenessero allo stesso sogno, perché quei lampi di luce avevano popolato i suoi incubi per molto tempo dopo la sparatoria nel West End.

«E c’ero anch’io~?»

«Uhm… non lo so… credo ci fosse qualcuno insieme a me, ma non so chi fosse… ah, lascia perdere, non è niente di importante. Faccio sempre dei sogni stupidi e me ne ricordo soltanto metà.»

«Quindi come sai che sono sogni stupidi? Se leggi solo metà di un libro non puoi dire che sia brutto o stupido.»

«Certo, ma non posso aprire i sogni e finire di leggerli, no? Quindi non ha senso stare a rimuginarci sopra.» replicò Crowley, e si mise in bocca una cucchiaiata di porridge. «Cavolo, Ferid, è proprio buono, sembra quello di nonna Susan!»

«Oh, davvero? Sono contento che ti piaccia.» disse lui sorridendo. «Nonna Susan è la moglie di tuo nonno, quello che ti è corso dietro nei campi?»

«Proprio quella… l’unica che conosco, i genitori di mia madre sono in Irlanda, non ci siamo mai incontrati. I tuoi nonni che tipi sono?»

«Ah, chi lo sa? I genitori della mamma non li ho mai conosciuti. Il padre di mio padre era un tipo austero, tipo un becchino, ma più cupo. Non gli piaceva avere a che fare coi bambini, e io lo ero l’ultima volta che è stato a casa nostra.» snocciolò lui con indifferenza, roteando il tè nella tazza. «La nonna l’ho incontrata solo una volta quand’ero molto piccolo, ma almeno mi mandava un biglietto di auguri ogni volta per il mio compleanno. Si chiama Nancy… o si chiamava? Onestamente, non so se sia ancora viva.»

«Non ti è mai venuto in mente di… chiamare tua nonna Nancy, o scriverle? Insomma, poteva essere una soluzione piuttosto che saltare su un aereo e attraversare l’atlantico per scappare di casa. Se ti aveva a cuore magari avrebbe potuto tenerti con lei.»

Qualcosa nella rigidità con cui Ferid accavallò le gambe tradiva un certo nervosismo. Non aveva mai pensato a quell’eventualità o le aveva scritto senza mai ricevere risposte?

«Mandare un biglietto una volta all’anno e accollarsi un nipote sono due cose parecchio diverse, non trovi?»

«Sì, ma… Ferid, avevi sedici anni, no? Perché non hai tenuto duro altri due anni, o… se volevi scappare di casa bastava allontanarti abbastanza, potevi andare in Scozia, in Irlanda… arrivare a Dover e attraversare la Manica, o semplicemente raggiungere il Surrey o qualsiasi altra regione e rintanarti per un paio di anni in una piccola città. Da dove ti è venuto di partire e arrivare fino in America?»

Ferid fissò i suoi occhi celesti dentro la ciotola e spiluccò dei pezzi di frutta, visibilmente a disagio, poi posò tutto sul vassoio.

«Fu un’idea di Bobby.»

«Bobby? Chi è Bobby?»

«Era il mio ragazzo, all’epoca… il mio primo ragazzo, ovviamente.»

«Il tuo ragazzo? Vuol dire che… Ferid, vuol dire che è stata una fuga romantica?»

«Se la vuoi mettere in questi termini…»

«Non finisci mai di stupirmi! Ma… dov’è finito Bobby, allora?»

Per un attimo temette di scoprire un altro cadavere eccellente nella vita passata di Ferid.

«Ah, se lo trovi fammi un fischio, Crowley, che una libbra di carne me la deve.»

«In che senso?»

Ferid si tormentò l’orecchino mentre prendeva la tazza di tè con l’altra mano. Aveva l’aria più irritata, triste e sofferente che Crowley gli avesse mai visto e non poté non domandarsi in quale vespaio si fosse messo.

«Ci siamo conosciuti alla fine dell’inverno e… beh, lui per me era una grande fonte di curiosità, non veniva dal mio stesso ambiente… era un ragazzo affascinante, che parlava come un incantatore, e baciava che… beh, questo è meglio non dirlo.» abbozzò, raddrizzando la schiena. «Io avevo quindici anni, vivevo da recluso in casa, e… beh, sai anche tu come si è a quell’età. Ero curioso, ingenuo, e non ho neanche pensato di resistergli, quindi in pochissimo tempo è diventato il mio ragazzo.»

«Tanti saluti al tuo mizuage.» commentò Crowley, incapace di tenere per sé quel pensiero.

«No, ma scherzi? No, noi… non siamo arrivati a quel punto subito, ma… beh, ci sono delle altre fasi prima, insomma…»

«Ooh. Precocetto, Ferid, nondimeno.»

Gli scoccò in quel momento l’occhiata più feroce di tutte quelle che Crowley aveva nella memoria di ventotto anni di esistenza terrena.

«Non te ne avere a male, hai recuperato splendidamente per un chiesarolo

«Ahi, questo tono era così tagliente che mi hai fatto male… ma quindi, eravate innamorati e lui ha pensato di scappare con te?»

«Mh… beh, lui aspettava di compiere diciotto anni per andarsene. Quando è successo mi ha chiesto di andare insieme a lui.»

Crowley tacque e bevve il caffè, preso dal racconto quasi quanto da un interessante documentario pur sapendo che il finale non sarebbe stato felice.

«Io ho deciso subito di andare. Non c’era niente che mi trattenesse, quindi ho preso tutti i soldi che mio padre teneva in una cassaforte nello studio e i gioielli di mia madre; tutto quello di valore che potessi mettere dentro una borsa l’ho preso e sono scappato con Bobby. Il giorno dopo eravamo già all’aeroporto di New Oakheart.»

«Okay, ma… come sei finito con quei ragazzi sotto quel ponte dove ti ha trovato il mio vecchio, se avevate anche i soldi?»

«Semplice: quando mi sono svegliato nel motel la mattina dopo Bobby se n’era andato, con tutti i soldi di mio padre, i gioielli di mia madre, quasi tutte le mie cose e i miei documenti, senza soffermarsi su quisquilie come la mia fiducia in lui, il mio amore e la mia verginità.»

«Ma che figlio di puttana!»

«L’ho detto anch’io, quella mattina. Era la prima volta che dicevo una parolaccia.»

«Ma perché non l’hai detto alla polizia? Se aveva diciotto anni aveva anche la responsabilità di te, lo potevano anche incriminare per abbandono di minore, oltre che furto e altro.»

«Ero un ragazzino in un paese straniero che non sapeva nemmeno se era entrato legalmente nel paese, e ti assicuro che in quella mattina mi è passato per la testa di tutto, compreso che mi avrebbero messo a Coniston non appena mi avessero visto… beh, non che sapessi che il carcere di qui fosse Coniston Island, ma comunque.» precisò scrollando le spalle. «Non sapevo che cosa fare e Bobby si è assicurato di fare tutto il possibile per mettermi nelle condizioni di essere spaventato di chiedere aiuto a chiunque. Non aveva neanche pagato la stanza, quel miserabile cane scabbioso.»

«E come se portarti fino qui per derubarti non fosse crudele abbastanza ti ha anche lasciato un bel ricordo deprimente della tua prima volta.»

«Vedi che cosa intendo dire quando dico che mi deve una libbra di carne? Robert Warren. Se lo trovi per me lo considererò un favore personale da ripagare in qualsiasi modo ti possa mai venire in mente, anche presenziare come catalizzatore di miracoli alla tua chiesa per il resto della vita.»

Crowley ebbe un’esaltante illuminazione per un momento, e piantò gli occhi sul volto di Ferid. Poteva essere l’ennesimo granchio, però più ci pensava su più sembrava avere un senso…

«Ferid, ti dispiace se ti faccio qualche domanda su Bobby?»

«Domande di che genere?»

«Per esempio… tu eri chiuso in casa, e hai detto che non era del tuo ambiente… allora come vi siete conosciuti? Sei uscito di notte, magari per andare in qualche posto?»

«Ah… beh, mia madre aveva la malattia del sole. Non si poteva esporre alla luce, quindi si è chiusa in casa al buio ed era sveglia sempre di notte… urlava quasi sempre come la pazza che era, quindi eravamo tutti svegli fino all’alba. È successo che una notte guardavo dalla finestra e ho visto un ragazzo attraversare il cortile… sono sceso a guardare e l’ho incontrato vicino alla stalla.»

«E vi vedevate sempre di notte?»

«Beh… sì. Lui riusciva a sgattaiolare fuori di casa di notte, e mamma attirava tutte le attenzioni della servitù con le sue crisi, quindi…»

«Quindi… né i tuoi né i suoi lo sapevano.»

«I miei no di certo, e penso neanche i suoi… ma perché?»

«Ferid, non trovi che quei glifi abbiano un po’ più senso, adesso?»

Ferid gli lanciò uno sguardo confuso, poi il suo viso perse il già poco colore naturale che aveva: aveva capito che cosa intendeva dire.

«Vi vedevate di notte in giardino, e in segreto… vi sarete dati un bacio, per non scendere in altri dettagli, tu hai preso dell’oro, e vi siete dati alla fuga… e poi… beh, me lo hai appena detto tu cos’è successo in quel motel. Non trovi che questi glifi raccontino la vostra storia?»

«Crowley… non vorrai dire che… pensi che Bobby sia il Vampiro di West End?»

«Che ne è stato di lui dopo che ti ha abbandonato così?»

«Non ne ho idea, io… sono andato a North End per arrivare all’ambasciata inglese e farmi riportare a casa, ma avevo paura della reazione dei miei e… sono rimasto… ma non ho mai più visto Bobby e non ho più avuto alcuna notizia di lui… non so nemmeno se sia rimasto o se sia tornato in Inghilterra, o sia partito per qualsiasi altra destinazione.»

«Che cosa manca nella storia?»

«Manca? In che senso, cosa manca?»

«Il Vampiro ha preso Samara, e le avrebbe lasciato un altro glifo se lo avessimo lasciato fare. Che cosa avrebbe scritto?»

«Io non lo so… quella notte è stata l’ultima volta che l’ho visto, per me la nostra storia si è conclusa così… e poi, perché mai Bobby dovrebbe avercela con me per qualcosa? È stato lui a imbrogliarmi e a derubarmi di tutto tranne la vita, dovrei essere io a squartarlo vivo!»

«Ma forse qualcosa è successo. Qualcosa che magari non ti ricordi, o che non ti sembra importante, e che lo ha fatto arrabbiare.»

«A distanza di sedici anni?!»

«È vero, mi rendo conto che sembri impossibile, ma… ah…»

«Ah che? Che cosa?» l’incalzò Ferid. «Che cosa?»

«A meno che non abbia raccontato questa storia a qualcun altro… Bobby, voglio dire. Una terza persona che potrebbe volersi vendicare di te, per suo conto o perché… conosce una versione opportunamente alterata della vicenda.»

«Alterata? Vuoi dire che l’ha raccontata a qualcuno dicendo che io ho fatto quello che lui ha fatto a me, o…»

Crowley annuì con aria pensierosa, mentre nella sua mente si dipanavano svariate possibilità, tutte ugualmente valide o campate in aria finché non avessero scoperto cosa ne era stato di Robert Warren.

«Io lo ammazzo

«Ferid, non è la miglior cosa da dire a un poliziotto, sai?»

«Chissenefrega, se lo trovo lo ammazzo, e se hai ragione ed è lui il Vampiro di West End io l’ammazzo dieci volte

«Questo mi piacerebbe vederlo.»

«Per chi conosce il voodoo non è affatto impossibile.»

Crowley si riscosse dai suoi ragionamenti e puntò il dito verso Ferid.

«Ah, non credo proprio! Non voglio niente di quella roba in casa mia, quindi se vuoi fare qualche stregoneria vattene sul tetto o da qualche altra parte!»

«Mpf. Cristiani.» commentò Ferid irritato, e bevve il tè. «Credono in un Dio che gli dà da bere sangue, da mangiare il suo corpo, che muore e risorge e che fa nascere bambini da donne vergini ma i vampiri sono figli del demonio e il voodoo è il potere del diavolo.»

Finora aveva sempre parlato di libri e di creature fantastiche, ma sentirlo tirare fuori oscure conoscenze esoteriche su una delle arti magiche più pericolose che la storia del cinema avesse sfruttato gli mise addosso una strana inquietudine.

E fu colpito da un pensiero in particolare.

«Ferid, sii sincero con me: non è che quelle rose che mi hai mandato erano una stregoneria?»

«Guarda che è Krul la strega, io sono solo un libraio.»

«Non è mica una risposta questa… mi hai fatto un incantesimo per farmi innamorare di te?»

Ferid passò da un residuo di irritazione a una luce di curiosità che gli scintillava nello sguardo.

«Ha funzionato?»

«È un sì?»

«Il tuo è un sì?»

Dio, a volte è frustrante da morire parlare con lui.

«Ferid…»

«Non è mica una risposta questa.» lo scimmiottò lui, con un sorrisetto.

«Non abbiamo fatto un certo discorso sulla sincerità?»

«Crowley, se io fossi capace di fare una magia per fare innamorare qualcuno di me pensi che avrei passato gli ultimi dodici anni da solo?»

Aveva senso, ma dal basso delle sue scarse e imprecise basi di stregoneria azzardò comunque delle ipotesi.

«Poteva essere difficile mandare rose stregate a un uomo che non sapevi dove trovare.»

«Rose stregate, uh?» fece lui, con una risatina divertita. «Sembri proprio convinto… vuoi dire che credi davvero che ti sia invaghito di me senza un motivo? Che non c’è altra spiegazione se non la stregoneria per quello che senti verso di me, qualsiasi cosa sia che non vuoi dirmi?»

Crowley sapeva fin dall’inizio che quelle rose non avevano nessun incantesimo, o almeno che qualche parola magica o fumo di candela non erano l’origine del suo sentire. Si rendeva conto che il motivo per il quale stava bene insieme a Ferid era che lui – per quanta messinscena potesse mettere su – non voleva uno schiavo come era successo con certe altre persone; ma nemmeno lo considerava un’avventura, qualcuno da prendere e mollare quando si fosse stancato. Non voleva cambiare le sue abitudini, non cercava di inserirsi in ogni aspetto della sua vita, ma nemmeno se ne chiamava completamente fuori.

Era una relazione diversa da tutte quelle che aveva avuto prima e ne era spiazzato, quasi confuso, come se non riuscisse a elaborare le sfumature tra il nero e il bianco, ma Crowley intimamente imputava questa sua incapacità alla momentanea impossibilità di indagare il loro grado di affinità a letto.

È piuttosto stupido non riuscire a capire se si ama qualcuno o no senza andarci a letto.

Crowley posò la tazza e abbandonò il confortante, comodo nido di coperte e cuscini.

«Meglio che mi prepari.»

«Ah, quindi ti sei deciso ad andare a messa?»

«Sì… ma soprattutto, voglio parlare con Gilbert prima che inizi.» ammise lui, aprendo l’armadio. «Tu nel frattempo mi farai un favore.»

«Oh, con che tono autoritario!»

«Chiamerai De Stasio e gli racconterai tutto quello che hai detto a me stamattina di Bobby. Dagli tutti i dettagli che ricordi, dal suo aspetto a dove viveva, tutto quanto. Forse non è il Vampiro di West End, ma se lo troviamo possiamo almeno interrogarlo e chiedergli a chi ha raccontato la vostra storia e trovare una pista alternativa.»

«Ma Bobby potrebbe essere ovunque… letteralmente ovunque ora come potrebbe essere andato ovunque sedici anni fa.»

«Per questo devi dirlo a De Stasio. Ha tanti di quei contatti all’antiterrorismo, alla DEA, all’FBI, nell’esercito e nell’Interpol che è l’uomo giusto per trovare qualcuno che non sai dove sia… o meglio ancora, conosce di certo l’uomo giusto. Il suo informatore di punta non ha mai fallito finora.»

«Pensi che un uomo solo riuscirebbe a trovarlo?»

«Ho visto la sua rete all’opera quando ero il partner di De Stasio alla Narcotici ed è davvero incredibile… e Ismael è ancora più incredibile. Non so dove abbia le mani in pasta, ma sembra che le abbia davvero ovunque, trova anche chi è introvabile per gli uffici con le sigle.»

Ferid non rispose e Crowley si girò a guardarlo dopo essersi infilato una maglietta. Era a disagio: nonostante il viso privo di espressione giocherellava con l’orecchino.

«Non ti devi vergognare, okay? Non hai fatto niente di male.»

«Non l’ho fatto?»

«Ma di che parli?»

«Ho derubato i miei genitori, sono scappato di casa, e…»

«Hai preso soldi ai tuoi genitori ricchi per scappare da una casa in cui eri abusato e abbandonato, chi ti potrebbe mai biasimare per questo? Sei stato imbrogliato da una persona di cui ti fidavi, e hai fatto quello che pensavi fosse necessario per sopravvivere.» sentenziò Crowley in tono fermo. «Non hai niente di cui vergognarti e De Stasio non è il tipo di uomo che giudica gli altri per i loro sbagli.»

«Invece sembra un poliziotto tutto d’un pezzo, uno di quelli che…»

Crowley scosse la testa e Ferid si interruppe. Davanti a quelle incertezze Crowley era certo che De Stasio stesso avrebbe raccontato di sé per superare quel blocco, quindi non si fece scrupolo.

«Aveva un fratello che continuava a tornare a casa, rubare soldi alla famiglia e scomparire per andare a drogarsi, promettendo continuamente che si sarebbe disintossicato, senza farlo mai… e lo amava comunque. Non è il tipo che giudicherebbe un adolescente che cercava di scappare da una situazione come la tua.»

Ferid non rispose e non sembrava essersi minimamente rilassato, quindi Crowley si avvicinò a lui e gli diede un buffetto sul mento per fargli alzare lo sguardo.

«Non lo farà… e se dovesse farlo basta che me lo dici. Avrà anche contatti migliori dei miei, ma io picchio molto più duro di lui.»

«Ah, che bambinone sei, Crowley…»

«Va bene, se ti fa tornare il sorriso.»

Crowley gli sorrise e si allontanò da lui alla ricerca delle sue scarpe migliori nelle profondità dell’armadio, e quando le trovò lo sentì parlare di nuovo.

«Ah, mi stavo quasi dimenticando di dirtelo, a proposito di bambini… c’è un messaggio in segreteria… sul telefono di casa.» gli disse, mentre prendeva il vassoio da sopra il letto. «Ti ha chiamato tua cugina Charity stamattina presto.»

«Charity?»

Per qualche istante il cervello non rimandò alcun impulso a quel nome, poi tornò in funzione e con la consapevolezza salì l'agitazione. Si raddrizzò subito, con le scarpe ancora in mano, e si precipitò quasi correndo in soggiorno fino al telefono la cui spia rossa lampeggiava. Avviò subito la segreteria e la voce registrata gli disse che il messaggio era stato lasciato pochi minuti prima delle sei del mattino.

«Ciao, Crowley, sono Charity! So che è molto presto ma visto che non hai risposto non penso di averti svegliato… non che sia mai stato facile! Due ore fa è nato il tuo nipotino, volevo farti sapere che è andato tutto liscio e che io e lui stiamo bene!»

«Sì, ma amore, digli anche...»

«Ci sto arrivando! Virgil vuole che ti dica che gli sono piaciuti tutti e due i nomi che avevi suggerito per la chiesa e li abbiamo scelti entrambi, quindi tuo nipote si chiama Cameron George Carlyle!»

Ci fu qualche rumore di disturbo, poi la voce gioviale di Virgil, che era sceriffo della cittadina dove vivevano i suoi parenti e pertanto si autoproclamava suo collega, sostituì quella della moglie.

«Devi venire assolutamente appena puoi, non ti vediamo da troppo tempo! Vogliamo che vieni a fare da padrino al battesimo di Cameron!»

«E poi manchi da troppo tempo, non conosci di persona nessuno dei tuoi nipoti, e Patrick adesso si è appassionato al rugby, gli potresti insegnare a giocare!» intervenne di nuovo Charity. «Appena puoi richiamaci, così ne parliamo, e Virgil ti manderà qualche foto di Cameron!»

«Richiama subito!» rincarò Virgil. «Anche Gideon, quel vecchio burbero, dice che gli manchi!»

Il messaggio si interrompeva dopo un distante borbottio che sembrava proprio la voce di suo nonno, con un rumore indistinto che gli parve il vagito di un neonato. Come in trance, dimentico dei suoi programmi di parlare con Gilbert prima della messa, riascoltò il messaggio una seconda e una terza volta.

Ma che cosa ho fatto finora? Ho lavorato sempre così tanto da non riuscire mai ad andare a Eanverness neanche per un week end da quando mi sono iscritto all'accademia di polizia... ho tre nipoti che non mi conoscono... non mi ero nemmeno reso conto di quanto Patrick sia grande, ormai ha... sette anni? Sette anni, e io non l'ho mai incontrato!

«Qualcosa non va, Crowley? Non sembri felice.»

Crowley si voltò lentamente verso Ferid, che era fermo vicino al lavabo della cucina.

«Non li vedo da otto anni... e quasi... era come se mi fossi convinto che solo perché mio padre non ha più rapporti con loro non ne avessi uno nemmeno io.»

«Invece ti aspettano.» osservò Ferid. «Quindi perché non sei felice?»

«Ho proprio incasinato tutto quanto.»

«Che vuoi dire?»

«Ho potuto fare poco per il rapporto con i miei genitori, ma loro? Li ho accantonati senza un motivo, ho lasciato che fossero solo le solite voci di quella telefonata che mi arriva di tanto in tanto, ma loro... per loro sono ancora di famiglia.»

«E che senso ha adesso piangere su questa sciocchezza? Va tutto bene, no? Sono ancora lì, ti vogliono ancora come famiglia, quindi non hai perduto niente... li richiamerai quando tornerai dalla messa e vi farete una lunga chiacchierata mentre io starò fuori dai piedi a giocare a scacchi con Mikaela~»

«Vai anche oggi?»

«Qualche cosa in contrario?»

«Oh… no, solo…»

«Bene, allora è deciso~ dovresti sbrigarti se vuoi parlare con il tuo parroco prima della messa, sai?»

«Ah… sì.»

Crowley si infilò le scarpe sotto gli occhi fissi e malevoli di Pandora, ma ci fece caso a malapena. Intascò il telefono che era rimasto in ricarica sul mobile della cucina e si avvicinò a Ferid, che lo guardò con aria colpevole mentre spiluccava altro porridge dalla pentola.

«Allora io vado. Torno per mezzogiorno.»

«Mh-mh.»

Se gli era affiorato il pensiero di non farlo, lo aveva fatto tacere ancora prima di accorgersene: si sporse verso di lui e lo baciò sullo zigomo, lasciandolo piuttosto sorpreso da quella mossa inattesa.

«Grazie.»

«Per… la colazione?»

«Per la colazione, per il sostegno, e per la fiducia che mi dai raccontandomi la tua storia.»

«Non è niente di che… ricambio solo quello che tu fai per me.»

«Ah, non credo proprio… i miei segreti non hanno lo stesso peso dei tuoi.»

«Oh, io non ci conterei, Crowley. I giochi della tua scuola cattolica erano un sacco scabrosi, non è roba da raccontare a cuore leggero!»

«No, cosa… davvero li trovi scabrosi?»

«Non sono io che li trovo, sono scabrosi! Era il vostro modo contorto di sfogare la curiosità sessuale, di certo.»

«Ma che ne sai tu di curiosità sessuale, a fornicare nella stalla quand’eri ancora un bambino? A malapena hai fatto in tempo a farti domande prima di avere le risposte…»

«Avevo quindici anni, mica dieci!» protestò Ferid, puntandogli contro il cucchiaio. «Anche se sembravo più giovane, il poco sole mi ha fatto crescere lentamente!»

«Okay, senti, parleremo della promiscuità e dell’età precoce quando torno, che se no faccio tardi.» tagliò corto Crowley, sebbene trovasse buffa l’espressione ostinata che aveva messo su. «Ricordi che devi chiamare De Stasio, vero?»

«Mhh.»

«Lo prenderò per un sì. Ci vediamo dopo.»

Crowley gli diede una strizzata amichevole sul braccio a mo’ di saluto, prese le chiavi e dopo venti minuti stava entrando dall’ampio portone di legno della chiesa di Saint Thomas, dove regnava grande fermento visto il nutrito nugolo di persone in orario insolito.

A Crowley occorse qualche minuto di osservazione, in disparte, per capire che avevano appena concluso le prove del coro e che dovevano aver trovato parecchi nuovi membri: la maggior parte non li aveva visti nemmeno alla messa finora.

Gilbert si accorse presto della sua presenza e andò da lui non appena ebbe congedato due donne che avevano con loro il libro degli inni. Sorrideva e sembrava particolarmente di buonumore.

«Buongiorno, Crowley. Sei arrivato presto.»

«E tu sei sempre occupato, Gilbert, ma non ti annoi mai?»

«Io mai.» rispose lui allegro. «È giorno di confessione per te? Sei arrivato presto apposta?»

«No, cioè, anche…»

«Vuoi parlare di qualcosa, allora… ti ascolto. Vieni, camminiamo.»

Gilbert fece strada fuori e Crowley lo seguì; normalmente si sedevano a parlare sulla seconda panca sulla sinistra, la panca dove erano sempre stati a sedere per la messa fin da bambini, ma c’era ancora troppa gente per parlare con calma. Uscirono nel cortile della chiesa e passarono accanto al campo da basket, anche quello teatro di molte loro memorie comuni di gioventù: già all’epoca erano i due ragazzi più alti nella loro fascia di età e si trovavano puntualmente schierati uno contro l’altro alla conquista del canestro avversario.

«Quante partite abbiamo giocato su questo campo, eh? Non ricordo più come stava il nostro punteggio personale…»

«Cinquantadue.» rispose prontamente Crowley.

«Cinquantadue che cosa?»

«Hai perso cinquantadue volte, di questo sono certo.»

«E quante ne ho vinte?»

«Ho perso il conto dopo l’ottantesima.»

Gilbert emise una risata cristallina e sedette sulla panchina più isolata del cortile, piazzata sotto un nocciolo.

«Ottantanove, per l’esattezza… come al solito, anche se ti si dà l’occasione, non menti.»

«Mi sorprende che continui a provarci, Gilbert. Non mento sulle sciocchezze, non ce n’è motivo.»

«Uhm, insolita risposta da parte tua… è successo qualcosa? Parlamene.»

Da principio Crowley si sentì come se avesse la gola impastata di marshmallow fuso e pensò che non sarebbe stato in grado di rompere quel silenzio che era sceso tra loro. Alla fine, proprio quando Gilbert stava per dire qualcosa, iniziò a parlare, e dopo una frase di preambolo piuttosto vaga prese a raccontare tutta quella sua storia, dalla sua prima visita al Magick alla sparatoria nei dettagli, alla sua crisi che già il suo prete conosceva, al voto che aveva fatto a Dio, passando per quelli che aveva ritenuto essere i segni.

Gli parlò di Ferid e di quello che gli era successo nella vita come lui gliel’aveva raccontato, gli disse della sua relazione con Horn, del marito di lei, dei suoi sensi di colpa e infine delle sue incertezze riguardo a quello che provava. Si rivoltò come un calzino al cospetto del suo prete e unico amico di una vita che gli fosse rimasto dopo la scomparsa di George e quando ebbe concluso quell’impetuoso fiume di parole sprofondò in un silenzio tormentato, stropicciandosi la fronte e gli occhi.

«Hai avuto un’estate molto dura, Crowley.»

«Sì.»

«Sei stato sottoposto a una prova di Fede, amico mio. È facile essere dei credenti quando va tutto bene… quando l’orrore tocca gli altri, quando noi abbiamo ancora tutti i nostri cari, abbiamo denaro per una vita decorosa e qualche sfizio, godiamo di buona salute… è facile lodare Dio quando siamo felici. Diverso è riuscire ad avere fede quando attraversiamo una valle oscura… quando tanti fulmini cadono nello stesso nostro punto debole. Lì è dove una fede reale sopravvive e una debole vacilla.»

«Mi sta testando?»

«È possibile… sono suo ministro, ma non certo il suo stratega. Non so quali siano i suoi disegni, ma o ti ha portato dove voleva o ti ci sta portando. Questo è ovvio.»

«Secondo te… Gilbert, secondo te… Ferid è qui per portarmi dove vuole Lui o è solo un’altra prova di fede?»

«Mi sembri convinto che lui sia sia qualcuno che il Signore ha mandato per aiutarti sia una prova per te… ma Crowley, io non credo che lo sia nel modo che temi.»

Crowley, il cui sguardo era perso tra le foglie ingiallite per terra, alzò gli occhi e guardò Gilbert con una certa dose di stupore.

«So che cosa stai pensando… so che stai trovando difficile mantenere la tua promessa, a causa di Ferid. E per questo ti chiedi se non sia nella tua vita come una tentazione… una prova di resistenza. Ho ragione?»

Aprì la bocca per replicare, per minimizzare, ma alla fine tacque e si limitò ad annuire.

«Posso domandarti come mai trovi tanto difficile resistergli?»

«Beh… per… varie ragioni.»

«Se non vuoi dirle al tuo prete vorrai almeno dirle a un tuo buon amico?»

«Non è facile separare le due cose.»

«Non vedo confessionali, qui. Siamo seduti su una panchina e non ho detto nulla che direi prima di ricevere una confessione.»

Crowley si tormentò le dita per qualche secondo, assorto nei pro e nei contro di rivelare le sue perplessità, ma alla fine si raddrizzò prendendo un profondo respiro. Nel mentre un gruppetto di bambini armati di pallone raggiunsero il campo e si misero a dividere le formazioni.

«Lui è… Gilbert, forse tu non mi capirai, con le scelte di vita che hai fatto…»

«Non devo aver preso la tua stessa barca per attraversare la tua stessa corrente.» disse lui con un sorriso incoraggiante. «Pensi di essere il solo parrocchiano a parlarmi dei suoi problemi romantici o sessuali? Non lo sei.»

«D’accordo, allora… uno dei punti è che Ferid è un uomo davvero bello. Ha un bel viso, un bel sorriso, uno splendido corpo… fisicamente parlando non so trovargli qualche difetto a meno di non mettermi a cercarlo con una lente d’ingrandimento. Ecco, se proprio devo, non è particolarmente dotato, ma a me importa poco, se capisci che cosa intendo dire.»

«Sì, credo proprio di capire.» rispose lui senza alcuna traccia di disagio.

«Oltre a questo… lui è davvero speciale, sai. Non ho mai conosciuto nessuno come lui. È un lettore vorace, lo dovresti vedere… ti ricordi Janos, quello dell’altra classe? Ecco, Janos è un bradipo in confronto a Ferid, guardarlo leggere è stupefacente! Ha una memoria incredibile, ed è…»

Crowley lasciò vagare lo sguardo sui ragazzi che avevano appena iniziato la partita, ma la sua mente al momento era a casa, a immaginare un uomo seduto sul suo divano a leggere qualcosa.

«È una persona davvero gentile, Gilbert. Una di quelle persone capaci di mettersi a rischio per aiutare qualcuno che non conoscono… una persona capace di continuare a cercare nella boscaglia da solo durante una tempesta estiva per trovare una bambina che non sa nemmeno se sia davvero ancora lì. Una persona che… non mi vuole far bere per stupide ragioni, che non mostra la sua gelosia perché sa che sono libero di scegliere, e che non vuole mettermi nelle condizioni di cedere e rompere la mia promessa.»

«Quindi non fa niente per tentarti?»

«No, o almeno… niente di che… anzi, un paio di volte che ho accennato a fare qualcosa lui si è tirato indietro per primo…»

«Accennato, dici, uhm?»

Strinse istintivamente le spalle e gli lanciò un’occhiata di sottecchi. Gilbert aveva un accenno di sorriso sulle labbra.

«Non l’ho approcciato propriamente, ho promesso astinenza monacale…»

«Ma è anche vero che l’astinenza per te è cosa sconosciuta, essendo passato dall’innocenza alla lussuria incallita quasi senza fasi intermedie, quindi che hai combinato?»

Crowley si rese conto di quanto azzardate fossero state le sue manovre solo quando sentì il bisogno, prontamente stroncato, di ridimensionarle e filtrarle prima di raccontarle all’amico con l’abito talare. Gilbert rimase piuttosto serafico, con un sorriso indulgente sul viso, mentre ascoltava il resoconto degli eventi salienti degli ultimi giorni.

«Capisco, capisco… beh, vivere con qualcuno non è uno scherzo. Perché credi che la chiesa cattolica sconsigli la convivenza alle coppie di fidanzati? Perché vivere insieme sotto lo stesso tetto crea un’atmosfera di intimità più fonda di quanto si possa pensare, per non parlare di una quantità di episodi che possono… infiammare gli animi, possiamo dire? In più, essendo Ferid per te così attraente è doppiamente difficile.»

«È come un dolce in tempo di Quaresima, no? Se è proibito sembra ancora più buono.»

«Oh, sì, su questo posso confermare in toto… quindi, qual è la soluzione al tuo problema?»

«Nessuna… per nessun uomo posso rompere una promessa che ho fatto a Dio… soprattutto perché l’ho fatta per la possibilità di prendere il Vampiro di West End.»

«Dunque resisti e… dopo la Quaresima l’odore è meno soave.»

«Dici?»

«Per me no, dopo la Quaresima mangio tutto quello di cui avevo voglia.»

«Che razza di prete sei tu?»

«Lo stesso tuo tipo: onesto con se stesso.» replicò lui sorridendo. «Quindi nessun problema, no? Una volta assolti i termini del patto, se lo vorrai ancora, potrai proporti… sempre che lui non ti dia picche, in tal caso ti toccherà ripiegare su birra, fish and chips o… ah, è terribile che un uomo di chiesa lo debba dire, ma ti troverai qualche altra tentazione carnale abbastanza stimolante.»

Qualche altra tentazione… qualche altra?

Doveva essere proprio come quando a qualcuno prende quella voglia irresistibile di un certo tipo di cibo, desiderato al punto tale che qualsiasi altro diventa mero nutrimento e persino di discutibile sapore: all’improvviso qualsiasi altra sua fiamma, compresa la sensuale Latisha, la passionale Fionnula del Leprechaun o anche Connor era come scolorita nella sua mente.

Non è una questione di sesso. Non è a questo che mi trovo a pensare.

«In realtà non è una questione di sesso… non solo di sesso.» disse guardando distrattamente i ragazzi giocare a basket. «Lui è… straordinario nel senso letterale, non è ordinario… non fa un sacco di cose che noi pensiamo essere ovvie… non è mai stato all’Elysium Theatre a vedere un musical, non va al cinema, non è mai stato al Belfast Stadium a vedere i Lizards, non sa chi sono gli Spartans… voglio fare per lui tutte quelle cose che per me hanno fatto i miei genitori, i miei amici, e anche i miei partner. Voglio che sappia cosa significa vivere in America in questo secolo e…»

Crowley esitò, poi scrollò le spalle.

«Voglio regalargli dei giorni felici che possa ricordare per sempre. Ne ha avuti pochi, troppo pochi.»

Cadde il silenzio tra i due, disturbato solo dalle grida concitate dei giocatori e dalle note dell’organo che risuonava in chiesa.

«Beh, Crowley… questa è tutta un’altra storia… come potrebbe una mera tentazione suscitarti pensieri d’amore così elevati?»

Pensieri d’amore elevati? Non è quello che vorrebbe chiunque per la persona con cui sta, per una a cui tiene o una di famiglia? Dovrebbe essere perfettamente normale… ma in effetti, non è quello che di solito penso. Voglio passare del bel tempo insieme ai miei partner, ma non è la stessa cosa. Divertirsi insieme nei momenti liberi è diverso da quello che voglio fare.

«Sembra che tu sia arrivato a una soluzione… non vedo più confusione nel tuo sguardo.»

«Sì… grazie dell’aiuto, Gilbert.»

«Non ho fatto nulla, hai trovato la tua risposta da solo.»

«Ma mi hai ascoltato, ha contribuito molto poter pensare ad alta voce.»

Gilbert sorrise, si sfilò l’elastico dai capelli e prese a sistemarli con le dita per legarli nuovamente.

«Se è così, potrei chiederti, per sdebitarti, di valutare una proposta?»

«Uh? Di che proposta si tratta?»

«Abbiamo nuovi membri del coro, come hai notato, e mi piacerebbe organizzare un concerto di Natale…»

«Gilbert, no

«Perché no?»

«Gilbert, l’ultima volta che ho cantato per la chiesa avevo dodici anni!»

«E quindi? La voce non ha data di scadenza, e conosci tutti i miei canti.»

«Non so neanche se avrò tempo per le prove!»

«Tu pensaci e basta, okay? È tutto quello che ti chiedo di fare.» disse Gilbert sorridendogli, la coda bionda di nuovo a posto. «Il coro attuale si esibirà domenica prossima in occasione della messa per i Santi Arcangeli… vieni a sentirlo, magari ti viene voglia di tornare a cantare. Porta anche Ferid, se ha voglia di farlo siamo felici di avere anche lui nel nostro coro.»

«Ah, su questo non metterei il pensiero… anche se canticchia spesso, non ha un buon rapporto con la religione cattolica.»

«No? Eppure l’ho visto a messa l’altra volta insieme a te… beh, lo abbiamo notato tutti, dà nell’occhio, per così dire.»

«Sì, c’è venuto, ma ha una… crisi di fede, diciamo. Sai, quella fase in cui ci chiediamo perché Dio permette le cose brutte nel mondo se ha tutto il potere per evitarle.»

«Oh, sì, una fase familiare a qualsiasi cristiano… ma visto che cos’ha fatto per Mary non penso che sia qualcosa di irrimediabile. Chiedigli se gli va di venire con te, non si sa mai che riusciamo a recuperare una pecorella.»

«Glielo posso sempre chiedere, questo sì.»

Crowley si alzò dalla panchina stiracchiandosi leggermente; la spalla era indolenzita fin da quella mattina, ma poi il dolore alla scapola passò in secondo piano.

«Gilbert, che cos’ha fatto per Mary? Non l’ho visto parlare con lei.»

«Io sì, però. Si è avvicinata all’acquasantiera, ma quella in fondo al corridoio è molto alta e non ci arrivava. L’ho visto segnarle la croce sulla fronte con l’acqua.»

«Ma va’.» replicò Crowley, basito.

«Ti dico che l’ho visto, non mi credi? Sono sicuro, non c’è nessun altro con cui avrei potuto scambiarlo tra i parrocchiani.»

«Ma dai.»

«Abbiamo avuto tutti il momento della vita in cui abbiamo dubitato… anche tu, Crowley, e anche io. Fallo venire almeno alla messa per i Santi Arcangeli… penso che la troverà piacevole. Magari può essere l’inizio di un ritorno a Dio.»

«Ah, dopo questa lo convinco con qualsiasi mezzo.»

«Spero non proprio qualsiasi mezzo!»

«Credo che la tattica di Suor Frida funzionerà.»

Gilbert lo guardò sorpreso, poi scoppiò in una gran risata. I due si avviarono per rientrare nella chiesa, ricordando i momenti più memorabili delle punizioni non violente di Suor Frida alla San Cristoforo, e Crowley sentì una strana sensazione nel petto pensando al suo amico George, il bersaglio preferito della vecchia suora: era una fitta di dolore ma era vestita di affettuosa nostalgia e con un retrogusto dolce di un’allegria andata ma non dimenticata.

Aveva ragione Ferid… quando il dolore si attenua restano i momenti più belli.

Gilbert lo lasciò per approntare l’altare per la celebrazione e Crowley alzò lo sguardo sul crocifisso, sul suo volto sofferente e la corona di spine che l’aveva sempre impressionato da bambino, e sorrise. Attraversò la navata sul tappeto centrale, si segnò, si piegò sul ginocchio e lì rimase per qualche attimo a occhi chiusi e testa china.

«Grazie di averlo portato da me.»

Ripensò al loro primo incontro e alle rose viola, che erano il solo sollievo dal tormento così impetuoso di quei suoi giorni di ospedale tra le cure, il riposo forzato, le critiche della stampa, la perdita degli amici e l’inconcludenza delle indagini: il solo momento in cui dimenticava queste cose, se ne distanziava, per pensare all’uomo che pur non conoscendolo si prodigava tanto per lui al punto da arrivare ogni martedì mattina con la metro fino in ospedale per lasciare un fiore a una persona che non era possibile visitare.

Si rialzò in piedi e sorridendo prese posto alla seconda panca sulla sinistra.

 

Crowley aveva appena chiuso una lunga telefonata con il suo “collega” Virgil e stava guardando le fotografie di Cameron e della sorellina maggiore Desirée che gli aveva inviato nel mentre: non si era minimamente accorto della pioggia scrosciante fuori dalla finestra e il suono del campanello lo fece sussultare.

«Chi è?»

«Sono io.»

Fu sorpreso di riconoscere la voce di Mikaela e si alzò dal divano per andare ad aprirgli.

«Ciao, Mikaela.»

«Ciao, Crowley… dove si è nascosto Ferid? Non è leale lasciare una partita a metà e scappare a cercare una strategia in un libro.»

«Una partita… ma… Ferid non è mica qui.» gli rispose Crowley confuso.

«Non stavi parlando con lui un attimo fa?»

«Oh, no, no. Ero al telefono con il marito di mia cugina, sai, quei miei parenti che stanno in West Virginia.»

«Quindi non è qui?»

«No… ma scusa, non era con te a giocare a scacchi?»

«Sì, ma poi ha iniziato a piovere, ha detto che aveva steso i tuoi lenzuoli sul tetto e che andava a raccoglierli… ma è stato venti minuti fa, pensato che si fosse messo a parlare con te quando ha portato in casa il bucato.»

Crowley non rispose e uscì dall’appartamento dirigendosi immediatamente alla porta di servizio che dava sulla scala antincendio, unica via per salire e scendere dal tetto. Mikaela lo seguì senza dire una parola e senza dirsi altro salirono. La pioggia era torrenziale e inzuppò i capelli e la maglia di Crowley in pochi secondi, ma i suoi occhi distinsero chiaramente Ferid, seduto su uno dei motori dei condizionatori degli appartamenti sottostanti, con lo sguardo rivolto in alto e una cesta di plastica che usavano per il bucato abbandonata lì vicino.

«Ferid, ma che stai facendo, non vedi che sta diluviando?!»

Ferid non gli rispose e Crowley gli si avvicinò: aveva lo sguardo quasi privo di espressione, fisso sulle nuvole, i vestiti zuppi e i capelli fradici appiccicati sul viso.

«Ferid, stai bene? Ehi… guardami… Ferid!»

Crowley batté forte le mani e solo quello sembrò far uscire Ferid dalla sua trance, abbastanza da fargli puntare gli occhi azzurri su di lui.

«Ferid, cosa stai facendo? Vieni in casa, non ti accorgi che sei fradicio?»

«Crowley.» disse lui con un tono sorpreso.

«Sì, grazie di avermi riconosciuto, ora vieni dentro! Cosa sei, un aficionado delle piogge torrenziali o che?»

«… Crowley… l’acqua viene dal cielo, no?»

«Che stai blaterando adesso?»

«Non si genera dalla terra inesauribile… se non piove…»

«L’avrai studiato a scuola il ciclo dell’acqua, no?» fece Crowley leggermente spazientito, rimettendolo in piedi a forza. «Te lo rispiego se non te lo ricordi, ma non mentre affoghiamo qui sopra!»

«E se l’acqua venisse da Dio?»

Crowley rinunciò a trovare un senso pratico a quelle parole e tentò solo di trascinare Ferid verso le scale.

«Ferid, io sono cattolico, per me tutto viene da Dio.»

«L’acqua viene dal cielo, scorre sulla terra e poi torna al cielo…»

Crowley lo guardò esasperato, con la sensazione tutto sommato sgradevole di avere mutande e scarpe inzuppate.

È questo il posto e il momento di una discussione teologica?

«Ah, quindi lo ricordi il ciclo dell'acqua.» fece lui, e gli prese il braccio per tirarlo verso la scala antincendio. «Ma perché ti turba tanto proprio ora che cosa viene o non viene da Dio? Hai una crisi mistica?»

«Anche quel giorno mi ha parlato tramite la pioggia.»

Spero che questo delirio sia dovuto a un’assurda febbre o che si sia nascosto sul tetto per farsi fuori una bottiglia del mio whisky di nascosto.

Forse si sarebbe convinto che fosse ubriaco o fatto di qualcosa se non fosse che non appena vide Mikaela fermo sulla scala tacque subito. Si lasciò condurre di sotto senza alcuna resistenza e non rispose quando gli venne chiesto da entrambi se si sentisse bene; a meno che non considerasse il gocciolio nel corridoio una risposta.

«Non so che cosa gli sia preso, ma vedrò di scoprirlo… scusa, Mikaela. Se lo rimetto in sesto lo manderò a finire quella partita.»

«Non c’è problema per quella, ma… è… strano.» disse, occhieggiando Ferid che aveva ancora un’aria pensierosa. «Prende qualche medicina?»

«Che io sappia si droga solo di quella broda al melograno… Ferid, andiamo, in casa. Cambiati prima di prendere un febbrone da cavallo, vuoi tornare ancora in ospedale?»

Crowley guidò Ferid in casa dritto nel bagno e si affrettò a togliersi i vestiti e appenderli dentro la doccia a scolare come se li avesse lavati senza centrifuga. Quando lo guardò di nuovo Ferid sembrava più o meno di nuovo normale, solo con un’aria educatamente perplessa.

«Ferid… stai bene? Mi stai preoccupando…»

«Sì, sto bene… scusami, ho lasciato i lenzuoli sotto la pioggia.»

«Ma lascia stare i lenzuoli, tu che diavolo facevi lì a fissare il vuoto bagnandoti come un pulcino?»

«Mi è… tornata in mente una cosa e stavo pensando.»

Ma è scemo o che cosa?

Crowley gli lanciò un’occhiataccia, ma lui non sembrava afferrare la straordinaria idiozia di cui si era appena reso protagonista. Si spostò i capelli bagnati dalla fronte, apparentemente incurante del fatto che era più bagnato di quanto lo fosse nell’utero di sua madre.

«Tu devi essere svitato e neanche poco. Dai, mentre rifletti sulle tue cose levati quei vestiti e asciugati. Prenderai un raffreddore così.»

«Ah… sì.»

Ferid si sfilò le scarpe per prime, poi lo fissò. Crowley gli ricambiò lo sguardo, chiedendosi se quella sua idea di Dio e dell’acqua fosse davvero collegata ai suoi pensieri correnti e se stesse per illustrarglieli.

«Hai intenzione di prenderti un asciugamano per coprirti e lasciarmi spogliare da solo oppure no?»

Questa volta fu Crowley a restare spiazzato e a dover focalizzare la reale situazione: se ne stava lì in piedi senza vestiti, coi capelli che gocciolavano, a guardarlo come un ebete, o piuttosto un maniaco, dato che gli stava chiedendo di spogliarsi. Si affrettò a prendere il telo.

Vivere insieme sotto lo stesso tetto crea un’atmosfera di intimità più fonda di quanto si possa pensare, per non parlare di una quantità di episodi che possono… infiammare gli animi, possiamo dire?

Le parole di Gilbert gli tornarono in mente suo malgrado mentre usciva dal bagno chiudendosi la porta alle spalle.

 

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Capitolo 20
*** La messa dei Santi Arcangeli ***


 

La domenica successiva cadeva il giorno 29 settembre, il giorno del calendario cristiano dedicato ai Santi Arcangeli Gabriele, Michele e Raffaele e in talune derivazioni Uriele. Crowley non avrebbe potuto entrare in chiesa con un sorriso più allegro nemmeno se si fosse presentato alla celebrazione del proprio matrimonio; per contro Ferid aveva l’aria di essere invitato a quel matrimonio nei panni dell’invitato pronto ad alzarsi in piedi alla menzione di “parli ora o taccia per sempre”.

Gilbert, avvicinandosi a loro non appena li ebbe scorti, aveva un sorriso vagamente divertito che suggerì a Crowley che si fosse accorto della loro palese opposizione di umore.

«Ah, buongiorno, Crowley. Noi non siamo mai stati presentati, ma ti conosco, Crowley parla tanto di te. Ferid Bathory.»

«Sì, immagino che il confessionale sappia a memoria il mio nome.» ribatté lui scontroso.

«Avresti dovuto confessare qualcosa, Crowley?»

«Mah, forse.»

Gilbert gli lanciò un’occhiata complice e tornò a Ferid, porgendogli la mano.

«Facciamo adeguate presentazioni, vuoi? Gilbert Lecroix, parroco della chiesa di Saint Thomas.»

«Certo sei piuttosto giovane… ah, se la chiesa di Sant’Agata nel West End avesse avuto un padre spirituale tanto ammaliante avrei di sicuro preso il giorno libero di domenica per non saltare neanche una messa~»

«Ferid, non provarci col mio prete.»

«Oh, il tuo prete? Non si salva proprio niente che respiri con te, eh?»

«Beh, tu respiri e sei salvo, no? Vuoi farti riportare a casa con questi mezzucci per farmi spazientire, ma non ci riuscirai, io ho una resilienza che fa invidia a un guru indiano. Hai detto che saresti venuto e qui resti finché Gilbert non dirà di andare in pace.»

«Mi hai obbligato a venire!»

Gilbert lanciò un’occhiata di rimprovero all’amico, non dissimile da quella che avrebbe lanciato a un bambino indisciplinato del catechismo.

«Crowley, questo non è bello. Ti avevo chiesto di invitarlo, non di portarlo di peso…»

«Non l’ho fatto, ha detto lui che sarebbe venuto.»

«Certo, non la smetteva più di leggere la Bibbia ad alta voce! È andato avanti per ore!»

«Crowley… credevo scherzassi quando hai detto che avresti usato la tattica di Suor Frida…»

«Io non scherzo mai su certe cose.» disse Crowley, sorridendo. «Ma devo dire che è stato resistente, avevo iniziato a stancarmi. Sono arrivato al quinto capitolo dell’Esodo prima che si decidesse.»

«Apperò.» commentò Gilbert. «Non credo che qualcuno sia mai arrivato all’Esodo con Suor Frida.»

«Solo George, una volta ha tenuto duro fino a metà del Libro dei Numeri… ma c’è da dire che Suor Frida aveva una vocetta stridula che era una tortura già di suo. Lo trattammo tutti come un eroe di guerra dopo quell’impresa.»

«Aspetta, aspetta.» li interruppe accigliato Ferid, e indicò Gilbert. «Lui veniva a scuola con te?»

«Beh… sì, non te lo avevo detto?»

«Quindi anche lui conosce quei giochi inquietanti!»

«Sta per caso parlando dello spogliatoio?» domandò Gilbert, divertito. «Ma perché gliel’hai raccontato?»

Crowley scrollò le spalle, deciso a non rivelargli di averglielo sottoposto come gioco di fiducia. Ferid scambiò un’occhiata a entrambi e sospirò.

«Ecco perché lui s’è fatto prete. Aveva capito che diavolo stavate combinando da ragazzi e ha cercato la salvezza.»

Il commento fece ridere Gilbert spontaneamente, poi il parroco sfiorò con tocco delicato il gomito di Ferid; l’altra mano indicò la porta della canonica nel corridoio di destra.

«Tu sei nuovo della nostra chiesa, ti andrebbe un piccolo giro d’ispezione? Ti mostro la canonica con le nostre sale di studio e il nostro giardino, ti va? Tu hai il pollice verde o fai morire tutto quello che tocchi, come Crowley?»

«Uhm, non posso dire che le piante mi fioriscano tra le mani, no… ma i miei fiori a casa sopravvivono due o tre anni. Oh, il mio basilico è diventato praticamente un cespuglio~»

«Allora devi vedere le nostre serre, ci coltiviamo le piante che vendiamo per raccogliere le offerte e dei peperoncini!»

«Peperoncini?»

«Sì, sono molto facili da coltivare e io personalmente ne vado matto. I bambini sono contentissimi quando li vedono crescere e diventare rossi e gialli, è una cosa che li entusiasma molto. Sai, è un’attività per educarli al rispetto dell’ambiente, e ad avere pazienza e costanza per ottenere un risultato…»

Ah, Gilbert è passato all’offensiva… quando fa vedere a qualcuno le sue serre di solito rimedia un bambino nuovo per i corsi pomeridiani e una mamma per le vendite di beneficenza... ma stavolta che cosa caverà a Ferid? Non ce lo vedo a preparare torte di zucca per la festa del Ringraziamento.

«Sei il figlio di O’Brian, vero?»

Crowley guardò la donna che gli aveva parlato, con una certa perplessità: era una bella donna sulla quarantina, con pelle dorata e voluminosi capelli corvini. Aveva in mano il quaderno con gli spartiti raccolti da Gilbert per la chiesa e capì che era parte del coro.

«Sono un contralto del coro, mi chiamo Catalina… vengo qui da poco ma conosco Neil, sono la sua assistente sanitaria.»

«Oh… non… non sapevo che mio padre avesse bisogno di un’assistente sanitaria.»

«Non ne ha davvero bisogno, è autosufficiente! Solo, gli porto le dosi di insulina settimanali e controllo che non ne abbia saltate. Faccio anche un controllo della glicemia, ma Neil sta bene, tutto sommato. Mi spiace, non sapevo che ne fossi all’oscuro…»

«Beh, io… a mio padre non piace parlare della sua salute, non vuole farsi compatire.» disse Crowley, sebbene i segreti di suo padre lo irritassero enormemente. «Catalina, hai detto? Io sono Crowley. Come sei arrivata qui? Non ti avevo mai vista prima, me lo sarei ricordato.»

Le strinse la mano; lei aveva una presa salda per essere una donna così femminile a vedersi.

«Mi sono trasferita da poco, prima lavoravo a Holden, e cercavo una chiesa che avesse una bella comunità… Neil mi ha detto della sua e sono venuta, quindi eccomi qui!»

«Allora benvenuta… come ti trovi per ora?»

Catalina gli assicurò che si trovava benissimo e che era una comunità molto più unita e tranquilla di quella da cui veniva, la chiesa del Cuore Immacolato di Holden, e si lanciò in una lunga descrizione di quella chiesa moderna installata in un complesso di uffici riadattato, del pastore e dei loro molti cori; ne avevano addirittura cinque, uno maschile, uno femminile, uno per i bambini e persino uno riservato agli anziani. Lo stordì per quasi venti minuti con i dettagli di come si tenevano le prove e i concerti per le celebrazioni prima che Cynthia, la storica direttrice del coro, la richiamasse per iniziare gli esercizi di riscaldamento prima della messa.

Si era appena seduto alla panca ma non ancora ripreso del tutto quando Ferid riapparve apparentemente dal nulla e si sedette vicino a lui tirando su col naso rumorosamente. Quando lo guardò si allarmò nel vederlo con gli occhi rossi e lacrimanti.

«Ma che… che è successo, Ferid? Stai bene?»

«Sì, sto bene, sto bene…»

«Gilbert, che gli hai fatto?!»

«Non ho fatto niente!» esclamò lui, sulla difensiva. «Gli ho mostrato la serra dei bambini con i peperoncini e si è mangiato un habanero…»

Perplesso ed esasperato fissò Ferid, che si tastava le labbra con le dita.

«Ma cosa sei, pazzo?»

«È piccantissimo, non mi sento più la bocca!»

«Bravo coglione, certo che è piccantissimo!»

«Non le parolacce in chiesa, Crowley, vergogna!»

Istintivamente Crowley si portò la mano alla bocca e guardò il crocifisso sopra l’altare, quasi lo potesse sgridare. Gilbert invece era così preoccupato per Ferid che non si prese neanche la briga di guardarlo male.

«Volevo dargli un bicchiere di latte per mitigare la piccantezza, ma mi ha detto che è intollerante al lattosio, quindi…»

«Dagli… prova con un goccio di vino, l’alcol lava via la capsaicina. Me l’ha detto un mio amico del quartiere spagnolo.» gli disse Crowley. «Hai qualcosa in canonica?»

«Ah, sì… torno subito.»

Gilbert si allontanò tornando alla canonica a grandi passi, mentre Crowley fissava Ferid con una certa dose di irritazione. Aveva capito come mai avesse vomitato la sua sheperd's pie, come mai avesse sempre preso caffè nero con zucchero ma senza latte, perché avesse chiesto il tramezzino senza burro e capì anche il gusto non troppo familiare della sua sheperd's pie.

«Mi raccomando, lasciami sempre per ultimo a sapere le cose che ti riguardano.»

«Ah… mi spiace, mi ero dimenticato di dirtelo… Krul e Liam lo sanno e sono in pratica i soli a cui capita di portarmi qualcosa da mangiare o da bere… è tanto tempo che non vivo con qualcuno. Non ho pensato di dirtelo.»

«Neanche quando hai visto che ti avevo preparato qualcosa con un sacco di burro?»

«Ti eri impegnato così tanto che mi dispiaceva dirti che non potevo mangiarla, ci ho provato sperando di riuscire a mandarne giù abbastanza da non offenderti.»

«Sei veramente un pirla, lo sai?»

«Crowley, per l’amor del cielo, sei in chiesa.»

«Eri appena tornato dall’ospedale, poteva farti davvero male buttare giù qualcosa a cui eri intollerante!»

«Sono già stato punito per questo, non infierire, Crowley… che crudele sei~»

«Sei tu che ti comporti da idiota e non capisco perché, visto che sei un uomo intelligente… potresti quindi smettere di nascondermi quelle piccole importanti stupidaggini che tu pensi siano delle debolezze di cui vergognarti?»

«Ma è imbarazzante…»

«E perché? Mica sei l’unico al mondo, e tutti hanno i loro piccoli problemi… prova a chiedere a Mikaela che cosa gli succede se mangia fragole per qualche giorno di seguito…»

«E tu non ne hai? O ti vergogni di raccontarli?»

Crowley esitò. Non lo raccontava a nessuno – neanche quando capitava l’argomento – ma dato che aveva appena detto a Ferid di non vergognarsene era il caso di confessare.

«Io non posso mangiare i ceci.»

«Davvero?»

«L’ultima volta che li ho mangiati sono stato male per giorni e sono andato anche al pronto soccorso. Sto malissimo ogni volta dopo averli mangiati, ormai li evito da anni.»

«Oh, no! Vuol dire che non puoi mangiare il mio hummus super buonissimo~»

«No, non posso, e non lo mangerò solo per non offenderti se me lo prepari.»

«Ahi, che caustico~»

«Ferid? Ecco.»

Gilbert si avvicinò porgendogli un bicchiere di cartone da caffè da asporto, ma dentro c’era un liquido chiaro, color paglierino, che Ferid annusò profondamente con gli occhi chiusi.

«Riesling, immagino della Napa Valley, mh? Ti tratti bene, Gilbert…»

«Lo hai riconosciuto dall’odore?»

«Ha un aroma molto particolare con questi sentori di gasolio… e il bouquet fruttato, ma temo mi perderò molto del gusto per colpa di quel peperoncino… e il bicchiere di cartone, ma grazie lo stesso.»

Ferid ne sorseggiò un po’ mentre Crowley scambiava uno sguardo perplesso con Gilbert. Non aveva idea che avesse un naso così preparato sul vino, ma finalmente capì che cosa intendesse dire De Stasio parlando del suo buon naso: ora non pareva più così assurdo pensare che avesse davvero indovinato quale acqua di colonia usava.

«Va meglio?» domandò Gilbert, con una punta di ansia nella voce.

«Va molto meglio, grazie~»

«Mi dispiace non averti avvertito di quanto fosse forte.»

«Oh, non è colpa tua, non sai che io sono come i bambini, provo a conoscere tutto quello che trovo con la bocca~»

«Ferid, non in chiesa!»

«Se sono troppo sacrilego non portarmici, no?»

Crowley sospirò esasperato e Gilbert si congedò per preparare l’altare mentre Ferid continuava a sorseggiare il vino come fosse affondato nella sua vasca da bagno in totale relax.

«È proprio una bella chiesa, sì.» commentò guardandosi intorno ancora una volta. «Ti sposerai qui, immagino.»

«Uhm… beh, teoricamente sì.»

«Che vuol dire?»

«Le mie preferenze le conosci già. È ovvio che se scoprissi che la persona che mi rende più felice è un uomo non potrò sposarla qui.»

Seguì un breve silenzio e Ferid abbassò il bicchiere di carta.

«L’amore vince sulla fede, allora?»

«Voglio essere felice… non posso essere un cattolico se sono infelice. Ci sentiamo dire continuamente è sbagliato, è sbagliato, è sbagliato… Dio non sbaglia mai. Se alcuni di noi sono diversi è perché hanno uno scopo diverso dal popolare il regno della terra. Dio non sbaglia.»

«Oh, quindi tu non credi che siamo malati o che siamo deviati da Satana?»

«Io non credo a Satana. Tutto è come Dio vuole che sia… anche quello di terribile che accade ha una ragione e non serve che io sappia quale sia… io sono diverso dalla gran parte degli altri… noi siamo diversi e se lo siamo è perché Lui ha voluto che lo fossimo. Non penso che perderò Dio o il paradiso se passo la vita con un uomo, ma… di certo se succedesse perderò la mia chiesa e la mia comunità.»

«E questo non ti renderebbe triste?»

«Moltissimo… per questo so che se decido di sposare un uomo a questo prezzo è perché lo amo più di qualsiasi altra cosa di questo mondo.»

Ferid emise una sottile risata.

«Ah, quanto sei romantico~ ma se le cose stanno così, spero che la persona che amerai sia una donna, così non dovrai rinunciare a niente e sarai felice di venire in chiesa con lei a sentir cantare i tuoi molti figlioletti nel coro~»

Crowley lo guardò con una certa dose di stupore, perché non si aspettava da lui un simile augurio né si aspettava che nonostante il tono giocoso suonasse tanto sincero. Gli sorrise.

«E tu ci verresti a sentir cantare i miei molti figlioletti?»

«Ah, a una condizione insindacabile.»

«E quale?»

«Che mi chiamino zio Ferid~»

Crowley scoppiò in una risata così forte che riecheggiò nella chiesa semivuota e fece voltare parecchi membri del coro dalla loro parte. Lui fece un gesto con la mano per scusarsi di aver disturbato i loro esercizi e sorrise, appoggiandosi con i gomiti allo schienale della panca.

«Per quanto mi riguarda, affare fatto.»

 

 

Anche se non aveva intenzione di ammetterlo, Ferid si era goduto la messa per i Santi Arcangeli in modo che riteneva impossibile: aveva trovato molto in gamba il nuovo coro della Saint Thomas, apprezzabili i canti scelti e tutto sommato non noiosa l’intera celebrazione. Aveva retto abbastanza bene la sua pretesa di non averla trovata interessante all’inizio, ma quel pomeriggio si trovò senza accorgersene a canticchiare il suggestivo componimento chiamato Prince of Revelation, che non aveva mai sentito prima, mentre era impegnato a sbucciare delle verdure per la cena.

Il dettaglio non sfuggì a Crowley, anche perché era seduto al tavolo accanto a lui intento a preparare degli involtini di carne che chiudeva con uno stuzzicadenti, con una precisione e pazienza che da lui non ci si aspettava.

«Ah, allora qualcosina ti è rimasta impressa, eh?»

«Non mi pare di aver detto il contrario, no?»

«Mi era parso di capire che non ti fosse piaciuta, non hai detto questo?»

«Forse l’ho detto, ma non ho detto che non mi fosse rimasto impresso nulla~»

«Prince of Revelation, mh? È davvero una bella canzone, piace molto anche a me.»

«Io non la conoscevo, ma ha una musica davvero… importante, capisci cosa intendo dire? Quel passaggio di note alte nella parte non cantata è come se urlasse ascoltami!»

«Gilbert aveva molto talento come compositore e come pianista, ha vinto qualche concorso statale quand’era piccolo. Gli piace scrivere inni di chiesa.»

«Stai dicendo che Prince of Revelation l’ha scritta lui?»

«Sì, quella, e anche Father of Love, hai sentito anche quella oggi… e… se non ricordo male hanno eseguito anche You’re my All in All nel suo arrangiamento personale. Era un musicista con molte capacità, davvero… ma rifiutò di andare al conservatorio e alla non-ricordo-come, quell’accademia famosissima per la musica e l’opera.»

«La Juilliard?»

«No, sai, sta a Philadelphia...»

«Ah, il Curtis Institute of Music?»

«Bravo, proprio quello. Comunque li bocciò tutti, non ne volle sapere di nessuna alternativa, voleva a ogni costo diventare un sacerdote… subito dopo il diploma si iscrisse al college qui nel West End, si laureò a ventun anni in teologia e poi scomparve a Chicago per quattro anni di seminario… quando tornò era già stato nominato e il Vescovo lo mandò qui alla Saint Thomas a prendere il posto di padre David O’Malley, un uomo ormai molto anziano…»

«Che carriera sfavillante~»

«Altroché, ma sai, noi del nostro anno della San Cristoforo abbiamo fatto tutti una carriera rampante! Io e George siamo diventati poliziotti con i voti più alti del nostro corso, Gilbert ha finito teologia a tempo record, Todd adesso fa il broker, lavora ad Albis Street… poi vediamo… Martin è un ricercatore oceanografico, Richard è un programmatore, e…»

«Sì, sì, ho afferrato il concetto, hai fatto una scuola super meravigliosa.» disse Ferid pelando una carota. «Ci manderai anche i tuoi bambini quando sarà il loro momento?»

«Ah, questa la vedo difficile… è una scuola privata, costa proprio tanto. I miei hanno risparmiato dai loro tre lavori per parecchi anni per mettere da parte abbastanza da pagarmi la retta fino alle scuole medie, e mentre studiavo hanno risparmiato per pagarmi anche il liceo… non so con chi potrei avere dei bambini, ma con il mio guadagno non potrò mai mandarci nemmeno uno di loro.»

«Non ti rattristare, ce li manderà zio Ferid se lo tratterai bene~»

«Seh, come no!» commentò Crowley, ma tornò a sorridere. «Non mi hai mai raccontato dei tuoi anni di scuola… com’è stata la San Matthew? È una scuola cattolica molto rinomata a Red Chapel.»

«Perché non ho molto da dire… i miei compagni mi trovavano strano e pensavano che fossi in un programma di recupero per tossici o per schiavi del sesso. Non sono mai stati socievoli o gentili con me e io ho dovuto recuperare tantissimo studio, avendo studiato soltanto con insegnanti a casa.»

«Oh, l’avevo dimenticato… ma tu sei intelligente, quindi ce l’hai fatta lo stesso, no?»

«Certo. Non ero abituato alle lezioni e alla scuola, ma studiavo molto anche a casa… e poi non è che avessi delle distrazioni, non mi vedevo con nessuno e non uscivo con gli altri dal campus.»

«Tu non esci mai, Ferid, è il tuo grosso problema… tu sei fantastico, ma non ti conosce nessuno perché vivi tappato in un negozio per stramboidi con quella pazza del tuo capo e in casa con quella pazza della tua gatta.»

Crowley scoccò un’occhiata alla gatta, che lo fissava ormai da una mezz’ora.

«Oh, qualcuno mi conosce, tranquillo~»

«Non mi interessa sapere se stiamo parlando di conoscenze in senso biblico o no. Mi basta sapere che non c’era nessuno quando avevi bisogno di un alloggio, di un cambio di vestiti o quando sei scomparso da casa tua senza lasciare tracce.» tagliò corto Crowley. «Questo ha solo due possibili spiegazioni: la prima è che quelli che ti conoscono sono persone stupide che non ti danno la giusta importanza, la seconda è che non ti conoscono a sufficienza. Mikaela è la prova vivente, no? Lo conosci da una settimana ma con lui sei naturale e ora siete amici.»

«Siamo compagni di gioco, mi sembra un tantinello diverso.»

«Ma avanti, guarda che Yuu me l’ha detto di cosa parlavate… non tutto quello che gli hai detto, ma a grandi linee di che cosa parlavate. Mikaela non è poi uno che parla tanto, soprattutto di se stesso. Sai che quando ci siamo conosciuti in pratica non mi ha rivolto una parola per mesi?»

Crowley si gettò a capofitto in una cronaca dettagliata del giorno in cui i due ragazzi si erano trasferiti lì, appena maggiorenni, direttamente dall’orfanotrofio Hyakuya di Squall’s End; di come fossero stati bollati come criminali da Bernadette McCarr e del loro primissimo incontro sul pianerottolo.

Avrebbe potuto essere interessante ascoltarlo ma l’attenzione di Ferid era stata calamitata dalla televisione accesa senza audio. Gli suscitava un’ansia crescente che non comprendeva mentre osservava alcuni ragazzi con microfoni e strumenti musicali immersi nel fumo su un palcoscenico. Non capiva perché la prevendita dei biglietti di un concerto di una boyband lo facesse sentire così a disagio.

Crowley, che si era accorto della sua distrazione, aveva smesso di parlare e fissava il televisore.

«Vuoi andarci, per caso? Ti avevo promesso un concerto, in fondo… anche se non credevo fosse il tuo genere.»

«No, non è per questo, non so chi siano… solo…»

Ferid abbandonò il coltello sul tavolo e si massaggiò la fronte chiudendo gli occhi. Cercò di focalizzarsi su quella strana sensazione per capire che cosa fosse quell’inquietudine, con la sensazione che ci fosse un pensiero nelle zone d’ombra della sua mente, come un sogno quasi dimenticato che non riusciva più ad afferrare.

«Che succede, Ferid? Non ti senti bene?»

Ferid deglutì a fatica, senza riuscire a liberarsi di un certo nodo in gola. Aveva l’impressione che il tavolo, il tagliere, il mucchio di verdure e di bucce si stessero inclinando pericolosamente.

«No.» rispose lui, mentre un senso di nausea si impossessava di lui. «Mi gira la testa.»

Crowley si alzò dalla sedia e per ragioni a Ferid insondabili spalancò il frigorifero, per poi richiuderlo. Quando gli andò vicino i suoi occhi blu esprimevano fin troppo bene i rimproveri che gli passavano per la testa, ma la sua voce uscì comunque piuttosto dolce.

«Non hai mangiato stamattina, e ieri sera hai spiluccato un po’ di verdura soltanto, perché non mi avevi detto ancora niente del fatto che non puoi mangiare cose che contengono latticini.» gli disse, mentre di fatto lo sollevava dalla sedia di peso. «Quindi oggi hai ingoiato solo un peperoncino e un goccio di vino… Ferid, per favore, per favore, puoi smettere di comportarti come un ragazzino e prenderti cura di te stesso almeno un po’?»

«Scusami, Crowley… di solito quello che faccio o non faccio non fa preoccupare qualcuno…»

«Ora sì, quindi impegnati.»

Crowley lo portò fino al divano, ce lo spinse sopra e si guardò intorno con aria persa, come se la casa in cui si trovava non fosse sua. Sparì dal suo campo visivo in cucina e Ferid chiuse gli occhi. Lottando in bilico tra il senso di nausea e lo strascico del capogiro il suo pensiero tornò a quel concerto alla Belfast Arena, senza però riuscire a venire a capo della ragione di tanto turbamento.

Nel contempo, il padrone di casa buttò tre uova dentro la padella sfrigolante e si mise a caccia di qualcosa da affiancarci che richiedesse poca o nulla cottura, ma fu sorpreso e contrariato di vedere in evidenza su ogni confezione ingredienti con lattosio.

Non mi ero mai reso conto di non avere la minima idea di cosa contiene quello che mangio tutti i giorni… persino nel pane ci sono latte e burro, e io cucino praticamente tutto con latte, burro e formaggio…

Crowley scartò le successive cinque confezioni di cibo che prese dalla credenza, tutte contenenti una notevole quantità di ingredienti insospettabili.

«Ma come fai a nutrirti con un’intolleranza al lattosio? Non puoi mangiare praticamente niente!»

Ferid emise un verso piuttosto neutro e Crowley tornò al fornello a recuperare le uova al tegamino prima che diventassero simili a polistirolo. Si trovava spiazzato e quasi inerme di fronte ai problemi speciali di Ferid, perché lo metteva a contatto con mondi dei quali non conosceva niente. Si sentì un po’ colpevole perché si rese conto che De Stasio aveva avuto ragione a criticare quello che mangiava: non aveva mai corretto il tiro, provato qualcosa di più salutare, e i risultati erano che aveva la casa piena di cibi industriali e pesanti che Ferid non poteva mangiare e le analisi del sangue traboccanti di valori sballati alla soglia neanche così imminente dei trent’anni.

Ha un che di deprimente accorgersi che nessun vizio resta impunito.

«Ferid? Tieni, mangia questo per adesso.» disse, portandogli il piatto di uova. «Sono proteine e grassi, ti terranno su fino alla cena…»

«Senti, Crowley...»

«Prima mangia, poi possiamo parlare di quello che ti pare.»

Ferid si raddrizzò sul divano, con un’aria cupa che non gli piacque nemmeno un po’. Non poteva dire di non essere preoccupato, perché Ferid gli sembrava diventare sempre più strano: a volte si chiudeva in lunghi silenzi meditabondi, lo aveva scoperto sveglio durante la notte, gli sembrava mangiasse sempre meno e più di rado e non aveva dimenticato quella specie di trance che l’aveva colto sul tetto.

Avrebbe voluto chiedere a qualcuno esperto se quelli fossero i sintomi di una depressione o di qualche altro problema psicologico, ma per il ricordo ancora doloroso di quello che gli aveva fatto Horn non si era ancora deciso a chiamarla o a scriverle.

Non conosco nessun altro... possibile che conosco così tante persone e nessuna che possa aiutarmi? Che possa aiutare lui?

Sospirò mentre guardava Ferid spiluccare le uova come un bambino avrebbe giocherellato con un’amarissima insalata di radicchio.

«Ferid… cosa c’è che non va? Sei così tanto infelice qui da non riuscire a dormire e da non voler mangiare? Hai paura che lui ti trovi? Che io non riesca a trovare lui? Non so leggerti nel pensiero, devi dirmi che cosa senti.»

«Non serve che tu lo sappia.»

«Che vuol dire che non serve?»

«Sono preoccupazioni mie e tu hai le tue, e non sono poche. Non c’è motivo di darti anche le mie, soprattutto perché non puoi farle sparire.»

Crowley strinse i pugni e prese un respiro profondo.

«Che cavolo stai dicendo, ora? Pensavo che ti fidassi di me adesso, mi racconti moltissime cose, e… perché non questa? Lo vedo che ti fa star male, qualsiasi cosa sia.»

Ferid tacque e masticò un piccolo boccone di uova per un tempo che parve infinito. Crowley sentì che dentro gli stava scattando qualcosa, una delle poche cose che lo faceva arrabbiare: percepiva che Ferid non si fidava, che temeva una reazione brusca o negativa. Non gli piaceva l’idea che dopo quella ripida impennata tra di loro si sentisse ancora come se avesse a che fare con un estraneo.

«Ferid, guardami.»

«Sono un po’ troppo cotte queste uova.»

«Ferid. Guardami

Lui alzò lo sguardo su di lui ma Crowley percepì che era a disagio nel guardarlo.

«È per me? Perché la mia indecisione su di te ti rende nervoso, o…?»

Dopo un momento di smarrimento palese, Ferid sorrise e gli fece una carezza fugace sul viso.

«Oh, Crowley, non è colpa tua… il massimo che speravo di avere da te quando ti ho visto nel mio negozio è un’ora o due della tua vita e qualche bel ricordo di quel tempo, tutto quello che mi hai dato è molto, molto di più~ non c’è motivo per cui tu debba pensare che qualcosa che fai o non fai mi rattristi, quindi tranquillo~»

«E allora che cos’è che ti rende triste? Ti manca casa, ti manca il lavoro, il tuo gatto, i tuoi giri in biblioteca… che cos’è che non va?»

«Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa che non va? Tu non sai come sono quando sono a casa, quindi potrei essere sempre un po’ triste.»

«Lo sei?»

Con una sensazione crescente di orrore lo vide annuire con un sorriso tirato.

«Sono allegro molto di rado e felice quasi mai. Mi spiace dovertelo dire perché non vorrei dirlo mai, non cerco di impietosire gli altri o di farmi consolare, ma è la realtà. Mi aggrappo alle più piccole, stupide, disparate cose piacevoli che ho per tirare avanti. A volte vivere così è insopportabile, ma… per quanto quelle sere pensi di non avere più voglia di respirare al mattino lo sto ancora facendo.»

Non è normale... desiderare di non risvegliarsi al mattino non è una cosa normale, per quanto si possa essere tristi! Quando ci si sente tristi si mangia qualcosa di buonissimo, si cerca di fare qualcosa di divertente per cambiare umore, o ci si chiude in casa a bere e commiserarsi per una mezza giornata... non si spera di morire!

«Ferid, non pensi che… sia il caso di parlare con qualcuno?»

«Lo sto facendo.»

«Intendo con qualcuno di più…»

Venne interrotto dalla suoneria del cellulare e lanciò un’occhiataccia al display, chiedendosi chi diavolo potesse chiamarlo di domenica pomeriggio, ma poi vide che era il capitano Alford.

«Perdonami, devo rispondere.» disse cupo, e accostò il telefono all’orecchio. «Alford, che c’è?»

«Crowley, mi dispiace disturbarti, ma abbiamo bisogno di rinforzi. Sei a casa ora?»

«Sì, sono a casa con Ferid.» ribatté lui sottolineando con una certa insistenza le ultime due parole. «È proprio necessario che ci sia io? I miei vicini sono fuori, lo lascerei da solo.»

«Se non fosse stato necessario non ti avremmo chiamato. Ieri notte c’è stata una rapina con omicidio nella zona del vecchio ostello, stamattina presto un ragazzino è arrivato in ospedale coperto di sangue denunciando il fratello maggiore che ha ucciso i loro genitori e questo fratello però è a Helena da un mese. Sì, c’è bisogno di te, sono indagini delicate e i ragazzi delle frodi informatiche non sono preparati per cavarsela da soli.»

Crowley brontolò a bassa voce scarmigliandosi i capelli. Non aveva mai avuto un simile pessimo tempismo per una chiamata d’emergenza, nemmeno quella volta in cui l’avevano chiamato proprio mentre si trovava in una sala privata di un night club e Latisha Brown gli stava aprendo la lampo per rimediare a un’erezione da spavento.

«D’accordo… d’accordo, dammi qualche minuto.»

Crowley chiuse la chiamata e guardò Ferid.

«Hai sentito?»

«Sì… non preoccuparti per me, vai.»

«Può darsi che faccia tardi, ma tu prepara la cena e mangia senza di me se non sono ancora rientrato alle sette, okay? Devi mangiare. Devi stare bene, Ferid, non farmi preoccupare. Non mi fa bene al cuore.»

«Ah, smettila con questa bugia~»

«Non intendevo il mio muscolo cardiaco, stavolta.»

Non fu molto efficiente nel celare il suo stupore o forse non provò nemmeno a farlo; la sua espressione lo fece sorridere.

«Stasera potremmo parlare un po’ di come ti senti… potresti raccontarmi tutto quello che ti rende triste e poi potremmo cercare una data all’Elysium Theatre, qualcosa che ti va di vedere. Che ne pensi? Anch’io non ci vado da tanto.»

«Non sono confinato qui?»

«Non è il caso che tu esca da solo, ma che male può farti uscire una sera o due insieme a me? Farebbe bene al tuo umore.»

Ferid sorrise con un po’ di convinzione e il fatto che si abbarbicò a gambe incrociate sul divano gli suggerì che doveva essersi rilassato almeno in parte. Attaccò le uova con più entusiasmo.

«Sei contento?»

«Sono contento di avere te che ti occupi di me~»

«Sì, fantastico, però prova a rendermelo un pelino più facile gestendoti il cibo da solo.» commentò Crowley con un sospiro. «Io devo andare, ma ricordati di cenare anche se io tardo.»

«Promesso~»

«Guarda che se non mantieni la promessa brucerai all’inferno.»

«Ah, che tenero, pensi ancora che in qualche modo mi salverai l’anima~»

«Ci proverò fino al tuo ultimo respiro, stanne certo.»

Crowley lo salutò e si affrettò a raggiungere la macchina nel parcheggio di fronte alla palazzina. Scrisse un messaggio a Yuu per pregarlo di tenere d’occhio Ferid quando fossero tornati dalla loro gita al piuttosto famoso parco zoologico di Dern, e lui rispose quasi all’istante che ci avrebbe pensato lui. Con un certo sollievo mise in moto e puntò dritto alla centrale di polizia.

Avrebbe dovuto trovare proprio un bel regalo da fare ai suoi vicini per Natale per ripagarli di così tanta disponibilità.

 

 

Ferid stava preparando un po’ del suo infuso di melograno e pesca nella piccola cucina in penombra quando il campanello suonò. Senza esitare ma con calma andò alla porta, diede una rapida occhiata dallo spioncino e poi tolse la sicura per aprire.

«Buonasera, Ferid. Dolente per la lunga attesa, ho dovuto attendere che i bambini tornassero a casa.»

Ferid scosse la testa e gli fece spazio per passare.

«Non è affatto stata lunga. Grazie di essere venuto, Crowley mi ha fatto promettere che non sarei uscito di casa senza di lui.»

«Deduco non sia in casa, quindi.»

«Preferivo che non sapesse che volevo parlarti.»

Ferid chiuse la porta dietro il nuovo arrivato e prese un silenzioso, profondo sospiro prima di girarsi a guardare Gilbert: l’alto uomo dai biondi capelli mossi, profondi occhi blu come quelli di Crowley e l’abito nero gli sorrideva con uno sguardo che emanava un rassicurante calore umano.

«Sembra che qualsiasi cosa sia ti angosci molto… devo dirti che se cerchi assoluzione io ti posso confessare soltanto nel luogo appropriato nella mia parrocchia, è così che la Diocesi ordina.»

«Sono nato colpevole e come tale me ne andrò da questo mondo.» ribatté Ferid. «Non è per questo che ti ho voluto parlare.»

«Sei in errore se questo è quello che credi, ma non sta a me convincerti o forzarti alla confessione, dunque… dimmi, come mai tanta impellenza?»

Ferid tacque, domandandosi da che parte iniziare. Era difficile parlargli, perché il suo sguardo assomigliava tanto a quello di Crowley; li si sarebbe potuti scambiare per cugini se non propriamente per fratelli.

Chissà se i bambini di suo cugino hanno occhi come i suoi… lui assomiglia a suo padre e sono parenti della sua parte.

«Stavo facendo un infuso di melograno e pesca… ce n’è abbastanza per due, posso offrirtene?»

«Perché no? Sembra delizioso, grazie.»

«Siediti, prego.»

Gilbert prese posto al tavolo della cucina e sorrise più ampiamente quando il suo sguardo si posò sulla gatta acciambellata su una sedia libera. Ferid recuperò una seconda tazza e versò l’infuso bollente per entrambi. Il prete accarezzò la gatta brevemente e prese la tazza, annusò l’infuso, soffiò per raffreddarlo e ne bevve senza commentare.

Il silenzio durò ancora qualche minuto, perché Ferid faticava a capire come mai trovasse così difficile parlare. Aveva telefonato convinto di cosa voleva fare, ma ora che aveva quella persona davanti aveva paura di parlare. Paura di sentire come avrebbe risposto.

«Gilbert, tu… ah… è una domanda strana, lo so… ma… tu… Crowley mi ha raccontato di te, di come hai fatto la tua scelta… tu…»

Non riesco a parlare, accidenti.

Ferid prese un profondo respiro.

«Hai mai parlato con Lui? O meglio… Lui ha mai parlato con te?»

«Intendi Nostro Signore? Se cerchi qualcuno che parla vivacemente con Dio devi parlare con il tuo ospite, di certo non ho mai incontrato nessuno che avesse una dialogo simile con qualcuno di intangibile e insondabile. A volte sembra pazzo.»

«Sì, ma io lo sto chiedendo a te.»

«Ah… è vero. Hai ragione, non mi sottraggo al confronto. Vediamo, se Dio ha mai parlato con me… se intendi direttamente, se io abbia sentito una voce che identifico come sua, parole nitide… no, non è mai successo.» ammise l’uomo biondo, assorto. «Ma se intendi se ho avuto pensieri che fiorivano d’improvviso, idee che mi venivano al momento del risveglio come se mi fossero state sussurrate all’orecchio, o ancora una certezza di essere sentiti e di essere confortati, allora sì.»

Incerto su come proseguire su quelle basi, Ferid esitò e prese un sorso.

«Lui ha parlato a te, invece? È questo il dubbio che ti vuoi togliere?»

Ferid tacque per un lungo momento mentre posava la tazza lentamente come fosse fatta di un cristallo delicatissimo.

«Io non sono come te, né come Crowley. Non sono un buon cristiano, si potrebbe dire che non sono nemmeno cristiano… ma quella volta… io non so se Crowley ha ragione quando dice che il suo Dio mi ha mandato da lui.»

«Ti va di raccontarmi di quella volta che ti turba?»

Ferid annuì e dovette cominciare dal principio, dipingendo a Gilbert un quadro abbastanza dettagliato della sua esistenza nella tenuta di campagna, dei suoi genitori, dell’isolamento. Occorsero diversi minuti per offrirgli una prospettiva sufficientemente completa e durante quel tempo il sorriso di Gilbert si affievolì fino a sparire.

«Visto che mia madre non poteva uscire mio padre allestì una cappella privata e la fece consacrare. Quand’ero ragazzino non avevo più nessuno a sostenermi, non avevo amici, o parenti, e…»

«Ma c’era Dio.»

C’era o non c’era? Ferid ancora non aveva una risposta a questa domanda, quindi non si sentì di confermare o smentire.

«Passavo molte ore lì… a pregare. A chiedergli di salvarmi, di portarmi via da quella casa terribile… anche a costo di diventare uno dei suoi, di passare la mia vita a salvare anime per suo conto. Avrei fatto qualsiasi cosa, promesso tutto pur di essere libero. A volte pensavo che se avessi potuto scambiare la libertà con le mie braccia, o le mie gambe, o un mio occhio l’avrei accettata anche a quel prezzo.»

«E lui ti ha parlato in questo contesto?»

«È stato durante un pomeriggio… pioveva forte contro le vetrate. Mia madre era stata terribile quella notte, mio padre si era arrabbiato con me perché non ero rimasto fuori dalla sua vista… è stato il giorno più brutto che io riesca a ricordare ancora oggi. Avevo pregato per ore in ginocchio davanti all’altare, e tante volte ho avuto il dubbio che mi fossi addormentato esausto, o che la stanchezza mi avesse ingannato, ma per la maggior parte del tempo so che non è così.»

«E…?»

«C’era solo la pioggia… non c’era nessun altro. Ho sentito un amen di risposta al mio, eppure so che non c’era nessuno… a quell’ora, in quel giorno della settimana, non c’era che la cuoca e l’infermiere di mia madre in casa. Non può averlo detto nessuno, e non era un’eco. Io lo so che non lo era.»

«Era una voce di uomo o di donna?»

Ferid esitò, riflettendoci sopra: anche se quel ricordo era ancora piuttosto vivido nella mente non era sicuro di saper rispondere a quella domanda.

«Non ne sono certo.» disse infine. «Per quanto strano sia, mi verrebbe da dire… tutte e due, e nessuna delle due.»

Un curioso brillio animò gli occhi blu di Gilbert, e questo lo mise vagamente a disagio.

«Che c’è?»

«Forse non è casuale, Ferid… anzi, di certo non lo è. Sai, la volta scorsa ti ho visto con Mary.»

«Mary? Ah, quella bambina che voleva l’acqua benedetta…»

«Sai che Mary sta meglio, ora?»

«Cosa?»

Ferid sobbalzò al rumore che fece egli stesso posando bruscamente la tazza sul piattino. Gilbert sorrise.

«Mary si sente meglio. La notte riesce a dormire, cosa che non riusciva a fare da tempo, e i suoi sintomi sono diventati un po’ più lievi. Ora mi domando quanto merito sia della messa che abbiamo celebrato e quanto sia tuo.»

«Non… non dire sciocchezze, Gilbert, Dio non sceglierebbe certo uno come me per guarigioni miracolose o qualche altro…»

«No? Dio sceglie i più bizzarri profeti, quindi perché non tu? Ha creato te come ha creato me, e Crowley, e tutte le persone che hai incontrato nella tua vita. Perché io posso servirlo e tu no? Perché Crowley viene ascoltato e tu no? Tu puoi servirlo, tu vieni ascoltato, tu sei amato. Come noi… non più di noi, non meno di noi.»

Gilbert dovette percepire il suo scetticismo, perché proseguì:

«Non fai miracoli, dici? Hai salvato Crowley con un amuleto. Con più di duecento poliziotti e volontari, tu hai trovato la ragazzina rapita dall’assassino. Tra decine di persone, Mary ha chiesto a te una benedizione. Crowley ha ragione: Nostro Signore sta certamente operando qualcosa per mezzo di te.»

«No, non è così, io soltanto… non ne ho fatta una giusta nella mia vita, e io voglio solo…»

«Tutti noi abbiamo uno scopo che Lui sa, che Lui ha scelto per noi… a un certo punto sarà chiaro che per quanto doloroso sia stato il percorso, arriverai dove Lui vuole portarti.»

«Gilbert, per favore!» esclamò Ferid. «Tutto quello che io voglio sapere è…»

La sua frase si spense nel silenzio e Ferid fissò il fondo rossastro del suo infuso.

Che cosa voglio? Volevo sapere che cosa pensava. Volevo sapere se anche lui vedeva in me una minima parte di quello che vede Crowley… e la vede. Pensa anche lui che Dio ha un disegno… che io ne faccio parte… e ora che lo so mi spaventa. Il fatto che io abbia incontrato Robert… che mi abbia portato qui, che io abbia incontrato l’agente O’Brian, e tutta la strada che mi ha portato a incrociare il cammino di Crowley quel giorno fosse il disegno? Possibile… che niente sia stata una mia scelta?

«È… se le cose stanno così… io non ho scelta?»

«Hai scelto tu questa via, no? Gli hai chiesto di salvarti in cambio di qualsiasi cosa, non lo hai detto tu stesso? Lui ha accettato. Hai scelto allora di diventare parte di un Suo disegno per te e per altri per mezzo di te… è un onore grandissimo quello che ti è stato concesso, Ferid. Quello che qualsiasi uomo di chiesa come me spera di avere nella sua esistenza… una vita al Suo servizio, tramite una missione più grande di quella che può adempiere un uomo comune.»

«Per favore, smettila!»

Ferid si alzò di scatto spingendo indietro la sedia e il rumore improvviso fece schizzare Pandora sotto il tavolino del salotto. Voltò le spalle a Gilbert e si appoggiò al bordo del lavabo afferrandolo con mani che tremavano. Il senso di rabbia e di smarrimento che provava gli sembrava lo stesso martellante, bruciante dolore di quando si era reso conto che Robert lo aveva ingannato e abbandonato.

«Non dovevo chiederti di venire qui. Non dovevo farti queste domande.»

«Perché ti ha spaventato la risposta? Andrà tutto bene… non tutti i disegni di Dio terminano con il martirio e la crocifissione, soprattutto ora che difficilmente si condanna qualcuno per blasfemia o per la sua religione.»

«Non… non voglio continuare questa conversazione.»

Gilbert non rispose, ma Ferid lo sentì alzarsi dalla sedia e sperò che stesse per annunciare che se ne andava. Sussultò quando sentì la mano che lo toccava sulla spalla.

«Perdonami, Ferid, temo che le mie parole ti abbiano inutilmente spaventato… sediamoci, parliamone con calma. Risponderò a qualsiasi tua domanda su Dio, sul libero arbitrio e tutto ciò che ti passi per la testa, di modo che tu possa capire che cosa significa essere scelti… se vuoi ti racconterò anche la storia di un ragazzo che mi venne raccontata dal vescovo di Chicago… una storia che ti mostrerà fino a che punto di umiltà Dio sceglie i suoi messaggeri.»

Ci volle qualche momento di doloroso dibattito interiore perché Ferid decidesse di tornare a sedersi al tavolo con il prete, e ascoltò in silenzio gran parte della storia del vescovo.

Un giovane sudamericano, orfano e senza famiglia, era finito precocemente a vivere sulla strada tra bande criminali e spaccio di droga restando intrappolato in una spirale sempre più distruttiva. Una volta che fu quasi ucciso da una coltellata per vendetta sterminò il suo aggressore e tutta la sua famiglia, e la lunga sequela di omicidi che Gilbert gli riportò fece sentire Ferid quasi un santo vero.

Sorprendentemente la sua conversione non fu opera di un programma di recupero, delle suppliche di un’amante, di un nuovo episodio sulle soglie della morte o della fede salda di qualche clerico: un giorno, mentre stava per commettere un altro banale, insignificante omicidio da aggiungere alla sua lunghissima lista un cane era corso in aiuto del suo piccolo padrone e gli occhi di colore diverso di quel cane colpirono l’immaginazione – o piuttosto l’anima – di quello che ormai era un uomo dedito ai reati più abietti. Risparmiò il giovane, in capo a pochi giorni abbandonò la sua famiglia criminale e lasciò il paese, entrò nella comunità cattolica di Santa Fé e avviò il suo percorso fino al sacerdozio.

La sua storia divenne famosa più tardi negli anni, dopo che Padre Paulo divenne celebre per la sua straordinaria saggezza, bontà, fede e per le sue guarigioni miracolose. Paulo stesso raccontò all’uomo che sarebbe diventato vescovo di Chicago la sua storia, asserendo ch’egli aveva visto Dio negli occhi di quel cane: solo allora Ferid capì che il profeta di cui Gilbert parlava, l’umile messaggero di Cristo, non era Paulo ma bensì il cane che incontrò quel giorno.

Gilbert, terminato il suo racconto, lasciò che Ferid potesse rimuginare su quello che aveva sentito mentre si versava un altro goccio di infuso rosso. Era tornato a sorridere.

«Nostro Signore è un Dio di meraviglie… come fece di una creatura secondaria della sua opera un mezzo della sua volontà, può certo farlo con qualsiasi uomo… trasmutò il piombo in oro anche con Paulo, in questo modo. Pensi ancora che sia terribile essere scelti?»

«Io… ho una visione di Dio diversa da questa.»

«Diversa in quali termini?»

«Mia madre è… era sempre stata convinta che Dio fosse un’entità terribile… un re crudele pronto a far piovere zolfo su chiunque avesse sbagliato o disobbedito. Mia madre diceva questo.»

«Ma tu gli hai comunque chiesto di salvarti. Tu lo sapevi che Lui poteva.»

«Io speravo che potesse.» lo corresse Ferid. «Se avessi conosciuto Shiva, Ganesha, il Dio Cornuto o Damballah lo avrei chiesto anche a loro.»

«Ahi, ahi!» fece Gilbert, divertito. «Beh, non che importi, Dio sa che per paura e disperazione l’essere umano diventa particolarmente fragile… ma Ferid, tu ora in che cosa credi?»

La domanda lasciò Ferid senza parole e senza una risposta. In che cosa credeva? Credeva nel Dio della chiesa di Roma? Credeva in un’altra immagine di un Dio unico e onnipotente? Nel principio creatore come privo di volontà, nel ciclo di morte e reincarnazione, nel ciclo dello spirito? Con una libreria esoterica a disposizione aveva tutte le alternative possibili ben disposte davanti agli occhi, ma…

«Credo in un solo Dio… ma non credo che sia come tu e Crowley lo vedete.»

«Uhm… ma noi siamo sicuri che sia così. Non ci ha mai punito per aver creduto di essere nel giusto a chiedere la redenzione. Siamo uomini sani, piuttosto felici e sufficientemente realizzati da non desiderare grossi cambiamenti della nostra condizione, e non per paura di chiedere.»

Davanti al buffo disappunto di Ferid Gilber sorrise.

«Sai… ti lascia scegliere la maggior parte delle cose per te stesso, Ferid… se farai un passetto verso di Lui, Lui ne farà cento verso di te. Ti osserva sempre, non ti dimentica, come non dimentica ogni singolo passero di questa terra. Se rivolgi lo sguardo a Lui potresti renderti conto che è proprio così.»

Ferid fece per versarsi altro infuso anche soltanto per prendere tempo e si accorse che ne era rimasto solo un goccio. Ponderò l’idea di farne altro: ogni volta che era perso nei pensieri si occupava sempre con azioni meccaniche come preparare il tè o fare la toeletta ai gatti o più raramente mettendosi a stirare.

«Ferid, a quanto ho capito… tu sei stato battezzato e hai ricevuto l’Eucarestia nella cappella di famiglia, dal reverendo che officiava per voi.»

«Sì, infatti.»

«Ma non hai ricevuto un’appropriata educazione alle Scritture e alla religione… la tua confusione sulla colpevolezza, l’assoluzione e sull’amore di Dio lo dicono chiaramente.»

«Stai cercando di arruolarmi per il tuo corso di catechismo? No, grazie.»

«Perché no? Sei un uomo intelligente e sei alla ricerca di risposte che il tuo cervello non è stato in grado di trovare. Leggere e approfondire ti aiuterà a trovare una risposta… non ti voglio imporre la mia. Voglio aiutarti a trovare la tua… come ha fatto Crowley.»

«Non potrei neanche volendo. Non posso uscire di casa, sono sotto protezione per un caso di cui sono… testimone scomodo, per così dire.»

«Se mi dici che questo potrebbe aiutarti io posso venire qui quando ho tempo, anche ogni sera, se lo desideri. Posso portarti dei libri di approfondimento scritti da competenti teologi e uomini di chiesa e puoi chiamarmi ogni volta che ti imbatti in qualcosa che non comprendi. È il mio lavoro anche questo, e niente mi rende più felice di aiutare qualcuno a colmare anche di un solo centimetro il divario che lo separa da Nostro Signore.»

I suoi occhi brillavano e in quel momento assomigliava tanto a Crowley che Ferid avrebbe acconsentito a praticamente qualsiasi richiesta per non spegnere quella gioia. Dopo una lieve esitazione quindi annuì e Gilbert, prendendolo di sorpresa, allungò entrambe le mani sul tavolo e prese le sue nello stesso momento in cui il rumore familiare dell’ascensore riecheggiava nell’atrio: i vicini di Crowley dovevano essere di rientro.

«Ti prometto che non sarà tempo sprecato… le Scritture sono bellissime, te ne accorgerai anche tu. Hai conosciuto la collera di Dio nell’Antico Testamento, ma c’è ancora tanto da scoprire sul Suo amore.»

«Eri così fervente già da ragazzo, Gilbert?»

«No, in realtà. Più studiavo e più il fuoco mi ardeva dentro.»

Ferid si irrigidì per la sorpresa sentendo la serratura scattare e Gilbert, come lui, si voltò verso la porta. Ne entrò Crowley con un’espressione irritata che raramente gli avevano visto entrambi e che divenne palese stupore quando il suo sguardo si posò sui due seduti al tavolo della cucina, nella penombra, con le mani unite.

«…Che accidenti sta succedendo? Gilbert, cosa fai in casa mia?»

«Do conforto spirituale a un fedele, non vedi?»

«Da quando è un tuo fedele?»

«Da oggi!» rispose Gilbert sorridendo. «A proposito, non mi hai detto che hai deciso riguardo al coro~»

«Ah… non ci ho proprio pensato, ho avuto da fare.»

«Al coro?» ripeté stranito Ferid.

«Non te lo ha detto? Gli ho chiesto di cantare nel nostro coro!»

Ferid, che aveva visto proprio quella mattina il coro della chiesa con addosso le tuniche bianche, si immaginò di vederci anche il padrone di casa e si mise a ridere in modo incontrollabile. Crowley sembrò accusare il colpo e rifiutò in toto l’offerta, ma Gilbert prese ad insistere e Ferid poté godere un interessante teatrino di finte ripicche riguardo “quella volta che” o “quel favore di quella volta”.

Quando arrivò l’ora di cena la tavola fu apparecchiata per tre e Gilbert nella sua preghiera ringraziò per il cibo, la buona salute, per un uomo che aveva fatto un passo verso Dio e per un altro che avrebbe cantato in occasione della messa di Ognissanti.

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Capitolo 21
*** Il caso Harrison ***


Crowley si rese conto di cosa significasse davvero essere impegnati quando aprì la sua piccola agendina per appuntarsi di chiamare un certo avvocato e si accorse di avere tali e tanti impegni per i successivi tre giorni da non riuscire a infilare il nome e il numero di telefono neanche di traverso sul bordo.

Ho bisogno di un’agenda più grande…

Anche se era stato dispensato dai turni di notte gli sembrava di non aver mai lavorato tanto da quando era passato alla omicidi: andava fino a Coniston e tornava, tornava sui luoghi nel West End e a Satbury, sentiva testimoni e sospettati, batteva rapporti – persino a casa dal suo computer ormai considerato in pensione – e rimbalzava da un laboratorio di balistica o di scienza forense all’ufficio del coroner come una palla impazzita.

Avrebbe voluto avere più tempo per dedicarsi al Vampiro, ma questi sembrava aver preso un periodo di ferie e non fece più parlare di sé per settimane.

Si sedette alla scrivania per piazzare un post-it aggiuntivo nella sua agenda e guardò con una certa insistenza la pila di incartamenti sul Vampiro. Non che sentisse la mancanza di bambini orrendamente uccisi, ma bramava nuove prove, nuove piste; non poteva assolutamente permettere che il più feroce serial killer degli ultimi vent’anni si dileguasse per sempre senza pagare le sue colpe e che diventasse un fantasma buono per libri e serie tv come successe per Jack lo Squartatore.

Non sarebbe giusto. Lui deve pagare, George e gli altri devono avere giustizia, come i bambini, le loro famiglie, e anche Ferid che è rimasto coinvolto in questo casino come tutti… specie se dovessimo scoprire che Robert Warren è davvero l’origine di tutto questo. Si sentirebbe così tanto colpevole che non so dire se ne uscirebbe.

«Detective O’Brian Eusford, ha un minuto?»

Crowley alzò gli occhi con una certa perplessità sul ragazzo arrivato da qualche giorno in trasferimento dal dipartimento frodi informatiche: era un genietto dell’informatica e pertanto arruolato precocemente con i suoi ventidue anni, privo del benché minimo senso pratico nell’investigazione sul campo e l’aria di uno studente appena trasferito in una scuola nuova; l’aspetto giovane, i mossi capelli castani corredati da occhi nocciola dall’aria oltremodo ingenua non aiutavano a farlo prendere sul serio in quell’ambiente.

Oh… Rogue, vero? O è Teller? No, Teller è quello con le lentiggini… almeno credo…

«Basta solo Eusford.» gli disse evitando il nome per timore di sbagliarlo. «Spero sia importante, sono sull’orlo di una crisi di nervi.»

Accennò alle pagine piene zeppe di scritte che riportavano i suoi impegni, lavorativi e non, sintetizzati nel minimo delle parole e simboli che fosse possibile usare senza sfociare nel massonico.

«Mi dispiace, signore, ma il sergente mi ha riferito di essere stato assegnato con lei al caso di Lamberjack Avenue. Sa, il caso di omicidio.»

«Ragazzo, questa è la squadra omicidi, qui tutti i casi sono di omicidio…»

«Ah, mi scusi… intendevo il caso di questa mattina. Un uomo ucciso nella sua camera da letto in Lamberjack Avenue, a seguito di un’aggressione, sembra. Ha telefonato la figlia al numero di emergenza.»

«Fantastico.» borbottò lui, e si alzò infilandosi cintura con fondina e giacca. «Il primo cadavere della tua vita, ragazzo?»

«Eh? A-ah… sì, io…»

«Vademecum della squadra omicidi per principianti assoluti: se sei in dubbio su cos’è non toccarlo, non fare promesse a nessuno, non respirare col naso e non guardare più di quanto sia strettamente necessario. C’è il coroner per fare l’autopsia, la scientifica per i rilevamenti e i detective per parlare con i sospettati.»

«Quindi… io… che cosa devo fare?»

«Solo quello che io ti dico di fare, vale a dire quello che ritengo tu possa fare per non intralciare le indagini.» sentenziò Crowley. «Perdonami la schiettezza, ma voi delle frodi informatiche su una scena del delitto siete utili come la forchetta nel latte. Detto ciò, ti posso anticipare che io avrei circa la stessa utilità alle vostre scrivanie, purtroppo Dio ha voluto che tu finissi sotto la ruota anziché io.»

Il giovane poliziotto borbottò una risposta indistinta e non disse molto altro lungo la strada verso la vicina Lamberjack Avenue; anzi, man mano che si avvicinavano era sempre più teso nel suo modo di stringere le labbra e quando scese dall’auto davanti alla casa delimitata dai nastri gialli era bianco come un cencio.

La casa era una bella villetta, simile alle molte altre allineate in Lamberjack Avenue: vicinissima alla zona universitaria del West End, era una strada relativamente tranquilla con piccole villette colorate, ben tenute, con piccoli giardini frontali e una fila di cassette rosse delle lettere a distanze regolari come i lampioni.

Il tipico quartiere dei sogni… la casa che tutti sognano di comprare per far giocare i figli in un posto sicuro.

Crowley passò sotto il nastro senza degnare di uno sguardo né di commenti i curiosi e i giornalisti.

«Ehi, Bert.» fece, non appena riconobbe l’agente di pattuglia. «Aggiornami.»

«Il tuo caso, Crowley?»

«Al momento ogni caso è di tutti, è come essere finiti in una comunità hippie al nostro dipartimento… ma senza passarsi l’erba seduti intorno al fuoco. Dimmi tutto.»

«La chiamata è arrivata stamattina presto, la figlia della vittima ha chiamato il 911 gridando che era successo qualcosa al padre e che c’era sangue dappertutto. Io e il mio collega siamo arrivati in meno di tre minuti. La figlia era dai vicini, terrorizzata. La casa era vuota, fatta eccezione per il padre… Alex Harrison, nella camera da letto padronale.»

«Portamici.»

«Sì. Di qua.»

Passarono accanto a un salottino dove Crowley posò gli occhi su una coppia di ragazze in lacrime, una donna che sedeva rigidamente e un uomo dall’aria arrabbiata che camminava su e giù per la stanza. Il suo settimo senso da irlandese pizzicò appena ma non disse nulla e seguì l’agente su per le scale.

«Il ragazzo è dei nuovi?» fece Bert, accennando all’agente in prestito. «Ha la faccia di uno che non sa che cosa sta per vedere.»

«Sì, è in prestito dalle frodi informatiche… ragazzo, com’è ti chiami? Sei Rogue o Teller?»

«R-Rogue, detective Eusford… Teller viene dall’unità casi irrisolti.»

«Sì, è decisamente nuova leva, se ti chiama ancora per cognome.»

Raggiunsero il piano di sopra e la camera sulla sinistra era quella d’interesse; visto il via vai di fotografi e la valigetta della scientifica appoggiata fuori dalla porta. Crowley entrò senza esitare e scandagliò la scena secondo il suo personale metodo, che seguiva i punti focali in una successione sempre identica per evitare di tralasciarne.

La vittima era sdraiata nel letto, sotto la coperta, come se fosse stata colta nel sonno. Il sangue era ovunque, proprio come aveva detto la figlia al telefono con l’operatore, con schizzi fino al soffitto. Camminò per avvicinarsi al corpo evitando di calpestare le macchie sul pavimento e infilò i guanti che gli porse l’agente della scientifica.

«Bel lavoretto davvero. Ci vorrà un po’ per raccogliere tutto, da dove vuoi che inizi?»

«Abbiamo l’arma del delitto?»

«Non era in questa stanza.»

«Cominciamo secondo standard, allora.»

L’agente annuì e si chinò a frugare tra le varie boccette e confezioni sterili della sua valigetta, mentre Crowley si chinò sul corpo. La testa dell’uomo era l’equivalente di un pomodoro maturo caduto da una finestra al terzo piano; non era un bello spettacolo e per questo non si sorprese di sentire Rogue trattenere un conato di vomito.

«Rogue, se devi vomitare fallo fuori dalla scena, o dovrai raccogliere il tuo vomito nel caso che si sia sovrapposto a una prova.»

«C-chiedo scusa, signore…»

Crowley ignorò il ragazzo e osservò i traumi facciali, gli schizzi sulla parete e la camera tutt’intorno. Restò in silenzio per qualche minuto, poi andò nel bagno della camera padronale. La toeletta era ingombra dei prodotti femminili usati dalla moglie: svariati barattoli e boccette, deodoranti, saponi, perle e sali da bagno. Prese in mano la bottiglia decorata che somigliava a un diamante con un fiocco nero vicino al tappo.

Moonlie Black… è il profumo di cui parlava due giorni fa Ferid. Cos’aveva detto? Che aveva regalato questo a Krul tempo fa… ma la versione Scarlet… aveva detto Scarlet? Mi pare di sì.

Posò il flacone dopo averlo avvicinato al naso e aprì lo sportello. La panoramica non mutò molto se non per l’aver trovato il lato oscuro della bellezza femminile nella forma di prodotti per la depilazione, per pedicure e antirughe. Lo spazio riservato al marito defunto lo trovò in un cassetto, con un pettine e una forbice per la rigogliosa barba, una sobria spazzola e un tagliaunghie.

«Mhh…»

Quando tornò nella camera notò solo marginalmente che Rogue l’osservava con attenzione e fu su di lui che puntò. Si dovette chinare per annusarlo vicino al collo e Rogue si irrigidì immediatamente.

«C-che sta facendo?!»

Non viene da lui questo profumo… da dove viene?

Ignorando il disappunto del ragazzo e le sue domande iniziò ad aggirarsi per la stanza annusando con l’insistenza di un cane da fiuto, alla ricerca della fonte di quel profumo. Era più forte man mano che si avvicinava al letto, ma non veniva dal corpo della vittima.

«La vittima era un uomo di natura, eh?»

«Cosa?» domandò distrattamente il detective, ancora tutto preso ad annusare le tende del letto.

«Ha un sacco di libri sulle trappole da caccia, sui posti dove andare a pesca, e anche uno sulla sopravvivenza nei boschi… non verrebbe da pensare che sia il tipo di uomo che vive in una casa così borghese e ordinata… ma certo con quella barba era più convincente con la tuta da cacciatore che in giacca e cravatta.»

«Non è quel tipo di uomo… eh…?»

Rogue smise di controllare i cassetti della libreria e si voltò a guardarlo con l’accortezza di non far scorrere lo sguardo sul corpo.

«Ho detto qualcosa che non dovevo?»

«Che lavoro faceva la vittima?»

«A quanto ho capito, il manutentore.» rispose l’agente di pattuglia, appena fuori dalla porta. «Aveva un diploma in elettrotecnica, fa le manutenzioni a domicilio per conto di una serie di negozi e anche privatamente… automobili, elettrodomestici, macchine da giardino e agricole. Ce l’ha detto la moglie.»

«Un lavoro manuale… una vita all’aperto, quindi…»

«Sembra fosse quella che voleva… ma che cosa sta cercando, signore? Me lo vuole dire? Forse se mi istruisse potrei diventare meno inutile…»

«Sto cercando qualcosa che non c’è, almeno, non in questa stanza… com’è fatta casa tua, Rogue? Hai una camera padronale?»

«No, no, figurarsi! Sto in un appartamento con mia sorella, per ora, dividiamo le spese… perché me lo chiede?»

«Anche io sto in appartamento, ma… se avessi una camera padronale con un bagno solo per te e tua moglie non terresti lì tutti i tuoi effetti personali?»

«Suppongo di sì… sì, direi di sì. Nessuno tranne mia moglie li vedrebbe e non dovrei preoccuparmi di cosa potrebbero vedere o toccare degli ospiti.»

«Quindi secondo te perché si sente il profumo di un’acqua di colonia da uomo ma Harrison non ne ha nella toeletta del bagno privato?»

«Acqua di colonia…?»

«Ci sono parecchie cose che non mi tornano. Il mio settimo senso ronza un sacco.» disse Crowley, e indicò gli schizzi sul soffitto. «Dì un po’, Rogue... la vittima è sdraiata nel letto come se lo avessero aggredito nel sonno, ma se fosse così non dovrebbero essere diversi, quegli schizzi?»

«Diversi in che modo?»

«Se usi un corpo contundente per colpire qualcosa che gocciola, o che sanguina, quello si sporca. Se lo sollevi per colpire ancora…» iniziò, e mimò il gesto di sollevare qualcosa sopra la testa. «Il liquido gocciola mentre carichi un altro colpo. Schizzi in una traiettoria corrispondente alla direzione in cui vibri i colpi, non trovi?»

«Beh… sì, direi di… oh!»

«Già. Per fare degli schizzi del genere sulla porta del bagno o l’assassino ha sferrato un colpo da un’angolazione assurdamente scomoda, oppure la vittima dava il viso o quantomeno le spalle alla porta del bagno. Non era sdraiato nel letto.»

«Ma perché allora prendersi la briga di metterlo nel letto e sotto la coperta?»

«Non sono ancora sicuro… Doc?»

Il coroner alzò gli occhi neri su di lui mentre voltava leggermente la testa della vittima. Come al solito Josiah Willis era un uomo di quante meno parole possibili.

«Vorrei sapere quanti colpi e la causa della morte. Qualcosa di sorprendente?»

«La morte è stata causata da un violento trauma cerebrale. Ferite da corpo contundente. Qualcosa di cilindrico, oserei direi, di piccolo diametro. Alla vista conto almeno cinque violenti colpi al volto e due alla nuca. La morte risale a presumibilmente a tre, cinque ore fa al massimo. Sarò più preciso dopo l’autopsia.»

«Mhh.»

Crowley si guardò intorno di nuovo alla ricerca di qualcosa che mancava, qualcosa che potesse essere stato usato come arma di fortuna, ma la sola mancanza che gli saltò all’occhio era la federa del cuscino sul letto.

Che strano… in una casa così curata da mano femminile manca una federa nel letto della camera padronale? L’ha portata via l’assassino, forse, ma per quale motivo? Per pulire l’arma? Per trasportarla? Perché non abbandonarla qui? Spostare il corpo… far sparire l’arma… un rapinatore non si comporta così. Avrebbe colpito il padrone di casa sveglio e sarebbe scappato, perché spostare il corpo? Eppure…

I suoi occhi blu si posarono sui vuoti sul comodino: tre punti netti in cui non c’erano schizzi, di forma pressoché rettangolare. Crowley rimuginò sui vuoti mentre si sfilava i guanti.

«Li ho notati anch’io.» fece il ragazzo avvicinandosi, taccuino in pugno. «Che cosa pensa li abbia lasciati?»

«Rogue, che cosa fai per prima cosa quando segui in camera da letto una donna?»

«I-in che senso?»

«In quel senso.» disse Crowley. «Ipotizziamo che tu sia appena sceso dall’auto, entri in casa con lei e andate dritti in camera da letto… qual è la prima cosa?»

«N-non so, uhm…»

«Svuoti le tasche sul primo ripiano che trovi. Non ti spogli lasciando il portafoglio, il cellulare, le chiavi e qualsiasi altra cosa in tasca… butti tutto sul comodino o sul tavolo e poi puoi spogliarti con comodo, no?»

«Beh, sì, ha ragione… quindi erano effetti del signor Harrison? Glieli hanno rubati?»

«No, non credo. Non credo che siamo di fronte a una rapina… vieni con me. Andiamo a parlare con la famiglia.»

«Ha finito con la scena?»

«Per ora sì. Ci sono delle incongruenze e voglio scoprire chi sta nascondendo qualcosa.» disse lui, e guardò l’agente di nome Bert. «Date un’occhiata in casa e qui nei dintorni. Voglio la federa di quel corredo di lenzuola, non importa dove sia, e voglio il portafoglio.»

«Il portafoglio della vittima, intendi?»

«È sporco di sangue. Se io fossi un rapinatore avrei preso il portafoglio, l’avrei svuotato appena arrivato in un posto più sicuro e poi l’avrei buttato tenendomi i soldi, sempre ammesso che ci fosse una somma tale da giustificare una rapina. Setacciate dappertutto, voglio quel portafoglio prima di sera.»

Non lo può aver tenuto. Non conciato in quel modo.

«Lo comunico a tutti!»

Rogue lo seguì al piano di sotto nel salottino, con l’aria ammirata tipica di ogni recluta che assiste al lavoro metodico di un investigatore navigato: ricordava di aver provato la stessa cosa nel vedere all’opera De Stasio. Nella stanza le due ragazze erano ancora scosse e si stringevano la mano, la moglie della vittima si copriva il viso e l’uomo sconosciuto si era finalmente seduto. C’erano delle tazze di caffè sul tavolino davanti a ognuno di loro.

«Sono il detective Crowley O’Brian Eusford della polizia di New Oakheart, squadra omicidi di Satbury.» si presentò, mostrando loro il distintivo sulla cintura. «Questo è il mio assistente, l’agente Rogue. Mi dispiace per la vostra perdita, ma vorrei farvi qualche domanda ora, prima che possiate dimenticare qualche dettaglio importante.»

«Detective, Sunday è sconvolta…»

«Me ne rendo conto, ma il tempismo è fondamentale… posso sapere innanzitutto… tu sei la figlia che ha telefonato al 911?»

La ragazza bionda, quella di nome Sunday, annuì.

«S-sì…»

«E tu sei sua sorella?»

Le due ragazze si guardarono con un certo imbarazzo; Sunday abbassò gli occhi e fu l’altra a fissare gli occhi castani fermamente in quelli dell'investigatore.

«Sono la sua fidanzata. Mi chiamo Terry Velasquez.»

Il suo sguardo era aggressivo, era come se lo stesse sfidando a disprezzare il loro rapporto o la loro tendenza, e Crowley capì che dovevano essere tristemente abituate a quel genere di trattamento. Lui, comunque, non aveva la minima obiezione da fare in merito; soprattutto perché la notizia era fondamentale per le indagini.

«Eri qui stanotte, Terry?»

«No, sono… sono arrivata stamattina. Dopo aver chiamato la polizia ha chiamato me dalla casa dei vicini e l’ho raggiunta… io sto al dormitorio dell’università nel West End, qui vicino.»

«Capisco…»

Spostò lo sguardo sulla vedova Harrison e lei, quando si vide osservata, emise uno strano singulto e si raddrizzò.

«S-sono la moglie… s-sono… Melissa Harrison.»

L’uomo arrabbiato avvertì il suo sguardo anche senza guardarlo e sospirò, alzando la testa.

«Io sono il fratello di Alex, Timothy. Era mio fratello maggiore. Appena Melissa mi ha chiamato mi sono precipitato qui.»

«Signora Harrison, lei dov’era?»

«C-come?»

«Suo marito è stato presumibilmente assassinato questa notte, nel suo letto… perché non era a casa? Dov’era lei?»

«E-ero fuori, io… detective, non si faccia delle strane idee, noi… abbiamo litigato ieri pomeriggio e ho deciso di passare la notte fuori…»

«Da un’amica? Un parente?»

«No, non sono andata da altri…»

«In albergo? In un bar? Dov’è stata?»

«Io… volevo prendere una stanza, ma mi sono accorta di non aver preso il documento nella fretta di uscire, e ho passato la notte in macchina…»

Passare una notte in macchina… perché non rientrare a prendere il documento per un minuto, o farsi ospitare da un conoscente? Passare una notte in auto da sola in un periodo come questo, con gang e serial killer in giro per la città… piuttosto strano. Non impossibile, ma anomalo.

«Bene… per favore, vorrei che raccontaste a me che cosa avete fatto dall’ultima volta che avete visto il signor Harrison fino a quando avete saputo dell’aggressione. Sunday, vorrei cominciare da te, visto che lo hai trovato.»

Sunday dovette ricevere l’incoraggiamento di Terry per iniziare e con titubanza riportò la sua storia, piuttosto innocente: lei si era messa a studiare la sera prima nella sua camera nella mansarda, con una playlist di classica nelle cuffie, e si era addormentata sui libri. Quando si era svegliata era scesa per prepararsi del caffè e fare una colazione molto mattiniera per rimettersi a studiare e recuperare lo studio perso, e dichiarò di aver sbirciato in camera perché aveva visto davanti a casa l’auto del padre, che a quanto ne sapeva aveva deciso di andare al capanno da pesca sul fiume Kalaaho, a un paio d’ore d’auto su per le montagne alle spalle di New Oakheart.

«Quindi… non doveva essere in casa?»

«Aveva detto che andava a pesca e che sarebbe stato via un paio di giorni… quando ho visto l’auto allora sono andata a vedere se dormiva, è per questo che io… oh, papà…

Non doveva essere in casa…

«Signora Harrison, suppongo che lei non lo sapesse, o non sarebbe rimasta a dormire in macchina.»

«N-no, infatti… deve aver deciso dopo che avevamo discusso, lui… andava a pescare spesso per calmarsi quando era arrabbiato per il lavoro o… discutevamo.»

Crowley rimuginò brevemente e fu allora che notò Timothy Harrison allineare con cura il tovagliolo, il cucchiaino e il piattino della tazza del caffè in modo preciso e simmetrico. Evitava di incrociare lo sguardo con chiunque, sembrava preso a raggiungere quella perfezione geometrica. In qualche modo gli ricordò Ferid quando giocherellava con l’orecchino.

«Detective, lei… pensa che il colpevole pensasse di trovare Sunday da sola in casa?» domandò Terry. «Poteva avere in mente di aggredire lei, oppure…?»

«In realtà, non penso che cercasse Sunday. No, le sue mire erano molto diverse, questo è chiaro…»

Diversi acuti suoni digitali interruppero le riflessioni di Crowley e riportarono i suoi occhi blu sul fratello della vittima, che prese un palmare dalla giacca.

«Perdonatemi, mi stanno chiedendo le conferme d’ordine dalla mia attività. Ci metto solo qualche minuto a rispondere.»

«Certo, lo faccia… posso abusare un po’ della vostra ospitalità e prendere un goccio di caffè anch’io? Stamattina non ho fatto in tempo a prenderne neanche un po' in centrale.»

«Oh… c-ci scusi, siamo state così maleducate…» esordì Sunday, agitata. «Glielo prendo subito…»

«Oh, faccio da solo, grazie. Posso usare quella tazza appesa lì?»

Crowley si alzò con ostentata rilassatezza e si versò del caffè nella tazza presa dal gancio. Si accorse che Rogue non perdeva una sua sola mossa e che stava annotando qualcosa sul taccuino; con alta probabilità le domande e le risposte. Crowley passò alle spalle di Timothy Harrison e si chinò su di lui.

«Oh, ha un programma apposta per l’inventario della sua attività? Lavora nel campo dell’informatica, per caso?»

«Ah… no, ho un negozio di prodotti di bellezza e igiene della persona.»

«Saponi, trucco, profumi… cose del genere?»

«Sì, esatto.»

Crowley sorrise e qualcosa nella sua espressione turbò vistosamente il signor Harrison, e non solo. Si raddrizzò e fece il giro del salotto andando a sedersi sulla poltrona.

«Bene, signori Harrison… la squadra omicidi è a corto di personale grazie al famoso Vampiro di West End, e mi scuserete volenti o nolenti se chiudo questo caso in fretta.»

«È quello che vogliamo, che questo pazzo sia preso subito!»

«Quand’è così non potrebbe risparmiare a tutti del lavoro inutile e costituirsi, signor Harrison?»

Una lunga pausa di silenzio attonito seguì questa sua affermazione, durante la quale Crowley prese un sorso di ottimo caffè, poi l’uomo esplose.

«Di che cosa diavolo sta parlando?!»

«Sa di che cosa sto parlando. Non ci sarà bisogno di disturbare i ragazzi della scientifica se confessa subito che lei ha ucciso suo fratello.»

«Non ho fatto niente del genere!»

«Detective O’Brian, lo zio non farebbe mai qualcosa di così orrendo! Deve essere stato uno… psicopatico, un pazzo!»

«Oh, certo, è stata un’aggressione violentissima… che voleva proprio sembrare qualcosa di folle. Di esagerato. Ma non è stato niente del genere.»

«Ma come?!»

Crowley sospirò. Non capitava spesso di riuscire a ricostruire un omicidio del genere in pochi minuti, ma tuttavia la messinscena era stata costruita così male che era facile trovarvi le incongruenze.

«Supponiamo sia stato un pazzo, o un rapinatore per davvero. Un individuo che è entrato nella stanza e ha usato un’arma non definita per colpire a morte un uomo nel suo letto… come spiegate i due colpi sulla nuca e i successivi sulla faccia? Se una persona viene colpita nel sonno due volte alla nuca con quella violenza di certo non riuscirebbe a voltarsi, ne resterebbe tramortita se non uccisa subito. Inoltre, ammettendo che sia riuscito a farlo, avrebbe almeno scostato la coperta e una volta ricevuti i colpi fatali sul volto sarebbe rimasto scomposto, così come la coperta sarebbe stata tutt’altro che ben rimboccata.»

«E una coperta rimboccata come implicherebbe me in questa storia?!»

«Perché significa che il corpo è stato spostato… è stato messo nel letto, sotto la coperta, e colpito ancora per darci a bere che sia stato attaccato nel sonno. Gli schizzi di sangue però dicono che almeno un colpo è stato vibrato alla vittima davanti alla porta del bagno, e chi mai scapperebbe in bagno se si trovasse uno sconosciuto in casa di notte? E quale criminale si nasconderebbe in un bagno per aspettare il primo che apre la porta e farlo fuori? No, quello che è successo è molto più classico, da vecchio film.»

«Non ho alcuna intenzione di stare qui a sentire la sua parodia di lezione di criminologia! Chiamo immediatamente il mio avvocato!»

«Lo faccia, ma forse se mi ascolta fino alla fine si accorgerà che è meglio un patteggiamento. Perché le prove non mi mancano.»

Rogue, esattamente come tutti gli altri presenti, lo guardò basito, ma anche ammirato. Nonostante la sua minaccia Harrison non prese il telefono.

«Non chiama, signor Harrison? Perché? Ha paura di farmi vedere che il suo cellulare ha la forma del vuoto che abbiamo rilevato sul comodino, esattamente come il suo palmare? Due rettangoli perfetti in cui nessuno schizzo di sangue è arrivato implica due oggetti rettangolari lì appoggiati che si sono macchiati. Due rettangoli perfettamente paralleli… la simmetria è il suo pallino, dopotutto… come il tovagliolo e il cucchiaino.»

«Signore, ma se il palmare e il cellulare erano davvero sul comodino, allora…»

«Allora quest’uomo era qui, o almeno c’erano i suoi effetti, mentre suo fratello veniva ucciso da un mitomane

Il silenzio costernato delle due ragazze, la rabbia soffocata a malapena dell’uomo e l’aria pallida della moglie accolsero le sue sottili deduzioni.

«Ma il movente… dobbiamo indagare sul loro rapporto, o…»

«Il movente è la sua storia con la moglie di suo fratello.»

Fu felice della reazione di Melissa Harrison, che emise una sorta di singhiozzo e si coprì il viso. L’uomo era ancora pieno di furore, ma anche di stupore.

«Come lo sa, signore?»

«Profumo.» rispose Crowley, e sollevò un dito. «Primo: nella stanza aleggiava il residuo di un’acqua di colonia da uomo, e il defunto Alex Harrison era un uomo piuttosto semplice. Un lavoro da manovale, hobby come caccia e pesca, nessuna particolare vanità nella sua toeletta… e nessun profumo da uomo. Se l’unica figlia di casa ha una fidanzata e non un fidanzato, chi altri può aver lasciato un profumo da uomo sulle lenzuola del letto della camera padronale, se non l’amante della moglie?»

«Ecco che cosa stava annusando prima!»

«Sì, seguivo quella scia di profumo… che lei ha addosso, signor Harrison, l’ho sentito quando mi sono chinato con la scusa di guardare il suo palmare. E secondo…» fece, alzando un altro dito. «Moonlie Black, il profumo che lei ha sulla sua toeletta, è un’edizione limitata ancora in prevendita, Melissa… è un regalo di suo cognato, ed è un regalo piuttosto singolare da fare a una donna sposata… sposata con un altro, s’intende.»

«Questo potrebbe, e ripeto potrebbe, dimostrare che ho una storia con Melissa, ma non che ho ucciso mio fratello!»

«Perché si ostina tanto? I ragazzi della scientifica troveranno il suo DNA nel letto e nel bagno della camera padronale, quindi risparmi un po’ di soldi ai contribuenti. Troveranno anche il sangue sul cellulare e sul palmare, per quanto possa credere di averlo pulito.»

«Zio!» sbottò all’improvviso Sunday. «Zio, sei stato tu?!»

«È stato lui… perché se non è stato lui a colpirlo per primo, è stata la sua amante. Tuo padre è tornato senza avvertire dal capanno da pesca e li ha trovati. È andato verso il bagno a prendere uno dei due… magari proprio la moglie che era lì dentro, in uno scatto d’ira potrebbe aver cercato di colpirla, o di tornare in camera e aggredire il fratello e lei…»

«La smetta!»

«Lei gli ha spaccato la testa con il portasciugamano, quello che manca vicino alla vasca da bagno.» concluse Crowley. «Perché quello manca. Dov’è finito? Avete provato a pulirlo con la federa del cuscino ma era rimasto irrimediabilmente ammaccato da quei colpi? Allora, Melissa, è stata lei?»

«La smetta, ho detto!» gridò l’uomo. «Sono stato io, Melissa non ha fatto nulla!»

«Tim!»

«Zio!» strillò Sunday, inorridita. «Tu! Perché?!»

«Perché era un violento con tua madre!» gridò l’uomo ancora più forte di lei. «L’aveva resa una schiava che doveva solo pulire e cucinare, trattandola in modo inqualificabile!»

Timothy Harrison sospirò e intrecciò le dita così forte da sbiancarsi le nocche.

«Sì, l’ho ucciso. L’ho ucciso perché trovandoci insieme era impazzito. Mi ha insultato quando mi ha trovato nel bagno, ed è uscito urlando che ci avrebbe ammazzati… quando ha preso Melissa per i capelli ho preso quel portasciugamani, che si era smontato da un paio di giorni, e…»

Alzò i pugni chiusi come se impugnasse un’ascia e lasciò a intendere che l’aveva abbattuto sulla testa del fratello iracondo. Crowley restò impassibile a guardarlo, toccandosi il petto senza accorgersene.

«L’ho colpito una volta e un’altra quando è caduto… tutto quello che è successo dopo… Melissa non sapeva. L’ho mandata via, le ho detto di prendere l’auto e andare, che ci avrei pensato io. Ho pensato di mascherarlo così, facendo credere che fosse stato attaccato nel letto, ma ero nel panico e non ho pensato di togliere i miei effetti dal comodino prima di colpirlo sul volto… sono… non sono un criminale. Non ho pianificato di fare questo, ne sono stato costretto.»

«Questo è qualcosa che dovrà stabilire un giudice e dovrà parlarne con un avvocato… che potrà chiamare non appena arriverà in centrale. Timothy Harrison, è in arresto per l’omicidio di suo fratello Alex Harrison. Melissa Harrison, è in arresto anche lei, per favoreggiamento… lei sapeva cos’era successo, ma non ha parlato.»

Rogue e Crowley ammanettarono i due amanti e complici sotto gli occhi disperati della ragazza bionda, tra le braccia della fidanzata dallo sguardo risoluto. L’investigatore irlandese le ricambiò lo sguardo.

«Prenditi cura di lei. Adesso ha bisogno di te.»

Terry annuì rigidamente e Crowley uscì, tastandosi la spalla vagamente dolorante. Il petto e il braccio iniziavano a dargli fastidio.

«Rogue… dì a Bert di portarli in centrale… mh…»

«Sì, vado subito… sta bene, signore?»

Crowley si passò la mano sul petto, in corrispondenza della sua cicatrice, con la sensazione di avere qualcosa bloccato in gola. Nonostante ciò annuì.

«Sto bene… sto bene.»

«Signore, in realtà non mi sembra…»

«Fai solo quello che ti dico di fare, ragazzo… portateli in centrale.»

Non appena l’agente uscì e prese a parlare con un altro poliziotto, presumibilmente proprio Bert, Crowley faticò a trattenere un gemito e si strinse la mano sul petto. Si appoggiò di peso allo stipite.

Fa male… fa così male… e faccio più fatica a respirare, e il braccio… sto per avere un infarto? Ma non scherziamo…

Chiuse gli occhi e tentò di calmarsi, di regolarizzare il respiro, ma il dolore non svaniva. Si tenne il braccio sinistro, che gli doleva quasi quanto il petto, e solo quando si sentì toccare la spalla con un gesto brusco aprì gli occhi. Josiah, il silenzioso, burbero coroner afroamericano lo stava fissando.

«Eusford, è il cuore?»

«Non ne sono sicuro, ma…»

Sapeva che era il suo cuore che iniziava a fare le bizze. Era un dolore che non aveva sperimentato prima di allora, perché i suoi due arresti cardiaci precedenti si erano verificati quando era incosciente, ma era certo che fosse il cuore: quel senso di pesantezza del petto, quel dolore al braccio erano sintomi chiari, solo non voleva ammetterlo. Non voleva pensare che fosse vero, che a lui toccasse la stessa sorte di suo padre con la malattia e il pensionamento anticipato, e ancora prima che a lui.

Non può succedere a me… non è giusto!

Purtroppo il ronzio incessante di questo orrendo pensiero non faceva che aumentare la sua difficoltà a respirare.

«Il Western General Hospital è poco lontano, ti porto io. Chiamerò il mio assistente, si occuperà di portare via il corpo da qui.»

«No, il caso ha la precedenza, portate via la vittima e…»

«Eusford. Harrison è già morto, tu non ancora.»

«Abbiamo… già abbastanza lavoro, non dobbiamo incasina–»

Non riuscì a finire la frase a causa di una dolorosa fitta e della sensazione che il suo cuore fosse appena diventato la palla di gomma antistress di qualcuno: era una sensazione orribile come poche altre. Tentò di voltare le spalle al medico legale e dirigersi verso la macchina – pur non avendo idea di come avrebbe potuto guidare – ma si trovò davanti il giovane Rogue.

«Sei… ancora qui?»

«Gli Harrison sono già in viaggio verso la centrale, non si preoccupi di questo.» fece lui con una traballante risolutezza. «Ora salga in macchina, deve andare in ospedale subito.»
Crowley guardò negli occhi il ragazzo, ma non riuscì a commentare con la nausea che si sentiva.

«Ho letto della sparatoria nel West End di quest’estate e so che è stato operato al cuore. Lei sta avendo un attacco di cuore, detective Eusford.»

«Pensavo venissi… dalle frodi informatiche… non dall’ufficio del coroner.»

Il solo parlare lo spremette come un’arancia: si sentiva esausto, quel suo grande corpo non gli era mai sembrato così difficile da spostare. Il ragazzo perse la sua compostezza.

«Quattro persone nella mia famiglia hanno avuto un infarto davanti a me e mia madre è una cardiopatica grave, so di che cosa parlo! Non faccia l’idiota e salga in macchina o userò la radio per chiamarle un’ambulanza!»

Willis, che assistette con aria grave all’intera scena, annuì.

«Sono anche io dello stesso parere, Eusford.»

L’orgoglio personale di Crowley O’Brian Eusford non era grande abbastanza da permettergli di morire stupidamente in servizio e si lasciò aiutare da Willis a salire in un’automobile che gli sembrava di aver parcheggiato molto più vicino al loro arrivo.

Aveva casi da risolvere, colleghi a cui dare la pace tramite giustizia, tante cose ancora non dette a molte persone importanti, e una di loro lo aspettava a casa. Chiudendo gli occhi per cercare di sopportare le ondate di nausea, le fitte al petto e il dolore fisso al braccio e al collo, si trovò a pregare di poterci ritornare.

 

 

Dopotutto, sarebbe stato meglio se mi avessero ricoverato…

Crowley, seduto al tavolo della cucina, non si sentiva tanto in colpa dalla volta in cui aveva accidentalmente lanciato la palla da rugby sul presepe alla San Cristoforo con l’effetto devastante di un meteorite, e il modo in cui Ferid lo stava fissando era tale e quale a quello della Reverenda Madre. L’irlandese preferì abbassare gli occhi sui fogli delle sue analisi passate e sulla cartella clinica che gli aveva appena mostrato.

«Sei veramente un idiota, Crowley!»

«Non c’è bisogno di insultare, non ho mica deciso io che volevo star male…»

«Certo che hai deciso tu! Con i tuoi trascorsi di quest’estate, con quello che i medici ti hanno detto, tu-»

«Sono sempre esagerati, lo sai!»

«Hai appena avuto un infarto e loro sono quelli esagerati?!»

«Non era un infarto, era un’angina pectoris dovuta allo stress!»

«Un’angina pectoris è l’anticamera dell’infarto, Crowley, non pensare di svicolare come se fossi un babbeo che si beve tutte le scemenze che gli racconti!»

«Ferid, non ti agitare tanto, sto bene, no? Se fosse stata una cosa grave mi avrebbero ricoverato! Non ti preoccupare, dai.»

Ferid si versò il tè con un gesto stizzito, ma non bevve.

«Non mi preoccupa l’angina, mi preoccupi tu. Sei stato operato al cuore, sei stato un mese in ospedale e da quando sei uscito non hai mai assunto i farmaci che ti hanno prescritto… e non contento, mangi come un ragazzino e bevi come un marinaio! Secondo te come poteva finire?»

Accusò il colpo e l’incassò senza fiatare, perché si rendeva conto che aveva ragione. Anche se era convinto di stare bene aveva preso decisamente sottogamba i suoi nuovi problemi e la loro scarsa sintonia con il suo abituale stile di vita.

«E tuo padre ha il diabete, come se non bastasse! Non lo sai che la genetica è importante per malattie del genere? Se tuo padre ha sviluppato un diabete così grave ci sono alte probabilità che succederà anche a te, soprattutto se continui a trascurare la tua salute come stai facendo… ma certo, non che sia un problema, no? Un infarto ti stroncherà molto prima che ti venga il diabete.»

«Ferid… tu non sei proprio la persona più adatta a criticarmi.»

«No, sei tu che dovresti chiudere il becco! Benché tu abbia sempre da ridire io sto benissimo, guarda le mie ultime analisi se non ci credi. Ma tu, tu sei veramente uno schifoso ipocrita; vieni a dirmi che non sono in grado di badare a me stesso e dici a tuo padre di riguardare la sua salute, ma con quale coraggio? Tu sei identico a tuo padre, non ti importa! Oh, non è niente, è solo un infarto, nulla di cui preoccuparsi, ho Dio che mi protegge! Fai veramente schifo, Crowley!»

«Ferid… non pensi di stare un po’ esagerando con gli insulti? Ora calmati, starò bene, anzi, sto già bene… starò a riposo a casa qualche giorno e poi sarò come nuovo, non ti angustiare… non è vero che sono come mio padre…»

Dapprima pensò che Ferid si stesse calmando, dato il suo improvviso silenzio, ma con sommo orrore si accorse che i suoi occhi erano diventati innegabilmente lucidi. Non lo guardò in volto e prese a tormentarsi l’orecchino.

«Stai cercando di ferirmi, Crowley?»

«Che… ferirti? Cosa ho detto di male?»

«Tu lo sai che io… perdo tutte le persone a cui tengo… stai cercando di farmene perdere un’altra a breve? È il tuo perverso modo di torturarmi?»

«Ferid… no, ma ti pare che io possa voler fare qualcosa del genere? Non voglio ferirti, non voglio che tu soffra e non voglio lasciarti solo, e ancora meno vorrei farlo in un modo così contorto!»

«Ma lo stai facendo… dici che vuoi aiutarmi, che vuoi starmi vicino, e nel frattempo… questo.» disse, accennando ai fogli della sua cartella clinica e ai fogli di dimissione. «Nel frattempo ti stai lasciando morire senza fare niente per provare a salvarti.»

«Non è così, solo io…»

«Non prendi le medicine, lavori tanto, e non controlli quello che mangi… nelle tue condizioni equivale a camminare su una trave malconcia in bilico sul vuoto, non lo capisci?»

«D’accordo, d’accordo, ma non metterti a piangere, per favore.» disse Crowley, notandolo asciugarsi l’occhio furtivamente con il polsino. «Ho capito, dai… ora calmati, va bene?»

«Non voglio passarci per la terza volta.» fece lui con la voce bassa. «Non voglio che per la terza volta una malattia mi porti via qualcuno di importante.»

La terza? Claude e… ah, Nicholas, quel suo amico di quando era bambino… ma ha ragione lui, stavolta. Sono stato per settimane a dirgli che doveva prendersi cura di sé e che doveva vivere per le persone che lo amano e io sono il primo a comportarmi da stupido egoista, e anche un egoista autodistruttivo. Che se ci penso su è un paradosso colossale.

«Va bene… prometto che mi impegnerò. Prenderò le medicine d’ora in poi, d'accordo? Lo prometto.»

«Non mi fido delle tue promesse.»

«Cosa? Finora le ho sempre mantenute!»

Ferid si alzò di scatto dal tavolo e Crowley non riuscì ad afferrare il suo braccio per trattenerlo, quindi si alzò anche lui. Non andò verso la camera come si aspettava e si diresse al tavolino del soggiorno; fece crollare una pila di libri che di recente aveva preso a leggere e studiare con una certa dedizione e con un tonfo sordo sbatté il tomo sul tavolo della cucina davanti a Crowley.

«Giuralo!»

«…Sulla Bibbia?»

«Tu sei cattolico, quindi non puoi mentire giurando sulla Bibbia! Se fai una promessa sulla Bibbia è come se la facessi davanti a Dio. Giuralo e ci crederò anch’io.»

«Ferid… siamo arrivati al punto che non ti fidi più di una promessa che ti faccio?»

«È solo colpa tua se ci siamo arrivati.» ribatté lui in tono gelido. «Fai la tua scelta, Crowley, o ne farò una io per entrambi.»

Quell’ultima frase colpì la sua immaginazione in modo sinistro e sentì un leggero brivido freddo scendergli lungo la schiena, come una goccia d’acqua gelata.

«In che senso, sceglierai per entrambi?»

«Lo scoprirai se ti rifiuti di giurare.»

Lo sguardo di Ferid non vacillò neanche per un attimo e per la prima volta che riuscisse a ricordare gli suscitò qualcosa che assomigliava molto alla paura. Tentò di immaginare a che cosa potesse riferirsi, ma la sua mente gli propose una serie di alternative tanto ampia e angosciante che preferì lasciarsi nell’ignoranza: a partire dall’idea di preparare lui i pasti di casa a quella che potesse decidere di andarsene o peggio ancora, Crowley si affrettò a chiudere quella sua pericolosa esplorazione mentale e mise la mano sulla Bibbia.

«D’accordo. Come vuoi tu, Ferid, hai vinto. Cosa vuoi che giuri?»

«Sai che cosa voglio che tu dica.»

Quanta forza… questo è un lato di te che non conoscevo ancora.

Crowley alzò l’altra mano, come aveva fatto ogni volta che era stato in tribunale per una testimonianza.

«Giuro su Dio che farò tutto quello che è in mio potere per restare vicino a te il più a lungo che sia possibile e nel migliore dei modi possibili.» disse Crowley. «Va bene così?»

Ferid non replicò ma sorrise e Crowley si illuse che avesse finito con lui: quell’attimo di distrazione gli fu fatale, anche se non in modo troppo tragico. Aveva appena preso la Bibbia per scoprire in quale punto Ferid avesse messo quel segnapagina colorato quando lui gli passò le braccia dietro il collo e gli si incollò alle labbra come aveva già fatto tempo prima durante la videochiamata con De Stasio.

Crowley fece appena mezzo passo all’indietro prima di trovarsi bloccato contro il frigorifero e tentò con davvero scarso impegno ad allontanarlo dopo averlo afferrato per i fianchi: al contrario della volta prima quel bacio era molto meno innocente.

Non è male affatto… niente affatto… ah, perché proprio adesso, Ferid, mancano ancora tre settimane a…

I suoi pensieri furono bruscamente interrotti da una fitta lancinante sul piede ma il bacio in cui era come intrappolato mascherò il suo lamento in modo piuttosto buffo. Non sapeva esattamente come si sentiva: uno strano miscuglio di frustrazione, esasperazione, appagamento e confusione.

Che diamine, spero non prenda l’abitudine di piantarmi i tacchi nel piede come fa quella matta del suo capo…

Quello si attestava al secondo posto della lista dei contro del rientro in possesso del guardaroba da parte di Ferid: i suoi tacchi affilati avrebbero dovuto essere venduti con una licenza speciale. Al primo posto, però, c’era il piccolo fastidio che quasi tutti quelli che possedeva erano tanto alti da consentirgli, con il suo metro e ottanta naturale, di superare persino la statura di Crowley.

Però gli fanno delle gambe belle lunghe…

Allungò la mano accarezzandogli la coscia ben stretta dentro i pantaloni attillati nel momento in cui sentì bussare alla porta, ma ignorò quel richiamo all’ordine come se provenisse da un’altra galassia e lo strinse con forza a sé; anche quando Ferid interruppe quel lunghissimo bacio non allentò la presa e gli diede un leggero morso sul collo.

«No, basta così, Crowley~»

«Ma come, basta? No…»

«Non è un buon momento per rompere la tua astinenza, hai o non hai una settimana di riposo assoluto?»

«Ma non faccio nessuna fatica… lascia perdere la porta, stai qui.»

«Sono Mikaela e Yuu, ti eri dimenticato che li avevi invitati a cena oggi?»

Crowley ricordò solo in quel momento di quella cena e desiderò anche di non averne mai accennato, ma comunque aveva davanti ancora tre settimane di astinenza – anche se ormai pareva evidente che l’accezione monacale era decaduta da un certo tempo – e quella promessa non se la poteva rimangiare in nessun modo. Un po’ per frustrazione e un po’ per gioco morse l’orecchino di Ferid.

«Su, mangerai qualcosa di buono e ti sentirai subi- Crowley~» fece lui divertito quando si accorse di cosa stava facendo. «Non fare il bambinone, da bravo, lasciami~»

Crowley non mollò la presa, ma fu inutile perché Ferid si tolse l’orecchino con un semplice gesto e scivolò via dalle sue braccia lasciandolo lì in piedi, appoggiato contro il frigorifero, con l’espressione delusa e un orecchino rosso tra i denti. Ferid scoppiò in una gran risata nel guardarlo mentre andava ad aprire la porta.

«Oh Crowley, sembri un grosso cane deluso per la pallina forata~»

«Lo sembro perché lo sono.» bofonchiò lui.

Ferid rise di nuovo mentre Mikaela e Yuu entravano in casa con una perplessità evidente sul volto. Crowley si decise a togliersi l’orecchino dalla bocca appena in tempo per evitare che lo vedessero in quell’assurda condizione.

«Che è successo di così divertente? Ditelo anche a noi!» fece Yuu, che andò a posare sul fornello una pentola.

«Oh, nulla, nulla~ oh, Crowley, che bravo, hai trovato il mio orecchino~ incredibile, lo stavo cercando da ore~»

«Ce l’aveva la tua gatta.» rispose Crowley, dopo averla addocchiata a fissarlo malignamente da sopra una sedia.

«Ma non mi dire! Che monellaccia sta diventando, davvero terribile… me lo rimetti tu?»

Ferid si avvicinò a lui con un gran sorriso e Mikaela, che ormai era abituato alla casa di Crowley quasi quanto alla sua, si mise a raccogliere da cassetti e credenze tutto quello che serviva per apparecchiare la tavola. Crowley rimise l’orecchino al lobo di Ferid, che poi gli lanciò un’occhiata intensa.

«Non dire ai ragazzi che cos’hai avuto oggi pomeriggio… digli solo che starai a riposo per un po’ perché ha fatto tanti turni ultimamente. Non roviniamo la serata con delle tensioni inutili, d’accordo?»

Crowley sorrise.

«Quanta premura per loro… ti sei affezionato?»

Ferid sorrise con un velo di malizia.

«Oh, sono ragazzi adorabili… ma la mia premura era per te. Mikaela ti farà a brandelli se scopre che non hai mai preso le medicine, e il caro Yuu non proverà nemmeno a salvarti dalla sua ira.»

Ferid si allontanò da lui e si affrettò a togliere i suoi referti medici dal tavolo, chiedendo amabilmente ai ragazzi che cosa avessero preparato per la cena. Crowley indugiò sul profilo di Mikaela mentre ripensava alle sue parole quella sera in cui gli aveva cucinato gli spaghetti, a quanto fosse sembrato emotivamente coinvolto per la prima volta…

Deglutì con l’ormai tristemente familiare sensazione di inghiottire lingottini d’oro. Se avesse saputo con quanta leggerezza aveva agito in quegli ultimi mesi neanche il patrocinio di Yuu avrebbe potuto salvarlo da una reazione che avrebbe fatto sbiadire persino la furia di Ferid.

Quell’ansia perdurò per tutta la serata come un piccolo acciacco che si faceva notare ogni volta che la discussione sembrava virare verso l’argomento salute e Crowley riuscì a tirare un vero sospiro di sollievo soltanto quando Mikaela uscì dal suo appartamento portandosi via i contenitori vuoti e augurandogli nuovamente la buonanotte.

Nonostante ciò non si sentiva del tutto tranquillo comunque, e quando uscì dal bagno e il suo sguardo si posò su Ferid che si era messo a leggere sdraiato sul letto capì che da dove venisse quell’inquietudine. Rimase fermo nel disimpegno per minuti interi a guardarlo voltare le pagine a velocità sbalorditiva, o piuttosto a indugiare sui suoi capelli sparpagliati sulla coperta, sulla sua gamba lasciata scoperta dalla vestaglia o sullo scintillio rosso al suo orecchio.

Sarà perché è off-limits, sarà perché ce l’ho sempre sotto gli occhi, sarà perché lo adoro, ma resistergli sta diventando difficile davvero… se si impegnasse a tentarmi mi farebbe crollare molto prima di tre settimane.

Ferid girò la testa e si accorse che era lì impalato a fissarlo, ma si limitò a sorridere senza fare domande. Vedendo che lui non parlava e non si muoveva allungò la mano e gli fece cenno di avvicinarsi; solo allora Crowley si sentì di nuovo un essere vivente deambulante ed entrò nella camera da letto.

«Qualcosa non va, Crowley? Ti senti bene?»

Certo, glielo potrei dire… ormai sa tutto, potrei semplicemente dirgli che è difficile aspettare. Potrei dirgli che non vedo l’ora che sia novembre e che appena potrò voglio fare l’amore con lui, non ho vergogna di dire certe cose… ma se mi dicesse che non vuole aspettare, io resisterei? E se dicesse che al contrario non vuole più, come la prenderei?

Quando si sdraiò sul letto Ferid si scostò un po’ verso la sua metà, ma riuscì a muoversi solo di pochi centimetri prima che tutto il peso di Crowley lo affondasse nel materasso impedendogli qualsiasi altra manovra di distanziamento. Crowley lo sentì ridacchiare con un vago nervosismo mentre gli annusava la pelle del collo.

Vorrei aver promesso un solo mese, lo vorrei tanto.

«Crowley, ma che stai facendo? Oggi sei veramente pimpante~ ah, non sarà mica finita la tua astinenza?»

«Magari lo fosse.»

«Mh, non ancora? E posso chiederti quando finirà?»

«Mancano ancora tre settimane.»

«Tre? Oh, Crowley caro, finirai per scoppiare come un pop corn~»

Probabilmente.

La mano di Ferid gli accarezzò i capelli e Crowley si chiese se potesse azzardare un bis del morso che gli aveva dato sul collo la volta scorsa, ma concluse che sarebbe stata più una tortura ulteriore che una soddisfazione.

«Di questo passo sarà meglio avvisare che quel giorno nessuno faccia qualcosa di vagamente provocante davanti a te~»

«Ne ho voglia, ma non tanto da avere la schiuma alla bocca.»

«Adesso no, ma tra venti giorni?»

Una prospettiva davvero deprimente.

«Posso resistere.»

«Sì, ma non resisteresti meglio concedendoti qualcosa? Potrei darti una piccola anteprima, non ci crederai, ma sono bravo in certe cosette~»

«Vorrei, ma non posso proprio… già l’astinenza monacale che ho promesso non è così monacale come speravo, ma almeno non cedere consapevolmente è meno peccaminoso.»

«Ah, il deliberato consenso

«Noto che le tue lezioni di catechismo danno frutti.»

«In un certo senso… nh, Crowley~ se non vuoi metterti in una brutta situazione con Dio fai il bravo, non ti strusciare e spostati, se ti si alza ti toccherà tenertelo~»

«Ah… scusa… lo faccio senza accorgermene.»

Valutò comunque che fosse meglio mantenere una distanza di sicurezza e si lasciò andare a un sospiro mentre puntellava sui gomiti per alzarsi: non si sentiva così frustrato da quando aveva passato due settimane con una ragazza che si tirava indietro sempre all’ultimo secondo, dopo averlo acceso a dovere.

Ferid ridacchiò.

«Sei ridotto già così male? Dopo tre settimane farai una strage e ti butterai sul primo essere palpitante che trovi~»

«Non esagerare, non sono una specie di lupo mannaro…»

«Vedrai se non ho ragione! Una qualsiasi orgia ti sembrerà un banchetto di Natale~»

«Ti possono raccontare un sacco di cose che ho fatto, ma chi ti dice di avermi conosciuto in un’orgia mente o… Ferid, che succede?»

«Il concerto!»

Scivolò via da sotto di lui, aiutato anche dalla vestaglia di seta, con la velocità e la sinuosità di un’anguilla e si allungò sul comodino a prendere il cellulare.

«Ferid, sono offeso. Ti sto sopra a parlare delle mie esperienze sessuali e tu pensi a un concerto.»

Ferid non gli badò affatto, preso com’era a digitare sullo schermo, e strisciò un po’ più avanti per prendere gli occhiali da lettura e infilarseli. Il disappunto di Crowley si affievolì quando guardò quel volto con gli occhiali che gli davano un’aria insospettabilmente tenera e si dissipò del tutto quando si accorse che a pochi centimetri dalla sua faccia la vestaglia segnava in modo tremendamente sensuale la curva della sua natica.

«O la tua è una tattica? Perché se lo è, è bassa, è meschina e… funziona

Crowley strisciò la guancia contro quella curva perdendosi in una progettazione molto impura immaginando da dove avrebbe potuto iniziare quando fosse stato il momento e se lo godette in modo particolare, perché da come Ferid aveva parlato prima sembrava intenzionato a prendere parte attivamente alla festa post-fioretto. Almeno finché non parlò.

«Crowley, smettila di sbavare, ho capito cosa mi dava quella sensazione!»

«Ero io?»

«Ma tu pensi sempre e solo a scopare?! Il concerto, Crowley, il concerto di quella boy band!»

«…No, non ho capito.»

«Non ci arrivi? Una lunga pausa, e Samara non è riuscito a ucciderla… il Vampiro andrà al concerto a prendere la sua prossima vittima! Capito? È tale e quale a un banchetto per un affamato, ci saranno centinaia di ragazzini, e i genitori li lasceranno andare anche da soli, lo faranno a Northbury dove il Vampiro non si è mai spinto e penseranno che sono al sicuro dentro la Belfast Arena!»

Crowley rifletté brevemente sulla questione, ma non riusciva a vederci un senso concreto.

«È riuscito a prendere Patricia davanti a un alimentari, vuoi farmi credere che non riesce a farlo di nuovo?»

«Ormai i suoi schemi sono andati, finché non sa dove sono non può sapere se ho alibi o no… non può più incolparmi, quindi tanto vale attaccare dove ci sono prede, no?»

«Non so… insomma, è possibile, ma… i serial killer sono abitudinari, e questo è un bel cambio.»

«Io lo farei. Io andrei in una zona dove nessuno si aspetta che io vada, mi mischierei alla gente nell’arena, sceglierei la mia vittima con calma osservandola, e poi andrei a chiederle se vuole seguirmi nel backstage a incontrare i ragazzi della band.» disse Ferid, e gli lanciò un’occhiata intensa. «Con il buio, tanta folla e tanto rumore potrei fare quello che voglio di quella ragazzina, una volta che l’ho attirata in un punto fuori mano per addormentarla e portarmela via.»

«Io… sì, capisco cosa vuoi dire, ma è… potrebbero esserci mille altri posti, perché sceglieresti questo?»

«Perché è il concerto della band più amata del decennio dai ragazzi, ed è l’unica tappa dello stato. Per quanta paura abbiano i genitori nessuno vorrà perderselo. Tantissimi avranno già comprato i biglietti mesi fa, e non rinunceranno… in mezzo a tanti ragazzini entusiasti è facile. È come scendere in picchiata su una tartaruga.»

«Sì, ma… anche se io ti credo, che cosa posso fare? Nessuno annullerà un concerto da milioni di dollari perché un libraio dice che sarà il banchetto del Vamprio di West End… a Northbury, per giunta.»

Il modo in cui lo guardò riuscì a farlo sentire in colpa per come aveva parlato e cercò di aggiustare il tiro, allungando la mano per accarezzargli i capelli.

«D’accordo… d’accordo, lo dirò al capitano per prima cosa domani mattina… ma non ti arrabbiare se loro penseranno che la tua sensazione non è abbastanza per prendere un provvedimento del genere. Io ti credo… lo sai che ti credo. Ma per bloccare un evento del genere come minimo servirebbero un paio di terroristi islamici e un appartamento pieno di fertilizzante e detonatori, capisci che voglio dire?»

«Perfettamente.» ribatté lui, e ripose il cellulare. «Beh, conosco abbastanza arabo da telefonare alla Belfast Arena il giorno del concerto e avvertirli che nel nome di Allah farò esplodere tutto quanto.»

«Ferid, stai scherzando?»

«Sì, non conosco l’arabo.» disse lui con una certa amarezza. «Non ancora, almeno… ma ho tempo fino al concerto.»

Ferid riprese il suo libro, si sistemò in una posizione seduta dignitosa e si rimise a leggere; o almeno a pretendere di fingere, dato che i suoi occhi celesti erano fissi nello stesso punto della pagina. Crowley non ritenne opportuno lanciarsi in una discussione sui rischi di finire nel mirino dell’antiterrorismo e si limitò a scendere dal letto per le consuete preghiere serali, che però non verterono tanto sui ringraziamenti per la sua vita salvata da un potenziale infarto quanto sulla speranza che il cielo l’aiutasse a farsi prendere sul serio con quelle azzardate congetture sulla prossima mossa del Vampiro.

 

 

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Capitolo 22
*** L'incantatore di serpenti ***


La mia solita fortuna.

Crowley aprì la gabbia dell’ascensore al dodicesimo piano e rientrò in casa sospirando: aveva preso le chiavi della macchina e salutato Ferid per andare dal suo medico a farsi scrivere la prescrizione per i farmaci che gli servivano, salvo poi scoprire che l’auto non aveva nessuna voglia di accompagnarcelo. Posò le chiavi nel solito svuotatasche e prese quelle della moto, ma esitò a uscire di nuovo: non trovò Ferid nella zona giorno né lo vide sul letto in camera.

Non mi dire che si è di nuovo ammollato nella vasca? Sembra di essere in quel film bizzarro, La forma dell’acqua…

Sebbene Crowley fosse stato cresciuto da un tutore dell’ordine, da una brava donna irlandese, da una famiglia di nonni e zii molto religiosi e istruito in una scuola cattolica, di certo aveva qualche cattiva abitudine propria di qualcuno meno beneducato di quanto avrebbe dovuto essere. Una di quelle abitudini era non bussare mai alla porta del gabinetto a meno che dentro non ci fosse una donna che non conosceva in senso biblico, quindi nemmeno quella volta pensò di farlo e la spalancò con noncuranza.

Come immaginava Ferid era dentro la vasca ma la sua reazione fu esagerata comparata a tutte le altre volte che aveva aperto la porta del bagno mentre lui era dentro: sussultò tanto da spruzzare un po’ di acqua saponata oltre il bordo, divenne rosso fino alle orecchie e lo fissò con la stessa maligna diffidenza della sua gatta.

«Oh, scusa, Ferid, non pensavo di spaventarti… mica stavi facendo un lavoretto? Non sai come ti invidio.»

«Ma che… m-mi hai spaventato perché eri già uscito, pensavo stesse entrando qualcun altro!»

«Oh, è vero… ma non era il caso di imbarazzarsi così tanto, ormai siamo abbastanza intimi per questo, due giorni fa sono entrato a fare pipì mentre tu…»

«Posso sapere perché sei ancora qui e non dal tuo dottore, Crowley?»

«Ah, non ti arrabbiare, ci vado adesso, solo che la macchina non parte… non so che cos’ha e non ho tempo di controllarla, quindi sono salito a prendere le chiavi della moto. Volevo solo dirti questo.»

«Credi che sia il caso di prendere la moto? Non dovresti neanche muoverti.»

«E perché?»

«Riposo assoluto ti dice qualcosa?»

«Ma non ti preoccupare, il mio dottore ha lo studio a duecento metri dalla clinica veterinaria, ricordi? Dove avevano portato la tua gatta. Non è lontano.»

«Già, ma andrai anche alla centrale, vero?»

«Non è un percorso di motocross, Ferid… non ti preoccupare, starò bene, e dopo questo prometto solennemente di prendere le mie ferie per malattia e di non muovermi da casa per una settimana.»

«Ah, fa’ come ti pare... irlandesi.» borbottò Ferid contrariato, sprofondando nella schiuma. «Sarà meglio che ti riposi per davvero, perché se non ti riguardi io non mi presterò a essere la tua musa quando finirai l’astinenza.»

«Ah, siamo ai ricatti pesanti…»

«Non ci tengo a vederti avere un infarto mentre sei a letto con me, sarebbe un trauma dal quale non mi riprenderei più.»

«Sono francamente commosso dal tuo altruismo, Ferid.»

«Non c’è di che.»

Non c’era bisogno di crucciarsi su quel tono distaccato: gli era ben chiaro che stesse cercando di ostentare il suo disappunto nella speranza che il suo ospite si decidesse a prendere sul serio le prescrizioni dei medici e rispettasse la promessa che gli aveva fatto.

«Va bene, me ne vado, così finisci il tuo lavoretto e quando torno sarai meno caustico.» commentò Crowley con un sorrisetto divertito. «Porto a casa qualcosa per cena?»

«Per… Crowley! Sono le otto del mattino, devi essere a casa prima di mezzogiorno!»

«Oh, coprifuoco?»

«RIPOSO ASSOLUTO!»

«Ah, sì, sì, torno presto, lo prometto! Ciao, a dopo!»

Non riuscì a non ridacchiare divertito nel sentire il brontolio udibilissimo di Ferid mentre richiudeva la porta e poi uscì dall’appartamento scendendo ancora una volta con l’ascensore. Per un motivo che non riuscì ad afferrare pensò a George; forse perché lui aveva sempre avuto paura di avere a che fare con le malattie e dover prendere confidenza con i medici.

Sarebbe più spaventato di Ferid, senza dubbio… di sicuro chiederebbe a tutti dei consigli, leggerebbe articoli dove dicono che con i miei sintomi dovrei essere già morto, e troverebbe ogni genere di cura naturale e alternativa per salvarmi la pellaccia. Quello che non so è cosa avrebbe detto della mia storia con Ferid… di sicuro non gli sarebbe piaciuto, così a pelle, ma… si sarebbe sicuramente accorto di quanto mi piace stare insieme a lui. E dato l’amico che era, penso gli sarebbe bastato per accettarlo.

Era certo che George avrebbe accettato la cosa, era anche sicuro che nonostante la sua dottrina Gilbert non avrebbe mai smesso di essere suo amico, ma per tutti gli altri era un discorso molto diverso. Mentre si infilava il casco integrale sentì una vaga fitta al petto che aveva più a che vedere con l’idea di vedersi costretto ad abbandonare la comunità della Saint Thomas che con i suoi recenti disturbi cardiaci.

 

 

Le facce sorprese che gli si palesarono nell’open office in centrale gli suggerirono che la sua gita all’ospedale del giorno prima non era passata sotto silenzio: lo guardavano tutti a occhi spalancati come se fosse appena entrato il Triste Mietitore in persona e per qualche secondo si studiò furtivamente chiedendosi se in un momento di fatale distrazione si fosse vestito a metà o avesse lasciato aperta la lampo.

«Crowley, che cosa fai qui?»

«De Stasio, proprio l’uomo che cercavo.»

«Pensavo fossi in ospedale!»

«No, ero in ospedale ieri.» lo corresse lui. «Ho avuto un attacco di angina, niente di che, devo starmene a riposo per un po’.»

«Ah. Quindi che cosa diamine ci fai qui?»

«Sono andato dal mio medico e sono passato qui a vedere come va.»

«Va come al solito, tornatene a casa.» gli fece lui brusco.

«Devo stare a riposo, ma non vuol dire che devi trattarmi come un cane randagio, sai?»

«Con te è l’unica maniera di scrostarti dalla scrivania.»

«Non ringhiare tanto, starò bene… solo devo dirti una cosa, un’idea di Ferid sul vampiro di West End… non posso occuparmene io proprio perché devo starmene a riposo, quindi lo dico a te e ci pensi tu?»

«Dovresti riferirlo a McCray, è lui il capo della squadra…»

«Sì, ma Hank è un pessimo pensatore e in più lui e Ferid si detestano cordialmente…»

«Perché? Che è successo?»

«Nulla, semplicemente Hank etichetta come criminale ogni disertore di chiese e Ferid… beh, non ha un’alta opinione di quelli che lo etichettano… giustamente, mi sento di aggiungere. Ma se glielo riferisci tu forse troverai una maniera di renderglielo più liscio da mandar giù.»

«D’accordo… vieni di là, non parliamone qui, c’è confusione.»

Crowley seguì De Stasio nella stessa saletta in cui avevano fatto la prima riunione di squadra insieme a Horn e lì, al riparo da occhi e orecchie indiscreti, riferì al suo collega l’intuizione di Ferid sul concerto dei Double Tune e la sua teoria della frenesia che avrebbe colto il loro assassino seriale. De Stasio parve interessato all’ipotesi; in verità sembrò reputarla più concreta di quanto non facesse lo stesso Crowley.

«Sì, capisco cosa intende.» disse infatti non appena lui gli ebbe esposto la teoria. «È vero, se non ha trovato più Ferid potrebbe mandare all’aria il piano e prendere un altro ragazzino in un’altra zona. Dopotutto si è limitato al West End perché Ferid non ha un suo mezzo per spostarsi, non avrebbe certo potuto macinare chilometri a piedi per trovare una vittima… se doveva farlo incolpare aveva le mani legate su vari fronti, come l’orario, il luogo, il giorno. Se ha lasciato perdere è libero.»

«Beh, era la sua idea, più o meno.»

«Certo, questo se non ha concluso. I glifi riguardanti la loro storia sono finiti, ha colpito Ferid e se non ha contatti dentro il dipartimento potrebbe aver creduto di averlo ucciso.»

«Dici che… potrebbe… aver finito il suo lavoro? Che potrebbe non riapparire più?»

«È una possibilità che la Skuld ha ritenuto plausibile quando gliel’ho proposta… e io ho fatto qualche indagine in questo senso. Sai che non mi piace lasciare qualcosa di intentato… già che ci sei, porta a Ferid questi.»

De Stasio gli porse alcune copie di fascicoli e Crowley li sfogliò rapidamente: erano le prime pagine di alcuni rapporti sul ritrovamento di alcuni uomini deceduti, con le fotografie e i dati anagrafici di base. Nessuno di quei volti gli diceva alcunché.

«Chi sono queste persone?»

«Sconosciuti trovati morti dopo l’avvelenamento ai danni di Ferid. Gente che è stata identificata da persone poco attendibili e il cui corpo non è ancora stato ritirato da alcun parente. C’è la possibilità che uno di questi possa essere stato all’epoca Robert Karson Warren, l’età e i dati circostanziali per quanto pochi possono coincidere. Vorrei mi dicesse se uno di loro potrebbe essere stato il ragazzo che ha conosciuto.»

«Pensi che dopo aver ucciso i bambini e fallito nello scaricare la colpa su Ferid abbia provato a ucciderlo e poi… si sia ammazzato?»

«È un’idea che non mi sento di escludere. Avrebbe lasciato un altro messaggio su Samara, giusto? Avrebbe potuto annunciare il suo intento, dichiarare un malato amore, un astio mai placato o qualcosa diretto a Ferid. Forse i glifi di nicchia li ha scelti proprio sperando che li avrebbe potuti leggere quando la polizia l’avesse preso.»

«Se anche solo metà di questa storia fosse vera, quel Bobby sarebbe malato forte.»

«Che si chiami Bobby o no, uno che dissangua bambini è malato di certo.»

«Già, è vero.»

«Finora, in ogni caso, la pista Warren è la più concreta che abbiamo. Ho scomodato Ismael e mi ha detto che mi avrebbe aiutato a scoprire qualcosa su Robert Warren, gli ho passato tutte le informazioni che avevamo. Ha una buona rete di informatori nei posti giusti, dove la gente cambia nome, dove si procura tessere della previdenza sociale e persino dove l’FBI crea le identità per proteggere i testimoni. Se come è piuttosto ovvio Warren cambiò nome dopo aver derubato Ferid lui saprà almeno dove. C’è una buona possibilità che avrà il nome che gli è stato dato e allora il resto potremo farlo noi. Dillo tu a Ferid: se lo troviamo i reati sono caduti in prescrizione, sia il furto che lo stupro, ma se lo vuole io glielo faccio avere qualche minuto da solo con lui mentre guardo dall’altra parte.»

«Cosa? Aspetta, cosa? Stupro? Stupro di chi?»

De Stasio lo guardò con un certo stupore e Crowley si sentì annodare lo stomaco.

«Non te l’aveva raccontato?»

«Mi aveva detto che Bobby era il suo primo ragazzo… che sono venuti in America come per una fuga romantica, e dopo una notte in un motel lui ha preso il volo con tutti i loro averi. A te che cos’ha detto?»

«La stessa cosa, ma mi ha anche detto che il primo giorno qui in America Bobby è scomparso qualche ora e che quando è tornato nella stanza del motel aveva della meth in cristalli. Mi ha raccontato di averlo costretto a fumarla. È stato molto preciso nel raccontarmi come è successo e che effetti ha avuto, non ho dubbi che l’abbia provata davvero.» ponderò De Stasio, più a suo stesso beneficio che a quello del collega. «Credo che mi abbia detto la verità, e dare a un minore della droga prima di portarselo a letto è uno stupro. Mi ha detto che gli avrebbe comunque detto di sì, ma il suo consenso non può essere considerato valido se era fuori di sé.»

Crowley lo sapeva bene, non era l’ultimo arrivato della polizia stradale. Sospirò e si passò la mano nei capelli: da una parte avrebbe preferito che Ferid glielo avesse detto subito insieme al resto della storia, dall’altra avrebbe preferito non saperlo mai.

«Non te l’aveva detto?»

«No… ma almeno ora capisco perché aveva paura di raccontare alla polizia che cos’era successo.»

«Sì. Ha avuto paura che l'uso della droga lo mettesse nei guai. Warren era giovane ma di sicuro era un criminale già allora, trovare della meth appena arrivati in America e usarla per mettere Ferid nella posizione di non poterlo denunciare non è roba per innocenti ragazzini delle campagne inglesi.»

«Dallo a me qualche minuto da solo con quel grandissimo pezzo di merda.»

«Preferisco di no, poi a ripulire la stanza ci vorranno settimane.»

«Puoi giurarci, gli frantumo anche gli atomi.»

«Lo so, per questo è meglio non darti neanche trenta secondi. Ti bastano e avanzano per ammazzare qualcuno anche senza armi.»

«Gli conviene di gran lunga essere già morto, credimi.» ribatté Crowley, e scorse le foto che De Stasio gli aveva dato. «Che razza di mostro… uno del genere non può essere rimasto immacolato per tutti questi anni. Se a diciott’anni inganni un ragazzino per impadronirti dei soldi e dei gioielli della sua famiglia e gli dai della droga per stordirlo mentre te la batti e per impedirgli di denunciarti, di certo non lo fai per iniziare una vita all’insegna dell’onestà e delle virtù cristiane.»

«Se era quella l’idea diciamo che la partenza non era delle migliori.» convenne De Stasio.

«Questi sono dei pregiudicati?»

«Sì, in pratica tutti… uno è un taccheggiatore, e da lì si migliora fino all’omicidio.»

«Un assassino? Chi?»

«Non te lo dirò, Crowley. Non devi avere pregiudizi. Se non sai niente non puoi influenzare neanche Ferid.»

Il solito De Stasio: il suo cervello non smette mai di girare e di farlo in modo lucido... mi chiedo se riuscirebbe a farlo anche se una sua fidanzata fosse coinvolta nell’indagine che sta seguendo. Io credevo di cavarmela bene con l’osservazione fredda, ma in questo caso… da quando conosco Ferid… sta diventando difficile.

Crowley sospirò, piegò i fogli e li infilò dentro la giacca, deciso a levare il disturbo e lasciare De Stasio alle sue indagini.

«Dì al capitano che gli farò avere i documenti dell’ospedale e del mio medico. Prenderò due settimane di riposo come prescritto, anche se mi dispiace doverlo fare adesso che siamo sepolti di casi fino al collo.»

«Non preoccuparti di questo, fai molto più comodo vivo tra due settimane che al lavoro per tre giorni prima di crepare.»

«Suppongo… beh, ci si vede, De Stasio. Se scopri qualcos’altro sulla pista Warren faccelo sapere.»

«Sicuro.»

Crowley si alzò e aveva la mano sulla maniglia quando sentì di nuovo la voce del collega, con un’inedita vena di allegria.

«Oh, quasi dimenticavo. Congratulazioni.»

«Congratulazioni per cosa?» domandò Crowley, accigliato. «Oh, hai saputo di mio nipote? Grazie.»

«No, no… ma già che ci sono congratulazioni anche per quello.»

«E allora per cosa?»

De Stasio lo guardò con un sorrisetto divertito che era piuttosto raro da vedere.

«Per il caso Harrison. Siamo rimasti tutti di sasso qui al dipartimento. Non credevo si potesse risolvere un caso di omicidio con un’ispezione e un interrogatorio in loco nell’epoca di internet, dei tabulati telefonici, dell’analisi del DNA e della scienza forense… non credevo che l’avrei mai visto fare fuori da un libro di Conan Doyle.»

Crowley rimase a sua volta basito, ma alla fine proruppe in una risata nervosa.

«C’erano tante di quelle incongruenze… ho solo interrogato tutti prima che potessero riordinare le idee e Harrison ha ceduto, tutto qui…»

«Raccontala come vuoi, ma sappi che i ragazzi da queste parti sono ammirati e ispirati. Ho sentito qualcuno ponderare l’idea di passare alla omicidi in via definitiva.»

Crowley scrollò le spalle.

«Che vuoi che ti dica? È il sangue irlandese che fa buoni detective.»

«Ma Holmes è inglese, no?»

«Nah, propaganda britannica.»

Crowley uscì col sorriso sulle labbra e il suono poco familiare della risata di De Stasio nelle orecchie.

 

 

Quanto è tardi... Ferid sarà arrabbiatissimo. Mi fanno già male le orecchie.

Il suo medico non solo era stato preso d’assalto da decine di altri pazienti in una coda che sfiniva solo a constatarne la lunghezza, ma l’aveva anche tenuto quasi trenta minuti nell’ambulatorio a controllargli tutte le cose più assurde che gli potessero venire in mente, con esami tattili e strumentali di cui Crowley non sospettava nemmeno l’esistenza. Anche se non l’avrebbe mai ammesso aveva passato gli ultimi dieci minuti sulla sedia, mentre lui compilava referto e prescrizioni varie, a chiedersi se le vittime di stupro si sentissero come lui in quel momento ma elevato a potenza. Alla fine gli aveva consegnato varie scartoffie con le parole tra le più inquietanti che avesse mai sentito:

«Ascolta, Crowley, fuori dai denti: se non inizi a badare alla tua salute non ci arrivi ai trent’anni, e se ci arrivi sarai nelle condizioni che preferirai essere già morto.»

Quella frase continuava a rimbombargli in testa. Lui si sentiva bene, non si era mai sentito stanco o spossato senza ragione, non aveva avuto mai fastidi o sintomi particolarmente accentuati o ricorrenti: se non fosse stato per quelle pallottole nel torace non avrebbe mai scoperto di essere ridotto tanto male fino a che – l’idea gli mise un vago brivido – non sarebbe stato probabilmente troppo tardi.

Ferid sarà ingestibile quando glielo dirò. Mi dirà di nuovo che mi sto divertendo a torturarlo. O che sono un ipocrita perché gli dico di dormire e di mangiare e di prendersi cura di se stesso mentre io mi tratto in questo modo da anni… e ha anche ragione. Sarà proprio un brutto quarto d’ora, se va bene.

Era quasi mezzogiorno quando finalmente entrò in contatto visivo con il palazzo di mattoni e guidò la moto all’interno del cortile, poi notò qualcosa di insolito: la saracinesca del suo garage era aperta, ma era sicuro d’averla chiusa dopo aver preso la moto.

Spense il motore e smontò con una certa urgenza: anche se aveva pensato che Yuu o Mika fossero scesi nel garage a cercare qualcosa, eventualità già capitata con chiodi, colla, cacciaviti o altro, dubitava che avrebbero avuto un motivo di sollevare la sua auto di mezzo metro.

«Ehi!» fece allora quando si accorse che qualcuno stava trafficandoci con un rumore metallico. «Questa è proprietà privata, che cosa…»

Smise di parlare e arrestò anche la sua camminata a metà strada, quando gli si aprì la visuale oltre la carrozzeria e vide le gambe della persona infilata sotto l’automobile. Delle gambe che era sicuro di conoscere, ma prima che potesse chiedersi qualsiasi cosa il carrello scivolò e da sotto l’auto emerse prima un torso che indossava una sua logora maglietta con il vecchio logo della sua palestra e poi un viso familiare con degli occhi celesti e una gran quantità di lunghi capelli argentati annodati sulla nuca alla bell’e meglio.

«Ferid… che cosa stai facendo sotto la mia macchina?»

«Perde olio da qualche parte, sto cercando di capire da dove.»

«Ma non serve… la porterò dal meccanico, non toccare niente.»

«Consideralo un mio personale contributo alle spese domestiche.» disse lui, e si spinse di nuovo sotto la macchina. «Dopotutto la parcella di un meccanico oggigiorno non è una manciata di noccioline, ti pare? E francamente questa macchina è un cesso

«Ehi, piano con le parole, eh.»

«Non sto scherzando, è ridotta uno schifo per avere così pochi chilometri… non la curi per niente.»

Crowley era piuttosto confuso da quella situazione: era surreale quanto mettersi a discutere con De Stasio della filosofia di un quadro di Kandinsky… o con Kandinsky di un quadro di De Stasio.

«Che cosa ne capisci tu? Nemmeno ce l’hai, una macchina!»

«Non ce l’ho perché camminare fa bene, e abito vicino a qualsiasi posto mi possa interessare... e anche perché le automobili inquinano.» rispose lui. «Ma non significa che non ne capisca niente. Hai vissuto in una fattoria da piccolo, vero? Quindi secondo te è lecito supporre che ora che abiti in una metropoli non sai più niente di campi di grano e mucche da latte?»

«Oh… beh, mettendola così… ma dov’è che tu hai avuto a che fare coi motori, scusa? Credevo che la passione di tuo padre fossero i cavalli, non hai mai parlato di automobili o motori.»

«Ti sorprenderebbe se ti dicessi che prima di essere assunto al Magick lavoravo come meccanico?»

Sorprendermi? No, sorpresa non è la parola giusta.

«Sei serio, Ferid?»

«Sì. Prima di essere assunto al Magick lavoravo come meccanico in un’officina a South River, e poi ho lavorato come manutentore delle golf car al circolo Alcott nel West End.»

«Mi stai prendendo in giro.»

«A che pro dovrei?»

Ferid scivolò da sotto l’auto e si mise seduto sul carrello con un sospiro. Aveva una strisciata scura sullo zigomo e un’aria concentrata che di solito gli vedeva solo quando leggeva; fu quella a far credere a Crowley che stesse dicendo sul serio… nonostante fosse una sorta di shock per lui.

«Quindi facevi il meccanico… sei l’ultima persona che conosco che vedrei nei panni di un meccanico.»

«Sì, lo pensano tutti, immagino… uno bello ed elegante quanto me, dentro una tuta e infilato tra tubi e stantuffi, è nientemeno che un crimine! Dovresti arrestare chi ha permesso che accadesse, detective Eusford!»

«E chi l’ha permesso, signor Bathory?»

La domanda parve prenderlo di sorpresa e si mise a pensare con gli occhi chiari fissi sul soffitto e l’aria di chi cerca di ricordare qualcosa da un libro di testo passatogli per le mani una sola volta.

«Bella domanda…»

«Oh, avanti, vuol dire che non sai dirmi perché sei finito a fare il meccanico anziché il barista, il commesso, l’addetto alle consegne o l’impiegato in un ufficio?»

«Beh, tecnicamente io ero un impiegato.» precisò Ferid con un’inesplicabile espressione delusa. «Ero stato assunto al garage Marrara come impiegato dell’ufficio, tenevo la contabilità, l’inventario, gli appuntamenti… cose del genere.»

Crowley mascherò fin troppo bene il piccolo shock di sentire quel nome: persino il Garage Marrara di South River, citato dal Vampiro a Echevierra, era un elemento biografico vero.

«Ma poi Marrara cominciò a far lavorare la nipote nell’ufficio e io sono diventato piano piano un apprendista meccanico, in pratica, e alla fine… la tragedia!»

Ferid sospirò teatralmente. Crowley aprì bocca per chiedergli quanti sapessero della sua carriera al garage Marrara, per accennare all’interrogatorio di Echevierra e alle foto raccolte da De Stasio che doveva fargli vedere… ma poi la richiuse senza emettere una sola sillaba. C’era tempo e non c’era alcun bisogno di cementare in Ferid la sensazione che ogni volta avesse aperto bocca sul suo passato qualcosa di inquietante sarebbe venuto fuori a collegarlo al Vampiro di West End.

Si sforzò di sorridere.

«Alla fine la tuta da meccanico?» domandò invece. «Te la mettevi anche tu, no?»

«Purtroppo sì… Dio, faceva un caldo terribile in quel capannone in estate con quella cosa addosso!» esalò Ferid in un sospiro, come se stesse ancora sentendo quell’estate torrida in corpo. «Mettevo la canottiera e tenevo aperta la metà sopra, ma tornavo lo stesso a casa ridotto uno schifo…»

«E di che colore era?»

«Mh?»

Ferid lo guardò incuriosito dalla domanda e Crowley tese un sorrisetto molto più convinto del primo. Lui rispose con uno dei suoi, e uno di quelli più maliziosi che gli avesse mai visto.

«Oh, Crowley, non sarai mica uno di quelli eccitati da meccanici sudati e pompieri coperti di fuliggine?»

«Non saprei. Non conosco nessun pompiere… e il mio meccanico ha una sessantina d’anni portati decisamente maluccio, per cui non ho mai trovato che fosse sexy.»

«Io sono meglio?»

«Infinitamente.»

«Oh, a questi livelli e non ho addosso altro che i guanti di un meccanico~»

«Ah, magari fosse vero…»

Ferid scoppiò in una breve risata.

«Oh, Crowley, quanta perversione alberga in quella tua testolina rossa~»

«Oh, dai, stavo scherzando.»

«Bugiardo~»

«Sei veramente molto meglio del mio meccanico, ma da qui a fantasticare di te in tuta e guanti ce ne passa un po’ nel mezzo.»

«Bu~giardo~»

Ferid scandì in due parti mentre si sfilava i due guanti dalle mani e si alzò dal carrellino. Crowley non poté non notare che la maglietta che indossava era un po’ corta, ma la larghezza era quasi giusta e lo divertì ricordare che indossava quella maglietta per allenarsi quando aveva quindici o sedici anni. Lo guardò passargli accanto e chinarsi sul cofano aperto, che gli indicò con la testa.

«Dai un’occhiata qui, che ti raffreddi subito. Guarda qua che macello hai fatto con questa povera macchina.»

Crowley si divertì molto meno a sentire il breve ma denso elenco delle cose che non andavano nel suo veicolo.

Non è messa tanto meglio di me, pare…

Con una certa mestizia alzò lo sguardo su Ferid, appoggiato al motore e intento a borbottare qualcosa riguardo alla candela sporca che stava pulendo con uno straccio, e fu allora che notò la cicatrice sopra il gomito che sfiorava uno dei tubi.

«Ah… è così che ti sei fatto quella cicatrice? Quando facevi il meccanico?»

Ferid lo guardò disorientato, poi si guardò il gomito come ad accertarsi che il segno fosse ancora lì.

«Ah, sì. Mi ero messo più o meno appoggiato così e ho toccato qui, ed era ancora caldo…»

«E le tua cicatrici non avrebbero storie da raccontare, mh?»

«“Mi sono scottato su un motore ancora caldo quando lavoravo come meccanico”. Ah, sì, un bestseller.»

«A me interessa. A me interessano tutti i capitoli della tua vita, soprattutto quelli che tu credi noiosi.»

«A me invece interessa sapere che cosa ti ha detto il tuo dottore~»

Il suo primo istinto fu rimandare il più possibile l’inevitabile momento della sfuriata.

«Ferid, sai che sei proprio sexy quando indossi le mie magliette?»

«Sì, lo so. Che cosa ti ha detto il dottore?»

«Chissà come ti starebbe la mia vecchia uniforme della po-»

«Crowley.» l’interruppe Ferid con il sorriso sulle labbra e il ghiaccio negli occhi. «Sei andato dal tuo dottore, vero? Se non ci sei andato giuro sul mio onore che smonto questa macchina, un pezzo per volta

«Sul tuo onore?»

«Non sfidarmi, Crowley.» insistette lui. «Non raccolgo quasi mai una sfida, ma se lo faccio la vinco. Sempre

Che diamine, fa proprio paura quando ci si mette.

«Okay, okay… va bene, cessate le ostilità. Ci sono andato dal dottore, e sono andato anche in farmacia, rilassati.»

«E allora perché non vuoi dirmi che cosa ti ha detto?»

Crowley sospirò e si grattò la testa. Gli conveniva essere completamente sincero, beccarsi la razione di ramanzina anche da lui e chiudere definitivamente la storia.

«Non volevo beccarmi il rimbrotto anche da te. Non mi piace essere sgridato come un bambino, e quando lo fai tu è anche peggio.»

Ferid guardò Crowley negli occhi per diversi secondi prima che il suo sguardo si ammorbidisse, ma soltanto un po’.

«Ma sai che ho tutte le ragioni per arrabbiarmi, vero?»

«Sì. Ho capito. Ma adesso infierire a che cosa serve? Non posso riavvolgere il tempo e cambiare il mio stile di vita degli ultimi cinque anni o dieci anni.»

«No, non puoi… beh, se mi dici che hai capito la lezione prometto di non essere martellante e di non continuare a dirti quanto sei stato stupido~»

«Lo stai facendo ancora.»

«L’ultima volta, giuro~»

«Mhh.»

«Torno più tardi a dare un’occhiata a quella perdita… andiamo su a mangiare, ho preparato qualcosa per pranzo, basta poco per cucinarlo! Avrai fame, no?»

«Ah… okay, sì.»

Ferid appoggiò le candele, lo strofinaccio e i guanti sul tavolo da lavoro a lato e chiuse il cofano.

«Mentre cucino mi racconti che cosa ti ha detto di fare il dottore. Niente rimproveri, lo prometto, va bene?»

Crowley annuì anche se non era affatto convinto che Ferid si sarebbe contenuto, e quando rientrarono nell’appartamento iniziò a riepilogare la sua visita medica aiutandosi con gli appunti del dottore sui fogli e con le prescrizioni che gli aveva rilasciato. Non tralasciò nulla, neanche l’inquietante avvertimento del medico a conclusione, ma Ferid rispettò la sua promessa e non fece alcun commento e nessuna dose aggiuntiva di critiche.

«Mh, non è andata proprio benissimo, quindi… posso vedere le tue analisi?»

«Perché no? A tutti piace il cielo stellato.» ironizzò amaramente Crowley, passandogli dei fogli con più asterischi di un manuale di programmazione.

Ferid girò i tranci di pesce saltandoli nella padella con un gesto deciso e si mise a scorrere i valori sballati dei risultati delle analisi, leggermente accigliato. Crowley preferì distogliere lo sguardo e guardare Pandora che si stava abbeverando nella sua ciotolina d’acqua, beatamente ignara del dramma che gravava sulla casa.

«Sì, la situazione non è il massimo… per prima cosa devi cominciare a prendere la medicina per il cuore che ti hanno prescritto in ospedale… devi prenderla sempre alla stessa ora, possiamo mettere un promemoria nel tuo telefono, così te lo ricorderà finché non ti ci abituerai.»

«Ah… sì, è una buona idea… non sono abituato a prendere una medicina con regolarità.»

«Per la maggior parte degli altri valori anomali direi che l’unica cosa da fare è rivedere la tua dieta drasticamente… te l’ha detto anche il dottore, mi pare…»

«Già...»

«Non è un problema, ho una certa esperienza con la cucina sana~ vedrai, se cucino per te quasi non ti renderai nemmeno conto di stare mangiando solo cose che ti fanno bene! Se stai pensando che ti toccherà ingozzarti di verdure crude come una capra ti sbagli, si possono preparare un sacco di piatti deliziosi anche senza grassi e strani intrugli chimici!»

Crowley non ne era così convinto e una rapida selezione dei peggiori pasti visti nel suo periodo di ricovero gli apparvero davanti agli occhi. Lasciò uscire un sospiro senza far rumore ma Ferid capì comunque il suo stato d’animo.

«Un po’ di allegria, Crowley! Ci vorrà qualche giorno per abituartici, ma arriverà il giorno in cui anche solo guardare una pizza ti farà venire la nausea!»

«Che ne sai, tu? Nemmeno la mangi, la pizza…»

«Niente toni depressi e disfattisti, avanti. Dopo un po’ di una dieta sana ti sentirai benissimo e capirai quanta energia ti sei negato in questi anni nutrendoti di sottoprodotti del cibo.»

Mh... non si può dire che non sia vero. Non avevo mai letto l’etichetta di qualcosa di già pronto, ma De Stasio me l’ha detto un sacco di volte che è roba piena di zuccheri e additivi che fanno male… come la metti la metti, ho sbagliato tutto. Faccio ancora fatica a credere di essere stato così preso dall’idea di tornare al lavoro da trascurarmi in questo modo.

«Lo faremo insieme, okay? È più facile seguire un programma rigido se hai un’altra persona che fa lo stesso, quindi io sarò il tuo diet buddy

Crowley non rispose e rimase a osservarlo con uno strano distacco, come se lo stesse guardando attraverso la televisione.

Non so se abbia mai pensato a una carriera nella sua vita… a un lavoro duraturo che facesse per lui… ma se dovesse pensarci dovrebbe scegliere qualcosa che lo metta a contatto con gli altri. Anche se sembrava così solitario e alienato in realtà lui adora prendersi cura delle persone. Il modo in cui incoraggia i bambini a leggere, come parla con le ragazze clienti del Magick… quanto sforzo ha fatto per aiutare Samara, e ora come si preoccupa per me… non ho esagerato a descriverlo a Gilbert. Lui vuole aiutare gli altri, non riesce a far finta di niente. Ha conosciuto troppe persone indifferenti al suo dolore per essere indifferente a quello degli altri.

«Ferid?» fece lui a una certa, interrompendolo mentre rimuginava ad alta voce sulla spesa.

«Mh?»

«Grazie. Apprezzo che tu voglia aiutarmi concretamente. Non credo che saprei che cosa fare se fossi da solo.»

Ferid fece un sorriso scrollando le spalle mentre si sedeva al tavolo; con il pesce finalmente cotto adagiato su un letto di tocchetti di verdura dai colori vividi erano pronti per pranzare.

«Per quanto appaia come un capriccioso, falso, vanitoso egoista, io mi prendo cura di quello a cui tengo. Vale per la mia casa, i miei gatti, i miei fiori, i miei vestiti… mio marito… e tutto quello che più conta.»

Crowley sfiorò il dorso della sua mano mentre prendeva il tovagliolo per metterselo come sempre sulle gambe e Ferid lo guardò senza sorpresa, quasi come se se lo aspettasse.

«Senti, Ferid…»

«Che cosa, Crowley?»

«Sai che non sei obbligato a farlo solo perché ora vivi qui con me, vero?»

«Mi stupisce che trovi doveroso precisarlo.»

«Tu non hai nessuna colpa in tutto questo, e quindi nessuna responsabilità.»

«Sai cos’è l’elsa di una spada, Crowley?»

La domanda lo confuse leggermente, ma poi rimise a fuoco i pensieri.

«Mi pare che sia la parte da dove la si tiene, no?»

«Sì. Un’elsa, per farla semplice, è tutta la parte che non è lama, con l’impugnatura e la guardia, che è quella parte sporgente che normalmente le dà quella forma di croce, chiaro?» gli disse, tracciando con le dita l’immaginaria forma di una spada. «La guardia serve a evitare che la spada avversaria, scorrendo lungo la lama, colpisca le mani di chi la sta impugnando.»

«Grazie della lezione di scherma medievale, Ferid, ma cosa…?»

«Dici sempre che sono la spada che ti ha dato Dio, no? Quindi sono fatto anche per difenderti… da te stesso, se occorre~»

Incassare quel colpo non fu facile e sperò di aver dissimulato meglio di quello che pensava; Ferid non diede alcun segno d’aver notato una strana espressione e ripiegò il tovagliolo sulle gambe come faceva sempre quando mangiava al tavolo.

La giornata non era iniziata benissimo e non era continuata meglio con la sua visita dal dottore dall’esito fosco, ma la sensazione di inquietudine che l’aveva accompagnato in moto fino a quel momento era finalmente svanita lasciandogli la sensazione di respirare molto meglio. Quando prese il primo boccone di pesce all’arancia non solo pensò che avesse davanti una missione fattibile, ma addirittura facile.

 

 

Qualche ora più tardi Ferid guardò nervosamente l’orologio da polso d’oro che era appartenuto a Claude, scoprendo che aveva letto l’orario appena due minuti prima. Ignorò i pigri capricci di Pandora che si rotolava sul suo grembo in cerca di attenzioni e occhieggiò la porta, ovviamente sempre chiusa.

Ma dov’è andato a finire? Non ci arriva proprio al concetto di assoluto riposo!

Crowley infatti, dopo che Ferid ebbe preparato una minuziosa lista della spesa salutare e un piano dietetico composto da ricette che seguissero le linee guida del medico, si era deciso a scendere dalla signora anziana che stava al piano terra, Bernadette, con l’intento di chiederle da quale negozio si faceva portare la spesa e con quali modalità. Ferid cominciò a chiedersi se Crowley era stato sincero e fosse solo stato incastrato a chiacchierare con la vecchia signora o fosse uscito senza dirglielo per fare la spesa di persona: la sola idea gli mandò tanto sangue al cervello da fargli pulsare le tempie.

Lo ammazzo se si è azzardato a uscire di nuovo. Lo ammazzo, è un atto di misericordia, tanto si ammazzerebbe da solo comunque.

Quando sentì bussare alla porta si alzò quasi di scatto, provocando il miagolio irritato di Pandora. Andò alla porta e la spalancò.

«Era ora, che…!»

Ma l’uomo che aveva davanti non era Crowley e la voce gli si spense in gola mentre quello fissava su di lui un paio di sgargianti occhi verdi brillanti come quelli di Yuu, ma un poco più chiari. Non aveva idea di chi fosse.

Chi è? Un inquilino del palazzo che conosce Crowley, o forse… un poliziotto?

Ferid lanciò un’occhiata alla sua cintura per notare un distintivo o qualsiasi cosa suggerisse che fosse un suo collega, ma notò all’istante che indossava vestiti troppo costosi per essere gli abiti da lavoro di un poliziotto. Quando tornò al volto dell’uomo lui gli stava facendo un sorriso enigmatico.

«Dove stai guardando?»

«Chi sei?» gli chiese Ferid, ignorando la sua domanda.

«Chi sei tu? Perché non sei il padrone di casa.»

«Crowley non c’è.»

«Uhm, interessante… e tu come mai sei in casa se lui non c’è?»

L’uomo si sporse verso la porta sbirciando verso il soggiorno e Ferid riaccostò la porta di scatto, fissandolo in cagnesco dallo spiraglio che aveva lasciato.

«Crowley non è qui, se cerchi lui hai fatto un giro a vuoto.»

«Forse no…»

L'uomo si avvicinò all’apertura con un sorriso ancora più ampio.

«Guarda un po’, guarda un po’… ecco perché non mi rispondeva, s’è trovato un fidanzato mentre non c’ero!»

«Un…»

Quest’uomo è Connor!

Non sapeva neanche come gli fosse arrivata una simile potente certezza solo da quella frase, ma ne fu praticamente sicuro fin dal momento in cui il nome gli balenò nella mente. Forse fu perché ricordava Crowley che gli diceva che Connor lo chiamava quando tornava in città, forse era la sensazione magnetica che suscitava a guardarlo negli occhi, ma non ebbe dubbi.

«Beh, se sei il suo fidanzato ti avrà parlato di me! Connor Maguire. Io e Crowley siamo amici da un sacco di tempo!» fece lui con vivace allegria, come se avesse scoperto che stava parlando con un suo amico d’infanzia dopo decadi. «Dai, fammi entrare e offrimi un caffè mentre aspettiamo che torni, ti racconto come ci siamo conosciuti~»

Ferid reagì d’istinto quando vide la sua mano dalle dita lunghe afferrare il profilo della porta appena sopra la maniglia: la spinse con entrambe le braccia e buona parte del suo peso e schiacciò la mano di Connor contro lo stipite. L’uomo emise un mezzo grido e gemette quando riuscì a ritrarla.

In quel momento Ferid si coprì la bocca, spaventato. Cosa avrebbe detto Crowley quando avesse saputo che aveva sbriciolato la mano al suo amante preferito? Forse si sarebbe arrabbiato chiedendogli perché non l’aveva semplicemente lasciato entrare per aspettarlo…

Aprì un po’ la porta e guardò Connor, che si reggeva la mano ma nonostante le lacrime agli angoli degli occhi i suoi lievi gemiti di dolore si stavano mescolando a una risata incredula vagamente stridula.

«Adesso capisco perché piaci a Crowley! Dai, fammi entrare, così ci conosciamo meglio, Pepper~ a quanto vedo c’è materiale interessante da esplorare~»

L’amante di Crowley mi sta facendo una specie di avances dopo che gli ho rotto una mano? Che è questa follia?

Connor appoggiò la mano sana contro la porta, questa volta non sul bordo, ma aveva abbastanza forza da impedirgli lo stesso di chiuderla.

«Ma vattene! Tu non sei fissato con gli uomini imponenti e i capelli rossi?! Hai preso una granata negli occhi di recente o che altro?!»

«Allora ti ha parlato di me.» disse lui con uno scintillio negli occhi. «Ma io non ho mai detto di essere attratto da quel genere, gli stavo solo elencando le cose che preferivo di lui in particolare~»

«Beh, non mi interessa, lui non c’è, quindi vattene!»

«Non essere timido con me, Pepper, gli amici di Crowley sono miei amici e i suoi fidanzati sono anche miei, in un certo senso~ lo conosci lo shibari? No? Non sai che cosa ti sei perso finora, ma rimediamo subito~»

«Connor.»

La voce che arrivò da dietro le spalle di Connor lo fece voltare e fu un sollievo enorme per Ferid non essere più fissato da quegli occhi.

«Angel Face~»

«Chiamami ancora così e ti faccio entrare questo cetriolo nell’orecchio.» gli ringhiò Mikaela a denti stretti, prendendo in mano uno dei cetrioli che sporgevano dalla sua busta della spesa.

«Ah, sembra proprio che tu ti sia un po’ svezzato dall’ultima volta che ci siamo incontrati~ dimmi, stai ancora con Penny Bucket?»

Mikaela lanciò a Connor uno sguardo ibrido tra il disprezzo e la pietà.

«Sarebbe lo stupido nomignolo che hai dato a Yuu, immagino?»

«È un sì? Che teneri~»

«Togliti di torno, Connor. Stai rarefacendo l’ossigeno.»

«Ahah~ freddo come il ghiaccio negli slip… uno dei miei giochi erotici preferiti, guardacaso~»

Mikaela gli lanciò un’occhiata disgustata e poi guardò Ferid.

«Sbattigli la porta sulla faccia più forte che puoi e lascialo morire sul pianerottolo.»

«Ehm…»

«A meno che non ti eccitino i pervertiti grufolanti masochisti, allora fallo pure entrare. È l’uomo per te.»

Mamma, che gelo, davvero.

Mikaela non aggiunse nulla e scomparve dentro l’appartamento sbattendosi la porta alle spalle così forte che Ferid, non aspettandoselo, sussultò. Un momento dopo passò uno sguardo vacuo sulla faccia di Connor e si rese conto che non era ancora riuscito a chiuderlo fuori dall’appartamento.

«Hai sentito? Sono l’uomo per te, fammi entrare… o entra tu se preferisci, io non mi formalizzo!»

La porta gli sfuggì dalla presa quando, cercando di chiuderla, Connor la spinse con il braccio; quella si spalancò ma anche se c’era abbastanza spazio tra quella e Ferid che stava ancora a lato l’intruso non provò nemmeno a varcarla.

«Mhh, fatti guardare da vicino~»

«Connor?»

Difficile anche per lo stesso Ferid dire se fosse felice del ritorno di Crowley o preoccupato dal suo incontro con quell’amante che sembrava piacergli oltre i limiti stessi della ragione, per non parlare del fatto che gli aveva appena frantumato la mano come un guscio di noce. Connor d’altro canto era senza dubbio entusiasta.

«Ehi, Ginger~»

«Ehi, non mi chiamare così davanti agli altri, è imbarazzante.»

«Perché mai dovresti vergognartene?»

«Hai presente chi è Ginger Rogers, sì?»

Connor tese un sorriso malizioso.

«E perché credi che ti chiami così, Ginger?»

Crowley lo guardò vagamente sorpreso, poi sospirò.

«E io che credevo mi chiamassi così perché ero piccante… mi potevi lasciar vivere nelle mie illusioni, ti pare?»

«Nah, non è il mio stile!»

«Già, vero.» fece Crowley, e fu allora che notò la sua mano. «Che diavolo hai fatto a quella mano?»

«Che diavolo ha fatto lui a quella mano~» rispose lui soave, accennando a Ferid.

Ferid pensò a qualcosa da dire, ma in realtà non c’era molto che potesse salvarlo: si era spaventato e gliel’aveva chiusa nella porta. Non proprio una spiegazione che si sentì di dare, ma Crowley parve non averne bisogno.

«Che cos’hai combinato, Connor?»

«Io? La domanda mi offende.»

«L’unica cosa che ti possa offendere è dirti che sei noioso… o che non scopi bene.»

«Ovvio, sono entrambe ingiuste falsità!»

«Che cos’ha fatto, Ferid? Ha allungato le mani?»

«Ha cercato di aprire la porta e… mi ha spaventato, mi stava facendo delle proposte!»

«No, le proposte sensate gliele ho fatte dopo aver visto quanto è vivace!»

«Non preoccuparti, Ferid.» gli disse Crowley dandogli una carezza sulla testa mentre entrava in casa. «Se l’è meritato. Connor, non fare proposte a Ferid, è timido.»

«Lasciaci soli un paio d’ore, glielo tolgo io il difettuccio!»

«Nemmeno per sogno, me lo sono scelto apposta così.»

Ma che cosa sta dicendo?

Ferid aprì bocca per dire qualcosa, ma ci ripensò nell’arco di un secondo quando sentì la mano di Crowley stringergli la spalla con una strana insistenza: voleva dirgli di assecondarlo o di lasciarlo parlare, e decise di fidarsi.

«Ohh, quindi è per questo che non mi hai risposto? Guarda che me lo potevi dire che ti stavi sistemando~»

Sarà anche un navy seal, ma certo non si atteggia come un soldato… sarà veramente un navy seal o è una bugia che racconta a Crowley per essere libero di incontrarlo solo quando gli va?

Ferid lanciò un’occhiata al viso ormai familiare dell’uomo coi capelli rossi e decise di illustrargli quella possibilità non appena fossero rimasti soli: l’idea che qualcuno che lui riteneva così importante lo prendesse in giro gli risultava quasi insopportabile.

«Il motivo per cui non ti ho risposto è che non sapevo ancora se potevo vedere qualcuno. Sono stato in ospedale ieri, e mi aspettano due settimane di riposo assoluto.» disse allora Crowley. «E secondariamente, dato il rapporto tra me e Ferid, non mi sentirei comunque di vederti, e ora che sai com’è timido…»

«Non c’è speranza di un ménage à trois, intendi questo? È un peccato, sì…»

«Bene, se ti è chiaro questo puoi anche entrare, mettere del ghiaccio su quella mano e prendere del caffè per fare due chiacchiere… se il programma non ti piace temo dovrai andare a divertirti altrove, Connor.»

Contro ogni previsione di Ferid Connor Maguire non parve affatto deluso: fece un sorriso decisamente più naturale ed entrò in casa chiudendo la porta con la mano sana.

«Credo di preferire una dose abbondante di tè, mi dovete raccontare una storia lunga! Com’è che vi siete conosciuti? Da quanto tempo state insieme? Dai, parla!»

Ferid guardò Crowley nello stesso momento in cui lui lo guardò con la medesima perplessità; poi l’irlandese scrollò le spalle.

«In effetti ci sono storie lunghe da raccontare. Ferid, per favore, faresti un po’ di tè per Connor e per me… per noi due, un po’ di quello?»

Ferid capì che cosa intendesse dire al volo: caffè e tè erano stati temporaneamente aboliti per regolare la pressione alta di Crowley, quindi non restava che uno degli infusi di frutta nella credenza. Annuì e voltò loro le spalle per andare alla cucina. Fu una fortuna che non potesse accorgersi di quanto interesse animava gli occhi verdi mentre guardava le sue gambe e il suo fondoschiena.

«Dove l’hai trovato, Ginger?»

«Storia lunga, merita del tè in accompagnamento.» fece Crowley. «Tu, piuttosto… mi hai cercato ieri ma devi essere a riposo da mesi, guarda che capelli lunghi hai.»

«Sono tornato dall’ultima missione con due proiettili nel torace e mi hanno tolto un pezzo di fegato, guarda qua!»

Ferid, incuriosito, si voltò a guardare e vide Connor scoprirsi il torace dai muscoli – a dire il meno – ammalianti per mostrare una cicatrice chirurgica recente sul fianco. Neanche fosse una gara tra ragazzini Crowley si sfilò la maglietta mostrando la sua sullo sterno e i due si misero a parlare delle loro operazioni come fossero due liceali intenti a elencare con orgoglio le più belle ragazze nelle loro conquiste.

Scosse la testa pensando al tè e si chiese se sarebbe stata una buona idea discutere della relazione ancora tutta da costruire tra lui e Crowley con un soggetto atipico come Connor Maguire; ma finì per augurarsi che continuassero tutto il pomeriggio a parlare di come avevano rischiato di lasciarci la pelle.

 

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Capitolo 23
*** Le conchiglie della strega ***


La vibrazione del cellulare era un rumore di poco conto, ma Crowley spalancò gli occhi come se avesse sentito una sirena. Come se il suo settimo senso irlandese vibrasse quanto lo smartphone seppe che erano in arrivo cattive notizie ancora prima di leggere il nome di De Stasio sul display.

«Dimmi…»

«Dormivi ancora?» domandò lui, cogliendo il sonno residuo nella sua voce bassa.

«Sì, ma non c’è problema… siamo stati svegli un po’, stanotte… cos’è successo?»

Ferid, che dormiva sulla sua spalla anziché sul guanciale, emise un sospiro e sollevò un paio di occhi celesti molto assonnati su di lui. Crowley gli accarezzò i capelli scarmigliati.

«Dormi ancora un po’. Non ti preoccupare.»

Ferid non rispose e lo lasciò scivolare fuori dal letto per poi allungarsi e appropriarsi del suo cuscino come se bramasse il suo odore o il suo calore residuo quanto l’ossigeno. Il suo respiro tornò profondo e regolare dopo pochi secondi e Crowley non riuscì a non sorridere a quella vista.

«Anche Ferid dormiva ancora?»

Crowley aspettò di chiudere la porta della camera e di arrivare in cucina prima di rispondergli.

«Dorme ancora… altro che vampiro, quello si addormenta alle dieci di sera e si sveglia col primo raggio di sole della giornata come un’allodolina.»

«A parte oggi.»

«Sì, a parte oggi. Ora che non esco più a bere il venerdì sera lo passiamo insieme a giocare a uno strano tipo di poker, il poker indiano, lo chiama lui. Una volta ti spiego meglio.» fece Crowley. «Allora, cos’è successo?»

«Volevo dirti che, come immaginavamo, gli organizzatori del concerto e il manager dei Double Tune non vogliono sospendere o cancellare la data per il semplice sospetto che il Vampiro possa andarci.»

«Era prevedibile.»

Crowley lanciò uno sguardo al calendario, dove la data del ventisei ottobre era cerchiata in rosso proprio per via del concerto.

«Come vi muoverete, allora?»

«La Skuld ha supportato la teoria di Ferid, quindi McCray e il capitano Alford sono d’accordo nel sorvegliare la zona. Abbiamo chiesto supporto al dipartimento di Northbury, ma hanno parecchio lavoro in ballo e siamo onesti: pensano che stiamo pescando a caso. Non credo ci daranno più di due o quattro agenti di pattuglia.»

«Sono troppo pochi.»

«Lo so, ma il capitano vuole schierare gli uomini all’Arena prima del concerto per controllare la struttura e poi sorvegliare gli ingressi… se gli impediamo di entrare durante il caos del concerto non dovrebbe essere in grado di fare troppi danni.» ponderò De Stasio. «Chiederò io stesso ai Double Tune di chiedere ai loro fan di prestare attenzione e di non dare retta a chi possa proporgli di entrare nel backstage o di incontrarli di persona. Per non creare troppo panico la metteremo come fossero precauzioni antirapina.»

«È una buona idea, tutto sommato…»

«Ci uniremo anche alle guardie di sicurezza dell’Arena per controllare la folla durante l’evento.»

«Siete pochi per riuscire a fare un lavoro del genere…»

«Purtroppo sì, ma non per questo lasceremo campo libero, ti pare?»

Crowley esitò un momento, giusto il tempo di sedere sul divano e lasciar uscire un sospiro.

«Verrò anch’io.»

«No, Crowley.»

«Sono a riposo assoluto da dieci giorni, posso fare un turno di lavoro oggi. C’è bisogno di tutti gli occhi e le orecchie possibili.»

«Crowley, non hai ancora finito il periodo di malattia.»

«Se è quello il problema non timbrerò il cartellino e verrò all’Arena come privato cittadino, ma verrò comunque.»

«Tu e Ferid dovete mettervi in testa che dovete restare in casa e lasciare che noi facciamo il nostro lavoro. Voi due fate il vostro: prendetevi cura di voi stessi

Sapeva che De Stasio non avrebbe acconsentito tanto facilmente, ma poteva ancora giocarsi la sua migliore carta: la totale sincerità. Allungò il collo per assicurarsi che la porta della camera da letto fosse ancora chiusa e abbassò leggermente la voce.

«De Stasio… se davvero il Vampiro di West End sarà lì stasera, potrebbe essere la mia ultima possibilità di vederlo prima che venga arrestato.»

«E quindi, che cosa vuoi fare? Ucciderlo prima che lo prendiamo? Prenderlo a pugni, che cosa?»

«Io non uccido se non sono costretto dalle circostanze. Prenderlo a pugni può essere, se soltanto mi darà un minimo incoraggiamento a farlo… ma quello che voglio fare è guardarlo in faccia mentre gli chiedo il motivo per cui ha mutilato dei bambini e condannato a morte dei poliziotti… perché odia Ferid in questo modo viscerale.»

Le sue confidenze vennero accolte inizialmente da un ticchettio regolare. De Stasio stava giocherellando con una penna.

«Crowley, difficilmente si farà prendere senza combattere, se davvero sarà lì. Non devi venire, è troppo rischioso per te.»

«Lo sai che non mi puoi convincere, quindi se vuoi preservare la mia salute accetta e non trascinarmi in inutili discussioni.»

«No, ascoltami bene.» fece De Stasio in tono autoritario. «Entro qualche ora saprò esattamente quanti uomini Alford troverà per l’operazione. Se saranno meno di venti ti chiamerò e verrai anche tu ad aiutare.»

Crowley smise di riordinare distrattamente le carte da poker che avevano lasciato in disordine sul tavolino e si sforzò di raffreddare i suoi pensieri. Trovò che il suo collega avesse ragione a reputarlo un rischio, e non avendo ancora fatto una visita di controllo non era certo di essere del tutto al sicuro in un’operazione così stressante, anche se l’assassino non si fosse palesato affatto.

Quasi senza rendersene conto si passò la mano sulla cicatrice.

Non posso prendere questa decisione da solo.

«D’accordo.» disse alla fine al collega, che attendeva la sua risposta in silenzio. «Aspetto notizie dalla squadra, ma se ci fosse bisogno non esitate a chiedermelo.»

«Immagino come ti senti… quindi no, non esiterò a dirtelo se avremo bisogno di uomini.»

«Grazie, De Stasio. Lo considero un favore da amico.»

Lo sentì sospirare profondamente, come ogni volta che aveva dubbi.

«Se fossi stato un buon amico non avrei nemmeno chiamato per dirtelo prima di domani.»

Con suo stupore De Stasio riagganciò subito dopo questa constatazione e Crowley seppe che lo stava mettendo in una brutta posizione, chiedendogli di scegliere tra quello che avrebbe fatto un poliziotto e quello che avrebbe fatto un amico disinteressato.

Abbandonò il telefono ormai muto e anche le carte da gioco sul tavolino, perdendosi in pensieri burrascosi che andavano dalle fantasie su un ipotetico incontro con il Vampiro a quello che sarebbe successo se avesse avuto un nuovo attacco di angina durante il concerto: questa possibilità fece dibattere la coscienza di Crowley come un pesce rimasto a secco sulla battigia.

De Stasio si sentirebbe in colpa per avermi coinvolto conoscendo le mie condizioni… e Ferid… già… Ferid.

Lentamente si alzò dal divano e raggiunse la camera da letto. Sorrise spontaneamente guardando il suo coinquilino abbracciato al suo cuscino e la sua chioma argentata che scendeva in ciocche disordinate sulla sua schiena nuda. I suoi occhi indugiarono colpevolmente sulla curva dove i capelli non arrivavano e che la coperta lasciava esposta.

Stupendo… e tentatore.

Prese il lenzuolo con due dita e coprì Ferid fino alle spalle prima di recuperare gli abiti del giorno precedente, ma un feroce tintinnio della fibbia della cintura svegliò l’affascinante tentazione che aveva appena cercato di ignorare.

«Dove vai?» fu la prima cosa, biascicata, pronunciata da Ferid dopo aver sbadigliato.

«Da nessuna parte… mi sto solo vestendo.» rispose lui, chiudendosi pantaloni e cintura. «Resta a letto ancora un po’. Preparo io la colazione.»

Si allungò per prendere la maglia ma si sentì trattenere per la cintura.

«Se hai freddo non vestirti e mettiti qui vicino a me un altro po’…»

«Guarda che è tardi, Ferid…»

Pur con l’aria ancora insonnolita Ferid sembrava essere già a regime, almeno inconsciamente, e sollevò abbastanza coperta da fargli vedere quanto bastava per accendergli il desiderio… ma fortunatamente per la sua anima immortale, non sufficiente a fargli infrangere il suo voto solenne.

«Ma c’è un posticino caldo proprio qui, Crowley…»

Non che non l’avesse capito, ma Crowley ebbe l’ennesima conferma che Ferid non si stava mettendo a dormire senza vestiti per seguire qualche strano ciclo lunare, e di riflesso scosse la testa con un sorriso esasperato e divertito insieme.

«Se sei così vispo puoi anche alzarti e preparare tu il porridge mentre io faccio il resto.»

Ferid rispose con uno strano mugolio e gli lanciò uno sguardo contrariato tale e quale a quello di un bambino col broncio. Crowley smise di pensare alla colazione e dopo qualche attimo di riflessione lasciò la maglia e si infilò nel letto.

«Anzi, in realtà è una buona idea.» disse, quando notò l’aria sorpresa di Ferid. «Devo parlarti di una cosa.»

«Ah, sì?» fece lui, appoggiando la testa sul suo petto. «Ha a che fare con quella telefonata?»

«Ah, te n’eri accorto… beh, sì. Era De Stasio.»

«E?»

«Oggi è il giorno del concerto… te lo ricordi, vero?»

«Sì, certo.»

Non lo vedeva in volto, ma dal suo tono gli apparve nitidamente il suo viso più pallido e meno disteso; la sua espressione di quando tentava di celare la sua preoccupazione. Gli accarezzò i capelli.

«L’organizzazione dell’evento e la band hanno deciso di non sospenderlo. L’unità cercherà di presenziare al concerto per garantire la sicurezza dei ragazzi.»

«Capisco.»

L’ha presa meglio di quanto pensassi… evidentemente l’ultima volta che ne abbiamo parlato sono riuscito a fargli capire che cosa avrebbero pensato gli altri ed era preparato all’eventualità.

«Ferid, voglio che tu sappia che nessuno nella squadra, e io ancora meno, ti farà la minima colpa se dovesse succedere qualcosa di brutto questa sera.»

«C’è sempre la possibilità che mi stia sbagliando.» disse lui, ma d’istinto strinse la mano sul robusto braccio che lo teneva delicatamente stretto. «Anche se sono certo di no.»

«Io mi fido delle tue sensazioni… per questo vorrei unirmi al resto della squadra per questa operazione.»

Ferid alzò gli occhi su di lui, alla fine, e Crowley vide l’espressione tesa che stava immaginando.

«Crowley, no. Non stai ancora bene, potresti sentirti male mentre sei lì.»

«Lo so. È un rischio, ma io sono disposto a correrlo, perché sono certo che tu sei nel giusto e che il Vampiro ci sarà… rischierei senza esitazione la vita per salvare quella dei prossimi bambini… o la tua, se lui scoprisse che non ti ha ucciso potrebbe dimostrare la sua scarsissima capacità di autoconservazione e riprovarci.»

«Non lo fare, Crowley, ho una brutta sensazione riguardo questo concerto.»

Sapevo che l’avrebbe detto… sapevo che avrebbe avuto paura di perdermi e che avrebbe tirato fuori qualsiasi argomento convincente per persuadermi.

«Ascoltami, Ferid. Non voglio andare a prendermi la gloria, né voglio suicidarmi in modo creativo, okay? Solo… capiscimi… è il mio lavoro proteggere le persone, e vorrei cogliere questa occasione. Vorrei riuscire a liberarti da questo peso, in tempo per il tuo compleanno…»

Crowley sorrise e passò il pollice sul cristallo rosso dell’orecchino prima di passarlo fugacemente sul suo viso.

«Non ti piacerebbe se per Halloween potessimo uscire insieme e stare fuori tutta la notte a festeggiare, senza chiederti se lui ti sta osservando… se lui sa dove sei e che cosa stai facendo… se lui sa di te e me?»

Sapeva di aver fatto breccia, perché capiva che quell’isolamento in casa, seppure inframezzato dalle partite a scacchi nell’appartamento accanto, lo stava logorando e gradualmente lo portava a diventare sempre più paranoico. Dopo aver decretato che nessuno degli sconosciuti proposti da De Stasio poteva essere Robert Warren Ferid si era fatto nervoso, anziché rilassarsi all’idea che potessero essere arrivati alla fine della sanguinosa saga.

«Vorrei che mi dessi il tuo consenso ad andare.» insistette, guardandolo dritto negli occhi. «Proprio perché anche tu tieni tanto alla mia vita, vorrei che capissi le mie ragioni e non ti opponessi se decidessi di andare anch’io.»

«Io vorrei che tu non usassi questi trucchetti ignobili con me per strapparmi un consenso che non voglio darti.»

«Quali trucchetti?»

«Questi! Dirmi quanto conta la mia opinione per te, che fai tutto questo per me, quando lo fai solo per te!»

«Ma non è vero, sono sincero quando dico che voglio che tu sia d’accordo…»

«Perché devi essere tu a prenderlo? Perché tu e non qualsiasi altro poliziotto del paese? Perché stai ancora cercando di vendicare George e gli altri tuoi colleghi!»

«No… Ferid, ti sbagli… voglio vendicare i miei amici, dare giustizia ai bambini e anche a te, ma non devo essere io in persona a prenderlo… voglio solo poter dire, se questa sarà davvero la fine della caccia, che io c’ero e che non ho risparmiato niente per prendere quel farabutto. Voglio poter andare a Grace Garden da George e dirgli che labbiamo preso anziché che l’hanno preso… ti sembra così strano?»

«Quindi hai già deciso. Quello che dico io non conta, vuoi che ti dia il consenso solo per non sentirti in colpa.»

«Non è questo… dico sul serio, se ci pensi bene e mi dici che non vuoi che lo faccia, non lo farò. Ma voglio che tu ci pensi, che ti metti anche nei miei panni e non mi rispondi di no come un bambino testardo. Esigo che sia una risposta ponderata.»

«Non voglio litigare con te. Se vuoi andare allora vai.»

Ferid si liberò dalle sue braccia senza incrociare il suo sguardo. Crowley, sbalordito dal repentino cambio di umore, si raddrizzò sul letto e l’afferrò dal polso.

«Ferid… non ti ho appena detto di pensarci? Non litigheremo, parliamone…»

«Sono arrabbiato, Crowley, non voglio parlare adesso. Se stasera succede qualcosa… non voglio ricordare che l’ultima cosa che abbiamo fatto insieme è stata litigare.»

Non oppose resistenza quando Ferid tirò il braccio per liberarsi dalla presa e lo guardò sgusciare fuori dal letto, infilarsi la vestaglia e sparire nella stanza da bagno. Dibattendosi in una sgradevole fanghiglia di senso di colpa e turbamento rimase lì, seduto sul letto, a rimuginare sui suoi motivi e sulle sue priorità.

 

 

«Non avrei mai pensato di… aspetta.»

Ferid attese in silenzio mentre la voce di Krul si allontanava dal telefono e si rivolgeva a un cliente che le chiedeva di mettergli in preordine una pubblicazione intitolata Dio come acqua; ciò lo fece pensare a quanti titoli si stesse perdendo in quel periodo di ferie forzate.

Fu abbastanza sorpreso quando la porta che dava sulla scala antincendio si aprì e ne uscì Crowley, guardandolo con la stessa apprensione di chi guarda il figlioletto con la febbre alta. Non parlò, ma accennò a una tazza termica e a una felpa che teneva in mano. Ferid lo guardò per qualche attimo, poi annuì, e prese la tazza calda mentre lui gli metteva la felpa sulle spalle.

«Sicuro di non voler tornare dentro?»

«Dopo.»

Era ovvio che una risposta o più d’una fioccassero nella testa rossa di quell’irlandese, ma non parlò e si limitò a tornare dentro dopo avergli sfiorato la mano infreddolita.

Krul non era ancora ritornata e Ferid ne approfittò per infilarsi la felpa, che era calda: dato che non aveva ancora acceso i sifoni nell’appartamento immaginò che gliel’avesse riscaldata con il ferro da stiro prima di portargliela. Chiuse gli occhi e tirò su l’orlo fino al naso dalla punta fredda.

Perché dev’essere così difficile? Sappiamo cosa proviamo… quindi perché è ancora così difficile? Perché sembra impossibile per me riuscire ad avere una relazione felice?

Sospirò abbattuto proprio nel momento in cui un rumore indistinto preannunciò il ritorno di Krul, che riprese esattamente da dove si era fermata.

«Non avrei mai pensato di farti da confidente e stare qua a sentirti lamentare della tua nuova storia d’amore.»

«Non so a chi raccontarlo.» commentò Ferid, con un tono lamentoso. «Io non ho amici.»

«Non ti veniva in mente proprio niente di più carino da dire?»

«Che cosa volevi sentirti dire? Che tu mi capisci come nessun altro? Che sei la migliore amica che ho mai avuto? Non è un grande riconoscimento essendo anche l’unica a sapere qualcosa di me.»

Krul emise un brontolio indistinto che si fuse con il rumore del bollitore del retrobottega.

«È doloroso, Principessa.»

«Cosa? L’amore?»

«Non capire che cosa c’è che ti blocca. Non capire la ragione che ti impedisce di stare bene con la persona che vuoi vicino.» disse Ferid, e portò le ginocchia vicine al petto per scaldarsi. «Ti è mai successo?»

Tintinnio di cucchiaino: stava girando lo zucchero nella tazza del tè o del caffè istantaneo.

«Sì, certo. Mi è successo.»

«Quante volte?»

«Almeno una. Ti basti sapere questo.»

«Vorrei farti una domanda, Principessa.» esordì lui, dopo un certo silenzio. «Perché non riesci mai a essere sincera?»

Un forte tintinnio di ceramica sottolineò il suo disappunto.

«Ma questo non è vero!»

«Non vuoi far sapere a nessuno cosa pensi e cosa cerchi, per quale motivo?»

«Perché non serve che tu o qualcun altro lo sappiate. So gestire da sola i miei problemi e anche i miei desideri.»

«Ma parlare con gli altri è così liberatorio, Krul… è proprio bello quando ti fidi di qualcuno così tanto da mettere le tue debolezze nelle sue mani. È un sollievo… sei più leggero. I tuoi pensieri sono più leggeri.»

«Pensavo fosse disgustoso sentirti parlare normalmente, ma non è nulla in confronto al sentirti parlare quando sei innamorato.»

«Strano, perché tutte le persone innamorate che sento sono soavi quando parlano di chi amano. Persino tu.»

«Quando mai sono stata innamorata, io?»

«Quando parlavi in modo soave.»

«Di chi? Di te? Tu sei ubriaco.»

«Io non ho detto niente del genere, Principessa. Ho solo detto che ti ho sentita parlare in toni soavi.» precisò lui, ma sorrideva divertito. «Di chi… chi lo sa? Ti conosco da sette lunghi anni, potrebbe essere stato qualsiasi giorno di questi sette anni…»

«O uno dello scorso luglio quando palesemente eri troppo ubriaco per capire che cosa stavo dicendo?»

«O uno dello scorso luglio, può darsi. Mi stai dando indizi per arrivarci da solo? Continuiamo, mi diverte giocare al detective!»

«Ti diverte giocare col detective, piuttosto.»

«È proprio quello il problema, non vuole giocare… ah, come sono triste… consolami, Principessa.»

«Ma che cosa me ne frega! Se proprio vuoi saperlo il tuo problema è la noia, se potessi lavorare non staresti così tanto a pensare alle tue seghe da sfigato!»

Ferid gettò un’occhiata sull’orizzonte, nella direzione del West End.

«Mi sa che hai ragione… vorrei poter lavorare.»

«Vorrei anche io che tu lavorassi, non riesco a fare tutto da sola. Intanto che finisco di spolverare sono arrivate le novità, devo allestire la vetrina e sistemare sugli scaffali, e intanto che lo faccio è già ora di ricominciare a pulire.» sbottò lei, irritata. «Più tutte le scartoffie amministrative che faccio tra un cliente e l’altro, e devo stare sveglia la notte per i manufatti che mi commissionano. È un inferno.»

Aveva sempre chiamato manufatti le sue stregonerie, fossero bracciali con incanti personalizzati, bambole di guarigione, amuleti per l’amore e la fortuna o addirittura le sue divinazioni. Riflettendoci, Ferid non era sicuro che lei sapesse che il suo impiegato era a conoscenza della sua secondaria attività di veggente.

«Krul.» disse all’improvviso. «Krul, faresti una cosa per me?»

«Che cosa vuoi?»

Il tono che aveva usato, più incuriosito che irritato, disse tutto quello che le parole non osavano: gli mancava la sua presenza, dopo anni passati insieme quasi ogni giorno, ed era molto più incline ad acconsentire per continuare quella telefonata il più a lungo possibile.

«Questa sera succederà qualcosa… probabilmente. Leggeresti le tue conchiglie per me?»

Il rumore che seguì lo conosceva. Krul aveva l’abitudine di infilare la pesante spillatrice nel portapenne e bastava un nonnulla per farlo rovesciare: cosa che era appena successa.

«Come lo sai?»

«Come pensi che lo sappia?» domandò lui di rimando, in tono leggero. «Naturalmente una tua cliente di quel servizio è venuta in negozio a cercarti. All’inizio non ho capito che cercava te, ma poi… beh, ho unito qualche puntino, per così dire. Allora, quant’è la tua tariffa? Segnala sul mio conto.»

Krul esitò dall’altra parte del filo, ma poi sentì un rumore regolare che riconobbe come quello della serranda del negozio.

«Krul, stai chiudendo?»

«Non posso fare una divinazione se vengo interrotta.»

«Oh, così facile? Niente insulti o i soliti inviti ad attaccarmi al–»

«Sta’ zitto, deficiente, prima di farmi cambiare idea.»

Ferid approfittò dei minuti in cui Krul scese nel suo antro ricavato nel seminterrato del negozio per riscaldarsi con la bevanda calda che Crowley gli aveva portato, un infuso di ciliegia e cannella. Ascoltò in silenzio il rumore di oggetti spostati, fruscii, un curioso acciottolio e l’inconfondibile scatto di un accendino tipo zippo.

Chissà se ce l’ha ancora…

«Senti, Principessa…»

«Sì.»

«Uh?»

«Sì, è il tuo accendino. Quello zippo con il teschio e le rose rosse.»

«Oh, l’hai conservato~ che sentimentale~»

«Mi piaceva il disegno.» ribatté lei. «Era un peccato buttarlo via solo perché hai smesso di fumare.»

Potrebbe anche essere vero… ma quando Krul si giustifica con così tanta calma è perché ci tiene a darti a bere qualcosa…

Ferid sorrise, nonostante sul momento sentisse la voglia di una sigaretta per rivivere certi ricordi nostalgicamente legati al fumo e a quell’accendino. Si accontentò di un sorso di infuso.

Un certo rumore tintinnante gli suggerì che avesse iniziato la sua divinazione: era il delicato acciottolio di conchiglie che si muovevano nello stesso sacchetto, che si toccavano e strisciavano tra loro. Ferid aspettò in silenzio più di tre minuti prima che lei parlasse.

«Questa notte il tuo detective incontrerà il suo nemico.»

Il brivido che gli risalì la schiena non aveva nulla a che fare con l’aria fredda e la gelida scala di metallo su cui era seduto.

«Cosa?»

«È lui l’uomo più importante per te, no? L’uomo più importante per te incontrerà il suo nemico più grande, stanotte… dopo questo, il tuo nemico toccherà te… ma c’è qualcuno a salvarti dal pericolo.»

«Il mio nemico… hai detto?»

Bobby? Il mio nemico è il Vampiro di West End, non c’è dubbio… ma è davvero Bobby? E poi, vuol dire che mi ha trovato anche qui? Come ha fatto, come…?

Ferid scosse la testa e sospirò; non aveva alcuna ragione di tormentarsi tanto, era soltanto la profezia di una ragazza perfettamente normale fatta buttando delle conchiglie su un drappo di velluto nero alla luce di qualche candela…

Già, ma io? Anche io ho fatto una profezia, quando ho visto in quel quadretto caduto il presagio di quello che sarebbe successo a Crowley… è la stessa cosa… oppure no?

«Ferid.» disse Krul con un tono forzatamente pacato. «Ferid, chi è la donna più importante per te?»

«Lo sai che sei tu, Principessa.»

«Non sto scherzando, idiota.»

«Mi hai forse sentito ridere?»

Krul proruppe in una strana, breve, gelida risata del tutto priva di allegria e densa invece di nervosismo e amarezza.

«Cazzo

Con in mente nitidi ricordi della sua sensazione netta che un pericolo mortale si addensasse su Crowley come la tempesta in quel giorno di luglio, Ferid capì che cosa Krul stava pensando e strinse il bicchiere termico tanto forte da sbiancarsi le nocche.

«Krul, che cos’hai visto?»

«Niente.»

«Non mentirmi! Che cos’hai visto?»

«Niente. Solo, pare che non lavorerai più per me… magari perché ti sposerai col tuo detective irlandese e sparirete tutti e due in un’altra città.»

«A parte che tutto ciò mi pare piuttosto impraticabile, lo so che stai mentendo! Dimmi che cos’hai visto davvero!»

«Felicitazioni, Ferid. Mi scuserai se non verrò alle nozze, ho qualche impegno, e anche adesso. Devo ancora finire di allestire la vetrina d’angolo.»

«Bugiarda!» esclamò lui, con crescente irritazione. «Krul, non riattaccare!»

«Mi dispiace tanto.»

«Non osare!»

Ma lei osò e gli riattaccò il telefono in faccia, lasciandolo indignato, furioso e preoccupato in egual misura. Richiamò immediatamente ma anche se se l’aspettava sentire la propria voce registrata della segreteria gli mandò il sangue alla testa. Ovviamente nemmeno richiamarla sul numero personale servì a nulla, perché la telefonata venne chiusa senza alcuna risposta.

«Piccola stronzetta arrogante!»

Ferid dominò l’insano impulso di lanciare il telefono giù dalla scala antincendio e lo ripose nella tasca della felpa; si alzò in piedi ma non si avvicinò alla porta, lasciata accostata con un pezzo di battiscopa di origine sconosciuta a impedirne la chiusura.

Qualsiasi cosa abbia visto l’ha spaventata. Mi ha chiesto se era la donna più importante per essere sicura che quello che vedeva riguardasse lei… ha visto un pericolo su di lei? Dev’essere così… è di nuovo lui, incontrerà Crowley questa sera al concerto, e poi… vedrà me… e dopo, Krul? Ma che cosa può volere da lei?

Ferid mosse passi lenti e aprì piano la porta, meditabondo. Non aveva fatto una domanda così intelligente: trattandosi di un uomo che aveva preso di mira bambini del tutto innocenti soltanto perché lui gli aveva rivolto la parola, che cosa mai poteva aspettarsi che pensasse di fare a una donna che era stata sua, anche se solo per un giorno?

Ferid spostò il pezzo di legno con il piede e chiuse la porta, ma non tornò immediatamente in casa: indugiò sul pianerottolo da dove si poteva sentire la musica che veniva dall’appartamento numero ventitré e le risate dei due ragazzi che l’abitavano, ma Ferid stava riascoltando nella mente un’altra voce. Tormentato dal dubbio si toccò l’orecchino rosso che un tempo non così lontano era appartenuto alla bassa, dispotica, arrogante, bellissima ragazza del Magick di Ashland Street.

Per che cosa ti dispiace, Krul? Non hai mai detto qualcosa del genere da quando ti conosco… perché dirlo ora, in questo modo, come fossero le parole di commiato?

Quando alla fine si decise a rientrare in casa lo stereo del numero ventitré aveva smesso di suonare, ma le risate dei due ragazzi e i loro toni scherzosi non avevano smesso di riecheggiare e tutto questo, pensò Ferid, rendeva l’angoscia dentro di lui ancora più nera.

 

 

La chiacchierata al telefono, come l’aveva definita Ferid, non gli aveva fatto molto bene e a Crowley sembrò ancora più pensieroso e preoccupato di quanto non lo fosse prima; in ogni caso dopo qualche minuto passato in piedi davanti alla porta d’ingresso si riebbe, notò che il padrone se lo stava osservando in silenzio e si affrettò a ricomporre un sorriso posticcio quanto un parrucchino malfatto.

«Grazie di avermi portato la felpa e qualcosa di caldo da bere, questo venticello gelido mi stava ibernando~»

«Non c’è bisogno, lo stavo facendo anche per me.»

Crowley sospirò posando sul tavolino un libriccino che stava leggendo nell’attesa – uno degli opuscoli che Gilbert aveva portato a Ferid per fargli approfondire la visione cattolica di molteplici aspetti della vita, nello specifico il matrimonio – e lo guardò, combattuto: non sapeva se parlargli apertamente o se aspettare di vedere se un germoglio di volontà in tal senso fosse sbocciato da lui.

Aveva avuto molto tempo, quando era stato in ospedale in seguito alla sparatoria, per pensare al rimpianto, al rimorso, al perdono e a simili argomenti che difficilmente non sfiorano la mente scossa di qualcuno che ha rischiato la morte. Sapeva che qualsiasi cosa avesse rimandato l’avrebbe fatto pentire, che gli sarebbe rimbombata nella testa nei suoi ultimi momenti.

Se la sensazione di Ferid è come quella di quest’estate questa volta potrei esserci vicino di nuovo. Non posso aspettare.

«Ferid… vorrei ti sedessi qui e parlassimo… di stamattina e di stasera.»

«Non c’è niente di cui parlare, Crowley. Ho un brutto presentimento e non voglio che tu vada nelle tue condizioni di salute, perché non ti voglio perdere.»

Non si aspettava una verità così diretta da lui, soprattutto alla prima risposta. Il suo cervello rimase un po’ in stand-by scartando gli scenari immaginati in cui doveva persuaderlo a parlare, con la stessa fretta di un adolescente disordinato che tenta un riordino dell’ultimo secondo prima che la madre entri per ispezionare la sua camera.

«Sì, ma… Ferid… capisci che io non lo faccio per capriccio, o…»

«Il mio invece è un capriccio.» l’interruppe lui. «Perché voglio stare con te ancora per tanto tempo. Voglio sentirti cantare nel coro, voglio andare all’Elysium a vedere un musical, voglio che mi insegni abbastanza rugby da divertirmi quanto te a guardare una partita, e voglio leggerti tutti i miei libri preferiti, e per questo servono un sacco di serate di lettura. Probabilmente anni di serate di lettura! Quindi no, Crowley, non voglio che tu vada questa sera.»

«Questo lo capisco, ma tu non tieni in considerazione le mie ragioni.»

«Certo che le tengo in considerazione, ma dal mio punto di vista non sono minimamente valide per ignorare le mie. Ora che tu sai le mie, fai la tua scelta, ma se decidi di andare sappi che non saremo mai d’accordo.»

Ferid ha una capacità spaventosa di angosciarmi quando devo scegliere. Mi sembra sempre che mi stia esaminando e che… sì, ho sempre paura che possa scomparire se sbaglio la risposta.

Crowley allungò la mano verso di lui senza parlare. Dopo un momento di esitazione gli venne stretta da dita ancora fredde e lui le strinse per riscaldarle.

«A questo punto sarà il caso a decidere… o piuttosto, Dio, se vogliamo metterla così.»

«Pari o dispari?»

«De Stasio ha detto che mi chiamerà per andare solo se gli uomini a disposizione saranno insufficienti. Se il capitano ritiene di aver avuto abbastanza rinforzi dalle pattuglie e dal distretto di Northbury, io resterò qui senza muovermi.»

«Davvero?»

«Sì.» rispose Crowley sorridendogli. «Mentre aspettiamo notizie ti va di leggere qualcosa insieme? Abbiamo finito l’altra sera Il mercante di stelle, che cosa c’è dopo nella lista?»

Ferid sorrise più convinto, ma negli occhi restava sempre la stessa densa ombra.

«Direi che il prossimo è sicuramente Una vecchia storia irlandese.»

«Ah, questo titolo mi piace! Che genere è?»

«Uhm, direi un mystery. È una sorta di giallo, un po’ più fumoso di un classico giallo.»

«Un giallo irlandese? È proprio il mio libro!»

«Se fossi protagonista di un libro, sarebbe un po’ diverso da un giallo, penso.»

«E come sarebbe?»

Ferid si decise a sedersi sul divano accanto a lui.

«Probabilmente un giallo mescolato con cose misteriose e miracoli divini, la componente spirituale non potrebbe mai mancare! E poi, sarebbe intriso di sentimento, racconterebbe almeno una delle tue storie d’amore e di passione.»

«Magari racconterebbe il caso del Vampiro di West End e la mia storia con te!»

«Sarebbe divertente, no? Chissà com’è il finale. A me piacciono i lieto fine.»

Crowley gli lanciò un’occhiata divertita, memore di quando gli raccontò quanto gli piacessero le storie romantiche con un finale felice.

«Dipende dal libro, ma in questo anch’io vorrei un lieto fine.»

«È un libro che leggerei proprio.» disse Ferid, con l’aria assorta. «Ma immagino che se qualcuno scrivesse un libro sul Vampiro sarebbe un qualche giornalista che pubblica le sue indagini e le sue interviste…»

«E se lo scrivessi tu?»

L’aveva buttata lì quasi senza pensarci, ma Ferid gli lanciò uno sguardo costernato fin troppo sentito per il commento che voleva essere.

«Io?»

«Beh… ho solo pensato… leggi libri da tutta la vita, e ne avrai letti migliaia… non hai mai provato a scriverne uno?»

«In realtà no. Non ci ho nemmeno mai pensato… in effetti, non è che io abbia molto da…»

«Adesso non attaccare con la scusa che non hai storie da raccontare! La tua storia sembra un romanzo, con la tua infanzia tormentata, quello che è successo con Bobby, tutto quello che ti è successo prima di arrivare al Magick, e tutto quello che c’è stato dopo che ci siamo conosciuti!»

«Mi confondi.» commentò Ferid. «Parti da poliziotti e navy seals e poi passi alle fantasie su librai, meccanici e scrittori…»

«Non sono fantasie, stavo solo pensando che… beh, perché non ci pensi su? Magari non arriverai neanche a finirlo, ma ti potrebbe tenere occupato in questo periodo… onestamente, non so quanto ti faccia bene leggere chili di questa strana roba.»

Lanciò uno sguardo al libriccino intitolato Il matrimonio in Cristo tale e quale l’avrebbe riservato a una zuppa di ceci, ma Ferid non se ne accorse: stava di nuovo giocando con l’orecchino con gli occhi celesti fissi senza concentrazione su Pandora che ronfava sul tappeto sotto il tavolino.

«Beh… un po’ di lavoro d’archivio non guasta nessuno, no? Che male può fare riordinare un po’ le idee e quello che è successo negli ultimi mesi?»

«Assolutamente nessuno.» concordò Crowley, ben felice di aver trovato qualcosa che potesse tenerlo lontano dalla noia e dalla conseguente sensazione di depressione. «Anzi, dovresti proprio farlo. È una versione avanzata del tuo diario, no? E scrivendo la storia di tuo pugno ti renderai conto di quante cose speciali sei riuscito a fare, ti farebbe proprio bene.»

Qualsiasi cosa Ferid stesse per rispondergli Crowley non la conobbe mai: vennero interrotti dallo squillo del suo cellulare che calamitò i loro sguardi e l’irlandese sentì un leggerissimo brivido quando vide lampeggiare il nome di Joey Alford sul display. In un’atmosfera improvvisamente di nuovo tesa rispose.

«Capitano.» disse, a mo’ di saluto.

«Allora, Crowley… come ti senti?»

«Mi sento bene.» rispose lui in tono cauto. «È una manovra gentile per arrivare a dirmi che avete bisogno di me?»

Il capitano non parlò per qualche secondo e Crowley mise la chiamata in vivavoce per essere certo che Ferid capisse ogni parola.

«A essere onesti ho grattato in posti dove avrei preferito non mettere le mani.» rispose Alford, con un tono stanco. «Ho chiamato agenti che sono in ferie, agenti che avevano preso permessi, chiedendo a tutti se volevano prendere parte all’operazione. Ho chiesto all’unità crimini maggiori, ho scomodato tutte le amicizie che ho che avessero un debito… e tutto quello che ho ottenuto sono quattro pattuglie di agenti e quattro detective, più il sergente McCray.»

«Un po’ pochini per la Belfast Arena che contiene quasi ventimila persone al suo massimo.»

«L’allarme non è stato considerato fondato, quindi non hanno voluto smuovere inutilmente squadre intere di polizia e forze speciali… l’Arena ha fatto la sua raddoppiando gli uomini della sicurezza, anche se solo per scaricare su di noi la responsabilità di qualsiasi cosa possa succedere.»

«Classica mossa da paraculi

«Linguaggio, ragazzo… anche se il nocciolo è quello.» fece lui, e non fu difficile immaginarlo a massaggiarsi le tempie o stringersi l’attaccatura del naso come spesso faceva. «Pensiamo di schierare le forze agli ingressi, controllare per bene chi entra e monitorare i parcheggi… con questi numeri non possiamo fare altro che affidarci alla sicurezza dell’Arena per controllare all’interno. Sono stati venduti diciottomila biglietti. Che tu venga o no non farà differenza sulla sicurezza interna, ma ogni paio di occhi allenati può servire a individuarlo se prova a entrare o si aggira nel parcheggio o dove fermano le navette.»

Crowley lanciò uno sguardo a Ferid, che lo ricambiò. Anche in silenzio si accorgeva di quante angosce si stessero addensando nel celeste dei suoi occhi.

«Sei disponibile, allora?»

«Sì.»

Ferid non replicò quell’affermazione e si mise a riordinare il caos che Crowley aveva fatto sul tavolino spostando i libri e sparpagliando tazza vuota, cucchiaino, vasetto del miele, telecomando e altri oggetti sul ripiano. Crowley non lo perse di vista un solo attimo mentre Alford gli dava direttive di aspettare una volante con McCray o De Stasio come accompagnatori nella speranza di confortarlo con la sicurezza che sentiva dentro se stesso.

Chiuse la chiamata poco dopo e dovette raggiungere Ferid al lavabo della cucina.

«Eravamo d’accordo che le circostanze avrebbero deciso.»

«Sembra che sia inevitabile… ma fai attenzione, Crowley. Ricorda che finora le mie sensazioni sono state giuste.»

«Ora sei spaventato perché ci sei molto vicino… non farò nulla di avventato. Probabilmente non farò altro che camminare su e giù da un ingresso all’altro o nel parcheggio. Anche se dovesse venire, potrei non incontrarlo nemmeno.»

Ferid si morse il labbro in evidente agitazione, e poi lo guardò risoluto.

«Lo vedrai. So che lo incontrerai. Per favore, sii certo anche tu che succederà e mantieni alta la guardia.»

«D’accordo… se ti farà stare tranquillo, prometto di restare all’erta tutto il tempo.»

Ferid annuì rigidamente e si mise a sistemare la cucina. Crowley andò in camera a cambiarsi velocemente e quando fu di ritorno era già comparso un messaggio sul suo telefono che lo informava che De Stasio era in arrivo davanti a casa per portarlo alla Belfast Arena.

«Ferid, De Stasio è venuto a prendermi con la volante… devo andare.»

«Buona fortuna.»

Quanto riesce a essere gelido quando si arrabbia… ma non riesco a fargli capire che non voglio ferirlo, che non lo sto facendo perché non m’importa che cosa pensi…

Rimase in piedi per un minuto buono accanto al tavolo della cucina, a guardare Ferid che si arrotolava le maniche e iniziava a lavare le stoviglie che avevano usato per il pranzo e per l’infuso, alla ricerca di parole abbastanza importanti ed espressive, sufficientemente potenti da arrivargli dritte al cuore.

Non posso farci niente… non conosco parole più forti dei fatti.

Con un nuovo slancio di decisione l’afferrò poco sopra al gomito con non più della forza necessaria a voltarlo, lo strinse a sé e lo baciò, cercando di mettervi tutta la delicatezza per fargli capire che non aveva smesso di voler essere il suo porto sicuro, e tutto l’impeto della passione che gli bruciava dentro e che non aveva ancora avuto occasione di mostrargli: tentò di riversare in un solo atto tutte le sfaccettature di un sentimento come non ne aveva ancora conosciuti, e forse non ne avrebbe conosciuti mai dopo allora.

In un primo momento, colto di sorpresa, Ferid tentò una debole manovra di ritirata prontamente stroncata da un braccio troppo forte da vincere, rimase immobile come se alla fuga fosse seguito il tentativo di fingersi morto come una preda; salvo poi venire inesorabilmente catturato da quell’assalto di desiderio che infiammava anche il suo e vi si abbandonò con sentimenti contrastanti di sollievo e tormento.

Quando Crowley allentò la presa sulla sua schiena e si separarono avevano entrambi il fiato corto, il viso pallido di natura di Ferid era arrossato in un’espressione che reputava a dire poco deliziosa. Era un termine insolito per lui, ma mentre lo guardava era quella la parola che gli veniva in mente.

Sentì la suoneria del telefono e seppe che De Stasio lo chiamava perché era arrivato e l’aspettava. Si sporse a dare a Ferid un altro bacio sulle labbra, molto più innocente di quello che l’aveva preceduto, e lo guardò intensamente senza dire una sola parola: temeva che scegliere quella sbagliata avrebbe sciupato tutta quella complicità e lasciò che fossero i loro occhi a farsi promesse e a salutarsi.

Quando scese i gradini della palazzina e salì in fretta sulla volante qualche strascico di quello che era appena accaduto doveva aleggiare ancora intorno a lui, perché De Stasio gli lanciò un’occhiata con un mezzo sorriso tipico delle sue stoccate, che non tardò ad affondare.

«Vi siete salutati per bene, Crowley?»

La domanda era così mirata che l’irlandese aggrottò le sopracciglia e si diede un’occhiata generale addosso chiedendosi da dove potesse averlo capito, ma non trovò risposta.

Certo Ferid non portava rossetto che potesse macchiarmi e non mi sono nemmeno spogliato, da dove gli è venuta quell’idea?

«Dalla tua faccia.» fece lui, come se gli avesse letto il pensiero. «Fin dall’inizio hai sempre avuto quella faccia quando hai avuto dei bei momenti con lui, o quando ne parlavi… fin dalla prima volta che è venuto alla centrale, per esempio.»

«Quale faccia?»

Nonostante il vivo terrore di scoprire di assumere una qualche stupida espressione stralunata la domanda emerse con un tono sufficientemente noncurante. Ne fu soddisfatto.

«Mh… è difficile da spiegare, non credo che la maggior parte della gente la noterebbe, ma… hai un’espressione serena e allegra in un modo tutto particolare. La mia mamma dice che le persone innamorate hanno una luce diversa, la chiama “la strana felicità”. Tu ce l’hai già da allora. È per questo motivo che ho sempre pensato che lui ti piacesse, fin dall’inizio.»

«De Stasio, lo sai che stai diventando un gran pettegolo?»

«Ah, tu dici?»

«Altroché. Pensa ai fatti tuoi, quello che facciamo io e Ferid in casa nostra non sono affari tuoi.»

«Oh, casa vostra, mh?»

Ma perché diavolo parlo?

«Beh, vive con me al momento. Sì, è casa nostra, per adesso.»

«Sì, ha perfettamente senso.» rispose De Stasio, gli occhi fissi sulla strada, con quel suo solito tono cauto che sentenziava più di qualsiasi asserzione. «Casa è il posto dove si trova il tuo spazzolino da denti, dopotutto.»

Crowley, suo malgrado, sentì affiorare una risata e non riuscì a trattenerla del tutto.

«Oh sì… assolutamente vero.»

 

Nel frattempo, dal luogo in cui si trovava anche il suo spazzolino da denti, Ferid tenne d’occhio la strada dalla finestra della cucina fino a che non vide la volante immettersi sulla carreggiata e puntare verso est in direzione del distretto di Northbury. Non appena fu scomparsa alla vista dietro altri palazzi di appartamenti chiuse bruscamente le tende e si affrettò ad andare nella camera da letto.

Qualsiasi cosa abbia spaventato Krul in quel modo l’ha vista nelle sue conchiglie… gli eventi che ha visto, se sono attendibili, si dipaneranno dopo quello che accadrà questa sera. Ma se stasera riuscissimo a trovare il Vampiro di West End, se lo prendessimo… tanti saluti ai suoi piani di attaccare me e poi lei. Non potrà più fare niente una volta arrestato.

Ferid spalancò l’armadio a muro così violentemente che Pandora schizzò a nascondersi sotto il letto, ma lui non le badò affatto e scorse i suoi vestiti, strizzati nel poco spazio che risultava nella metà che gli spettava, ragionando tanto febbrilmente da sentire quasi il rumore di rotelle che giravano scricchiolando.

Per quanto possa sembrare giovane non c’è modo che io possa passare per uno dei fan dei Double Tune, sono veramente una fascia troppo bassa di età… quindi…

Scelse i vestiti meno appariscenti che avesse e arraffò una maglietta viola che ficcò con poca grazia nella borsa che usava quando gli era necessario portarsi dietro libri e oggetti, insieme a qualche strumento che addocchiò nell’armadio e che ritenne utile, quale una torcia d’emergenza che Crowley teneva con altre simili utilità in una scatola di scarpe aperta.

La preparazione più lunga fu legarsi i capelli in quella che chiamava doppia treccia, una complicata acconciatura che però era anche il solo metodo che permettesse a una persona con una chioma tanto lunga di nasconderla sotto un berretto senza sembrare un alieno dal cranio ingigantito.

Grazie, Principessa, per avermi insegnato a fartela per i tuoi allenamenti in piscina. A volte la schiavitù si rivela un’esperienza formativa.

Pandora lo fissava a occhi spalancati e si rintanò sotto il letto quando lui le si avvicinò a lavoro terminato.

«Sei veramente una tonta, Dora. Dovresti avere altri metodi per riconoscermi, non solo vedere se ho i capelli lunghi.»

Non aveva altro tempo da perdere. Prese la borsa e se la buttò sulla spalla, afferrò le chiavi della macchina e spalancò la porta, ma poi si mise a riflettere. Rientrò lentamente e lasciò le chiavi dove le aveva prese.

Se vado con la sua macchina potrebbe notarla, se dovessi entrare proprio nella zona dove sta controllando… dovrò prendere il taxi fino là.

Non aveva mai contanti, quindi tornò nella camera e prese i soldi che Crowley teneva in fondo al cassetto del comodino, ficcandoli nella tasca esterna della borsa.

Perdonami, li riavrai tutti.

Come ultima cosa scrisse un biglietto nel caso che uno dei ragazzi Hyakuya si fosse avventurato alla porta numero ventiquattro per cercare un giocatore di scacchi – o qualsiasi altra cosa – e l’appiccicò sopra lo spioncino. Vi aveva scritto che lui e Crowley erano usciti per andare a vedere uno spettacolo insieme a dei suoi colleghi, sperando che questo particolare sistemasse eventuali dubbi se uno dei ragazzi avesse notato la macchina nel cortile.

Con suo enorme sollievo non incappò in incontri sfortunati: se avesse incrociato uno dei ragazzi mentre usciva dal palazzo da solo sarebbe stato arduo dare una spiegazione, ma per fortuna non accadde e quando si lasciò alle spalle la palazzina si sentì non così diverso da quando, bambino, sgattaiolava di nascosto fuori dalla villa.

Alzò il braccio per fermare un taxi sulla strada, ma il primo l’ignorò come gli accadeva ogni volta. Il secondo aveva già un passeggero a bordo e il terzo aveva l’insegna spenta. Iniziò a spazientirsi.

«In che lingua bisogna pregare per avere un taxi?» sbottò quando anche un quarto tirò dritto. «Non sto mica andando a divertirmi in discoteca, lo sai? Sto cercando di fare il mio dovere di spada, sii collaborativo, che cavolo!»

Sollevò di nuovo il braccio e questa volta non uno ma ben due taxi, che macinavano l’asfalto uno di seguito all’altro, accostarono: comprensibilmente i due autisti presero a urlarsi certe curiose gentilezze dal finestrino e Ferid ritenne opportuno attendere che decidessero da loro chi l’avrebbe spuntata.

«Non hai proprio le vie di mezzo, tu…»

Una chiamata improvvisa fatta al telefono dell’autista basso di pelle abbronzata interruppe la lite, perché con un’occhiataccia invelenita al display e poi al concorrente questi rimontò in auto e se ne andò; l’altro autista, che altri non era che una donna dai capelli corti e ben camuffata in panni maschili, sorrise trionfante e gli aprì la portiera.

«In carrozza, tesoro! Dove ti porto?»

«Alla Belfast Arena, Northbury.» disse lui, salendo senza esitazione. «Il più in fretta che sia possibile, grazie.»

«Alla Belfast Arena? È abbastanza lunga da qui.»

«Per questo vorrei che ci sbrigassimo, per cortesia.»

La donna chiuse lo sportello e gli lanciò un’occhiata penetrante.

«E i contanti ce li hai?»

Ferid, che non si abituava mai all’indole sospettosa della classe tassista di New Oakheart, sospirò e si sporse sui sedili anteriori allungandole un pezzo da cento.

«Ho un gemello di questo per te se mi ci porti in venti minuti. Che ne dici?»

La donna emise una risata sguaiata per l’eccitazione di quella banconota, e l’intascò allacciandosi la cintura.

«Per il suo gemello ti porto anche in Canada in venti minuti, tesoro! Allaccia la cintura, il Bonnie Express sta per partire!»

 

 

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Capitolo 24
*** Caccia alla Belfast Arena ***


 

Essere in malattia è uno schifo, ti trattano tutti come fossi una specie di vecchietto con una brutta ferita di guerra.

Crowley sospirò e mosse su e giù nella tazza la bustina di infuso che una gentilissima impiegata del botteghino gli aveva offerto quando aveva dovuto rifiutare il caffè – un infuso di fiori, che non aveva la minima idea si potessero mangiare – con aggiunta di miele. Lanciò un’occhiata intorno, scorrendo la fila di ragazzini che entravano con il biglietto per i posti in tribuna speciale e nella riservata.

Alford l’aveva chiamato per l’operazione, ma si era ben guardato dallo spiegargli in anticipo che cosa avesse in mente per lui e una volta arrivato era stato portato dentro dall’ingresso di servizio, strizzato in una maglietta della sicurezza di un blu elettrico che faceva a pugni con il colore dei suoi capelli e mescolato tra il personale dell’Arena; a niente era servito far loro notare che il Vampiro conosceva il suo aspetto con altissima probabilità, si era dovuto accontentare di presidiare l’atrio e controllare che nessun adulto si aggregasse non visto a una comitiva o entrasse al concerto da solo.

«Ehi, Crowley.»

Lui guardò la radio gracchiante con malumore crescente, ma fece finta di nulla: mise la sua mezza bustina di miele nella tazza di latta e premette il tasto per rispondere.

«Ehi, Sean.»

«Che cosa stai bevendo?»

Crowley si girò per scoprire da dove lo stesse osservando, ma non lo vide. Lo sentì ridere.

«Ti sto guardando dalle telecamere di sicurezza… come membro degli affari interni mi hanno piazzato qua a controllare i nostri.»

«Non ti annoi mai di mangiare sempre la stessa minestra, Sean? Buttati, prendi la pistola e fai la ronda fuori… tu che puoi ancora.» commentò una certa dose di amarezza.

«Mi piace il mio ruolo, dopotutto.»

«Già, adori controllare le cose.»

Ah… devo stare attento, non è proprio la sera giusta per discutere con lui… se mai esista un momento buono per questo.

«Quando entrano tutti e il botteghino chiude, che ne dici di venire su da me nella stanza dei monitor? Il capitano non vuole che tu stia tra la folla e la dovremo pur passare questa serata.»

«Sean, sai che siamo qui per prendere un assassino?»

«Un assassino che non sarà qui, lo sai.»

«Ci sarà.»

«No che non ci sarà… lo sappiamo entrambi che il Vampiro sta probabilmente sdraiato su uno scomodo divano a ridere di noi, e aspetta che tu torni a casa per consolarti con la bella maschera che ha dipinto apposta per te.»

Crowley smise di pensare praticamente all’istante. Con la radio stretta in pugno puntò dritto alle scale per salire nella sala della sorveglianza e sbattere la testa piena di segatura di Sean Lesky contro qualsiasi cosa sporgesse abbastanza da promettere del dolore, quando l’apparecchio gracchiò di nuovo e ne uscì la voce di De Stasio.

«Lesky, dacci un taglio o parlo io con il tuo superiore. Non usare la radio per parlare dei fatti tuoi e non è il maledetto momento per le piazzate di gelosia, o quello che sono questi piagnistei da moccioso. Crowley, non ti muovere dall’atrio o questa volta vieni sospeso dal servizio seduta stante

Crowley si fermò sul secondo gradino e ancora una volta si guardò intorno, ma vide solo una robusta donna del servizio di sicurezza, una coda di ragazzini entusiasti davanti al botteghino e un membro dello staff che spariva dietro una porta per il personale autorizzato.

De Stasio mi conosce fin troppo bene… non mi ha visto, ma sapeva che se non avevo risposto è perché mi si è spento il cervello…

«Basta con le cazzate. Tenete gli occhi dove vi è stato detto e risolvete le vostre questioni quando non siete nel bel mezzo di un’operazione di polizia.»

«Scusami, De Stasio.» rispose Crowley accostata la radio alla bocca. «Tengo d’occhio la fila.»

Fu a quella che diresse lo sguardo mentre scendeva i gradini che aveva salito nel suo momento di blackout, e solo un accenno di sorriso gli increspò le labbra quando notò, in un gruppetto di fans agghindate di magliette della band e gadget, una ragazzina più alta delle altre con una lunga coda di capelli argentei. Non le tolse gli occhi di dosso finché non tornò dov’era prima e si riappropriò della tazza di infuso di tiglio, poi sorseggiando prese a studiare con attenzione chiunque entrasse dalle porte che non avesse palesemente meno di sedici anni.

 

 

Ferid fece del suo meglio per assumere l’aria di qualcuno che sapeva esattamente dove stava andando e cosa stesse facendo, mentre nella sua testa non credeva di essere mai stato tanto disorientato: la Belfast Arena era un edificio enorme, fornito da un parcheggio a molti piani e illuminato da riflettori che brillavano come il sole di giugno. Non c’era un edificio tanto imponente nel West End e a Ferid ricordò il primissimo viaggio a Las Vegas.

È vero che New Oakheart è una metropoli, ma pensare che ci possano essere grattacieli ed edifici del genere a pochi chilometri da un distretto pieno di casette, negozietti ed edifici di uffici amministrativi di cinque o sei piani al massimo, senza contare le zone rurali ai margini, è… surreale.

Ferid aggirò l’assembramento di ragazzini accompagnati sporadicamente da qualche tutore più avanti negli anni, occhieggiando gli ingressi pronto a sparire al primo sprazzo di capigliatura rossa ma non trovò il suo poliziotto preferito da nessuna parte. Gioì interiormente di tanta fortuna, e anche di più quando addocchiò una porta di servizio aperta vicino a una zona di scarico sul retro dell’Arena, ma poi sentì un urlo di avvertimento e inchiodò proprio davanti alla porta.

«EHI!»

«Eh… no, io…»

«Questa è una zona riservata al personale autorizzato, ragazzino!» inveì la voce dal tono vagamente isterico all’interno. «Levati di torno e vatti a mettere in fila, moccioso, prima che chiami la polizia!»

«No, no! Me ne vado, me ne vado!»

Ferid si affrettò a togliersi dalla vista e si nascose dietro una serie di pannelli appoggiati in blocco contro la parete; da lì dietro poté vedere un ragazzino con la maglietta viola e magenta con logo che aveva visto a buona parte della moltitudine giovanile in coda avanti agli ingressi. Lui, correndo via, non lanciò neanche un’occhiata alle spalle e non si accorse che un altro stava tentando la sua stessa impresa.

«Maledizione, ma dove sono finiti i ragazzi di Lewis? Aveva detto che mandava qualcuno ad aiutare lo staff!»

Una voce gracchiante rispose da un qualche apparecchio tecnologico, ma Ferid non riuscì a distinguere nemmeno una parola anche avvicinandosi alla porta.

«Beh, qui non si sono ancora visti! C’è un casino dappertutto e siamo a metà organico per l’allestimento, e manca solo un’ora!»

Seguì un altro confuso brusio di risposta e la voce maschile imprecò a ripetizione con parole che Ferid non aveva mai sentito, e non per mancanza di erudizione nella lingua inglese: era un idioma a lui sconosciuto.

Esitò un momento, poi prese il coraggio a due mani, si stampò un sorriso in faccia ed entrò a conoscere l’uomo arrabbiato. Aveva l’aria di essere giovane ma stressato, con capelli ricci che a stento celavano la stempiatura precoce, un corpo allampanato e gli occhi pesti di chi non dorme bene da qualche tempo.

«E tu chi diavolo sei?» gli fece lui brusco.

«Oh, meno male, ho trovato qualcuno, pensavo di essere costretto a entrare dagli ingressi per gli spettatori…»

«Chi sei?»

«Ferid! Mi ha mandato Lewis per darvi una mano, mi aspettavi, no?»

«E sei qui da solo?»

«Ma ti pare? No, solo che quando siamo arrivati ero al telefono con quella rompipalle di mia sorella, una maniaca degli autografi, figurati, non mi voleva mollare perché voleva che le facessi fare uno scarabocchio dai Double Tune!» snocciolò di pura fantasia Ferid, e per qualche motivo pensò a Krul. «E mentre parlavo con lei una ragazzina mi ha rovesciato addosso la bibita, sono tornato alla macchina e… Beh, insomma, sono rimasto indietro e non so da dove sono entrati i ragazzi, è la prima volta che vengo qui!»

«Sì, sì, ho capito… ma la maglietta?»

«Oh, quella dello staff… beh, vedi, è…»

Ferid prese la maglia viola che aveva ripescato nell’armadio, tutta appallottolata nella borsa.

«Hai presente la ragazzina con la bibita? Avevo addosso la maglietta dello staff e me l’ha sporcata; la mia solita sfortuna nera, come se arrivare in ritardo e litigare con mia sorella non fosse stato abbastanza divertente per una giornata soltanto. Ne posso avere un’altra? Era Cherry Soda, se giro con questa per l’Arena penseranno che ho accoltellato qualcuno.»

«Ci mancava anche questa…»

Il ragazzo sospirò massaggiandosi il collo, poi gli indicò un corridoio.

«Vai di là, la seconda porta a sinistra… c’è un armadietto, teniamo lì le magliette di riserva per lo staff e altra roba che ci serve per la segnaletica… la borsa nascondila, quel locale non si chiude a chiave.»

«Okay~»

«Come hai detto che ti chiami… Fred…»

«Ferid!»

«Quello che è. Appena ti sei cambiato porta questi dietro il palco allo staff tecnico, serve per gli effetti speciali, perché l’hanno consumato per le prove

«Sarà fatto, capo~»

Il riccioluto diede un’altra occhiata fuori e chiuse la porta bloccandola dall’interno, borbottando senza sosta sull’inettitudine degli staff, dei trasportatori, degli organizzatori e di “chiunque altro nel maledetto mondo della musica”. Ferid lo lasciò brontolare in solitudine e sgattaiolò nello sgabuzzino, dove secondo istruzioni trovò la maglietta viola con la scritta STAFF degli impiegati della Belfast Arena.

Beh, sono dentro, e con una maglietta dello staff… se ce l’ho fatta io potrebbe riuscirci chiunque con un po’ di presenza di spirito. Devo dire a Crowley di non mandare mai i suoi figli da soli in un posto così poco sorvegliato.

Ferid poi pensò che Crowley lo avrebbe a dire poco preso a schiaffoni se avesse scoperto che aveva preso un taxi ed era arrivato fin là da solo, e si era anche introdotto nell’Arena con un sotterfugio, quindi sperò intensamente che non lo scoprisse.

Con la massima calma e naturalezza che riuscisse a racimolare uscì dallo sgabuzzino dopo aver nascosto la sua borsa dietro un cartello che a giudicare dalla polvere non veniva toccato da mesi; prese due cartoncini di ghiaccio secco e si avventurò nei corridoi seguendo le indicazioni per il palco.

Con quella maglietta era come invisibile. Nessuno faceva gran caso a lui seppure non fosse un volto familiare per alcun impiegato o membro dello staff dei Double Tune; ricevette indicazioni su cose da fare, persone da chiamare per questa o quella cosa, e in meno di dieci minuti ebbe ben chiaro chi fossero quelli che dirigevano gli altri e chi quelli che erano manager, costumisti e assistenti vari della band.

È facile. È fin troppo facile, è una fortuna per quei ragazzini che non sia venuto veramente a piazzare una bomba!

Ferid riuscì a districarsi dai preparativi venti minuti prima dell’inizio del concerto, quando i Double Tune iniziarono a provare gli amplificatori e a sistemare i loro strumenti personalmente. Visti da così vicino sembravano dei bambini essi stessi, ma Ferid dubitava molto che il suo amico Vampiro avesse tanto coraggio da mirare a qualcuno di così famoso dopo aver collezionato vittime di classe medio-bassa senza particolari legami di famiglia o lavorativi altolocati.

Lasciò il palco insieme ad altri addetti con la stessa maglietta viola ma rimase volutamente indietro con un passo più lento e non appena fu certo che non si sarebbero interessati di lui infilò una porta e fu dentro l’area spettatori dell’Arena: dubitava d’aver mai visto di persona tanta gente tutta insieme, e non essendo mai stato neanche allo stadio il boato di quella marea di ragazzini eccitati e festanti lo prese di sorpresa e lo costrinse a coprirsi le orecchie. Filò il più radente al muro che potesse e lasciò scorrere gli occhi sull’immensità di quella folla.

Sono tantissimi… come farò a trovarlo? Se fosse qui in mezzo, io…

Si bloccò e guardò la distesa di spettatori, molti dei quali poco più che puntini colorati che si agitavano, con una sensazione sgradevole lungo la schiena. A un livello subliminale seppe che lui c’era, che era dentro quell’edificio.

Abbassò lentamente le mani lasciando che il rumore, le grida eccitate, i battiti di mani, i fischi e lo scalpiccio di centinaia di piedi urtassero i suoi timpani. In quel momento niente importava: né la bellezza della Belfast Arena, né l’atmosfera di febbrile attesa, come il rumore, la folla, gli occhi indiscreti, e tantomeno che il suo essere lì andava contro la legge. Se avesse preso il Vampiro di West End quella sera, qualsiasi cosa Krul avesse visto nelle sue conchiglie non si sarebbe avverata, e non sarebbe servito affidarsi alla polizia.

Krul ha guardato che cosa sarebbe successo, ma quando lo ha fatto io credevo che sarei rimasto a casa ad aspettare Crowley… qualsiasi cosa abbia visto non mi comprendeva. Se quel disegno può cambiare io sono la variabile che può farlo succedere.

Ferid si sentì un po’ più coraggioso a questo pensiero e fu come se avesse strappato un altro dei pesanti tendoni di velluto nero alle finestre della sua vecchia casa; con nuova risolutezza e concentrazione si avventurò su per le scale verso il livello superiore, dove gli spettatori stavano ancora confluendo per prendere posto e si mise a guardare lungo le file di poltroncine sperando che a un certo punto avrebbe sentito il suo sesto senso pizzicare come succedeva a Crowley.

Dal palco il presentatore dell’arena annunciò che il concerto sarebbe iniziato a minuti e invitò i ritardatari a prendere posto rapidamente e subito dopo qualcuno urtò Ferid con abbastanza forza da farlo barcollare per riprendere l’equilibrio.

«Ah, scusami! Oh…»

Ferid incrociò lo sguardo con una ragazzina di forse quattordici anni o meno, che portava con sé una manciata di glowstick, che inspiegabilmente arrossì tutta stringendoseli contro il petto.

«Non ti preoccupare, non mi sono fatto niente… tutto a posto? Ti è caduto qualcosa? No? Splendido, goditi il concerto~»

Prima che riuscisse a superarla per proseguire la ricerca lei gli afferrò il braccio e lo costrinse a fermarsi.

«Senti… mi spiace per prima!» gli disse lei accoratamente. «Ti ho risposto male e sono scappata via, ma credevo che… beh… che mi volessi portar via o…»

Ferid continuò a guardare il viso rotondo della ragazzina con occhi vacui, come se le parole di lei non arrivassero al suo cervello, e rimase inebetito lì provocandole ancora più disagio.

«Non avevi la maglietta dello staff, prima, pensavo che fossi un… pervertito, a chiedermi se volevo venire con te nel backstage!»

Che cosa… ma che diavolo… aspetta, questa ragazza sta dicendo che mi ha già incontrato e che le ho chiesto di andare nel backstage? Ma non ho parlato con…

Le luci si spensero e per contro la consapevolezza di Ferid si accese come un faro. L’ignoto uomo di nome Antonio Echevierra aveva rilasciato a Crowley una dichiarazione in cui descriveva qualche fattezza del Vampiro, e da esse si evinceva qualche dettaglio in comune tra loro, ma questo era su tutt’altro piano.

C’è un uomo qui che mi assomiglia. Mi assomiglia talmente tanto che una ragazzina non ha alcun dubbio di aver incontrato me, e con le luci ancora accese!

Fu difficile non scrollare la ragazzina per la fretta di interrogarla e ancora di più fu sorridere come nulla gli stesse esplodendo nei pensieri.

«Hai fatto bene, tesoro! Sai, abbiamo avuto istruzioni di chiederlo in giro a qualcuno, per poter ammonire chi non fosse stato prudente.» le spiegò di pura fantasia lui. «Ma non sono sicuro di avertelo chiesto io, sei sicura?»

«Sì, ricordo gli orecchini rossi, perché mi sono sembrati… insoliti…»

«Ma c’è un altro nello staff che li ha, ricordi proprio la mia faccia?»

«Certo che sì, ricordo il tuo viso, perché è… p-per…» la ragazzina arrossì così tanto che lo si notò anche nella penombra. «P-perché è bello…»

«E i capelli? Hai visto i capelli?»

«Beh… ecco… più o meno… portavi il berretto anche prima, ma avevi i capelli un po’ fuori lo stesso. Sono sicura che eri tu!» sbottò lei, quasi offesa che lui la prendesse per una visionaria. «Eri nel corridoio di sotto, quello con l’uscita di sicurezza chiusa con la grata, e mi ero persa mentre cercavo la toilette!»

«Ooh, sì, certo, ora mi ricordo~» mentì Ferid spudoratamente. «Ma ora dovresti portare quelle ai tuoi amici e sederti a goderti lo spettacolo, tesoro… e per tua sicurezza futura: anche se hanno una maglietta dello staff, non seguire degli sconosciuti in posti bui.»

La ragazzina sembrò interdetta da quel consiglio, ma Ferid aveva appena intravisto una persona venire dalla loro parte con una stazza dalla familiarità allarmante: schizzò via il più in fretta che poté senza dare l’impressione di scappare e non si voltò per scoprire se quello che aveva visto era veramente Crowley che faceva un controllo dentro l’arena.

Non posso credere che sia vero! Il Vampiro non solo sa tutto di me ma è anche uguale a me! Ma com’è possibile?! Non si può certo dire che io sia una bellezza tipica, per la miseria, come può essere così rassomigliante… per caso? Non è un caso, non può esserlo!

Arrivò in fondo alla scalinata e sparì dentro la prima porta riservata al personale autorizzato, così preso dai suoi pensieri da non preoccuparsi nemmeno di che cosa avrebbe potuto dire se un poliziotto o un altro membro del personale gli avesse chiesto cosa faceva o dove andava. Mentre da un lato la notizia era sconvolgente, dall’altro gli sembrava che delle correnti profonde dentro di lui andassero calmandosi.

Ma Bobby non mi assomigliava… era molto più virile di me già da ragazzo, aveva un naso diverso, i capelli biondo cenere, occhi un po’ all’ingiù che gli davano quell’aria dolce che mi piaceva di lui… non era nemmeno così pallido, anzi, aveva una carnagione del colore del caffè al latte… quindi… non è davvero lui? Non è Bobby… ah… Dio, grazie…

Ferid si fermò nello stretto corridoio con un senso di stupore e vago sconcerto, ma non seppe dire se era per l’insolita ma sentita espressione o per l’innegabile, immenso sollievo che provava. Quando riprese a camminare aveva un passo diverso, dominato dalla rabbia che bruciava verso se stesso: non poteva credere che Bobby, dopo tanto tempo e un tradimento tanto viscido, significasse ancora abbastanza da sentirsi felici che non fosse l’uomo che l’aveva nel mirino. Soprattutto dato che questa eventualità avrebbe significato lasciare la polizia di nuovo senza piste se non quella che avrebbe portato lui all’iniezione letale.

Sei un imbecille, Ferid. Lo eri allora e lo sei ancora adesso. Complimenti per lo sviluppo del personaggio. Un libro con te protagonista potrebbe essere solo una parodia, quindi se proprio tu avessi a cuore un certo poliziotto leveresti le tende da casa sua prima che…

Forse se le ultime parole di quel pensiero avessero avuto il tempo di sedimentare il loro veleno nella sua anima Ferid avrebbe girato i tacchi, sarebbe tornato mestamente all’appartamento e avrebbe atteso l’esito della serata prima di chiedere al dipartimento di scegliergli un alloggio sicuro, qualora non fosse stato possibile per lui tornare in Ashland Street.

Ma non accadde. La voce agitata di una ragazzina interruppe quella spirale distruttiva e lo portò a trattenere il respiro.

«P-perché siamo qui?»

«Si passa di qui per il palcoscenico.» disse una voce di uomo dall’accento britannico appena accennato. «Non vuoi vedere i Double Tune quando ci sarà il primo intervallo?»

«N-no, voglio tornare al mio posto…»

Si udì un tonfo lieve, un singulto della ragazzina, e la voce dell’uomo cambiò da calma e ferma a una bassa, più roca ed eccitata.

«Quanto ti batte il cuore… il tuo cuore… è perfetto!»

La diga psicologica che la mente di Ferid aveva costruito andò in pezzi e venne sommerso all’istante da tutto quello che aveva letto nei fascicoli della squadra omicidi, dai più crudi dettagli delle autopsie dei bambini e dalle fotografie dei corpi, allineate sotto i loro ritratti, dalla mano impietosa di un investigatore italiano che allora dubitava fortemente di lui e cercava di suscitargli una reazione…

Fece un passo indietro, ma si bloccò sentendo un lamento soffocato della ragazzina. Trovare un poliziotto poteva richiedere anche alcuni minuti, e se nel frattempo lui fosse scomparso con la bambina, com’era riuscito a scomparire in un attimo quando aveva preso Samara?

Deglutì la paura, l’incertezza e tutti i pensieri che saettavano nella sua testa e avanzò nel corridoio, più veloce che poté senza fare un rumore che potesse sovrastare la musica e il gran coro di spettatori che cantavano insieme ai loro idoli, ignari di ciò che stava succedendo a pochi metri da loro.

Dietro l’angolo la visuale gli si aprì e vide un uomo alto, con il berretto e gli abiti blu scuro, addossato contro una ragazzina afroamericana della quale riusciva a vedere soltanto una vaporosa capigliatura scura, uno smalto arancione fluo sulle unghie e una serie di braccialetti di concerti al polso. Vide l’uomo prendere una curiosa scatola schiacciata, in plastica trasparente, che sembrava contenere un panno, un fazzoletto o un qualche pezzo di stoffa del quale Ferid sospettò l’impiego solo in virtù dei tanti polizieschi che aveva letto.

Ah, non ci pensare proprio!

Per quanto Ferid avesse un fisico longilineo non si poteva dire fosse atletico, e si pentì della propria prigrizia in tale ambito ancora una volta dopo averlo già fatto nel bosco. Nonostante questo pensiero fisso nel cervello spiccò una corsa e si aggrappò all’uomo che era sicuro fosse il Vampiro stringendogli il braccio con forza sulla gola: la sua mossa sorprese l’aggressore e la ragazzina allo stesso modo.

«Che ca–»

La ragazzina scivolò lungo il muro e si rannicchiò per terra, singhiozzando e tremando, mentre l’uomo afferrò il braccio di Ferid e indietreggiò con decisione schiacciandolo contro la parete opposta; lui resse il primo urto a stento, mentre al secondo cedette involontariamente la presa e l’aggressore si liberò voltandosi per fronteggiarlo.

Fu uno shock vederlo in volto e Ferid capì che senza dubbio quello doveva essere il Vampiro di West End. Il suo viso era pallido, con le sopracciglia sottili, occhi celesti e delle ciocche di capelli argentati sfuggivano da sotto il berretto; portava degli orecchini pendenti rossi simili a quelli che Krul gli aveva dato e al dito medio della mano che si portò alla gola aveva un anello con la pietra rossa.

Com’è… possibile? È come guardarsi allo specchio! È identico a me, in tutto!

Persino lo stupore, per un attimo, fu lo stesso sui volti pressoché identici, poi quello del Vampiro si accartocciò in modo demoniaco, trasfigurato dalla rabbia nonostante il sorriso che tese.

«Guarda guarda… avevo ragione, non eri morto, ti eri solo nascosto… come gli scarafaggi.»

Ferid aprì bocca per replicare, confuso da quel commento sprezzante e inequivocabile, ma non riuscì a parlare a causa del poderoso pugno che si abbatté dritto sul lato sinistro della sua faccia e lo fece cadere per terra dopo un patetico e inutile barcollare.

Cazzo, che male!

Ferid emise un gemito suo malgrado e si toccò la bocca perché sentiva un gusto sulla lingua che, a dispetto della sua maschera, non gli piaceva affatto e scoprì che il labbro sanguinava. Anche se aveva subito una certa serie di cattiverie e atti di bullismo nella vita non aveva mai preso pugni e calci. Non era un bravo incassatore di colpi, dato che l’ultima volta che ne aveva preso uno che non fosse la stilettata di Krul aveva nove anni e sua madre gli aveva lanciato contro un tomo di letteratura greca.

Il Vampiro gli fu sopra prima che potesse anche solo riuscire a mettersi carponi e di una cosa fu sicuro: pesava più di lui e la mano che gli serrò sulla gola somigliava di più a quella di Crowley per la forza che aveva nelle dita. Boccheggiò a corto di fiato, ma non stringeva tanto da toglierglielo del tutto.

Il Vampiro emise un verso stizzito e voltò lo sguardo indietro verso la scatoletta con il fazzoletto che gli era caduta a terra quando era stato aggredito alle spalle: era troppo distante, avrebbe dovuto mollare la presa se voleva recuperarla.

«Chi… sei…?» esalò Ferid, per distogliere la sua attenzione da quella e dalla bambina nella speranza scappasse e chiamasse la sicurezza.

«Che strana domanda, Ferid. Pensavo fosse ovvio che io sono te

«C-cosa?»

Il Vampiro tornò a guardarlo e sorrise in modo inquietante, con una perversa tenerezza.

«Perché pensi che quella sciocchina lì non stia scappando, mh?» fece lui, accennando alla ragazzina che li fissava atterrita rannicchiata nell’angolo. «Sta cercando di capire… di capire perché l’uomo che l’ha aggredita si sia colpito da solo, perché si stia agitando come se lottasse con qualcuno, dicendo cose senza senso… perché io sono te, tu sei me, Ferid. Siamo la stessa cosa… non era ovvio?»

Cosa sta dicendo questo pazzo? Una cosa sola… non è vero, io ricordo come sono venuto qui, non ho mai avuto momenti di buio, e…

«Come lo spieghi, se non così? Avanti, sei un uomo intelligente… spiegalo. Spiega tutti quegli indizi che portano a te… spiega i glifi… il fatto che fossi sempre senza alibi, che tu sapessi dove andare per trovare Samara. Spiega come un altro uomo possa essersi impossessato dei tuoi sciocchi diari e si sia preso la briga di leggere le idiozie della tua inutile vita.»

La stretta sul suo collo si serrò mentre la sua espressione si faceva folle tanto da far pensare a Ferid che lo avrebbe ucciso lì.

Ma può farlo? E se fosse vero… se lui… fossi stato io fin dall’inizio, se fossimo solo due personalità nello stesso corpo? Se fossi… impazzito, com’è successo a mia madre, e lui fosse… davvero me? Come nella storia di Fight Club…

All’improvviso, dopo aver tanto parlato, il Vampiro tacque e caricato il colpo calò il pugno sulla faccia che somigliava alla sua una, due, tre volte con ferocia che non trovava espressione sul suo volto, che non era più intriso di rabbia o di scherno, ma quasi annoiato.

Ferid tentò di proteggersi ma più cercava di coprirsi la testa più gli stringeva il collo; sentiva il liquido dal gusto ferroso scivolargli in gola, non vedeva quasi più niente per il sangue e per le lacrime negli occhi e a stento riusciva a pensare qualcosa lucidamente: il suo unico pensiero in quel momento non era per se stesso, non era per la bambina afroamericana, Neva o qualcuna delle altre vittime e nemmeno per l’uomo al quale si era così affezionato.

Non deve arrivare da lei… questo mostro non deve arrivare a Krul per nessuna ragione!

Quasi alla cieca gettò le mani davanti a sé, graffiò il volto così somigliante al suo senza esitazione e fece gridare il Vampiro di dolore; lui lo colpì ancora più pesantemente e la bocca gli si riempì ancora di più di sangue. Con solo un barlume di coscienza ancora acceso riabbassò le braccia e tossì girandosi appena sul fianco: sputò una gran quantità di sangue, abbastanza da rendere la scena raccapricciante a sufficienza da strappare un gridolino acuto della ragazzina.

«Non mi sono dimenticato di te, piccolina.»

Il Vampiro si alzò liberando Ferid dal suo peso, ma era troppo stordito e dolorante per rialzarsi. Non riusciva a capire nemmeno se il suo naso fosse rotto e se i suoi denti fossero ancora tutti al loro posto; sapeva solo che non si era mai sentito così male se non quando era stato avvelenato, e anche allora era un disagio diverso dal pulsante, intenso dolore che sentiva dal collo in su.

Non si rese conto dei passi che si avvicinavano e quando riuscì a snebbiare la vista dopo essersi pulito gli occhi con la maglietta non riuscì a vedere il Vampiro da nessuna parte; la ragazzina singhiozzava e lanciava urletti più simili al pianto disperato di un cagnolino tenendosi la testa dai vaporosi riccioli afro tra le ginocchia, ma prima che riuscisse a rivolgerle la parola la porta più vicina venne scrollata con violenza. Entrambi la guardarono con un sussulto, poi quella venne sfondata con una spallata da un uomo che proruppe nel corridoio squallido e, passato lo sguardo sui due, prese la pistola dalla fondina e la puntò contro Ferid.

«Fermo dove sei!»

Che diamine… io sono quello con la faccia piena di sangue, a rigor di logica non dovrebbe pensare che sono io la vittima?

Troppo dolorante per la sua fastidiosa abitudine di puntualizzare su tutto Ferid si limitò a sospirare e ad appoggiarsi contro la parete sollevando le mani sopra la testa. Non aveva mai creduto che essere presi a pugni fosse così doloroso e si ritrovò suo malgrado a stimare i pugili e la loro resistenza, almeno finché non riaprì gli occhi che bruciavano ancora e guardò meglio il poliziotto: a quel punto la tensione tornò alle stelle e si sentì mancare di nuovo il fiato.

Sean Lesky, fissandolo trucemente e senza abbassare l’arma, si avvicinò nel corridoio e indirizzò la bambina:

«Ehi… stai bene? Sei ferita?»

La ragazzina non fece che singhiozzare più forte e balbettare qualcosa di incomprensibile nel suo pianto disperato. Lesky prese la radio dalla cintola.

«Lesky a Comando Operazione. Ho preso il bastardo, stava aggredendo una ragazzina. Lei sembra star bene. Mandate rinforzi nel settore undici, il corridoio di servizio con la porta d’emergenza chiusa del vecchio percorso.»

Alla radio risposero alcune voci che annunciarono il soccorso imminente, e una che gli sembrava aver già sentito seppure distorta chiese spiegazioni in merito al sospettato.

«Ce l’ho sotto tiro, capitano.»

Ah… sì, è la voce di Joey Alford… chissà se dopo questo sarebbe ancora dell’idea di volermi offrire da bere… ora come ora vorrei proprio qualche Gimlet… ma non so quanto possa farmi bene… Dio, che male fa, mi sembra che la testa sia scoppiata ma io sia ancora capace di sentire il dolore…

«Non abbassare le mani!»

Ferid risollevò le mani di poco, ma a Lesky bastò. I suoi occhi lo stavano fissando con ferocia tale da pensare che ambisse a perforarlo, ma anche con un trionfo perverso nel sorriso.

«Questa volta dovrà ammettere che avevo ragione su di te.»

Fantastico… ci mancava che tra tutti mi beccasse proprio l’ex di Crowley che cerca ancora di riprenderselo, una personcina bella imparziale che ha davvero voglia di stare a sentire la mia versione…

Quest’ultimo punto lo preoccupava molto più della rivalità che potessero avere per Crowley, e ripensò alle parole del Vampiro, chiedendosi in una nube di confusione se fosse davvero pazzo, se si fosse ridotto da solo in quel modo per un conflitto tra le sue due personalità, se si fosse avvelenato da solo con l’aconito dopo aver commesso quelle tremende atrocità senza conservarne alcuna memoria…

Guardò la ragazzina, che da uno spiraglio tra ginocchio e braccio puntava un occhio scuro e terrorizzato su di lui, e si chiese che cosa avrebbe detto lei: aveva visto due uomini rassomiglianti lottare o un solo uomo che aveva cominciato ad agitarsi e colpirsi come un matto?

«Ehi… come ti chiami?» le chiese, con la voce soffocata e nasale come avesse un tremendo raffreddore.

«Non le parlare!»

«È spaventata a morte… dille tu qualcosa, ma calmala! Ti dirà lei che cosa è successo!»

«Speri di distrarmi per svignartela? Non ci contare, Bathory.»

Ottuso come un vecchio ebete rimbambito. Non mi sorprende che Crowley ti abbia scaricato.

Ferid rivolse la sua attenzione alla ragazzina, dopo aver poco elegantemente sputato altro sangue per tentare di impastare di meno mentre parlava.

«Come ti chiami, tesoro?»

La ragazzina non rispose, ma riuscì almeno a risollevare la testa per guardarlo in viso. Lei era una splendida bambina, con la carnagione scura e calda, grandi occhi color castagna, la bocca dalle labbra carnose e sopracciglia dalla forma d’ala di gabbiano; nonostante il tocco di rosso sulle guance e il velo di lucidalabbra si capiva che non poteva avere più di tredici anni.

«Io… io mi chiamo Ferid.» si presentò, nel tentativo di affievolire la sua paura. «E quello lì si chiama Sean, anche se è un gran maleducato per essere un poliziotto… mi dici come ti chiami, tesoro?»

«Dacci un taglio, Bathory.» l’ammonì Lesky.

«Sparami se ti infastidisce tanto.» ribatté lui, reso nervoso dalla spinosa situazione e dal dolore. «Ma se vuoi farlo chiedile di andarsene, prima.»

Lesky si mordicchiò il labbro come se ci stesse pensando seriamente, ma non disse nulla. La ragazzina intanto sembrava essersi un po’ calmata.

«I-io… s-sono Ja… Jacaranda Parks…»

«Che nome meraviglioso…» commentò Ferid in assoluta sincerità. «Sembra un nome d’arte… come ti chiamano i tuoi amici? Jackie?»

«C-Cara… t-tutti mi chiamano c-così… anche… a scuola mi chiamano Cara Parks…»

Pur nella sua situazione Ferid pensò che fosse uno splendido nome d’arte per una scrittrice. Non poté interrogarla ulteriormente perché dei passi si avvicinarono rapidamente e la porta venne spalancata; vi apparve una figura a corto di fiato con gli occhi blu pieni di confusione e stupore che diede a Ferid un immediato senso di sollievo.

«Ma… cosa… ehi!» fece, inginocchiandosi accanto alla ragazzina. «No, non aver paura, sono un poliziotto… stai bene? Sei ferita?»

Cara guardò il distintivo che lui le mostrò e poi scosse la testa senza spiccicare un fonema. Crowley, dopo averla scrutata rapidamente alla ricerca di vistose ferite, si voltò.

«Sean, hai…»

«Te l’ho detto che l’avevo preso.» fece lui con quel sorriso di trionfo stampato in faccia.

«Fe… Ferid!»

Crowley incespicò nella fretta di precipitarsi da lui e coprì quei pochi metri spostandosi carponi, incurante del sangue che calpestò e dell’arma che Lesky puntava proprio lì dove si andò a piazzare; con mani ancora più delicate del solito andò a toccare il viso di Ferid e ne controllò le ferite con angoscia crescente dipinta sul volto.

«Ferid… mio Dio, ma che cosa fai tu qui? Che cosa diavolo t’è successo?»

«Crowley, se non hai intenzione di mettergli un paio di manette devo chiederti di allontanarti da lui.» l’interruppe Lesky, che non abbassò l’arma di un centimetro nonostante ora la canna fosse puntata alla schiena dell’uomo che diceva di amare ancora.

Questi si voltò quel tanto che bastava per fulminarlo con uno sguardo che avrebbe messo paura a un poliziotto ben più temerario di Sean Lesky.

«Non puntargli quella cosa addosso, Sean!»

«Crowley, devo ricordarti che sono un agente degli affari interni… e che ti sto vedendo interferire in un arresto legittimo?»

«Legittimo su quali stramaledette basi?»

«Ha aggredito questa ragazzina!»

«Ecco perché sei un poliziotto e un partner tanto scadente!» fece Crowley puntandogli il dito contro. «Tu non guardi e non ascolti! Secondo te, genio, come avrebbe fatto una ragazzina così gracile a ridurre Ferid in questo stato, e senza neanche sporcarsi di sangue?!»

Lesky accusò il colpo quasi come fosse stato fisicamente urtato da lui e abbassò l’arma di una buona spanna prima di voltarsi di scatto a guardare Cara con le sopracciglia aggrottate.

«Dio Santo, Sean, se un piccione avesse il tuo cervello volerebbe al contrario, parola mia.»

E senza degnarlo di un altro sguardo tornò a controllare Ferid, che aveva un taglio sulla fronte che buttava fuori la gran parte del sangue. Crowley prese una salvietta di carta che aveva in tasca e la usò per tamponare delicatamente il sangue abbastanza da poter controllare la ferita. Ferid, ora che Crowley era con lui, sentiva l’adrenalina sotto i piedi ed era sveglio a malapena.

«Ferid… questo sembra un taglio… come te lo sei fatto? Cos’è successo?»

«Eh… il ruolo da eroe non mi si addice tanto… non so darle e non so neanche incassarle, sembra…»

Fissò gli occhi sul sangue che macchiava la moquette consunta e scolorita del vecchio corridoio cercando di concentrarsi sulla domanda: come si era fatto un taglio? Alzò la mano per sfiorarsi la tempia che batteva ferocemente, ma solo guardando la mano ebbe una plausibile risposta.

«Credo sia stato l’anello… mi ha dato un pugno, forse è stato l’anello a tagliarmi…»

«Chi ti ha dato un pugno?»

A Ferid, abbandonato dall’adrenalina e intontito dalla faccia che sentiva sempre più gonfia e dolorante, stava sfuggendo un nodo importante: Crowley non sapeva nulla di quello che era appena successo. Tornò a essere un poco più lucido.

«Lui era qui, Crowley! Era il Vampiro di West End! L’ho sentito, ha detto a Cara che il suo cuore era perfetto! Pensavo sarebbe sparito portandola via se l’avessi perso di vista per chiamare qualcuno e gli sono arrivato alle spalle…»

Seppur precipitoso e un po’ confuso, Ferid diede una prima versione della sua colluttazione con il Vampiro. Mentre raccontava arrivò un membro della sicurezza con la maglia blu come quella di Crowley, e a ruota arrivarono due agenti di pattuglia. Caso fortunato volle che uno dei due fosse un conoscente della piccola Parks, un cugino del padre, ed ebbe un immediato effetto calmante sulla povera bambina.

Crowley attese che De Stasio arrivasse e prendesse in mano la situazione, ordinando per radio un controllo a tappeto dell’area mentre l’irlandese rimetteva in piedi Ferid per portarlo al punto di soccorso medico che l’Arena approntava per ogni grande evento.

«Aspetta, Crowley.» lo fermò l’italiano, con un cenno, e i suoi occhi verdi fissarono Ferid. «Dacci una descrizione del nostro uomo, Ferid, tutto quello che ricordi.»

Ferid avrebbe preferito non gli venisse ancora posta quella domanda, perché avrebbe voluto avere il tempo di riordinare le idee e rifletterci lucidamente. Esitò a rispondere e Crowley lo guardò con una certa apprensione.

«È… un uomo. Della mia altezza, circa. Portava un berretto. Ha capelli lunghi e argentati, gli occhi celesti, la pelle chiara… ha un anello con una pietra rossa al dito medio della mano destra e degli orecchini rossi.»

Non si aspettava nulla di diverso dagli sguardi perplessi che ricevette dai tre investigatori.

«Lo so che è una follia, Crowley.» disse accoratamente, guardando gli occhi che avevano più possibilità di ricambiarlo con fiducia. «Lo so, e sono sconvolto anch’io, ma quell’uomo è uguale a me!»

«Ah, certo. Un tuo sosia è il Vampiro di West End…» fece Lesky senza neanche provare a mascherare lo scherno. «Non sai proprio quando smettere, vero, Bathory? Basta così. Ti abbiamo preso, ormai, e un trucchetto del genere non ti salverà dal braccio della morte.»

Un giudice batteva il martelletto sulla sentenza, la porta di una cella veniva chiusa alle sue spalle, il sole saliva su un giorno uguale a molti altri prima, poliziotti senza un volto lo portavano in una stanza con il vetro e un medico gli infilava un ago nel braccio: una rapida sequenza di orribili diapositive immaginate seguì le parole di Lesky e suscitò la sua paura in quel momento di estrema debolezza fisica e confusione mentale. Strinse le braccia di Crowley con il massimo dell’energia che gli era rimasta.

«Ti prego, credimi! Chiedilo a Cara, e… c’è un’altra ragazza, ho parlato con una ragazza su al primo livello che diceva di avermi parlato, anche lei l’ha visto!»

«Ferid… non so se ci sia un uomo uguale a te.» esordì Crowley, facendogli involontariamente saltare un battito. «Ma io so che tu non sei il Vampiro di West End. Ne sono sicuro, e cercherò l’altra risposta, quella che lui vuole nascondere usandoti come parafulmine.»

Crowley lo strinse in un delicato abbraccio, più simile a un conforto dato a un amico che a una tenerezza da amanti. De Stasio attese un attimo, poi riportò la radio alla bocca e fornì l’esatta descrizione che gli era stata resa.

«Badate che tra poco un soggetto corrispondente alla descrizione uscirà dall’Arena e andrà al punto di soccorso medico, scortato dal detective O’Brian Eusford, e non è, ripeto, non è implicato. Riferite qualsiasi avvistamento immediatamente.»

Crowley sorrise a De Stasio con una gratitudine così palese che non avrebbe potuto essere più chiara neanche scrivendogliela sulla fronte a chiare lettere; per contro Lesky era rabbuiato e contrariato, mise via l’arma con stizza e se ne andò senza parlare. L’agente Parks, che era cugino del padre di Jacaranda, fece un passo avanti.

«Con il suo permesso, accompagno Cara a farsi controllare da un medico…»

«Certamente.» disse l’italiano. «Appena si sentirà meglio però abbiamo bisogno che faccia una deposizione.»

«L’accompagnerò io al vostro distretto per prima cosa domattina.»

De Stasio annuì con serietà, posò gli occhi verdi sulla ragazzina e produsse un sorriso gentile.

«Non sembri ferita… forse potresti riuscire a vedere la seconda parte del concerto. Ora chiamerò molti altri poliziotti, e l’agente Parks potrebbe restare con te per proteggerti mentre assisti.»

Cara annuì rigidamente ma non parlò. L’agente Parks garantì la sua massima disponibilità alle indagini fino all’arrivo dei rinforzi, poi prese la bambina per mano per condurla fuori. Lei però si trattenne e afferrò la manica di De Stasio.

«S-signore.» disse, con una voce ancora tremante. «Il signor Ferid è stato coraggioso… è vero che c’era qualcuno con me… era il suo gemello, ma era spaventoso! La sua voce era come un ringhio, ed è stato bruttissimo, ho avuto tanta paura che lo avesse ucciso quando l’ha colpito così forte! Però, signore, l’altro è vestito di blu, come la tua camicia.»

De Stasio sembrò sorpreso da quella dichiarazione e Ferid comprese che la sua logica gli aveva suggerito che mentisse riguardo al suo sosia, più o meno consapevolmente. Fu sollevato che Cara Parks avesse deciso di parlare subito, e che dicesse di aver visto due uomini: i dubbi sulla propria sanità mentale vennero fugati e si sentì molto più leggero.

Vorrei abbracciarla, ma non è proprio il caso… a parte che la riempirei di sangue…

Si guardò la maglietta dello staff intrisa di sangue che gli colava dalla faccia, che stava iniziando a sgocciolare sui pantaloni grigio scuro; l’orologio di Claude era di nuovo schizzato, ma la mano destra con la quale si era tastato la faccia era completamente rossa.

È orrendo… il sangue sulle mani… è così appiccicoso e…

Strofinò le dita, nonostante non facesse altro che aumentare il disagio di essere tanto sporco, e si accorse di avere qualcosa di bianco e oleoso sulle dita della mano sinistra, che non aveva usato per toccarsi le ferite sulla faccia. Si domandò che cosa fosse, ma non arrivò a nulla con quel cervello che si rifiutava di pensare in modo coerente.

«Grazie di averci detto subito quello che hai visto, Cara.» disse De Stasio, dandole un buffetto dolce sulla spalla. «Ora vai con tuo cugino, e stanotte riposa tranquilla. Quell’uomo non ti farà del male.»

L’agente Parks scortò fuori la ragazzina che era riuscita a produrre un incerto sorriso lanciando un’occhiata ai miseri cocci del suo salvatore, che dal canto suo non si sentiva affatto tale: se l’arrivo di Lesky non l’avesse messo in fuga probabilmente il Vampiro l’avrebbe addormentato insieme a Cara, li avrebbe portati via e forse gli avrebbe riservato lo stesso macabro trattamento.

Un brivido gli risalì la schiena, così violento da farlo tremare vistosamente, al solo immaginare Crowley che veniva informato del ritrovamento del suo corpo in simili condizioni, e sentì un senso di nausea al pensiero che avrebbe potuto accusare tanto il trauma da avere ripercussioni sul cuore non ancora del tutto guarito.

«Vieni.» gli disse piano lui, vicino all’orecchio. «Devi farti vedere da un dottore…»

Lo condusse con presa salda fuori dal deprimente corridoio e De Stasio non disse nulla al loro indirizzo; chiese invece all’altro agente di pattuglia di chiedere un’unità della scientifica per isolare quell’area e fare i rilievi.

Fu una fortuna che il concerto fosse in corso, perché il gruppo calamitava l’attenzione e il buio li aiutò a passare inosservati nonostante Ferid avesse la maglietta dello staff inzuppata di sangue. Crowley tacque nonostante l’espressione grave fino a che non furono fuori alle porte dell’atrio. L’aria fredda al di fuori diede sollievo a Ferid, che si sentiva la faccia frantumata. Per un attimo tornò quel terrore e non riuscì a moderarlo in alcun modo.

«Crowley, com’è la mia faccia?!»

«Un casino.»

«Ho qualcosa di rotto? Il naso è rotto? Sono sfigurato? Mi è caduto qualche dente? Parla!»

«Non lo so, sei gonfio come se avessi ficcato la testa dentro un nido di vespe!»

Crowley sospirò per calmare il suo scatto d’ira, aggrottò le sopracciglia e serrò gli occhi qualche secondo.

«Ah, porca miseria, Ferid, sono veramente incazzato con te… per quale maledetto motivo sei venuto fin qui? Tante stronzate per farmi promettere di fare attenzione e tu vieni qui di nascosto, ti infili con una maglia dello staff e ti fai ridurre la faccia tale e quale a mezzo chilo di carne tritata!»

Già, perché?

Improvvisamente la previsione di Krul che gli era sembrata una ragione così valida per ideare e attuare un piano così avventato gli parve una completa idiozia e si vergognò di rivelarglielo.

«Ero solo… preoccupato.»

«Se non ti avesse picchiato già lui l’avrei fatto io… ho giurato di fare il possibile per starti vicino, ma tu devi restare vivo, Ferid, che cazzo!»

Raramente si era sentito più mortificato di così, e tra la vergogna e il dolore pulsante che prendeva punti diversi sulla sua faccia trovò impossibile spiccicare parola. Erano quasi arrivati alla fila di mezzi per il trasporto medico quando guardò Crowley di nuovo e lo vide sorridere, anche se in modo poco naturale.

«Lo stai prendendo molto seriamente, eh, Ferid?»

«Che… che cosa?»

«Il tuo nomen omen… hai salvato un’altra bambina. Se tutte faranno come tua madre, la prossima generazione americana vedrà un boom di Ferid che nemmeno le nazioni musulmane l’hanno visto mai.»

Il pensiero fece ridere Ferid anche se stancamente, e un medico si avvicinò a loro avendo notato l’abbondante sanguinamento sulla faccia e la t-shirt. Crowley si limitò a dare alla donna una breve versione di un’aggressione senza ulteriori dettagli e Ferid venne fatto sedere sulla barella per un rapido controllo delle contusioni.

Crowley assicurò che lui stava bene e si sedette sul bordo del cassone dell’ambulanza, a meno di un metro da lui, e dopo aver lanciato un lungo sguardo al cielo stellato continuò dal discorso precedente come se non ci fosse stata alcuna interruzione.

«Ma mi piacerebbe se per una volta salvassi una bambina senza che io debba poi portarti in ospedale.»

Ferid si limitò a sospirare con aria stanca e chiuse gli occhi mentre una garza imbevuta gli veniva tamponata sulla ferita.

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Capitolo 25
*** Come l'Eden ***


Quando il mercoledì seguente il cellulare di Crowley squillò Ferid si riscosse dai suoi pensieri turbolenti solo per lanciargli un’occhiata ansiosa. Lui, dopo aver guardato il display senza cambiare espressione, girò il telefono a schermo in sotto con un’imprecazione a mezza voce. Ferid tornò a svuotare la credenza della cucina per continuare le sue pulizie di casa.

Negli ultimi giorni l’atmosfera del numero ventiquattro era tesa come mai prima di allora: i due coinquilini faticavano a parlarsi in tono naturale, trovandosi a volte inspiegabilmente nervosi, a volte artificiosamente allegri; dopo ogni tentativo di conversazione il disagio non faceva che aumentare tanto che ognuno di loro decise da sé di parlare solo se necessario.

Ferid finse di andare a frugare in un cassetto alla ricerca di un altro strofinaccio e mentre si accovacciava lanciò un’altra occhiata a Crowley. Lui non se ne accorse, preso com’era a scrivere i suoi bigliettini: negli ultimi due giorni infatti aveva cominciato a scrivere su piccoli biglietti tutto quello che gli sembrasse rilevante sul Vampiro di West End. Tutti i luoghi, le date degli omicidi e del giorno in cui i bambini avevano incontrato Ferid, nomi di persone collegate che il suo consulente non sapeva chi fossero e svariate altre informazioni, e l’intera parete del soggiorno accanto alla televisione ne era ricoperta. Fu a quella che Ferid lanciò uno sguardo furtivo.

È proprio come nei film, quando i poliziotti appiccicano le cartine, i nomi e le foto sulla parete e fanno i collegamenti con i fili… ma di solito, per il detective non è mai un buon segno.

Ferid si appoggiò al bordo del mobile e attorcigliò lo strofinaccio intorno alle mani senza accorgersene, ma invece s’accorse eccome di aver cercato di mordicchiarsi il labbro nel suo nervosismo: sussultò per il dolore e si sfiorò il taglio che era ancora una brutta, vistosa macchia scura che talvolta gli dava l’impressione di fargli biascicare certe parole.

Era incerto se parlare o no, perché Crowley sembrava più concentrato e più grave che mai, e alla fine si alzò dal tavolo per aggiungere altri fogli al suo muro e Ferid perse il poco coraggio che aveva, quindi restò a guardarlo con l’orrenda sensazione che tutto fosse colpa sua. Per non lasciarsi sopraffare da quel pensiero spostò il frullatore e lo portò fino al tavolino per non mettere disordine nel caos personale che Crowley aveva creato sul tavolo della cucina.

Avevo ragione a volerlo lasciar perdere… lo sto rovinando. È tutta colpa mia… se non fossi andato a trovarlo in ospedale con quegli stupidi fiori, se avesse lasciato che le cose facessero il loro corso, oggi lui…

Ferid alzò gli occhi sul suo profilo dopo aver appoggiato il frullatore, ma lui continuava a non guardarlo mai e questo lo feriva moltissimo, perché aveva imparato in tutto quel tempo insieme che spesso i suoi occhi blu parlavano molto più della sua bella bocca.

«Crowley.»

Il suono della propria voce nel silenzio di quella casa stupì Ferid tanto quanto Crowley, che comunque non si voltò e rimase a fissare la fila di glifi di Grimbald.

«Cosa c’è?»

Guardami!

Avrebbe voluto davvero riuscire a dirlo con tutta la forza possibile, ma si ritrovò a tacere, incapace di parlare anche solo per dire una cosa qualsiasi. In un altro momento Crowley l’avrebbe incalzato, l’avrebbe spinto a fidarsi di lui e a dirgli che cosa sentiva… ma in quei giorni sembrava che non gli importasse affatto e riprese a incollare i suoi fogli senza aggiungere nulla, come si fosse accorto che la voce che aveva sentito chiamare era solo la radio o la televisione.

Ferid rimase sconvolto da quell’atteggiamento gelido; si rialzò, sparì nel bagno il più in fretta che poté e sbattendo la porta più forte di quanto avrebbe voluto, e con un sospiro tremante si lasciò cadere sul bordo della vasca.

Perché…? Cos’è successo, non mi aveva mai trattato così, è… mio Dio, è esattamente come mio padre…

Guardò la propria immagine riflessa nello specchio sopra il lavabo e come ogni volta in quei giorni ne rimase disgustato. Il suo naso non era rotto e per sua grande fortuna non aveva subito danni ai denti né all’occhio, ma anche se ora il gonfiore era quasi del tutto riassorbito il lato sinistro del suo volto era una confusa tavolozza di tonalità di violaceo, nero e marrone dalla mascella fino alla fronte, e Ferid non riusciva a non pensare che fosse l’orribile effetto che aveva avuto quel pestaggio sui suoi lineamenti il motivo per il quale Crowley non lo guardava.

Vorrei poterlo dire a qualcuno… poter chiedere a qualcuno perché sta succedendo questo, perché lui è diventato così scostante… ma non posso…

Abbandonò la testa sulle mani puntellando i gomiti sulle ginocchia con un sospiro affranto, e il fatto che la sensazione fosse molto simile a quello che aveva sentito il cinque luglio dell’anno prima non fece che peggiorare il tutto.

Un vigoroso bussare alla porta per un momento gli diede l’illusione che Crowley stesse bussando al bagno per parlare con lui, ma poi capì che il rumore veniva dalla porta d’ingresso. In ogni caso, Crowley non aveva mai chiesto il permesso di entrare anche sapendo che lui era in bagno.

«Ehi, Crowley!» esclamò la voce di Yuu con una certa allegria. «Che stavi facendo? Wah, Mika, guarda! Che forte, è come nei film polizieschi! È sul Vampiro di West End, vero?»

«Non guardarlo, Yuu.» fece Crowley con un tono di voce seccato che poco si addiceva a lui. «Non sei autorizzato ad avere quelle informazioni.»

Seguì un lungo silenzio, poi la voce di Mika si levò con una risolutezza insolita.

«Dov’è Ferid? Ho voglia di una partita a scacchi e Yuu-chan gioca uno schifo.»

«Grazie, eh!»

«Non so.» fu l’unica risposta di Crowley.

«Come sarebbe, non sai? Dove vuoi perderlo in una casetta come questa?» fece Mika seccato, e si udirono i suoi passi fermarsi davanti alla porta del bagno. «Ferid, ci sei?»

Gli ci vollero una manciata di secondi per riprendersi dall’ennesima riprova che il bel rapporto che credeva stesse fiorendo con Crowley era appassito da un giorno all’altro, ma poi deglutì il suo dolore e si alzò.

«Sì, Mikaela… eccomi.»

Ferid aprì la porta e ancora una volta il suo pensiero tornò alla sua faccia rovinata, perché Mikaela lo guardò con gli occhi azzurri spalancati. Si sentì a disagio e istintivamente incrociò le braccia al petto, mentre il ragazzo biondo scoccava un’occhiata intensissima all’uomo con i capelli rossi, prima di scambiare un cenno d’intesa quasi impercettibile con il suo fidanzato.

«Vieni a giocare a scacchi, mi annoio a morte.»

«Grazie, ma… in realtà, non mi va. Mi spiace.»

«Beh, non importa se non ti va di giocare, vieni di là a fare due chiacchiere.» insistette lui, che con quegli occhi dava l’aria di un Husky pronto ad azzannare. «Metto su il tè, ne ho un nuovo tipo da provare. Ho fatto i Vatrushka, senza usare lattosio, li devi provare. Sono dolci tipici russi, Yuu e Crowley ne vanno matti.»

Ferid, ora che qualcuno l’aveva nominato, si sentì legittimato a guardare Crowley apertamente. Lui però non sembrava interessato a quello che stava succedendo ed era affaccendato sul suo tavolo con i suoi biglietti. Vedendolo così disinteressato la frustrazione salì alle stelle.

«D’accordo, vengo.»

«Ottimo. Yuu-chan, tu…»

«Io resto qui, voglio guardare Crowley che lavora!»

Ferid si insospettì quando sentì quello scambio di battute.

Ha tutta l’aria di una scena preparata… che cos’hanno in mente gli Hyakuya Boys?

Qualsiasi fosse il loro scopo la strategia era di certo dividi e conquista, perché mentre Yuu cominciava immediatamente ad assillare Crowley con domande sullo schema che stava componendo sulla parete Mikaela afferrò il polso di Ferid e lo trascinò fuori dall’appartamento senza neanche permettergli di infilare le scarpe. Chiuse la porta di casa sua dietro di loro non appena entrarono e chiuse il chiavistello, cosa che non aveva mai fatto prima.

«Cos’è successo?» fece allora, piantandogli gli occhi addosso. «Come ti sei fatto quelle ferite in faccia?»

La domanda lo colse di sorpresa. Non sapeva che Crowley non avesse raccontato nulla ai suoi vicini e si chiese cosa avesse detto loro: aveva sostenuto la bugia dello spettacolo che erano andati a vedere, come aveva scritto sul post-it prima di uscire? Aveva detto loro che avevano avuto un qualche incidente? Aveva accennato qualcosa, senza parlare dell’aggressione al suo coinquilino?

«Ah… Crowley non te l’ha detto?» replicò allora, cercando un indizio.

«Prima che tu mi propini fantomatiche storie sul cadere dal letto, scivolare nella doccia o sbattere in sportelli aperti sappi che non me le bevo.»

Non passò neanche per l’anticamera del cervello di Ferid che Mikaela potesse credere che Crowley avesse potuto colpirlo tanto violentemente e quindi indugiò nel dubbio di cosa raccontare e come; esitazione che infiammò Mikaela come una bombola di gas con un falò vicino.

«Per quale diavolo di motivo ti ha ridotto così, Ferid?»

La sua sola risposta fu uno sguardo vacuo, perché quella domanda era come una chiave nella toppa sbagliata: entrava ma non girava proprio.

«Avete discusso per qualcosa? Cos’è successo?»

«Ma che… chi?»

«Tu e Crowley.» fece lui con inquietante serietà. «A me lo puoi dire. Com’è successo?»

«No… no, no, no! Mikaela, sei fuori strada, davvero!»

«Lo conosco e so che è una brava persona, ma a volte… la frustrazione, la rabbia…»

«No, Mikaela, sono serio, okay? Non è stato Crowley, non lo farebbe…»

Ferid esitò non perché avesse dubbi, ma perché ripensò suo malgrado alla delicatezza con cui le sue mani lo avevano sempre toccato, sfiorato, accarezzato e stretto.

«Non lo farebbe mai.» concluse quasi sussurrando.

«Crowley è strano da qualche giorno, ed è glaciale con te, l’abbiamo visto benissimo poco fa.» insistette ancora Mikaela. «E tu sembri esser stato preso a cazzotti, dovremmo pensare che è un caso?»

«Non credo che sia un caso… ma non è stato lui. È successo sabato sera, mentre eravamo fuori. Un uomo mi ha aggredito, e come tu hai intuito con sagacia, mi ha preso a pugni.»

«Cosa? Sabato, quando siete andati allo spettacolo?»

Crowley non gli ha detto del concerto e dell’operazione… ha retto il mio gioco… ma perché?

Annuì in risposta.

«Ma cosa… e Crowley dov’era mentre tu venivi aggredito?»

«Non era con me, ci eravamo separati.»

«Separarsi da te, fuori casa, in un luogo pubblico?!»

Mikaela sembrava incapace di dare voce al suo sdegno; aveva un’espressione tale che Ferid credette davvero che se avesse avuto Crowley di fronte l’avrebbe quantomeno schiaffeggiato.

«Quell’uomo che diavolo ha nella testa? Preoccuparsi tanto di te quando sei qui e poi gironzolare senza motivo e lasciarti da solo quando chiunque potrebbe aggredirti…»

La coscienza di Ferid si dibatté nel senso di colpa come un gabbiano invischiato nella marea nera; sollevò le mani e arrestò il borbottio di Mikaela.

«No… non è stata colpa sua… davvero, Mikaela, se cerchi qualcuno da biasimare sono io. Sono uscito anche se lui non voleva che lo facessi, e ho fatto di tutto per perderlo e stare da solo per un po’. È colpa mia se è successo. Sono io che continuo a cacciarmi in brutte situazioni, e adesso…»

La voce non si arrestò al debole tentativo della sua mente di spegnerla.

«Adesso lui è arrabbiato con me, perché continuo a metterlo nei guai… fin dall’inizio non faccio che metterlo in imbarazzo con i suoi colleghi, costringerlo ad abbozzare i miei sbagli, a rinunciare e a sacrificare per venire incontro ai miei capricci e ai miei bisogni… fin dall’inizio non ho fatto altro che rovinargli la vita, e lui non se ne rende conto perché lo sto intossicando e si sta convincendo di amarmi!»

Arrivò alla fine di quello sfogo sentendosi il fiato corto come avesse fatto qualche rampa di scale di corsa. Non aveva potuto fare niente: quei pensieri si avvolgevano su loro stessi nella sua testa da giorni e al primo spiraglio erano volati fuori come pipistrelli impazziti; Mikaela tuttavia passò dall’indignazione alla calma e poi arrivò a un’espressione di tale dolcezza che Ferid non poté non pensare che il soprannome Angel Face gli calzasse a pennello.

«Si vede che lo conosci da poco, Ferid… Crowley può avere tanti difetti che non si vedono a una prima occhiata, ma uno di questi è che è estremamente pigro. È pigro fisicamente, è pigro mentalmente, ed è pigro anche emotivamente.» elencò Mikaela, alzando tre dita mentre parlava. «Non fa niente che non voglia fare, anche se dovrebbe secondo educazione o buonsenso… se ha fatto tutte queste cose per te è perché voleva farle. Perché tu lo diverti, lo sorprendi, lo stimoli, lo rassereni o lo rendi grato della vita. Non fa niente che non gli dia almeno una di queste sensazioni. Fidati, l’ho sentito dalla sua bocca.»

Erano belle parole davvero e non faticava a immaginarle dette dall’uomo coi capelli rossi, ma non riusciva a trovarvi conforto, non dopo aver visto quanto era cambiato il suo atteggiamento. Gli ricordava troppo la freddezza e l’indifferenza degli ultimi anni passati con suo padre, quando lui non gli parlava; tempi in cui spesso il piccolo di casa scopriva che il padre era tornato solo dopo giorni, o perché sentiva la servitù parlare del ritorno del padrone sottovoce. Era come tornare chiuso in quella casa, senza poter uscire, con un uomo che l’ignorava e una voce che strillava quanto lui fosse una disgrazia per chiunque…

«Allora… perché… adesso si comporta così con me?»

Ferid si affrettò a schiarirsi la gola con un colpetto di tosse sperando così di mitigare il tono sfinito della sua voce, che aveva tradito tutta la pressione che si era accumulata in quei giorni.

Mikaela ridimensionò il suo sorriso, ma non lo perse.

«Non lo so… ma lo sapremo presto.» disse con fare misterioso. «Mentre aspettiamo proviamo quel tè?»

«Mentre… aspettiamo cosa?»

«Che Yuu finisca il suo lavoro.»

La risposta confuse Ferid ulteriormente, ma Mikaela non aggiunse altro, tese un sorrisetto difficile da interpretare e andò alla cucina ad accendere il bollitore.

 

 

Crowley aveva guardato Mikaela portarsi via Ferid da sopra la testolina mora di Yuu, ma non aveva avuto modo di riflettere per bene su cosa avessero in mente poiché il suo vicino lo stava letteralmente bombardando di domande su come, dove, quando e perché i detective creassero quegli inquietanti murales di foto e informazioni sui loro casi.

«Te l’ho detto, no? È visione d’insieme.» ripeté Crowley per la terza volta in risposta a un quesito simile ai precedenti. «Avere tutto davanti agli occhi chiaramente rende più concentrati.»

Yuu, che stava osservando come il suo poliziotto preferito avesse legato i fili che collegavano i vari punti della sua mappa, fece un sorriso e gli lanciò un’occhiata intesa.

«Avere tutto chiaro aiuta tutti a collaborare, no?»

«Beh, sì.»

«Mmh… il lavoro di squadra è sempre uguale in tutti gli ambiti, eh? Anche con i partner bisognerebbe fare un muro come questo, che tutti e due possono comporre! Se solo i sentimenti si potessero fotografare sarebbe davvero utile.»

La stranezza di quel commento e il suo tono insolitamente cauto, che gli ricordò quello di De Stasio, scosse la palizzata che la mente di Crowley aveva eretto intorno a lui per isolarlo mentre rimuginava sui suoi drammi. Stavolta quando gli ricambiò lo sguardo vide il ragazzo più nitidamente, come se si fosse tolto un paio di occhiali da sole. A quel punto anche l’assurda lavagna del caso gli parve una sciocca esagerazione.

Ma che cosa sto facendo?

Lanciò uno sguardo ai foglietti vergini, alle penne, ai pennarelli rossi, blu e verdi, al filo avanzato e a tutto il materiale che stava usando, sparpagliato sul tavolo; come risvegliatosi da un attacco di sonnambulismo si mise a riordinarlo lentamente.

«Ora sembri di nuovo il mio vicino! Ma che cavolo t’è successo, Crowley? Guarda che io e Mika siamo preoccupati, da qualche giorno sei silenzioso e immusonito, come se odiassi tutto il mondo.»

Crowley sospirò senza fare rumore e si fermò con un pacchetto di biglietti tra le mani, che ricompose in una risma ordinata. Si rendeva conto di essere stato di umore pessimo nei giorni scorsi, ma preso com’era a guardare la tempesta dentro la propria mente a malapena ricordava di aver incontrato i suoi vicini e nulla di quello che si erano detti.

«Anche Ferid è strano, ieri ti stava guardando alle spalle e ha fatto finta di leggere quando ti sei voltato, sembrava che avesse paura che tu te ne accorgessi. Che cavolo può succedere di così grosso da farti arrabbiare così tanto con lui? Tu lo adori!»

Già, Ferid…

«Non sono arrabbiato con lui… solo… mi sento in colpa, Yuu.»

«Sto per sapere che cosa ha fatto alla faccia, Rowl?»

Crowley girò la testa di scatto e quando vide la sua espressione seria capì che cosa stava pensando. La sua prima reazione fu indignarsi, non si aspettava che qualcuno potesse pensare a lui come a un uomo violento, ma la fiamma si affievolì immediatamente sotto la pioggia di pensieri che aveva.

«Non l’ho colpito io in faccia… non è questo il motivo.»

«E chi l’ha detto questo? Io non ho detto niente del genere.» fece Yuu con una scrollata di spalle. «Pensavo solo che avessi combinato qualcosa che fosse finita sulla faccia di quel poveretto in una traiettoria a boomerang.»

Nonostante l’immagine comica Crowley non accennò neanche un sorriso.

«Beh… in effetti, è così che è andata. E sono arrabbiato… sono furioso con me stesso, perché non ne sto facendo una giusta. Io desidero aiutarlo, voglio proteggerlo… e non riesco a farlo.»

«Dai, sono qui! Spara, butta fuori tutto, come quando ti morde un serpente!»

«No, Yuu… non è proprio il tuo ruolo stare a sentire i miei malumori.»

«Ma noi siamo amici, avanti, che male c’è? Sono abituato a cavare le cose da Mika, sono praticamente uno psicologo!»

Yuu sgraffignò qualcosa dal tavolino del salotto mentre si avvicinava a lui; inforcò gli occhiali da lettura dorati di Ferid e diede un colpetto di tosse dandosi arie d’importanza.

«Si sieda dove vuole e si metta a suo agio, signor Eusford, e mi racconti che cosa sta succedendo adesso nella sua vita.»

Che fosse per la voce alterata con un bizzarro accento tedesco o per quanto stonavano gli occhiali di Ferid sulla faccia di Yuu non lo sapeva, ma Crowley non trattenne le risate. Gli sembrava faticoso ridere dopo giorni di umore cupo, esattamente come quando era ancora turbato dalla morte dei colleghi.

«Avanti… dovrai pur parlarne con qualcuno! Okay l’assolutismo spirituale, ma ogni tanto dovrai parlare con un profano di qualcosa, no?»

Crowley produsse un sorriso sinceramente divertito dalla versione di Yuu dell’assoluzione, ma non lo corresse e lo guardò per un certo tempo; lui si sfilò gli occhiali e sostenne il suo sguardo senza disagio in quel silenzio.

È un poco più di un bambino… non dovrei affidargli i miei problemi. Penserebbe che voglio che lui trovi una soluzione per me, e si sentirebbe obbligato a riuscirci… e forse sarebbe deluso se non riuscisse a farci niente. Non dovrei raccontarlo a lui.

«Guarda che parlare è come fare quella cosa sul muro.» gli disse poi Yuu, forse percependo che cosa stava pensando. «Metti tutto sul tavolo e puoi guardare meglio, mettere le cose in ordine. Perché pensi che io e Mika giochiamo a scacchi? Fare il suo gioco è un modo per parlarci, a ogni pezzo ci diciamo qualcosa che ci ha dato fastidio, che ci rende nervosi o tristi. È un modo per fare quella lavagna in due, su di noi.»

Crowley girò la testa e guardò il muro coperto di fogli e foto e comprese il senso del commento di Yuu sui sentimenti fotografati. Alla fine si sedette al tavolo della cucina molto lentamente.

Dovette lavorare di fantasia e convincersi di essere sulla panchina accanto a Gilbert, a un uomo più adulto di quel ragazzo dall’aria da bambino, per riuscire a sbottonarsi.

«Sono arrabbiato con me stesso, perché non sono stato capace di proteggerlo, di nuovo.»

Yuu non replicò al suo esordio e per Crowley fu confortante: capì che la sua intenzione non era un mero conforto fine a se stesso, non voleva smontare banalmente ogni cattivo pensiero. Era pronto ad ascoltare come un uomo più adulto di quello che era.

«Io… lo costringo a vivere qui, e si sente ingabbiato e annoiato, lo so questo… lo costringo a occuparsi e preoccuparsi della mia salute… so che non è felice di vivere in questo modo, e non è neanche giusto che sia così, ma… io non sono capace di chiudere questo caso e liberarlo da questo peso, anzi, io non mi sto neanche impegnando al massimo per chiuderlo.»

«… È per questo che hai allestito quella giga-mappa?»

«Sì… non posso andare alla centrale ancora, e cercavo di venirne a capo, di notare qualcosa… volevo chiudere il caso, e…»

Crowley intrecciò le dita davanti alla bocca, come in preghiera, e fissò gli occhi blu su un evidenziatore.

«Non possiamo costruire niente finché restiamo in questo… limbo… non possiamo stare davvero insieme finché abbiamo l’impressione di essere noi due da soli su un’isola deserta. Quello che sentiamo… non sappiamo se è autentico, se vorremmo le stesse cose se fossimo completamente liberi.»

Yuu sembrò sorpreso di sentire quelle ragioni, ma schermò piuttosto bene e si riprese subito.

«Senti, Crowley, ma tu hai messo giù queste carte con lui?»

«In che senso?»

«Gliel’hai detto? Gli hai spiegato questa cosa del limbo, e che vuoi una storia seria insieme a lui?»

«Beh… no… almeno, non con questi termini…»

Yuu prese un pennarello e una delle schedine bianche, iniziando a scribacchiarvi su.

«Forse dovresti, suona proprio bello da sentire, lo sai? Per me Ferid è contento se glielo dici.»

«A nessuno può far piacere sentirsi dire che i sentimenti nei loro confronti non sono chiari.»

«Ma che stai dicendo, Crowley? A me sembrano chiarissimi.»

Si scambiarono un’occhiata ed entrambi avevano un’espressione che sembrava dichiarare “sto parlando con un idiota”. Yuu sollevò la carta sulla quale aveva disegnato un cuore sgangherato.

«Tu vuoi una storia con Ferid. Vuoi una storia che sai essere costruita su sentimenti veri, che non sono influenzati dal fatto che siete costretti a vivere insieme e a dormire in un solo letto, no? Quindi tu vuoi una storia seria.» spiegò Yuu, tracciando col dito un’immaginaria linea di collegamento tra le sue affermazioni che finì sul disegno. «Cosa c’è di poco chiaro nei tuoi sentimenti, scusa? A me sembrano chiari come il sole.»

Crowley non era così sicuro che fosse una questione tanto semplice: e se, una volta separatisi, non avessero più trovato alcuna complicità? Se si fossero trovati tra imbarazzanti silenzi e frasi di circostanza quando avessero parlato al telefono? Se non avessero trovato, al momento di portare quella strana relazione al livello superiore, una soddisfazione adeguata alla lunga attesa che l’aveva preceduta?

Decine di domande affollavano la sua mente; era come avere la testa in un enorme nugolo di moscerini.

«Hai dubbi su quello che vuole lui?» domandò Yuu, rompendo il suo silenzio meditabondo.

«Beh… anche.» ammise Crowley, vagamente teso. «Non ho nessuna esperienza di una relazione lunga, né particolarmente seria… mi preoccupa anche non rispondere alle sue aspettative. È stato sposato, non so che cosa pensa della nostra convivenza di queste settimane… finora credevo fosse buona, ma adesso mi chiedo come l’abbia vista lui. Forse sta solo sopportando perché sa che è temporanea.»

«Beh, allora hai rimasto solo una cosa da fare, no? Parlaci, il tempo non vi manca mica.»

«Guarda che non è così facile, Yuu.»

«Non è neanche facile trascinarsi i fardelli come palle al piede… mette un po’ disagio tirar fuori quello che nascondiamo, ma te lo dico: diventa più facile ogni volta che lo fate. Io e Mika lo sappiamo.»

Crowley emise un sospiro irritato dalla propria indecisione e si passò la mano nei capelli. Yuu si alzò dalla sedia.

«Anche Ferid ha soltanto te, Crowley. Non puoi chiuderti in questo modo, perché lo costringi a tenersi dentro tutto anche lui, se ti rifiuti di ascoltare.» gli disse dandogli un’amichevole pacca sulla spalla. «Beh, io e Mika ci siamo, per tutti e due, ma… ci conosciamo da poco e Ferid ha un carattere introverso, anche se lo maschera bene. In questo caso devi essere tu ad ascoltarlo.»

Una fitta di vivo, bruciante senso di colpa lo attraversò quando pensò a come aveva del tutto ignorato il silenzio che era seguito a quel suo disperato appello poco prima.

Stava cercando di dirmi che soffriva. Il mio atteggiamento l’ha scoraggiato e non ha più parlato… non si fiderà mai di me se gli mostro simili lati oscuri del mio carattere. Sono più unici che rari a vedersi, ma… non posso lasciare che gli rimanga impressa un’immagine di me così indifferente.

«Yuu.» fece allora, con una voce che sentì finalmente ferma. «Mi faresti un favore?»

«Sì, sì, te lo rimando di qua.» replicò lui gioviale. «Solo non ti incupire, che diventi brutto, rognoso e cattivo.»

«Addirittura brutto?»

«Soprattutto brutto!»

«Che dici? C’è un fascino tutto particolare nel lato oscuro di un uomo.» fece Crowley, in un eroico tentativo di fare dell’ironia nonostante si sentisse uno straccio da pavimenti. Usato.

«Mika ha un fascino tutto particolare nel suo lato oscuro, tu neanche un po’.»

«Tu sei di parte.»

«Non sono affatto di parte, Mika è il ragazzo più bello dell’universo!»

Sorridendo Yuu uscì dall’appartamento lasciando la porta socchiusa e poi lo sentì irrompere a casa sua come fosse in corso una retata della Narcotici. Crowley rimuginò sulle sue idee e sensazioni e prese a sgomberare il tavolo quasi sperasse di poter fare ordine nella mente tramite quello.

Se non fosse stato per il rumore impossibile da soffocare dello scatto della serratura non si sarebbe accorto del ritorno di Ferid, che senza i suoi tacchi era silenzioso e – nel suo modo di guardarlo in quel momento – anche diffidente come un gatto: lo fissava come se avesse veramente paura di venire preso a pugni da lui.

Crowley si alzò piano dalla sedia, quasi credesse di spaventarlo con un movimento troppo brusco.

«Ferid, vuoi sederti qui con me, per favore?» gli domandò con quanta più dolcezza potesse, allungando la mano verso di lui. «Ti prego… vorrei parlare con te.»

Crowley capì di essersi aspettato un rifiuto per ripicca solo quando questo non venne e ne rimase sorpreso; Ferid infatti ignorò la sua mano ma si sedette sulla sedia di fronte al padrone di casa. I suoi occhi celesti scorsero il tavolo riordinato, ma non fece alcuna domanda in proposito.

«Ferid, scusami. Non mi sono comportato bene con te in questi giorni, e…»

Il trillo sgangherato del campanello lo interruppe.

Che diavolo, eppure lo sanno che dobbiamo parlare, perché suonano?

Aveva la mano quasi sulla maniglia quando pensò che i suoi vicini non suonavano mai ma bussavano nella porta per essere meno molesti – quel trillo era capace di buttare giù dalla sedia una persona soprapensiero e far saltare il cuore in gola a chi stesse dormendo – e sbirciò dallo spioncino.

Aprì la porta guardando De Stasio con un misto di speranza e paura.

«De Stasio, come mai qui? Novità?»

«Buongiorno, Crowley… non abbiamo notizie di dove sia sparito il Vampiro l’altra sera, no, ma ho comunque qualche novità.» esordì De Stasio, accennando a un plico dalla copertina grigia. «Ferid?»

«È qui.»

Seppur riluttante lo lasciò entrare. Solo dopo aver richiuso la porta guardò Ferid e si accorse che ora, misteriosamente, i suoi capelli argentei avevano preso un insolito colpo di vento che li aveva fatti scendere sul lato sinistro del viso, che comunque tentava vistosamente di nascondere sedendosi in modo da mostrare quasi solo il suo profilo.

«Ferid, come stai? Vanno meglio le contusioni?»

«Non fanno tanto male se non le tocco.» tagliò corto lui. «Porti buone nuove?»

«Beh… buone, non lo so, ma sono nuove. Dai un’occhiata qui.»

De Stasio aprì il fascicolo grigio sul tavolo davanti a lui, Ferid acchiappò al volo gli occhiali lasciati da Yuu e li inforcò con un senso di urgenza e un’aria seria che mise agitazione anche all’irlandese, che si avvicinò per sbirciare. Visto alla rovescia non capì bene cosa fosse quel foglio e la fotografia non gli diceva granché: era un ragazzo dai capelli biondi e corti, con la pelle di una calda tonalità abbronzata, ma la sua bellezza era guastata dalle pesanti occhiaie, dagli occhi azzurri molto arrossati e l’aria sciupata di chi si è nutrito poco e male da qualche tempo.

«Non è…»

«Me l’ha mandato il mio contatto… un certo falsario, che ora è passato a dare informazioni alla polizia, ha recuperato un documento originale, un vecchio passaporto inglese… spulciando nei suoi archivi personali ci ha detto che sedici anni fa un ragazzo di nome Robert Karson Warren è arrivato da lui portato da certi brutti individui per cambiare nome in Dinko Zgrada… organizzazione serbo-croata, all’epoca facevano il bello e il cattivo tempo a Austin.» aggiunse, rivolto al collega.

«Austin, Texas?»

«Proprio quella.»

«È scappato lontano, il topo di fogna.» commentò Crowley, schifato. «Dove si è rintanato adesso?»

«È morto.» disse Ferid con la voce sovraccarica di emozione. «Dice… il fascicolo dice che è morto dieci anni fa in un incidente d’auto mentre scappava dopo aver rapinato un negozio.»

«Fine fin troppo fortunata per quello schifo di individuo.»

«Purtroppo questo ci riporta a non avere un sospettato con un nome… e senza una faccia.»

«Ce l’ha una faccia… purtroppo.» aggiunse Crowley, cupo.

«Non proprio… abbiamo i risultati di laboratorio sui rilievi della tua mano, Ferid.»

Crowley ricordò solo vagamente d’aver visto una collega della scientifica avvicinarsi a Ferid per raccogliere sangue e pelle del Vampiro rimasti sulle mani dopo averlo graffiato; ma era occupato a scrivere la deposizione e non ci aveva quasi badato.

«Oh… sono stati utili?»

«Sì, abbiamo isolato un DNA maschile che non è tuo, possiamo confrontarlo con i database e con altri DNA sconosciuti che abbiamo trovato sulle vittime… inoltre, la sostanza banca che avevi sulle dita, la ricordi?»

«Sapete cos’è?»

«Cerone bianco, un cosmetico per il circo e il teatro… ora.» esordì De Stasio toccandosi la tempia con l’indice. «Perché un uomo dovrebbe mettersi in faccia un cosmetico per il teatro per andare a rapire una ragazzina?»

«Uhm… forse, per coprire una cicatrice o qualcosa che lo rende molto facile da notare?»

«È possibile… o forse, lo usa per quello a cui serve: diventare qualcun altro. La mia opinione è che il Vampiro non assomigli a Ferid, ma che faccia di tutto per sembrare lui, e questo concorda con il suo piano di incolparlo per i suoi omicidi.»

«Dobbiamo trovare un altro che ce l’ha con Ferid, allora?»

Speriamo che non ci sia qualche altro ex fidanzato bastardo nel curriculum, non so se lo sopporterei.

De Stasio annuì e guardò Ferid, che si distrasse dal fascicolo e lo ricambiò con aria persa.

«Uh?»

«Qualche altro nome per la nostra lista, Ferid? Un altro ex, un bullo ormai invecchiato…?»

«Beh… non che sia mai stato pericoloso, ma… posso solo darvi il nome di Morris Mackham.»

«Chi diavolo è questo?»

«Un uomo con cui ho… avuto una storia, quando avevo ventiquattro anni.»

«Una storia seria?» chiese De Stasio prima che Crowley facesse altre domande col tono sbagliato, prendendo subito taccuino e penna. «Perché pensi che ce l’abbia con te?»

«Non penso che ce l’abbia con me, e non lo pensavo neanche di Bobby, ma… non lo so, non sono così importante da far perdere tempo a qualcuno per vendicarsi di me.»

«Questo è tutto da dimostrare. Dimmi qualcosa di questo Mackham.»

«L’ho conosciuto al circolo Alcott, il golf club di West End… ho lavorato lì per un po’ e lui era un membro del club… e… niente. Avevamo una relazione sessuale, è durata dalla primavera… aprile, forse, fino a ottobre.»

«È finita in modo burrascoso?»

«Lui aveva una moglie e una figlia, ma non le aveva mai portate al club e non sapevo fosse sposato… quando l’ho saputo mi sono arrabbiato con lui e l’ho scaricato, ma non ha praticamente reagito, ha solo detto che pensava anche lui che fosse ora di chiudere, e così è stato. Non l’ho più rivisto, perché ho dato le dimissioni il giorno dopo.»

Cos’ha fatto questo povero uomo per meritarsi della spazzatura di uomini del genere, Signore?

Crowley si passò la mano sugli occhi ma non commentò, perché nonostante Ferid cercasse di mantenersi indifferente era in evidente imbarazzo. De Stasio non infierì ulteriormente.

«Per sicurezza parleremo con questo signor Mackham e verificheremo dov’era in qualche data importante.»

«E il DNA maschile taglia fuori anche la ragazza della biblioteca.» commentò Crowley, suo malgrado irritato. «Ma che cazzo.»

Un singulto provenne all’improvviso da Ferid e Crowley pensò che fosse un singhiozzo, che alla fine la tensione di quel delirio l’avesse sopraffatto, ma quando lo guardò non stava piangendo: con la mano davanti alla bocca fissava il secondo foglio del fascicolo. Quando si accorse di averli allarmati abbassò la mano.

«Scusatemi… solo… Dante, qualcosa non torna in questo fascicolo.»

«Cioè?»

«Beh… nell’autopsia… dice che era alto un metro e sessantotto…» disse lui, e guardò la foto sulla prima pagina. «Assomiglia al ragazzo che conoscevo… ma… Bobby… Bobby era quasi un metro e ottanta quando l’ho incontrato in Inghilterra… non… questa persona non può essere Bobby.»

De Stasio prese il fascicolo e lo sfogliò, ma dal confronto tra la copia del documento falso e il referto autoptico non notò alcuna discrepanza su quel dato. Lanciò uno sguardo confuso al suo collega.

«Tu ti faresti mai fare un documento falso con scritto che sei alto un metro e settantotto, Crowley?»

«Non se ho più di venti anni, perché di sicuro nessuno si beve che sono cresciuto durante l’estate.»

«Per quale motivo lo faresti, allora?»

«Io… non lo so. Non mi viene in mente un motivo sensato per farlo. A te?»

«Non se mi metto nei panni di Warren… ma se il ragazzo che è arrivato a Austin fosse stato un altro con il nome di Warren già avrebbe più senso, non ti pare?»

«Un altro…»

«Come, un altro?» li interruppe Ferid, guardando da uno all’altro. «Quindi questo non è Bobby, ho ragione? Qualcun altro ha preso il nome di Bobby prima di cambiarlo in… Dinko Zgrada? E allora, Bobby dov’è finito?»

«Non lo so. Ma lo scoprirò.» disse fermamente De Stasio, e riprese il fascicolo. «Non sono stato attento, ma non succederà più. La prossima volta controllerò io stesso con più zelo.»

«Quindi… la pista Warren…»

«Non è ancora un binario morto.» concluse per lui il collega. «Continuiamo a seguirlo. Vi aggiornerò appena scopriamo qualcosa. Voi, nel frattempo, riguardatevi e cercate di stare sereni per quanto possibile.»

Con questo sincero ma sbrigativo congedo De Stasio si avviò alla porta.

«Dante!»

Il poliziotto italiano lo guardò e Ferid esitò un momento in cui prese a giocherellare con l’orecchino.

«Io… vorrei sapere, per favore, quali opzioni ho per un… un diverso alloggio, finché questa indagine non sarà conclusa. Non serve che venga spesato, posso pagare io.»

«Vuoi andar via di qui?»

«È… possibile.»

Finse di sistemarsi una ciocca di capelli evitando accuratamente di incrociare lo sguardo di Crowley, ma anche quello del suo collega, che alla fine abbozzò.

«Vedrò che cosa possiamo fare. Ti farò sapere in settimana.»

Con un saluto piuttosto formale se ne andò e l’appartamento sprofondò nel silenzio, almeno finché Crowley riuscì a trattenere la marea di pensieri che si stava facendo sempre più agitata.

«Perché vuoi andartene?»

Ferid esitò a rispondere e sedette rigidamente, mostrando più risolutamente il suo profilo intatto.

«Non voglio più stare al buio.»

«Non parlare per enigmi, Ferid, te ne prego. Non hai motivo di aver paura di parlare chiaro.»

«Non voglio stare qui con te che non mi parli e non mi guardi.» disse allora lui, anche se a voce più bassa, come non volesse farsi sentire. «Sembra… di stare di nuovo in casa con mio padre. Odio come mi fa sentire essere trattato così.»

Il brivido che gli salì sulla schiena era come gocce d’acqua gelata sulla pelle: essere paragonato al glaciale, egoista e indifferente padre di Ferid gli fece più male di qualsiasi altra cosa gli avesse detto o fatto da quando lo conosceva.

«Senti… Ferid… perdonami, so che ti ho ignorato in questi giorni, ma… capiscimi, guardarti ridotto così mi turba, e…»

Ferid aggrottò le sopracciglia sottili e strinse gli occhi come se avesse sentito del dolore fisico.

«Lo capisco questo, lo so anch’io, ma pensavo che vedessi in me qualcosa di più della mia faccia!»

Crowley rimase lì, appoggiato al tavolo, con la bocca semiaperta, per un tempo che gli parve dilatarsi all’infinito. Dopo la bellezza di due lunghi minuti di quell’assurdo fermo-immagine si decise a sbloccarlo, dato che Ferid non aggiungeva nulla.

«Ma che cosa sei, idiota?»

Ferid non si mosse né parlò, fissava solo lo sguardo per terra.

«Ferid. Guardami.»

La sua testa si girò appena, il minimo per poterlo guardare senza che si notassero troppo le contusioni e il labbro ferito. Crowley piantò lo sguardo nell’unico occhio celeste che gli era concesso di vedere, con tutta l’intensità che era capace di riversarci, e non era poca.

«Tu pensi davvero che io abbia smesso di parlarti e di guardarti perché non mi piace vedere la tua faccia, adesso che è rovinata?»

«Lo hai appena detto tu.»

Ma è scemo o lo sta facendo apposta?

Se lo sarebbe chiesto con serietà se non avesse conosciuto quell’uomo abbastanza da scorgere autentica sofferenza nel celeste dei suoi occhi; anche da uno soltanto.

«Ferid, quello che intendevo dire è che vedere come ti ha ridotto quel viscido mi fa stare male, non che mi disgusta la tua faccia.» spiegò con la massima calma. «Tu sei bello come prima. Guarirai presto, ma anche se la tua faccia restasse così a me non cambierebbe assolutamente niente.»

«Questo non è vero.»

«Certo che è vero. Se non fosse che ti farei male ti darei uno di quei baci così impuri che meritano di essere confessati la domenica.»

«Ah, ma smettila.»

«Perché ti stai impuntando? Hai ragione tu: vedo in te molto di più della tua faccia, e di tutto il resto del tuo corpo, e lo sai. Lo sai bene. Ti adoro, lo sai che è così.»

Eppure quelle parole sembravano aumentare il disagio e il dolore che mostrava e Crowley non capiva perché.

«Ferid… il motivo per cui mi sono isolato è che sono frustrato, ma non per causa tua… non mi piace che il Vampiro continui a sfuggirmi dalle mani, non mi piace che dopo aver fallito nel proteggere quei bambini e i miei amici ho fallito anche nel difendere te. Per questo sono diventato di cattivo umore, mi sono lasciato ossessionare da questo e ti ho ignorato perché guardarti mi rinfacciava quanto impotente sono stato.»

Crowley allungò la mano per cercare la sua ma gli sfuggì dopo averla soltanto sfiorata. Fu deluso da quella sua reticenza, ma non poteva dire di non meritarla.

«Lo so che non mi giustifica… ma per favore, non andare via. Ti proteggerò meglio, starò più attento… ti sentirai al sicuro. Lui non ti toccherà mai più.»

«Non ho paura di lui.»

Fece quasi fatica a sentire quel sussurro e si sporse sul tavolo d’istinto, ma poi Ferid alzò la testa, spostò i capelli che gli coprivano il volto tumefatto e in uno slancio di onestà e orgoglio alzò anche il volume.

«Ho paura di quello che posso fare a te! Io rovino sempre quello che mi trovo tra le mani, e tu… tutti ti amano così come sei, non potrebbe essere altrimenti, e io non voglio rovinarti!»

«Che stai farfugliando, Ferid? In che modo mi staresti rovinando?»

«Fin dall’inizio ti ho messo in imbarazzo con il tuo capitano, che mi ha preso per matto…»

«Non importa, Alford è al di sopra di scemenze come gli stereotipi, e non mi giudica in base agli amici che ho finché non sono a Coniston. E poi…» proseguì con un certo sorrisetto. «Secondo me gli ha fatto piacere che apprezzassi, la sua vita sentimentale è una tragedia.»

«Mi sono reso ridicolo a presentarmi in centrale in quel modo e dando il tuo nome ho reso ridicolo anche te.»

«Non è mica un crimine essere eccentrici, e ho fatto di peggio. Non mi hai mai visto vestito da cowboy alla festa del quattro luglio, è evidente che quella foto non è ancora arrivata al tuo telefono, ma in centrale ce l’hanno tutti.»

«Hanno pensato tutti male di te quando hai iniziato a difendermi da chi mi sospettava…»

«E avevo ragione io, ovviamente. Il settimo senso mica sbaglia.»

«Ho fatto capire a Dante qualcosa che non volevi che sapesse.»

«Qualcosa che avevo stupidamente paura di dirgli, quindi grazie di avermi fatto capire che era un timore basato sul niente.»

«E McCray ti guarda… in un modo così freddo, so che è per colpa mia…»

«No, lo fa perché ha una mentalità molto all’antica, e caso ha voluto che tu fossi il primo uomo che vedeva insieme a me.» gli fece notare lui con serenità. «In ogni caso non mi importa. Conosco Hank da una vita, ma se la sua stima dipende dal sesso di chi mi porto a letto allora la sua considerazione non mi serve.»

Ferid deglutì vistosamente e Crowley capì che era in arrivo la cosa che lo angosciava di più.

«Io… sono pieno di problemi… il mio umore è altalenante, ci sono periodi in cui non mi va di fare niente, non sono una persona con la quale è piacevole stare…»

«Parla per te, io ci sto molto bene.»

«Sono un capriccioso, un viziato, un debole!» esclamò lui con veemenza, per sovrastare l’interruzione. «Questi e cento altri difetti che mi rendono una persona difficile da capire, volubile, che…»

Crowley allungò la mano e la premette sulla sua bocca con tutta la delicatezza del caso; così facendo arrestò il flusso di ingiurie rivolte a una delle persone più speciali che potesse vantarsi di conoscere. Gli sorrise.

«Ferid, se volevo un marito perfetto mi facevo prete per davvero.»

Sicuro di aver ottenuto l’effetto desiderato tolse la mano, e infatti Ferid rimase senza voce per un certo tempo.

«Ma… marito… hai detto?»

Solo allora si rese conto del senso che si poteva cogliere di quello che aveva appena detto, ma mascherò bene il picco di panico.

«Non era una proposta indiretta. Non sono così vigliacco da fare una proposta meno che diretta e non sono neanche così istintivo da chiedere di sposarmi a un uomo che conosco da meno di quattro mesi…»

«Certo che no.» fu il commento piuttosto neutro di Ferid.

«Anche se è un po’ difficile da credere, vero?» aggiunse sorridendo divertito. «Tra di noi succede tutto in fretta, dici che Dio ci sta suggerendo di non perdere altro tempo?»

«Siamo solo impazienti… cerchiamo tutti e due qualcosa che ci manca e forse pensiamo di averlo trovato.»

La risposta così ponderata lo sorprese, perché si aspettava una replica sull’onda del suo tono scherzoso. Si alzò e trascinò la sedia con un certo rumore per mettersi accanto a lui.

«E tu che cosa stai cercando?»

«Crowley, per favore… sono stanco, e ancora nervoso, non voglio parlarne…»

«Io credo che sia proprio il momento di parlarne.» insistette lui, smettendo di sorridere. «Non mi opporrò se vuoi davvero andartene da casa mia, ma non senza avere ben chiaro il perché. Quindi, per favore, adesso parliamo. Non c’è alcun bisogno di discutere… parliamo e basta.»

Ferid tacque e giocherellò con l’orecchino.

«Che cosa cerchi che ti manca? Forse posso davvero dartelo io. Non c’è niente di male a parlarne, noi abbiamo parlato un po’ di tutto da quando siamo coinquilini.»

«Io cerco quell’amore eterno che è scritto nei libri.» disse allora Ferid con inquietante serietà. «Tu puoi darmelo?»

La sua domanda era chiaramente volta a stroncare quella conversazione chiedendogli qualcosa che sapeva che non avrebbe potuto promettere. Crowley rifletté davvero molto poco e inclinò leggermente la testa di lato nel tentativo di riuscire a guardare entrambi i suoi occhi celesti.

«Non lo so. Forse sì. Mi piacerebbe riuscirci, un po’ sono stanco di cercare, di illudermi che sia la volta buona e poi vedere che tutto finisce subito esattamente come la volta prima.»

Lo stupore fece dimenticare a Ferid di nascondere la faccia rovinata e lo guardò come se a dirgli quelle parole fosse stato il suo sconosciuto vicino di posto sulla metro.

«Perché sembri convinto che io non possa farlo? Perché sono più giovane di te? Perché sono abituato ai partner occasionali e alle storie di qualche mese o anche meno? Perché mi sono presentato come un uomo difficile, con una feroce territorialità sulla sua casa e la sua routine? O perché pensi che tu non sei abbastanza per essere amato così tanto?»

«La tua età non c’entra.» rispose lui, eludendo poco abilmente tutte le altre domande.

«E tutto il resto c’entra?»

Come immaginava Ferid non rispose. Sospirò cercando di mantenere un tono calmo nonostante l’esasperazione.

«Ferid… tu sei più che abbastanza. Non serve essere vecchi e soli per volerti; scusami se adesso tiro in ballo Claude, ma mi pare che sia lui il metro che usi nella tua vita.» spiegò quando lui gli lanciò un’occhiataccia alla menzione del “vecchi”. «Anche un uomo più giovane, più bello, più felice e più socievole di lui può volerti, e potresti anche pensare che questo uomo potrebbe volerti anche più intensamente di tuo marito.»

«E su quali basi questo uomo afferma questo?»

Crowley allungò la mano posandola lentamente sul suo ginocchio.

«Perché di sicuro quell’uomo non ti lascia prendere polvere sullo scaffale come una bambola da collezione e ha tutte le intenzioni di consumarti a dovere.»

«Batti questo chiodo da un po’, Crowley.»

«E continuerò a farlo.»

Ferid, Ferid… tu non sei così ingenuo, no? Vivi con me e hai quella tremenda abitudine di dormire senza vestiti, sai benissimo come mi fai fantasticare. Un giorno mi vendicherò di come mi stai torturando.

«E dopo?»

«Uh?»

«Dopo che mi avrai consumato a tua discrezione?» fece lui spostandosi i capelli dietro la spalla destra. «Dopo che il caso sarà chiuso e io tornerò nel West End a riprendere la mia vita?»

«Vivi nel West End, non in Alaska… bastano quaranta minuti per arrivarci da qui, non sarà mica un problema vederci… magari non avremo tanto tempo come adesso, con i miei turni e i tuoi, ma quando ho il turno di giorno la sera sono libero, e lo sei anche tu.»

«E pensi davvero che quando non sarò più sotto il tuo naso tutto il tempo tu mi penserai come fai adesso?»

«Ma che diamine di domanda è?» fece Crowley seccato. «Che sono, un pesce rosso che arrivato in fondo alla boccia s’è dimenticato da dove è partito?»

La risposta gli arrivò all’improvviso quando finì di parlare. Avrebbe voluto dargli una sacrosanta scrollata, ma temeva di fargli male, dato che il collo e le spalle gli dolevano come conseguenza della sua recente disavventura.

«Ferid, io ti pensavo molto prima che tu vivessi qui con me… se fossi il tipo che si infatua delle persone sexy se le vede per troppo tempo mi sarei innamorato da anni di Gilbert, ti pare? E no, non è mai successo, neanche quando eravamo compagni di stanza alla San Cristoforo.»

«Eri smaliziato all’epoca.»

«Okay, basta stronzate, Ferid. L’altra volta sei stato tu a chiedermi se davvero non vedessi un motivo qualunque per amarti se non la stregoneria, no? Beh, li vedo, ne vedo parecchi. Tu sei quello che io cercavo senza rendermene conto.»

Ferid lo guardò negli occhi e contro ogni previsione di Crowley non vacillò affatto.

«Che cosa cercavi?»

«Cercavo una persona divertente, una che sapesse sorprendermi in modo piacevole, e tu lo fai davvero spesso… mi parli di cose che non conosco e ti piace insegnare agli altri, lo fai bene, e mi piace perché ogni volta che mi fai scoprire qualcosa di nuovo sorridi in un modo tutto speciale.»

Crowley sorrise nel ripensare alle svariate istantanee mentali che aveva di quelle sue espressioni.

«E poi, in altri momenti mi calmi. A volte ho mille pensieri che ronzano, mille paure… sì, ho paura anch’io, sai? Ma quando mi lasci appoggiare a te e ti ascolto leggere ad alta voce tutto quanto si calma. È un potere che non ho mai trovato in nessun altro… in nessun posto, a volte nemmeno nella preghiera.»

«Non serve che io sia il tuo fidanzato per fare questo.»

«Forse no, ma non è mica vietato essere amici e fidanzati… mi sa che è anche una bella combinazione.»

Ferid tornò a toccarsi l’orecchino e Crowley seppe di essere finalmente in vantaggio.

«Questo… sta decisamente andando fuori tema…»

«Il tema è quello giusto. Vuoi andare via da casa mia perché hai paura di quello che sta succedendo tra di noi, e lo sei perché hai paura di essere felice. Hai passato così tanti anni a vedere il tuo amore finire in pezzi per un motivo o l’altro che ora hai paura che succeda ancora.»

«Sì, ma questo non significa che tu debba prenderti la responsabilità di questo.»

«Non ho mai detto di volerlo fare.» obiettò Crowley, con un sospiro. «È vero, ci siamo avvicinati in una situazione assurdamente complicata che mette pressione su tutti e due… ma non vuol dire che non sia sincero quello che c’è adesso. Se non lo mettiamo alla prova come lo sappiamo? Forse faremmo meglio a ignorarlo perché è una bolla di sapone, o forse è l’amore della nostra vita… non sei curioso neanche un po’ di provare?»

«Provare?» ripeté Ferid in tono sdegnato, quasi fosse una parola sconveniente.

«Provare. Vuoi provarmi per trenta giorni? Soddisfatti o rimborsati.»

Ferid tentò eroicamente di mantenere quel suo contegno offeso, ma quando si incrinò prima sorrise suo malgrado e poi proruppe in una risatina nervosa che fece sorridere Crowley.

«Questo sembra proprio un sì, eh?»

«Non sei tu quello che mi disse di non svendermi come un prodotto in prova?»

«Sì, ma l’ho detto a te, io posso.»

«Ma che bella filosofia d’uguaglianza sociale!»

«Non mi piaceva l’idea che ti proponessi in quel modo a chi capitava, tutto qui.»

Crowley appoggiò il mento sulla mano perdendosi in una breve contemplazione: in quel momento Ferid sembrava più bello che mai, anche con la faccia praticamente viola per metà, e molto del suo fascino stava nel suo emozionato compiacimento.

A volte sei proprio un libro aperto… non serve che provi a contenerti, si vede che sei felice.

Prima che decidesse di alzarsi per fare del tè o tirasse fuori qualche altro trucchetto per smorzare l’imbarazzo Crowley gli passò la mano sul lato destro del viso fino alla nuca e lo trattenne mentre si sporgeva per dargli un bacio delicato sulle labbra ferite. Anche quando lasciò la leggera presa sui suoi capelli Ferid non si mosse, chiaramente preso in contropiede da quella mossa.

«Sistemo un po’ e poi cucino qualcosa per stasera. Potrei fare gli involtini, che ne dici?»

Ferid annuì più rigidamente che mai e Crowley ebbe la premura di sistemare il tavolo e riordinare la cucina dandogli sempre le spalle per permettergli di ricomporsi senza sentirsi il suo sguardo addosso. Quando si fu ripreso – in tempo piuttosto breve – fu come se non fosse successo niente il sabato precedente: si offrì di aiutare a cucinare, si misero a preparare insieme un altro pasto salutare che rispettasse il loro nuovo regime e nel mentre trovarono svariati argomenti di cui chiacchierare senza più alcuna tensione.

Quando, ore più tardi, Ferid si addormentò appoggiato al suo petto senza alcuna reticenza Crowley gli accarezzò la schiena, con la sensazione di non essere mai stato tanto sereno e di non aver mai iniziato una relazione con premesse tanto solide. Per il suo vecchio sé sarebbe stata solo una pallida luce che poteva essere la fine di un tunnel o un buco nel soffitto, ma ora la vedeva come la promessa di uno spazio libero da muri, un posto senza tende, senza buio; infinitamente ampio, luminoso, felice e perfetto, come l’Eden.

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Capitolo 26
*** Una notte nel North End ***


Yuu aprì la porta con una leggera spallata e rimase comunque incastrato per colpa della voluminosa busta di plastica che stava portando; dovette spalancarla completamente con il piede per liberare il suo prezioso carico e per poco non urtò un uomo sul marciapiede.

«Mi scusi!»

L’uomo si limitò a lanciargli un’occhiataccia e tornò al suo cellulare. Yuu invece scrollò le spalle e si diresse alla macchina di Crowley parcheggiata di fronte al negozio. Mika gli inflisse il solito glaciale sguardo di disapprovazione, ma ormai vi era troppo abituato perché potesse ancora metterlo in soggezione.

«Ci hai messo un secolo, Yuu-chan!»

«Tu avevi già deciso, ma io no! Volevo scegliere bene!»

«Se si accorge che manca la macchina e ci denuncia darò la colpa a te.»

«Lo fai sempre.» sospirò Yuu, e ficcò la busta sul sedile posteriore.

«Per forza, lui ti perdona tutto. Non ha detto “ba” neanche quando gli hai rovinato la maglietta degli Spartans.»

«Perché ero molto dispiaciuto!» protestò lui salendo al posto del passeggero. «Lui le sente queste cose!»

«Svegliati, Yuu-chan, l’avesse fatto chiunque altro si sarebbe preso un cazzotto sul naso.» commentò Mikaela, mettendosi al posto di guida. «A te non dice mai niente perché sei il suo protetto

«Noi siamo i suoi protetti, Mika!»

Mikaela non replicò mentre usciva dall’esiguo spazio tra l’auto di fronte e quella dietro e come sempre aspettò di aver completato la manovra prima di riprendere la conversazione.

«No, tonto, sei tu. Sei tu il suo protetto. Credo che gli ricordi com’era lui da ragazzino, quando era un po’ meno serio.»

«Serio dove? Crowley non è serio, è uno spasso!»

«Certo che è serio, non vuole mica dire che non sia capace di ridere… però quando lavori nella squadra omicidi un po’ di innocenza la perdi per forza… vedi cose che le persone comuni non vedranno mai o quasi, e le vedi ogni giorno.» osservò Mika, preso a monitorare la strada e le altre auto con prudenza quasi maniacale. «Quando vieni toccato da tanto male qualcosa in te cambia, è inevitabile e irreversibile.»

Yuu lo fissò con quei suoi intensi occhi verdi, anche se sapeva che non si sarebbe distratto dalla strada per ricambiarlo.

«Questo vale anche per me. Lo sai, Mika.» gli disse con voce più bassa e più lentamente. «Lo sai che cos’ha fatto mio padre.»

«Certo che lo so, ma… è stato un po’ diverso per te. Eri così piccolo che il tuo carattere non era ancora formato, anche i tuoi ricordi sono confusi, e probabilmente in parte costruiti dopo aver sentito altre persone raccontartelo…»

«Adoro quando fai lo psicologo, ma non tanto se lo fai con me.»

«Sto solo dicendo che non ha cambiato il tuo carattere perché eri troppo piccolo per renderti davvero conto di cosa stava succedendo.»

«Mio padre mi ha venduto, come pretendi che non lo sapessi?!»

«Non lo sapevi, Yuu-chan… tu hai visto che avevi un padre, poi da un giorno all’altro c’erano altri che si occupavano di te. Che ti avesse venduto per un debito l’hai saputo soltanto dopo.»

Yuu emise un sospiro lento.

«C’è un motivo per cui hai deciso di negare la mia infanzia traumatica?»

«Non… non la sto negando, voglio solo dire che è… diverso.» disse Mika con una nota di senso di colpa nella voce. «Sono felice che sia così, perché non vorrei che tu avessi ricordi come quelli che ho io… e vorrei che tu non diventassi un poliziotto, per preservarti dai pericoli e dalle ombre che questo lavoro si porta dietro… ma so che hai già deciso…»

«Certo che ho deciso.» fece Yuu, tranquillo. «Diventerò detective, e anche prima di quanto ha fatto Crowley! Quando ci riuscirò smetterà di accarezzarmi la testa come fossi un bambino!»

Mika riuscì a fare un sorriso molto spontaneo.

«Quando dici queste cose sei proprio come un bambino.»

«Disse l’uomo navigato che si mise in testa di festeggiare Halloween per la prima volta nella vita alla veneranda età di diciotto anni.»

«Lo si dovrà pure fare prima o poi, e meglio adesso di quando saremo troppo vecchi, incupiti e occupati per farlo.»

«Parla per te, io non sarò mai incupito!»

Dopo questo scambio la tensione di poco prima fu come mai esistita e rimasero in compagnia della radio fino al momento in cui parcheggiarono nel garage di Crowley: tutto taceva e si convinsero che non si fosse accorto della scomparsa della sua auto. Mika prese due buste dal sedile posteriore con un lieve sospiro di sollievo e Yuu prese la sua, enorme, dall’altro lato.

«Dici che ce lo troviamo davanti alla porta con la pistola puntata?»

«No, probabilmente non si è accorto di niente… in fondo siamo usciti presto. Ieri sera hanno fatto tardi, li abbiamo sentiti parlare a letto per ore, no?»

«È la prima volta che sono felice che le nostre camere da letto non siano insonorizzate.» convenne a suo modo Yuu, seguendo il fidanzato verso l’ingresso. «Visto com’erano ridotti ieri pomeriggio è stato bello sapere che si parlano di nuovo, e tanto.»

«Però in effetti, qualcosa di strano c’è, no?»

«Cioè?»

Mika non rispose, guardando la luce dell’ascensore che scendeva di piano in piano, e scambiò un’occhiata preoccupata con Yuu, che si precipitò alle scale.

«Andiamo, sbrigati! Se è lui non ci deve vedere!»

Mikaela e Yuu fecero due piani di corsa e si appiattirono contro la parete il più possibile, ma quando l’ascensore attraversò il terzo piano videro che all’interno c’era una donna con una ragazzina. Del loro imponente vicino neppure il sentore.

«Via libera, è solo la maestra del settimo piano.» fece Yuu con un sospiro leggermente affannoso. «Comunque è meglio se saliamo dalle scale, lui prenderebbe l’ascensore per scendere se notasse qualcosa.»

«Ormai la macchina l’abbiamo riportata, se non se n’era accorto finora…»

«E poi se saliamo a piedi facciamo meno rumore che con quella gabbia infernale.»

«Beh, come vuoi.» si arrese Mikaela, e prese le buste stringendo i manici più comodamente. «Andiamo.»

Iniziarono quindi a salire le oltre venti rampe di scale rimaste, ma ne avevano salite solo tre quando a Yuu tornò in mente qualcosa.

«Che cosa stavi dicendo, prima?»

«Prima?»

«Della cosa che ti sembra strana.»

«Ah… non è niente di che.»

«Dai, mi hai incuriosito!»

Mikaela tossicchiò come a schiarirsi la gola, ma non era sicuro di voler dar voce a quel pensiero, tutto sommato spicciolo e superficiale. Ma come sempre si fidò del suo interlocutore.

«Non è niente… solo… ormai lo sappiamo com’è Crowley, e la nostra camera da letto è affiancata alla sua… tu l’hai sentito fare qualcosa da quando Ferid vive con lui?»

«Uhmm… no, mi pare proprio di no.»

«E non ti pare, beh… strano?»

«Un sacco strano.» concordò Yuu. «Anche perché Ferid gli piace un sacco, no? E a Ferid piace lui, l’altra volta mi raccontava certe cose che gli diceva...»

«Ferid te lo raccontava?»

«No, Crowley mi raccontava di cosa diceva Ferid! E in effetti è proprio strano, da quanto tempo sta con lui?»

«Metà settembre, più o meno?»

«Metà settembre! Un mese e mezzo nello stesso letto e niente?» protestò Yuu, in tono quasi aggressivo, come se qualcuno volesse ingannarlo con una sciocca bugia. «Ehi, non è che Ferid è di una qualche religione strana e non fa sesso prima del matrimonio?»

«O potrebbe essere addirittura un eunuco!» fece Mika in una piuttosto palese canzonatura.

«È vero! Mika, sei veramente intelligente!»

«E tu sei un vero scemo… guarda che stavo scherzando…»

«Ma se fosse vero?»

«Ma figurati. Chi viene evirato di questi tempi, in paesi civilizzati?»

«Invece è diffusissimo! Anche il mio collega Yashim, è per una questione religiosa!»

Mikaela sospirò nel modo più silenzioso che riuscisse; sapeva di urtarlo quando lo faceva, ma gli veniva fin troppo naturale in situazioni simili.

«Yuu-chan, quella non è evirazione, è circoncisione, e quella non impedisce di avere rapporti sessuali e di avere figli.»

«Ohh… ma quindi, perché?»

Mika scrollò le spalle.

«Non lo so, me lo sono chiesto così, ma non sono stato a pensarci… forse a Crowley piace ma fisicamente no, che dici? Non ho mai visto un uomo coi capelli lunghi tra quelli con cui usciva.»

«No, non ne ricordo nemmeno io, ma… non credo sia questo.»

«Ma sarebbe da maleducati andargli a chiedere perché non l’abbiamo ancora sentito andare a letto con Ferid, quindi facciamo prima a metterci l’anima in pace.»

«Magari la tua idea smuove le cose, chi lo sa!»

«Chi lo sa.»

Erano un po’ a corto di fiato con qualche rampa d’anticipo con tutto quel chiacchiericcio, e il discorso venne abbandonato fino a che qualcosa nella busta di Mika non si impigliò rumorosamente nella ringhiera delle scale e lui dovette liberarla, imprecando sottovoce.

«Dovevi prenderla così grande?»

«È per Ferid, no? Lui è alto, dev’essere proporzionata.»

«Certo sei precisino tu, eh? Ma sei sicuro della sua taglia, Mika?»

«Certo che sono sicuro.»

«E come fai a saperla così per certo? Gliel’hai chiesta?»

«L’hai dimenticato? Per un po’ si è messo la mia tuta da ginnastica e gli stava bene, è bastato ricordarsi la taglia di quella.»

«Ooh.» fece Yuu, finalmente libero dal dubbio. «Ecco, mi pareva strano.»

«E tu, invece, sei sicuro della taglia di Crowley?»

«Stai scherzando, vero? Conosco la sua taglia bene come la tua.»

L’occhiata assassina che gli stava lanciando gli mise i brividi e si affrettò a chiarire quel punto.

«Il b-bucato, Mika! Il bucato! Vedo le taglie che porta quando faccio il suo bucato!»

Lo sguardo si ammorbidì ma non si placò del tutto.

«Ma sei sicuro? Non tutte le marche hanno la stessa misura.»

«Altezza un metro e novantuno centimetri per ottantanove chili di peso.» disse Yuu, vagamente offeso. «Vuoi che ti dica la circonferenza del suo torace?»

Mika restò in silenzio a guardarlo assumendo un’espressione preoccupata.

«Yuu-chan, la tua ossessione rasenta lo stalking.»

«È scritto nella sua scheda in palestra, perché dividono le sessioni per categorie di peso!»

«Quindi sei andato davvero alla sua palestra.»

«Lo sapevi che avevo iniziato!»

«Sì, ma non che avessi iniziato nella sua palestra.»

«Ma qual è il problema, Mika?» fece Yuu, fermandosi sul pianerottolo successivo per girarsi a guardarlo con un’espressione serena specchio della più innocente delle anime. «Non sei geloso, no? Non mi piacerà mai quanto mi piaci tu, e non lo adorerò mai nel modo in cui adoro te!»

«No?» fu la replica apparentemente indifferente.

Yuu lo guardò sorpreso, poi fece un sorriso; un certo sorrisetto da vecchia volpe che Mika poteva ricollegare a una serie di momenti piacevolmente memorabili.

«Cioè, vuoi dire tu pensi davvero che io possa fare con Crowley tutto quello che faccio con te? Che io e lui possiamo trovare una comunione spirituale come quella che abbiamo trovato io e te in tutti questi anni insieme? Dai, lo pensi? Rispondi.»

Mika tacque ma scosse la testa, facendo ondeggiare leggermente i suoi bei capelli mossi e dorati: Yuu avrebbe avuto una voglia matta di accarezzarglieli, ma quando ci provò il peso della busta lo sbilanciò; non cadde ma perse il momento buono quando Mika proseguì e lo superò per l’ultima rampa.

«So che tra noi due c’è qualcosa di unico e lui non potrà mai eguagliarlo… ma la tua ossessione è comunque imbarazzante. Guarda che ti ho visto misurarti il torace domenica.»

«… È per misurare la massa muscolare, cosa credi!»

«E confrontarla con la sua?»

«Un giorno!»

Mika rise, ma spense la sua ilarità in fretta poiché era arrivato al pianerottolo del dodicesimo piano.

«Cosa facciamo, Yuu-chan? Bussiamo ora?»

«Dovremmo dirglielo subito… e poi potrebbero anche avere dei programmi!»

«E quando li hanno fatti, che non si parlano da una settimana?»

«Solo da qualche giorno… e potrebbero aver deciso molto prima!»

«Aspetta… vedo se sono svegli.»

Mika accostò l’orecchio contro la parete e ascoltò con attenzione per una decina di secondi, poi sorrise.

«Sento i rumori della cucina, qualcuno è sveglio. Bussiamo adesso?»

«Beh, perché aspettare?» rispose Yuu, che a stento tratteneva l’eccitazione.

Mika allora bussò con insolito entusiasmo e Yuu sperò davvero che i vicini decidessero di aggregarsi ai festeggiamenti, perché era motivo di gioia per lui vedere il suo Mika, sempre così tiepido nei confronti delle altre persone, agire con tanto trasporto.

La porta venne aperta da Ferid, che indossava la sua vestaglia color cremisi apparentemente sulla pelle nuda e portava sciolta la sua lunghissima cascata di capelli argentati. Non appena li vide fece un sorriso che suggerì a Yuu che tutto si fosse messo per il meglio con Crowley, ma prima che aprisse bocca arrivò a passi pesanti proprio quest’ultimo.

«Ferid, non aprire la porta!»

«Ma sono i tuoi vicini, Crowley caro.»

«Non hai nemmeno guardato dallo spioncino!»

«Perché i tuoi vicini bussano, Crowley caro, chiunque altro suonerebbe il campanello.»

Crowley esibì una delle sue buffe smorfie che stava a significare “anche questo è vero” e guardò i due ragazzi, sorridendogli.

«Ciao, ragazzi. Come vedete non riesco a insegnare a quest’uomo la favola dei sette capretti.»

«I sette capretti?» domandò Mika, confuso.

«Beh, in una casa vivono sette capretti con la madre, e…»

«È una favola che vuole insegnare ai bambini che se mamma dice una cosa ha i suoi motivi.» l’interruppe Ferid. «E che bisogna ascoltarla, niente di particolarmente originale~»

«Quindi lo sai che dovresti ascoltarmi.»

«Mica sei mia madre… per fortuna~» replicò Ferid, e guardò i ragazzi. «Stavamo per fare colazione, vi unite a noi?»

«Curioso, io e Mika avevamo in mente la stessa domanda!»

«Mh?»

«Io e Yuu-chan vogliamo uscire e festeggiare Halloween in costume stasera.» spiegò Mika che, all’occhio allenato di Yuu era evidente, si conteneva a fatica. «Vi va di venire con noi? Siete chiusi qui da una vita.»

«Ma eravamo fuori giusto sabato scorso.» obiettò Ferid, e si indicò la faccia ancora segnata. «Ricordi?»

«Già, e non è andata bene, quindi riproviamo?»

«Stavolta ci saremo anche io e Mika, non ti può succedere niente!»

«Non avevo paura, ma…»

Ferid rivolse uno sguardo a Crowley con un sorriso enigmatico, che lo ricambiò.

«Oggi è giovedì.» gli disse, e Yuu non afferrò il senso del commento. «Che cosa vuoi fare, Ferid?»

«Potrebbe essere divertente… ma tu? Stai bene?»

Ferid appoggiò la mano sul petto di Crowley e lui gli accarezzò fugacemente la spalla con un gesto discretamente tenero.

Oh oh, sta andando proprio bene, eh?

«Sto bene, mi hanno controllato domenica, ricordi? Nessun problema.» rispose lui a voce più bassa. «Piuttosto, vuoi uscire? Sarebbe la tua serata di lettura. Cosa preferisci fare?»

«Non sono mai uscito in costume per Halloween, è divertente?»

«Non lo so. Io sono cattolico, non ho mai festeggiato Halloween.» commentò Crowley. «Ma in fondo non sarà così male, se usciamo insieme troveremo qualcosa di divertente da fare… anzi, sai cosa? Ricordi che ti dicevo che ti avrei portato a North End per farti vedere il quartiere dove vivevo da ragazzo? Andiamoci oggi.»

«Oh, sembra che tu ti sia eccitato, Crowley tesoro~ quand’è così non posso certo tirarmi indietro~»

«Allora è deciso!» intervenne Yuu, e sollevò la busta rigonfia. «Io e Mika abbiamo preso i costumi anche per voi, a noleggio!»

«Ehh, davvero?»

«Era una sorpresa… abbiamo sentito che parlavate tanto, ieri sera, e abbiamo pensato aveste fatto pace.» disse Mika, alzando la busta con il costume che aveva scelto per Ferid. «E ci sembrava una… bella idea uscire tutti insieme, per una volta.»

«Avanti, Mika, dillo che è stata una tua idea! Era proprio eccitatissimo, non stava neanche seduto mentre aspettava che il negozio aprisse!»

«Yuu-chan!»

Crowley sorrise più convinto e Ferid emise una risatina sommessa, prendendo la busta che Mika gli porgeva.

«Grazie, Mika, sei un ragazzo veramente dolce~ ah, ti prego, dimmi che non mi farai vestire da vampiro!»

«Non sceglierei mai un costume così di cattivo gusto, visto che ti hanno sempre sospettato di essere il Vampiro di West End.» ribatté Mika, scontroso come ogni volta che gli si faceva un complimento.

«Che ti dicevo? Ragazzo dolce~»

«Guarda che io lo so già.» commentò Crowley divertito.

«Anch’io lo so!» rincarò Yuu.

«Oh, ma quindi lo sappiamo tutti!»

«B-beh, ci vediamo più tardi, allora.»

Mika si defilò con falsa naturalezza nell’appartamento accanto, e Yuu fece un gran sorriso.

«Ah, ho messo il mio costume insieme al tuo, Crowley. Te lo porto più tardi quando riesco a separarli.»

«Sì, sì, tranquillo.»

Yuu non trattenne un sorrisetto di orgogliosa soddisfazione quando vide il suo mentore scambiarsi un bacio sulle labbra con il suo coinquilino come fosse del tutto dimentico di qualsiasi altra cosa al mondo: quella riappacificazione era anche merito suo e sentì di aver un po’ ripagato la benevolenza che Crowley aveva dimostrato a due ragazzini orfani e sprovveduti che erano arrivati in quel palazzo due anni prima.

 

Erano quasi le nove quando Crowley sentì le voci dei suoi vicini alla porta intavolare una discussione con Ferid sui costumi di quella sera, e con aria rassegnata si infilò il costume nero stando in un angolo della camera da letto, come se inconsciamente tentasse di nascondersi.

«Crowley non è pronto?»

«Tesoro~ sei pronto?»

«Al diavolo, Ferid.» ribatté lui, accigliandosi.

Lo sentì ridacchiare divertito e provò il desiderio di andare di là a fargli implorare perdono andando a stuzzicare i suoi punti deboli che ormai conosceva bene, ma voleva rimandare il momento di mostrarsi il più a lungo possibile.

«Non avrete litigato di nuovo?» chiese Mika, incredulo.

«Ma noi non abbiamo mai litigato! No, credo che sia in imbarazzo per quel costume, Yuu-chan

«Ma cosa? Ma se è bellissimo! Non gli è piaciuto?»

«Ha detto che… oh, no, è troppo folkloristico per perderne la magia parafrasandolo, quindi lo dirò come l’ha detto lui: “quale di quelle due pestilenze ha affogato il cervello così tanto da scegliere questo costume?”»

«Pe-pestilenze?»

«Sì, non è un’espressione deliziosa?»

«Non proprio…» commentò Mika esitante. «Quindi non lo metterà?»

«Bella domanda!» fece Ferid, e i suoi passi si avvicinarono fino alla porta. «Tesoro, allora te lo metti o no, quel costume delizioso~?»

«Guarda che l’ho capito, sai? Tu definisci delizioso tutto quello che trovi buffo e imbarazzante.»

«Oh, perché, io ti sembro conciato meglio?»

Crowley lanciò un’occhiata vagamente seccata al costume di Ferid, che era una sufficientemente dignitosa tenuta da spadaccino con un apprezzabile tocco fantasy medievale con tanto di fioretto alla cintola e mantello marrone, e si limitò a fissare gli occhi blu nei suoi. Lui rise e si avvicinò.

«Dai, non è così male! Hai tutti gli altri giorni della vita per vestirti sobrio e tremendamente irresistibile~»

«Quindi lo pensi che è ridicolo.»

«No, penso solo che non è sobrio.» lo corresse lui. «Ti aiuto con la lampo?»

«Aiutami con la vergogna.» si trovò a mormorare Crowley suo malgrado, voltandogli le spalle.

«Crowley, non è la fine del mondo, vedessi com’è conciato Yuu-chan non ti sentiresti in imbarazzo!»

«Perché, da cosa è vestito?»

«Lo vedrai~»

Ferid chiuse la lampo sulla sua schiena stringendogli addosso la tuta nera attillata e Crowley fece del suo meglio per non guardare superfici riflettenti mentre tentava di raccapezzarsi sugli accessori pelosi; non avrebbe concluso molto senza l’aiuto di Ferid, che gli illustrò il loro collocamento come fosse un esperto costumista di teatro.

«Eccoti, sei pronto~» annunciò Ferid, e gli tirò sulla testa il cappuccio peloso con un sorrisetto divertito. «Ah~ sei adorabile~»

Il commento l’avrebbe probabilmente indispettito se non fosse stato prontamente seguito da un bacio a dir poco incandescente che lo prese di sorpresa, ma al quale si abbandonò con trasporto. Almeno finché non sentì un paio di mani scivolare giù dalla sua schiena e palparlo senza remore.

«Ferid.»

«Mh~?»

«Così spudoratamente?»

«Perché, non posso?»

«Puoi, ma non quando ci sono i vicini che aspettano alla porta.»

Ferid esibì un sorrisetto e gli si accostò all’orecchio.

«Vuoi dire che non ti piacerebbe farlo di fretta e di nascosto mentre qualcun altro aspetta ignaro nell’altra stanza?»

«Ferid, che perversione… mi piace questo tuo lato, anche se mi piace anche quando fingi la più totale integrità morale, perché ti riesce bene e fa ridere.»

«Ah, come sarebbe, fingi l’integrità morale? Lei mi sta offendendo, messere, freni la lingua o gliela taglierò via da quella bocca insolente con la mia spada!»

Crowley scoppiò in una risata divertita, come ogni volta che Ferid rispolverava il suo vocabolario antico che lo faceva sembrare un attore della tragedia shakespeariana; lui aveva notato da qualche tempo che reazioni suscitava e lo usava di proposito quando voleva mettergli allegria. Nonostante il costume attillato in modo imbarazzante e ridicolo sotto diversi aspetti si sentì decisamente più ottimista riguardo alla serata.

«Sei pronto?» gli chiese di nuovo Ferid, più dolcemente.

«Sì, ma puoi portare tu la mia roba? Tu almeno hai la cintura…»

«Certo che posso, amore~»

Ferid aprì il borsello appeso alla sua cintura, parte del suo costume, e lasciò che Crowley ci ficcasse dentro il cellulare e qualche altro effetto.

«Ferid, tu sei veramente il tipo che chiama i suoi fidanzati “amore” e “tesoro”?»

«Non va bene? Vuoi che ti chiami “detective Eusford” come fa tua madre con tuo padre?»

«No, mi chiedevo solo se non stessi enfatizzando di proposito… se non stessi recitando la parte, insomma.»

Si pentì subito di averlo detto, e di aver scelto quelle parole, perché anche se impercettibilmente Ferid si rabbuiò e il suo sorriso si raffreddò appena.

«Scusami.» si affrettò a dirgli. «Perdonami, non volevo dire che stai fingendo, volevo solo dire…»

«Sto molto bene con te, Crowley… ma non sono ancora sicuro di volerti lasciare il fardello di quest’uomo strano. Detto ciò, hai ragione: non ho mai chiamato nessuno “amore” o “tesoro” se non Krul, per irritarla… ma suona così bene, no?»

Crowley chiuse il borsello, pensieroso, e lo guardò dritto negli occhi.

«Ricordi cosa ti dissi quella volta, no? Qualsiasi tipo di uomo, purché sia vero

Ferid esibì un sorriso forzato e indossò la maschera a metà che Mikaela gli aveva scelto per consentirgli di coprire quasi del tutto i segni lasciati sul viso dall’aggressione.

«Buffo, detto a un uomo che indossa un costume e una maschera.»

«Ferid, non scappare.»

«Non sto scappando, sono qui.»

«Non scappare con le parole.» rettificò Crowley, con una punta di impazienza.

«Non è che sto fingendo solo perché uso dei nomignoli mai usati prima… ero troppo in imbarazzo con Bobby per chiamarlo così a quell’età, e Claude era un uomo che… beh, non era il suo genere, capisci? Di tanto in tanto penso di averlo chiamato “mio caro”, come faceva lui con me, ma… diciamo che non ho avuto un’effettiva occasione di usarli.» ponderò Ferid guardando il soffitto e toccandosi il mento, come ragionando tra sé e sé ad alta voce. «E poi, tu sei davvero un tesoro, Crowley.»

Ferid perse quell’aria stralunata e lo guardò.

«Mi serviva un costume da pirata, sarebbe stato molto adatto a chi protegge un tesoro~»

«Tu, un pirata? In mare per mesi su una bagnarola, senza poterti fare un bagno e pulire decentemente, in mezzo a uomini che puzzano di pesce e di sudore? Assurdità.»

«Uhh… che brutto quadro hai dipinto, Crowley… ma in effetti, anche realistico, a pensarci.»

Le loro discussioni sui pirati vennero interrotte da Yuu, che li chiamò dall’ingresso.

«Tutto molto bello, ma ci potremmo sbrigare?!»

«Oh, sì! Oh… prima tu, Crowley~»

Ferid si fermò per cedergli il passo fuori dalla camera, per motivi che Crowley non comprese finché non fu uscito dalla porta e sentì la coda pelosa del costume frenarlo leggermente.

«Ah, ecco perché volevi starmi dietro… ti eccita un sacco questo costume, perché?»

«Pensavo di averti fornito un ampio bagaglio di conoscenze riguardo vampiri e licantropi~»

Lo sguardo attonito ben poco dissimulato di Mikaela e il sorriso di Yuu gli dissero senza ombra di dubbio chi dei due avesse scelto il suo costume di Halloween; ma qualsiasi piano di ritorsione gli fosse venuto in mente sparì quando il ragazzo biondo spostandosi di un passo gli permise di vedere chiaramente il costume di Yuu.

Crowley guardò nell’insieme l’abito rosso con la gonna leggermente gonfiata da una rete di sostegno in stecchetti di plastica, le calze a rete sulle gambe magre del ragazzo, le scarpette rosse con un fiocco nero di pizzo, il tutto coronato da piccole corna finte, alette di pipistrello sulla schiena e guanti di pizzo nero con fiocchetti rossi. Scoppiò a ridere nel momento stesso in cui incrociò gli occhi verdi del suo vicino, del tutto dimentico dell’imbarazzo di quel costume stretto e peloso.

«Che hai da ridere, ehi!»

«Ma che… che…» boccheggiò, stentando a prendere fiato per il gran ridere. «Che diavolo ti sei messo?!»

«Sono una Succuba, okay? Una Succuba!»

«Ma che accidenti è?»

«È un demone femmina.» rispose subito Ferid, che sembrava del tutto incapace di non spiegare qualsiasi termine esoterico venisse pronunciato in una conversazione. «Un demone di irresistibile bellezza che seduce gli uomini per indurli al peccato e per nutrirsi della loro energia vitale durante il coito~»

«La solita biblioteca vivente.» commentò Crowley, e guardò Yuu. «Ma tu come lo sapevi?»

«Crowley, devi guardare la televisione, e devi guardare stupide serie tv e film trash.»

Fu inutile tentare di spiegare all’irlandese che cosa si perdesse in termini di cultura di massa bombardandosi per lo più di vecchi film e documentari, e per quanto venisse accusato di essere un chiesarolo senza speranza Crowley rimase dell’idea di evitare tutti i film horror che meritassero di essere bollati come spazzatura. Anche a costo di far tenere a Yuu quel buffo broncio per le prossime settimane.

 

 

«Quella casa è disabitata fin da quando ero bambino e ci entravamo per fare le prove di coraggio di notte… questa strada era più degradata allora, non c’erano lampioni ed era davvero buia come una cantina se non c’era luna…»

Crowley si rese conto che stava parlando pressoché ininterrottamente da un quarto d’ora, illustrando il quartiere dove era vissuto da ragazzo con dovizia di aneddoti ai suoi compagni, in particolar modo a Ferid. Tacque e gli lanciò uno sguardo, scoprendo che si guardava intorno con aria vivacemente curiosa. Da quando erano scesi dall’auto si era tenuto stretto al suo braccio, ma non gli pareva spaventato e fu felice di scoprirlo.

«Beh… allora, che ne pensi?»

«È un quartiere grazioso adesso.» osservò Ferid. «Ci sono delle case ben tenute e la strada ha un che di romantico con questi lampioncini a lanterna~»

«Mh? Tu dici?»

Crowley lanciò uno sguardo perplesso alle lanterne dalla luce aranciata. Non era un uomo così sensibile da trovare il romanticismo nella luce del tramonto, nell’architettura dei palazzi, nella neve che cadeva o in una fila di lampioni vecchio stile. Il massimo concetto di atmosfera romantica per lui era avere il mare come sottofondo, perché lo associava ad alcuni episodi effettivamente romantici legati alle sue storie precedenti, tra le quali la sua primissima cotta per una bambina di nome Emma.

Scosse appena la testa per allontanare quelle remote memorie e sorrise.

«Ma sono contento che ti piaccia il mio vecchio quartiere… ho tanti bei ricordi di giornate passate in queste strade, e di alcuni negozi che ci sono ancora oggi… non tanti quanti ne ho di Eanverness, ma ho passato momenti belli e divertenti anche qui!»

«Eanverness?»

«È la cittadina dove vivono i miei parenti in West Virginia… circa ottomila anime, circondata da ranch e campi coltivati per chilometri, e annidata sul versante degli Appalachi.»

La nostalgia improvvisa che sentì non passò inosservata nel suo gruppetto: Mikaela e Yuu si scambiarono un’occhiata piena di contentezza dato che per la prima volta lo sentivano parlare di quella parte della sua vita, e Ferid smise di guardarsi intorno e concentrò su di lui tutta la sua attenzione.

«Che posto è? Raccontaci qualcosa.»

«Ah… è solo… Eanverness.» commentò lui, ridendo. «Una cittadina in cui conosci tutti per dritto o per rovescio, perché se non conosci una persona ne conosci di certo almeno una che è sua parente, sua amica o sua collega… c’è la chiesa cattolica di San Marco, che è vecchia di duecento anni, tutta in legno bianco che sembra una cartolina a vederla, e…»

In quel momento non c’erano lampioni, vecchie case disabitate, marciapiedi con pietre in due colori e bambini e ragazzini in costume intorno a lui: era come se fosse tornato a casa.

«Dalla strada che esce dalla città verso il Potomac devi fare sette chilometri per arrivare alla proprietà degli O’Brian… e in mezzo a una distesa immensa di mais e di cereali vedrai il granaio rosso… e una casa bianca con le tende verdi, il colore preferito di nonna Susan, con la veranda davanti e di dietro, e i recinti delle mucche rimangono sulla sinistra, e…»

Crowley si rese conto di non essere in marcia sulla stradina dissestata che tagliava i campi verso la proprietà dei nonni e tornò presente in Holly Street: vide che le tre persone che aveva vicino lo stavano guardando, presi dal suo racconto quanto lui, e che aveva allungato la mano in avanti come avesse desiderato aprire la porta sempre accostata della cucina di Susan per entrare a salutarla e chiederle cosa stava cucinando.

Sorrise incerto e cercò di dissimulare scrollando le spalle.

«È un bel posto se ti piace la campagna… magari quando il caso sarà chiuso e tornerò dai miei parenti potresti venire anche tu.»

Ferid venne preso in contropiede da quell’offerta. Crowley non li notò, ma Mikaela lo guardò sorpreso e Yuu alzò il pugno in aria in un gesto trionfante che nemmeno il suo fidanzato riuscì a spiegarsi.

«I-io?»

«Sì, tu. Magari in inverno non è il massimo, ma quando i boschi sono innevati il panorama è suggestivo… c’è un punto senza alberi dove Virgil porta i bambini a giocare con lo slittino e…»

«Io, con te… dai tuoi parenti?»

Fu allora che Crowley colse il nocciolo di tanto stupore e si rese conto d’aver parlato senza riflettere, ma non pensò nemmeno per un attimo di ritrattare.

«Perché no? Ci vorrà ancora un po’ per chiudere il caso, io sarò del tutto rimesso, e… potresti prendere una piccola vacanza prima di tornare al tuo appartamento e al tuo lavoro… è un posto davvero bello, anche la città. Sono sicuro che ti piacerebbe… se non ti dà troppo fastidio l’odore del bestiame.»

Ferid emise una risatina divertita e strinse un po’ di più il suo braccio.

«Non può essere peggio dei cavalli, no? Va bene, vengo.» acconsentì lui, stupendolo. «Voglio vedere questo fienile… mi piace l’odore del fieno.»

Il gruppetto attraversò il vecchio quartiere di Crowley, passarono davanti all’alta cancellata della San Cristoforo – sulle cui finestre era severamente vietato apporre la minima decorazione di Halloween o una zucca, raccontò l’ex allievo – ammirandone l’ampio cortile e le volte ad arco che decoravano l’ingresso, il campanile gotico e le vetrate colorate con la colomba che era lo stemma della scuola; dopo aver ascoltato una buffa storia sull’amico Martin e quell’albero di quercia nel mezzo del prato proseguirono oltre e tornarono verso una zona più vivace, avvicinandosi alle vie principali di quella parte del North End.

Qui i gruppi di bambini andavano dai terzetti con costumi abbinati a grandi manipoli accompagnati da qualche parente più grande per una caccia al dolce: fu uno di questi nutriti nugoli a cominciare a strepitare alla vista del costume di Mika.

«Mothman! Guarda, mamma, è Mothman!»

«Ohh, è vero!»

«L’Uomo Falena!»

In un attimo gli furono tutti intorno, neanche fosse stato una celebrità del più popolare show per bambini, e Mikaela si ritrovò a distribuire caramelle gommose e carezze sulla testa ai suoi piccoli ammiratori. Crowley, dal canto suo, non sapeva che cosa pensare e sperando di non farsi notare da Yuu si affiancò a Ferid.

«Ferid, chi è Mothman?»

«Oh, cielo, Crowley, veramente?»

«… Dovrei saperlo?»

«Eppure vivi in questo paese, come fai a non conoscerne neanche il folklore? E i tuoi sono del West Virginia!»

«È di quelle zone?»

«I primi avvistamenti dell’Uomo Falena sono stati segnalati a Point Pleasant, in West Virginia, negli anni 60.» snocciolò Ferid, che era sempre così adorabile, secondo Crowley, quando si metteva a insegnare. «Si ritiene che l’Uomo Falena sia alto circa due metri o qualcosa di più, sia coperto di peluria marrone scuro e abbia ali e antenne come di una falena. Le teorie sul suo coinvolgimento nel crollo del Silver Bridge sono ancora argomento di speculazione su internet, come fai a non averne mai sentito parlare?»

«Io frequentavo ambienti di chiesa, si parla di serpenti, di mele, di acque rosse e di locuste, non di Uomini Falena.»

Ferid ostentò uno sbadiglio totalmente finto.

«Yawh… che noia di uomo, Cro-ahh~!»

Ferid si contorse bruscamente per cercare di sottrarsi allo spietato attacco di Crowley ai suoi punti sensibili al solletico, con poco successo: alla sua risata convulsa furono parecchi i bambini e i ragazzini a guardare lo spadaccino perdere il cappello mentre soccombeva allo strano attacco di un enorme cane nero.

 

 

«Non posso credere che tu l’abbia fatto davanti a tutti quei bambini, Crowley.»

Crowley scrollò le spalle con aria divertita, per niente rabbuiato dal rimbrotto di Mikaela.

«Non era niente, giocavamo!»

«Alla faccia! Guarda qua che segno!»

Mika accennò al segno che aveva lasciato coi denti, in realtà un sottile arco rosso, sulla pelle tra il collo e la spalla di Ferid.

«Ma a lui piace.»

Nemmeno il puntiglioso Mikaela poté ribattere su quel punto, perché in effetti Ferid aveva l’aria svagata e felice di una sposina che sta fantasticando sul suo Grande Giorno: era così sopraffatto da non trovare nemmeno qualcosa da dire e si stava limitando a canticchiare mentre Mika gli prestava le “dovute cure”, pomposamente dette da lui medesimo.

Yuu si chinò su Ferid, che stava seduto sul bordo di una fioriera, scrutando con aria critica.

«Ma va’, Mika, si vede appena! Io ti faccio molto peggio!»

Il viso, che era l’unica parte dell’Uomo Falena visibile in quel costume scuro, arrossì vistosamente.

«Ma non lo fai davanti a dozzine di bambini e adulti estranei!»

«Rilassati, Mikaela… è Halloween, i bambini si saranno divertiti a vedere un grosso lupo mannaro mordere uno spadaccino per strada. Si divertono a vedere scene del genere, lo racconteranno agli amichetti che non c’erano e per un po’ saremo gli eroi delle loro giornate.»

«Ma tu non sei un lupo mannaro.» osservò Yuu, corrucciato.

«Certo che non lo sono, è solo un costume.»

«No, voglio dire, non è un costume da lupo mannaro, quello.»

Crowley fu in parte sollevato di vedere che Mika era perplesso quanto lui, e che Ferid smetteva di fingere di alienarsi per occhieggiare il costume con le sopracciglia aggrottate. Yuu s’indignò come gli avessero offeso l’onore di gentiluomo e guardò, con ulteriore stupore del consesso, Ferid.

«Avanti, tu dovevi capirlo! Sei inglese, no?!»

Ferid lasciò vagare gli occhi celesti sul viso del diavoletto tentatore e poi sul costume nero con la coda pelosa: dovette arrivare a una qualche risoluzione, perché il suo volto si illuminò.

«Oh, certo~ il cane nero

«Quello!» annunciò Yuu, trionfale, ma durò poco davanti alla perplessità degli altri due. «Oh, andiamo, ma siete davvero ignoranti!»

Crowley e Mikaela si scambiarono un’occhiata incredula: Yuu era un ragazzo dai molti pregi, ma era ben difficile che riuscisse ad accusare chicchessia di essere un ignorante, non brillando di cultura come brillavano i suoi occhi verdi da gatto.

«Il cane nero in Gran Bretagna è una specie di fantasma, un messaggero dell’inferno… e dicono che chi lo vede o lo sente raspare o ringhiare è vicino alla morte.» spiegò Ferid, che quella sera aveva davvero da divertirsi a stare in cattedra. «Vedere un grosso cane scuro è considerato un presagio di sfortuna, di grande sfortuna!»

«Ah, quindi porto sfortuna, Yuu? Non è carino da parte tua.»

Yuu perse il sorriso dopo un attimo di smarrimento.

«N-no, no! Non era questo il senso, non l’ho preso per questo motivo…!»

Poi si accorse che Crowley, dietro la mano guantata, stava sorridendo e capì di essere caduto del tranello.

«Ahah, divertente, Crowley.»

«In effetti sì.»

«Però sul serio, come mai un costume così… bello?» domandò Ferid, rimettendosi a tirare leggermente la coda pelosa come un bambino dispettoso.

Crowley se la riprese con una certa stizza.

«Se la strappi poi ti strappo io.»

«Oh, quanto suona sexy, amore~»

Crowley suo malgrado non riuscì a tenergli un’espressione seria, anche se evitò di ridere.

«Tu sei veramente toccato, Ferid.»

Lui sorrise malizioso e accavallò le gambe troppo lentamente, con un movimento troppo misurato per essere stato fatto meno che con l’intento di stuzzicare la sua fantasia.

«Non ancora abbastanza per i miei gusti.»

«… Ferid, non davanti ai ragazzi, li turbi.» tagliò corto il poliziotto. «Andiamo a cercare un posto dove fanno lo spice pumpkin? Non è Halloween senza lo spice pumpkin.»

«Ho visto dei ragazzini con bicchiere in mano venire dal di là!» annunciò Yuu, indicando la direzione. «Lo spice pumpkin dev’essere bevuto caldo, quindi se non l’avevano ancora finito devono averlo comprato qui vicino!»

«Oh, ottima deduzione, Yuu.» fece Crowley, prendendo la mano di Ferid per tirarlo in piedi.

«È ironia?»

«No, niente affatto. È una deduzione semplice, ma sei stato acuto a notarli prima che decidessimo di prendere da bere.»

Yuu, come al solito, reagì al complimento del suo mentore con un picco di entusiasmo e guidò la spedizione del gruppo alla ricerca della caffetteria come un condottiero alla scoperta del Nuovo Mondo. Mika lo seguì accelerando il passo, mentre gli altri due non si scomodarono a seguirlo da troppo vicino.

«Non è dolce?»

«Mh? Beh, non sarà la fine del mondo per un po’ di panna, no?»

Ferid ridacchiò.

«Parlavo di Yuu-chan… non è dolce vedere come si comporta con te? Si vede che ci tiene a essere riconosciuto da te… sembrate un po’ padre e figlio~»

«Uh? Davvero?»

«Siete carini insieme… dà un senso di serenità guardare a un rapporto così tenero tra genitori e figli…»

«Ma Yuu non è mio…»

La voce gli si spense nel vuoto quando guardò l’aria triste che aveva negli occhi, per nulla coperta né dalla mezza maschera né dal sorriso.

«Ehi… già altre volte hai accennato qualcosa del genere riguardo ai figli, e… il tuo hobby di osservare i bambini mi fa pensare… Ferid, tu sei sicuro di non avere figli?»

«Hai visto culle o camerette di bambini nel mio appartamento, per caso?»

«Ferid, non sono in vena di scherzi, se hai un figlio da qualche parte lo voglio sapere subito

Lui sorrise un poco più convinto, ma a Crowley sembrò che la tristezza fosse ancora più evidente negli occhi.

«No, Crowley, non ne troverai nessuno anche cercando in ogni angolo del mondo… e non dovresti aggredirmi solo perché una volta una donna ti ha tenuto nascosto di avere una figlia e un marito.»

Crowley accusò il colpo; soprattutto perché non voleva essere così brusco nel chiederglielo. Non era arrabbiato o sospettoso, solo cercava di fare luce sul motivo di quell’aria triste.

«Non è che…»

«Perciò,» l’interruppe Ferid. «Se vuoi una famiglia con me, credo che dovrai controllare per bene se sei tu ad avere qualche bambino di cui non sai niente~»

Non è la prima volta che me lo dicono e non è neanche la prima volta che mi chiedo se davvero è così e io ne sono beatamente ignaro.

«Scusami se ti sono sembrato aggressivo.» gli disse in tono più calmo. «È solo che mi sembra che ogni volta che si parli di figli e di bambini tu diventi triste. Perché?»

«Non è nulla… me lo disse anche Liam una volta. Credo sia perché ripenso ai miei genitori, e ancora li biasimo per avermi trattato così… soprattutto papà.» rispose Ferid, in tono meditabondo, intrecciando le dita dietro la schiena. «Mamma era molto malata, so che non sapeva cosa diceva e cosa faceva… ma lui mi ha cancellato nel momento in cui ha rinunciato a curarsi di mamma. Io non ero malato… ero un bambino obbediente che voleva compiacerlo. Non è stato giusto che lui mi ignorasse così.»

Crowley annuì appena.

«Hai ragione. Ti ha lasciato crescere da solo in una casa così triste. Avrebbe dovuto esserti vicino.»

«Ogni volta che vedo dei genitori con i loro bambini penso alla mia vita, e penso… sì, penso che se io avessi dei bambini farei tutto l’opposto di quello che hanno fatto i miei.»

«E li vorresti? Dei bambini.»

Ferid scrollò le spalle, e facendo un piccolo balzo per scavalcare un gelato caduto e disciolto sul marciapiede fece tintinnare rumorosamente la sua spada fasulla.

«Non potrei mai adottare dei bambini con quello che è successo quando sono arrivato in America… qualsiasi controllo mostrerebbe che sono stato arrestato durante un’operazione contro la prostituzione minorile. Anche se non ha avuto conseguenze perché non ero coinvolto davvero, basterà per non affidarmi dei minori… senza contare che sono stato indagato nel caso del Vampiro.»

La risata che emise subito dopo era così vuota e così amara che Crowley si sentì offuscare l’umore.

«Bobby mi ha proprio rovinato la vita… se non l’avessi mai incontrato, oggi… alla mia età forse avrei un matrimonio poco felice, ma magari avrei bambini, vivrei nella casa dei miei e potrei davvero leggere in veranda tutto il tempo in cui non sono insieme alla mia prole… o magari, leggerei insieme a loro. Sarebbe stato bello.»

In quel momento Crowley vide un’immagine nella sua testa che lo sedusse tanto da fargli dimenticare che avrebbe dovuto dire qualcosa per risollevargli l’umore: rivide ancora una volta la casa bianca di nonna Susan e nonno Gideon, con Ferid seduto sul dondolo verde che la nonna aveva sistemato nella veranda sul retro. Aveva un libro in mano, l’altro braccio reggeva un bimbo di due o tre anni che teneva seduto sulla gamba, e leggeva una storia ad altri due bambini più grandi, che gli assomigliavano molto, riuniti vicino a lui sul tappeto. Muoveva le labbra ma non ne udì la voce, come se lo guardasse da lontano, come se fosse sulla strada del ritorno dalla casa di Nathaniel, e si stesse avvicinando…

«Ehi, guarda!»

L’esclamazione di Yuu, pochi metri avanti a lui, lo strappò da quella fantasia. Il ragazzo stava indicando la locandina pubblicitaria di un locale, e solo allora Crowley si rese conto di quanta strada avessero percorso mentre era così assorto a parlare con Ferid.

«Fanno una food challenge!»

«Una cosa?» domandò Ferid, avvicinandosi per leggere la locandina.

«Food challenge.» disse Mika, con ben scarso entusiasmo. «Una sfida a tempo in cui devi mangiare un’enormità di cibo grasso e pesante.»

«E a che scopo?»

«La più bassa gloria si possa pensare.» commentò il biondo, sprezzante. «Di solito il locale che lancia la sfida ha una bacheca con una foto dei vincitori. A volte c’è una maglietta o un gadget simile in premio, il pasto è gratis se riesci a vincere, e qualcuno ti offre da bere per un certo tempo dopo.»

«Qui organizzano una sfida con un mega-panino al formaggio da due chili!» fece Yuu, decisamente entusiasmato. «Due chili… io dico che posso riuscirci!»

«Più mezzo chilo di patatine fritte.» lo corresse Ferid, indicando il dettaglio scritto nella locandina. «Quindi due chili e mezzo, in quaranta minuti…»

«Assurdo.»

«Io dico che posso! Ci proviamo?! Dai, proviamo!»

«Mi scuserete se io passo, vero?» fece Ferid, divertito. «Credo che nella remota ipotesi che io possa mangiare due chili di panino al formaggio di certo sarebbe l’ultima cosa che farei in questa vita~»

«Tu vieni a mangiare qualcosa di normale e assisti alla nostra gloria! Mika, andiamo!»

«Non contare su di me.» replicò lui. «Ci vorrebbero tre anni a smaltire tutto quel colesterolo.»

Yuu sospirò frustrato e alzò gli occhi al cielo, prima di lanciare un’occhiata a Crowley.

«Che noia avere una moglie!»

Mika reagì esattamente come Yuu immaginava e i due iniziarono a beccarsi come sempre accadeva, perché Mikaela era sempre piuttosto puntiglioso sull’alimentazione e il suo fidanzato aveva voglia e bisogno di trasgressione in ogni ambito della sua vita. Crowley sorrise mentre li guardava raggiungere un accordo che aveva ben poche possibilità di essere mantenuto, e quando Yuu gli domandò se fosse della partita lui guardò Ferid.

«Tu che dici? Hai qualcosa in contrario se ci provo?»

«In contrario? Oh, no.» rispose lui con un sorriso, lasciandolo basito. «Ma non ti sforzare, okay? Devi cantare domattina, quindi vedi di non stare male~»

Non si aspettava il via libera da Ferid per fare una cosa così malsana, ma non aveva intenzione di chiedere conferma per paura che se lo rimangiasse: seguì Yuu dentro al Cheesy Corner e si appropriarono in un tavolo all’angolo, seguiti da Mika e Ferid. Quest’ultimo prese il menu e si mise a leggerlo, alla caccia di qualcosa che potesse mangiare senza che lo avvelenasse.

«Mhh, vediamo, vediamo~»

«Uh? Vuoi mangiare anche tu, Ferid?»

«Sono il tuo diet buddy, no? Se è il tuo pasto libero è anche il mio~»

Crowley pensò a tutti i pasti che gli aveva visto consumare da quando lo conosceva e concluse che la sua sregolatezza più vistosa fosse stata la sua speciale sheperd’s pie senza aggiunta di latte e burro.

«Perché, tu sei capace di sgarrare una dieta?»

«Stai scherzando, vero?»

«Lo fai? Voglio dire… cosa mangi, quando vuoi sgarrare?»

Ferid sembrò reticente a parlarne, forse perché tutti al tavolo sembravano essere interessatissimi alla sua risposta, ma la cameriera venne in suo soccorso a chiedere le loro ordinazioni. Mentre Crowley e il suo pupillo si candidavano alla Cheesy Challenge – ricevendone i dettagli elencati meccanicamente come da una segreteria telefonica – Ferid scelse e ordinò un burrito dallo stesso menu messicano dal quale Mika decise di “osare” con le fajitas con salsa piccante.

Raccolte tali ordinazioni, con le raccomandazioni di Ferid di non vedersi recapitare qualcosa con della salsa di formaggio, la cameriera virò verso la cucina.

Solo quando tornò da loro con quattro enormi bicchieri di limonata della casa e Ferid si accostò la cannuccia alle labbra Crowley decise di tornare alla carica.

«Allora, Ferid, stavi dicendo? Che cosa mangi quando vuoi trasgredire davvero?»

«Beh, dipende.» fece lui vago.

Ah, questa volta non vuoi spiegare, eh?

«Beh, io mangio un po’ di tutto sempre, quindi non è che ho molto da rivelare…»

«Io vado matto per il pollo fritto!» saltò su Yuu. «Quando festeggiamo qualcosa io e Mika prendiamo quello, o i gamberetti fritti!»

«Di rado.» precisò Mika, come se mangiare il cibo fritto fosse una macchia sullo status sociale. «Ma io… beh. Io preferisco i tacos di pesce...»

«Con la salsa coi cetriolini.» aggiunse Yuu con un sorrisetto perfido. «Un mare di salsa ai cetriolini.»

Mika pareva umiliato come se gli avessero steso il carico di biancheria intima in bella mostra sulla Madigans; arrossì in faccia e rimescolò la limonata con la cannuccia per trarsi d’impaccio almeno in parte.

«Sono più da maiali con tanta salsa.»

L’espressione così insolita per Mikaela fece ridere Crowley e Yuu e persino Ferid la trovò abbastanza divertente da allentare le sue difese. Ispirato forse dai vari talloni d’Achille rivelati, parlò quando venne nuovamente indagato con gli occhi dagli altri.

«Io… beh, quando mi va proprio di mangiare… vado da Albador.»

Crowley non fu il solo sorpreso a quel tavolo: a nessuno dava l’idea di un patito del cibo della grande catena di fast food messicani.

«Sì, io… vado matto per il loro burrito con chili, riso, insalata e salsa guacamole.» confessò con il tono mesto di chi ammette almeno quattro orribili crimini ai danni di poveri innocenti. «Sul serio. Sono capace di mangiarne tre in una sera, mentre guardo la televisione, per questo ci vado raramente…»

Istintivamente Crowley gli passò il braccio intorno alle spalle e l’avvicinò sulla panca per stampargli un bacio sulla bocca, che lasciò attoniti diversi avventori del locale e anche chi l’aveva ricevuto.

«Ferid, sono così fiero di te! Vedi? Anche tu sei capace di comportarti in modo normale!»

«E-eh?»

«Tv e cibo spazzatura! C’è speranza per noi, può funzionare senz’altro.»

Ferid lo guardò con un broncio che non prometteva niente di buono, ma non replicò e bevve la limonata. Rimase di quell’umore offeso e indignato per parecchio tempo; accolse anche con relativa freddezza il suo burrito e il gigantesco sandwich a sei strati con cinque tipi di formaggio, prosciutto, bacon e salsa che venne portato in duplice copia al loro tavolo, nonostante lo stupore misto a terrore che gli provocava il solo guardare quell’enorme mostro di lattosio.

Tuttavia due Cheesy Challenge contemporanee allo stesso tavolo fecero scalpore e la clientela si interessò molto presto a loro; diversi clienti scoppiavano in cori d’incoraggiamento, altri più sospettosi li controllavano nel caso i due compagni di tavolo si fossero messi ad aiutarli di nascosto, ma dopo aver testimoniato l’assurdo impegno che ci stavano mettendo tutti furono entusiasmati come a una partita di football e loro malgrado quell’entusiasmo pervase poco a poco anche l’indifferente Mika e l’offeso Ferid, che si mise a riprendere la sfida di Crowley con il cellulare quando era circa a metà del suo sandwich.

«Dacci le tue impressioni, Crowley, come ti senti?» gli domandò divertito, in una parodia di cronista. «Pensi che vincerai? Dì ai tuoi futuri ammiratori online come sta andando.»

«Ho un sacco fame, ragazzi.» bofonchiò lui, mentre masticava. «A casa ho un coinquilino dispotico che mi costringe a mangiare solo pesce, pollo e verdura tutti i giorni… ho fame!»

Ferid ridacchiò e spostò l’inquadratura su Yuu, che nonostante fosse circa allo stesso punto iniziava a rallentare. Passarono altri dieci minuti prima che il ragazzo si arrendesse con profondo scorno, lasciando un terzo del panino e metà delle patatine; e tre minuti prima del tempo limite Crowley si ficcò in bocca le ultime patatine. Non fece in tempo a pulirsi le mani con il tovagliolo che la clientela scoppiò in un coro trionfale di applausi e grida.

«Abbiamo un vincitore!» annunciò la cameriera, suscitando applausi tardivi di clienti troppo distanti per averlo notato da loro. «Un vincitore che avrà la maglietta della Cheesy Challenge, la foto sul muro della gloria e un buono due per uno del ristorante!»

Crowley si pulì la bocca e si accorse che Ferid lo stava ancora riprendendo, quindi fece un cenno di vittoria al telefonino.

«Congratulazioni, Crowley, hai vinto~»

Con suo sommo stupore Ferid salì in ginocchio sulla panca e gli si lanciò addosso passandogli il braccio intorno al collo. Aggiustò la telecamera su di loro.

«Questo uomo meraviglioso è il mio uomo~»

Lui fece per baciarlo e Crowley gli coprì la bocca con la mano.

«Non adesso, Ferid. Mi sono appena mangiato due chili di formaggio, non ti voglio intossicare indirettamente.»

«Con tutto quel formaggio che ti sei ingozzato lo intossicherai per traspirazione cutanea.» commentò Mika, svuotando la sua terza limonata.

«…Può succedere?» chiese con una certa preoccupazione.

«Certo che no, Crowley~ ma sei carino a pensare a me~»

«Ehi, postiamo il video su Youtube? Se mi dai il video faccio io!»

«Oh… non sono tanto capace di queste cose, non avevo un cellulare fino a poco fa…»

«Lo mando io a Yuu-chan.»

Mika si impossessò del cellulare di Ferid e lui e Yuu iniziarono a parlottare su dove mandarlo, come uploadarlo, se usare la rete wi-fi del locale o metterlo in stand-by in attesa di rientrare in casa. Mentre erano così distratti il poliziotto si alzò per andare dal ragazzo che teneva il bancone bar e si fece dare una maglietta di una misura decisamente troppo piccola per il suo torace, nonostante si stessero dando un gran daffare per trovarne una della taglia giusta. Tornato al tavolo vide che Ferid era rientrato in possesso del suo telefono.

«Vuoi farmi una foto con la maglietta?»

Aprì la t-shirt gialla e arancione con stampato il logo della Cheesy Challenge, ma Ferid notò immediatamente qualcosa di sospetto.

«Quella maglietta non ti andrà mai, Crowley. Non ne hanno una più grande? Quelli che vincono questa sfida non saranno mica tutti fuscelli…»

«La maglietta è per te, io non ne ho bisogno.»

«Per… me?»

Crowley sorrise e gliela passò.

«Tu non compari in quel video… eppure questa sera sei così allegro che è un piacere guardarti. Prendila.» insistette, mettendogliela tra le mani. «È un ricordo di questo tuo compleanno tra amici. Ah, sì. Lo sapevo.»

Gli stampò un bacio sulla bocca, che gli stava leggermente aperta per lo stupore, e passò delicatamente il pollice sul lato ferito del suo viso.

«Buon compleanno, Ferid.»

 

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Capitolo 27
*** Il mausoleo di Dracula ***


«Ehi…»

Nessuna risposta venne dal suo silenzioso accompagnatore coi capelli rossi, che camminava con un’inusuale fretta davanti a lui senza lasciargli la mano.

«Ehi, Crowley.» disse Ferid un po’ più forte. «Mi dici dove mi stai portando così di fretta e di nascosto dai tuoi vicini?»

Ferid lanciò un’occhiata alle loro spalle, ma sapeva già da un po’ che Mikaela e Yuu non erano in vista; forse non erano ancora nemmeno usciti dal Cheesy Corner. Forse non si erano nemmeno accorti che non erano alla toilette dove il poliziotto aveva detto loro che stavano andando.

«C’è un posto dove volevo portarti… e visto che siamo usciti oggi che è Halloween, è proprio un’occasione imperdibile.»

Crowley rallentò quando svoltò in una strada più buia e gli fece un sorriso.

«Hai paura?»

«Sì… ma è eccitante avere paura con te.»

«Sapevo che avresti detto così.»

«Lo sapevi?»

«Oh, sì.»

Crowley si fermò e iniziò a controllare con attenzione la recinzione della zona buia e incolta che stavano costeggiando. Non diede ulteriori spiegazioni sulle sue “premonizioni” e prese a camminare piano piano, dando una scrollata di tanto in tanto alla rete metallica. A una certa emise un’esclamazione trionfante e si chinò, poi con un rumoroso frusciare di rami e scricchiolio di rete scomparve nel buio.

«Crowley?»

«Vieni, di qua. Attento a non impigliarti il costume.»

In quella penombra faticava a vedere il varco aperto nella rete. Tolse il cappello e si arrotolò il mantello intorno al braccio per evitare di rovinarli con i rami o infide punte di metallo sporgenti, poi si ficcò alla cieca nel buco. Riemerse con l’aiuto di Crowley oltre un fitto cespuglio, ma non colse alcun indizio alla vista: era tutto troppo buio e con il naso percepiva solo odore di terra, di muschio e un sentore di cannella che probabilmente proveniva dalla strada o dai dolci in qualche casa vicina.

«Dove siamo, di grazia?»

«Ti ho portato in un posto speciale.»

«Stai per uccidermi, Crowley?»

«Oh, beh… in un certo senso, può essere.» replicò lui, con fare misterioso.

«Questo mi ha spaventato davvero.» ribatté Ferid sincero.

«Okay, ti lascio un attimo, Ferid. Non ti muovere, non voglio che inciampi.»

«No, aspetta, io ti dico che mi hai spaventato e tu mi molli qui da solo al buio?!»

«Oh, su, sei un bambino grande ormai. Ci metto un momento!»

Detto ciò gli lasciò la mano e si allontanò da lui, rischiarandosi pochi passi di strada con lo schermo del cellulare: Ferid riuscì a vedere soltanto l’erba incolta e alcuni disordinati ciottoli dove i suoi stivali neri bordati di peluria andarono a poggiare. Scomparve presto nascosto da una non meglio definita struttura scura, forse un muretto o l’angolo di una costruzione, e suo malgrado Ferid si strinse le braccia guardandosi intorno nel buio.

Non era a suo agio, aveva un po’ freddo e in totale onestà anche un po’ paura, da solo nel buio in un posto sconosciuto… soprattutto dato che aveva la spaventosa tendenza a incrociare il Vampiro di West End più spesso di quanto gradisse.

È pur sempre giovedì sera… il suo schema varrà ancora, adesso? E se fosse riuscito a seguirci?

Un ramo spezzato di netto lo fece sussultare, ma quando si voltò vide un bagliore tornare verso di lui dietro una singolare fila di strane forme, e aggrottò le sopracciglia. Crowley riemerse, illuminato da quella che sembrava una lanterna, con un gran sorriso.

«Per fortuna era esattamente dove l’avevo lasciata l’ultima volta!»

«Hai lasciato una lanterna in un… dov’è che siamo, esattamente?»

«Sei proprio impaziente, eh? D’accordo, vieni. Te lo mostro.»

Crowley lo prese per mano e fece strada tenendo la lanterna in alto per illuminare il più possibile intorno a loro. Percorsero un sentiero di pietre maltenuto, con erbacce che crescevano rigogliose tra l’una e l’altra, e una decina di metri più avanti si trovarono davanti a un’imponente statua di un angelo in preghiera screziato dal verdemare, che sormontava un ampio piedistallo di granito che recava nomi e date…

Una lapide.

«Siamo… siamo in un cimitero?»

«Oh, sì.» disse Crowley a voce bassa. «Siamo nel cimitero di Salthar nel North End. Non lo conosci?»

«No, io… conosco solo Silver Waters, nel West End, dove riposa Claude.»

«Salthar è un bellissimo cimitero monumentale, pensavo che ne avessi almeno sentito parlare!»

Ferid scosse la testa, continuando a osservare la statua dell’angelo con un misto di ansia, eccitazione e confusione: non capiva perché Crowley l’avesse portato in un cimitero la notte di Halloween, ma era spaventoso ed eccitante in egual misura.

Gli lasciò la mano e si avvicinò alla tomba, sfiorando la tunica dell’angelo. Era fredda e fu subito certo che fosse fatta di metallo rivestito di rame che le intemperie avevano tinto di verde. Anche la lastra di granito non si smosse minimamente alla sua spinta: non era assolutamente un set cinematografico o qualche simile pagliacciata.

Crowley lasciò che sfogasse la sua curiosità e restò in silenzio mentre passava le dita sull’incisione, che nella fioca luminosità gli sembrava recare il nome di Fernand Mondego.

Che strano posto… anche se è Halloween, non mi aspettavo che un uomo come Crowley avesse sua sponte l’idea di portarmi in un cimitero.

Si voltò a guardarlo e lo vide sorridere non diversamente dalle molte volte in cui gli aveva portato un regalo.

«Allora? Continuiamo a esplorare o hai troppa paura?»

Ferid scosse la testa e prese di nuovo il suo braccio; non tanto per paura di spettri o aggressioni improvvise quanto di inciampare o mettere il piede in qualche infida buca se non fosse rimasto vicino al lumino.

Crowley aveva ragione a dire che il cimitero di Salthar era uno splendido esempio di arte cimiteriale: l’intera zona era costellata di lapidi in pietra nera o bianca, marmo e granito; le statue di angeli, di santi e di Madonne si ergevano intorno a loro come un silente esercito a guardia dell’eterno riposo delle salme lì deposte e di tanto in tanto scorgevano imponenti mausolei di famiglia o piccole cappelle private arricchite di bassorilievi, mosaici o smalti che scintillavano alla luce della lanterna.

Eppure più si inoltravano più qualcosa faceva aggrottare le sopracciglia di Ferid, dandogli un insolito e fastidioso prurito ai pensieri.

C’è qualcosa di strano in questo cimitero… mi sembra di essere già stato qui, anche se queste statue e lapidi mi sono del tutto sconosciute, e poi… c’è qualcos’altro, ma non afferro che cosa…

Ferid rimosse la mezza maschera con un gesto stizzito, come se fosse una benda che impediva alla sua mente di capire cosa gli sfuggisse, ma la tomba di tale Julien Sorel punzecchiò di nuovo invano il suo cervello lasciandolo più frustrato di prima.

Crowley ridacchiò quando lo vide grattarsi la testa come se si stesse scervellando su un difficilissimo test.

«Non ancora, eh? Non importa, ormai ci siamo… duuunque… se non ho perso il senso della direzione, di qua.»

Ferid lo seguì quando a un crocevia girò a sinistra e lanciò uno sguardo alla lapide di Hans Giebenrath Jr, un altro nome che pareva scintillare in lettere metalliche solo per canzonare la sua incapacità di mettere a fuoco quel senso di familiarità; percorsero un altro bel pezzo prima di arrivare a una tomba di pietra chiara abbastanza ampia per due feretri, sormontata da una lapide che recava due nomi in lettere dorate: Quincey Morris e Lucy Westenra.

«Questi li conosci di certo.» disse Crowley, e si sedette sul bordo del sepolcro in pietra. «Allora?»

Ma com’è possibile? Due persone che si chiamano così che sono state sepolte insieme, è un…

Solo allora Ferid capì che cosa era strano in quel cimitero: non ci era mai stato, eppure vi erano nomi che conosceva. Mondego, Hans Giebenrath Jr, Julien Sorel, R. Montague, Johnny Nzou, e svariati altri erano personaggi di libri che aveva letto; personaggi ai quali i rispettivi autori avevano dato la morte entro l’ultima pagina della loro opera: la stessa sorte toccata a Lucy Westenra e a Quincey Morris nel Dracula di Bram Stoker.

«Questo cimitero… allora…»

«Sì, è un cimitero finto… costruito da un marito devoto a una moglie che piangeva la morte dei personaggi dei libri che leggeva con sincera tristezza. Un cimitero letterario, se vuoi chiamarlo così, per ricordare figure che hanno perso la vita contribuendo a rendere memorabili i libri ai quali appartengono.» disse solennemente Crowley appoggiando la lanterna accanto a sé. «O almeno, così è scritto sulla targa al cancello principale.»

Ferid fissò ancora la doppia lapide, poi si voltò per abbracciarne quante più possibile con lo sguardo, anche se era troppo buio per leggere altri nomi. Si sentì bizzarramente pieno di emozione, come se si fosse reso conto passando tra una folla che era composta di cari, vecchi amici.

«Allora? Ti piace, Ferid?»

«È bellissimo! Non sembrava affatto un cimitero finto!»

«Oh sì, è stato molto curato… il vecchio è un appassionato di calchi. Sai, quei fissati un po’ matti che ricalcano le incisioni sulle tombe dei cimiteri antichi o monumentali.» spiegò Crowley, e si spinse indietro per appoggiarsi alla scritta recante il nome di Morris. «Ha unito queste passioni in un posto rendendolo unico negli States… forse in tutto il mondo. Su, siediti qui.»

Ferid esitò un attimo, poi si arrampicò sul sepolcro e sedette accanto a Crowley, poggiando la schiena sul nome di Lucy nonostante la spada e il mantello lo stessero intralciando. Si sentiva eccitato come un bambino in un parco a tema, e in un certo senso era esattamente quello che era. Aveva l’impressione di non essere più così solo e strambo: qualcuno aveva costruito un cimitero per omaggiare la memoria di protagonisti e personaggi secondari deceduti nel corso delle opere. Anche per qualcun altro quelle figure erano diventate come amici e conoscenti reali anche soltanto per la durata della lettura.

«Quindi ti è piaciuto il mio regalo?»

«Oh, sì, anche se sarebbe stato bello poterlo ammirare meglio con più luce.»

«Ti ci porterò di nuovo e potrai farti un bel giretto e vedere quanti ne conosci di questi poveri diavoli.»

«A proposito di diavoli.» fece Ferid, distraendosi dal cimitero. «Perché abbiamo lasciato la Succuba e l’Uomo Falena al locale e siamo usciti alla chetichella?»

«Mikaela non sarebbe stato d’accordo a venire qui… un posto buio, un po’ isolato, in una notte in cui sentire qualche urlo non sarebbe nemmeno così preoccupante… non l’avrebbe trovato sicuro per te.»

«Ragazzo dolce~»

«Fin troppo ansioso, se vuoi il mio parere.» commentò Crowley, e sistemò la lanterna sopra la lapide affinché li illuminasse dall’alto. «Ma non è il solo motivo per cui volevo portarti qui.»

«No? E l’altro qual è?»

Sul viso di Crowley apparve un sorriso come Ferid non gliene aveva mai visti in tutto quel tempo insieme, ed era carico di una malizia tale che gli passò per la mente di saltar giù dalla tomba e darsela a gambe. Non lo fece soltanto perché non aveva la minima idea di come avrebbe potuto trovare l’uscita di quel posto al buio più totale.

«Perché portare qualcuno in un posto isolato e buio, secondo te?»

«Così su due piedi mi viene da rispondere “per assassinarlo”, sono sincero.»

«Passi troppo tempo con dei poliziotti, ultimamente.»

Ferid sentì quella minuscola sospettosa – paranoica – parte di sé tirare un sospiro di sollievo e meditò qualche altro secondo sulle possibili motivazioni di quella strategia, dimostrando ancora una volta la sua più completa ingenuità in momenti chiave. Scosse la testa allo sguardo incalzante di Crowley e lo vide sospirare passandosi la mano guantata di nero nei capelli.

«Per la miseria, Ferid, non posso credere di doverti spiegare anche questo.»

«Ma se sono sempre io a spiegare le cose a…»

Il cappello con la piuma gli cadde dalla testa quando Crowley lo strinse a sé passando il braccio dietro le sue spalle, e quando lo baciò sulla bocca con un impeto contenuto a malapena per rispetto alle sue ferite in volto gli fu chiaro come mai avesse cercato di seminare i suoi vicini di casa. Non cercò di sottrarsi e sopportò anche la leggera fitta di dolore senza fare un fiato, pur di lasciarlo sfogare appieno.

«Crowley.» gli disse alla prima occasione per emettere un suono. «Non potevamo farlo a casa, questo?»

«Sì, potevamo.»

Non aggiunse altro: gli slacciò la strisciolina di cotone grezzo che chiudeva la camicia sul suo petto e una volta scoperto il collo e il leggero segno lasciato lì circa un’ora prima vi si avventò sopra mordendolo con più forza; abbastanza da strappare a Ferid un gemito di dolore e di sorpresa.

«Cro…»

Un altro bacio fece tacere le proteste, ma non i pensieri di Ferid, che non poteva fare a meno di trovare anomalo il comportamento di Crowley. Tuttavia non si oppose né alla sua lingua sul collo né alla mano che aveva preso ad accarezzargli la gamba.

È un po’ più preso delle altre volte… spero di non dovergli intimare l’alt, mi dispiace così tanto farlo quando si lascia andare…

E si stava lasciando andare parecchio quella sera, anche se Ferid afferrò l’entità di quel coinvolgimento solo quando con non troppa delicatezza lo scostò dalla lapide spingendolo con la mano fino a sdraiarlo con la schiena sul piano di pietra. L’elsa della spada era di traverso e gli pungolava il fianco, ma non ebbe tempo di soffermarcisi, visto che la camicia gli era appena stata sfilata dalla cinta e che un tocco umido aveva seguito quello delle dita su uno dei suoi capezzoli.

«Crowley… ehi!»

«Che c’è? Hai freddo?»

«Stai esagerando!» fece lui seccato, e abbassò la camicia con un gesto brusco che colpì di striscio il naso di Crowley. «La tua astinenza non è ancora finita! Novembre, ti ricordi?»

«Non importa di quella.» gli rispose con un sorriso molto tranquillo.

Ferid fissò il suo viso, ora direttamente sopra il suo, indugiando in un lungo silenzio in attesa di spiegazioni. Attesa inutile.

«Che cosa diavolo vuol dire non importa di quella?!»

«Oltre cinquanta giorni sono già una buona prova di buona volontà, non credi?»

«Mancano solo pochi giorni, allora, no? Non fare lo stupido.»

Ferid tentò di allontanarlo spingendolo dalle spalle, ma per il successo che ottenne avrebbe anche potuto provare con spostati, Sesamo.

«Non voglio sentire le tue lagnanze quando te ne pentirai e penserai di aver offeso Dio, quindi togliti! Aspetta ancora un po’!»

«Non voglio più aspettare. Non mi interessa se Dio la prenderà per un’offesa.»

Il suo tono era così pacato che capì di non trovarsi di fronte a un capriccio di frustrazione, ma cercò comunque di fare la sua parte e farlo ragionare.

«Come sarebbe che non ti interessa? Ti sentirai in colpa come le volte scorse se rompi il tuo voto prima del tempo.»

«Può essere… ma Ferid, non posso più aspettare… non lo capisci? Ti ho quasi perso un’altra volta, sabato… per quanto odio l’idea di essere in debito con lui, se Sean non fosse arrivato non so se ti avrei potuto parlare di nuovo.» gli disse lui, accorato come raramente l’aveva sentito. «E poi sono stato male io due settimane fa… non c’è nessuna certezza che ci saremo tutti e due quando verrà il momento, o che saremo nelle condizioni per fare quello che vogliamo. Com’è successo con tuo marito.»

Gli diede una sottile fitta di dolore ripensare al corpo di Claude reso debole e fragile dall’incedere spietato della sua malattia. Per un momento, quando batté le palpebre, l’immagine di Claude disteso sul letto dove sarebbe poi spirato si confuse con una analoga che aveva la stazza e i capelli rossi di Crowley.

«Lo capisci… perché non voglio più aspettare?»

Lui annuì e gli accarezzò il viso, sfiorando il suo semplice orecchino di acciaio con il dito.

«Sei sicuro che non te ne pentirai?»

«Non mi pento mai di qualcosa che mi rende felice.»

Ferid non riuscì a reprimere del tutto una risatina divertita e gli lanciò un’occhiata maliziosa.

«E cosa ti fa credere che io riesca a rendere felice un uomo navigato come te?»

«Il mio ottavo senso.»

Crowley tornò ad insinuarsi tra la spalla e il collo, mordicchiandolo leggermente in diversi punti fino all’orecchio. Come faceva di consueto, dicendo ogni volta di farlo senza pensarci, prese a strisciare il bacino contro il suo in una meno esplicita anteprima delle sue intenzioni.

Questa volta Ferid lasciò che gli alzasse la casacca, nonostante l’aria fredda sulla pelle, e che riprendesse da dove era stato interrotto: era qualcosa di totalmente nuovo per lui indugiare in quel genere di preliminari, abituato com’era a consumare le sue relazioni in spazi angusti e poco tempo.

Mi sa che mi sono perso un bel po’ del divertimento…

«Non posso prendermi proprio tutto il tempo necessario, o rischiamo di trovare la polizia quando usciamo di qui.» disse Crowley in poco più di un sussurro. «Ma sono sicuro di poter fare una bella figura comunque.»

L’idea che la polizia, allertata da due preoccupati vicini di casa, potesse puntare loro la torcia addosso alla loro ricomparsa attraverso la rete bucata era fonte di ilarità e di nervosismo al tempo stesso, ma Ferid non commentò niente e chiuse gli occhi sentendo con la pelle le labbra di Crowley scendere verso il suo ombelico. Non ricordava nessuno dei suoi amanti – che non erano così tanti da non poterli ricordare in dettaglio – misurarlo e studiarlo in quella maniera; erano stati tutti molto più concentrati su cosa potessero ottenere da lui che su un effettivo scambio.

È così frustrante… è come se vivessi solo per scoprire altre cose che ho fatto nel modo sbagliato.

Un pizzicotto dato sul fianco lo distrasse da quel pensiero, e abbassando lo sguardo incrociò gli occhi di Crowley che sembravano rimproverarlo.

«Niente stupidaggini, Ferid.»

«Non ho fatto niente!» protestò lui, sulla difensiva.

«Stavi sicuramente pensando a qualcosa di stupido… tipo che non te lo meriti, o qualche altra idiozia.»

«Come… come fai a saperlo?»

Crowley fece schioccare la lingua e si allungò in avanti, baciandolo sulla gola.

«Quando ti deprimi cambi odore.»

«Ma che… cosa sei, un cane per davvero?»

«Ah… forse, chi lo sa.» disse lui, con un sorrisetto. «Adesso, da bravo, partecipa e aprimi la lampo.»

«La lampo? Vuoi… spogliarti?»

«Ma che domande fai? Certo che voglio spogliarmi.»

«Ma se vuoi… ti dovrai togliere praticamente tutto

«Qualcosa in contrario? La volta scorsa m’era sembrato che ti piacesse.»

«Ci sono diciotto gradi, non avrai fre–»

La domanda sfumò in un singulto quando gli diede un morso non troppo leggero sul capezzolo, e non riuscì ad articolarne la fine mentre Crowley gli accostava le labbra all’orecchio destro.

«Apri la lampo.»

Quel sussurro era intriso di un tipo di erotismo che Ferid non conosceva e che nemmeno immaginava, neanche appellandosi al suo archivio di narrativa vastissimo. Gli passò le braccia dietro la larga schiena e con una mano prese ad abbassare la cerniera del costume lentamente, mentre il bacino premeva contro il suo come un gentile ma costante invito a sbrigarsi.

Ferid non accelerò comunque e una volta aperta tutta si attardò a infilare le mani per accarezzare quella schiena e godersi, per una volta, ogni singolo muscolo e costola sotto le dita.

«Allora sai lasciare il freno.» commentò Crowley divertito. «Meno male, mi secca fare tutto da solo.»

Crowley si liberò del buffo giacchetto di pelo con il cappuccio, gettandolo di lato, e abbassò il costume nero scoprendosi il collo, le spalle e le braccia. Ferid non poté evitare di fissare con bramosia il suo bellissimo collo, che aveva potuto ammirare – e desiderare – fin dal primo giorno…

Prima che se ne rendesse conto vi affondò i denti in una stretta così serrata da strappare un gemito a Crowley, seguito subito dopo da una sua risata allegra.

«Così… tutto quello che ti passa per la testa, Ferid. Divertiamoci!»

Il fatto di trovarsi in un cimitero seppur finto, di non avere lasciato detto nulla ai due ragazzi Hyakuya, di poter essere visti da qualcun altro, l’aria decisamente frizzante della notte e qualsiasi paura avesse avuto di risultare un amante deludente: scomparve tutto al suono di quella frase, come fosse stata un magico comando per dissipare i dubbi. Senza più alcuna inibizione e paura si sentì libero come non si era mai sentito con nessun altro amante prima.

Anche se la sua promessa di “astinenza monacale” avrebbe dovuto frenare i desideri di Crowley i baci passionali erano un passatempo gettonato, ma non si erano mai baciati come quella sera: non avere più il pensiero fisso di doversi fermare prima del punto di non ritorno aveva permesso loro di liberarsi di quella diffidenza continua, quella sensazione sgradevole di doversi controllare l’un l’altro; potevano abbandonarsi e non pensare. Potevano solo sentire.

Ma Ferid sentiva anche troppo in quel momento.

«Crowley, aspetta.» lo bloccò con la voce leggermente ansante. «Sento qualcosa…»

«Lo spero bene, se no che diavolo stavo qui a fare?»

«Un rumore.» precisò, abbassando la voce. «Lo senti…?»

Crowley sollevò appena la testa ascoltando con espressione così concentrata che Ferid capì che in tutto quel tempo non aveva mai del tutto abbassato la guardia in un luogo tanto esposto.

«Non è niente… potrebbe essere un gatto, o qualche animaletto… un uccello notturno, un topo… qualcosa del genere che smuove le foglie.»

«Topi con le scarpe?»

In effetti i rumori seguenti erano meno fruscianti e acquisirono la cadenza di passi frettolosi sui sentieri pietrosi. Crowley si accigliò appena, ma sorrise.

«Non è niente… non saremo i soli ad aver pensato di appartarci qui la sera di Halloween… ignoriamoli e loro ignoreranno noi, non sono qui per fare amicizia.»

«E se ti vedessero?»

«Probabilmente ti invidieranno, Ferid.»

«A meno che non siano due lesbiche.» puntualizzò lui con una certa acidità. «Intendevo dire, sciocco Narciso, che sei un poliziotto in una proprietà privata…»

«Non gli conviene dire a qualcuno che mi hanno visto qui, dato che neanche loro potrebbero starci… e anche se lo facessero, il vecchio Bonner non mi denuncia di sicuro: mia madre gli ha cresciuto i figli per quindici anni.»

«C’è qualcuno in questa città che non conosce te, tua madre o tuo padre?»

«Mhh… dato che persino tu conoscevi il mio vecchio da un secolo, direi proprio di no.»

Ferid scosse la testa, un po’ contrariato, e lasciò che Crowley riprendesse ad abbassare i pantaloni con esasperante lentezza. Era ormai tornato completamente in quella bolla che limitava i suoi sensi a quello che succedeva sul mausoleo di Dracula quando un gridolino la scoppiò per entrambi.

«È un bambino.»

La fioca luce della lanterna mostrava della preoccupazione celata negli occhi blu del poliziotto irlandese, ma riabbassò la testa in uno stoico tentativo di continuare come nulla fosse successo.

«È pur sempre Halloween… saranno entrati per fare una prova di coraggio. Sono cose che i bambini fanno a quell’età.»

Alla terza volta, quando il bambino sconosciuto prese a singhiozzare da un punto non tanto lontano, Crowley girò la testa da quella parte con un’espressione stizzita e preoccupata in egual misura.

«Crowley… non dovremmo controllare?» gli sussurrò Ferid all’orecchio. «È pur sempre giovedì notte.»

«Tirami su la lampo.»

Crowley infilò le maniche del costume e Ferid si affrettò a chiudere la lampo sulla schiena; poi pensò a rendersi presentabile nei pochi secondi che occorsero al poliziotto per trovare il cellulare e illuminare la strada con una luce più potente dell’antiquato modello di lanterna.

«Tu resta qui.»

«Non ci penso nemmeno!»

«Ferid, nel remoto caso che quello sia veramente quello che pensiamo…»

«L’ultima cosa che vorrei è starmene da solo al buio.» concluse Ferid. «E poi Mikaela ha detto che non devo mai perderti di vista.»

«Molto comodo tirare in ballo Mikaela dopo averlo mollato al ristorante.»

Crowley non protestò oltre e si mise in marcia, facendo il possibile per evitare le foglie secche e qualsiasi cosa potesse fare rumore sotto i piedi. Attraversarono un sentiero di altre tombe di salme eccellenti quanto immaginarie, avvicinandosi al pianto del bambino, ma Ferid sentiva la paura scemare in fretta: se il bambino fosse stato rapito e gli fosse stato collegato qualche contorto marchingegno per prosciugargli il sangue avrebbe pianto e gridato molto di più.

È solo spaventato… avrà perso i suoi amichetti.

Seppero che erano a pochi passi perché dietro una lapide scorsero una lanternina elettrica a led e girandovi intorno trovarono la fonte del pianto: un bambino di sette, otto anni circa, con una gran zazzera di capelli ricci e scuri e occhi castani gonfi di lacrime che posò sui due sconosciuti. Non aveva alcuna paura di loro.

«Ciao.» gli disse Crowley, con una certa sorpresa. «Che cosa fai qui? Sei qui da solo?»

Il poliziotto girò la luce tutt’intorno, ma non si vedeva anima viva né morta. Ferid si accovacciò a poca distanza dal piccolo e sorrise notando il piccolo arco con freccia a ventosa e il berretto verde con la piuma.

«Oh, ciao, Robin… sei un po’ lontano dalla foresta di Sherwood, ti sei perso?»

Il piccolo Robin Hood scosse la testa, con grossi lacrimoni che continuavano a scendere sulle guance tonde.

«Cos’è successo, allora? Hai perso lady Marian?»

Robin tirò su col naso e lo guardò apertamente in viso, con la curiosità priva di imbarazzo di un bambino molto più piccolo.

«Non posso andare a casa.»

«Ah, l’esilio! Terribile, vero?» esclamò Ferid, e si sedette davanti alla lapide del capitano Achab. «Anche io ne so qualcosa, da un paio di mesi! Tu perché non puoi andare a casa? Che cos’hai fatto?»

A quelle parole Crowley fece un sorriso storto, quasi si sentisse ancora in colpa per il fatto che non poteva tornare a casa a West End, ma non parlò. Il bambino si asciugò invano le lacrime, perché sgorgavano più irruente che mai.

«H-ho…» il resto della frase sfumò in un sussurro impercettibile.

«Hai?»

«Ho rotto i pantaloni.»

Crowley lo guardò perplesso, Ferid si sporse indietro per sbirciare, ma così seduto non notava nessun buco o strappo né davanti né dietro.

«Oh, un brutto affare, Lord Robin. Posso vedere? Forse posso fare qualcosa.»

Per Ferid era una prassi normale interagire con i bambini e lo trovava molto più facile che non comunicare con gli adulti, ma il modo in cui Crowley lo guardava tradiva il fatto che fosse sorpreso dalla fiducia che ispirava ai piccoli pur essendo un perfetto sconosciuto in un cimitero buio.

Il piccolo si alzò titubante e gli voltò le spalle: la calzamaglia del suo costume era vistosamente strappata. Non era un danno facile da riparare con mezzi di fortuna.

«Ohhh, ora capisco…»

«Non credo si possa fare qualcosa per ripararli.» disse Crowley, che si era avvicinato per vedere. «Immagino tu li abbia strappati scavalcando qualcosa…»

«Lo steccato di Walter…» rispose mesto il bimbo. «Mamma non vuole che ci vado, si arrabbierà…»

«Beh, per i pantaloni posso fare qualcosa…»

Ferid si alzò con un “oplà” dal tono allegro e porse la mano al piccolo Robin con un sorriso.

«Caro signore, per ringraziarvi del modo in cui aiutate i poveri quest’umile spadaccino vi aiuterà con il vostro problema~»

La manina fredda strinse la sua, il bambino gli lanciò uno sguardo imbarazzato ma anche speranzoso mentre si asciugava gli occhi con la manica. Crowley gli sorrise con un’aria vagamente canzonatoria e fece strada illuminando con il telefono.

«Ti piacciono proprio i bambini, messer Ferid.»

«Se proprio hai voglia di chiacchierare, dimmi dove si può trovare un negozio aperto ventiquattr’ore in questa zona.»

«Un negozio sempre aperto…?»

«Uno di quelli vicini agli svincoli della superstrada, per esempio.»

«Oh… vediamo… ce n’è uno al distributore di benzina, ma è dall’altra parte del fiume, c’è da camminare un po’…»

Crowley lanciò un’occhiata al bambino, che di riflesso spostò la manina sul fondoschiena come a coprire lo strappo.

«Se mi dici che cosa cerchi vado a prenderlo al negozio e te lo porto qui.»

Ferid gli scoccò un’occhiata mortifera.

«Non mi lascerai da solo con un bambino in un cimitero di giovedì sera, mai al mondo. Non dopo quello di cui sono stato sospettato.»

«Oh… sì, certo. Capisco.» fece lui, ed ebbe la decenza di imbarazzarsi. «Quindi, che si fa?»

«Permette, vero, signore?»

Ferid sollevò il piccolo Robin e lo resse in modo tale che il mantello marrone, con un lembo stretto nella sua mano, riuscisse a coprire completamente le gambe e anche i pantaloni strappati.

«Lo porterò fino al negozio.»

«E poi che cosa farai? Vuoi comprargli dei pantaloni nuovi?»

«Lo vedrete, messere

Detto ciò invitò il poliziotto a fare strada verso l’uscita con un gesto del braccio libero. Crowley sospirò profondamente rimettendosi in marcia.

«Avrei dovuto saperlo, Signore. Nessun vizio rimane impunito.»

 

 

Così dovrebbe andare.

Crowley si assicurò di chiudere per bene l’allacciatura, poi si mise la calzamaglia verde sul braccio e si rialzò, sorridendo.

«Andiamo?»

Robin – anche se ormai sembrava più un brigante, ammantato in quel modo nel mantello di Ferid – annuì con vigore e trotterellò fuori dal bagno tenendo l’orlo sollevato per non inciampare. Attraversò la tavola calda semideserta e raggiunse Ferid, seduto accanto alla vetrina davanti a una scatola bianca che aveva comprato nel negozio accanto.

«Eccoli qua.» disse Crowley, porgendogli i pantaloni del bambino.

«Grazie~»

Ferid studiò lo strappo con aria critica, tirò un po’ il tessuto e controllò le cuciture interne, poi aprì la scatola con il kit da cucito da viaggio che aveva appena reperito. Crowley fece per chiedergli qualcosa quando arrivò la cameriera della tavola calda con una caffettiera colma.

«Cosa vi porto?»

«Ah… uhm, tu cosa vuoi?»

«Posso prendere qualcosa?» domandò sorpreso il bambino.

«Certo che puoi. Prendi quello che ti va.»

«Oh! Sandwich con i gamberetti! E la limonata!»

Crowley guardò il bimbo, stranito, e Ferid ridacchiò alla sua perplessità.

«Va bene, piccolo~ e per i tuoi… papà?»

Questa volta tutti e due si scambiarono uno sguardo stupito.

«Veramente, non siamo… ah, fa lo stesso.» abbozzò Crowley. «Aranciata amara per me. Anche per te, Ferid?»

«Sì~»

«Due aranciate amare, una limonata, un sandwich ai gamberetti.» ripeté la cameriera. «Arrivo subito!»

Crowley emise un sospiro sconsolato e guardò Ferid infilare del filo verde nella cruna per poi mettersi a ricucire lo strappo con una discreta rapidità d’esecuzione. Nonostante non lo stesse guardando, concentrato com’era sulla riparazione, indovinò alla lettera i suoi pensieri.

«Secondo te come mai ogni volta che siamo insieme da qualche parte qualcuno trova il modo di equivocare su di noi, tesoro?»

«Evidentemente abbiamo scritto in fronte “gay fidanzati”.»

«Se è così “fidanzati” dev’essere sulla mia fronte, è più spaziosa della tua~»

«Lo trovi divertente?»

«Sì, moltissimo.» ammise lui con un sorrisetto. «Tu no?»

«Non proprio.»

«Ma voi siete fidanzati?» domandò a bruciapelo il bambino, che li stava osservando con attenzione.

«Uhm… secondo te lo siamo?» domandò di rimando Ferid, serafico.

«A me mi sa di sì.» disse Robin, e indicò Crowley col dito. «Ti teneva per mano prima! Anche la mia sorellona si tiene per mano con il suo fidanzato.»

«Pensi che sia sufficiente per dire che stiamo insieme?»

«Forse è una scemenza…» esordì il bambino. «Ma il fidanzato della sorellona ha gli occhi blu come i suoi… sono proprio uguali

«E pensi sia importante?»

«Ti guardava come Julius guarda la mia sorellona. Non lo so perché, ma è così che fa Julius.»

Ferid ridacchiò e tornò a cucire lo strappo.

«Oh, cielo, siamo circondati da piccoli detective, Crowley~»

«Mi sa che ce l’abbiamo scritto in faccia per davvero.»

«Era troppo ordinario scambiarci un anello, meglio scrivercelo in rune magiche sulla faccia~»

Crowley non replicò perché la cameriera era di ritorno con le tre bibite e il sandwich. Per qualche minuto tormentò la cannuccia, qualche volta mordicchiandola e qualche volta rimestandoci l’aranciata, guardando il piccolo con aria molto più irritata di quanto in realtà sentisse di essere.

«Cosa c’è che non va, Crowley?»

Non tanto le parole quanto il tono sussurrato di Ferid lo indusse a voltarsi verso di lui.

«Mh? Niente, sto bene.»

«Ti ha indispettito qualcosa che ha detto?» insistette lui a bassa voce, e accennò a Robin con la testa. «Lo stai guardando in modo strano.»

«Eh? Davvero?»

«Sì, davvero.»

«Ah… no, non mi ha indispettito… no, solo stavo pensando…»

«Che cosa?»

Crowley lanciò un’occhiata contrariata ai resti del tramezzino nel piatto.

«Una volta i bambini della sua età mangiavano cheeseburger.» osservò, come se questo minasse in qualche modo la realtà dei suoi anni infantili. «Il mondo sta diventando strano.»

«O forse…» iniziò l’altro, soffocando un risolino. «Sei più simile a tuo padre di quanto non pensi.»

A suo padre, l’uomo troppo buono, troppo remissivo, troppo freddo con i parenti, troppo preso dal lavoro per trovare il tempo di andare a una partita del figlio: per la prima volta in vita sua Crowley si sentì infastidito di essere considerato simile a suo padre, anche se Ferid si riferiva di certo al fatto che per Neil O’Brian il mondo cambiava fin troppo in fretta.

«Ultimamente mi paragoni a troppi uomini che non mi piacciono.»

«Finché non ti paragono a Bobby puoi stare relativamente sereno, direi~»

«Se ti dovesse passare per la mente sappi che mi incazzerò come mai nella vita.»

«Shh, Crowley, niente parolacce davanti ai bambini~»

Scoccò un’occhiata a Robin, che era più concentrato sui suoi pantaloni che sulla conversazione.

«Abbiamo qualcosa in comune, secondo te?»

Ferid staccò il filo con i denti e guardò Crowley come avesse bisogno di studiarne il viso per poter rispondere. Consegnò le pantacalze verdi a Robin e questi schizzò dalla panca e corse al bagno per rivestirsi, seguito dal cipiglio d’aquila della cameriera.

«In verità, diverse cose.» replicò Ferid, come se non credesse a quello che diceva. «Occhi chiari e bella parlantina, per iniziare… entrambi siete cresciuti in campagna e avete frequentato una scuola cattolica… ah, e poi me. Avete me in comune.»

«In maniera decisamente diversa, io non ti ho dato la metanfetamina.»

Il volto di Ferid si contrasse e Crowley si mordicchiò il labbro, a disagio: non avrebbe voluto dirgli che sapeva cose che non aveva voluto condividere, ma quella nefandezza in particolare di Bobby lo urtava più delle altre e non era stato capace di tacerla.

«Te l’ha detto Dante, immagino.»

«Per accidente.» chiarì lui, guardandolo. «Credeva che io sapessi tutto e mi parlò di un’accusa di stupro caduta in prescrizione, quindi mi spiegò come mai Warren fosse colpevole di questo reato.»

Ferid annuì e sistemò con cura i fili e l’ago nella scatoletta.

«Immaginavo che prima o poi potesse arrivarti all’orecchio.»

«Perché non me lo hai detto subito, allora?»

«Perché quando senti una brutta storia i tuoi occhi si riempiono di compassione… persino quando ne senti una finta, presa da un libro.»

Ferid portò la cannuccia alla bocca, ma non bevve.

«Non volevo che tu mi guardassi un’altra volta ancora in quel modo… mi fa pensare che tu ti senta moralmente obbligato ad amarmi. Per consolarmi.»

«Ferid, questo non è vero. Se mi sentissi moralmente obbligato ad amare le persone che hanno sofferto tanto, dovrei essere follemente innamorato di Mikaela: di gran lunga la persona con il peggiore passato che io conosca.»

Inspiegabilmente gli angoli della bocca di Ferid si sollevarono mentre prendeva un sorso di aranciata.

«E se in realtà tu lo fossi?»

Crowley lo guardò con un misto di delusione e incredulità piuttosto buffo a vedersi.

«Ma sei completamente idiota o lo stai facendo apposta per spazientirmi?»

Ferid non rispose. Continuò a sorridere beffardo e si alzò.

«Vado a vedere se Robin è pronto~»

Fece solo pochi passi prima che il bambino uscisse dalla porta e lo raggiungesse, saltellando allegro nei suoi pantaloni verdi nuovamente presentabili, e gli rendesse il mantello marrone con un sorriso così pieno di gioia e gratitudine che avrebbe ripagato anche sforzi molto più intensi di quello.

«Grazie, signore! Sono come nuovi!»

«Di niente, mio caro~» disse lui, passando la mano fra i suoi folti riccioli. «Allora, adesso che cosa si fa? Inizia a essere tardi. Ti portiamo a casa dalla mamma? Dove abiti?»

«Nel tredicesimo di North End, signore, in Baker Street, 222.»

Ferid lanciò un’occhiata divertita e stupita a Crowley.

«L'avresti mai detto che il Principe dei Ladri fosse il vicino di Sherlock Holmes?»

 

Ferid persistette con quell’ostinata aria allegramente ebete sventolando la mano per tutto il tempo finché Robin Hood non fu rientrato in casa insieme alla madre; una madre che era tornata affabile nei confronti dei due sconosciuti insieme al figlioletto solo una volta avuta la prova che uno dei due era un poliziotto.

Crowley si limitò a salutare con la mano un faccino sorridente che si sbracciò dalla finestra del soggiorno.

«Che bambino meraviglioso, vero? Con tutti quegli adorabili ricciolini~»

«Parli proprio da maniaco.» commentò Crowley in uno slancio di sadismo.

«Oh, che orrendo mondo sessista!» sbottò Ferid, avviandosi lungo il marciapiede. «Se lo dicesse una donna nessuno penserebbe male, ma se lo dico io sono un maniaco!»

«Tu che cosa penseresti, se lo sentissi dire da un altro uomo adulto?»

«Che vorrei uscire con lui, adoro gli uomini che agognano la paternità, sono così teneri.»

«Hai proprio voglia di fare il papà, tu, eh?»

Ferid non rispose subito: indugiò toccandosi l’orecchino per un momento, senza mettersi a giocherellarci come di consueto.

«Voglia, non proprio… probabilmente è il gusto del proibito. So che è molto, molto difficile che io possa avere questo ruolo e quindi la mia mente ci si sofferma spesso. Sai come si dice, “la lingua batte dove il dente duole”.»

Crowley rallentò un po’ il passo per guardarlo in viso.

«Sarà come dici tu, ma a me sembra proprio che lo desideri… non c’è mica niente di male, non ti devi vergognare a dirmelo.»

«Tu che cosa ne pensi?» schivò la domanda lui, sorridendo. «L’altra volta non hai risposto… tu li vuoi davvero dei bambini, o soltanto pensi che sia tuo dovere da buon marito generarne con la tua signora?»

Crowley non aveva mai visto la paternità in questa chiave, e ritenne opportuno rifletterci. Non aveva mai avuto dubbi sul fatto che avrebbe avuto dei bambini, complice la sua ascendenza irlandese che ammetteva un matrimonio senza progenie solo per gravi questioni di cattiva salute: da sempre sua madre parlava di quando sarebbe stato padre, lui e l’amico George scherzavano sui rispettivi figli come possibili futuri innamorati, e talvolta meditava se il suo piano di risparmio avrebbe fruttato abbastanza da mandare i suoi figli alla San Cristoforo… non aveva mai davvero dubitato di diventare padre, presto o tardi. Ammettendo, ovviamente, di sposarsi con una donna.

«Beh… sai, non ci avevo mai pensato su.» ammise allora, cauto. «Pensavo fosse semplicemente… normale che prima o poi sarebbe toccato anche a me.»

«Non credo che sia del tutto vero, Crowley.»

«E perché?»

Ferid attese di attraversare la strada, momento in cui la coppia di adolescenti mascherati alle loro spalle prese la direzione opposta lasciandogli privacy.

«Hai proposto il nome del tuo amico morto per darlo a tuo nipote… come se… beh, come se non pensassi più di avere dei figli e di poterlo dare al tuo primogenito, quel nome.»

«L’ho proposto qualche tempo fa… io ero appena stato operato, e… onestamente, pensavo solo al Vampiro, non m’importava realmente di niente altro… soffrivo e il mio ultimo pensiero era sposarmi e fare bambini, in quel momento della mia vita. Riuscivo a guardare solo il Vampiro.»

Ferid non replicò, ma il fatto che gli prendesse la mano mise Crowley in imbarazzo come spesso gli accadeva quando riteneva di aver mostrato troppa fragilità.

«Ah, è storia vecchia… il mio brutto periodo non è durato poi molto, una volta uscito dall’ospedale. Mi deprimo sempre un po’ quando sono ammalato, mi sento inutile.» abbozzò Crowley, e tirò su il cappuccio con le orecchie pelose. «Ho le orecchie fredde.»

«Sì, c’è umidità. Fa più freddo di prima.» convenne Ferid in tono leggero, guardando il cielo. «Potrebbe iniziare a piovere… che cosa facciamo? Vuoi tornare al cimitero?»

Crowley, in parte coperto dal cappuccio, scoccò un’altra occhiata alle sue spalle e prese il braccio di Ferid tirandolo verso di sé.

«Non voltarti.» gli sussurrò. «Ma c’è un tizio che ci sta seguendo da quando abbiamo lasciato Robin Hood a casa.»

«Sarà lo sceriffo di Nottingham~»

«Non c’è da ridere, Ferid.»

«Crowley, non fare il paranoico… o mi spaventerai a morte~»

Ferid gli si aggrappò al braccio con un sorrisetto che diceva chiaramente che non era minimamente preoccupato della figura alle loro spalle. Crowley non sapeva dire se fosse preoccupato oppure no: era piuttosto improbabile che il Vampiro si fosse appostato nel vecchio quartiere dei suoi genitori aspettandosi di trovarli lì. Scosse la testa: era ben oltre il minimo di probabilità da tenere in considerazione.

Ma è anche vero che non esiste soltanto il Vampiro di West End a questo mondo… e a me, che sono poliziotto da un bel pezzo, non mancano di certo i nemici.

«Prendiamo il ponte.» sussurrò a Ferid.

«Il ponte?»

Lo sguardo di Ferid scorse sopra le case per sbirciare le luci del ponte che passava sul fiume meno ampio che tagliava New Oakheart, il Gallanmere, che si originava nello stato attiguo dal corso del primo fiume di New Oakheart, il Grimvern. Non erano lontani da uno dei dieci ponti che erano stati costruiti sul Gallanmere, ma dalla sua perplessità era ovvio che avesse capito che prendere il ponte li avrebbe allontanati dal quattordicesimo di North End, dal Cheesy Corner, dal cimitero e dal punto in cui avevano lasciato l’auto.

«Non discutere.» gli intimò il poliziotto, e con un leggero strattone al braccio gli fece svoltare strada all’angolo successivo. «Passeremo il ponte, ci fermeremo in un posto qualsiasi come se ci fossimo andati apposta e poi torneremo indietro. Se non sta seguendo noi è impossibile che faccia anche lui la stessa cosa.»

Così imboccarono il ponte, senza parlare. Crowley si stava accigliando sempre più notando che la figura con il vestito da vescovo continuava a seguirli, mentre il suo cervello compilava una lista della gente che avrebbe potuto decidere su due piedi, vedendolo per strada, di fargli la pelle.

Un trillo acuto li fece sobbalzare entrambi; si fermarono sul marciapiede a pochi metri dalla fine del ponte e Ferid trafficò dentro il borsello per estrarre il cellulare e porgerglielo.

«Ahi, farà male.» disse enigmatico.

Capì all’istante che cosa voleva dire: il nome sul display era quello di Mikaela. Si erano accorti che non c’erano più e di sicuro era in arrivo una lavata di capo.

«Ciao, Mikaela.» rispose con il tono più innocente che riuscisse a fingere.

«Ciao un corno! Dove siete finiti?»

«Oh, beh, in realtà, è successo che…»

«Ti conosco!» lo interruppe lui. «Quando inizi un discorso in quel modo stai inventando tutto quanto! Voglio sapere dove siete andati a imboscarvi.»

«Mikaela, sappi che i miei amici pagano caro per sapere i miei posti preferiti per certe cose, non è una cosa che posso dirti così alla leggera…»

«Non girarci intorno!»

Crowley prestò scarsa attenzione alle minacce più o meno velate di Mikaela, perché l’uomo con l’abito da vescovo li aveva raggiunti e si trattenne per dare a Ferid un volantino; vedendolo al telefono non parlò ma gesticolò a Ferid indicando l’opuscolo e facendo cenno di chiamare.

Non fece in tempo a chiudere la chiamata con Mika per chiedergli cosa diavolo volesse, perché il finto porporato se ne andò per la sua strada. Ferid lo guardò e scoppiò a ridere.

«Sento la voce di Ferid, quindi almeno non l’hai perso di vista!» rincarò al telefono Mikaela. «Ora però tornate, sta per piovere e si sta facendo tardi per voi due!»

«…E che cosa siamo, bambini delle elementari?»

«Beh, scappate di nascosto proprio come bambini.» replicò lui acido. «Dove siete? Vi veniamo a prendere, le chiavi della macchina le hai lasciate a Yuu-chan.»

«Non fa niente… arriveremo a piedi all’auto, ci vorranno una ventina di minuti.»

«Ci vediamo lì, allora.»

Crowley chiuse la chiamata bruscamente e guardò prima Ferid, poi la sagoma del vescovo che si allontanava da loro.

«Che cosa ti ha dato?»

«Il tuo settimo senso fa le bizze, Crowley~» disse lui mostrandogli il volantino. «Fa parte di un gruppo di appassionati di travestimenti e feste in costume per adulti, per questo ci stava seguendo quando ha visto che abbiamo lasciato il bambino a casa! Ha pensato, giustamente, che non fossimo in costume per accompagnare dei bambini e ci voleva invitare nel suo gruppo.»

Crowley prese il volantino e lo lesse come se non potesse credere a quella versione, e poi fece un verso stizzito accartocciando il foglietto. Forse quello stillicidio di eventi seguiti da tragici fallimenti delle indagini lo stava davvero provando più di quanto non credesse.

«Oh, no, dai! Non fare il burbero, Crowley!»

Ferid prese il foglietto e lo stirò meglio che poté.

«Non è che perché ti è andata in bianco un’altra volta devi diventare irritabile, su~»

Crowley sospirò abbattuto e tornò sui loro passi lungo il ponte.

«Non mi ci far pensare.»

«Ma non è così tanto tardi, forse riusciamo a finire a casa quello che abbiamo iniziato~»

«Considerato che domattina devo cantare, ne dubito…»

«Ma potrei fare qualcosa per accenderti in fretta, ho una certa esperienza in questo~ o magari…»

Crowley, perso in un minuzioso quanto astratto calcolo dei minuti di cui disponeva escludendo il tempo di ritorno e un ammontare decente di ore di sonno, non badò quasi a Ferid che si allontanò dal suo fianco; almeno finché non parlò.

«Chissà se c’è un posticino appartato qui intorno, la vista è romantica~»

Quando si voltò a guardarlo si sentì tutto il corpo irrigidito da una scarica di terrore e serrò le dita sul cellulare mentre, apparentemente, il suo pomo d’Adamo si gonfiava in gola rendendogli difficile deglutire.

Ferid aveva scavalcato la prima recinzione, che era alta un metro e mezzo, e si era arrampicato sullo spesso bordo di cemento che delimitava la carreggiata e il marciapiede. Se ne stava lì a guardare il panorama delle luci riflesse sull’acqua, come ignaro che a pochi centimetri dai suoi piedi si apriva un salto di oltre settanta metri verso un muro d’acqua gelida e nera.

Crowley raggiunse la ringhiera di metallo.

«Ferid, scendi di lì subito.»

«Ma è molto bello il panorama… oh, guarda! Qualcuno sta sparando dei fuochi su una barca laggiù…»

«Ferid, scendi.»

«Che meraviglia, si riflettono sull’acqua… vieni a vedere, Crowley, è proprio bello!»

«Ne sono convinto.» fece Crowley, tentando di soffocare il suo panico crescente. «Ma tu scendi di lì.»

Ferid non replicò, facendo un profondo sospiro affascinato; forse non l’aveva neanche ascoltato. Il poliziotto scavalcò la recinzione metallica, ma si avvicinò con estrema cautela al muretto di cemento, come un gatto circospetto. Notò a malapena lo spettacolo sull’acqua quando vide che le punte degli stivali di Ferid erano oltre il bordo.

«F-Ferid. Scendi di lì, Mikaela e Yuu ci stanno aspettando.»

Si rese conto che stava perdendo il controllo della voce. Mascherò quell’incertezza con un sorriso che sperò essere convincente e allungò la mano.

«Su, vieni.»

«Non dureranno mica in eterno, no? Stiamo qui qualche minuto a guardare, Mika e Yuu-chan aspetteranno un pochino!»

Ferid gli afferrò la mano e lo tirò leggermente con l’intento di farlo salire sul muretto, ma Crowley tirò indietro il braccio, curvò le spalle e strinse occhi e denti come se si aspettasse di essere preso a calci. Seppe subito di essersi definitivamente tradito.

«Crowley… la tua mano… anzi, stai tremando tutto… che succede?»

A fatica riaprì gli occhi, ma non riuscì a guardarlo.

«Per… per favore, scendi di lì, adesso.»

«Oh… soffri di vertigini così tanto, Crowley? Ma che dolce~»

Ferid balzò giù dal muretto e il poliziotto riuscì di nuovo a guardarlo, anche se sentiva ancora le gambe poco stabili. Gli sembrava di aver reagito ancora peggio dell’ultima volta che era successo qualcosa di analogo e si chiese fino a che punto quell’assurda fobia potesse aggravarsi.

«Come mai tanta paura dell’altezza?»

«Non ho paura dell’altezza.» protestò lui, cocciuto come ogni volta che qualcuno gli faceva domande in merito. «Ho paura di coprire quell’altezza specifica in caduta libera fino a schiantarmi.»

«Vedi davvero molta differenza?» domandò Ferid divertito, e scavalcò di slancio la recinzione metallica. «Avanti, racconta! Hai paura da sempre o ti è venuta per qualche trauma?»

Crowley scavalcò la recinzione a sua volta con qualche difficoltà. Le gambe gli si erano irrigidite al punto che forzarle a muoversi gli faceva male.

«Non so… mio nonno ha una cisterna nella sua proprietà, una cisterna in cima a una struttura di metallo, come un vecchio acquedotto… la usa per l’acqua per gli animali.»

Crowley esitò e si passò d’istinto la mano sul petto. Non avvertiva dolore, ma un battito fin troppo accelerato per l’infimo sforzo fisico, con un affanno portato dalla paura.

Peggiora ogni volta, dannazione.

«Ti senti male?»

«Ah… no, no. Sto bene, è solo… mi fa questo effetto e… dannazione, Ferid, avevi i piedi proprio sul bordo di quel dannato muro!»

«Io non ho nessuna paura del vuoto o dell’altezza, anzi, mi piacciono i posti alti… una volta mi sono andato a sedere sul cornicione della torre del campanile della Saint Matthew!»

La sola idea di salire su un campanile e affacciarsi era abbastanza per stringere la gola di Crowley; l’ipotesi di sedersi all’esterno su un cornicione a strapiombo sul vuoto gli scosse le spalle con un brivido che non passò inosservato. Ferid infatti ridacchiò.

«Fifone~ ma quindi, sei caduto da quella cisterna o che cosa?»

«N-no… voglio dire, no, ci sono salito per andare con zio Frank a chiudere un buco nella tubatura, e per qualche motivo… quando ho guardato giù mi sono spaventato. Da allora mi ha sempre fatto paura guardare il vuoto da un posto in alto.»

«Ma guarda un po’… quindi non ti posso chiedere di portarmi allo Space Needle, è così?»

«Ovunque.» ribatté Crowley abbattuto. «Ovunque, ma non in quel posto terribile.»

«Oh, accipicchia, che peccato~ allora dovrò ripiegare su… San Pietro a Roma?»

«Va benissimo.»

«Ma in cima alla cupola~»

«Io ti aspetto giù.»

Ferid rideva come avesse sentito la barzelletta più divertente mai creata, snocciolando uno dopo l’altro altri posti assurdamente alti che gli sarebbe piaciuto vedere partendo dal London Eye fino alla sommità del Salto Angel, un’altissima cascata in Venezuela; ma il modo in cui aveva intrecciato le dita con le sue in un delicato conforto muto lo convinse che i suoi piani di terapia d’urto fossero solo scherzi.

Almeno, se lo augurava con tutto il cuore.

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Capitolo 28
*** Il segreto dei Cosworth ***


La mattina dopo il cielo era plumbeo e l’aria fredda, ma non pioveva quando i fedeli più mattinieri iniziarono a entrare alla Saint Thomas per messa di Ognissanti.

Ferid ripiegò l’etichetta che sporgeva dal collo all’interno del maglione che Crowley si era messo, uno dei suoi pochissimi “vestiti da festa”, e picchiettò con fare incoraggiante sulle sue spalle.

«Ti senti pronto?»

«Credo che vomiterò.»

«Ma figurati, non sei affatto teso, lo so.» disse lui, e diede una strizzatina a quelle spalle larghe. «Ti irrigidisci quando sei nervoso, e non lo sei per niente… e poi ti sei preparato bene~»

Crowley si passò la mano nei capelli, a disagio, ma Ferid aveva trovato tutt’altro che ridicole le sue sessioni di esercizi canori che erano invece molto professionali: lo aveva visto fare gli esercizi di respirazione tutti in giorni, ripassare i canti per ore con le cuffie nelle orecchie e qualche volta l’aveva sentito cantare attraverso il muro mentre giocava a scacchi nell’appartamento accanto con Mikaela.

«Mah, speriamo.»

«Oh, non fare il musone, non è mica il Cincinnati May Festival… basta e avanza per la messa della tua parrocchia.»

Lanciò un’occhiata intorno per assicurarsi che nessuno li stesse guardando e diede un bacio leggero sulle labbra di Crowley.

«E poi tu canti meravigliosamente~»

«Ecco, ora che l’hai detto mi sono montato la testa e steccherò tutto quanto.»

Crowley sorrise e gli diede un altro bacio sulla bocca, poi un altro ancora: dovette coprirgli la bocca con la punta delle dita per impedirgli di arrivare al terzo.

«Il coro si sta riunendo, devi andare.»

«Ci vediamo fuori quando finisce la messa.»

«E dove vuoi che scappi? Le chiavi le hai tu~»

Crowley sorrise e passò la mano dietro la sua schiena; pensò che volesse stringerlo o palparlo approfittando della penombra del corridoio laterale, ma poi sentì che gli metteva qualcosa nella tasca.

«Ora le hai tu… ma non scappare lo stesso.»

«Ooh, questi atti di fiducia mi commuovono~»

«Dovresti esserne onorato, non ho mai dato le chiavi della mia macchina a uno dei miei partner.»

Cynthia, la direttrice del coro, lo richiamò all’ordine e lui si ricongiunse al resto del coro per iniziare il riscaldamento della voce, ma Ferid non lasciò il corridoio e si appoggiò alla colonna per guardarlo da lontano.

Sentiva una profonda sensazione di serenità, nonostante le circostanze avverse della sua vita attuale, si sentiva allegro, entusiasta… felice, come non si era sentito mai neanche nei periodi tranquilli che era riuscito ad avere.

Non poteva sbandierare quella relazione, non poteva farla vedere chiaramente a tutti tantomeno in chiesa. Non era diverso dal vivere ancora nella casa buia dei suoi genitori, eppure provava un inspiegabile appagamento nel tenere celato quel segreto agli occhi di tutti, o quasi.

Ma quanto durerà? Avrò ancora questa sensazione, quando non vivremo più insieme… quando ci saranno giorni interi in cui non potrò più vedere il suo viso come prima cosa al risveglio?

Si aggrappò alla colonna di marmo come se quella potesse sostenere il peso di quei pensieri e lasciò uscire un sospiro affranto.

Lui tira fuori il meglio da me… se solo io potessi fare lo stesso…

Sospirò di nuovo e lanciò un’occhiata piena di desiderio e di sofferenza all’unica persona nel coro che avesse i capelli rossi. Provava un’enorme frustrazione perché aveva maturato, a ragione o a torto, la convinzione che Crowley fungesse da talismano; era come una fortissima luce che spazzava via l’ombra in cui si era abituato a vivere. Prima di conoscerlo non s’era mai sognato di opporsi al carattere prepotente di Krul e non si era mai azzardato a intervenire in una qualsiasi situazione pericolosa coinvolgesse altri.

Era un codardo, lo era sempre stato: scappare era la sua prima opzione quale che fosse il problema. Non si sarebbe mai sognato di aiutare la polizia in un’indagine pericolosa, di avventurarsi nella boscaglia alla ricerca di una bambina rapita, di precipitarsi dritto dritto incontro al suo nemico e sfidarlo a viso aperto… prima di incontrare Crowley O’Brian Eusford.

«Padre!»

Ferid si girò di scatto a quella voce così vicina, ancora aggrappato alla colonna come un koala, e vide una bambina con un viso familiare. Ci mise qualche secondo a ricordare che era Mary, la bambina con la malattia agli occhi; ma a vederli così pieni di gioia sembravano tutto tranne occhi malati.

Si affrettò a lasciare la colonna.

«Oh, Mary~»

«Padre, sei tu quello che mi ha segnato la fronte l’altra volta, vero?»

Ferid fece scorrere gli occhi sull’uomo dalla capigliatura ingrigita in piedi accanto a lei, che lo fissava con aria poco rassicurante, ma annuì senza curarsi di correggere l’errata attribuzione del titolo ecclesiastico.

«Sì, infatti, me lo ricordo bene… tu come stai, Mary?»

L’uomo, che poteva avere poco più di una sessantina d’anni, schiuse l’espressione corrucciata in una di sorpresa, poi con uno scatto afferrò la mano di Ferid facendolo sussultare.

«Eccellenza, avete fatto una grazia immensa a mia nipote…»

Eccellenza? Eccellenza, ha detto? Ma che diavolo hanno che non va in questa famiglia?

Troppo scioccato per riuscire a replicare qualcosa rimase in silenzio e se possibile raggiunse vette ancora più alte di perplessità quando gli venne baciato l’anello con la pietra rossa, tra uno sproloquio e l’altro riguardo alla “grazia di Nostro Signore” e al “miracolo che avete veicolato sulla nostra Mary”.

Ah… adesso ho capito perché.

In effetti Ferid credette di comprendere perché anche questa volta era stato scambiato per un prete, e pure vescovo: si era ancora una volta abbigliato di nero, con una mantella corta per coprire una provocante apertura sulla schiena che sarebbe stata inappropriata, e indossava un’alta cintura rosso cremisi alla vita che nella luce incerta di quella mattina nuvolosa doveva esser loro sembrata del colore di quella portata dai vescovi.

Comincia a diventare irritante… di sicuro se Gilbert lo viene a sapere si mette a ridere e poi attacca con i proseliti. Crowley poi… ah, speriamo che non glielo dica nessuno!

Stava per porre un freno alla logodiarrea del nonno di Mary tentando di aggiustare quel malinteso nel modo meno imbarazzante per tutti, ma poi si trovò ancora una volta senza parole quando sentì l’ultima frase da lui pronunciata:

«Non speravamo più, ormai, Eccellenza… ci era stato detto che non c’era neanche un trial clinico da tentare per la malattia di Mary. Non ci saremmo mai, mai aspettati che arrivasse a guarire.»

«Ma… Mary è guarita?»

«Sia lode a Dio, i medici hanno detto che è in remissione, e che presto sarà di nuovo sana.» replicò lui, raggiante. «Hanno detto che il corpo di Mary ha trovato da solo una risposta biologica per contrastare la malattia, ma noi sappiamo che cosa è davvero successo…»

Ferid si sentì come avesse ingoiato il grosso cubo di ghiaccio che Liam soleva usare per raffreddare il suo drink preferito. Rivide nella sua mente tutto il suo confronto con Gilbert, udì come fosse lì presente la sua voce raccontargli ancora di Padre Paulo, famoso per le sue guarigioni…

Strinse la mano dell’uomo, che ancora teneva la sua mentre parlava, che interpretò quel gesto come una compassionevole partecipazione all’emozione del momento anziché come quello che era: profondo, tempestoso terrore.

«Posso chiedervi, Eccellenza, di dirmi il vostro nome? Da quale diocesi estera venite? In verità Padre Gilbert è stato molto parco con le informazioni sul vostro conto, accennando a un viaggio spirituale…»

Prete o non prete, Ferid decise all’istante di vendicarsi dei pessimi scherzi di Gilbert, che di certo si era ben guardato dal dare informazioni veritiere quando gli era stato chiesto del misterioso “Padre” che aveva dato la benedizione alla piccola.

Fu allora che, alzando lo sguardo nella speranza d’intercettare il prete biondo, colse un’altra figura quasi altrettanto gradita dalla prospettiva di quell’angolo in cui era stato messo.

«Ah, perdonatemi. L’uomo che è appena entrato ha un appuntamento con me.»

Così dicendo liberò la mano e con un sorriso alla piccola Mary evase dal corridoio davanti all’altare del Sacro Cuore e raggiunse l’uomo con i capelli bruni e un abito da “occasione importante” che gli tirava fin troppo sul petto. Il suo sorriso intrigante e fastidioso allo stesso tempo ricomparve sul suo volto non appena lo vide avvicinarsi.

«Oh, mi hai invitato ma non immaginavo che saresti venuto a fare gli onori di casa, Pepper.»

«Fa’ finta di avere la faccia di uno che deve incontrarsi con un vescovo.»

Connor emise una breve ma spontanea risata.

«Che faccia avrebbe uno che deve incontrare un vescovo, scusami?»

«Usa l’immaginazione.» gli soffiò Ferid quasi senza muovere la bocca. «Seguimi.»

Connor era palesemente sorpreso, ma tornò quasi immediatamente a sorridere in modo provocante: non appena Ferid gli ebbe voltato le spalle per fare strada verso la canonica.

«Oh, beh, ora mi riesce molto facile immaginare, Pepper~»

«Dunque fallo.» replicò lui, ignaro di quale fosse il senso inteso dall’altro uomo.

Il sorriso e il suo sguardo vispo che indugiò ancora sui fianchi di Ferid l’avrebbero detta lunga sulle sue fantasie se solo qualcuno li avesse potuti notare, ma quasi nessuno si accorse delle due figure che sparivano dentro la canonica. Ferid fece un sospiro di sollievo e iniziò a rimuginare su come rattoppare quella situazione senza creare troppo imbarazzo per la famiglia di Mary.

È tutta colpa di Gilbert che non è stato affatto cristallino con loro… dovrebbe essere lui a…

«Eek!»

«Ah, che suono carino, Pepper!»

Sebbene Ferid avesse frequentato per alcuni anni della sua ventina una discoteca chiamata Black Roses – frequentata da adulti con delle precise preferenze in fatto di partner – e non fosse quindi nuovo a certi approcci, sentirsi palpeggiare in quel modo spudorato da Connor Maguire lo fece sentire come se fosse sprofondato nell’acqua ghiacciata di un lago: per un tempo apparentemente molto lungo gli sembrò di non riuscire a respirare.

«Allora… aspettiamo veramente un vescovo o ti piace questo genere di giochi di ruolo? Dimmi tutto, io adoro i giochi di ruolo.»

L’atteggiamento che aveva tenuto al loro primo incontro non era un caso e non era un’esagerazione: anche in quel frangente non esitò a mettere le sue mani dalle dita lunghe ovunque volesse e Ferid indietreggiò soltanto per trovarsi pressato tra il muro e il navy seal.

«Da dove vuoi iniziare?»

«Non… non voglio iniziare da nessuna parte!» sbottò lui, spingendolo via quando gli baciò il collo. «Che cos’hai in mente? Lo sai che io e Crowley stiamo insieme!»

«E quindi?» replicò lui con vago stupore. «Ginger è uscito con me anche mentre aveva dei tentativi di storia seria con altri. In almeno due occasioni, lo so per certo, me l’ha detto lui.»

La notizia gli sembrava così incredibile che guardò Connor come a sfidarlo a provare quelle sue bugie.

«Perché non mi credi? Ginger verrà anche in chiesa tutte le domeniche, ma ehi! Chi si viene a confessare così spesso di marachelle ne deve pur combinare parecchie, se no che cosa andrebbe a confessare?»

No, non può essere… il Crowley che conosco io non è così. Avrà anche un debole per quest’uomo, il suo incantatore di serpenti, ma lui…

Ferid schivò un tentativo di bacio, ma il sorriso di Connor non si incrinò.

«Si è sentito in colpa quando ha saputo che una sua fiamma era sposata quando ci è andato a letto, anche se lei gliel’aveva nascosto… un uomo del genere non tradisce.»

«Eh? Ma senti senti, davvero?»

Ferid annuì, ma la sua argomentazione non ebbe l’effetto sperato: anziché incassare il colpo e desistere Connor proruppe in una breve risata rauca.

«Proprio il mio Ginger! Da buon cristiano qual è ha mostrato finalmente il suo lato ipocrita! Ah, sono così orgoglioso di lui! Sai, le contraddizioni delle persone sono la mia passione… certo, uno della scuola cattolica che fa quello che fa lui era già una superba contraddizione, ma questa aggiunge un nuovo sapore!»

Poi, tutt’a un tratto, Connor abbandonò quell’aria felice per lanciargli un’occhiata provocante mentre gli accarezzava il viso con la punta del dito.

«Ora sono curioso di vedere le tue di contraddizioni… voglio vederle tutte e studiarle a fondo, quindi è meglio sbrigarsi. Sarà anche una messa cantata, ma non durerà in eterno e quando ci si diverte il tempo scorre che è un attimo~»

Questa volta la reazione non fu abbastanza rapida e le loro labbra si toccarono prima che Ferid gli assestasse uno spintone.

«Ma che diavolo fai?! Toglimi le mani di dosso!»

Per bella risposta Connor alzò le mani come se si trovasse sotto tiro di un’arma da fuoco, ma tornò a pressarlo contro la parete con il peso del suo corpo più massiccio e insinuò la gamba fra le sue.

«Connor! Ti ho detto di piantarla!»

«No, mi hai detto di non toccarti con le mani.» gli fece notare lui beffardo. «Sei poco preciso nelle tue richieste, non è che io sia un molestatore… ah, ma se ti piace il gioco posso recitare anche quella parte, no hay problema

«Connor, non voglio fare sesso con te, lo vuoi capire o no? Non voglio giocare con te nemmeno a carte, non voglio fare giochi di ruolo e non voglio nessun genere di provocazione sessuale da te!»

«Oh, wow, sai che sembri davvero sincero?»

«Può dipendere dal fatto che sono sincero, che dici?»

«Mmh.»

Connor prese a studiare la sua faccia come se vi leggesse una storia interessante, senza accennare a spostarsi.

«Spostati, ora. Guarda che io non ho il minimo problema a urlare “stupro”, anche se sono in una chiesa. Anche se sono un uomo.»

«Lo sanno tutti che si deve urlare “al fuoco”, i disastri attirano morbosamente le persone…»

«Quella parola attirerà esattamente la persona che sto cercando.»

Connor non smise di sorridere e indietreggiò, ancora con le mani sollevate. Ferid non gli tolse gli occhi di dosso mentre si sistemava i vestiti.

«Come vedi, non sono una cattiva persona. Visto che so che non stai scherzando ho smesso… ma a questo punto ho una domanda.» fece lui, abbassando le mani e assumendo un tono seccato. «Per quale motivo mi hai chiesto di venire qui, se non perché era l’unico luogo e momento in cui lui ti avrebbe lasciato da solo per un po’?»

Ferid si accigliò tanto da assumere il cipiglio di un falco pronto alla picchiata.

«Che razza di idea ti sei fatto? Ti avevo detto chiaramente che Crowley avrebbe cantato nel coro oggi.»

«Sì, infatti per questo ho immaginato che… aspetta, vuoi dire che mi hai chiamato perché venissi a sentirlo?»

«Beh, sì. Non canta nel coro da quando era bambino, s’è esercitato tanto e ha una voce meravigliosa, quindi…»

Davanti all’espressione attonita di Connor la voce di Ferid venne inevitabilmente meno. Gli era sembrata una buona idea invitare qualcuna delle persone più vicine a lui per sentirlo, perché inspiegabilmente Crowley sembrava vergognarsi del suo dono o del tipo di musica in cui lo impiegava e aveva pensato che mostrarlo ai suoi affetti più prossimi fosse una cura efficace… ma cominciava a pensare di aver sbagliato nell’estendere l’invito allo stregone.

Poi Connor scoppiò a ridere, una risata che non aveva mai fatto prima in sua presenza: era in imbarazzo.

«Oh, cielo, cielo… ho davvero travisato tutto! Sono mortificato, Pepper, di solito non prendo simili cantonate, ma… lo confesso: ti ho pensato qualche volta da quando ci siamo incontrati, dev’essere stato questo a farmi cogliere sensi che non c’erano.»

Connor scosse la testa e si tirò indietro i capelli bruni passandovi le dita nel mezzo.

«Non è da me, ma direi che è qualcosa di cui potresti vantarti, accade molto di rado.» gli disse, con un pizzico di malizia. «Mi dispiace per quello che è successo, comunque. Sono assolutamente sincero, non mi sarei permesso se non avessi avuto quella convinzione autoindotta che tu mi bramassi disperatamente~»

«Persino le tue scuse sono pessime.» constatò Ferid, e sospirò. «Beh, non importa. La funzione sta per iniziare, vado a sedermi.»

«Ah, posso sedermi con te?»

Ferid, con la mano già sulla maniglia, lo guardò accigliato.

«Prego?»

«Non sono un frequentatore di chiese e nemmeno tu, quindi almeno ci facciamo compagnia nel nostro disagio.»

«Cosa ti fa credere che io non vada in chiesa?»

Connor fece un sorriso e sfiorò la mantellina con le dita.

«Se ci andassi con una certa regolarità avresti dei vestiti più adatti a frequentarla.»

Ferid sospirò ma fece anche un buffo cenno con la testa, come ad accordargli un bersaglio centrato.

«Beh, siediti dove vuoi, ma credo mi metterò vicino a Angel Face e Penny Bucket

«Oh oh, ci sono anche loro? Hai invitato proprio tutti~»

«Se ho invitato te era ovvio che avevo raschiato il barile.»

«Ahh, d’accordo, d’accordo, me lo sono meritato!»

Ferid fece per aprire la porta per tornare alle panche della chiesa, ma si fermò e lanciò un altro sguardo a Connor, che lo guardò malizioso.

«Hai cambiato idea?» lo punzecchiò a bassa voce. «Sono disponibile in ogni momento e non chiedo spiegazioni.»

«Proprio uno slogan da rent boy, Connor.» osservò Ferid. «Ma no, volevo solo chiederti una cosa che mi incuriosisce.»

«Mh, vediamo se posso saziarti.»

«Perché lo chiami Penny Bucket?»

Connor emise una risatina divertita e con una leggera spinta sulla schiena l’invitò a uscire per primo dalla canonica; parlò solo quando si fu chiuso la porta alle spalle e fu certo che ci fosse una distanza di sicurezza da chiunque altro.

«Nella cittadina dove sono nato io c’è la neve quattro mesi all’anno, e il Natale è la festa più amata…»

«Vieni da Chinonso?»

Connor ridacchiò divertito.

«Accidenti, il mio accento mi tradisce sempre!» fece, schioccando le dita come avesse mancato una grossa occasione. «Nel periodo che precede il Natale la città di Chinonso si riempie di bambini e ragazzini che si vestono da elfi o pastorelli e si piazzano per strada a raccogliere le offerte…»

«Con i secchielli.» concluse Ferid, dopo l’improvviso lampo di comprensione. «Ma perché Yuu-chan te li fa tornare in mente?»

«Avevano tutti quella sua stessa faccia mentre suonavano le loro campanelle… con quel sorriso assurdamente felice e spensierato.»

In effetti, quando guardarono entrambi verso i due Hyakuya seduti alla penultima panca di sinistra, Yuu aveva esattamente quella medesima espressione.

 

 



Alla fine della terza esibizione del coro i fedeli presenti applaudirono entusiasticamente, avendo appena ascoltato una delle canzoni più amate scritte dal loro parroco dal grande talento musicale. Ferid si unì a loro come le due volte precedenti e ancora una volta si chiese se quegli apprezzamenti avessero reso Crowley più in imbarazzo o più sicuro della bellezza della sua voce.

«Ti ringrazio molto di avermi invitato, Pepper.»

Ferid guardò Connor, che seduto accanto a lui stava applaudendo in una posizione piuttosto elegante e formale, da teatro ebbe a pensare. In quel momento i suoi sospetti su di lui tornarono vividi come il primo giorno, ma sapeva che se voleva scoprire cosa c’era di strano in quell’uomo doveva fare tutto fuorché prenderlo di petto.

«Anche senza sesso?» gli disse a bassa voce, con un accenno di sorriso.

«Ginger racconta di sé con quello che fa, raramente a parole mi dice qualcosa… qualcosa di quello che sente, naturalmente. Lo conosco perché lo so osservare, ma questo non me l’aveva mai mostrato.»

Connor Maguire guardava Crowley con un sorriso senza malizia che turbò Ferid in una certa misura.

Possibile che nonostante tutto anche Connor sia innamorato di lui? Non mi dovrebbe sorprendere… amare un uomo come Crowley non è certo difficile, però…

L’uomo dai capelli bruni si accorse di essere guardato e ricambiò lo sguardo, ma non parlò e tornò a prestare attenzione alle ultime parole di Gilbert dal pulpito.

Però… se Crowley sapesse che per Connor non è uno dei tanti amanti… se pensasse di essere speciale, si convincerebbe di amarlo? Di volere lui e non me?

Era un terribile pensiero, perché Connor Maguire, qualsiasi lavoro facesse e persona fosse in realtà, era di certo un uomo con immenso fascino e carisma. Ferid era piuttosto certo di non essere in grado di sostenere un confronto diretto e per questo motivo l’idea che ci fosse dell’amore e non solo del sesso soddisfacente lo angosciava.

Solo quando intorno a lui le persone iniziarono a muoversi sulle panche, raccogliere borse e sciarpe e alzarsi si accorse che la funzione era terminata e che Gilbert aveva congedato i fedeli.

«Mika, placchiamo Crowley prima che scappi!»

«E dove vuoi che scappi, scusa?»

Nonostante l’argomentazione Mikaela si alzò e seguì Yuu verso l’altare, dove i membri del coro avevano “rotto le righe” e conversavano tra loro o si complimentavano con strette di mano e pacche sulle spalle. Connor si alzò e si abbottonò la giacca.

«Io penso che potrebbe scappare davvero, tagliamogli la strada.»

«Dubito che possa, ho io le chiavi della macchina, e lui odia correre.»

Lui rise divertito.

«Oh, se c’è una cosa che so bene di Ginger è che è molto meno prevedibile di quanto si possa credere… se fosse un uomo così noioso non ci uscirei da così tanto tempo.»

Ferid si morse il labbro, indeciso, poi allungò la mano per afferrare il suo braccio e trattenerlo per fargli quella spinosa domanda, ma non ci riuscì: si sentì trattenere dal braccio destro con una presa salda e Connor, ignaro di ciò, lo distanziò senza accorgersi che non poteva seguirlo.

L’esclamazione di protesta si restò bloccata in gola quando si voltò e vide l’uomo che lo stava trattenendo così saldamente: Sean Lesky lo fissava con la stessa ferocia di quando alla Belfast Arena aveva provato ad arrestarlo.

«Devo parlarti.» fece lui in tono forzatamente cortese. «Vieni.»

«Non voglio parlare con te. Lasciami il braccio.»

Sean Lesky non era un uomo che si potesse definire brutto: la pelle aveva il colorito caldo e piacevole di qualcuno che aveva passato dei giorni al sole, capelli scuri che seppur corti tradivano la loro natura riccia, occhi castani che sfumavano nel verde, sopracciglia folte ma curate come la corta e rifinita barba che gli copriva la mascella rendendola più importante, orecchie e naso proporzionati.

Dall’altro conto non era molto alto né particolarmente atletico fisicamente e in genere i suoi lineamenti avevano un che di grezzo che non veniva del tutto cancellato dall’evidente cura che aveva del suo aspetto. Guardandolo per la prima volta con attenzione, Ferid non seppe effettivamente dire se Lesky rispondesse ai canoni estetici di Crowley oppure no. Non aveva idea che lo stesso Crowley ancora si interrogava su cosa gli avesse fatto così tanto perdere la testa per lui quando questi si era messo a corteggiarlo.

La mascella di Lesky, così orgogliosamente adorna di barba, era serrata come se gli costasse molta fatica non trascinarlo via di peso.

«Devo parlarti.» ripeté a denti stretti, come non volesse far notare a qualcuno che era in corso una discussione. «Ora. Prima che lui finisca.»

«Non mi interessa nulla che tu abbia bisogno di dirmi di nascosto da Crowley.»

«Fosse per me io andrei dritto da lui a dirgli tutto, ma prima voglio…»

Ferid liberò il braccio con uno strattone e fece per andare incontro a Crowley, che vicino al pulpito stava parlando con Gilbert. Non gli importava affatto di cosa Sean Lesky volesse o non volesse.

«Bathory, fermo!» sbottò Lesky alle sue spalle. «O ascolti me o andrò da lui a parlargli dei Cosworth!»

Suo malgrado si bloccò, incapace di proseguire la sua strada e fingere di non essere sorpreso. Si voltò lentamente e un sorriso storto comparve sul viso del poliziotto, privandolo completamente della sua bellezza.

«Sapevo di attirare la tua attenzione… ho visto che c’è una serra dietro la chiesa.» fece lui, e accennò col pollice al portone. «Andiamo a parlare lì.»

Pur con l’occhiata sprezzante che gli lanciò, Lesky era convinto di essersi aggiudicato un round importante e ciò si rifletteva chiaramente nel suo passo baldanzoso mentre usciva. Ferid lanciò uno sguardo verso Crowley, troppo preso a parlare con una donna di mezz’età per notare qualsiasi altra cosa, e seguì il poliziotto degli affari interni fuori dal portone.

Non vide con quanto interesse Connor Maguire guardò i due uomini uscire dalla chiesa.

 




Dentro la serra faceva caldo ed era umido. Le piante di peperoncini erano cariche di piccoli frutti rossi, gialli e arancioni e Ferid si finse oltremodo interessato ad essi. Alle sue spalle Lesky incrociò le braccia e si piazzò davanti all’ingresso come a impedirgli la fuga.

Ma io non ho alcuna intenzione di scappare.

«Come hai saputo dei Cosworth?» gli chiese per primo, mentre apparentemente controllava il fogliame delle piante. «È emerso nel corso delle indagini su di me riguardo il caso del Vampiro?»

«De Stasio aveva lasciato dei dossier in una sala riunioni. Ho dato una scorsa prima che tornasse e l’ho scoperto.»

«Un dossier su di me, presumo.»

«Sì. Il procuratore ha chiesto un approfondimento sui sospettati, e per questo De Stasio si è incaricato personalmente di raccogliere informazioni su di te e io… beh, mi sono chiesto come mai tutti al dipartimento sembrassero proteggerti.»

Ferid raddrizzò la schiena e si voltò per guardarlo dritto negli occhi.

«Può dipendere dal fatto che il solo collegamento che le vittime hanno sono io, e anche se non è ancora chiaro come, io sono l’unica speranza che avete di prendere il Vampiro di West End?»

«Stai facendo dell’ironia, Bathory?»

«Oh, se stessi facendo dell’ironia te ne accorgeresti, Lesky, credimi.»

Lesky fece una smorfia irritata.

«Quanto lontano arrivano le radici dei Cosworth, Bathory? Quanto a fondo nel fango e quanto in alto?»

«I Cosworth sono decaduti ormai. Non sono altro che nomi su una lapide.»

«Raccontalo a Crowley se è così cretino da bersi anche questo.» ringhiò l’altro, e si avvicinò di qualche passo con aria minacciosa. «Prima i Cosworth, poi Trobiano… hai messo su una maschera da povero indifeso, di chi non ha nessuno che lo protegga, ma che cosa vuoi da Crowley? Lui non è come i Cosworth e nemmeno come i Trobiano.»

«In che senso, cosa voglio?»

«Lui non ha niente che possa interessare uno come te! Vive in affitto in quello squallido appartamentino in una palazzina che vale poco o niente, ha una vecchia macchina scassata e una moto, e neanche di quelle costose. La sola cosa d’oro che possiede è una collana a croce, e dopo la morte dei suoi avrà forse un paio di fedi nuziali e un orologio…»

Ferid girò l’orologio di Claude intorno al polso in un gesto inconscio.

«Non guadagnerai niente da lui, quindi che cosa vuoi? Perché lo stai tormentando?»

A quelle parole Ferid non riuscì a trattenersi: emise una risata breve e sprezzante.

«Ah, da che pulpito! A quanto ne so io, sei tu che lo tormenti da anni in ogni occasione, che minacciava le persone con cui usciva perché non potesse più avere nessuno al di fuori di te! E sembra che non abbia perso il vizio: stai usando i Cosworth come arma per convincermi ad andarmene, no?»

La luce di speranza che gli si accese nello sguardo fece capire a Ferid che Lesky non aveva confidato di possedere una moneta di scambio così forte. Dal canto suo, Ferid si fece un’idea più chiara dell’equilibrio in essere.

Anche se Dante ha indagato sul mio passato, Crowley non sa niente dei Cosworth, sembra… non so perché abbia deciso di non parlarne ai colleghi, ma non posso dire che non mi dispiaccia… peccato solo che tra tutti quei bravi agenti sia stato questo impiastro a venirlo a sapere.

Prese a gingillarsi con l’orecchino, assorto nei suoi ragionamenti mentre Lesky lo fissava con irritazione che montava come acqua impetuosa in una diga.

«Dirò tutto a Crowley… dei Cosworth, di te, e delle amicizie potenti che ti sei sbadatamente scordato di menzionare… a quel punto ti butterà fuori a calci da casa sua e si sveglierà. Capirà che tu sei l’unico Vampiro di West End.»

Ferid emise una risata amaramente divertita e scosse la testa. Con un sospiro coprì i due passi che lo separavano dall’agente e si chinò quanto bastava per portare gli occhi all’altezza dei suoi, con pochi centimetri a separare i loro volti; era così vicino che sentiva un profumo di sapone da bucato venire dalla sua camicia.

«C’è qualcosa che ti sfugge, Seanie

La sua espressione si indurì.

«Cosa?»

«Crowley è innamorato. Mi ama, capisci? Qualsiasi cosa venga a sapere di me non gli importerà… e ancora meno se a dirgliela sei tu.» aggiunse Ferid, e rise di fronte alla rabbia malcelata di Sean Lesky. «Ormai hai rovinato tutto, Lesky… hai perso nel modo più stupido uno degli uomini migliori che si possano mai incontrare. Ora, da bravo: accettalo e fatti da parte. È il mio turno.»

«Pensi che basti il tuo nome per spaventarmi? Ho sospeso decine di agenti con le spalle coperte da procuratori, avvocati di grido, governatori… non ho paura di te, Bathory.»

«Non importa se ti faccio paura o meno.» ribatté Ferid, annoiato. «Il tuo treno è partito comunque, e non ripasserà. Non dipende da me o da tutti gli altri suoi partner: è lui che non ti sopporta.»

Fece per scansarlo e uscire dalla serra, ma ancora una volta gli trattenne il braccio e Ferid dovette chiudere gli occhi e respirare profondamente: il modo di fare di quell’uomo lo stava irritando enormemente.

«Vedere Crowley accanto a uno come te mi disgusta.»

«Oh, ti capisco benissimo. Sono indegno di lui su molti fronti, lo so bene…»

Con uno strattone si liberò della sua presa e gli lanciò un’occhiata velenosa, che lui ricambiò: erano così vicini e i loro sguardi tanto feroci che delle scintille non sarebbero state così sorprendenti.

«Ma non sono uno stupido, io.» concluse Ferid, gelido. «Se lui crede per un qualsiasi motivo che io lo meriti, lo terrò al mio fianco e lo terrò stretto con tutta la forza che ho. Non sono abbastanza nobile da lasciarlo andare a cercare qualcuno che davvero meriti uno speciale come lui… almeno, finché non sarà Crowley a dirmi che non può funzionare.»

Aveva probabilmente esagerato con gli insulti, anche se sottili: aveva incendiato la rabbia viscerale di Sean Lesky. Il poliziotto gli afferrò la mantella e lo strattonò indietro, allontanandolo dalla porta della serra e togliendogli il respiro quando il tessuto tirò contro la gola. Gemette appena nell’urtare l’armadietto che conteneva gli attrezzi da giardinaggio più piccoli.

No, non di nuovo!

Si coprì la faccia per proteggerla dai colpi che il pugno sollevato dell’uomo moro minacciava, ma quelli non arrivarono: Lesky lo strattonò con forza tale da lacerare la cappa e lo forzò a guardarlo. Il suo viso era definitivamente deformato dalla furia, sembrava animalesco.

Non poteva vedere la propria faccia, ma quando Lesky si placò e tese un sorriso beffardo capì ugualmente che era compiaciuto di essere riuscito a mettergli paura. Gli afferrò il mento con forza, affondando volutamente le dita sul lato tumefatto del volto nascosto da uno strato di cosmetico coprente. Ferid soffocò a fatica il gemito di dolore e Lesky ridacchiò divertito.

Questa persona non sta bene… non è normale reagire in questo modo!

«Hai paura, adesso?»

Dai tanta aria alla bocca, ma tra noi due sembri tu il pazzo sadico.

Ferid decise che data la situazione fosse meglio tacere e si limitò a fissarlo. Lesky smise di sorridere e si accigliò guardandolo con palese disprezzo.

«Che cosa vede Crowley in te? In un uomo tanto ambiguo… un disturbato, un idiota che lavora in un negozio per svitati nel West End, dicendo di essere un vampiro vero… ha frequentato persone ignoranti, persone stupide e superficiali, ma mai gente della tua risma.»

Ferid non replicò, anche perché sembrava che Sean Lesky stesse pensando ad alta voce più che interpellarlo direttamente. Così assorto nei suoi ragionamenti allentò la presa e Ferid tentò di sgusciare via e coprire i pochi passi verso la porta, ma il poliziotto fu molto reattivo e lo prese per il gomito per sbatterlo di faccia contro l’armadietto; per un attimo quando gli incrociò i polsi dietro la schiena pensò che volesse arrestarlo.

«Che sia questo?» disse allora Lesky, con un tono freddo, quasi disgustato, scostandogli i capelli dall’ampia apertura a forma di rombo che lasciava scoperta la pelle sulla schiena. «È questo che lo attira di te? Il fatto che tu sia sempre vestito come se recitassi in un pessimo film a luci rosse? È questo il genere di partner che ora gli piace avere intorno…?»

«Lesky, Lesky~»

Ferid non riusciva a vedere né l’entrata della serra né l’espressione di Lesky, ma lo sentì distintamente sussultare al suono della voce di Connor.

«Come al solito non capisci niente, Lesky: quello che fa un pessimo film a luci rosse non è come sono vestiti gli attori, ma la qualità del contenuto!» gli disse lui con un tono da maestrino rivolto a un bambino particolarmente cocciuto. «E non è la sola cosa che non hai capito, direi…»

«Che ca- ah!»

Ferid lo sentì allentare la presa e mollarla; solo quando si voltò vide che Connor gli stava torcendo il polso per costringerlo a lasciarlo andare. Lesky vibrava di rabbia e lo guardava come se lo disgustasse la sua vista, e sorprendentemente Connor celava con quel sorriso lo stesso tipo di repulsione.

«Te l’ha detto Crowley l’ultima volta… non ti intromettere nella sua vita, non è più affare che ti riguardi.»

«Non ti azzardare, Maguire…!»

«Non mi sei simpatico, Lesky. Non c’è nulla in te che mi piaccia, quindi ti consiglio di non irritarmi oltre la tolleranza massima… al contrario di Crowley, a me non importa un accidenti se ti sbattono fuori dalla polizia o finisci in galera, e gli affari interni non hanno nessun potere su di me.»

Lesky emise un verso che pareva più un ringhio che una parola, ma Connor replicò con un secco “non ci penso neanche”. Ferid, appoggiato al bordo del tavolo che ospitava le piante di peperoncini, era leggermente sotto shock e non riusciva a riordinare i pensieri, ancor meno a parlare o a muoversi.

Connor sospirò esasperato e sospinse Lesky verso l’ingresso mentre mollava la presa sul polso.

«Fila via, imbecille… prima che io mi arrabbi, o che Crowley scopra che sei qui. Anche senza sapere per quale motivo si incazzerà comunque, ma se mi lasciassi sfuggire che cosa stavi facendo quando sono entrato, beh…»

Lesky non disse nulla né cambiò espressione: lanciò un’occhiata velenosa a Connor poi a Ferid; sputò per terra e se ne andò, lasciato una quiete tesa nella serra a gradevole temperatura.

Ferid si massaggiò i polsi con aria assente, rimuginando su quello che era appena accaduto. Non era stato sicuro che Crowley ignorasse il suo passato, fino ad allora; aveva il dubbio che avesse semplicemente scelto di non parlarne per non causare attrito o disagio tra di loro.

Gli occhi celesti si alzarono di fretta e scrutarono Connor Maguire, ma vedeva solo la sua nuca di capelli bruni e il collo segnato da un’irritazione rossastra di sospetta origine. Quasi avesse sentito il peso dello sguardo si voltò per ricambiarglielo con vago stupore, come se si fosse appena accorto che c’era anche qualcun altro.

«Tutto okay, Pepper? Niente di rotto?»

«Niente… tranne i miei vestiti.»

Ferid si incupì guardando il misero resto di quella che era stata una cappa di un certo pregio sartoriale: era troppo danneggiata e il tessuto era troppo delicato per pensare di poterlo sistemare, anche affidandolo a mani più esperte delle sue. Non sapeva che cosa fare: se l’avesse indossata qualcuno avrebbe notato che era così strappata, se non l’avesse fatto tutti avrebbero visto con che abbigliamento provocante si era presentato a una cerimonia in chiesa, e in entrambi i casi Crowley avrebbe voluto delle spiegazioni.

Con un sospiro l’appallottolò e decise che l’avrebbe gettata nel bidone poco distante dalla serra, avrebbe cercato di farsi notare il meno possibile di schiena fino all’automobile e al suo compagno avrebbe detto che semplicemente doveva averla perduta in chiesa in qualche momento non ben chiaro. Era un azzardo, ma per come la vedeva era un azzardo in ogni caso.

Stava per uscire dalla serra e controllare se ci fosse qualcuno in vista quando sentì i passi di Connor e le sue mani toccarlo: gli aveva appena messo la sua giacca sulle spalle.

«Mh, non è un po’ eccessivo per una messa, Eccellenza? Per quanto bella possa essere la sua schiena, così chiamate gli uomini al peccato…»

«Ah, beh… in realtà, è successo che…»

«Progetti interessanti per il rientro a casa?» azzardò lui, abbassando la voce. «Lui sa già che sei vestito così, sotto?»

Sentiva una punta di imbarazzo, ma l’espressione fin troppo birichina di Connor sembrava voler elogiare tanto ardente spirito d’iniziativa e in qualche modo se ne sentì lusingato, quindi si decise ad annuire.

«Quanta eleganza, Pepper… questo genere di sottili preliminari erotici sono quasi in disuso nell’epoca del sexting e dei vibratori miniaturizzati col telecomando. Sono estasiato.»

«Contieni l’estasi, Connor, non ho apparecchiato per te.»

«Scusami, ma questo non scalfisce il mio entusiasmo.»

Connor passò la mano tra i suoi capelli e con un gesto fluido li liberò da sotto la giacca, come faceva spesso Crowley a casa quando gli metteva una giacca o la vestaglia addosso.

«Nel caso sia necessario ribadirlo, nonostante il tuo eroico salvataggio la risposta che ti ho dato in canonica è ancora valida.»

«Ne ero certo… io invece sono molto più interessato di prima. Anzi, direi che adesso mi interessate allo stesso modo, tu e Ginger.»

«Connor, non…»

«Ah, no es nada, no es nada.» fece lui sventolando la mano. «Non preoccuparti. Io amo far sapere alle persone esattamente in che modo e in quale misura mi interessano, perché non ci siano fraintendimenti… almeno, dalla mia parte. Tienilo a mente, nel caso tu… beh, nel caso si presentasse l’occasione con le circostanze giuste.»

Non poteva sperare nelle circostanze giuste, perché per poter decidere in totale serenità di concedersi a Connor – o a chiunque altro – Crowley avrebbe dovuto svanire dal presente e dal passato come un sogno che scivola via al risveglio.

Ah, perché non sei mai capitato nel mio negozio?

Si sentì colpevole a rimpiangere l’impegno che aveva preso con Crowley, in particolare perché lo stava facendo per un uomo che molto difficilmente si sarebbe impegnato in una storia seria o l’avrebbe amato nel modo dolce in cui lo faceva il detective. Il suo disagio lo portò a distogliere lo sguardo dall’uomo bruno prima di decidere di sottrarsi all’intera situazione uscendo dalla serra.

Aveva appena fatto in tempo a superare l’impatto tra la temperatura calda e umida interna e quella più fredda fuori che sentì le dita di Connor toccargli il collo e indugiare con delicatezza sulla sua gola.

«Pepper, ancora una cosa.»

«Che cosa?»

«Non ho niente contro le persone che tengono segreti, anzi… per molti versi sono le più affascinanti e interessanti… ma…»

Le unghie di Connor, curate e discretamente lunghe per un uomo, affondarono appena nella pelle sopra il suo pomo d’Adamo e furono solo quelle a dare una sfumatura di minaccia al tono invece amabile che usò subito dopo.

«Se quella storia dei Cosworth… se uno qualsiasi dei tuoi segreti può far male a Ginger io mi arrabbierò molto.»

Ferid dominò piuttosto bene la paura, mascherandola con la sola forza della sua innocenza, per così dirla: solo il pensiero che difficilmente la storia dei Cosworth potesse danneggiare umanamente Crowley gli diede la calma sufficiente a non scomporsi. Riuscì persino a sorridere.

«I miei segreti peggiori li conosce già tutti… non c’è niente altro che possa fargli male.»

«Lesky sembrava proprio convinto di sì.»

«Lascia perdere Lesky… cosa mi dici dei tuoi segreti, Connor Maguire?»

Ferid lo guardò con la coda dell’occhio voltando appena la testa. Non notò alcuna reazione.

«Di quali dei molti?»

«Per esempio, il motivo per cui gli dici di essere un navy seal quando non è vero…»

«Oh?» fece lui, sorridendo, e l’indice accarezzò il collo di Ferid. «Da dove ti viene quest’idea malsana?»

«Non sei un navy seal, e con me ti comporti diversamente da come fai quando c’è lui… come se volessi darmi degli indizi per smascherarti. Vuoi farmi sapere che non sei quello che hai detto a Crowley, ma perché? Chi sei esattamente?»

Connor Maguire tese un sorriso inquietante, eccitato in modo morboso, ma durò un attimo così breve che Ferid non fu nemmeno sicuro d’averlo davvero visto bene. Gli lasciò il collo e passò la mano sulla spalla.

«Hai ragione, Pepper, non sono un navy seal… sono uno psichiatra, in verità, e sono stato chiamato anche come profiler. Collaboro spesso con l’unità vittime speciali.» snocciolò lui con una scrollata di spalle. «Sono stato nell’esercito per davvero e ho mollato l’addestramento dei Seals a metà… dico a Ginger che lo sono perché la gente si sente in imbarazzo a frequentare uno psichiatra e profiler, si sentono sotto un microscopio.»

L’uomo lasciò scivolare la mano sulla giacca in corrispondenza dell’apertura sulla schiena di Ferid.

«A Ginger fa molto bene lasciarsi andare come fa quando sta con me, quindi pensi che potresti mantenere il mio segreto? Non vorrei che lo shock lo turbi tanto da incrinargli la fiducia nel prossimo, le persone stupidamente oneste come lui prendono molto male le bugie.»

Connor ficcò la mano in tasca proprio nel momento in cui una figura molto familiare con i capelli rossi e le sopracciglia aggrottate con sospetto li raggiungeva dalla porta della canonica, con i ragazzi Hyakuya al seguito.

«Connor, che diavolo stavi facendo?»

L’uomo assunse un’aria corrucciata, come di chi stesse cercando di ricordare qualcosa di vago e remoto.

«Uhmm… Belial?»

«Che?»

«Non mi hai chiesto che diavolo sto facendo? Belial è un diavolo, no?»

Mikaela fissava Connor, come sempre, in cagnesco, e se possibile si inferocì ulteriormente alla risata malcelata di Yuu. Crowley mitigò solo in parte la sua espressione.

«Connor, non scherzare su queste cose.»

«Mi hai visto ridere, Ginger?»

Crowley restò a fissarlo per diversi secondi senza che nessuno degli altri tre trovasse qualcosa da dire o facesse alcunché, poi scosse la testa.

«Okay, non mi interessano le tue pratiche esoteriche, voglio solo sapere perché stavi tenendo Ferid per il collo.»

«Ehh? Ma ti pare che lo farei mai?»

«Sappiamo entrambi che è una cosa che fai eccome.»

«Non in queste circostanze, e… oh, Ginger.» fece poi in un sussurro udibilissimo. «Vuoi davvero che ne parliamo davanti a questi ragazzini?»

«Non svicolare, Connor, serpente infido.»

«Ah! Così brutale, Ginger!»

«E dacci un taglio con questo Ginger, o ricomincerò a chiamarti Dirty Boots.»

«Si accomodi~»

Crowley lo guardò irritato, poi puntò gli occhi su Ferid e – la sua coscienza si dibatté un poco a disagio – sulla giacca sulle sue spalle.

«Che cos’è successo, Ferid? Che cosa ti stava facendo?»

Molte possibilità di risposta si affacciarono alla mente di Ferid, e dopo un lungo dibattito interiore – in termini di millisecondi – scelse un’opzione e indossò un’espressione seccata.

«Cominci a sembrare Krul, sai? Non è che ogni volta che resto solo con un uomo quello stia cercando di portarmi a letto o di uccidermi.»

Crowley ne rimase piuttosto confuso.

«Non ho detto questo, ma…»

«Non c’è bisogno che tu mi difenda sempre, non sono perennemente in pericolo.»

«Sì, ma…»

«E pensavo anche che tu, tra tutti, saresti stato allergico alle scenate di gelosia.»

«Ti stava tenendo per il collo!» sbottò Crowley lanciando un’occhiata all’amante.

«Ma figurati.» minimizzò Ferid, scrollando le spalle. «Mi trova così terribilmente sexy che non riesce a tenermi le mani lontane, tutto qui.»

Crowley e i due ragazzi lanciarono un’occhiata a Connor.

«…Terribilmente sexy~» confermò Connor con un ghigno.

Crowley emise un verso a labbra serrate che era una via di mezzo tra un ringhio e un mugugno. Mikaela sembrava particolarmente incredulo e Ferid ne fu così offeso che incrociò le braccia al petto accigliandosi come un falco.

«Quindi non è successo niente che dovrei sapere?»

«Niente~»

«Non l’ho chiesto a te, serpente!»

«Non mi dispiace questo soprannome, ma Dirty Boots era più iconico.»

Crowley ignorò completamente Connor e guardò Ferid come fosse pronto a smantellare una complicata montatura in sala interrogatori.

«Allora?»

«No, Crowley… sto bene e non è successo niente di importante, a parte che Connor ha usato le sue peggiori arti di persuasione per sedurmi mentre tu eri distratto con il coro.»

Connor, con sua sorpresa, gli scoccò un’occhiata sconvolta che nascose un attimo dopo appena Crowley gli puntò gli occhi addosso. Ferid si domandò se l’uomo non intendesse includere anche quella specifica parte nel segreto che avrebbe dovuto mantenere.

Beh, se voleva che tacessi anche questo doveva essere più specifico.

Crowley non disse nulla né parve particolarmente alterato, ma afferrò il braccio di Connor e lo trascinò lontano dagli altri tre.

«Devo parlarti.»

«Ah, non mi prendevi con tanta impazienza da un bel po’!»

Ferid e i ragazzi Hyakuya erano tutti ugualmente curiosi, infatti tacquero con l’esplicita intenzione di captare quanto più possibile della discussione tra i due uomini vicini alla cancellata della chiesa, ma non parlavano abbastanza forte da permettere di sentire qualcosa di chiaro. Yuu arrivò anche a chiudere gli occhi e ascoltare usando le mani come parabola aggiunta delle sue orecchie, ma poi scosse la testa.

«Non distinguo le parole.»

«È più geloso di lui o di te? Che ne pensi, Ferid?»

Ferid non incrociò lo sguardo con Mikaela, e si fece pensieroso. In realtà non ne aveva idea e in un piccolo angolo di lui si chiedeva ancora se Crowley avrebbe scelto diversamente qualora Connor si fosse dichiarato disposto a intraprendere una relazione seria ed esclusiva. Alla fine scosse la testa e Mikaela non aggiunse altro.

Dopo un altro minuto circa i due tornarono dagli altri, con espressioni decisamente serene: qualsiasi discussione fosse intercorsa era stata risolta pacificamente… ma Ferid avrebbe tanto voluto sapere che cosa riguardava e in quali termini era stata chiusa.

«Beh, direi che possiamo andare a casa, adesso…»

«Oh… sì, okay…»

«Divertitevi, ragazzi~»

Ferid si fermò dopo un passo, indeciso sul da farsi, e poi guardò Connor, che aveva sfilato una sigaretta da un pacchetto ammaccato con le labbra.

«Passi tu o ti chiamo? Per la giacca, intendo dire.»

Connor fece un sorriso storto e si accese la sigaretta.

«Chiamami tu, sarà bello leggere il tuo nome sul display, stavolta.»

Ferid emise un verso incerto tra una sbuffata e una risata e scosse la testa. Crowley, che dimentico di averle date al coinquilino era a caccia delle chiavi della macchina nelle tasche, lo guardò.

«Stavolta? Quando mai ti avrebbe chiamato?»

«Beh, ieri pomeriggio, quando mi ha invitato a sentirti cantare nel coro oggi.»

«Ma… ma come… l’hai chiamato tu? Dove hai preso il suo numero?»

«Dal tuo telefono, naturalmente, dove altro?»

Mikaela e Yuu, che camminavano dietro il terzetto, passavano lo sguardo alternativamente su di loro come fosse una caotica partita a badminton.

Crowley sembrava sorpreso e anche vagamente in imbarazzo.

«Non tengo le conversazioni, e… come l’hai trovato, Ferid?»

«Beh, nella tua rubrica hai un “pescivendolo”… e visto che non mangi pesce e non lo compri mi sono domandato perché avessi chiamato anche di notte un simile commerciante~» spiegò Ferid, con una risatina divertita. «Allora… è una deduzione degna del detective Eusford?»

«Non so se ci sia da vantarsene.» osservò Connor, vagamente deluso. «Se nascondere il mio numero sotto un’identità del genere è il meglio che il detective Eusford sa fare…»

Crowley tacque mentre le sue orecchie diventavano un po’ più uniformi al colore dei suoi capelli.

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Capitolo 29
*** Inevitabile ***


 

Due segni furono “mandati dal cielo” ai due uomini per intimare loro di rispettare i termini del patto stipulato da Crowley.

Nel pomeriggio del primo novembre – quando avevano deciso di cedere ed erano a buon punto della via per la perdizione – un fraintendimento riguardo la posta scatenò un feroce litigio tra gli Hyakuya Boys, tanto feroce da sentirsi in metà del palazzo: Mikaela si era ingelosito tanto da smettere di ragionare quando aveva trovato una lettera che sembrava scritta da un’amante di Yuu e Crowley si sentì in dovere di intervenire per evitare che tutto degenerasse e qualcuno dei piani inferiori chiamasse un altro poliziotto.

Certo la lettera della misteriosa ragazza conteneva dettagli curiosi, parlando della recente promozione e lasciando intendere che il giovane la incontrasse quando le installazioni lo portavano a tiro di casa sua, ma alla fine un paio di telefonate strategiche svelarono il mistero: un collega di Yuu era l’amante della ragazza, che non conoscendone il vero nome era andata dritta in azienda – presumibilmente accampando una scusa – a domandare l’indirizzo del loro operatore. Per un errore di compilazione dei turni le avevano dato quello di Yuu. Il collega dalla doppia vita passò un’ora al telefono a spiegarsi e a scusarsi con Yuu e Mikaela per i problemi che erano derivati dai suoi sotterfugi, ma nessuno si scusò per aver stroncato le speranze di Ferid e di Crowley.

Il secondo segno fu mandato il giorno dopo, subito dopo la cena. Al numero ventiquattro i due coinquilini erano determinati a portare a termine finalmente il loro programma, ma Crowley riuscì a malapena ad aprire la camicia di Ferid che un suono prolungato lacerò l’atmosfera silenziosa della palazzina: era l’allarme antincendio. Inizialmente pensarono – sperarono – che fosse soltanto un contatto, ma la sirena non smetteva di suonare e furono costretti a evacuare il palazzo con tutti gli altri inquilini.

Intervennero i vigili del fuoco per spegnere un incendio tutto sommato contenuto nell’appartamento numero otto, causato da un bambino che giocando al cowboy aveva acceso un fuoco per il suo “bivacco” con la tenda del soggiorno. La serata scivolò via tra controlli medici e sopralluoghi dei piani soprastanti, e fu allora che Ferid cedette alla scaramanzia e insieme decisero di attendere il sette novembre prima che qualcuno ci rimettesse le penne.

 

La sera del sei novembre Ferid aspettava il ritorno di Crowley dal suo turno di lavoro. Anche se canticchiava come faceva spesso mentre puliva o cucinava, era teso: con i precedenti che si erano avvicendati aveva paura che non sarebbe rientrato per chissà quale emergenza, quindi quando sentì il rumore dell’ascensore si rilassò. Sapeva che i ragazzi Hyakuya erano in casa e che di norma usavano le scale, perciò diede per scontato – forse ingenuamente – che fosse proprio il suo uomo di ritorno.

La serratura scattò e Crowley rientrò in casa con l’espressione tesa, che si rilassò quando vide Ferid in cucina nel mezzo dei preparativi per la loro “cenetta romantica in casa”. Questi capì subito che, come lui, anche Crowley si aspettava o temeva che succedesse qualche altra catastrofe.

«Ciao.» gli disse chiudendo la porta. «Tutto okay?»

«Sì, tutto okay… com’è andata al lavoro?»

«Piuttosto bene… siamo sempre a piedi col caso del Vampiro, ma almeno abbiamo chiuso il caso dell’omicidio ai docks e il procuratore ha aperto il fascicolo contro il nostro indiziato per l’assassinio della coppia ad Hanway Park, quindi…»

Crowley si bloccò e fece una risata imbarazzata.

«Perdonami, i dettagli del mio lavoro non sono molto adatti a una cena romantica… parleremo d’altro, lo prometto!»

«Oh, lo sai che non mi turba… ho uno stomaco forte per queste cose, no? Puoi parlare di tutto quello che vuoi.»

«E tu risponderai?»

«Vuoi farmi domande?»

«Sì.»

«Allora risponderò.» garantì Ferid, e posò la mano sul petto in una simulazione di giuramento. «Sarà un interrogatorio o un’amichevole conversazione?»

«Un amichevole interrogatorio.» replicò Crowley, ma sorrise e posò sulla tovaglia rossa un sacchetto. «Voglio sapere più cose di te… di quando eri più piccolo, dei lavori che hai fatto prima di diventare un libraio… voglio la tua storia ancora non detta.»

Ferid si appoggiò al bordo del ripiano della cucina e si tirò i capelli indietro oltre la spalla. Li aveva lasciati sciolti in previsione di quella serata.

«Ti interessa così tanto il mio passato? Gli eventi salienti ormai li conosci.»

«No, conosco i tuoi traumi e le tue perdite… voglio sapere qualcosa di bello. I tuoi momenti felici.»

«Sarà una conversazione breve, allora.»

Crowley sbuffò e scosse la testa.

«Sai cosa? La gente si dimentica le cose belle in mezzo a tanto schifo, ma ti farà bene riesumarle.»

Ferid preferì non insistere nella sua convinzione di aver ben poco da dire, per non rovinare il suo umore. Solo quando Crowley andò al lavabo per lavarsi le mani dedicò attenzione alla busta di carta e il logo stampato sopra lo fece addirittura arrossire.

«Crowley!»

«Uh? Che c’è?»

«Sei andato da Albador!»

«Oh, sì, eccome.» confermò lui con un tono inequivocabilmente malizioso.

«Perché?!»

«Non hai detto che vai matto per il loro burrito con chili, riso e guacamole? Te l’ho comprato, insieme a qualche altra cosa.»

«Stai… cosa… perché? Lo sapevi che volevo preparare le bistecche per la nostra cena romantica! Cosa sei, un ragazzino, che la tua idea di appuntamento è mangiare al fast food?»

Crowley era molto divertito dal suo disappunto.

«Posso rispondere onestamente?»

«Direi che sei obbligato a farlo!»

«Non so immaginare niente di più afrodisiaco di te che mangi una schifezza da fast food.» fece lui, lasciandolo del tutto basito. «Dopo averti visto finora mangiare come uno scricciolo verdurine e altra robetta da salutisti io desidero da morire vederti mangiare di gusto… quindi ti ho portato la migliore esca.»

«Ma insomma, Crowley… è imbarazzante, che cos’hai in quella testa rossa?»

«Fammi capire.» l’interruppe lui alzando un sopracciglio. «Non ti vergogni se entro a fare pipì mentre fai il bagno, non è imbarazzante dormire senza vestiti addosso nel mio stesso letto, ti sei lasciato vedere in camice ospedaliero, ricoperto di fango, sporco di grasso di motore, ma è imbarazzante se ti vedo mangiare un cibo che adori?»

Ferid si accigliò e lo fissò come un bambino costretto a salire in macchina per andare a far visita alla nonna strega. Crowley allungò la mano dandogli un buffetto sulla guancia con un sorriso incoraggiante.

«Non fare quella faccia, dai! Sai, anni fa uscivo con un ragazzo, Werner… faceva l’idraulico ed è la persona più rozza che abbia mai incontrato. Se non fosse che grufolava di proposito per farmi ridere, avrebbe fatto quasi schifo guardarlo mangiare! Non ti preoccupare, non mi sembrerai meno affascinante se mangi con le mani o ti sporchi la faccia con la salsa. Non credere che io farò diversamente.»

Visto che ancora non pareva convinto Crowley scrollò le spalle e iniziò a togliere le pietanze dalla busta di carta.

«Te l’ho già detto, no? Qualsiasi tipo di uomo, purché sia vero. Se sei così va benissimo. Non ti formalizzare con me.»

Ferid rilassò le spalle, ma era ancora preso da qualche dubbio. Non lo stesso di prima, però.

«Crowley, senti… ogni tanto accenni ai tuoi ex, ma quanti sono esattamente? Non citi mai lo stesso nome…»

«Ah… uhm…»

Crowley si passò il pollice e l’indice sulla mascella, assorto a pensare. Più a lungo durava il suo silenzio perplesso più Ferid si indispettiva.

«Troppi per poterli contare?»

«Ah, no, no… ma non è che faccio le tacche sulla cintura, non li ho mai contati… sto cercando di ricordarli in ordine cronologico.»

Crowley rimase un buon minuto a mormorare e riordinare i pensieri. Ferid fece finta di badare poco alla risposta sistemando il tavolo per il nuovo menu, togliendo i coltelli da bistecca e la bottiglia di vino. Forse, si augurava, l’avrebbero stappata dopo, nell’attesa della mezzanotte.

«I miei ex maschi sono undici.» annunciò Crowley alla fine. «Le donne, incluse le scappatelle, sono nove… a questo devo aggiungere che non sono sicuro di cosa ho combinato anni fa a Boca Agua, non mi ricordo quasi niente.»

«In che senso, non ti ricordi?»

«Beh, sai com’è… Boca Agua è… come Daytona Beach, ma in Messico. Ci vanno comitive di ragazzi prima del college oppure dopo, per fare un po’ di baldoria prima di rimettersi a fare le cose serie…»

«Sei stato in un posto del genere? Senza che i tuoi ti sbattessero fuori casa?»

«Beh, loro non lo sanno, all’epoca gli dissi che andavo in Messico a migliorare il mio spagnolo con un corso intensivo… non una menzogna, dopotutto.»

Crowley sedette al tavolo e guardò divertito l’espressione indispettita solo parzialmente celata di Ferid.

«Sono troppi per i tuoi gusti?»

«Trattandosi di te anche solo uno mi sembra uno di troppo.»

«Cavolo, davvero? Sono onorato, finalmente sei geloso di me quanto lo eri del tuo capo!»

Crowley prese un nacho e cercò tra i vasetti di salse quella piccante. Fu allora che gli ex di lui uscirono dalla mente di Ferid, che lo fermò toccandogli il polso.

«Aspetta, aspetta! Prova questa!»

Crowley lo guardò con stupore e sospetto quando lo vide porgergli uno dei piccoli vasetti che teneva capovolti su uno strofinaccio sul ripiano.

«Da quando prepari delle conserve, Ferid?»

Era ben vivido nella sua mente il ricordo di miriadi di vasetti capovolti sul mobiletto della veranda di nonna Susan, quando preparava le conserve con le verdure o le confetture di frutta, quindi sapeva bene che Ferid doveva aver preparato qualcosa del genere e aveva capovolto i vasetti bollenti per mandarli sottovuoto.

«In realtà è solo la terza volta che lo faccio, ma è la prima volta che provo questa! Dimmi come ti sembra, è bella piccante.»

Crowley annusò la crema arancione vivido e senza tante cerimonie ci ficcò dentro il nacho prima di mangiarlo. Dopo appena un attimo in cui percepì il gusto del peperone esplose la bomba del peperoncino, abbastanza potente da spingerlo ad affrettarsi a prenderne un altro con abbondante salsa di formaggio.

«Wah… Ferid, è pazzesco, ma con che cosa l’hai fatto? Fuoco d’inferno?»

«È troppo forte? Dovrò metterne di meno…»

«Stai cercando un lavoro alternativo da fare da casa o che cosa?»

«L’ho preparato con i peperoncini che coltivano i bambini alla Saint Thomas.» spiegò lui, e ne mise un po’ su un nacho. «Gilbert mi ha chiesto se volevo contribuire alla vendita di beneficenza che fanno prima di Natale, e quindi stavo pensando come potevo essere utile. Non è che io sappia fare molte cose, soprattutto non so fare dolci.»

La reazione di Ferid all’assaggio non fu molto migliore di quella di Crowley.

«Ahh… sì, è un po’ troppo…»

«Forse, però è buono… penso che potrebbe vendere, in fondo non siamo lontani dal quartiere spagnolo, e siamo abbastanza abituati a un certo scambio. Io vado sempre da loro a comprare il tortino salato al chorizo, quindi potrebbero apprezzare una crema così piccante…»

«Posso sempre fare la prossima con la metà del peperoncino, per fare qualcosa che possa piacere a più persone… pensi che vada bene come contributo?»

«Scherzi? Gilbert sarà entusiasta, penso sia stufo di mangiarsi tutti quei peperoncini da solo.»

Racconti e aneddoti sulle vendite di Natale degli anni precedenti accompagnarono gran parte della loro atipica cena messicana, e furono tanto coinvolgenti che Ferid si dimenticò di imbarazzarsi mentre faceva fuori ben due dei suoi burrito preferiti. Anche se non avevano gustato le bistecche fecero comunque posto alla porzione di pannacotta ai frutti rossi che Ferid aveva preparato seguendo “passo passo la ricetta insuperabile di Mikaela”: Crowley sapeva che non poteva essere fatta di vero latte o panna, ma il gusto era tanto corposo che non l’avrebbe mai sospettato se non avesse saputo della spaventosa intolleranza di Ferid al lattosio.

Cenando, chiacchierando e poi sparecchiando il poco che avevano sporcato si fecero le nove, ma la mezzanotte era ancora lontana e fu l’esatto pensiero che ebbero quando guardarono l’orologio appeso al muro. Si accorsero di averlo guardato nello stesso momento e si trovarono a ridere.

«È come essere bambini che aspettano la mezzanotte per aprire i regali di Natale…»

«Mh? Aprivi i regali la sera di Natale, Ferid?»

«Beh, io vivevo di notte, no? I miei tempi erano diversi da quelli degli altri bambini.»

«Io li ho sempre aperti al mattino, ma si faceva sempre una grande cena a casa dei miei nonni… io, Nathaniel e Charity potevamo giocare senza orari per andare a letto e alla mezzanotte potevamo aprire una scatola che preparava nonna Susan.»

Crowley ne indicò l’approssimativa grandezza con le mani.

«Ci metteva dei panini dolci, un barattolino di marmellata, del cioccolato, delle caramelle che faceva lei, dei biscotti o altre cose del genere… dolcetti di marzapane, pandizenzero, o i suoi tortini di formaggio… ogni anno era un po’ diverso il contenuto, ma quando lo aprivamo potevamo mangiare una di quelle cose, prendevamo un bicchiere di latte, e dopo andavamo a letto…»

Ferid lo ascoltò sorridendo, cercando di immaginare quanto poteva essere piacevole passare il Natale con la famiglia e avere fratelli o cugini con cui giocare e condividere dolcetti. Gli riusciva difficile, non avendo mai avuto nessuno quando era piccolo.

«Sembra che tu abbia avuto un’infanzia molto felice.»

«Oh, sì… mi mancavano mamma e papà, ma sono stato felice in West Virginia con i nonni e gli zii.»

Ferid tese un sorriso molto poco convincente.

«Che invidia mi fai! Però sono contento che la tua vita non assomigli affatto alla mia, l’augurerei davvero a poche persone.»

Crowley lo guardò con l’aria colpevole di chi pensa d’aver detto troppo e gli si avvicinò abbastanza da passargli le dita fra le ciocche di capelli sciolti.

«Mi dispiace, Ferid… non ti volevo rattristare…»

«Non essere sciocco, non potresti mai~ la tua aria da cagnolone bastonato mi mette allegria~»

«Fra poco è il compleanno di nonna Susan, e la volevo chiamare al telefono per farle gli auguri.» disse con inquietante serietà. «Posso… uhm… Ferid, posso parlarle di te? Posso dirle che verrai con me quando andrò a trovarli la prossima volta?»

Poteva sembrare una questione di poco conto, ma la serietà di Crowley era un indicatore del fatto che non avrebbe accennato vagamente a “questo amico” o a “quel mio coinquilino” che preparava un porridge simile a quello della nonna: aveva tutte le intenzioni di anticipare alla sua famiglia una storia importante. Più importante delle altre, quantomeno.

Ferid esitò un momento e deglutì prima di parlare.

«Vuoi dire… aspetta, che cosa vuoi dire con questo?»

«Esattamente quello che pensi.» replicò lui, e si appoggiò al ripiano come se improvvisamente fosse esausto per lo sforzo di prendere quella decisione. «Voglio fare coming out con la mia famiglia in West Virginia, e voglio presentarti come il mio compagno. Posso fare questa seconda cosa?»

Per come gliela stava presentando pareva che Crowley avesse deciso di dire ai suoi parenti delle sue inclinazioni sessuali poco cattoliche quale che fosse la risposta che avrebbe ricevuto da Ferid. In ogni caso, annuì.

«Grazie.» gli disse, con un gran sorriso.

«Ma ne sei sicuro, Crowley?»

«Possibile che tu mi faccia ancora questa domanda? Ho intenzioni serie con te, lo sai…»

«Sì, no, uhm…» balbettò Ferid, scuotendo la testa confuso. «No, intendevo… sicuro di volerglielo dire?»

«Che senso avrebbe nasconderglielo? Se siamo davvero legati come penso, non ne faranno un dramma… se mi sbaglio… beh, poco importa. Avremo poche spese per le prossime festività, visto che saremo solo noi due.»

Nonostante scrollasse le spalle e usasse un tono leggero come parlasse di buoni sconto possibilmente scaduti Ferid si accorse di quanto lo turbava quella possibilità. Purtroppo non c’era alcuna soluzione, perché tutto dipendeva da quanto i suoi parenti lo amassero e quanto peso dessero a un libro vecchio di duemila anni.

Allungò le mani sulla sua schiena strofinandola come se volesse riscaldarlo. In un certo senso era così.

«Andrà bene, vedrai, Crowley.» gli disse piano vicino all’orecchio. «Li hai sentiti al telefono… sai quanta stima hanno dell’uomo che sei… gli manchi molto e i tuoi nipotini sono impazienti di vederti per la prima volta di persona. Non so se saranno felici di conoscere me, ma di sicuro non vedono l’ora che tu torni.»

Con sorpresa di Ferid, Crowley non replicò sulla questione.

«Che ne dici se apriamo il vino e guardiamo un film?»

Se Crowley svicola in questo modo, deve fargli davvero paura la reazione dei suoi parenti… e io non posso fare niente per spostare l’ago della bilancia dalla sua parte. Dipenderà tutto da loro…

Ferid fece del suo meglio per sorridere e accantonò la questione coming out: ne avrebbero parlato di nuovo quando fosse stato il momento di quella telefonata alla nonna con l’amore per il colore verde.

«Scelgo io?»

«Scegli tu, ma niente L’alba degli eroi

«Oh, sarebbe molto appropriato, però.»

«Ah, ti prego, Ferid.»

«Ma tu lo hai mai guardato, Crowley?» gli domandò con un pizzico di malizia. «Intendo quel dvd. Il film che inizia dopo un po’.»

«No, perché avrei dovuto? Non mi interessa il porno, non lo trovo divertente.»

«O è perché ti imbarazza ancora?»

Crowley sospirò e si grattò la punta del naso: un gesto che faceva sempre quando era in imbarazzo. Ferid seppe di aver visto giusto, ma non infierì ulteriormente: preferiva tenere questa inaspettata carta da parte per una prossima occasione, se le cose fossero andate come speravano.

«Dov’è la bottiglia di vino?»

«Uh… nel frigo?»

«No, ho preso un vino rosso… l’avevo appoggiato qui, mi pareva…»

Una rapida occhiata rivelò la bottiglia dietro la busta con le confezioni vuote e i tovaglioli accartocciati della loro cena. Lo scricchiolio che fece quando la spostò attirò immediatamente Pandora, che adorava giocare con oggetti rumorosi come palline di carta, cartoncini o buste della spazzatura. La gatta saltò sul mobile della cucina e tentò di appropriarsi di un incarto appallottolato.

«No, Dora, giù!»

Crowley afferrò la gatta per impedirle di rubare la spazzatura e ne guadagnò un bel graffione sul dito. La bestiola si divincolò con tanta violenza che riuscì a tenerla a malapena per le zampette posteriori e lei si aggrappò alla bottiglia di vino, l’appiglio più vicino.

Nessuno dei due riuscì a impedire che la bottiglia finisse lanciata giù da ripiano ed entrambi chiusero gli occhi quando si frantumò sul pavimento, come se fosse scoppiata una bomba. Pandora fuggì verso la camera da letto e i due restarono a guardare la macchia rossa e i vetri verdi con un profondo senso di desolazione.

«Accidenti.» fece Ferid, con un tono da bambino deluso. «Ne avevo presa soltanto una…»

«Mi dispiace… non pensavo che… non me l’aspettavo…»

«Non è colpa tua, avevo dimenticato che Dora sale sempre sul tavolo per prendersi i fogli accartocciati o le confezioni di plastica dal bidone…»

«Mica è colpa tua se il tuo gatto è un demonio! No, pulisco io.»

Crowley si chinò più velocemente di lui e prese a raccogliere i pezzi più grossi della bottiglia. Ferid marciò verso la porta e prese il cappotto.

«Ehi, dove vai?»

«Vado a comprarne un’altra.»

«Stai scherzando?! Dove vuoi andare a quest’ora?»

«L’ho comprata al negozio di liquori in fondo alla strada, anche a piedi ci metto pochi minuti e torno!»

«No, ci vado io, tu non esci!»

«Ma cosa vuoi che mi succeda in trecento metri di strada sotto i lampioni alle nove di sera?» fece seccato Ferid, legandosi frettolosamente i capelli. «Vado e torno, non parlo con nessuno e marcio come se ci fossero le SS per strada, promesso.»

«Possiamo andare insieme…»

«Tu pulisci qui, vedrai che torno prima che tu abbia finito!»

Senza attendere la risposta Ferid aprì la porta. Mikaela, che era di ritorno con una mastella di panni profumati dalla lavanderia del palazzo, stava per entrare nel suo appartamento e fece per salutarlo quando la voce di Crowley dalla cucina lo zittì.

«Ferid, dico sul serio…»

«Piantala, Crowley, per la miseria!»

Chiuse la porta bruscamente alle proprie spalle e lasciò uscire un gran sospiro mentre spalancava la gabbia dell’ascensore.

«Ferid… dove stai andando?»

«Qui all’angolo.»

Mikaela mandò un’occhiata rapida da lui alla porta del numero ventiquattro, sotto gli occhi perplessi di Yuu che era fermo sulla soglia. Ferid fece loro un cenno di saluto con la mano mentre l’elevatore iniziava la sua discesa e li perse di vista una volta arrivato al piano inferiore.

Appoggiò la schiena contro la parete trasparente e vi puntellò contro il tallone, controllando distrattamente il risvolto dello stivale. Cominciava ad avvertire il nervosismo e non sapeva spiegarsene il motivo: non era certo la prima volta che aveva un rapporto sessuale con un uomo e nemmeno la prima volta che lo pianificava in anticipo.

Forse è perché sento che lui è diverso dagli altri… per me lui non ha lo stesso valore di quelli arrivati prima. Anche a metterli tutti insieme non ne farebbero la metà… e forse è per questo che sono così nervoso. Potremmo anche non avere assolutamente nessuna intesa… potrebbe anche andare a rotoli, per quanto ne sappiamo.

Ponderò la questione per tutta la discesa e quando uscì dal palazzo era ancora assorto.

Sarebbe davvero terribile se dopo aver aspettato tanto non fossimo compatibili… già, che fregatura sarebbe.

Ferid alzò gli occhi sulla palazzina e subito dopo sorrise, con i dubbi che sparivano come scritte sulla sabbia spazzate dal vento forte. Crowley lo stava guardando dalla finestra del soggiorno, appoggiato al davanzale. Non riusciva a distinguere il suo viso da quella distanza, ma quel suo gesto – cercarlo con gli occhi lungo la strada – gli diceva che a prescindere da qualsiasi cosa potesse accadere Crowley non avrebbe mai smesso di preoccuparsi di lui e di volerlo, in qualsiasi ruolo, nella sua vita.

Quando alzò la mano sopra la testa Crowley sventolò la sua in risposta ed ebbe conferma che lo stava davvero guardando. Riprese la strada camminando più in fretta: prima arrivava al negozio prima poteva rientrare.

Fortunatamente non incontrò ostacoli e anche il negozio era vuoto quando ci arrivò: per buona misura comprò due bottiglie di vino uguali a quella che era andata in pezzi. Nella migliore delle ipotesi, cioè che non ne rompessero altre, avrebbero potuto aprire la seconda in una futura occasione. Dopo aver salutato il padrone del negozio prese la busta di carta e tornò sul marciapiede, dove qualcuno lo aspettava.

I due Hyakuya erano in piedi fuori dalla porta a vetri. Yuu, con il cappuccio calato sulla fronte e l’aria agguerrita, dava l’idea di uno che fosse pronto a rapinare il negozio o il primo cliente appetibile che ne fosse uscito.

«Che cosa fate qui, voi due? Se state per rapinare il negozio io non vi ho visto, quindi tornerei a casa…»

«Hai litigato di nuovo con Crowley.»

Ferid fissò Mikaela attonito, poi fece una smorfia incredula.

«Prego?»

«Ti abbiamo sentito uscire sbattendo la porta, e stavi dicendo a Crowley di piantarla…»

«Allora, ragazzini, partiamo dal principio.» l’interruppe Ferid, cercando con poco successo di moderare il tono irritato mentre alzava l’indice. «Uno: dovete piantarla di impicciarvi sempre di tutti i fatti nostri. Essere i vicini e condividere il pianerottolo non vi autorizza a stare a sentire ogni parola e mettervi a fare congetture su cosa stiamo facendo, dove, come e perché.»

Mikaela e Yuu si scambiarono un’occhiata fugace e quest’ultimo fu il primo a mostrare un vago senso di colpa. Ferid alzò il dito medio senza aspettare che si riprendessero dal primo attacco.

«E due: non dovete mettervi in testa cose che non sono vere per due o tre parole che sentite. Ricordatevelo se volete diventare dei detective e non due idioti in uniforme. Io e Crowley non abbiamo litigato.»

«Ma gli hai detto di piantarla.»

«Abbiamo fatto cadere la bottiglia di vino e io volevo uscire a ricomprarlo.» spiegò lui con un po’ più di pazienza. «Lui, paranoico com’è diventato, non voleva che ci andassi io. Ecco svelato il mistero. Ora fate i bravi ragazzi, pensate ai fatti vostri, che io e Crowley abbiamo i nostri programmi.»

«… Cioè?»

Ferid scoccò un’occhiata a Yuu, che tuttavia aveva la medesima espressione di Crowley quando, distratto, non coglieva il senso o l’argomento di una frase: come se si fosse appena svegliato da un sogno a occhi aperti.

«Per la miseria, ragazzo, sei uno sveglio, tu. Prova a usare un po’ di immaginazione su quali possano essere i programmi in casa di due uomini adulti che hanno una relazione.»

«Oh… oh!»

«Bene, ora che lo sapete potete dimenticarvi per una sera che esiste l’appartamento ventiquattro?»

«Scusaci, Ferid… ti abbiamo visto uscire così di fretta e alterato che abbiamo pensato che fosse successo di nuovo… non vi disturberemo, lo prometto.» disse Mikaela in tono mesto.

«Allora buonanotte.»

Ferid voltò loro le spalle e si avviò verso casa. Era consapevole di averli sgridati in modo forse esagerato, ma non gli piaceva l’idea che quei due ragazzi si mettessero a origliare convinti che tra loro ci fossero dei problemi, specie immaginando che cosa sarebbe capitato loro di sentire se fossero rimasti in ascolto fino a una certa ora tarda.

Anche sulla strada del ritorno non incontrò quasi nessuno, tranne un paio di giovani donne in tenuta sportiva che facevano jogging e un uomo tutto preso a fissare il proprio cellulare. Vedeva la finestra della cucina, ma Crowley non lo stava cercando: stava probabilmente asciugando il lago di vino rosso sul pavimento. Fu allora che sentì quel suono.

Si fermò e guardò nel vicoletto tra due palazzine, dove gli inquilini tenevano i bidoni della spazzatura.

«Ma… cani?» mormorò fra sé e sé. «Sembrano…»

Tacque quando sentì ancora il suono e ne fu quasi certo: sembravano cagnolini appena nati o comunque molto piccoli. Fece qualche passo verso il vicolo. Forse qualche inquilino del pianoterra ne aveva una cucciolata in casa, ma se fossero stati dei piccoli randagi? Non se la sentiva di lasciarli in un vicolo nella notte di novembre.

Si guardò intorno, ma non vide anima umana viva in vista. I ragazzi Hyakuya dovevano essere rimasti davanti al negozio o essere andati da qualche altra parte per rientrare più tardi. Avanzò nel vicolo con circospezione, perché la luce era scarsa e c’erano rifiuti dappertutto.

Che la mamma dei cagnolini abbia rotto i sacchi alla ricerca di cibo?

I versi di cagnolino provenivano da un poco più avanti, da un bidone di latta rovesciato sul lato.

Che li abbia partoriti lì dentro? Chissà se riesco a portarli fino a casa da solo… mh, forse è meglio trovarli e poi andare a bussare dal veterinario…

Decise che era una buona idea andare da Ares Mirto e dire a lui dove si trovavano i cuccioli: avrebbe saputo meglio di lui come comportarsi nel caso ci fosse stata una mamma da qualche parte o dove portarli per accudirli.

«Vi ho trova–»

Si interruppe quando, accovacciandosi, dentro al bidone trovò solo un cellulare acceso. Il verso dei cuccioli veniva da un video di cagnolini che stava riproducendo. Seppe all’istante che era una trappola, ma non fece neanche in tempo a rimettersi in piedi che qualcosa gli venne premuto contro la testa. Qualcosa che, dal rumore meccanico che seguì, doveva essere qualcosa di spaventosamente simile a una pistola a tamburo.

«Alzati… lentamente.»

Non è possibile!

Con il cuore che aveva iniziato a galoppare nel petto si alzò lentamente e si girò soltanto quando la voce gli intimò di farlo. Sapeva già che cosa avrebbe visto, ma non rese il colpo meno violento. Si abbandonò di schiena contro la recinzione di rete metallica che divideva la zona rifiuti di due proprietà separate e sospirò.

«Di nuovo tu.»

«La faccia è già migliorata… non ho picchiato forte come credevo.»

Davanti a lui, avvolto in un cappotto grigio con due file di bottoni neri sul petto e un berretto nero, c’era lui, il Vampiro di West End. L’uomo con la sua stessa faccia, i suoi stessi orecchini e gli stessi occhi celesti. Attualmente la sola differenza erano i lividi in via di guarigione sul viso di Ferid: sembrava che anche la loro altezza e la loro corporatura corrispondesse, almeno a un primo sguardo.

«Credimi, forte più che abbastanza, Bobby.»

L’uomo non ebbe alcuna reazione a quel nome, ma Ferid per la prima volta era sicuro di quello che diceva. Sì, i suoi lineamenti erano molto diversi da quelli del ragazzo che conosceva, ma era anche vero che si potevano ottenere risultati incredibili con prodotti appropriati e la capacità di adoperarli. D’altronde, quell’arma non lasciava alcun dubbio.

«Dopo tutti questi anni non pensavo che ce l’avessi ancora.» osservò Ferid, che si sentiva stranamente teso e calmo nello stesso tempo. «Era di sicuro l’oggetto più prezioso che avessi preso.»

«Ma anche il più facile da individuare se avessi provato a piazzarlo.» disse Robert, passando fugacemente il dito sulle gemme che adornavano la canna della pistola antica. «Una pistola creata appositamente per una regina ungherese…»

«Fu di Maria Teresa d’Asburgo.» lo corresse lui con un certo orgoglio. «Fu donata a lei come tributo dai nobili ungheresi dopo averla sostenuta nella guerra di successione austriaca. Da allora è stata solo nelle mani di discendenti della sua nobile casata, diretti o rami cadetti che fossero… finché non l’hai rubata tu.»

«Tu me l’hai consegnata, Ferid. Puoi raccontarti ogni bugia, non m’interessa, ma le cose stanno così… e ora la reliquia che per te aveva valore solo monetario è qui che reclama la vendetta per l’orgoglio di famiglia che hai calpestato.»

La testa di Ferid fece un piccolo scatto, come reagisse a una mosca molesta.

«Ah, non raccontarmi altre favole, Bobby. Dimmi perché hai fatto tutto questo, piuttosto… perché uccidere in modo così orrendo dei bambini? Perché hai cercato di avvelenarmi? Qualche spiegazione, almeno. Sai che odio lasciare i libri a metà.»

Robert emise una risatina flautata che disturbò Ferid oltremodo: pareva che si fosse esercitato molto per assomigliargli nei più variegati dettagli e si chiese da quanto tempo e da quanto vicino lo spiasse. Si chiedeva soprattutto se fosse già stato osservato nel luglio dell’anno precedente: sapeva di essere stato insolitamente vago nei suoi diari, a causa del dolore che provava nel pensare a Krul, ma non ricordava le parole che aveva usato o se avesse citato esplicitamente qualcosa nei diari seguenti.

«Te lo racconterò… ma in un posto più intimo… dicono che in inverno nel bosco di Dern si sentano le fate giocare, Rid. Vuoi sentire le fate insieme a me?»

«Sei in ritardo di sedici anni per un appuntamento romantico, Bobby. Avrei altri progetti stasera, quindi se vuoi scusarmi io rifiuterei.»

Le sopracciglia sottili di Robert si sollevarono per sorpresa e fastidio mescolati. Tese un sorriso intriso di scherno.

«Come sei spavaldo davanti a un’arma… e dire che eri un tale pisciasotto piagnucoloso quando ti ho mollato in quel motel…»

«E dire che eri così affascinante, così ribelle e così avventuroso quando ti ho incontrato… suppongo che sia questo il senso del detto “dare tempo al tempo”. Io sono fiorito e tu appassito… ah, piuttosto, direi marcito

«D’accordo, Rid, ora chiudi la bocca.» sbottò Robert con una voce più rabbiosa. «Non voglio sentirti finché non saremo arrivati alla contea di Dern. Muoviti, prenderemo la mia macchina. Niente scherzi… ma prima…»

Allungò la mano libera verso di lui.

«Dammi la busta.»

Ferid quasi non pensò nemmeno, reagì istintivamente. Annuì, ma di fatto anziché porgergliela gliela lanciò di modo che gli coprisse la visuale per qualche attimo, si spostò dalla linea di tiro di una ventina di centimetri e riesumò dal dimenticatoio una delle pochissime cose davvero utili che lavorare per un’agenzia gli aveva lasciato: gli assestò un calcio allo stomaco scaricandoci tutto il peso del corpo.

Ferid barcollò indietro a causa del contraccolpo, Robert cadde a terra sulla schiena contro un bidone con gran fracasso e la pistola sparò per un riflesso: la pallina di metallo passò a distanza di sicurezza dalla spalla di Ferid. Dopo aver dato un rapido sguardo – scoprendo che aveva impattato i mattoni dell’edificio senza colpire la finestra – tornò a guardare Robert, che aveva lasciato cadere la pistola finemente lavorata e stava per rialzarsi. Un provvidenziale rotolo di rete buttato da qualcuno aveva intrappolato la sua scarpa rallentandolo e un altrettanto provvidenziale tesoro sporgeva da un bidone senza coperchio.

Ferid afferrò il manico di una delle quattro mazze da golf lì abbandonate, scoprì che aveva una bella testa robusta e lo shaft reso storto da qualche colpo maldestro, ma per l’uso che intendeva farne era più che adatta. Con un sorriso che non pensava potesse uscirgli spontaneo in una simile situazione si avvicinò all’uomo che molto tempo prima aveva amato e gli pestò la spalla con il piede mentre sollevava la mazza sopra la testa.

«Non ti muovere adesso, Bobby… sai, ora tutti sanno che hai questa faccia. Te la sistemo, così ti nasconderai meglio.» gli disse serafico mentre un’ira a lui sconosciuta gli montava dentro come una mareggiata. «Vedrai, quando avrò finito non ti riconoscerà nemmeno mia madre.»

Lo colpì strappandogli un lamento quando impattò il gomito con il quale protesse la faccia.

Mh, non è facile come sembra quando lo leggi in un libro… dovrò impegnarmi di più se voglio assicurarmi che non sparisca prima che vengano ad arrestarlo.

Sollevò di nuovo la mazza, domandandosi se potesse rischiare un colpo alla testa per tramortirlo o fosse troppo alto il pericolo di ammazzarlo involontariamente, ma non dovette rispondere al dilemma: Robert affondò la mano sotto il cappotto e ne estrasse una pistola ben più moderna, precisa e potente dell’arma degli Asburgo.

Ferid aveva sempre creduto, come aveva trovato scritto nei romanzi, che in punto di morte una persona vedesse i momenti salienti della propria vita come un film, ma a lui non successe in quel momento. Quando fissò la bocca da fuoco il suo cervello annullò tutti i processi di pensiero; il braccio abbassò la mazza e accennò a indietreggiare quando Robert premette il grilletto.

Inspiegabilmente non ci fu alcuno scoppio, nessun proiettile venne sparato e nessun bossolo cadde. Si udì solo il rumore metallico del grilletto a vuoto. Robert imprecò premendolo una seconda e una terza volta in successione ma non accadde niente, dando il tempo a Ferid di fare un paio di passi indietro.

«Quante vite hai, maledetto stregone?!» inveì Robert, la cui voce non assomigliava più così tanto alla sua in preda alla rabbia. «Muori!»

Ferid mise il piede su qualcosa che rotolò e cadde per terra, e fu la sua fortuna. Il quarto colpo esplose, ma il proiettile sfiorò la sua fronte lasciandogli un’escoriazione lieve e andò a piantarsi nel muro di mattoni. Stordito dal rumore assordante dello sparo, molto più potente di quello prodotto dall’arma antica, annaspò per rimettersi in piedi e allontanarsi dal vicolo. Si accorse appena delle voci di persone intorno che avevano sentito i colpi e delle lontane sirene in avvicinamento.

«Ferid!»

Non aveva idea di come Mikaela fosse sbucato lì e non era abbastanza lucido da capire che era stato attirato dai colpi di pistola. In un primo momento il ragazzo biondo gli afferrò il braccio per aiutarlo ad alzarsi, ma poi non lo fece e si parò davanti a lui a braccia aperte come scudo umano, frapponendosi tra lui e Robert. Ferid, al di sopra della sua spalla, ebbe la fugace visione dell’uomo uguale a lui che puntava l’arma contro loro e di un lampo scuro che si lanciava sull’aggressore.

Esplose un altro colpo che fece istintivamente chiudere gli occhi a Mikaela e Ferid, ma anche quello non colpì nulla se non una grondaia. Ferid guardò ancora la scena e vide che Yuu si era lanciato su Robert e stava bloccandogli il braccio armato; le lezioni alla palestra di MMA si erano rivelate utili e infatti il ragazzo cercava di afferrargli il collo in modo da bloccarlo in una presa di sottomissione. Mikaela si alzò e strattonò Ferid per farlo alzare, ma le gambe non rispondevano più.

«Alzati, Ferid! Va’ via di qui, corri a casa!»

Robert mollò la presa sull’arma e Yuu la calciò fuori portata, verso Mikaela. Questo però offrì un’occasione all’uomo, che si liberò dalla stretta delle gambe del ragazzo e gli sganciò una gomitata all’altezza dell’inguine che gli spezzò il respiro.

«Fermo!»

Robert corse fuori dal vicolo, ritirandosi da una battaglia che stava diventando molto complicata dati i molti testimoni attratti dal rumore, i rinforzi in arrivo e la coppia Hyakuya Boys a supporto di un bersaglio che sperava di trovare da solo. Mikaela però non vedeva la resa come una mossa valida al di fuori della scacchiera, quindi raccolse l’arma impugnandola con entrambe le mani e una posa dritta molto tecnica maturata in svariate ore di pratica al poligono di tiro.

Tuttavia, dopo aver preso la mira, non sparò e abbassò la pistola. A Ferid la risposta a quel mistero arrivò alla prima occhiata: stava scappando dall’altro lato della strada, c’erano curiosi e passanti, auto che potevano transitare ignare sulla carreggiata. Troppi potenziali bersagli.

«Ferid, sei ferito? Stai bene?»

Mikaela si avvicinò e gli spostò i capelli per guardare la ferita sulla fronte. Prima che rispondesse in merito vide Yuu passargli davanti, con un’andatura incerta ma sguardo fermo. L’indicò con il dito emettendo un fonema insensato solo per attirare l’attenzione di Mikaela su di lui e difatti il biondo puntò gli occhi sul suo compagno che stava attraversando la carreggiata.

«Quello stupido, cosa pensa di fare disarmato?»

Digrignò i denti, consumato da nervosismo e preoccupazione, ma non si unì all’inseguimento di Robert.

«Riesci ad alzarti? Aspettiamo la polizia nell’atrio di casa…»

Ferid riuscì a malapena a mettersi in piedi mentre Mikaela intimava ai passanti di non avvicinarsi al vicolo per preservare la scena del crimine. Certo aveva l’aria di un poliziotto fatto e finito e i suoi studi dovevano procedere con profitto. Poco dopo, zoppicando, Yuu fece ritorno a mani vuote e l’espressione dello sconfitto di una guerra.

«Mi dispiace, Ferid… l’ho perso sulla Gowin… non ho visto da che parte sia andato.»

«Non preoccuparti, Yuu-chan.» gli disse Mikaela, con palese sollievo. «Hai il telefono, vero? Chiama Crowley e digli di scendere, se gli diciamo che è stato aggredito senza che lo veda illeso si preoccuperà.»

Ferid sospirò e si lasciò scivolare di nuovo seduto per terra; il calo di tensione lo fece sentire esausto. Sorrise tristemente e strinse i pugni. Le sue mani tremavano.

«Suppongo… che non possiamo non dirglielo, vero?»

Mikaela e Yuu lo guardarono sorpresi.

«Certo che non possiamo… devi andare in ospedale a controllare la ferita alla testa e bisognerà lasciare una dichiarazione alla polizia…»

Ferid sospirò di nuovo.

«Si sentirà in colpa. Mi ha lasciato uscire da solo.»

I due ragazzi non replicarono, e Yuu disse soltanto che non aveva ricevuto risposta da Crowley. Pochi istanti dopo fu chiaro come mai: il poliziotto irlandese si era fatto largo tra la gente che a pericolo passato si stava raggruppando lì. Vide per primi i suoi vicini e poi, impallidendo, notò Ferid seduto a terra con il sangue che colava dalla ferita superficiale sulla fronte.

«Ehi, Crowley! Ci stavo mettendo un po’ troppo, vero? Sai che ore…?»

Lui non spiccicò una singola parola, ma i suoi occhi e la sua espressione parlarono per suo conto mentre si inginocchiava vicino a lui ancora una volta abbracciandolo. Il senso di colpa, di impotenza, la sofferenza di vederlo di nuovo aggredito e ferito e la paura di averlo ancora una volta quasi perso pervasero Ferid attraverso quell’abbraccio; gli entrarono dentro come una tossina attraverso la pelle.

Sentiva la gola annodarsi e un peso sul petto, ma nonostante questo la sua maschera reggeva. O più probabilmente la sua mente tentava di fare resistenza contro la scioccante realtà: gli avevano sparato contro e per pura fortuna non era rimasto ucciso.

«Ma ho due buone notizie, Crowley, quindi su col morale!»

«Sei vivo, questa è già una bella notizia…»

«Allora ne ho tre, perché so chi è il Vampiro di West End.»

Crowley lo lasciò andare per poterlo guardare in volto con grande sorpresa.

«Stai scherzando? Era qui? Ti ha attaccato lui, qui?»

«Già, ma come ti ho detto, so chi è… te lo racconto appena siamo un po’ più… soli.»

Crowley si guardò intorno frastornato, come fosse stato appena svegliato da una sirena lacerante. Lasciò scorrere lo sguardo sul vicolo, sulle facce che sporgevano dalle finestre vicine, e poi sull’auto coi lampeggianti accesi che accostò poco lontano da lì. Guardò ancora una volta Ferid con quell’espressione intontita.

«E… l’altra? L’altra notizia?»

«Oh… beh!»

Ferid sorrise forzatamente quando sollevò una bottiglia di vino, che – al contrario della sorella gemella – miracolosamente era ancora intatta nonostante quel trambusto.

«Una si è salvata!»

Emise una risata allegra, ma davanti alla palese sofferenza psicologica di Crowley non riuscì a mantenere quello stato d’animo né una maschera sufficientemente calma: la sua risata sfumò in un singhiozzo senza lacrime e si strinse le braccia nel tentativo di fermare il tremore.

La sua mente aveva ceduto a una realtà innegabile quanto spaventosa. Non riuscì a dire un’altra parola e restò così, con Crowley inginocchiato accanto a lui immerso nel medesimo, costernato silenzio.

«Ehi… ma tu sei O’Brian, vero? Il figlio di O’Brian, Crowley…»

Crowley e Ferid alzarono gli occhi sull’agente di pattuglia che si stava avvicinando a loro. Era piuttosto attempato e Ferid pensò che potesse essere stato un collega del padre di Crowley prima che andasse in pensione anticipatamente.

«Sì… sì.» rispose l’irlandese, scuotendo la testa confuso. «Sì, Neil è mio padre.»

«Accidenti… ma che è successo, ragazzo? Una rapina?»

«La storia è un po’ più lunga…»

Non ci fu tempo per parlarne, perché arrivò anche il soccorso medico che qualcuno doveva aver chiamato vedendo Ferid sanguinare dalla testa. Ancora una volta venne caricato sull’ambulanza, ma questa volta non sembrava una cosa grave: avevano deciso di portarlo in pronto soccorso per scongiurare il rischio di danni cerebrali con un controllo approfondito e per mettergli qualche punto sulla ferita. Crowley ignorò il poliziotto che voleva fargli domande e salì sull’ambulanza.

«Agente, per favore, non può salire.» gli disse il paramedico. «Può interrogarlo più tardi.»

«Non voglio interrogarlo, è il mio fidanzato. Posso andare con lui, no?»

Crowley era senza dubbio preso da cupi pensieri mentre prendeva posto nel retro dell’ambulanza e non notò nulla, ma le sue parole avevano sorpreso in varie misure diverse persone intorno a loro, a partire dal collega del padre. Ferid decise di non farne parola con lui a meno che non gliel’avesse chiesto esplicitamente.

Mentre il portello veniva chiuso notò che Mikaela e Yuu, appoggiati al cofano dell’automobile di pattuglia, si scambiavano un sorriso incerto e un furtivo pugno contro pugno di vittoria. Gli rimase il dubbio se fossero soddisfatti di come avevano gestito l’emergenza – da veri agenti, per quanto lo riguardava – o fossero felici di aver mandato in porto i loro piani per sistemare Crowley in una relazione seria.

 

Più tardi, mentre sedeva sul letto di una camera dell’ospedale con i punti già messi sulla fronte, Ferid guardò l’orologio e scoprì che era quasi mezzanotte. Il che gli mise addosso parecchia amarezza mentre spostava lo sguardo su Crowley.

«È quasi mezzanotte.»

«Ormai non importa più.»

«Beh, se il mio esame è andato bene mi manderanno subito a casa!»

«Per favore, Ferid… pensi davvero che sia dell’umore per questo, stasera? Stavi per essere ucciso, di nuovo, e questo perché ti ho lasciato uscire da solo per una stupida bottiglia di vino!»

«Ti prego, Crowley… lo sai che non è colpa tua, come non lo è stata alla Belfast Arena. In entrambi i casi sono stato io a decidere, e questa volta era… sotto casa. Non potevi sospettare che mi aspettasse lì fuori…»

Questo era il cruccio più angosciante nella mente di Ferid. Robert non sapeva certo che avrebbero rotto la bottiglia, non aveva motivo di aspettarsi che Ferid uscisse di casa da solo a quell’ora della sera in un giorno qualunque nel mezzo della settimana, eppure nonostante fosse stato fuori appena qualche minuto non solo era lì, ma gli aveva anche teso una trappola.

Da quanto tempo è appostato fuori dal palazzo e studia i miei movimenti e quelli di Crowley? Fin dalla notte alla Belfast Arena in cui ha saputo che non mi aveva ucciso col veleno? Era lì a guardare anche la notte di Halloween?

Crowley persistette nel silenzio per diversi minuti, poi disse che sarebbe andato a prendere del tè caldo. Quando tornò la sua espressione non era cambiata. Si sedette e gli porse un bicchiere di tè.

«Grazie… non fa proprio freddo, ma sento ancora i brividi.»

Crowley lo guardò con occhi così pieni di sofferenza da far fatica a guardarli, così distolse lo sguardo per guardare dalla finestra e prese un sorso caldo. Il gusto era ovviamente pessimo.

«Quindi… è Bobby, dopotutto.»

Ferid lo guardò sorpreso, ma poi annuì.

«Ti ho sentito dirlo all’agente durante la deposizione… sei sicuro, Ferid? Hai comunque detto che era uguale a te, come è successo alla Belfast Arena.»

«So che il suo è un trucco… una maschera, un trucco pesante, forse tutt’e due… penso si travesta così quando esce per… i suoi scopi, nel caso qualcuno lo vedesse. Ma non ho dubbi, quello che mi ha detto… e poi, aveva la pistola.»

«Intendi quell’arma dorata?»

«Sì, quell’arma è antica ed è unica. Venne creata da un mirabile artigiano su commissione dei nobili ungheresi per la nuova regina d’Ungheria, Maria Teresa d’Asburgo. Capirai che non è certo un pezzo di cui esistano duplicati ed è molto poco smerciabile… deve averla tenuta nascosta tutto questo tempo… ma a questo punto mi chiedo se aspettasse l’occasione di rivenderla sul mercato nero o se l’abbia tenuta in serbo per me.»

«Dove ha preso una cosa del genere?»

«Era mia.» rispose, lasciando Crowley basito. «O almeno, era di mia madre, che discende da Maria Teresa d’Asburgo in un ramo di nobiltà ungherese. È una cosa che ho preso per fuggire in America, insieme a collane, anelli e altri gioielli. La conosco bene, non posso sbagliare.»

Il detective tacque, pensieroso e incupito; così incupito che Ferid gli afferrò la mano.

«A che cosa stai pensando?»

«A Robert Warren… Ferid, perché ti odia così tanto? Perché, dopo tutti questi anni, fare tutto questo per rovinarti la vita… e ucciderti, visto che non ci riusciva?»

Crowley gli strinse la mano così forte che gli fece male.

«Dimmi la verità. L’hai incontrato ancora? Vi siete rivisti in questi anni… hai ripreso una storia con lui?»

«Ma che stai blaterando, Crowley? Certo che no!»

Ferid liberò la mano e con aria offesa evitò di guardarlo, cercando rifugio in un lungo sorso di tè scadente.

Però…

«Almeno… credo di no.» aggiunse, titubante. «Insomma…»

«Cosa vuol dire, credo?»

«Ti ho detto com’era quando l’ho conosciuto, non mi assomigliava per niente, eppure ora siamo come un uomo e il suo riflesso nello specchio… ecco… se ha queste capacità di trasformazione da un po’ di tempo, potrei anche averlo frequentato senza… beh, senza saperlo…»

Crowley si passò la mano sugli occhi in un gesto affranto ed esausto.

«Frequentando qualcuno ti sarai accorto se aveva la faccia coperta di trucco… se stava camuffandosi, ti pare? Anche soltanto la mattina dopo!»

«Sì… se io avessi avuto delle mattine dopo.» commentò Ferid un poco inacidito dalla discussione. «Dopo quello che mi ha fatto Bobby non mi fido a dormire con un uomo. Non ho mai portato nessuno a casa mia e io non sono mai andato a casa di un altro uomo.»

«Non me la bevo, Ferid! Non uscivi con quell’uomo, come si chiamava, Mackham? L’avrai portato a casa almeno una volta!»

«No, scopavo con Morris Mackham.»

«Ah, ti prego…!»

«Facevamo sesso nel magazzino dei ricambi delle golf car quando lui veniva al club. Non siamo mai usciti neanche per una passeggiata.» insistette Ferid in tono brusco. «Che ti piaccia o no, Crowley, questo è stato il mio modo di gestire le mie relazioni. Non ho avuto nessuna relazione sessuale che fosse anche solo vagamente romantica. Non voglio tornare sull’argomento.»

«D’accordo… d’accordo, non ti arrabbiare, io… sto solo cercando di capire il perché, e…»

Nonostante la sua esitazione Crowley gli sfiorò la mano appoggiata sul letto e quando vide che non si ritraeva gliela prese.

«Non sono arrabbiato, Crowley… ma non vado fiero di come ho vissuto la mia vita. Ho fatto tanti sbagli e la mia scelta di vita negli anni dopo la morte di Claude… beh, era pessima. Mi vergogno dei luoghi e dei modi in cui ho cercato l’attenzione degli altri… di quella che credevo fosse una forma accettabile di amore

«Lo sai che io non ti giudico per questo.»

«Lo so… ma io lo faccio… anche perché se non avessi incontrato Krul forse vivrei ancora una vita sregolata, avrei distrutto il patrimonio di Claude in droghe e alcol per me e per il primo farabutto che mi avesse convinto che mi amava.»

«Non avresti fatto quella vita.» replicò Crowley, con un sorriso che da solo riuscì a scrollare quello strisciante senso di vergogna da lui. «Se non avessi incontrato Krul sarei stato io a salvarti.»

«Ma noi ci siamo incontrati proprio perché lavoro nel negozio di Krul…»

«Oh, sì. Ma se davvero fossi finito nel giro della droga io ti avrei trovato… ho iniziato con De Stasio alla narcotici, no?» gli ricordò Crowley, con una risata allegra. «Magari avrei sparato al tuo fidanzato farabutto e sarei stato la causa diretta della tua disintossicazione e della tua nuova vita.»

«Come sei macabro, Crowley.»

«Divertente.» lo corresse lui con quel sorriso vagamente ironico.

«E abbastanza inverosimile.»

«Assolutamente inevitabile.»

Ferid stava perdendo un po’ il filo del discorso; si accigliò e appoggiò il mento dal lato sano – ormai aveva preso l’abitudine di evitare di toccarsi il lato sinistro – sul dorso della mano.

«Inevitabile che avresti sparato al mio fidanzato tossico?»

«Inevitabile noi due

Crowley si sporse baciandolo con trasporto e accarezzandogli il viso – anche lui evitando il lato sinistro quasi inconsciamente – mentre l’altra mano, abbandonato il bicchiere di tè chissà dove e quando, scivolò lenta ma decisa dalla schiena fino al fianco. Appena staccò le labbra dalle sue guardarono entrambi l’orologio: era mezzanotte passata da quattro minuti.

«Mezzanotte passata.»

«Non metterci il pensiero, Crowley… di sicuro verrà qualcuno a interromperci prima che possiamo anche solo toglierci le scarpe.»

«Proviamoci.»

Ferid certo poteva apprezzare l’entusiasmo e il desiderio che gli dimostrava e fu per questo che non si oppose al suo bacio successivo e ne approfittò per passare le mani su quella sua ampia schiena. Dopo neanche un minuto però Yuu Amane aveva spalancato la porta senza pensare che qualcuno potesse dormire e l’ennesimo tentativo venne stroncato sul nascere.

Ferid per la prima volta non ne fu granché deluso, perché di certo preferiva che succedesse in una situazione più tranquilla e intima; nemmeno Crowley sembrò molto contrariato e li accolse come se non li vedesse da mesi: spettinò loro i capelli e spense le loro lagnanze con un abbraccio spacca-costole.

Ferid sospirò scuotendo la testa alla scena, ma poi sorrise mentre indugiava sul profilo del poliziotto irlandese. Aveva sempre pensato al termine inevitabile come a qualcosa di negativo, associandolo alla morte, alla delusione, ai problemi… ma vedere la presenza di Crowley nella sua vita come un crocevia al quale ogni possibile strada della sua esistenza l’avrebbe inevitabilmente condotto gli dava sicurezza, sollievo, conforto e fiducia.
Era come se Dio avesse sorriso incoraggiante posando la mano sulla sua spalla.

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Capitolo 30
*** Ritorno ad Ashland Street ***


 

Ferid si girò nel letto d’ospedale mettendosi sull’altro fianco. Si accorse che il vicino di stanza si alzava lentamente per andare in bagno ma richiuse immediatamente gli occhi e non lo sentì uscire, scivolando rapido nel sonno.

Si svegliò all’improvviso, ma senza avere addosso la sensazione della paura o l’impressione che qualcosa di estraneo avesse interrotto il suo sonno, del quale tuttavia non restava traccia. Si alzò dal letto e indossò la vestaglia rossa, si legò i capelli come faceva abitualmente al mattino. Attraversò il corridoio e raggiunse la cucina seguendo l’odore squisito di qualcosa.

Il tavolo era apparecchiato, c’erano i tulipani rossi, rosa e gialli nel pesante vaso di cristallo al centro, Baudelaire lo fissò dalla sedia e iniziò a fare le fusa all’istante. Ferid si avvicinò e l’accarezzò, prima di guardare verso il fornello e riconoscere la schiena esile e i capelli brizzolati di Claude. Si sedette al posto apparecchiato, sorridendo, rispondendo in modo assolutamente normale a una situazione fuori dall’ordinario come quella.

«Pancake ai mirtilli e tè Irish Breakfast, stamattina.»

«Oh, pancake? È un giorno speciale, Claude?»

«Naturalmente lo è, mio caro Ferid… è da tanto tempo che non facciamo colazione insieme.»

«Più di dodici anni.»

«È passato davvero tanto tempo.»

Claude si voltò verso il tavolo con il suo consueto sorriso dolce, gli servì i pancake e come aveva sempre fatto in quei frangenti lavò accuratamente la padella prima di sedersi a mangiare. Ferid prese la teiera e riempì le due tazze mentre lo aspettava e alla fine Claude sedette di fronte a lui. Era felice di vederlo come lo ricordava prima della malattia: in salute, sorridente, pieno di vita.

«Dunque… eccoci qui, mio caro ragazzo. Ancora una volta.»

«Sembra che tu stia bene, Claude.»

«Naturalmente.» ripeté lui; era la parola che ripeteva più spesso. «Sto molto bene, ora… e sono felice di vedere che stai bene anche tu, voglio dire… guardati. Guarda che meraviglioso uomo sei diventato. Sono molto orgoglioso di te.»

«Non sei mai stato avaro di complimenti.»

«Tu non sei mai stato poco meritevole di complimenti.» replicò lui, sollevando la tazza e inspirandone il profumo. «Dunque… come ti trovi con lui?»

«Lui? Lui chi?»

«Sai di chi parlo… il tuo bell’uomo con i capelli rossi, quello che volevi presentarmi.»

«Oh, ti riferisci a Crowley?»

«E a chi altri?»

«Già… beh, stiamo bene… anche se potrebbe dare l’impressione di un uomo grezzo, è molto gentile con me. È molto paziente, molto dolce. Non posso lamentarmi, è davvero un tesoro… si fa in quattro per me, anche quando sono di cattivo umore… e sa sempre come prendermi.»

«Sei innamorato…»

«Innamorato? No, non direi… mi piace… lui è stupendo, e…»

«Non era una domanda, mio caro ragazzo.»

Claude rise all’espressione interdetta di Ferid.

«Non serve chiedertelo… io ti osservo sempre dal posto in cui sono, mio diletto. So che ti fidi di lui come non ti sei fidato mai di nessun altro, che affidi a lui le tue debolezze… non hai più paura di mostrare le tue ferite. Gli hai raccontato ormai tutto di noi, e di te. Sei finalmente uscito dalle cinte murarie del tuo imponente castello di segreti… e l’hai fatto soltanto per potergli prendere la mano.»

Ferid tacque per un istante e guardò la mano che non teneva la tazza del tè, pensando alla stretta forte di quella di Crowley…

«Sì. È vero.»

«Quel ragazzo ha fatto un ottimo lavoro… io non avrei mai potuto fare la stessa cosa, anche se fossi rimasto con te. No, naturalmente non avrei potuto arrivare a tanto. Un eccellente risultato… ora puoi essere la versione migliore di te stesso.»

«In un qualche modo, sono diverso da prima. Non so se sono davvero me stesso… a volte è come se non mi riconoscessi neanche.»

Claude sorridendo allungò la mano sul tavolo e afferrò la sua; era calda e liscia come la ricordava.

«Perché hai avuto paura per tutta la tua vita… avevi paura di deludere tuo padre, di scatenare la furia di tua madre, di restare intrappolato in quella casa, di restare solo, di venire giudicato, di non riuscire a vivere come una persona normale, di non trovare mai l’amore… un bel po’ di pesi sul cuore, non trovi? Hai avuto sempre paura e quella ti ha sempre influenzato.»

«Sì… è vero.»

«Adesso non hai più paura… no?»

Ferid guardò dritto negli occhi castani di Claude, così profondi e pieni di amore, e strinse la sua mano di rimando.

«Ora so che mascherarmi non serve. Le maschere non mi hanno mai salvato.»

«Naturalmente.»

«E so che… le persone che più mi hanno amato sono quelle che hanno visto di più quello che tengo nascosto.»

«Certo.»

«Non ho più paura di essere come sono… o di dire che cosa sento. Gli altri… non sono più solo ombre armate di coltello pronte a colpirmi dove c’è una falla nell’armatura… e anche se lo facessero, non m’importerebbe. Adesso so che qualcuno mi protegge e che può anche guarirmi.»

«Crowley avrà buona cura di te, ragazzo mio… anche se ha i capelli rossi

Ferid scoppiò a ridere suo malgrado.

«Oh, Claude… i capelli rossi non ti sono mai piaciuti… non sei cambiato affatto!»

«Naturalmente. Dopotutto, io sono vivo nel ricordo di me che serbi nel cuore. Non cambierò mai.»

La rivelazione in quel momento turbò Ferid, che si guardò intorno. La cucina era la stessa che ricordava in Ashland Street, e persino la vestaglia di Claude era identica. Fu allora che cominciò a capire che qualcosa non andava: per prima cosa, non avrebbe dovuto trovarsi nel West End.

«Questo… è un sogno, Claude?»

«Potrebbe essere qualcosa di diverso? Dimmi. In fondo, sei tu l’esperto di esoterismo, io come sai sono esperto solo di letteratura e di teatro.»

«Beh… tu sei morto… questo è certo. Sono morto anch’io e non me ne sono accorto?»

Il viso amorevole di Claude esibì un tenero sorriso, come se stesse guardando un bambino mostrare tutto il suo acume per rispondere a una domanda da adulti.

«Oh, no, mio caro. Non sei morto.»

«A meno che io non stia vivendo una curiosa esperienza di pre-morte, direi che è un sogno.»

«Anche se lo fosse non è forse un bel sogno? È sgradevole?»

«No… no, affatto. Rivederti è bellissimo in ogni caso.»

Allungò la mano e sfiorò la sua. Nonostante le rughe della sua pelle percepiva una sensazione di morbidezza e sentì – o piuttosto ricordò – il profumo di talco del sapone che usava per le mani.

«Sei sempre stato un figlio amorevole con me… molto diversamente da mio figlio Pascal. Sarei stato orgoglioso di essere tuo padre.»

«Ero tuo marito, Claude, non tuo figlio.»

«Solo per necessità. Sai che ti volevo adottare.»

«Sì, lo so, ma…»

«Ti ho sposato solo perché la mia malattia non mi avrebbe lasciato il tempo di scavalcare tutti quei fastidiosi cavilli dovuti ai tuoi genitori in Inghilterra e alla tua autocertificazione di nascita. Questo lo ricordi, no?»

«Sì, me lo ricordo… ma so che tu mi amavi comunque, e se non fosse stato che ti ritenevi troppo anziano per rendermi davvero felice mi avresti sposato senza mai prendere in considerazione l’adozione.»

«Ho fatto quello che andava fatto… e non ho fatto ciò che non andava fatto.» replicò lui enigmatico come mai era stato. «Ti ho amato molto, in che modo in realtà non è importante. Hai un futuro luminoso davanti a te, ragazzo mio, brilla come il sole… io sarò dentro di te, e lui al tuo fianco.»

«Claude…»

Claude continuò a sorridere, ma quando parlò stava rivolgendosi a Baudelaire. Ferid lo chiamò ancora, ma la sua voce non usciva dalla gola. Non riusciva a muoversi e rimase inchiodato sulla sedia, muto come un vecchio film, incapace di trattenere Claude che aveva preso in braccio il gatto stava uscendo dalla stanza…

«Ferid… ehi, Ferid.»

Ferid spalancò gli occhi cominciando istantaneamente ad ansimare, ma riconoscere i tratti familiari di Crowley lo tranquillizzò subito.

«Oh, sei tu…»

«Stai bene? Ti stavi agitando nel sonno…»

Tese un sorriso incerto mentre in un attimo riapparvero tutti i dettagli del sogno che aveva fatto: non gli era mai successo di sognare Claude, e il modo in cui si erano parlati era così naturale, così normale che faticò a classificarlo come un banale sogno partorito dall’inconscio.

«Non è niente… stavo parlando con Claude e Baudelaire ci stava disturbando.»

Il modo in cui si accigliò suggerì a Ferid che il suo fidanzato fosse un tantino preoccupato che la ferita alla fronte gli avesse leso qualcosa. Sollevò la mano e gli accarezzò il viso.

«Era solo un sogno, Crowley… ma se vuoi saperlo ti ha passato la palla, se vuoi continuare a portarla avanti.»

Dopo un momento di stupore Crowley sorrise.

«Claude ha le idee chiare. Deve avermi visto giocare da numero otto.»

Alla perplessità scritta nella faccia di Ferid Crowley rise piano e scosse la testa.

«È arrivato il momento di spiegarti come si gioca a rugby.»

 

 ***

 

 

Alla settima chiamata ricevuta dalla centrale per domande sull’accaduto o sulle loro condizioni di salute Ferid non badò affatto: spostava gli occhi dagli appunti disordinati di Crowley con linee di campo e numeri allo schermo del televisore che trasmetteva una partita di rugby.

«Ferid, De Stasio vorrebbe parlarti.» gli riferì Crowley con voce esasperata.

«Sto bene, grazie.» fece lui senza prendere il telefono che gli veniva avvicinato: era in qualche modo convinto di cominciare a capire come funzionava l’azione di gioco.

«Vorrebbe anche lui che tu tornassi sulla decisione di restare qui e cambiassi nascondiglio.»

«Impiccatevi!»

Che si appellasse all’Osservazione Fredda, al buonsenso, alle statistiche o alle suppliche nulla smosse Ferid dalla sua decisione. Alla fine Alford tagliò la proverbiale testa al toro disponendo che si piantonasse la zona un isolato intorno al palazzo giorno e notte per trovare Robert Warren o suoi eventuali complici con il compito di osservare le mosse del suo bersaglio.

Quella sera, dopo aver mangiato le bistecche che avevano scartato a cena il giorno prima, Ferid si versò un bicchiere del tanto sospirato vino rosso chiamato Luminare e si andò a sedere sul divano guardando la mischia muta di una partita di rugby in differita. Crowley si versò un bicchiere sul tavolo della cucina, con il telefono senza fili – che era arrivato a scottare – in mano con il vivavoce inserito.

«Te l’ho già detto… lui ha deciso così.»

«E tu sei d’accordo?»

«Certo, io supporto la sua decisione. Credimi che non l’ha presa senza pensarci.»

«Beh, è un’idiozia. Ed è ancora più idiota che tu gli dia corda.»

«Siamo una coppia, è normale che supporti le sue…»

«Crowley, per l’amor di Dio, non voglio sentire bestemmie del genere.»

Crowley abbassò il bicchiere senza aver bevuto: l’irritazione stava arrivando alla soglia di pericolo.

«Papà, smettila, ti giuro che sei a tanto così dal finire nella cesta degli scartati come la mamma.»

«Tu vuoi davvero seppellire di dispiaceri la tua povera madre, Crowley! È stata una brava madre, ha fatto tutto quello che poteva per te, e tu la ripaghi così?»

«Tu sei suo marito. Io sono suo figlio. Sono io che devo dire che tipo di madre è stata, e visto che ne parliamo: ha fatto tutto quello che poteva per crescermi come voleva che io fossi. Cattolico, obbediente, con un lavoro ben pagato perché io potessi mandare la mandria di nipotini alla scuola cattolica.»

«Ci vedi qualcosa di male?»

«Grazie di chiedermelo, papà, perché , ce lo vedo eccome. Non le importa che io sia infelice, basta che io vada in chiesa la domenica e mi sposi, possibilmente con Fionnula.»

«Fionnula è una brava ragazza. Lei è tua madre, vuole il meglio per te.»

Crowley alzò gli occhi al cielo e scolò il bicchiere di vino in cerca del conforto necessario per tirare avanti quella discussione. Ferid, che lo vide farlo, ridacchiò.

«Papà… lo conosci, Ferid. Hai visto che ragazzino era, sai dove è stato a scuola, sai che fa un lavoro onesto…»

«Non ho nulla da recriminare a Ferid, Crowley, solo che non accetto che sia il tuo uomo. Non è una questione personale: è un uomo. Questo è quanto.»

«Che cosa pensate di ottenere obbligandomi a trovare una donna se non è quello che voglio?»

Mentre si avvicinava al tavolino del soggiorno Ferid gli fece segno di calmarsi con la mano. In effetti si stava spazientendo e la sua voce lo tradiva.

«Non ci interessa se decidi di non sposarti o di farti prete, ma… lo sai, Crowley. Sei grande abbastanza da decidere se vuoi andare all’inferno oppure no, ma comportandoti così disonorerai tua madre e la sua famiglia… gli Eusford sono sempre stati…»

«Al diavolo gli Eusford!» sbottò Crowley. «E anche te, papà, se la sola cosa che riesci a pensare in questo momento è quanto si vergognerà la mamma!»

«Bada a come parli a tuo padre, ragazzo. Che cosa credi, che solo perché sei detective puoi alzare la cresta con me in questo modo, eh? Ti credi migliore di tuo padre perché hai una scrivania nella centrale di Satbury? Pensi di fare la voce grossa, ma hai ancora della strada da fare prima di potertelo permettere!»

Neil O’Brian si era infuriato. Capitava molto, molto di rado, ma una volta innescato – da buon irlandese – era molto difficile che si spegnesse senza aiuti.

«Che cos’hai combinato da quando te ne sei andato di casa dandoti arie d’importanza, ragazzo? Non hai comprato una casa, non hai una macchina decente e non sei stato capace nemmeno di trovarti una moglie decente… nemmeno una moglie pessima, veramente! Ti sei andato a trovare un uomo, in barba a come tua madre e i tuoi nonni ti ha cresciuto! Che diamine, ragazzo!»

Crowley sentiva le viscere sobbollire e sull’onda del momento decise di sputare in faccia al padre tutto quello che pensava di Dio, del suo pessimo matrimonio e degli errori che avevano fatto con lui, ma mentre prendeva fiato per interrompere il suo vomito di insulti vide Ferid gesticolare e lo guardò: stava ripetendo lo stesso gesto di prima, con più urgenza e con tutt’e due le mani, perché gli era chiaro che stava per scoppiare.

Lasciò uscire il fiato senza un fonema mentre suo padre recriminava che non era nemmeno capace di sparare decentemente.

«Okay, basta così, papà. Se vuoi parlarmi trattandomi da uomo e non da bambino lo faremo un’altra volta perché ho da fare adesso. Se invece intendi insistere con questa tua testardaggine non mi richiamare neanche.»

Chiuse la telefonata e piazzò bruscamente il telefono nella base di ricarica. Si accorse di avere in mano un bicchiere vuoto, quindi recuperò la bottiglia e lo rabboccò mentre si sedeva sul divano vicino a Ferid.

«È stata tosta, eh, Crowley?»

«Avere genitori irlandesi è così. Una scornata continua.» borbottò lui, e bevve. «Gli passerà… e se non gli passerà, non importa. Io voglio essere felice, e se significa stare con te e infastidire loro mi sta bene così.»

Ferid incrociò le gambe nella sua posizione comoda e accennò a dire qualcosa quando il telefono squillò di nuovo. Anche da lì era possibile leggere sul grande display il nome associato al numero chiamante e Ferid fece un sorriso esitante. Dal canto suo Crowley decise di ignorare la chiamata del padre come se lo squillo non fosse quello del suo apparecchio.

«Sai, è buono questo vino.»

«Sì, lo è… senti, Crowley, posso parlarti di… ?»

Questa volta fu il cellulare a squillare. Crowley troncò la chiamata e spense la suoneria.

Sta mettendo davvero a dura prova la mia pazienza.

Si riappoggiò allo schienale e passò il braccio intorno alle spalle di Ferid. Avrebbe voluto avviare una videochiamata con suo padre solo perché si indispettisse nel vederli insieme, ma poi allontanò il pensiero della sua famiglia. Quella sera voleva averla soltanto per loro: basta distrazioni.

«Dicevi che volevi dirmi qualcosa?»

«Vorrei… parlarti di una cosa, sì. Avrei dovuto parlartene prima, ma…»

Avesse avuto le antenne si sarebbero rizzate subito: con quella premessa il suo primo pensiero andò a Robert Warren.

Sta per dirmi la verità. Vuole dirmi il vero motivo di tutta questa follia.

«Beh, fallo ora.» replicò con una calma che non sentiva. «Di che si tratta?»

«Che cosa sai dei Cosworth, Crowley?»

Così orientato su Robert rimase totalmente basito da quel cognome che gli suonava tutto sommato poco familiare. Si accigliò frugando nella memoria, ma trovò ben poco: non ricordava alcun caso Cosworth nella sua carriera, né di averne letto sul giornale.

«Beh… niente, credo… so che la Cosworth ha costruito il motore Ford, c’entra qualcosa?»

«No, non credo proprio… ma senza volerlo ti ho raccontato metà della loro storia, quando ci conoscevamo appena.»

Perplesso, Crowley prese un altro sorso di vino e si mise a rievocare tutte le discussioni che ricordava con Ferid prima che si trasferisse a casa sua, ma non ne emerse nulla. Sconfitto, lo guardò scuotendo la testa.

«Lo hai letto nel diario che ti avevo lasciato… ma posso cominciare dall’inizio, se preferisci.» gli disse Ferid, giocherellando con l’orecchino. «I Cosworth… sono una dinastia nobiliare inglese. Sono visconti.»

Oh, cielo, non starà per dirmi quello che penso?

Crowley tolse il braccio dalle sue spalle per rabboccare il bicchiere un’altra volta e puntellò i gomiti sulle ginocchia, sperando che le sue paure non si riflettessero nel suo sguardo.

«Uhm… beh… non ha tanto senso girarci intorno…»

Ferid fece oscillare il vino rimasto nel bicchiere, prese un sospiro e proseguì.

«Mio padre era Foster Oakley, diciannovesimo visconte di Cosworth.»

Crowley si portò la mano alla bocca per non sputare il vino che stava bevendo e con un colpetto di tosse scongiurò che gli andasse di traverso, ma lo stupore non poteva deglutirlo con tanta facilità.

«A-allora avevo ragione, la tua “casa di campagna” era una villa!»

«Sì… la tenuta Cosworth è piuttosto grande, in realtà.»

«Lo sapevo, è… ma scusa… se tuo padre fa “Oakley”, perché tu ti chiami “Bathory”?»

«Strano che tu mi faccia questa domanda… è la stessa cosa anche per te. Porti tutti e due i cognomi, ma quasi tutti ti chiamano Eusford.»

«Solo perché ci sono migliaia di O’Brian!»

«Oh.» fece Ferid, preso in contropiede. «Beh, sì, plausibile… beh, con i titoli nobiliari è un pochino diverso… mia madre secondo la nobiltà ungherese aveva un titolo più importante di quello di mio padre, quindi il suo cognome ha la precedenza. Per questo mi chiamo Bathory, ma quando mio padre è morto ho comunque ereditato il suo titolo.»

Crowley sbatté gli occhi fissandolo, così perplesso che si stava dimenticando di bere. Qualcosa in quel discorso di titoli nobiliari gli faceva inceppare le rotelle del cervello e ci mise un tempo spropositato per elaborarlo.

No, aspetta, questo vuol dire che sono fidanzato con un visconte?

Solo allora ricordò in quale modo Ferid gli aveva raccontato la storia, in particolare la sua conclusione: nel suo diario lamentava l’impossibilità di rifiutare l’eredità dei suoi genitori. Ivi compreso il suo titolo?

«Ma sei… Ferid, vuol dire che sei un visconte?»

«Tecnicamente sono il ventesimo visconte di Cosworth e duca di Bátor, in Ungheria…»

Non aveva la minima idea di che territorio fosse Bátor, ma era comunque abbastanza da causargli smarrimento e una punta di imbarazzo. Dopo aver taciuto per un buon minuto bevve un altro sorso e fece un sorriso incerto grattandosi la punta del naso.

«E quindi un misero detective di primo livello della squadra omicidi non è alla tua altezza, giusto?»

«Se lo chiedi a qualche nobile dirà sicuramente di no, ma ti direbbe anche che lavorare come meccanico o come libraio non lo è. Avrai notato che faccio una serie di cose non proprio da nobili.»

«Mh… quindi non è un modo per dirmi che non puoi stare con me?»

«… Ma che sei, ubriaco?! Metti giù quel bicchiere, subito!»

Con un sospiro di sollievo gli obbedì e posò il calice sul tavolino.

«Mi hai spaventato, Ferid. Eri così serio che pensavo mi stessi per dire che visto che sei nobile non potevamo avere un futuro e che visto come stava buttando male con Robert te ne tornavi in Inghilterra…»

«Un brindisi al tuo ottimismo, signor Eusford.» fece lui, sollevando il bicchiere con l’aria seria di chi sta brindando all’inizio di una guerra. «Mi dispiace ma non ti libererai di me così facilmente, dovrai uccidermi.»

«Non scherzare su questo, per favore.» sospirò Crowley, appoggiandosi allo schienale. «Ma perché dirmelo stasera, con quell’aria seria? Mi aspettavo che mi dicessi che Bobby ti vuole morto per… ah, nemmeno io so che cosa mi aspettavo, qualcosa di apocalittico come minimo!»

«Solo… visto come vanno le cose tra di noi ho pensato di raccontartelo prima che… te lo dicesse qualcun altro, o che lo venissi a scoprire…»

«E che sarebbe successo? Hai ucciso tu i tuoi genitori, per caso?»

«Eh? No!» fece lui indignato. «Mia madre è morta per complicazioni della sua malattia due anni dopo la mia fuga e mio padre ha avuto un incidente a cavallo! Ha battuto la testa cadendo e non aveva il casco, e per inciso, io ero al lavoro qui a New Oakheart quando è successo.»

«E allora di che cosa mi sarei dovuto arrabbiare? Mi dovevo vergognare? Adesso lo dirò per tutta la città che esco con un lord, non è mica cosa da tutti!»

«No… okay, Crowley, no, non dirlo in giro, non voglio che…»

Crowley passò le braccia dietro la sua schiena stringendolo a sé e lo baciò interrompendolo; lo sollevò a pura forza bruta per trascinarlo sulle sue gambe e smise di baciarlo solo quando sentì di aver spento qualsiasi protesta. Difatti quando staccò le labbra Ferid non parlò e si limitò ad accarezzargli i capelli e il viso.

«Sai che cosa trovo piuttosto assurdo?» gli domandò, accarezzandogli la gamba.

«Cosa?»

«Per essere cresciuto come rampollo di famiglia nobile di religione cattolica hai sviluppato una strana concezione di te stesso.» osservò Crowley, cercando di essere più dolce possibile nel dirlo. «Ti sei lasciato trattare come se non valessi niente… comprare e rivendere, in senso metaforico, da persone che francamente non meriterebbero i capelli che lasci nella spazzola, figurarsi tutto il pacchetto…»

«Non mi sono mai sentito nobile… e poi, Bobby mi aveva scaricato in un fetido motel, e Bobby non era… nessuno. I Warren erano braccianti agricoli e io un rampollo, come dici tu, ma questo non ha cambiato…»

Crowley stroncò quella frase altamente autodistruttiva posandogli il dito sulle labbra prima di sorridergli.

«Mi concede l’alto onore di insegnarle come si fa l’amore tra gentiluomini, Lord Cosworth?»

Gli occhi celesti di Ferid gli ricambiarono lo sguardo con sorpresa, poi le sue labbra si tesero in un grande sorriso.

«È un sì?»

Crowley fece per spostare l’indice ma prima che potesse abbassare la mano lui la fermò tenendogli il polso, infilò in bocca il dito e lo succhiò con la medesima malizia con cui tempo prima – momento ben impresso nella sua memoria – aveva passato la lingua su uno spicchio di mela.

È assurdo come riesca a passare da momenti di timidezza da ragazzino a questo in pochi secondi… però adoro quando lo fa.

«Lo prenderò per un sì.»

Crowley lo prese da sotto le ginocchia e si alzò dal divano tenendolo in braccio, mascherando benissimo lo sforzo che comportava sollevare da seduti un uomo adulto per quanto magro fosse.

«Spero che abbia buona memoria, Lord Cosworth, perché se no la obbligherò a scrivere tutto.»

Ferid ridacchiò divertito.

«Ti eccita un sacco questa cosa del Lord~»

«Altroché, non ho mai fatto l’amore con un nobile.»

Crowley portò Ferid fino alla camera da letto e su quella soglia si accorse della gatta che li stava seguendo. Con una mossa fulminea del piede chiuse la porta prima che il felino riuscisse a raggiungerli.

Resta fuori, Cosetta. Non è roba per te.

Ferid non protestò per l’esclusione della sua gatta, per fortuna: una discussione sul felino di casa avrebbe guastato l’atmosfera, e per la prima volta l’atmosfera sembrava proprio quella giusta. Crowley distese Ferid di traverso sul letto, lo baciò sulla bocca e sul collo e sorrise.

«La prima cosa da imparare è la regola dei trenta.»

«Trenta… trenta cosa, Crowley?»

«Trenta baci, piccolo perverso, che cosa credevi?»

«Oh, nulla di che, lo giuro~» flautò lui, spostandosi i capelli dal viso. «Allora, che cos’è esattamente, signor Eusford?»

«Trenta baci prima di arrivare a qualsiasi zona possa valerle una multa per atti osceni, Lord Cosworth. Una regola che le è completamente sconosciuta, vero?»

«Ignota, messere~»

Crowley sospirò e sfilò la maglia viola – come le rose che gli aveva regalato – senza alcuna fretta, e si prese anche la briga di appoggiarla con cura sul comodino.

«Quando mi hai detto di essere stato sposato certo non mi aspettavo di doverti insegnare tutto… ma non è affatto male come idea.»

«Oh, non temere… non mi dovrai insegnare proprio tutto

Crowley sorrise in risposta al suo sorrisetto malizioso e lo baciò, iniziando a contare. Senza affrettarsi e anzi rallentando il più possibile arrivò fino a ventinove, appena sotto l’ombelico.

«Sono trenta, Ferid? Hai contato?»

«Sono ventinove~»

«Oh, molto bravo, non hai imbrogliato e non ti sei distratto… ma non ti preoccupare…»

Si interruppe per aprire il bottone e la zip dei suoi pantaloni e dargli un bacio sulla pelle lasciata scoperta.

«Da adesso non ti lascerò abbastanza tranquillo da contare fino a trenta.»

 

 

 ***

 

 

Il giorno seguente, dato che Yuu era al lavoro, Mikaela fu il primo fortunato a venire a sapere del coronamento della relazione tra Crowley e Ferid direttamente da quest’ultimo: non era intenzionato a raccontarlo come fosse il primo appuntamento di una ragazzina, ma alle domande di Mikaela sul perché avesse quell’aria felice aveva molto faticato a dare la pacata risposta “niente di che”. E dopo qualche secondo aveva vuotato il sacco.

Aveva ancora sulla faccia lo stesso sorriso rilassato e soddisfatto quando uscì dall’appartamento dei vicini con Mikaela al seguito. Questi chiuse la porta a chiave dietro di lui e poi gli fece un sorriso insolitamente felice, che rendeva il suo viso d’angelo particolarmente luminoso.

«Sono contento che vi siate trovati bene e che i tuoi timori fossero infondati… anche se te l’avevo detto che lo erano.»

Ferid si limitò a fare un sospiro, senza smettere di sorridere. Non gli pareva vero di essersi davvero afflitto per settimane all’idea di cosa sarebbe successo tra loro se avessero scoperto di non avere intesa sessuale. Non che fosse stato ridicolo prospettarsi la possibilità, perché era assolutamente vero che non l’avevano: avevano modi completamente opposti di consumare una relazione, esperienze piuttosto diverse e resistenze mostruosamente differenti; ma era stato assurdo pensare che potesse bastare questo per distruggerli.

«È vero, Mika, me l’avevi detto~»

«Come tutto il resto, il sesso si impara. E dopo aver imparato a sopportare, ad ascoltare, a capire e a parlarsi, ti assicuro che imparare a darsi piacere è la cosa più facile in una coppia.» fece il ragazzo, chiamando l’ascensore con la cartella di scartoffie burocratiche sotto il braccio. «Dopotutto, per quanto voglia sembrarlo Crowley non è santo, e nemmeno tu, quindi vi serve solo conoscervi un po’ meglio.»

«Sembrava quasi un sottile insulto~»

«No, affatto. I puritani e i santi autoproclamati mi fanno venire il voltastomaco.»

Ferid non poté impedirsi di pensare all’alone di santità che le circostanze fortuite gli avevano conferito nella piccola comunità della chiesa di Saint Thomas, e non riuscì neanche a evitare un basso risolino nervoso.

Santità, come no…

L’ascensore arrivò all’ultimo piano e Mika spalancò la grata.

«Ci vediamo più tardi per finire la partita?»

«D’accordo, tanto non sono nelle condizioni di chiedere a Crowley un bis proprio stasera, quindi anche dopo cena sono disponibile!»

«Ah, non so se ci sarò io.» replicò Mika entrando nella cabina. «Io sono nelle condizioni di chiedere a Yuu-chan un bis.»

Ferid guardò con sorpresa il ragazzo biondo e lui fece un sorriso malizioso mentre chiudeva la grata. Ferid vi si aggrappò mentre la porta interna si chiudeva.

«Mika, folletto dispettoso che non sei altro… voglio i dettagli quando ritorni, capito?»

Mikaela non replicò e gli fece solo un cenno di saluto con la mano mentre la cabina scendeva. Ferid lasciò la presa e rientrò in casa preso dal curioso – e un po’ perverso – pensiero che stessero facendo entrambi la medesima cosa a una parete di distanza.

Io non mi sono accorto di niente… chissà se lui invece ha sentito qualcosa? Forse mi ha fatto quella domanda perché già lo sapeva!

La sua riflessione venne interrotta mentre entrava in salotto, dove la sua gatta era comodamente stravaccata sullo schienale del divano. Non fu tanto Pandora a distrarlo, quanto la voce di Crowley che parlava con qualcuno, e scoprì che stava usando il cellulare appoggiato contro i libri sul tavolino per una videochiamata.

«Oh, guarda chi c’è! Aspetta un momento, nonna!»

Lui tese una mano verso di lui, con uno dei sorrisi più ampi e belli che gli avesse mai visto fare.

«Sono al telefono con nonna Susan, vieni a salutarla!»

«Cosa… Crowley, no!» sussurrò Ferid, atterrito alla sola idea. «Non voglio vedere tua nonna avere un infarto in diretta appena mi vede, sei pazzo?»

«Smettila, guarda che gliel’ho già detto… non c’è nessun problema… solo due parole, Ferid, ti prego.»

Non si aspettava che Crowley dichiarasse alla sua famiglia il suo orientamento e la sua decisione di stare con un uomo così, nel corso di una telefonata dopo lunghi mesi di silenzio e anni che non si incontravano, ma ancora meno si aspettava che non fosse un problema per loro.

Esitante si avvicinò al divano, prese la sua mano e si sedette accanto a lui. All’improvviso si sentì nervoso come se si fosse appena seduto in tribunale, anche se il giudice era una signora sulla settantina con una crocchia di capelli resi argentati dal tempo, con spessi occhiali sugli stessi occhi blu di suo nipote e un sorriso autentico seppure con denti troppo perfetti per non essere finti.

«Nonna, eccolo qui. Questo è Ferid.»

«Ta shara fatu bi muqabalatika, Ferid!»

Ferid restò basito almeno quanto Crowley con quella frase e ammutolirono entrambi per qualche secondo. Poi Ferid soffocò per quanto poteva una risata con la mano e Crowley si grattò il naso, in imbarazzo.

«Nonna, Ferid non è mica arabo, che cavolo gli hai detto?»

«Oh, no, davvero? Con un nome come Ferid pensavo che lo fosse… speravo di fare bella figura con il mio arabo, che peccato!» fece Susan, ridacchiò e poi proseguì: «In effetti è un po’ troppo chiaro per essere arabo, è così argentato che sembra venire dalla luna!»

Susan si sporse avvicinandosi tanto alla telecamera che del suo viso si vide solo una limitata porzione. Crowley sospirò.

«Nonna, cosa fai? È una videochiamata, se ti avvicini non ci vedi meglio…»

Per ovviare al problema della nonna il nipote prese il telefono e l’avvicinò a Ferid, e allora anche la vecchia signora O’Brian tornò a mezza figura nel riquadro.

«Ah, scusa, caro… sai, Florence ci ha spiegato un po’, ma io e tuo nonno non capiamo molto di queste cose moderne… siamo anziani, ahimè…»

«Sarà, ma mai troppo vecchi per imparare l’arabo… dove diavolo l’hai pescato, a proposito? Non mi dirai che hanno aperto una scuola di lingue a Eanverness.»

«Certo che l’hanno fatto, ma non ci sono mai andata.» fece lei, che studiava lo schermo con l’aria di stare leggendo una difficilissima ricetta. «L’ho imparato un po’ dalla famiglia che ora gestisce la tavola calda dove andavamo quando eri bambino, caro, ti ricordi? L’ha preso in gestione la famiglia Khalam, e il loro figliolo va a scuola con Patrick, sono migliori amici… si chiama Salil, un bambino adorabile, ma nero come il carbone in confronto al tuo fidanzato, caro.»

«Nonna… dai, non metterlo a disagio.» la rimproverò lui con tatto.

«A disagio? Oh, caro! Il tuo fidanzato è bello come una statua greca, poco importa se è verde, giallo o blu, Crowley caro. Ferid caro, devi venire anche tu a trovarci! Gideon sarà contento di sapere che non sei arabo, si comporterà bene… oh, niente di personale, mio caro, ma non gli piace l’islam.»

«Figurarsi.» commentò Crowley, rimettendosi all’interno dell’inquadratura della chiamata.

«Lo sai com’è lui: terra, whisky e maiali sono tutto quello che gli interessa, Gid non si metterà mai con la testa a capire una cosa che non può diventare una buona bottiglia o una cena gustosa.»

«Non hai proprio preso da tuo nonno, Crowley~»

«Grazie a Dio no.» convenne lui. «Adoro nonno Gideon, ma vive in un altro millennio.»

«Neanche tanto, se decide di non rastrellarci quando ci presentiamo come coppia.»

Crowley sollevò le sopracciglia e poi scrollò le spalle.

«Vero anche questo… ma nonna, sei davvero sicura che non sia un problema? Per te, o per il nonno, che io…»

«Mio caro, le emorroidi sono un problema. I calli, le vesciche, l’ulcera e il trattore rotto quando è tempo di raccolto. Questi sono problemi, tesoro.» disse l’adorabile signora, con un’espressione dolce che scaldava il cuore al solo vederla. «Gid borbotterà un po’ perché Ferid non è un uomo di mondo, ma…»

«In che senso, scusa?» fece Ferid, incapace di trattenersi.

«Nel linguaggio del nonno vuole dire che non sai mandare avanti una fattoria e trasformare un maialino in un assortimento di insaccati. Niente di metafisico, Ferid, tranquillo.»

«Mh…»

Per un attimo Ferid si chiese se la loro avversione non avrebbe preso vie più subdole per manifestarsi, se la famiglia di Crowley non avrebbe cominciato a criticare come vestiva, parlava, camminava e tutte le cose che non sapeva fare nella speranza di allontanarlo, o che l’amato parente capisse che non andava bene per lui… ma la paura durò molto poco.

«Ferid caro, mi sa che non è facile per te… ma parola mia, la famiglia O’Brian sarà felice di essere anche la tua finché renderai felice il mio adorato nipote. Neil è sempre stato più… rigido, sai. Il matrimonio con Maureen non gli ha giovato molto, è una donna così ossessionata dal dovere che perde di vista che una famiglia dev’essere un posto dove si torna sempre con il sorriso.»

Ferid non riuscì a trovare niente da dire dopo parole tanto toccanti: non aveva mai concepito una famiglia in quel modo, neanche nei suoi migliori sogni. Quando guardò Crowley negli occhi lo vide davvero felice e non faticò a capire come mai, dopo la discussione acre della sera prima con il padre.

«Però per una cosa mi fai molta rabbia, Crowley caro.»

A quella frase il nipote di Susan si rabbuiò e la guardò dallo schermo con aria particolarmente mesta.

«Vi metterò in imbarazzo con la parrocchia…?»

«Ah, s’impicchi la parrocchia.» sbottò lei, lasciando sorpresi entrambi gli uomini. «Ma prima di trovare questo meraviglioso ragazzo potevi sbagliarti e fare almeno un paio di pro-nipotini alla tua vecchia nonna!»

Crowley, incerto se prendere sul serio o meno quell’affermazione, si grattò la testa senza sapere che cosa dire.

«Oh, beh, mai dire mai, potrebbe anche essercene qualcuno~»

«Ferid!»

«Ah, se Dio mi vuol bene ci saranno!» sospirò la signora O’Brian. «Sprecare così quei tuoi lineamenti e quei bei capelli rossi in un nulla di fatto è un crimine… beh, beh. C’è sempre l’utero in affitto… quando vi sentirete pronti, cari miei.»

Ferid tacque e puntò uno sguardo molto serio su Crowley.

«Tua nonna mi piace. Da impazzire.»

Subito dopo alle spalle di Susan apparve un uomo anziano, basso ma robusto con larghe spalle e nessuna traccia di somiglianza con il nipote, che tuttavia era proprio il nonno Gideon.

«Gid! Gid, guarda, c’è Crowley al telefono, con il suo fidanzato!»

«Quello arabo?» borbottò lui, cupo.

«Ma no, caro, Ferid ha solo il nome arabo. Su, guardalo!»

L’anziano si chinò sul telefono e Ferid si sentì come scannerizzato da quegli occhi ombreggiati da cespugliose sopracciglia. Provò un piccolo ma sentito dispiacere quando lo vide scuotere la testa come deluso, anche se non poteva che ammettere a se stesso di esserselo aspettato.

«Sottile e delicato.» sentenziò lui. «Troppo sottile e delicato per lavorare la terra.»

«È un uomo, non un trattore, nonno.» gli fece notare il nipote accigliato. «Deve stare con me, non venire a raccogliere il mais insieme a te.»

«Beh, vuol dire che non prenderai la mia fattoria quando sarò vecchio?»

«Nonno… io ho una carriera al dipartimento di polizia, lo sai… e di questo possiamo riparlare quando inizierai a stancarti della vita di contadino, e non è ancora successo.»

Gideon scrollò le spalle e diede loro la schiena mentre si versava un enorme bicchiere di latte da una brocca di alluminio posta sul mobile della cucina.

«Beh, saprà almeno star in cucina con tua nonna ad aiutare per la cena.» commentò allora, con i baffi imbiancati dal latte. «Abbiamo posti vuoti a casa per le feste e un paio di mani in più a sbucciar le patate fan sempre comodo.»

Ferid e Crowley si scambiarono un’occhiata sorpresa e dopo un borbottio di difficile interpretazione l’uomo se ne andò col grosso bicchiere in mano. La moglie sorrise soddisfatta.

«Che t’avevo detto, caro? Ha il tatto di uno abituato ad appender maiali, ma è l’uomo che ha cresciuto il bambino che ora è l’uomo che hai vicino, non può essere poi così male!»

Quando, qualche minuto dopo, Crowley chiuse la chiamata per andare al lavoro in centrale Ferid era decisamente di buonumore: Susan era molto più aperta di mente e gentile di quanto osasse sognare e il marito, per quanto burbero, aveva tutta l’aria di un brav’uomo gentile ma troppo duro per farlo vedere chiaramente. Nessuno dei due gli era sembrato ostile come temeva.

«Ferid, mi stai ascoltando?»

Ferid girò la testa e si sorprese di vedere Crowley vicino alla porta, intento a sistemarsi la giacca.

«A che pensavi?»

«A niente! Non tornerai a casa per cena, immagino.»

«No, non credo di essere a casa prima delle undici. Ma non ti preoccupare, qui sei al sicuro… ci sono due unità che tengono d’occhio il palazzo, una fissa sul parcheggio dietro e una che sorveglia l’ingresso. Tu resta buono qui, Ferid.» gli intimò con una certa durezza. «Non uscire per nessuna ragione, neanche per un incendio se non riesci a vedere dove sia, chiaro?»

«Non uscirò, Crowley caro.» replicò lui con divertita enfasi sul nomignolo usato dalla nonna. «Farò lo spezzatino per cena, così quando torni basta scaldarlo… lo preparerò prima e quando Mikaela torna dalle sue commissioni torno di là. Abbiamo una partita molto equilibrata ancora in sospeso, oso sperare in una vittoria.»

Ferid sistemò il colletto della sua giacca invernale e gli batté piano la mano sul petto.

«Vai, caro, o farai tardi… ma non correre in macchina, okay?»

«Sono un poliziotto, non corro mai in macchina… se non c’è nessuno da inseguire, almeno.»

Crowley gli diede un bacio sulle labbra e fece per uscire quando si bloccò: Pandora si stava strofinando contro la porta, pronta a tentare un’evasione. Ferid accennò a chinarsi per prenderla ma Crowley fece prima di lui; la prese in braccio e lei attaccò delle rumorose fusa. Restò fermo lì, basito, a guardare l’irlandese darle qualche carezza sulla testa alla bestiolina che non accennò neanche a tirare fuori le unghie.

Ma come… fino a ieri si odiavano…

«Vale anche per te: stai in casa. Bada a Ferid, che non mi fido.» disse Crowley alla gatta, e la lasciò tra le braccia del padrone con un sorriso. «Ci vediamo stasera, se sarai ancora sveglio. Ciao, Dora.»

Crowley lasciò l’appartamento salutato dalle oziose fusa di Pandora e dal silenzio perplesso di Ferid. Osservò la sua gatta, che gli ricambiò lo sguardo con uno pigro e sonnolento.

«È la prima volta che ti chiama per nome, ti ha sempre chiamato Cosetta…»

Sorrise e le grattò le orecchie.

«Ho quasi paura a dirlo, ma… non ti sembra che tutto si stia sistemando, un po’ alla volta?»

Pandora chiuse lentamente gli occhi e li riaprì, in un gesto felino che a Ferid sembrava proprio una conferma.

 

 ***

 

Solo poco più tardi Ferid canticchiava il motivetto di una pubblicità che non riusciva a togliersi dalla mente mentre mondava le verdure necessarie a preparare lo spezzatino. Sussultò quando sentì lo squillo del suo cellulare, tanto di rado squillava, e fu con grande sorpresa che vide sullo schermo un numero di telefono non memorizzato. Non aveva idea di chi potesse chiamare quel numero nuovo da una linea fissa e pensò a un errore, quindi rispose a cuor leggero.

«Sì?»

«Ciao, Rid. Stai passando un piacevole pomeriggio?»

Il respiro gli si bloccò bruscamente come fosse piombato di peso dentro un lago di acqua gelata. Non aveva idea di come Robert fosse riuscito ad avere quel numero che gli aveva dato la polizia di Satbury, ma il solo pensarci gli fece sentire la sua presenza così vicina e minacciosa da potersi immaginare il fiato caldo sul collo. Se lo toccò in un gesto di paura inconscia.

«So che sei tu, Rid, non ti sforzare… sei da solo a casa? Bada alla tua risposta, potrei già saperlo…»

Il gatto con il topo… lo sta facendo per farmi paura o mi sta osservando?

Ferid posò il coltello e si avvicinò alla finestra della cucina, senza ancora accorgersi che non aveva ripreso a respirare.

«Riesci a vedermi… oppure no? Da dove ti sto guardando?»

In uno scatto incontrollato tirò la tendina coprendo la finestra e Robert scoppiò a ridere.

Ci sono cascato come un idiota… non mi sta davvero guardando, ha solo immaginato che a quelle parole avrei cercato di trovarlo là fuori.

«Basta giocare, Bobby! Perché non puoi semplicemente vivere la tua vita da cane scabbioso lontano da me e lasciarmi in pace, per una volta?!»

«Ah… ironico che proprio tu mi dica questo, dopo quello che hai fatto.»

La sua risposta lo lasciò del tutto interdetto, tanto che non seppe neanche cosa controbattere. Riusciva solo a pensare che doveva chiudere la chiamata e usare il telefono di casa per chiamare in centrale. Doveva dirlo a De Stasio, che l’avrebbe detto a Crowley non appena fosse arrivato al dipartimento.

«Non riattaccare.»

Aveva già il pollice sopra l’icona rossa quando sentì un gemito acuto di dolore. Con il cuore in gola e la mente che a malapena elaborava i pensieri riaccostò il telefono all’orecchio. Sentiva in sottofondo il fischio di un bollitore, o almeno gli ricordava proprio il rumore del suo.

«Se riattacchi la chiamata la torturo e la uccido!»

Sentì lo schioccare di qualcosa – un rumore simile a una cinghia o a un frustino da equitazione, gli venne subito da associarlo – e poi di nuovo il grido di una donna. Gli sembrò di aver preso un calcio violento alla bocca dello stomaco per quanto gli si strinse dolorosamente.

È arrivato a lei… ha preso davvero Krul.

«Parlagli, deve riconoscerti!»

Non era affatto necessario: la conosceva abbastanza bene da riconoscerla anche solo da un gridolino come quello. In ogni caso qualsiasi dubbio – o speranza che fosse – venne dissipato quando a seguito di un altro colpo lei lo mandò al diavolo con veemenza.

«L’hai riconosciuta, Rid?»

Il suo primo istinto fu ricoprirlo di minacce e insulti, intimandogli di togliere le sue luride mani da lei in quell’istante… ma qualcosa, un barlume di lucidità, lo fermò e lo costrinse a prendere il respiro e a calmarsi.

Conta sul fatto che lei sia una moneta di scambio… se ignoro la sua provocazione potrei convincerlo a lasciarla perdere.

«Non proprio.» rispose quindi. «Che cosa diavolo stai facendo, Bobby? Hai preso un’altra vittima da dissanguare?»

«Può essere.» replicò lui, appena più freddo di prima. «Vuoi unirti a me e vederla appesa per i piedi e sgozzata come un maiale finché non si dissangua?»

Ferid si morse il labbro inferiore. Si sforzava di pensare il più rapidamente potesse, ma non riusciva a trovare la soluzione; non aveva alcuna idea di cosa potesse funzionare nel trattare con una persona tanto squilibrata seppure la conoscesse.

«Se ti interessa salvare questa strega vieni da me. Ti aspetto a casa sua, so che sai dove si trova.»

«Non lo farò, Robert.»

Ci fu un rumore improvviso di metallo e un grido di sofferenza che neanche quella coriacea, piccola donna che era Krul riuscì a smorzare. Ferid strinse il telefono tanto forte da farsi male alle dita. Sapeva che non avrebbe dovuto cedere, che doveva dire tutto subito a Crowley e ai suoi colleghi, ma quando sentì un altro grido come quello precedente non riuscì più a pensare.

«D’accordo! Smettila, Robert, maledizione, lasciala stare!»

«Vieni subito, Rid, mi sono spazientito con il passare del tempo…»

«Non venire!» gridò Krul, più distante dal telefono. «Ferid, non venire per nessun…!»

Sentì di nuovo quello schiocco e qualsiasi cosa fosse stroncò la frase di Krul. La sentì mugugnare e immaginò che dovesse averla imbavagliata o le stesse coprendo la bocca con qualcosa.

«Sta’ zitta, brutta stronza! E ti avviso, Rid!» aggiunse in tono duro, di rabbia mal celata, rivolto a lui. «Se vedo un poliziotto… se sento una sirena… do fuoco alla casa con la tua strega dentro!»

La comunicazione venne interrotta e Ferid rimuginò per alcuni secondi, che gli parvero ore, sul da farsi; pensò alle opzioni che aveva, ma ogni soluzione gli sembrava sbagliata.

Aveva già il numero di De Stasio sul display – poiché non sapeva se Crowley stesse ancora guidando – ma non avviò la chiamata. Andò invece alle finestre, diede una lunga occhiata fuori, e solo dopo aver riflettuto qualche altro minuto con gli occhi celesti fissi sul parcheggio fece una telefonata.

«Ferid, che succede?» fu la prima, discretamente allarmata risposta di Mikaela.

«Mikaela, ho bisogno del tuo aiuto, ma non c’è un minuto da perdere.» esordì Ferid, rendendosi solo vagamente conto di quanto la propria voce suonasse ferma e risoluta. «Ascoltami attentamente, perché non voglio ripeterlo.»

«Ma che sta succedendo?»

«Devo uscire da qui, e i poliziotti che sorvegliano il palazzo non devono scoprirlo.»

Mikaela tacque per un attimo, ma se Ferid si aspettava delle proteste o ulteriori indagini restò sorpreso.

«Che cosa vuoi che faccia?»

 

 ***

Mikaela tornò alla palazzina in sella alla sua moto tenendo una velocità che non desse nell’occhio in un senso o nell’altro ed entrò dal cancello parcheggiando vicino all’ingresso. Smontò di fretta e lanciò un’occhiata alla strada verso un’auto dove due uomini sui sedili anteriori sembravano aspettare qualcosa che tardava ad arrivare.

Eccoli… devono essere la pattuglia che controlla l’ingresso… mi auguro che Ferid sappia che cosa sta facendo.

Il ragazzo biondo entrò e infilò l’ascensore per fare in fretta, e mentre saliva si sfilò il casco integrale. Aveva ascoltato il piano di Ferid al telefono, e l’aveva seguito per ragioni che non comprendeva neanche lui: era un ragazzo che dotato di buonsenso e di logica, o almeno così si riteneva, e aveva deciso di assecondare una richiesta senza conoscerne neanche la ragione.

Ma non farebbe una cosa del genere per gioco… dev’essere successo qualcosa di grave… qualcosa di tanto grave da non poterlo raccontare a Crowley.

Finalmente arrivò all’ultimo piano e lì trovò Ferid che spalancò la grata non appena la cabina si fu arrestata.

«Era ora, Mikaela, in nome di Dio, perché ci hai messo tanto?!»

«Ero sulla Madigans e dovevo anche comprare la tuta, ho fatto prima che potevo.» si giustificò Mikaela, e abbassò la cerniera per sfilarsela di dosso. «Vuoi dirmi che cosa sta succedendo?»

«Ora non ne ho il tempo, devo cambiarmi e abbiamo pochi minuti per levare le tende!»

«Quindi mi porti con te?»

Ferid parve preso in contropiede da quella domanda e ammutolì, come se si fosse reso conto che non aveva considerato qualcosa di importante nella messa a punto della sua strategia.

«Posso andare da solo.» disse poi, e prese a infilarsi la tuta che Mika si era appena tolto. «Anzi, è meglio se vado da solo.»

«No, per niente. Usciremo di qui con il tuo piano e mi dirai che cosa sta succedendo… non è sicuro andare là fuori senza che qualcuno ti accompagni.»

Ferid parve in parte sollevato e non mosse obiezioni, così Mikaela buttò dentro casa gli abiti che si era tolto per riuscire a indossare la tuta appena comprata dal negozio sportivo sulla Madigans, ficcati in fretta e furia nella borsa anche quella acquistata nello stesso posto, e ripescò jeans, scarpe, giubbotto e berretto che per primi gli capitarono sotto mano.

Diede una mano a chiudere la cerniera e a infilare i voluminosi capelli argentei di Ferid sotto il casco integrale. Come la tuta sportiva aveva già dimostrato qualche tempo prima, le loro taglie erano abbastanza simili da consentire loro di mettere in atto quel trucco da illusionisti: visti da lontano e in sella alla moto sarebbe stato impossibile capire che il pilota che stava per uscire dal parcheggio non era lo stesso che era rientrato pochi minuti prima.

Ferid occhieggiò l’orologio e con più fretta ancora infilò guanti e stivali.

«Andiamo, è ora.»

«Non vuoi spiegarmi?»

«Strada facendo.» tagliò corto lui. «Il nostro diversivo è in arrivo e dobbiamo approfittarne.»

«Diversivo?»

«Sì. Non so chi stia montando la guardia, ma se fosse uno sveglio o scrupoloso si chiederebbe come mai un ragazzo che è uscito vestito in un modo torna in tuta e poi esce di nuovo subito dopo con un passeggero… abbiamo bisogno che qualcuno lo distragga abbastanza da non fargli notare nulla di strano in noi.»

«Capisco, ma che cos’hai preparato?»

«Lo vedrai.»

Mikaela tentò di capire che cosa passasse per la testa di Ferid, ma non arrivò a nulla se non alla certezza che aveva tutta l’aria di essere un uomo diverso da quello che aveva conosciuto fino ad allora: i suoi occhi, la sola cosa che fosse visibile sotto il casco, sembravano ardere ma al contempo erano freddi e calmi. Era molto distante dall’uomo della finta allegria, dalla parlantina che mascherava l’insicurezza e della presunta codardia.

I suoi occhi… nei suoi occhi vedo la stessa cosa che ho visto in quelli di Crowley, quel giorno… qualsiasi ragione abbia per fare questo, è tutt’altro che un capriccio.

Uscendo Mikaela ebbe un lampo di comprensione riguardo al diversivo: una volante della polizia era ferma sul ciglio della strada con i lampeggianti accesi e degli agenti di pattuglia stavano parlando con gli uomini in borghese che piantonavano l’ingresso.

«Li hai chiamati tu?»

«Sì.» rispose Ferid mentre montava in sella. «Gli ho detto che avevo visto quei due entrare nel negozio qui davanti quattro volte senza comprare niente e che ora stavano lì davanti. Gli ho detto che sospettavo volessero rapinarlo.»

Mikaela era preoccupato e colpito allo stesso tempo da tanta pianificazione. Montò in sella dietro di lui e gli si aggrappò quando accese il motore, ma non si aspettava quello che fece subito dopo: invece di partire deciso e immettersi in strada verso la loro destinazione uscì molto piano dal cancello e si andò a fermare proprio accanto all’auto dei suoi guardiani.

«Che cosa diavolo fai, Ferid?!»

Ferid ignorò o non udì proprio il suo sussurro angosciato; mise il piede a terra e dopo aver dato un’occhiata ai due uomini in borghese si alzò un po’ la visiera.

«Che cosa succede, agenti?»

«Niente di interessante, controlli di routine.» rispose brusco l’agente di pattuglia. «Non c’è niente di cui impicciarsi, circolare!»

«D’accordo, d’accordo… me ne vado.»

Si abbassò la visiera e ripartì, questa volta filando via a velocità sostenuta fino all’incrocio successivo dove lo fermò un semaforo rosso. Allora Mikaela, dopo un’occhiata alle loro spalle, si decise a chiedere.

«Perché ti sei fermato a parlarci? Gli agenti non servivano a distrarli?»

«L’hanno fatto… ora avranno il ricordo di un motociclista che si è fermato a chiedere qualcosa alla vista di una macchina della polizia, ma è un comportamento assolutamente normale. Affrettarsi ad andarsene mentre erano occupati gli avrebbe suscitato molto più sospetto e avrebbero rimuginato su di noi, sul ciclista che era andato e tornato per poi schizzare via.»

«Sei sicuro che andrà così?»

«Se fossi al loro posto ti insospettirebbe di più un ciclista che se ne va a tutto gas mentre sei distratto da un agente o uno che si ferma proprio davanti a te a scambiare due parole?» gli domandò Ferid in un tono leggero, ma diverso dal suo solito. «Il miglior posto dove nascondere qualcosa è sotto gli occhi di tutti, Mika.»

Il semaforo divenne verde e Ferid ripartì. Durante il tragitto non potevano parlare, non sarebbero riusciti a sentirsi, e Mikaela ebbe relativamente poco tempo per rimuginare sulla questione o chiedersi se stava facendo la cosa giusta ad assecondare i piani di quello scapestrato testimone dell’indagine: zigzagava nel traffico in una maniera tale che più di una volta si ritrovò a stritolarlo con i brividi lungo la schiena per qualche sorpasso azzardato o curva ad alta velocità, ma il percorso divenne meno pericoloso quando arrivarono nel West End, con le sue strade meno trafficate.

Si fermarono davanti a una libreria che Mikaela trovò vagamente familiare e seppe che era quella dove era stato una volta come cliente e dove Ferid lavorava. L’esercizio, però, quel giorno era chiuso: la saracinesca era abbassata e mostrava orgogliosamente l’elaborato disegno di un albero con una falce di luna incisa sul tronco.

«Non è il posto dove lavori?» domandò Mikaela quando Ferid si sfilò il casco. «Cosa facciamo qui?»

«Qui nulla, la destinazione è più avanti, quella casa alta laggiù.» fece lui indicandola. «Ma non voglio che mi veda arrivare con te.»

«Chi dovrebbe vederti?»

«Ascoltami bene. Il Vampiro mi ha telefonato. È a casa della donna per la quale lavoro qui alla libreria, che abita proprio lì, e mi ha detto che se non fossi venuto il prima possibile l’avrebbe torturata fino a ucciderla. Non solo questo, ma ha anche detto che avrebbe dato fuoco alla casa intrappolandocela dentro se avesse visto la polizia.»

Mikaela comprese di aver sottovalutato la gravità della situazione, ma non si sentiva di condannare l’istintività di Ferid o il suo disprezzo per il pericolo: se ci fosse stata una persona importante per lui nella medesima situazione avrebbe di certo agito nello stesso modo. Gli lanciò uno sguardo intenso.

«Cosa posso fare adesso per aiutarti?»

«Andrò lì dentro da solo… Mika, per favore, non ho tempo per discutere!» l’interruppe quando lo vide in procinto di replicare. «Entrerò lì e cercherò di fargli lasciare Krul. Se possibile, cercherò di andarmene insieme a lei, ma è difficile che succeda. Se non esce nessuno da quella casa in quindici minuti, chiama Crowley e raccontagli tutto quanto.»

«E se lasciasse lei e prendesse te?»

Ferid esitò un momento, poi tese un sorriso nervoso.

«Chiama Crowley, perché credo che non riuscirò a salvarmi da solo neanche stavolta.»

Ferid si voltò e fece un passo verso la casa mentre si sfilava i guanti, ma si fermò di scatto. Mikaela, che stava guardando l’orologio della farmacia vicina per avere un riferimento del tempo trascorso, non se ne accorse finché non lo sentì parlare.

«Mika, un’altra cosa.»

«Niente stronzate di commiato, Ferid. Se non esci vivo da quella casa sono un uomo morto anche io.»

«Ho tutte le intenzioni di sopravvivere, il martirio non si addice a un degenerato come me.» lo rassicurò lui, con un eroico tentativo di sorriso. «Ma più importante, Robert… il Vampiro di West End… è molto, molto simile a me. Che sia una maschera o un trucco, potrebbe averlo anche oggi e aver ingannato Krul in quel modo per entrare in casa. Quindi, quando mi vedrai uscire, fammi una domanda.»

Mikaela aveva soltanto intravisto il Vampiro nel vicolo, ma aveva sentito Yuu affermare la stessa cosa. Ferid aveva in mente una sorta di parola d’ordine con la quale avrebbe potuto riconoscerlo in caso di dubbio, persino se Robert – sospettando l’intervento di una terza persona – avesse deciso di indossare la sua tuta per creare l’illusione definitiva.

«Cosa vuoi che ti chieda?»

Ferid esitò solo un momento; lo sguardo fisso sulla casa più alta.

«Chiedimi come mi chiamo.»

Un impostore avrebbe detto di chiamarsi Ferid Bathory, la risposta più ovvia, perciò lui doveva averne in mente un’altra: chiunque con le sue sembianze avesse dato una risposta differente sarebbe stato inequivocabilmente lui. Mikaela annuì e prese il cellulare.

«Quindici minuti da quando ti perderò di vista dentro il cortile, Ferid. Non un secondo di più.»

«Mi affido a te.»

Ferid attraversò la strada e si diresse di corsa alla casa con lo steccato di legno scuro. Senza esitazione entrò dal cancello aperto e scomparve alla sua vista.

Mikaela avviò il cronometro sul suo cellulare senza staccare gli occhi dal cortile della casa.

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Capitolo 31
*** Convergenza ***


«Che accidenti gli prende a questo coso?»

«È il tasto sbagliato, signor Eusford… ha premuto alt invece di control.»

Crowley, guardando perplesso la tastiera, si accorse di aver confuso i due tasti. Di nuovo.

«Dio santo, sono un vero dinosauro.»

Gabriel Rogue, il giovane prestito dell’unità frodi informatiche, rise.

«Ma no, ma no, può succedere! E poi qui usate davvero molto poco i computer, il vostro lavoro è tutto di azione e di mente… lei è molto bravo in queste cose, la invidio. L’informatica è il mio unico talento…»

«E ti pare poco?»

In quel momento, premendo chissà cosa, cancellò le ultime cinque righe del rapporto che stava compilando. Staccò le mani dalla tastiera e chiuse gli occhi intimandosi la calma.

«Okay, Gabe, toglimi questo affare dal davanti prima che lo prenda a pugni come un gorilla inferocito.»

Il ragazzo rise divertito e ripristinò le righe cancellate con un semplice click del mouse. Con la pessima figura che stava facendo come motore di propulsione, si ripromise solennemente di frequentare un corso di informatica non appena fosse tornato dalla sua visita alla famiglia nel West Virginia per le feste invernali.

«Non si butti giù… sa, il suo problema sono le dita.» gli disse a sorpresa Rogue, e gli afferrò la mano destra osservandola. «Ha le dita grandi, per questo quando digita spesso preme più di un tasto insieme. Non è abituato alla tastiera e questa sua caratteristica le rende ancora più difficile scrivere.»

«Non indorarmi la pillola, Gabe, ho sbagliato tasto perché non so usare il computer.»

«Beh, sì, nel caso di alt e control, ma io parlavo dei molti errori che fa quando digita e che deve tornare a correggere. Per questo è così lento a battere i rapporti.»

Perplesso si osservò le dita, domandandosi se questo fosse il vero motivo per il quale trovava così difficile scrivere i rapporti in versione virtuale. Quando sentì avvicinarsi i passi di De Stasio – traditi dal basso tacco della sua calzatura italiana – si voltò per chiedergli un parere su quell’ipotesi, ma lo trovò con l’aria molto concentrata e immerso nell’ascolto del suo interlocutore al telefono.

L’italiano doveva aver mal interpretato le ragioni del loro improvviso interesse per la sua apparizione – che era una semplice, onesta noia nell’ufficio vuoto con tediose pratiche burocratiche come unica mansione – e lasciò sulla scrivania di Crowley un sacchetto di dolci della zia, facendo loro segno di tacere con il dito indice sulle labbra carnose. I due si scambiarono un’occhiata perplessa, poi Rogue ridacchiò quasi senza emettere suoni e ripeté lo stesso gesto; Crowley allora fece il gesto a sua volta e prese ad aprire il sacchetto lentamente per non farlo scricchiolare. Per qualche motivo Gabriel Rogue gli ricordava molto Yuu, sebbene non si assomigliassero nei lineamenti.

«Spara, me lo scrivo.»

De Stasio stappò il pennarello con i denti e prese a scribacchiare nomi e date sulla lavagna bianca vicino alla scrivania che gli avevano assegnato, quella che un tempo appartenne a Domenic Rosetti.

Mentre Rogue affondava nel succulento bombolone i suoi incisivi separati da uno spazietto Crowley venne attratto da qualcosa in particolare che De Stasio aveva scritto in alto a sinistra: Dinko Zgrada era un nome che gli diceva qualcosa…

Con un lampo di comprensione improvviso si alzò di scatto dalla sedia, dimentico di dolci e rapporti scritti a metà. Avvicinatosi alla lavagna controllò che cosa stava scrivendo.

Sotto il nome serbo c’era il nome di Andria Lapaki, e sotto aveva scritto Mahala, con la data di un agosto di molti anni prima. Con una botta di conti Crowley collocò quella data nell’anno in cui Ferid era arrivato negli Stati Uniti, e doveva essere circa quando suo padre aveva pizzicato proprio quel ragazzino nel North End. Dove si trovasse la città di Mahala, se era un luogo, non ne aveva idea.

De Stasio scriveva febbrilmente: subito dopo la freccia rimandava a Omar London, Kaynol, nel Massachusetts, per poi portare a Novak Radanovich, penitenziario di Janos County nel Montana. Infine De Stasio scrisse il nome di Dirk e Gustav Todd.

«Sì. Ripetimi lo stato.»

Ma De Stasio non scrisse sotto i nomi le sigle di stati; cambiò pennarello e tracciò alcuni simboli e una data sotto ciascuno.

«Interessante. Sì, ottimo lavoro. Puoi faxarmi tutte le informazioni qui a Satbury? Allo stesso numero della volta scorsa, sì. Grazie. Dì a Charlie che la prossima volta vi porto a cena e bevete tutto quello che volete, pago tutto io.»

Sta parlando con i suoi informatori. Ha scoperto qualcosa su Robert Warren.

Dopo aver garantito tre volte che avrebbe pagato tutto De Stasio chiuse la chiamata e gli lanciò un’occhiata gravida di entusiasmo celato a malapena.

«Ismaele?»

De Stasio annuì, confermando il coinvolgimento del suo sommo informatore: un uomo misterioso, molto prudente e soprattutto molto informato su alte sfere dei servizi segreti così come dei vermi che brulicavano sul fondo del barile. De Stasio ammetteva di non sapere per certo se Ismaele fosse il suo vero nome, ma era così prezioso come depositario di segreti che l’italiano non aveva mai ritenuto che fosse il caso di rischiare di perderlo solo per conoscerne il nome.

«Ci siamo vicini, Crowley. Seguimi.»

Piazzò la mano sul nome di Dinko Zgrada.

«Ferid ci ha fatto capire che a un certo punto Robert Warren voleva farci pensare di essere diventato Dinko Zgrada, ma l’altezza che Ferid conosceva ci ha permesso di capire cosa cercava di fare… quindi ho cercato di capire chi fosse prima il ragazzo che conosciamo come Zgrada.»

«L’hai trovato?»

«Pare di sì. Robert Warren è partito da Philadelphia per quella che era una vacanza-studio in India, nel college Mahala di Nuova Delhi. Lì c’era anche un giovane di nome Andria Lapaki, che a differenza di tutti gli altri presenti nel gruppo non è mai tornato a casa.»

Crowley passò gli occhi dalla lavagna alla faccia del collega un paio di volte.

«Si sono scambiati identità mentre erano in India… il Warren che è tornato era Lapaki ed è andato in Texas per cambiare nome in Dinko Zgrada, e… Lapaki dov’è andato, se non è mai tornato a casa?»

«È arrivato in autobus in Massachusetts, a Boston, per poi scomparire per un po’. Giusto il tempo di conoscere un tossicodipendente di nome Omar London nella cittadina di Kaynol, tirare su forse un po’ di soldi o piazzare qualche altro gioiello della madre di Ferid, e poi… Andria Lapaki muore in un incidente stradale molto brutale, causato dalle droghe che aveva assunto, in una notte di febbraio.»

Crowley, che credeva di aver capito come leggere la curiosa mappa concettuale di De Stasio, non si scompose.

«Bene, e Omar London invece dov’è andato? Perché se n’è andato, vero?»

De Stasio tirò su un angolo della bocca in un ghigno.

«London ha mollato baracca e burattini la stessa sera. Nessuno sa che cos’ha fatto per un po’, finché non viene preso e arrestato per un’aggressione a mano armata…»

«A Janos County, Montana.» concluse Crowley.

«Esattamente. Caso vuole che Novak Radanovich si sia fatto gli ultimi mesi di detenzione insieme a lui, e una volta usciti stesso schema: London viene dichiarato morto due settimane dopo, ma dato che è scoppiato a causa di un guasto a una bombola di gas in casa non possiamo avere foto della sua faccia.»

«E il nostro nuovo amico Novak… dov’è finito?»

«Dato che non aveva familiari noti nessuno lo cercò, comunque partì per destinazione ignota… vale a dire San Diego, California.»

«È assurdo.» commentò Crowley, guardando la lavagna. «Ha continuato a rubare l’identità di altri e a toglierli di mezzo perché diventasse virtualmente impossibile rintracciarlo…»

«Già, dopotutto per degli incidenti di persone che non avevano famiglia o con la fama di sbandati e giramondo la polizia di allora non sprecava certo i costosissimi esami del DNA. Può darsi che l’identificazione sia stata fatta sbrigativamente, dato che gli incidenti sono passati in mano a sceriffi e poliziotti specializzati in furtarelli e multe per divieto di sosta…»

Crowley scorse ancora una volta i nomi delle persone e i luoghi, pensieroso. Suo malgrado pensò a quanto Ferid gli aveva raccontato della smisurata conoscenza di Claude nei suoi campi umanistici di preferenza e delle molte abilità manuali in suo possesso, dell’assurda laurea di Krul Tepes in una lingua morta da secoli se non millenni… e una piccola lampadina dentro di lui prese a sfarfallare.

Certo Ferid non si è mai innamorato di uno stupido finora… e Robert Warren non fa eccezione. Muoversi in questo modo è impressionante come strategia, specie se si pensa che è stato un ragazzo dell’età di Yuu a metterlo in pratica.

Posò la mano sui nomi dei due Todd.

«E questi?»

«L’ultimo step del suo piano, direi. Ismaele mi ha indicato Gustave Todd come un altro tossicodipendente cresciuto con famiglie affidatarie, e anche lui è morto. Ma qui c’è una cosa speciale.»

«Cioè?»

«A identificare il corpo è stato il fratello Dirk, anche lui affidato a una famiglia, ma in un’altra città. E poco dopo averlo fatto ha lasciato la casa e annullato la sua iscrizione al college per seguire una compagnia teatrale itinerante.»

«Stai scherzando?»

«Se fosse un mio scherzo farebbe più ridere.» commentò De Stasio. «C’è una buona possibilità che Dirk Todd sia stato ucciso quando ha cercato di incontrare il fratello, del quale Warren aveva preso l’identità, e che Warren abbia finalmente trovato l’occasione che stava aspettando: prendersi l’identità di qualcuno con la fedina penale pulita e nessun parente prossimo a mettergli i bastoni tra le ruote.»

«Allontanarsi con la troupe teatrale ha fatto al caso suo, se è così… si è allontanato da amici e famiglia affidataria di Dirk Todd, che avrebbero scoperto l’inganno.»

«Certo, c’è la possibilità che non sia andata così, ma… in questo caso dovremmo comunque parlare con lui e chiedergli se fosse sicuro dell’identità del fratello quando l’ha riconosciuto in obitorio. C’è la possibilità che non sia andata così e che manchi ancora un anello per ricostruire la catena degli eventi.»

Eccola, la solita Osservazione Fredda.

Tuttavia faceva bene a mantenere la calma e avrebbe dovuto seguire il suo esempio, ma era difficile ignorare del tutto le emozioni contrastanti che gli si stavano gonfiando dentro: da una parte era felice di essere vicino alla cattura del Vampiro, al momento in cui avrebbe messo al sicuro i bambini della sua città e vendicato le vittime di tutta quell’atroce vicenda, ma dall’altra chiudere il caso del Vampiro avrebbe sciolto il nodo che lo legava a doppio filo a Ferid. Non riusciva a scrollarsi di dosso le paure – invero troppo vaghe e inconsistenti per essere messe a fuoco, come la nebbia – di come sarebbe potuto cambiare il loro rapporto quando non fossero più stati costretti a rimanere vicini.

«Signor Eusford, è per il caso del Vampiro di West End? Quell’assassino che minaccia il suo partner?»

Crowley guardò Gabriel Rogue con palese stupore, e lanciò uno sguardo interrogativo a De Stasio. Lui scrollò le spalle.

«Non ho detto nulla, io.»

«Mi spiace, non sapevo non si dovesse scoprire… me l’ha detto l’agente Gillespie che l’uomo che testimonia per il caso e che è sotto protezione è anche il suo partner.»

«E Gillespie come l’ha saputo?»

Crowley fece uno strano rumore che voleva essere un colpetto di tosse ma ne uscì innaturale come una risata durante una veglia funebre.

«Ehm, potrei… aver detto a Harry qualcosa di particolarmente riservato, e…»

«Crowley.» l’interruppe De Stasio in tono di pacato rimprovero. «Ricordi di cosa abbiamo parlato quella volta, riguardo un certo controinterrogatorio della difesa…?»

«Oh, ti prego, De Stasio… Harry è mio amico, gli ho solo raccontato come passavo le mie serate visto che non potevo più uscire, non è niente di che…»

Non gli ho nemmeno raccontato nulla di spinto, non è che gli ho raccontato di quando pomiciavamo, che entravo in bagno mentre c’era anche lui o che Ferid dorme senza vestiti nel mio stesso letto… ma è curioso che Harry abbia capito solo dal fatto che leggiamo e giochiamo a carte, come avrà fatto?

Rogue, che si era avvicinato alla lavagna con aria molto seria, gli lanciò uno sguardo intenso che stroncò le sue riflessioni.

«Signor Eusford, dicevate poco fa che forse Dirk Todd può essere quel Warren che ritenete responsabile, vero?»

«Lo stavamo dicendo, sì… ma dovremo raccogliere prove al riguardo. Innanzitutto, scoprire chi pretende di essere ora e che cosa stia facendo.»

«Posso aiutarla? Da quando sono arrivato sento di essere poco più che un soprammobile, la prego… lasci che vi aiuti concretamente.»

Il giovane poliziotto si batté il pugno sul petto e sorrise sicuro di sé.

«L’informatica è la mia scienza, e in un mondo come quello moderno è la migliore per scovare qualcuno!»

De Stasio scambiò uno sguardo complice con Crowley e sorrise al ragazzo.

«Bene, ragazzo. Mostraci di cosa è capace la tua scienza.»

Come se non avesse atteso altro che l’occasione di onorare se stesso, Rogue si appropriò della sedia girevole di Crowley e prese a digitare e cliccare. Il tempo che ci misero gli altri due a piazzarsi ai due lati della sua sedia fu sufficiente a dare un riscontro.

«Siamo fortunati, abbiamo pochi risultati.»

«Questo è… Facebook?» domandò Crowley, un tantino deluso.

«È un’ottima base di partenza. Dopotutto il Codis è incompleto, comprendendo soltanto gli schedati.»

«Questo… davvero si può fare affidamento su un social…? Voglio dire, secondo Facebook nemmeno io esisto, quindi come si fa a considerarlo…»

Prima che finisse di parlare Rogue digitò il suo nome all’interno del sito e con suo enorme sbalordimento trovò vari risultati con la sua foto in bella vista.

«Diceva, signor Eusford?»

«Cosa… che… ma che è, cosa fa la mia faccia lì?»

«Suppongo che questa sia la palestra dove si allena, no? Hanno messo delle foto di lei e di altri che seguono i loro corsi… a mo’ di pubblicità, presumo. Il suo fisico fa bella scena sulla pagina di una palestra.»

Crowley si sentì un paio di sguardi addosso e decise di dire due parole al suo istruttore alla prossima occasione. Gabriel Rogue fece una risatina.

«Nessuno sfugge alla Rete, signor Eusford… a meno che non sia nato e cresciuto dentro una foresta, e forse neanche in quel caso.»

Rogue passò da un profilo all’altro della ventina che aveva trovato a nome Dirk Todd, ne escluse due scuotendo la testa e aprì i superstiti in finestrelle più piccole tutte affiancate a coprire l’intero schermo.

«Ho escluso un paio di profili con alta probabilità falsi. Facciamo una scrematura; che età si presume abbia la persona?»

«Ah… vediamo… dovrebbe avere trentaquattro anni, ma essendosi appropriato di un’altra identità potrebbe essere più giovane o un po’ più vecchio.»

«Se si è preso l’identità di quel Todd, dovrebbe avere trentun anni, da certificato di nascita.» puntualizzò De Stasio. «Ismaele mi faxerà tutto tra poco, ma mi pare avesse detto così.»

«Possiamo escludere allora questi tre, sono ben oltre i cinquanta… questi sette sono al di sotto dei venti anni, troppo giovani.»

Rogue chiuse i profili esclusi e ampliò le finestre che mostravano gli altri. Crowley ne indicò uno.

«Elimina quello… ha una pelle molto chiara, capelli neri e tratti asiatici. Troppe discrepanze fisiche.» ponderò, e guardò De Stasio come sostegno. «Trasformarsi tanto ogni giorno sarebbe scomodo.»

«Ma… ecco… magari è un’assurdità…» esordì Gabriel, titubante, staccando le mani dalla tastiera. «Ma possiamo essere certi che non abbia fatto una… plastica facciale, o qualcosa del genere?»

De Stasio scosse la testa.

«Non siamo sicuri al cento per cento, ma è altamente improbabile… se fosse stato capace di fare una plastica facciale non sarebbe servito quel macchinoso intreccio di cambi di identità. Ha trovato ogni volta qualcuno con tratti somiglianti ai suoi per rendere lo scambio meno vistoso se al momento cruciale qualcuno si fosse accorto delle sue mosse, e ritengo che Dirk Todd non avesse troppe differenze. Scegliere un asiatico, un ispanico o un afroamericano come nuova identità sarebbe stato solo un inutile ostacolo…»

«G-giusto… scusatemi… era un’osservazione sciocca…»

«Non tutti nel mondo sono furbi o intelligenti, Rogue, quindi bisogna ponderare anche le opzioni stupide, complicate, alle quali penserebbero gli imbranati, gli ingenui, gli sciocchi e gli arroganti. In questo caso parliamo di un uomo scaltro e abile, ma partire dalle ovvietà è la base di un ragionamento accorto.»

De Stasio gli diede una strizzata incoraggiante sulla spalla e Rogue ne sembrò rincuorato; si gettò con più impegno nella sua scienza e scandagliò i profili con attenzione. Solo dopo un paio di minuti lanciò una ricerca negli archivi.

«Eccolo.» annunciò Gabriel trionfante. «È il diretto fratello di Gustave Todd, schedato per spaccio e altri piccoli crimini. Da documenti, ha trentun anni e ha una casa a Los Angeles.»

Crowley si chinò scrutando lo schermo con più attenzione mentre Rogue lavorava in una seconda finestra per altre ricerche. La fotografia ritraeva un uomo dalla pelle abbronzata, con occhi azzurri, capelli biondi e gli orecchini ai lobi, molto simili ai suoi. Poteva essere Robert Warren? A quanto ne sapeva lui, era plausibile, ma dei suoi esatti lineamenti non sapeva molto altro.

«Questo è interessante.» fece Rogue a mezza voce, indicando gli articoli che stava leggendo. «Dirk Todd è un pezzo grosso dell’industria del turismo di lusso… alberghi, centri termali, resort, persino casinò… è il giovanissimo vedovo della vedova Lubetski.»

«Chi sarebbe?» domandò l’irlandese, perplesso.

«Leonore Lubetski era la vedova di Fedor Lubetski, quello che negli ultimi cinquant’anni ha costruito metà del settore turistico di Red Chapel. Una ricchissima vedova con quarant’anni di più del giovanotto che si è sposata.» spiegò De Stasio, e indicò la foto sullo schermo. «Poi lei muore a causa del suo alcolismo galoppante ed ecco che il nostro Warren diventa il giovane vedovo più ricco d’America, o quasi… beh, se è davvero lui. Io ho pochi dubbi, e solo perché sono ostinato nel dubitare di tutto.»

«Questo è quello che è davvero interessante.» fece Crowley, snobbando involontariamente De Stasio che si vantava del suo metodo. «Guarda qui.»

Indicò un articolo il cui occhiello recitava la holding Lubetski nomina nuovo direttore esecutivo del settore alberghiero l’erede Dirk Todd, e con il dito scorse alcune frasi in basso.

«Il giovane quindi prende possesso degli uffici ai piani diciotto e diciannove del grattacielo Holden Traders a New Oakheart.» lesse con enfasi sulle ultime parole. «Lavora qui. Quel figlio di puttana ora lavora qui, e tra una riunione e una firma di contratto uccide bambini nel West End e legge i diari di Ferid entrandogli in casa di notte!»

«Certo le coincidenze iniziano a essere molte.» convenne De Stasio. «Mettiti la giacca buona, Crowley.»

«Io non ho una giacca buona.» fece lui, infilandosi il suo giaccone modesto e visibilmente in uso da qualche anno. «Dove andiamo prima?»

«Naturalmente dritti all’Holden Traders… andiamo a vedere se il loro direttore ci riceve senza appuntamento.»

«Può darsi. In fondo è venerdì, non giovedì.»

Nonostante il tono ironico, nessuno accennò anche solo l’ombra di un sorriso. Si congedarono da Rogue chiedendogli di continuare a cercare informazioni e di aspettare il fax di Ismaele prima di tornare a casa alla fine del suo turno, saltarono in macchina e partirono in direzione est per il ricco, moderno quartiere di Holden.

Ma quando arrivarono all’Holden Traders – un imponente grattacielo in metallo e vetro, un totem eretto a simbolo del potere economico di quel distretto di New Oakheart, dove solo le più ricche aziende del paese potevano permettersi di affittare un ufficio – capirono che non sarebbe stato così semplice: una ventina di persone sedevano nella sala d’aspetto davanti alla scrivania di mogano dell’affascinante segretaria, che non fece una piega davanti ai loro distintivi.

«Sono desolata, ma il principale non è in ufficio.» ripeté come poco prima. «E tutte le persone che vedete in attesa hanno avuto la buona creanza di prendere un appuntamento prima di presentarsi. Il signor Todd è un uomo enormemente impegnato.»

Crowley dovette soffocare il fuoco molto irlandese che da dentro gli faceva venire voglia di illuminarla su quali attività sospettava impegnassero davvero il suo principale. Fu faticoso ma riuscì, e riposto il distintivo assunse un’espressione e un tono glaciali all’altezza della segretaria.

«Aspetteremo, a meno che lei non sappia dirci dove il suo impegnatissimo principale sia… dato che non è qui a ricevere i suoi appuntamenti.»

«Il principale ha avuto un’emergenza medica ed è dal dentista per un intervento urgente. Per questo motivo è in ritardo.»

Spero che qualcun altro gli abbia spaccato i denti a pugni, così non devo farlo io.

«L’indirizzo di questo medico?» domandò De Stasio.

«Desolata, non lo so. Non è andato dal suo medico abituale, ha detto che si sarebbe fermato in un ambulatorio sulla strada.»

De Stasio e Crowley si guardarono e fecero qualche passo allontanandosi dalla scrivania lucida per parlarsi con più privacy.

«Che cosa dici?» fece l’irlandese per primo. «Chiediamo dov’era prima e facciamo una mappa degli studi dentistici lungo la strada più veloce per tornare all’ufficio? Gabe potrebbe aiutarci a trovarli in pochi minuti.»

«Sì, potremmo, ma ci metteremmo molto a chiamarli o visitarli tutti, finirebbe mentre siamo fuori, probabilmente… e poi, non siamo certi che sia vero. Potrebbe essere altrove.»

«Altrove dove?»

«Ovunque. A trattare qualche affare poco pulito, in compagnia di una squillo da soldi, o semplicemente a farsi una lampada abbronzante. Mi pare il tipo di uomo.»

«Che si fa le lampade?»

«Che fa tutte e tre le cose che ho citato.» sentenziò De Stasio con un sospiro stanco.

In un altro momento avrebbe potuto ridere di quella che sembrava una battuta, ma non era dell’umore; sospirò e incrociò le braccia guardando i molti uomini in giacca e cravatta con computer e valigette. Avevano tutti la medesima aria nervosa.

«Che facciamo… chiediamo a Miss Dolcezza di dire al capo di richiamarci appena possibile e l’invitiamo da noi per chiacchierare?»

«Potremmo, ma non mi piace l’idea di lasciargli il tempo di pensare e di prepararsi. È troppo furbo per lasciargli del vantaggio se non siamo costretti a farlo.»

Crowley annuì.

«E poi… è uno strano orario, non credi? Forse aspetta che gli altri pazienti finiscano per farsi operare prima della chiusura, ma… beh, se succedesse a me…» alzò il braccio indicando col pollice la sala d’aspetto. «Chiamerei in ufficio e direi di fissare nuovi appuntamenti per quelle persone, perché anche se rientrassi subito dopo non avrei tempo per tutti questi uomini. Considerando che nessuno parla con gli altri e sono seduti tutti distanti direi che sono qui separatamente.»

«È vero. Anche io lo trovo strano, per questo non mi fido di questa spiegazione e vorrei non lasciargli il tempo di imbastire scuse e coprire le tracce, se ne ha lasciate, e propongo di…»

Crowley non seppe mai che cosa De Stasio stesse per proporre, perché il suo sguardo cambiò mentre guardava sopra la sua spalla verso la scrivania. L’irlandese si girò a guardare e notò subito la ragazza con il tubino blu e i tacchi alti che si avvicinava al bancone.

Ha l’aria familiare quella donna… dove l’ho vista? Forse in qualche locale qui a Holden?

«Buonasera.» la salutò freddamente la segretaria.

«Dirk? Avevamo un appuntamento a cena.» fece l’altra, altezzosa, senza nemmeno un cenno di saluto o di sorriso. «Ma prima doveva passarmi a prendere per l’aperitivo da Vincent.»

«Il principale non c’è.» replicò lei. «Perché non lo chiami sul cellulare, Justine?»

Nella testa di Crowley si accese la luce immediatamente, sebbene fu lo stupore a fare da padrone sul suo volto: la donna che avevano davanti era proprio la ragazza timida e romantica della biblioteca Wilde, la stessa che era così affascinata dal professore che Ferid fingeva di essere per giustificare la sua ambigua osservazione dei bambini che leggevano. Con un abbigliamento così sexy, il trucco sofisticato, niente occhiali e l’aria snob Crowley non l’aveva riconosciuta finché il nome non aveva sovrapposto le due diapositive.

Guardandolo scoprì che De Stasio rimaneggiava la sua stessa idea: quante possibilità c’erano che la donna che conosceva Ferid e che poteva osservarlo con i bambini uscisse per caso con l’uomo che, plausibilmente, era il feroce, ingannevole ed elusivo Robert Karson Warren?

Con quella possibilità molti tasselli andavano a posto: Justine poteva essere gli occhi e le orecchie del Vampiro su Ferid quando era alla libreria. Il resto l’avrebbero fatto i diari ed ecco svelato il primo trucco dell’illusione generale, cioè come il Vampiro sapesse senza essere stato mai presente alla libreria inquadrato dalle telecamere.

I due poliziotti si mossero all’unisono e la raggiunsero, sfiorandole i gomiti. Alla vista di Crowley Justine si fece sorpresa.

«Ciao, Justine, ci rivediamo… anche se ti ho riconosciuta a malapena.» fece lui, senza sorriderle. «Vieni a prendere un aperitivo insieme a noi mentre aspettiamo Dirk… vogliamo conoscere meglio il tuo nuovo ragazzo.»

Anche se era chiaro che avrebbe preferito protestare bastò tirarla leggermente per il braccio per vincere le sue resistenze. Agitata seguì i due poliziotti fuori dall’ufficio, seguita dagli sguardi di tutti i presenti in attesa.

Non gli importava delle regole. Se davvero Justine sapeva qualcosa che potesse essere usato come prova, seppure indiziaria, contro Dirk Todd come Vampiro di West End gliel’avrebbe tirato fuori anche a costo di finire sulla scrivania di Sean Lesky agli affari interni sotto forma di fascicolo d’indagine.

 

*

 

Varcato il cancello Ferid si fermò a osservare la casa. Le finestre erano tutte chiuse e intatte e non si intuivano tracce di vita di là dai vetri; soltanto molte stanze dalle luci spente. Lentamente percorse il vialetto che tagliava il piccolo rettangolo di giardino reso ancora più piccolo dal massiccio ingombro di cassoni e vasi dove Krul coltivava fiori e piante che le servivano per le sue magie; al momento la gran parte ospitavano solo terra umida e qualche ciuffo verdastro senza corolle.

Salì i gradini del porticato, invaso dai più singolari oggetti – lanterne da nave, pentole con simboli incisi, grossi barattoli di pietre di fiume, una statua di creta di una donna-albero e un secchio di legno – e raggiunse la porta. Prima di sfiorare la maniglia restò in ascolto, ma non sentiva nulla… poi si accorse che la mano tremava molto. La strinse a pugno, ma non servì a fermarla. Chiuse gli occhi.

Se davvero mi ascolti… proteggimi. Se non per me, almeno per chi sentirebbe la mancanza dell’uomo che sono diventato.

Aprì gli occhi e senza più esitare spinse la porta. Come immaginava si aprì subito a causa della serratura rotta. Nell’ingresso trovò un mazzolino di rose rosse molto malridotte e nella sua mente si fece strada un’idea di come Robert fosse riuscito a entrare in casa di una donna tanto diffidente.

«Krul?»

Ferid si stava affacciando sul salottino con circospezione quando sentì un rumore leggero, metallico. Incerto si mosse verso la porta annidata sotto le scale, che sapeva portare in una zona separata dove Krul preparava i suoi intrugli ma che non aveva mai visto di persona; il rumore veniva da lì.

Quando entrò fu colpito immediatamente da un odore forte che lo portò a coprirsi il naso: il forte profumo delle resine nei barattoli e dei fiori essiccati che pendevano dal soffitto non copriva il fetore chimico della benzina. Girando poi lo sguardo a sinistra, da dove veniva il rumore, restò paralizzato come fosse stato tramutato in sale nell’episodio biblico.

Krul, con le mani legate in grembo, era inginocchiata per terra e gocciolava dai capelli e dai vestiti quella che senza dubbio era la benzina che emetteva quel terribile odore che permeava la stanza. Robert, uguale a lui dai lunghi capelli al tacco degli stivali, era seduto sul ripiano della cucina da strega della padrona di casa e produceva quel rumore metallico aprendo e chiudendo un accendino zippo dall’aria familiare, con le rose e i teschi incisi sopra.

«Oh, eccolo qui~»

«Perché sei venuto, Ferid…?»

Ferid non capiva il senso della domanda di Krul e stava per dirle a chiare lettere che non c’era una ragione per non andare in suo soccorso, ma Robert stroncò la sua risposta quando la calciò buttandola a terra di lato. Con una risata che somigliava così tanto alla sua da dargli i brividi balzò giù dal mobile e le tirò un calcio sulla gamba – che presentava una macchia rossastra che sembrava un’ustione – strappandole un gemito di dolore.

«Che domanda, piccola strega… è venuto perché lui ti ama. Tu sei la donna più importante del mondo per lui… e per questo io sono venuto qui. Grazie dell’aiuto~»

Robert accese lo zippo con un tale sadismo inciso nei lineamenti di quel volto uguale al suo che Ferid scattò verso di lui, ma prima di arrivare abbastanza vicino da sfiorarlo allungando la mano si trovò in faccia la canna di una pistola. Ancora una volta.

«Bobby, smettila! Non sei ancora soddisfatto? Non ti basta ancora tutto il male che hai fatto per vendicarti di me?»

Robert lo guardò stupito e confuso e con aria pensierosa chiuse lo zippo.

«Di che cosa parli esattamente?»

Sebbene arrabbiarsi fosse l’ultima delle azioni consigliabili in un simile frangente Ferid non poté evitarlo.

«Non prendermi per il culo! Tutti quei bambini uccisi, quei poliziotti che hai fatto ammazzare da quella gang, e ora Krul!»

«Oh, quelli? Qui c’è un equivoco, Rid, davvero… in verità sei tu la causa della morte di quei bambini, non io.»

«Dacci un taglio, Bobby, non ho voglia di stare a sentire altri tuoi deliri.»

«E chi sta delirando? Sto dicendo la verità, quei bambini sono morti per ciò che tu hai fatto… sono morti perché quello che tu mi hai fatto potesse essere cancellato.»

Ferid non capiva assolutamente nulla di cosa stesse dicendo, ma aveva urgenze molto più importanti della comprensione. Riuscì a calmare i suoi nervi, sollevò lentamente le mani e fece un passo in avanti fino a che la pistola non gli si appoggiò contro il petto. Aveva il cuore che galoppava così forte da far male, specie quando vide il dito di Robert contrarsi sul grilletto, ma sostenne il suo sguardo.

«Ascolterò tutto quello che vuoi dirmi e ti seguirò dovunque tu voglia portarmi, compresa la foresta di Dern, se sei ancora convinto… ma lei non c’entra. Non ti serve più.» gli disse a voce più bassa del normale. «Sono venuto e nessuno dei poliziotti mi ha visto uscire… lasciala qui e andiamo via subito, prima che i miei vicini bussando si possano accorgere che non ci sono.»

Robert lo fissò e abbassò il braccio che reggeva l’arma, con il sorriso divertito e il resto della sua espressione che trasudava disgusto.

«Quand’è che sei diventato uomo, Rid? Eri solo un bambino cresciuto fino a poco tempo fa… a piagnucolare della tua vita rovinata, di quanto fossi debole… di quanto ti vergognavi di non riuscire a dire a questa “puffetta rosa” che eri innamorato di lei. Da dove viene il coraggio che hai ora?»

«Come sai che è coraggio?»

Robert si accigliò lievemente e Ferid gli si avvicinò tanto che riuscì a vedere per la prima volta le tracce di qualcosa di anomalo su quel viso. Non sapeva dire esattamente che cosa, ma riusciva a vedere che era innaturale, era un volto finto sopra il suo volto reale.

«Come sai che il mio è coraggio? Tu non sai che cosa sia. Sei un codardo, lo sei sempre stato.»

Robert gli afferrò il collo con la mano sinistra che prima teneva l’accendino e premette il pollice sulla sua trachea come una silente minaccia: taci o ti farò tacere io.

«Sei tu il vigliacco che è scappato di casa per non affrontare la tua famiglia e il tuo destino!»

«Siamo scappati entrambi dalla stessa cosa, Bobby, per questo so che sei un codardo esattamente come me. E tu sei scappato persino da chi ti amava… sei scappato da una famiglia povera e da un lavoro che non ti avrebbe mai arricchito, e poi sei scappato anche dalla responsabilità di badare a me, il ragazzino che avevi trascinato in un altro paese con l’inganno…»

«Sta’ zitto, Rid.»

Gli strinse il collo più forte e Ferid non parlò più, perché notò che stava riflettendo come indeciso su cosa fare. C’era la possibilità che stesse prendendo in considerazione di dargli retta e lasciare Krul dov’era, portandolo ovunque avesse intenzione di portarlo per finire il suo lavoro.

In quei pochi secondi Ferid ebbe il tempo di provare paura davvero, perché si chiedeva quale sarebbe stata la fine di quella storia. L’eroe sarebbe sopravvissuto o era uno di quei libri dal gusto amaro, in cui il lettore sbatteva contro la realtà cruda che non sempre c’era giustizia per tutto, neanche in un mondo di carta? Eppure lui avrebbe davvero desiderato un lieto fine questa volta. Per la prima volta nella sua vita sentiva di volere e di meritare un finale felice per se stesso.

Alla fine di un interminabile lasso di tempo in cui Robert ponderò le sue possibilità abbassò l’arma.

«Chiuderò la strega qui dentro. Tanto vive da sola, quindi la terrò dove sono sicuro di ritrovarla se dovesse servirmi di nuovo.»

«Lei non ti serve.» rimbeccò Ferid, lasciandosi prendere per il braccio senza resistere. «È evidente che ce l’hai con me.»

«Non si sa mai. Ora niente sorprese, Rid, camminami davanti e usciamo. Non fare nessuna mossa che io non ti chieda di fare e non parlare, non voglio sentire una parola finché non saremo in macchina.»

Ferid, al cenno di Robert con il capo, fece qualche lento passo verso la porta della cucina magica senza staccare gli occhi da Krul.

Sembra così piccola adesso… e così disperata…

E lo era sul serio; non ci sarebbe stata altra ragione se non una disperata paura dietro quel suo gesto impulsivo. Si lanciò contro Robert, forse nella speranza o convinzione che il suo peso sarebbe bastato per spingerlo a terra ma questo non successe. Lo fece però barcollare tanto da costringerlo ad aggrapparsi al mobile e arrabbiare ancora di più. Inspiegabilmente non le sparò contro nonostante avesse l’arma da fuoco in mano, ma afferrò un lungo stiletto – che Krul usava per incidere amuleti di legno o candele magiche – e con un gesto fluido e deciso che solo un assassino avrebbe potuto sfoggiare lo conficcò senza esitazione nella gamba di Krul.

Un urlo così raccapricciante e acuto Ferid non l’aveva mai sentito neanche nei suoi incubi. Gli parve che Krul ci avesse messo un’ora intera a cadere per terra e prendere a contorcersi in agonia, nel mezzo di una macchia di sangue che si allargava, invece, con una rapidità agghiacciante e innaturale.

«Tch. Tanto peggio per te, stupida.»

Le parole di Robert scrollarono Ferid dal torpore dello shock e ignorando la rabbia di lui e le armi di cui era dotato si gettò sul pavimento e tentò – in realtà del tutto invano – di soccorrere la piccola donna. La ferita era profonda, la lama quasi le passava la magra coscia da parte a parte e l’abbondante sanguinamento gli fece temere un danno all’arteria femorale. Tuttavia era tutto fuorché medico e non sapeva che cosa fare per aiutarla; in verità temeva di fare peggio ancora.

«K-Krul, calmati.» fu la sola cosa che riuscì a dire in tono tremante. «Chiamo un’ambulanza subito.»

Krul contenne a malapena i lamenti e gli afferrò con forza la tuta sul braccio. Il suo viso era già impallidito vistosamente, ma i suoi occhi sembravano risoluti come chi non ha alcuna paura.

«Ferid… Ferid.» fece lei in un sospiro sofferente. «Mi dispiace… in ottobre, io…»

«Krul, non ti agitare, devi restare ferma e calma il più possibile! Dammi il telefono!»

Ferid allungò la mano verso Robert, ma lui dopo un iniziale stupore lui scoppiò in una risata fredda e crudele.

«Neanche per idea, Rid. Non mi interessa salvare la tua strega.»

«Chiama tu, se ti preoccupa che possa dire qualcosa di sbagliato, ma chiama i soccorsi!» sbottò Ferid con la voce resa stranamente stridula. «Se pensi che ti perdonerò anche questo devi essere pazzo, molto più pazzo di quanto penso, Robert!»

In qualche maniera quella minaccia lo turbò; il suo sguardo non era più così freddo e così risoluto.

«Sali in macchina in fretta.» gli disse allora. «Li chiamerò quando sarai salito in auto senza fare storie.»

Lo tirò dal braccio e Ferid scambiò uno sguardo con Krul. Sapeva che litigare e puntare i piedi con Robert avrebbe solo consumato ulteriore tempo perché non gli avrebbe mai permesso di restare con lei finché non fossero arrivati i medici. Pur sentendosi devastato si rialzò in piedi e si lasciò spingere verso la porta.

«M-mi dispiace…» ripeté Krul abbandonando la testa sul pavimento, gli occhi fissi su di lui. «Non te l’ho detto…»

«Lo sapevo già.»

Impossibile capire se le lacrime nei suoi occhi fossero per il dolore della ferita, per un’irritazione causata dalla benzina che le era stata versata addosso o se fossero per quell’ultimo frettoloso chiarimento. Ferid si lasciò spingere fuori con il cuore a pezzi al suono dei lamenti sommessi della donna a terra.

«Hai dei vestiti a casa della strega?»

«Ma ti pare che tenga i miei vestiti in una casa dove sono stato due volte? Oltretutto abito a duecento metri da qui!» gli rispose lui brusco. «Non perdere tempo in stupide domande e andiamo!»

Robert fece una faccia disgustata alla vista della tuta grigia macchiata di sangue, ma scrollò le spalle e ripose l’arma; sotto quella mantellina nera non era possibile notarla a meno che non sollevasse il braccio scostandola. Afferrò una tovaglia viola che Krul teneva su uno dei suoi altari wicca, rovesciò tutto quello che c’era sopra – statuine, rametti, frutta secca e una piccola coppa di rame – e gliela gettò fra le braccia.

«Ti cambierai a casa mia. Datti una ripulita al volo e non dare nell’occhio.»

Ferid non fece alcuna obiezione e si ripulì meglio che poteva. Per non tradire la sua presenza non girò lo sguardo verso il negozio dove Mikaela lo doveva stare aspettando, ma sapeva che non si sarebbe mai distratto con le premesse che gli aveva fatto. Salì senza fiatare sul suv nero, ma con un gesto brusco impedì a Robert di mettere in moto.

«Prima i soccorsi, Bobby.»

Robert tese un ghigno da brividi e mise in moto nonostante la sua stretta sul polso.

«Non credo proprio, Rid. Non voglio il mio numero collegato a quella chiamata di emergenza.»

Ferid sarebbe di certo scoppiato, impedendogli di guidare anche a costo di far schiantare il suv contro qualche auto parcheggiata o di farsi sparare lui stesso, se non avesse notato Mikaela.

Con il berretto calato a coprire i capelli biondi e il bavero sollevato era irriconoscibile se non perché sapeva cosa indossava, e camminava con passo veloce non sospetto mentre iniziava a piovigginare. Andava dritto verso la casa, non voltò la testa verso l’auto mentre gli passavano accanto e non si precipitò dentro, ma con un gesto piuttosto naturale estrasse il cellulare.

Ferid rinunciò alla sua ribellione e sedette dritto sul sedile per poi chinarsi leggermente in avanti e appoggiare la fronte sulle mani congiunte con un tremante sospiro. Si sentiva come un inesperto capitano catturato nella tempesta del secolo: le sue tre esistenze – quella inglese, quella sregolata e quella nuova – non erano più sigillate e stavano collassando in una soltanto, con i protagonisti delle rispettive saghe che cominciavano a interagire generando il caos. Restava da chiedersi come e quando il protagonista assoluto del libro più nuovo si sarebbe mosso e se questo sarebbe bastato a salvare una situazione disperata.

Strinse le dita intrecciate e serrò di più gli occhi. Al momento poteva solo affidare Krul a Mikaela, se stesso a Crowley, e tutti loro a Dio.

 

*

 

La libreria del soggiorno di Dirk Todd era così alta che anche stendendo il braccio Crowley faticava ad arrivare ai volumi sull’ultimo scaffale, e per questo era stata apposta una scaletta con una guida che scorreva in cima al mobile. Crowley salì un paio di pioli per leggere i titoli sui volumi in alto, che a differenza delle enciclopedie da collezione e ai codici legislativi avevano l’aria disordinata essendo tutti di dimensioni diverse e rilegati in copertine di cartone economico.

Alle sue spalle De Stasio guardava in giro per la stanza, in particolare nei dintorni dell’angolo bar. Justine, a disagio, si stringeva lo scialle addosso e assomigliava molto di più alla timida, giovane donna che avevano visto in lei alla biblioteca.

«Se ha la chiave dell’appartamento la vostra relazione dev’essere a un certo punto, signorina Lafaye.» osservò De Stasio in un tono così casuale da pensare stesse seduto alla caffetteria a fare pettegolezzi. «Da quanto tempo vi frequentate esattamente?»

«Beh… noi… usciamo sul serio solo da maggio scorso… ma ci siamo conosciuti prima, e parlavamo soprattutto online, Dirk è un uomo molto impegnato…»

«Da quando è venuto qui a New Oakheart?»

«Sì… sì, all’incirca da allora.»

Te la sei lavorata per bene, Warren… schifoso perverso, tratti anche lei come hai trattato Ferid.

Crowley ripose con una certa foga il voluminoso dizionario di tedesco che aveva trovato là in cima. In completa onestà non c’era un singolo aspetto di Robert Warren che gli facesse pensare che non meritasse di essere appeso per i piedi e preso a bastonate come una pignatta. Usava le persone e le gettava via quando non erano più utili ai suoi scopi e di certo, una volta consumata la sua vendetta contro Ferid, si sarebbe sbarazzato anche di quella povera ragazza abbindolata da un uomo bello, affascinante e ricco che le millantava un interesse romantico.

Poi, mentre era affondato in questi pensieri cupi, scovò una manciata di libri più interessanti degli altri. Introduzione all’alta magia, Basi di alchimia, Malefici per principianti, Gli incantesimi di Salomone, Il libro della santeria e Magia antica della Gran Bretagna gli davano molto poco l’idea di letture di formazione di un giovane capo d’industria. Li afferrò tutti grazie alla mano grande e scese dalla scaletta.

«Questi libri sono suoi, che tu sappia?»

La donna lanciò uno sguardo ai libri e per la prima volta parve più a suo agio; si avvicinò e li rigirò tra le mani sfogliandoli con un accenno di sorriso. Dopotutto lei e Ferid avevano una cosa in comune oltre a Robert Warren.

«Beh, credo di sì… non ne parla molto, ma Dirk è un uomo superstizioso… so che porta con sé un certo amuleto che non vuole che nessun altro tocchi, e so per certo che conosce una maga e cartomante che vive nel West End… era stato da lei quando l’ho incontrato la prima volta, perciò… non mi stupisce che legga questa roba.»

Justine gli restituì Malefici per principianti con una scrollata di spalle.

«Ci sono molti nel West End che credono a queste cose, che fanno parte di gruppi di stregoni, comunità magiche della Vecchia Religione… ognuno ha le sue fissazioni, no…? Io ho il vintage, lui la magia… mi sta bene, finché non fa qualcosa di stupido…»

Crowley tacque, chiedendosi se fosse il caso di illustrarle i suoi sospetti, ma preferì non farlo subito. Scorse velocemente gli indici dei libri particolari, facendosi l’idea che fossero quelli che Ferid definiva “una gran risma di sciocchezze”. Malefici per principianti, in particolare, aveva un che di bambinesco per come era scritto e per il tipo di magie che offriva, come quello per rendere una coppia litigiosa o uno per riempire una rivale in amore di foruncoli.

Tuttavia, ricordava di essere incappato in alcuni testi di pessima fattura quando si era approcciato allo studio della psicologia criminale qualche anno prima, piazzandoli con delusione in cima allo scaffale della libreria. E se anche Robert Warren avesse scartato questi libri privi di contenuti interessanti fuori dalla sua vista e avesse cercato e conservato testi più consoni sugli stessi argomenti?

Prese a cercarli con lo sguardo, anche se le copertine in pelle tutte simili lo scoraggiavano; virò verso lo studio a caccia di altri scaffali di libri e vi era appena entrato quando gli squillò il cellulare. Gettò un’occhiata invelenita al display, ma rispose comunque a Mikaela.

«Scusami, Mikaela, ma sono un po’ impegnato.»

«Non importa, devi ascoltarmi.»

Crowley, che di norma riceveva delle scuse e una chiamata ore più tardi, restò sorpreso dal suo tono di voce ancora più che dalle sue parole. La sua voce tremava appena, sembrava scosso. Pensò al presunto tradimento di Yuu di qualche giorno prima ma seppe per mezzo del suo settimo senso irlandese che non era questo il motivo della sua agitazione.

«Cos’è successo?»

«Mi dispiace tanto, Crowley, io… io ho perso Ferid.»

«Perso Ferid? In che senso, perso?»

Ascoltò il racconto conciso di Mikaela sulla loro evasione con un senso di gelo che gli opprimeva il petto e inconsciamente si massaggiò all’altezza della cicatrice. Non riusciva a spiccicare una parola, era atterrito nel sentire delle minacce di Warren e del pericolosissimo consenso di Ferid a cedere.

«Sono usciti insieme dalla casa e l’ha portato via, non ho potuto seguirli… vedi, quella donna, Krul, era ferita gravemente alla gamba. È stata accoltellata e… ho dovuto restare mentre arrivavano i soccorsi. Dovevo limitare l’emorragia.»

Avrebbe voluto dirgli che aveva fatto la scelta più saggia, ma aveva la bocca impastata. Cercò nello studio un goccio d’acqua, ma non ne trovò.

«Perdonami, Crowley.» fece Mikaela in un soffio. «Mi dispiace. Non dovevo assecondarlo, non dovevo permettergli di entrare da solo. Dovevo chiamarti subito.»

«Io…»

Crowley sospirò e si passò la mano nei capelli. I suoi pensieri correvano a velocità crescente come il battito del cuore.

«Lei… Krul come sta?»

«I paramedici l’hanno appena portata via… la portano al Dalton. Non so dirti altro…»

«Invece qualcosa puoi dirmi.» lo contraddisse, sentendosi più lucido man mano che la sua immaginazione correva a orrendi scenari. «L’hai visto portarlo via. Che macchina era?»

«Una Mercedes… un SUV Mercedes, nero… forse un GLC. Perdonami, Crowley, della targa ricordo solo due numeri, otto e sei. Mentre mi avvicinavo la targa era coperta da un altro veicolo parcheggiato in strada, e non volevo che mi notasse.» gli riferì Mikaela, con angoscia crescente nella voce. «Però la tuta che Ferid indossa è grigia e dev’essere sporca di sangue… credo abbia cercato di assistere il suo capo, ci sono le impronte degli stivali sul pavimento e segni di strisciate… credo si sia inginocchiato. C’era molto sangue, deve per forza essersi sporcato.»

«In che direzione sono andati?»

«Hanno preso Ashland Street nella direzione da cui siamo venuti noi, teoricamente verso Satbury.»

«Lo troverò io, Mikaela. Lascia le tue deposizioni agli agenti e torna a casa. Ti richiamo più tardi.»

Crowley chiuse la chiamata senza aspettare una risposta e compose un altro numero. Non era arrabbiato con Mikaela, perché le circostanze erano gravi e Ferid era molto abile a persuadere quando voleva, ma anche se avesse voluto recriminare su qualcuno quello non era certo il momento per farlo.

Warren ha Ferid… devo riprendermelo prima che gli succeda qualcosa.

«Manny, sono io.» disse quando Manah Nandi gli rispose alla centrale. «È un’emergenza, quindi ascoltami bene. SUV nero, Mercedes, probabilmente GLC. La targa contiene i numeri otto e sei. A bordo due uomini e uno dei due è stato sequestrato. Sono partiti pochi minuti fa dal West End, Ashland Street, presumibilmente in direzione Satbury. Voglio tutti i posti di blocco possibili.»

«GLC… otto e sei… Ashland…» ripeté lui appuntandoli. «Crowley, che è successo? C’entra con…?»

«Il sospettato è armato e pericoloso. Dirama l’avviso a tutte le pattuglie di tutti i distretti. È il Vampiro di West End.»

Manny sospirò rumorosamente, colto di sorpresa dalla rivelazione. Non rispose al suo interlocutore ma lo sentì diramare l’allarme a tutte le pattuglie via radio dalla sua postazione. Una volta certo che avesse dato tutte le informazioni chiuse la chiamata e uscì dall’ufficio veloce come un gatto sorpreso dalla pioggia battente.

La finiamo oggi, bastardo.

Istintive domande vennero suscitate in Justine e De Stasio quando videro la sua espressione mentre li ignorava puntando dritto alla porta dell’appartamento, ma bastò dire “lui ha Ferid” che De Stasio rinunciò a ogni ulteriore spiegazione e lo lasciò andare, accollandosi senza parole la gestione della testimone inconsapevole.

Un partner di lavoro tanto intelligente, affidabile ed empatico era la benedizione di cui aveva bisogno: la polizza assicurativa che gli permise, in quel frangente, di seguire soltanto il suo cuore.

 

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Capitolo 32
*** Il distretto fantasma ***


 

Ferid guardò lungo la strada dal finestrino e notò le auto della polizia ferme in un altro posto di blocco. Negli ultimi dieci minuti ne aveva visti diversi e ogni volta Robert cambiava strada per allontanarvisi. Non fece eccezione neanche questa volta e svoltò in una stradina laterale.

«Maledizione… perché tutti questi posti di blocco per strada?»

Robert si mordicchiò il pollice facendo scorrere lo sguardo ai lati della strada come se sperasse di trovare la risposta scritta su qualche cartellone. Ferid era convinto di saperla ma ben deciso a non rivelargli le sue speranze: Mikaela aveva contattato Crowley e avevano mobilitato le pattuglie per trovare la macchina sulla quale si era allontanato.

Se riuscissi a distrarlo e a farlo incappare in un posto di blocco, sarebbe tutto finito…

Lanciò uno sguardo al viso identico al suo, riflettendo sulla strategia da adottare, ma prima che riuscisse a decidere quale argomento l’avrebbe maggiormente innervosito fu lui a rompere il silenzio.

«Non arriveremo mai a Holden con tutti questi blocchi… non ho scelta. Ti porterò dritto al laboratorio.»

«Laboratorio? Quale laboratorio?»

«Il mio laboratorio, Rid. Non fare domande imbecilli, sono già nervoso, e se mi irriti ti chiudo nel bagagliaio.»

«Chi pensi di essere per parlarmi così? Non sono uno dei bambini di nove anni deboli e narcotizzati dei quali hai potuto fare quello che ti pareva.»

«Non te lo dico di nuovo, sta’ zitto

«Non darmi ordini, Bobby, o ti garantisco che prendo quel volante e non m’importa dove andiamo a sfracellarci.»

Lo fulminò con un’occhiata e con un gesto collerico aprì il portaoggetti tra i due sedili e ne tirò fuori un piccolo asciugamano che emanava un odore pungente nonostante il sacchetto di plastica che lo conteneva.

«Sta’ zitto, Rid. Non posso farti tornare a nove anni ma ti posso narcotizzare come ho fatto con loro.» gli fece lui gelido. «Ma preferirei di no perché sei pesante da trasportare.»

Restare inerme e incosciente in presenza di Robert non era affatto una mossa saggia, quindi Ferid tacque mentre lui riponeva l’asciugamano e cambiava strada. Mentre prima erano chiaramente diretti verso Satbury – o piuttosto verso Holden, verso il quale la Queen Mary Avenue era certo la via più veloce – ora puntavano a nord, verso la contea di Dern o verso il North End.

In quella direzione presero tutte le vie meno pratiche e fecero un largo giro per evitare i posti di blocco; con profonda delusione di Ferid non ne videro nemmeno uno. A un certo punto per via del buio, delle vie secondarie e dei molti cambi di strada non sapeva più dire dove si trovassero. Tutt’intorno a lui vedeva lotti recintati con teli di plastica o pannelli di legno, qualche capannone, cantieri aperti. Le poche luci di quelle strade illuminavano asfalto umido e poco altro, niente panchine, marciapiedi, cestini per il pattume, nessuna linea per il parcheggio.

Sembrava una città ancora da costruire, o piuttosto una abbandonata da demolire.

«Dove siamo?»

«Ha importanza?» gli chiese Robert in tono annoiato.

Non replicò, anche perché la macchina girò bruscamente dentro uno di quei lotti ingombri di materiale edile e si fermò accanto a un’alta pila di blocchi in cemento. Il conducente gli ordinò di scendere e lui, con il cuore che iniziava ad accelerare, obbedì.

Non vedeva nessuna luce al di fuori di quella posta davanti all’ingresso dell’edificio. Robert tirò un telone di plastica verde sopra l’automobile con il chiaro intento di celarla agli occhi dei pochi che avrebbero potuto avventurarsi fino lì, poi arma alla mano afferrò il gomito di Ferid e lo trascinò attraverso il cortile.

Aveva creduto che lo volesse portare dentro l’edificio in costruzione, un edificio di cemento grezzo di dieci o dodici piani a una prima occhiata, ma passandovi davanti rimase sorpreso di notare che non c’erano ingressi. Le finestre e le porte erano state murate con mattoni cavi sui primi due piani. Strizzando gli occhi gli parve che anche le finestre del secondo piano fossero chiuse, ma era troppo buio per capire se fosse la stessa cosa anche più in alto.

«Cosa facciamo qui, Bobby? Mi sparerai e mi butterai sopra una colata di cemento, come nei più banali film con la mafia?»

«Se ti avessi solo voluto morto mi sarei risparmiato di rovinare la mia macchina. T’avrei ammazzato insieme alla tua amica strega.»

«Curioso, perché mi sembra che tu non abbia risparmiato le carte nei tuoi tentativi di uccidermi.» obiettò Ferid. «Hai quasi centrato il bersaglio quando mi hai avvelenato con l’aconito. È stato un miracolo che io sia sopravvissuto.»

«Una vera fortuna.» convenne lui con sua sorpresa. «Infilati qui dentro. Attento alla botola, non romperti il collo proprio adesso.»

Ferid, perplesso, osservò la grande catasta di quelli che nel buio gli parvero blocchi di pali da cemento armato legati insieme. Davanti ad essi erano appoggiati dei pannelli di lamiera. Incerto strizzò il suo corpo esile sotto di essi e scoprì a tentoni che la catasta aveva uno spazio vuoto all’interno. Non vedeva a un palmo dal proprio naso nel senso più letterale e trovò il buco nel terreno ispezionandolo con il piede.

«Sbrigati.»

«Non vedo niente!»

Sempre a tentoni si inginocchiò e provò a capire la conformazione della botola tastando con il piede; un lampo di luce che veniva dal cellulare di Robert illuminò la zona e poté vedere che era il tombino di accesso ai cavi della costruzione. O almeno avrebbe dovuto: al suo interno non c’era niente, solo alcuni pioli di una scaletta che scendeva in un passaggio pieno di foglie secche, terriccio e altri segni di inequivocabile abbandono.

Scese nel passaggio seguito da Robert, seguì la direzione indicatagli e poi risalì dove lui gli ordinò. Il luogo in cui emerse era buio pesto e ancora una volta usò il tatto per cercare di uscire dalla botola in sicurezza. Solo l’arrivo dell’altro uomo e del suo cellulare rischiarò l’ambiente a sufficienza da permettergli di capire.

Siamo dentro l’edificio!

«Di sopra, Rid, spicciati.»

Ferid individuò le grezze scale e iniziò a salirle con circospezione, una rampa dopo l’altra. Quando superò il terzo piano iniziò a scorgere qualcosa anche al di fuori della zona illuminata dal telefono, perché le finestre dei piani superiori non erano murate: erano davvero all’interno dell’edificio dalla porta sigillata. Intorno alla struttura intravedeva le ombre di tubi e pannelli dell’impalcatura che avvolgeva il palazzo come un guscio sul gheriglio.

Una volta arrivati in cima con il fiato corto e lo sgradevole contrasto tra il calore interno e l’umido, pungente freddo esterno, Ferid ebbe una risposta alle sue domande riguardo il misterioso laboratorio. Nel momento in cui Robert accese una serie di neon la luce rischiarò il suo covo e fece sentire a Ferid vertigini che non aveva mai provato.

Da un lato tre tavoli ospitavano una complicata attrezzatura da distillazione che ricordava quelle usate un tempo per la creazione dei profumi, ampolle, barattoli, becker e provette dal fondo curvo infilate su supporti di metallo. E ancora: pinzette, tappi, dosatori, contagocce, microscopi, vetrini, un leggio di legno e un grosso flacone di acqua distillata.

Dal lato opposto le cose erano ancora più strane e inquietanti. L’ampio tavolo di metallo era fornito di cinghie come un lettino per elettroshock, un carrello ospitava strumenti chirurgici e una macchina in un angolo dotata di molti sottili tubi e aghi portò Ferid a conclusioni così raccapriccianti che non poté fare a meno di stringersi le braccia.

Li porta qui… è qui che ha tolto il sangue ai bambini con quella macchina per la dialisi, e con quegli strumenti gli toglie il cuore!

I suoi occhi si posarono sull’angolo più distante dove regnava una vecchia stufa a carbone. Normalmente avrebbe potuto credere che serviva solo a riscaldare un ambiente grezzo che in inverno sarebbe stato gelido, ma qualcosa dentro di lui gli diceva che l’utilità di quell’oggetto non era così scontata: una stufa elettrica, dato che c’era corrente, avrebbe assolto il compito più agevolmente e discretamente della sua antiquata collega.

«Allora, Rid, ti piace il mio laboratorio alchemico? Personalmente ne vado molto fiero.»

«La… laboratorio alchemico?»

Robert fece un cenno compiaciuto alla libreria, che Ferid non aveva ancora notato accanto all’ingresso. In effetti scorrendo i titoli poté constatare che possedeva il meglio che l’editoria avesse offerto negli ultimi duecento anni sul tema dell’alchimia e della medicina officinale di stampo esoterico, ma questo non faceva che confonderlo ulteriormente.

«Sembri costernato.»

«Io… Bobby, ma che cosa significa questo…? Non capisco…»

«Tutto questo non sarebbe mai esistito senza di te… e ti giuro, quando ti ho incontrato nel giardino della tua casa tutto mi sarei aspettato tranne che avresti fatto di me uno degli alchimisti più esperti del secolo.»

Davanti alla sua perplessità Robert emise una risata flautata che imitava benissimo le sue, e questo lo urtò tanto da scrollargli di dosso parte dello shock.

«Puoi smetterla, per cortesia? So che non sei così e che non hai quei lineamenti. Ora nessun altro ci può vedere, togliti di dosso la mia faccia. Mi inquieta.»

Robert l’osservò con aria divertita, ma più lo guardava più i suoi tratti assumevano l’espressione di una fredda collera.

«D’accordo… dopotutto dobbiamo parlare. Tanto vale che tu veda il tuo capolavoro.»

Robert si staccò la parrucca, fissata alla fronte con l’apposita colla, e gettò la chioma argentata sul tavolo già ingombro. Una volta rimossa la retina Ferid notò la prima stranezza, perché i corti e radi capelli di Robert non erano biondo cenere come li ricordava, ma quasi tutti ingrigiti e striati da poche ciocche dorate.

Cosa… ma Bobby ha la mia età, ha appena un paio di anni più di me, come può avere già i capelli ridotti in quel modo?

Il vero shock però arrivò quando Robert si tolse di dosso una sottile maschera di quello che sembrava lattice. Nonostante le tracce di quel materiale rimasto sulla sua pelle e il trucco intorno agli occhi era già evidente che a Robert Warren era successo qualcosa di inspiegabile e terribile: il suo viso era segnato dalle rughe, con macchie e capillari rotti, come avrebbe potuto esserlo quello di un uomo con il doppio dei suoi anni.

Ferid si coprì la bocca con la mano e indietreggiò di un passo, disgustato e scioccato in egual misura, e la sua reazione innescò la rabbia di Robert.

«Un lavoro ben fatto, non è vero, Rid? Ne sarai orgoglioso!»

«Che… che cosa ti è successo, Bobby? Perché… perché sei invecchiato in quel modo?»

«Non prendermi per il culo!» sbottò lui, buttando a terra una pila di libri dal bordo del tavolo. «Sei tu la causa di questo! Che cosa volevi fare? Vendicarti? Costringermi a tornare da te? Per quale motivo mi hai rovinato la vita con questa crudeltà?!»

Quell’ingiusta accusa montò la rabbia repressa di Ferid come nemmeno l’aggressione a Krul aveva fatto.

«Tu… tu parli a me di crudeltà? Tu, che mi hai avvicinato e ti sei approfittato del… del mio bisogno di attenzione per ingannarmi… per portarmi via tutto… come osi accusarmi di essere stato crudele?»

Era spaventoso il modo in cui l’umore di Robert passava da un estremo all’altro: dal divertimento alla rabbia più violenta e di nuovo alla calma con lui era questione di attimi; Ferid non poteva fidarsi dell’apparenza, doveva tenere a mente che era sempre estremamente pericoloso. Indietreggiò ancora quando gli venne vicino, ma urtò la spaventosa macchina per la dialisi con un verso simile a uno squittio e si trovò incastrato tra quella, il muro gelato e la spaventosa maschera che era diventata il volto che un tempo aveva tanto teneramente amato.

Robert sorrise mentre gli sfiorava i capelli.

«Quando stavamo insieme ti dicevo che eri la mia musa… la mia musa con i capelli d’argento. Abbiamo passato una meravigliosa primavera, non credi?»

«Non siamo mai stati insieme. Mi dicevi tutte quelle belle cose per incantarmi e prenderti i miei soldi.»

Lui scoppiò in una risata secca.

«Ha funzionato, no? E siccome ha funzionato così bene ho deciso che lo avrei fatto tutte le volte che sarebbe servito, ogni volta che mi sarebbero serviti dei soldi... e l’ho fatto.» raccontò lui con orgoglio. «Ho incantato donne ricche e sole di ogni rango ed età… mi sono fatto ricoprire di oro, mi sono fatto portare in ogni posto splendido del mondo… ho fatto tutte le esperienze fantastiche che si potevano sognare. Tutte quelle che sognavamo di fare insieme, e altre cento ancora.»

«E cosa ti ha riportato nel West End a torturare bambini, se eri così ricco e così felice?»

Oscillando di nuovo da un estremo all’altro, l’uomo gli strattonò i capelli abbastanza forte da strappargli un gemito di dolore.

«La tua maledizione, Rid! È iniziata presto, anche se io non me ne sono accorto subito. Il mio corpo ha iniziato a invecchiare più velocemente di quello degli altri. Alle soglie dei trent’anni ne dimostravo almeno dieci di più… e da lì non ha fatto che peggiorare di settimana in settimana…»

Robert gli strinse il collo con quel fare minaccioso, come aveva fatto già a casa di Krul, con il pollice che affondava sotto il pomo d’Adamo.

«Mentre tu… guarda che splendido fiore in boccio sei ancora… così giovane, così bello… così perfetto…»

Ferid spostò la mano dal proprio collo e gli diede uno spintone abbastanza forte da farlo barcollare qualche passo indietro.

«Smettila con questa storia! Se qualcuno ha delle colpe quello sei tu! Sei stato tu a maledirmi, facendomi credere che in questa vita nessuno si avvicinasse a me in modo sincero! Che nessuno avrebbe mai visto in me altro che la mia bellezza e la mia ricchezza! Tu hai rovinato la mia vita in tanti di quei modi che ad elencarli non avrei ancora finito per Capodanno!»

«So quello che dico, e negare non serve.»

Non perse l’espressione glaciale mentre lo fissava con disgusto, scollandosi un pezzo di maschera da sopra l’occhio destro. Dava l’impressione che la faccia gli si stesse squagliando, con quei pezzi di finta pelle che si staccavano qua e là, ed era un’immagine rivoltante che Ferid faticava a identificare con lo splendido adolescente che Robert era nella sua memoria.

«La mia malattia è cominciata quando tu hai iniziato a lavorare in quel posto… non so se hai trovato il maleficio dentro uno di quei dannati libri o se è stata quella strega ad aiutarti, ma tu ti sei vendicato di quello che ti ho fatto. Mi hai maledetto, mi hai tolto la bellezza e la giovinezza che avevo ancora e te la sei presa.»

«Tu sei un pazzo squilibrato, e se lo dico io sta’ sicuro che non c’è da andarne fieri.»

Quando sollevò l’arma con un gesto improvviso Ferid alzò le braccia e chiuse gli occhi di riflesso, ma non venne sparato alcun colpo; Robert lo spinse violentemente contro la libreria e l’urtò con tanta forza da farlo cadere in ginocchio per terra insieme ad alcuni volumi piazzati in bilico sugli scaffali.

«Ti ho trovato proprio per via della mia malattia… nessun dottore sapeva come guarirmi né come rallentare l’invecchiamento, quindi mi sono convinto di trovare la risposta nelle scienze occulte… ho letto qualcosa in rete, comprato alcuni libri… poi ho saputo del Magick, il negozio specializzato più fornito del paese, quindi mi sono preso l’incarico di amministrare il settore turistico dell’azienda che ho ereditato dalla mia ultima moglie. Gli uffici sono qui a Holden.»

Ferid preferì scorrere lo sguardo sui libri di alchimia a terra che sul viso rovinato di Robert, cercando di ricordare un viso che avesse trovato simile al suo tra i molti clienti, ma non gli sopravvenne. Dopotutto era capace di cambiare il suo aspetto in modo così strabiliante che se non avesse voluto farsi riconoscere ci sarebbe di certo riuscito.

«Sei… venuto in negozio da me?»

«Molte volte, Rid. Tu non mi hai mai riconosciuto… ma era quello che volevo. Anche quelle volte indossavo maschere come quella che hai visto, o del trucco pesante… i miei primi anni da Dirk Todd sono stati passati in una compagnia teatrale. Sono stato fortunato a imparare a cambiare aspetto.»

«Dirk Todd?»

Questa volta Ferid incrociò i suoi occhi chiari.

«È così che ti chiami ora?»

«Sì. È il mio nome da oltre dieci anni ormai… ci ho costruito un impero, con tanta ricchezza da far impallidire anche il nome dei Cosworth…»

«Bobby… perché la povertà ti ha sempre spaventato tanto?»

La domanda parve sorprendere l’uomo, che lasciò che l’arma finisse puntata sul pavimento ruvido. Ferid si rialzò lentamente in piedi, ma non osò avvicinarsi per paura che non fosse distratto come sembrava.

«I tuoi genitori erano contadini… tu volevi venire in America e fare soldi, ma… non ti era mancato niente. I tuoi genitori ti amavano, rinunciavano a qualsiasi cosa per riuscire a farti avere vestiti nuovi, cose che andavano di moda tra ragazzi, uno scooter per andare a scuola, videogiochi…»

«Come puoi dirmi che non mi mancava nulla? Avevi cento volte di più di quello che avevo io! Migliaia di libri, cibo di lusso, cavalli, una villa intera con la servitù che faceva tutto quanto volessi!»

«E avrei dato via tutto per avere l’amore che i tuoi genitori ti davano… anzi, l’ho fatto. Io ho rinunciato a tutto questo per l’amore che tu mi promettevi.»

Il silenzio che seguì era carico di rabbia e di disagio, come se Robert si fosse accorto soltanto in quel momento di aver effettivamente fatto qualcosa di sbagliato per meritare la maledizione che nel suo delirio Ferid gli aveva lanciato addosso.

«Sono sempre stato arrabbiato con te, Bobby… perché hai fatto una cosa orribile a un ingenuo ragazzino di sedici anni… ma per quanto vale, non mi è mai importato di trovarti e di vendicarmi… tantomeno mi sarei preso la briga di scovare una maledizione. Per quanto ti sembri ridicolo, io non credo alla stregoneria.»

Mosse qualche passo esitante verso di lui, sforzandosi di ignorare tutto ciò che poteva fargli salire la rabbia verso quell’uomo: l’abbandono in America, i bambini uccisi, la trappola che aveva decimato la squadra omicidi… sigillò tutto là nel vecchio baule della memoria, dove non poteva essergli d’intralcio.

«Se fossi venuto al negozio e mi avessi detto che eri tu… io penso che sarei stato… felice di rivederti. Anche se di certo avrei gradito almeno delle scuse sentite…»

Bastò sfiorargli la mano sinistra perché la destra si sollevasse e gli puntasse l’arma contro, costringendolo a fare un passo indietro.

Pare che non sarà così facile persuaderlo.

«Non me la bevo! Questa malattia deve avere una ragione! Hai letto tutta quella dannata libreria, no? Devi saperne qualcosa!»

«Ah… è questo il motivo per cui non volevi ancora uccidermi? Volevi chiedermi se sapevo come guarirti… o toglierti la maledizione?»

«Tu lo sai?»

Ferid abbassò le mani lentamente, costringendosi a riflettere con attenzione. Paradossalmente convincere Robert di avere una sfortunata malattia rara avrebbe remato contro di lui, ma se avesse assecondato la sua follia, se gli avesse lasciato credere che lui era stato capace di maledirlo e che fosse il solo in grado di liberarlo… allora le carte si sarebbero ribaltate e il coltello l’avrebbe avuto lui dalla parte del manico.

«Hai rischiato grosso, Bobby. Mi hai quasi ucciso con il veleno. Perché l’hai fatto, se volevi chiedermi come potevi liberarti?»

«Quella… è stata la disperazione.» ammise lui, con una smorfia. «Pensavo che i bambini sarebbero bastati a guarirmi… ma non succedeva e ho pensato che forse uccidendoti la maledizione avrebbe smesso di consumarmi.»

«Che cosa intendi con “i bambini sarebbero bastati a guarirmi”?»

«Ho provato molte cose… magie, guarigioni… medicine di erbe a centinaia, sono stato in Messico da diversi stregoni della santeria… nel mentre ho studiato l’alchimia, che aveva i risvolti potenziali più promettenti, e ho preso anche molti preparati messi a punto da me… qualcuno ha alleviato i miei sintomi, ma niente fermava l’invecchiamento… poi un giorno mi sono imbattuto in un antico testo di Ermete Trismegisto.»

Il nome a Ferid disse tutto e nulla, poiché si trattava di una figura leggendaria, controversa, alla quale era stato attribuito un consistente numero di scritti filosofici ed esoterici che andavano dalle profezie all’evocazione di angeli e demoni, dalla magia rituale all’alchimia. Non sapendo in che direzione orientare le sue teorie attese che Robert si spiegasse da sé; cosa che invero sembrava impaziente di fare.

«Parlava di un rituale che permetteva di sconfiggere la morte… di ottenere poteri tali che avrei potuto spezzare la tua maledizione e riconquistare la giovinezza. Tutto ciò che mi serviva erano i cuori sani di ragazzini… di bambini, che non fossero ancora stati corrotti da droghe, alcol, e comportamenti dannosi… cuori perfetti…»

«Bobby. Che cosa diavolo hai fatto con i cuori di quei bambini?»

Con la sensazione sgradevole di aver avuto ragione riguardo alla sua inquietante premonizione Robert accennò alla stufa nell’angolo del laboratorio.

«Come dice lo scritto, l’ho estratto dai corpi vivi, l’ho ridotto in cenere, l’ho mescolato al vino rosso e l’ho bevuto… secondo un altro scritto alchemico, con il sangue ho preparato un unguento che avrebbe dovuto ringiovanirmi esternamente… era un peccato sprecarlo, io odio lo spreco. Tu lo sai.»

«Sei disgustoso, Bobby… come ti è potuto anche solo venire in mente di mettere in pratica una cosa simile? Erano dei bambini!»

Lui scrollò le spalle, innalzando a vette ancora più alte – se possibile – il suo disprezzo. Ignorando l’arma gli andò tanto vicino da prenderlo per il bavero, ma Robert per quanto sorpreso non era intenzionato a minacciarlo o ad allontanarlo.

«Bobby! Erano bambini con tutta la vita davanti! Bambini con delle famiglie, dei sogni e dei talenti! Come hai potuto fare loro qualcosa di così… orrendo, solo per salvare te stesso?!»

Gli afferrò il polso e lo torse con tanta brutalità da fargli produrre un tremendo rumore scrocchiante; la fitta di dolore fu tale che strappò a Ferid un gemito.

«Non accetto che mi critichi… tu hai causato questo. Tu e i tuoi giochetti con quella strega tua amica.»

«Non ti toglierò mai quella maledizione!»

Lo fissava negli occhi e tra la fredda analisi della situazione e la rabbia che ribolliva nelle viscere aleggiava una curiosa nebbiolina, dove la sua mente non faceva altro che ripetere “sono stato partorito da un topo blu su una mongolfiera in volo, sono stato partorito da un topo blu su una mongolfiera in volo” nella speranza di risultare sfingeo come era riuscito a essere davanti a un esperto lettore di linguaggio del corpo qual era Mikaela.

Ebbe successo, perché la faccia di Robert si deformò ulteriormente per la rabbia. Lo buttò faccia a terra con un calcio, gli pestò la schiena con il piede e posò la canna della pistola contro la sua tempia.

«Allora ti dovrò obbligare a farlo.»

Ferid forzò una risata.

«Provaci… ma stai attento, Bobby… se mi uccidi provandoci la maledizione continuerà finché non sarai una mummia vivente.»

«Accetto la sfida.»

L’afferrò per i capelli tirandoli con forza per costringerlo ad alzarsi, solo per sbatterlo con la delicatezza di una carica di rinoceronte sul tavolo con le cinghie. Non riusciva a spiegarsi come potesse avere tanta forza fisica in un corpo consumato da una simile malattia, ma non riuscì a opporglisi e finì legato polsi e caviglie al tavolo dalla sanguinosa storia.

Robert prese fiato dopo la breve lotta come se avesse solo portato in casa una pesante spesa e si mise tranquillamente ad accendere la stufa. Era evidente che non era affatto preoccupato che qualcuno potesse trovarli, o sentirlo se avesse gridato, e in effetti l’intera zona sembrava fatiscente e abbandonata a se stessa.

Ferid tirò le cinghie – con dolore del suo polso – solo per constatare che erano ben solide.

«Tira quanto vuoi, Rid… ho delle cose da preparare prima di dedicarmi a te.»

«Fa’ con comodo.»

Uno squillo di telefono prese entrambi di sorpresa. Un profondo disappunto dopo aver controllato il cellulare fu la prima reazione e dopo un sospiro rispose.

«Ciao, Justine, mia cara… perdonami tanto per la nostra cena, ma ho avuto un problema ai denti… sì, infatti, e sai la cosa peggiore? Mentre ero dentro lo studio mi hanno rubato la macchina! La Mercedes nera, sai.»

Justine…

Quasi avesse letto il pensiero di Ferid Robert gli lanciò un’occhiata provocatoria.

«Sai chi ho incontrato di sfuggita oggi, Justine? Oh, no, tranquilla. Non preoccuparti della macchina, torno a casa in taxi e uso la Toyota.» minimizzò in tono leggero. «Ti stavo dicendo, ho incontrato quel tuo amico, sai… quel professore che frequenta la biblioteca, quello con cui parli spesso… sì, ecco come si chiamava, Trobiano.»

Fu un piccolo shock aggiuntivo pensare che Justine, la cara ragazza della biblioteca, fosse legata a Robert. Questo gettava una luce diversa su tutto quanto e di certo poteva chiarire come Robert fosse riuscito ad arrivare a bambini di cui lui non sapeva neanche i nomi e che spesso non descriveva neanche fisicamente nei suoi diari.

Forse travisando la causa del suo sbigottimento Robert prese una strana strada in quella conversazione.

«Ovviamente stasera non me la sento di andare a cena, anche perché ho la gengiva gonfia, ma se rimandiamo a domenica ti prometto che sarò tutto tuo… per tutta la notte, e farò ogni singola cosa che ti piace. Che ne dici, tesoro?»

Sei uno schifoso, Bobby. La usi proprio come usavi me, come hai usato anche quelle poverette sole che hai derubato… le persone non sono maledetti giocattoli!

Ponderò di gridarle qualcosa, di farsi sentire… ma decise quasi immediatamente di non farlo. Se era come credeva, Justine non sapeva nulla del laboratorio e coinvolgerla come testimone nel rapimento era metterla in pericolo. Se era sua complice – seppure quella conversazione non dava appigli in tal senso – gridare era inutile.

Prese a tirare le cinghie con maggiore impegno, ignorando la sua conversazione al telefono, scrutando il cuoio alla ricerca di un punto debole. Per quanto osservasse non vedeva segni di logoramento o strappi che potessero aiutarlo. Tirò il più possibile e valutò la lunghezza massima e quanto il cuoio si tendesse: ogni dettaglio, ogni centimetro poteva fare la differenza in una simile situazione.

Appena un paio di centimetri, ma se…

Guardò la stufa, con il carbone ancora spento. Al momento non poteva contare sul calore. Abbassò lo sguardo sulle caviglie per scoprire quanto spazio di manovra aveva per muovere le gambe, ma il modo in cui lo guardava Robert, con quello strano sorriso storto, lo portò a fermarsi. La sua telefonata era finita senza che se ne accorgesse.

«Sai… ti trovo stranamente eccitante così legato, Rid.»

Ferid non rispose e cercò di indossare una maschera inespressiva: se soltanto gli avesse dato un minimo segno del fatto che quell’argomento poteva esercitare un potere su di lui Robert non avrebbe esitato a servirsene per obbligarlo a sciogliere una maledizione.

«Beh, per ora accendo la stufa… spogliarsi in una stanza fredda non è affatto piacevole.»

Si accovacciò lì davanti e prese a trafficare con il carbone e dei trucioli per accendere il fuoco. Ferid lanciò uno sguardo alla scaffalatura di barattoli di sostanze sconosciute, poi al carrello di strumenti chirurgici, e infine alla stufetta. Aveva a disposizione infinito tempo, braci ardenti, bisturi, chissà quali altri strani aggeggi, e sostanze di qualsiasi genere. Potenzialmente poteva torturarlo anche per giorni, riducendo un corpo bello e piuttosto funzionale a un relitto. Poteva anche renderlo cieco, zoppo, o inabile in vari modi pur senza rischiare di ucciderlo.

Serrò istintivamente occhi e pugni, pregando che la polizia di Satbury fosse capace di trovarlo prima che gli succedesse qualcosa di irreparabile, poiché al momento il solo miraggio di salvezza giaceva in quella vecchia stufa.

 

*

 

Crowley, a bordo della sua auto, stava facendo per la terza volta lo stesso giro. Proseguiva così piano che stava suscitando sospetto nei passanti, ma non se ne curava: era deciso a non farsi sfuggire neanche un buco dove quella dannata Mercedes potesse essere stata nascosta.

Alla radio un’altra pattuglia comunicò il nulla di fatto del loro posto di blocco. Nell’ultima ora non aveva praticamente sentito altro, nessuna delle Mercedes fermate aveva a bordo Dirk Todd o qualsiasi altro uomo sospetto.

Crowley sospirò e superato l’incrocio si diresse ancora più a nord, verso la contea di Dern. Il suo settimo senso gli diceva che la sua base doveva trovarsi in quelle zone, perché il fatto che Samara fosse stata lasciata nel bosco gli suggeriva che fosse un conoscitore del circondario.

Nel prossimo isolato.

Non faceva che ripeterselo, perché sapeva che se avesse ceduto solo per un momento, se si fosse messo a pensare che Ferid avrebbe già potuto essere un cadavere nascosto dove non l’avrebbero più trovato, o che l’avrebbe atteso la mattina dopo l’orrenda visione del suo petto squarciato derubato del cuore, non sarebbe più riuscito a cercare. Avrebbe ceduto alla disperazione, alla rabbia e a mille altre cose orrende che aveva dentro in un punto oscuro, come se avesse aperto il vaso di Pandora.

La suoneria del suo cellulare riempì l’abitacolo. Dapprima non avrebbe voluto rispondere, ma poi vide che il numero era quello di Gabriel Rogue. Accostò davanti a un minimarket e rispose.

«Eusford.»

«Signor Eusford, sono Gabriel.»

«Lo so, Gabe. Che cosa c’è?»

«Ecco, io stavo facendo una ricerca più approfondita e…»

«Cosa fai ancora in centrale? Il tuo turno è finito da un pezzo.»

«Chissene importa, santo cielo! Con quello che sta succedendo andare a casa è l’ultimo dei miei pensieri, le assicuro!» esclamò lui indignato. «Mi ascolti, per favore, l’ho chiamata per un motivo!»

«Dimmi.»

Non era davvero interessato, perché riteneva che le migliori chance le avessero i poliziotti in strada che potevano avvistare e bloccare il veicolo incriminato, e il curriculum di Warren o altre prove da ingrasso per il fascicolo non avrebbero salvato Ferid.

«Stavo indagando più a fondo su Dirk Todd. Gran parte delle sue proprietà personali sono in California e in Florida, possiede poi l’appartamento dove siete stati oggi con la ragazza di Todd.» snocciolò rapido Gabriel; continui click e ticchettii come sottofondo. «Ho iniziato a indagare nelle proprietà della sua holding e penso di aver trovato qualcosa di strano… non ne sono sicuro, ma… per trovare il suo partner un tentativo è da fare, non trova?»

Con le emozioni inibite dall’adrenalina Crowley ci mise un po’ a registrare e comprendere quella sensazione.

Gabe è rimasto in centrale a cercare nel modo in cui sapeva di rendere meglio… e l’ha fatto perché sapeva che l’uomo che è scomparso è il mio uomo.

Riuscì quasi a sorridere e mise l’auricolare per potersi rimettere in strada mentre parlava.

«Che cos’hai trovato?»

«Una vasta proprietà a Farmer’s Dry, nel North End. La holding ha comprato diversi piccoli lotti con l’idea di costruirci sopra un distretto commerciale autonomo, un grosso progetto… ma poco dopo l’arrivo a New Oakheart di Todd il progetto è stato sospeso per sua insindacabile decisione nonostante i cantieri fossero già stati aperti.»

«Questo è interessante, Gabe. Hai scoperto perché?»

Ripartì e fece inversione al primo spazio glielo permettesse, puntando dritto verso Farmer’s Dry, una zona lasciata a se stessa nel North End a seguito di una terribile vicenda di inquinamento delle acque potabili per colpa di tubature costruite con materiali scadenti.

Acquistare i terreni, risanare gli impianti e costruire edifici… è un grosso investimento da troncare a metà senza una ragione valida.

«Ho rintracciato qualcuno del consiglio di amministrazione per telefono, ma a quanto mi hanno detto il presidente ha deciso che non valesse l’investimento di denaro e ha dirottato i fondi su un altro progetto… ma i cantieri non sono stati smantellati.» fece Gabe dal telefono. «Ora… un cantiere abbandonato in una zona totalmente disabitata non le sembra un ottimo posto per detenere una persona sequestrata… o per eseguire una complessa procedura medica illegale?»

«Mi sembra eccome.» convenne Crowley, che schiacciò l’acceleratore oltre il consigliabile dalla prudenza. «Ottimo lavoro, Gabe. Guidami verso la zona dove doveva essere costruito questo distretto commerciale.»

Seguendo le sue indicazioni arrivò dieci minuti dopo in un luogo così buio, derelitto e inquietante che stentava a credere che potesse far parte del suo amato North End. Le stradine erano malridotte e strette, poco illuminate. Era di certo un ottimo posto per sbandati e traffici illeciti.

«Non vedo civici… quasi tutti gli edifici sono nascosti da recinzioni chiuse o reti di sicurezza.»

«C’è già dentro, signor Eusford… il suo cellulare è dentro la zona di proprietà della holding Lubetski.»

«È una zona enorme… Gabe, do un’occhiata in giro nel caso trovassi l’automobile.»

«Faccia attenzione… devo mandarle una pattuglia a supporto?»

«Onestamente quella che sto per fare è una violazione di proprietà privata, quindi contatterò io gli altri con la radio se trovo qualsiasi cosa che giustifichi la nostra presenza qui.»

«Continuo a cercare sul conto di Todd… io… faccia attenzione.»

«Non ti preoccupare. Non creperò prima di vederlo dietro le sbarre, puoi giurarci.»

Crowley chiuse la telefonata e proseguì lentamente, guardandosi intorno alla ricerca di segni di vita, ma non una luce tradiva la presenza di qualcuno negli edifici. Poi, mentre passava davanti a un palazzo inglobato in un’impalcatura e alla gru che un tempo doveva aver contribuito a costruirlo, inchiodò. Scese dalla macchina incespicando per la fretta e non chiuse nemmeno lo sportello.

Per terra c’erano dei segni di pneumatici.

Non è possibile che questi segni siano qui da anni… e nei giorni scorsi ha piovuto molto. Sono recenti…

Crowley accese la torcia del suo cellulare e seguì le tracce dentro il cortile. Seppe che erano molto recenti quando lo fece, perché anche i suoi passi lasciavano una leggera impronta nel terreno umido e morbido.

Le tracce lo portarono dritto a un telone verde di plastica. Al tatto era umido, ma non c’era traccia di acqua nelle pieghe. Con il cuore che batteva più forte del normale lo sollevò e la luce illuminò parafango, carrozzeria nera, una targa che iniziava per ottantasei e lo stemma della casa Mercedes.

Ti ho trovato.

Con un misto di entusiasmo e terrore scrutò l’oscurità del cortile, ma non vide nulla e non udì alcun rumore. Era surreale un tale silenzio in una città come New Oakheart. Con circospezione sollevò il telo facendosi strada verso l’abitacolo, che però trovò vuoto. Non sapeva se essere deluso di non trovarci Ferid o se essere felice che non fosse lì dentro già morto.

Quindi chiunque fosse in macchina è sceso…

Diresse la luce per terra e individuò impronte di stivali molto leggere. Le seguì per qualche metro, trovandole accompagnate da altre suole di stivali con un tacco largo, ma purtroppo la promettente pista lo lasciò a metà nel senso letterale: metà del cantiere era coperto di ghiaia grossolana sul terreno più compatto e non scorgeva più tracce. Non sapeva dove fossero andati.

Ben lungi dal darsi per vinto si guardò intorno e rimase stupito di trovare ingressi e finestre murate al piano terra dell’edificio. Dettaglio che infiammò il suo settimo senso. Fece più rumore del consigliabile, ma pistola alla mano e cellulare nell’altra per la luce fece tutto il giro del palazzo alla ricerca di un punto di accesso, inutilmente.

Non so come siano entrati, ma sono qui dentro… possibile che…?

Crowley ripose la pistola sotto la giacca e si portò in un punto promettente: un cumulo di macerie offriva un possibile trampolino per aggrapparsi all’impalcatura ed eventualmente issarsi al piano superiore. Mise il telefono tra i denti per poter avere luce e le mani libere, ma quando spiccò il saltò andò a vuoto e atterrò sul terreno compatto.

Non ci siamo… io sono parecchio alto, ma ci mancano ancora venti o trenta centimetri per aggrapparsi… dovrebbe essere un ginnasta per fare di meglio, e anche se potesse, come avrebbe potuto portare Ferid lì sopra?

Riprese a cercare con gli occhi, ma doveva esserci qualcosa che non vedeva. Un passaggio celato, un accesso sotterraneo o qualcosa che permettesse di accedere dall’alto. Forse una scala poteva essere stata fissata per salire e poi lasciata sull’impalcatura superiore per servirsene al momento di scendere.

Non mi arrendo, Warren. Augurati di non avergli ancora fatto nulla di grave, perché giuro su Dio che non ho la minima esitazione a piantarti un proiettile in testa.

Mentre la sua anima immortale si dibatteva tra la furiosa sete di giustizia e i cattolici sensi di colpa, iniziò a controllare che i mattoni che chiudevano finestre e porte fossero cementati oltre ogni ragionevole dubbio.

 

*

 

All’ultimo piano il ronzio delle luci, il crepitio della stufa e delle fiammelle e il ribollire di liquidi in pentolini e fialette erano i soli rumori udibili. Qualsiasi cosa Robert stesse facendo la stava facendo in silenzio, molto concentrato. Dal canto suo Ferid era altrettanto silenzioso e concentrato, ma non su quello che il suo aguzzino stava preparando per lui: cercando di soffocare il fiato corto e i fruscii stava muovendo ritmicamente braccia e gambe da diversi minuti che gli parevano ormai ore. Si fermò un attimo per rifiatare e tirò al massimo la cinghia della mano sinistra per capire a che punto fosse il suo piano, e con enorme stupore si accorse che procedeva meglio di quanto credesse. Tirò con forza, ignorando il dolore e senza emettere fiati, finché la pelle resa più scivolosa dal sudore non scivolò via dalla cinghia.

A fatica contenne la gioia e l’adrenalina, quel geyser misto di emozioni gloriose che gli eruttò in corpo a quel fortunato giro di vento, e fu con forzata calma che si liberò l’altro polso.

Probabilmente il fatto che narcotizzasse i ragazzini gli ha impedito di immaginare che la vicinanza del lettino alla stufa potesse aiutarli a liberarsi rendendo più facile sfilarsi le cinghie… e di assicurarsi che fossero molto strette.

Una fitta di dolore che non era fisico lo attraversò quando si rese conto che tutti bambini che aveva incontrato erano tutti spirati su quel tavolo, e si ritrovò a sperare che nessuno di loro avesse mai ripreso conoscenza per provare l’orrore di vedere un folle dissanguarli con una macchina e aprire il loro torace.

Si liberò le caviglie senza che Robert accennasse a voltarsi verso il tavolo, preso com’era a mescolare una sostanza incolore con l’attenzione che avrebbe riservato a un acido. In effetti Ferid non aveva alcun indizio per escludere che di ciò si trattasse davvero.

Tuttavia, la parte facile era passata: per uscire dal laboratorio avrebbe dovuto passargli alle spalle e raggiungere una porta che rientrava nel suo campo visivo pienamente ogni volta che posava o prendeva uno strumento dal carrello, e a sua volta questo silenzioso assistente ingombrava l’uscita. Ferid guardò le finestre, coperte da specchi neri dei quali non capiva l’uso.

Con le finestre in questo lato che cosa voleva controllare? Per quanto ne so gli specchi neri sono usati in chiaroveggenza e stregoneria, ma in alchimia… a che potrebbero mai servire?

Allora capì il motivo per il quale collocare un laboratorio illuminato in cima a un palazzo anziché in un piano più basso che desse meno nell’occhio: i vetri dipinti di nero da fuori riflettevano l’interno e impedivano alle luci artificiali di tradire l’alchimista assassino.

«Ehi!»

Ferid vide l’alchimista guardarlo dal riflesso e si voltò per fronteggiarlo. Non c’erano parole per descrivere quanto fosse stupito di vederlo libero, neanche per un vorace divoratore di libri come lui.

«Come ti sei liberato?»

«Sarai il più grande alchimista del secolo, Bobby… ma io resto il miglior mago del secolo.» fece lui, enigmatico, con un accenno di sorriso. «Vuoi mettermi alla prova?»

Non avrebbe potuto sperare in una congiunzione astrale – nel suo vocabolario, coincidenza – migliore: nel momento in cui sollevò la mano verso di lui una delle provette che aveva lasciato sulla fiammella scoppiò spargendo il liquido e schegge di vetro ovunque. Quel gesto e quell’avvenimento, quasi concomitanti, produssero un impatto duro su Robert.

«Ma che cosa sei tu?»

«In verità… solo un umile libraio, ma molto agguerrito.»

Prima che Robert potesse ricomporsi dal turbamento e recuperare l’arma dal secondo tavolo Ferid raccolse l’oggetto più pesante a portata di mano – un paiolo in ghisa adatto a tollerare bene fiamme e braci – e lo scagliò contro il vetro nero; lo sbriciolò come un cracker calpestato da un cavallo da tiro.

Mentre udiva il tonfo assordante dell’oggetto sul pannello dell’impalcatura Ferid scavalcò la finestra incurante dei vetri taglienti: Robert si era lanciato verso l’arma e non poteva permettersi di restare nella sua visuale.

Crowley, dieci piani più sotto, allo schianto del paiolo si buttò per terra sulla schiena e puntò l’arma in alto, ma non vide nulla. La pioggia di vetri infranti si abbatté a un paio di metri da dove si trovava.

Si allontanò rapidamente dall’edificio, inciampando perché teneva lo sguardo in alto seppure la debole luce del telefono non gli permettesse di vedere i piani alti dello scheletro del fabbricato. Sentì i passi di qualcuno che correva sul metallo delle impalcature e a seguire un grido rabbioso.

«Rid, dove pensi di scappare, eh?!»

Per quanto strizzasse gli occhi non vedeva nulla se non una luce apparsa a una finestra dell’ultimo piano.

«FERID!»

I passi si fermarono, in un attimo di silenzio angosciante. Ferid, che da lassù poteva vedere una figura vagamente familiare nella luce del cancello e riconoscerne senza dubbio la voce, si aggrappò a una sbarra dell’impalcatura e agitò il braccio, nella speranza di farsi notare.

«Crowley! Sono quassù!»

Per un attimo Crowley si sentì sollevato di poter sentire ancora la sua voce, ma poi esplose un colpo con una fiammata che conosceva molto bene. I passi ripresero e capì che Ferid stava scappando da chiunque fosse – Warren, ne era intimamente certo – a tenere l’arma da fuoco.

Mentre Ferid si lanciava nel più atletico e disperato degli esercizi ginnici della sua vita per scendere al piano inferiore senza usare le scale interne, il suo compagno si precipitò all’auto agguantando la radio.

«A tutte le unità ai posti di blocco, qui Eusford! Convergere a Farmer’s Dry al cantiere del palazzo più alto nella proprietà Lubetski! Ho un contatto visivo con il sospettato, è armato e ha un ostaggio, ho bisogno di rinforzi subito!»

Dopo qualche secondo ricevette una prima risposta da un’unità della stradale; seguì la conferma della destinazione dall’unità di Rachel e subito dopo da Harry. Chiesti i rinforzi non restava che una cosa da fare.

Tornò al cortile, arma in mano, ma da lì sotto non poteva fare niente per Ferid. Sussultò ai due spari successivi, ma sentiva due diverse serie di passi e seppe che Ferid non era stato colpito.

Lassù c’è luce… e anche le luci dell’ingresso sono accese… c’è ancora corrente, quindi…

Ci mise poco più di trenta secondi a seguire il cavo dal faro dell’ingresso fino alla centralina della corrente, ma gli parve comunque un’eternità. Sollevò tutti gli interruttori: la recinzione e tutti i fari piazzati sulle impalcature si accesero intorno al triste scheletro di cemento e metallo e con un certo sollievo vide Ferid scavalcare il davanzale di una finestra del penultimo piano e accucciarsi al di sotto.

Ferid si chiedeva se ci fosse un modo sicuro per farsi vedere da Crowley senza entrare nell’area di tiro di Bobby, ma la sola cosa che gli veniva in mente era scendere aggrappandosi all’impalcatura. Non gli sembrava sicuro e così restò raggomitolato lì a tirare il fiato più silenziosamente potesse.

Crowley voleva correre lassù a salvarlo, a costo di scaricare l’intero caricatore su quel ripugnante individuo, ma non sapeva come raggiungerlo e si sentiva impotente.

Devo salire lassù a prenderlo… ma come sono entrati? Se glielo chiedessi e mi rispondesse Warren capirebbe dove si trova…

Fuori dal campo visivo del fuggiasco ma dentro quello del poliziotto un altro uomo, che non aveva i capelli lunghi di Ferid ma aveva un’arma altrettanto argentata, girò l’angolo.

«WARREN! Arrenditi, non puoi più scappare!»

L’uomo si bloccò e guardò in giù, ma non prestò la minima attenzione al suo avvertimento. Di certo pensava che se fosse riuscito a mettere le mani su Ferid avrebbe avuto un’efficace moneta di scambio per scappare; questo ammettendo che il passaggio per entrare nell’edificio murato non fosse abbastanza sicuro da permettergli anche una sicura fuga.

Lo sguardo che freneticamente cercava una soluzione si posò sulla gru, il cui basamento era vicino alla Mercedes. Ne percorse l’intera altezza, tutto il braccio, e vide che arrivava molto vicino al tetto del fabbricato.

Devo essere pazzo anche solo per pensarlo… ma…

In un attimo decise, ripose la pistola e alzò gli occhi appena in tempo per vedere che Ferid lasciava il suo posto per lanciarsi di corsa dietro l’angolo, al riparo dal suo aggressore. Il suo avvertimento l’aveva allarmato sulla sua vicinanza o Warren aveva fatto rumore camminando?

«RESISTI, FERID! VENGO A PRENDERTI!»

Così detto prese il coraggio tra i denti in senso quasi letterale, perché il solo pensare di arrampicarsi su una gru alta trenta metri gli suscitava un tale senso di vertigine che digrignare i denti gli veniva spontaneo, e iniziò a salire la scala a pioli interna alla struttura il più in fretta che poteva. Teneva gli occhi fissi sul piolo successivo e le orecchie tese a sentire urla, spari e passi, in attesa delle sirene dei colleghi, almeno finché non sentì un altro schianto e rumore di vetri.

Ferid infatti aveva schiantato un’altra finestra per rientrare nel laboratorio dopo aver riconquistato il piano superiore. Si trovava già vicino alla stufa con la paletta per la cenere tra le mani quando rivide il suo piano originale.

Se brucio qualcosa per attirare i soccorsi qui… potrei distruggere tutto il laboratorio. Potrei distruggere tutte le prove.

«Basta giocare, Rid!»

A quell’urlo trasalì, perché capì che era molto vicino al laboratorio e stava per varcarne la porta dopo essere risalito dalle scale: abbandonò la pala di ferro e uscì dalla prima finestra che aveva rotto, deciso a fare la sua parte per la risoluzione del caso guadagnando la maggior quantità di tempo possibile.

«Se non torni immediatamente qui ti taglio i tendini appena ti ripesco, mi hai sentito?!»

Devi solo provarci, bastardo schifoso, dammi un solo motivo per spararti in testa!

Da quel lato Crowley non poteva vedere dove Ferid si trovasse, quindi sentire Warren imprecargli contro era comunque una splendida sicurezza.

Arrivare fino in cima gli costò fatica e apparentemente un’infinità di tempo, ma purtroppo si rendeva conto di aver superato solo la parte più facile: avrebbe dovuto camminare lungo tutto il braccio della gru, con la consapevolezza di un vuoto abissale sotto i suoi piedi, e solo il guardare quel miglio verde che era il braccio della gru si sentiva le gambe irrigidite dalla paura.

Dopo qualche secondo però puntò gli occhi dritto davanti a sé dandosi uno schiaffo sonoro su entrambe le cosce.

Se non per lui, per chi altro?

Con il punto più equilibrato tra rapidità e prudenza si avviò lungo il braccio metallico. Lentamente si avvicinava e Ferid entrò di nuovo nel suo campo visivo, ma non fu una visione confortante: Warren era poco dietro di lui e afferrandolo per i capelli riuscì a trattenerlo e a bloccarlo passandogli il braccio intorno al collo. Non gli puntò l’arma addosso come credeva che avrebbe fatto.

«Fine dei giochi! Ora dentro!»

«Col cavolo!»

Ferid si aggrappò con le mani a uno dei pali dell’impalcatura e resistette a diversi robusti strattoni e feroci tirate di capelli che lo fecero lamentare per il dolore.

«C-Crowley!»

Quando lo sentì chiamare il suo nome con quella disperazione nella voce Crowley si sentì come spezzare il cuore, soprattutto perché non riusciva ad arrivare da lui: le gambe gli si erano completamente bloccate, non riusciva a proseguire. Il fiato era corto come se avesse corso per chilometri. Era arrivato al limite invalicabile della sua fobia e imprecò a voce alta, furioso perché quella sua stupida paura gli stava impedendo di aiutare la persona più importante per lui.

Ferid cedette la presa a un nuovo violento strattone; non si sentiva più le dita delle mani se non per un intollerabile dolore. Crowley alzò lo sguardo assistendo alla sua convulsa lotta per liberarsi dalla stretta di quell’uomo sul suo collo.

Aiutami…

Crowley forzò le gambe e piegò la sua stessa mente rimettendosi in piedi sul braccio della gru; fissò gli occhi blu sui due uomini così vicini ed estrasse la pistola afferrandola saldamente con entrambe le mani. Purtroppo non aveva la fama di un grande tiratore e non per candida modestia, ma se Warren fosse riuscito a immobilizzare Ferid o a tramortirlo nulla gli avrebbe impedito di tornare a finire il poliziotto che li stava infastidendo per poi darsi alla fuga, e non era detto che non uccidesse anche Ferid prima di battersela.

Signore, lui è la tua spada… ma… per favore, non portarmela via così presto!

Stranamente, il solito tremore che accompagnava la sua folle fobia del vuoto non si era manifestato. La mano era ferma, il vento debole, la visuale libera, la distanza accettabile. Le circostanze erano a suo favore… se non fosse che aveva paura di sparare. Non aveva abbastanza fiducia nella sua capacità di tiratore.

Se solo sapessi sparare come George… lui avrebbe sparato questo colpo a occhi chiusi…

Fu allora che gli parve di sentire davvero la voce del suo caro amico direttamente da una memoria dei tempi dell’accademia: gli aveva spostato la cuffia protettiva per strillargli nell’orecchio di mirare con tutti e due gli occhi aperti e di sparare solo dopo aver espirato.

«Ferid, non muoverti!»

Ferid l’aveva sentito. Dopo averlo visto sulla gru restò sorpreso, ma poi abbassò la testa quanto riuscisse e strinse gli occhi in attesa del colpo. Non solo, afferrò il braccio di Robert come a volergli impedire di muoversi tanto da evitare il colpo. Dal canto suo Warren non si sottrasse, forse convinto che non avrebbe osato sparare da quella distanza rischiando di colpire il suo ostaggio.

Crowley soffiò fuori l’aria dai polmoni prendendosi quel secondo in più per farlo, fissò entrambi gli occhi sull’uomo dai capelli corti e senza esitare oltre esplose un unico colpo che riecheggiò nel cantiere deserto in maniera innaturale.

Ferid cadde in avanti, inginocchiandosi con un tonfo metallico sull’impalcatura. Warren, colpito alla spalla, lanciò un grido cavernoso di dolore lasciando cadere l’arma di riflesso.

Istintivamente l’uomo dai capelli lunghi si sporse per recuperare l’arma prima del suo aggressore, che intuendo la sua intenzione si affrettò a fare lo stesso. Accadde in un attimo, tanto che Crowley non riuscì a pronunciare un avvertimento: Robert Warren barcollò verso la pistola, mise il piede sul sangue che gli era fuoriuscito dalla spalla e scivolò. Fatalmente vicino al bordo cadde contro la sbarra che fungeva da parapetto, troppo corrosa dalla ruggine per sostenere il suo peso, e grattò il pannello in cerca di un appiglio mentre soccombeva alla forza di gravità.

«NO!»

Ferid lasciò l’arma sulla quale aveva messo le mani e afferrò la manica di Robert prima che cadesse. Lui, nonostante avesse tentato di torturarlo e ucciderlo senza alcuna pietà, si aggrappò disperatamente a quella di un uomo che aveva ancora in mente un’immagine di lui difficile da cancellare anche con tutto quel rancore.

«Tieniti… non mollarmi il braccio!»

Ferid lo disse d’istinto, ma come avrebbe potuto sollevare un uomo pesante quanto lui da solo da una posizione tanto scomoda non lo sapeva davvero. La spalla sembrava avviarsi inesorabilmente verso la dislocazione nella migliore delle ipotesi e nella peggiore… si rendeva perfettamente conto che il peso di Robert lo stava facendo scivolare; non trovava appigli solidi e aveva metà del petto già oltre il bordo dell’impalcatura.

«Ferid! Ti tirerà giù!»

Lo so… lo so, maledizione, ma…

«Non lasciarmi!»

Ferid fissò gli occhi sul volto invecchiato e spaventato di Robert, ma se questi si aspettava un incoraggiamento si sbagliava.

«Puoi giurarci che non ti lascio.» sbottò lui, digrignando i denti per lo sforzo e il dolore. «Non scapperai… è troppo facile… questa volta ti prenderai le tue responsabilità, Bobby! Risponderai davanti a mortali e profani di quello che hai fatto a quei bambini!»

Gli occhi di Robert si spalancarono, ma non rispose. Nel momento in cui si aggrappò al braccio di Ferid con entrambe le mani Crowley fece per gridare un avvertimento mentre invece Ferid si lasciò scappare un grido di dolore; afferrò una sbarra sentendosi scivolare pericolosamente oltre il bordo a causa di quel peso.

Si trovò a pochi centimetri dal volto sfigurato dalla malattia.

«Durante quella primavera… in certi momenti ho creduto davvero di amarti.»

Robert alzò le gambe con un grande sforzo addominale, ma non si puntellò sulle sbarre: senza il minimo preavviso delle sue intenzioni mollò la presa sul braccio di Ferid.

Sotto gli increduli occhi celesti spalancò le braccia anziché tentare di difendersi il volto, e con un grido agghiacciante precipitò fino a terra con uno schianto umidiccio da far accapponare la pelle.

Crowley sfidò il suo stesso terrore per guardare giù. Il corpo di Dirk Todd, un tempo Robert Karson Warren, era là sotto; le gambe con strane angolazioni e una stella rossa a segnare il punto d’impatto della sua testa sulla terra compatta e i sassi.

Un singhiozzo secco gli fece alzare gli occhi su Ferid, che si era aggrappato alle sbarre fissate in colonna verticale. Nascondeva gli occhi nell’incavo del gomito.

«Ferid… stai bene…?»

Non ottenne altra risposta se non le sirene della polizia che si avvicinavano. Gattonando lentamente si avvicinò alla punta del braccio, ma a meno che un colpo di vento – quella sera praticamente inesistente – non l’avesse avvicinato al palazzo non aveva modo di raggiungerlo. Tese il braccio pur consapevole che svariati metri li separavano.

Ferid non se ne rese neanche conto: un turbinio di emozioni forti e contrastanti lo stava flagellando, ma una cosa, una sola cosa era ben chiara in quel miasma.

Non mi prenderai in giro di nuovo, Bobby… so che questa voleva essere la tua ultima, eterna maledizione. Non è mai stato vero che mi amavi.

«Ferid… Ferid

Solo quando lo chiamò una terza volta lui sollevò la testa per guardarlo. Era evidente anche a quella distanza che era in lacrime e in completa onestà non si sentiva di biasimarlo. Doveva aver avuto così tanta paura e quell’ultimo volo, quell’intenzionale suicidio, avrebbe turbato anche tempre più forti della sua.

«Sei ferito?»

Ferid scosse la testa. A quanto poteva sentire era ferito soprattutto dentro… o almeno, gravemente sconquassato dagli avvenimenti di quella giornata lunghissima. Ma quanto a ferite fisiche, non credeva di aver riportato più di qualche escoriazione.

«Sto bene.»

Crowley sospirò e abbassò il braccio. Parte del suo sollievo era anche dovuto ai lampeggianti rossi e blu che risalivano la strada.

«Grazie a Dio.»

Entrambi tacquero per due lunghi minuti, restando lì fermi dove si trovavano, finché non arrivarono due volanti a sirene spiegate. Quattro agenti si precipitarono nel cortile e uno si avvicinò al corpo di corsa. Crowley riconobbe Rachel, che sollevò lo sguardo verso di lui e su Ferid.

«State bene, lassù?!»

«Veramente io scenderei volentieri, se potessi.» fece Crowley in un tentativo di ironia. «Ma siamo tutti interi, questo sì.»

Ferid emise una risatina breve e stridula, più frutto dello strascico dell’adrenalina che da un reale divertimento. La voce di un agente che non gli era familiare avvisò Crowley di tenersi saldamente e pochi secondi dopo la gru girò lentamente verso il palazzo, poi il braccio si allungò in avanti per coprire i tre-quattro metri che lo separavano dall’impalcatura.

Ancora uno sforzo…

Prima che riuscisse a fare più che raddrizzarsi Ferid si lanciò di corsa verso il braccio che toccava il muro a pochi metri da lui, vi si arrampicò sopra e gli andò incontro destreggiandosi senza alcuna paura di cadere come avrebbe fatto la sua gatta su cornicione qualsiasi. Un po’ per il freddo, un po’ per la paura che aveva avuto di non vederlo mai più, poterlo stringere tra le braccia lo fece sentire infinitamente meglio. Nessuno dei due parlò, ma non ce n’era bisogno.

Giù nel cortile Rachel li guardava con un piccolo sorriso. Il suo collega invece era meno propenso al romanticismo.

«Teoricamente, doveva essere Eusford a scendere dalla gru…»

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Capitolo 33
*** Quiete accesa ***


Ferid stava fermo nel corridoio da più o meno una decina di minuti, con un piccolo vaso di fiori in una mano e una scatola nell’altra, senza riuscire a decidersi a entrare nella stanza. Ogni volta che prendeva il coraggio quello svaniva in un passo o due verso la porta.

Scambiò un sorriso imbarazzato con l’infermiera che gli passò davanti per entrare proprio in quella camera; dopo un attimo di riflessione si accostò allo stipite per ascoltare.

«Non vorrete altro sangue, spero. Non ne ho perso già abbastanza?»

«No, no, tranquilla, signorina Tepes.» disse l’infermiera, con voce così bassa che Ferid dovette ascoltare con attenzione per non perdersi nulla. «Mi chiedevo se volesse una mano a pettinarsi e sistemarsi un po’. C’è una visita per lei che aspetta qui fuori.»

Oh, accidenti.

«Una visita? Per me?» fece lei in tono sorpreso. «Chi è, un poliziotto?»

«Non credo, signorina… è un uomo con i capelli lunghi con dei fiori per lei.»

«Quali fiori?» domandò Krul con voce più dura.

«Non saprei, signorina… è allergica a qualche tipo di fiore?»

«Può chiedergli una cosa per me, prima di farlo entrare?»

Non vi fu replica ma Ferid ipotizzò che avesse annuito.

«Gli dica che la padrona gli chiede quale sia il suo nome.»

L’infermiera doveva aver espresso una certa perplessità almeno con lo sguardo, perché Krul si spiegò, almeno in parte, con un tono più dolce.

«So che è strano, ma se è l’uomo che aspetto saprà cosa rispondere… e sa perché glielo chiedo.»

Ferid, ancora fermo accanto alla porta, sorrise. Quando l’infermiera si affacciò le ricambiò lo sguardo incoraggiandola a fargli quella strana domanda.

«Ecco… la… padrona le chiede quale sia il suo nome, prima di ricevere la sua visita.»

«Dica alla titolare che può chiamarmi Ismaele.»

Ferid prese uno dei fiori del vaso – un giglio rosa – e lo consegnò all’infermiera come messaggio; spiegarle quanto fosse diventato iconico per loro fare battute di spirito su Moby Dick e perché sarebbe stato lungo e inopportuno. Quando lei rientrò a consegnare il fiore e la sua risposta Krul tacque per qualche istante, poi assunse un tono altezzoso che gli fece capire che aveva capito chi ci fosse alla porta.

«Molto bene. Può aiutarmi a sistemarmi un minimo? Avrò comunque un aspetto tremendo, ma immagino di non poterci fare nulla.»

Ferid attese qualche altro minuto nel corridoio mentre l’infermiera aiutava Krul a proteggere la propria vanità, poi la signora uscì e l’invitò a entrare. Senza più traccia del terrore che l’aveva tenuto inchiodato fuori dalla porta la superò.

Krul era appoggiata contro una pila di cuscini per stare quasi dritta, ma era leggermente voltata dal lato della sua gamba sana. A parte l’insano pallore sembrava quasi normale e fu un sollievo vederla così. Le sorrise senza parlare e nemmeno lei lo fece, almeno finché non ebbe sistemato sul comodino il vaso di gigli e gerbere e non si fu seduto sulla sedia per i visitatori con la scatola in grembo.

«Come mai non sei in negozio?»

«Non essere sciocca, Principessa. Il negozio può anche restare chiuso qualche giorno.»

Forse intuendo la minaccia velata nel suo tono di voce Krul non insistette su quel punto.

«… Sono contenta di vedere che tu stai bene… cos’è successo dopo? Il ragazzo biondo che mi ha trovata in casa chi era? Ho un sacco di domande e nessuno che sappia rispondere.»

Ferid aveva sperato che le domande sarebbero arrivare una per volta e lasciandogli uno sportivo tempo di decompressione per il suo nervosismo, ma pareva che dovesse guadagnarselo. Con il cuore già pesante davanti al resoconto che avrebbe dovuto farle sfoggiò il miglior sorriso che riuscisse a produrre e picchiettò la scatola.

«Non vorresti prima chiedermi che cosa c’è in questa bella scatola per te?»

«Spero siano dolci, perché il cibo che mi hanno dato qui è disumano.»

«Non sapevo cosa potessi mangiare… ma domani ti porto qualcosa, se mi dici che cosa vuoi. Sarei venuto ieri, ma durante gli orari di visita ero ancora bloccato a fare strani esami all’ospedale di North End per la scientifica e poi alla centrale per rilasciare cento volte la stessa deposizione. Mi hanno lasciato andare solo verso mezzanotte, mi ha detto Crowley com’era andata la tua operazione.»

Krul annuì rigida e guardò la scatola che lui le mise in grembo.

«Su, adesso aprila, lo so che sei sempre curiosa come una scimmietta.»

«Perché ogni volta che mi rivolgi un aggettivo o un nomignolo devi sempre farlo diventare piccolo?»

«Così ti si adatta meglio~»

«Crepa.»

Krul aprì la scatola e la sua aria seccata passò velocemente allo stupore e all’ilarità mentre sollevava la camicia da notte.

«Questo… è un tantino un cambio di registro rispetto a prima.»

«Beh, quando ti ho regalato quella bianca vivevo ancora nell’illusione che sarei potuto anche diventare tuo marito, ma adesso so che sarò sempre tuo padre~ avanti, non è graziosa?»

Ferid prese la camicetta – con le maniche corte e di colore giallo chiaro con una stampa di piccoli gattini tigrati – e gliela appoggiò addosso come a valutare l’effetto o la misura.

«Ti starà una delizia~ vuoi metterla adesso? Quei fogli di carta che danno qui in ospedale sono una cosa tremenda per la pelle delicata, io ne so qualcosa!»

«Non mi cambierò davanti a te.» sbottò lei irritata. «E poi è difficile mettersi o togliersi qualcosa con una flebo nel braccio.»

Lanciò uno sguardo bellicoso al tubicino infilato nell’incavo del gomito e Ferid seguì lo stesso percorso fino alla sacca appesa. Gli ricordava quel triste, spossante periodo passato in gran parte in quello stesso ospedale a prendersi cura di un uomo amabile che andava spegnendosi.

«Ti cambio io.» le disse perdendo ogni artificio nel tono. «So come si cambia qualcuno senza togliere la flebo.»

«Non ti azzardare!»

«Avanti, Krul, non c’è niente che non abbia già visto… il tuo seno non è certo cresciuto.»

«Te le suono

«Pensi davvero di far paura a qualcuno senza tacchi? Avanti, ci vuole un minuto. Fidati.»

Per cedere così in fretta le armi Krul doveva essere davvero infastidita dal ruvido indumento datole dall’ospedale, ma Ferid fu felice che gli permettesse di aiutarla. Non poteva fare a meno di sentirsi in colpa per quello che Robert le aveva fatto.

Come promesso, in meno di un minuto le aveva messo la camicia nuova senza alcun danno al braccio o alla flebo. Riappese la sacca sull’asta mentre Krul lo guardava con sorpresa.

«Sei delicato…»

«Con te lo sono sempre, Principessa.»

«Sembra che tu l’abbia fatto cento volte.»

«Anche più di cento volte, di certo.»

«Non è che facevi l’infermiere prima di lavorare per me, vero?»

«Oh, no, ma…»

Ferid tacque. Non aveva mai raccontato a Krul del suo passato, di come e quando era arrivato in America, del fatto che per un breve tempo era stato alle dipendenze di un’agenzia di escort, né di essere stato sposato. Lei non aveva idea che lui fosse già un vedovo quando l’aveva conosciuto.

«Vuoi ascoltare una lunga storia, Krul?»

«Perché no? Qui in ospedale è la noia la prima causa di morte dei pazienti.»

«Anche se fosse molto lunga, strana e triste?»

«Sembra promettente.»

«Anche se fosse la mia?»

Krul guardò i suoi occhi celesti con un vago stupore per qualche secondo, poi annuì.

Nascondere quello che sono non mi ha mai aiutato. Le persone che più tengono a me sono quelle che sanno tutto… le persone a cui ho dato fiducia mi hanno dato la loro.

Ferid prese un profondo respiro, appoggiò la schiena contro la sedia e iniziò a raccontare una storia: iniziava nella lontana Inghilterra, nella villa di una grande tenuta di campagna, con un bambino piccolo destinato a diventare un giorno il ventesimo visconte di Cosworth.

 

*

 

Crowley, intento a sistemare le cose sulla sua scrivania in un paio di scatoloni, non si rese conto di quanto sgomento serpeggiasse tra i suoi colleghi che l’osservavano parlottando. Restarono per parecchio in quello stato di allerta, finché Harry Gillespie non si presentò in ufficio e si fece portabandiera delle loro preoccupazioni puntando dritto alla scrivania dell’irlandese.

«Crowley, che cosa stai facendo? Non te ne starai andando!»

Crowley stava soppesando un taccuino vecchio e una piccola busta con memo di vari colori pensando a dove metterli e guardò Harry con aria spaesata.

«Oh… buongiorno, Harry.»

«Lasci la squadra omicidi?!»

Gli ci volle qualche istante per capire come mai gli stesse facendo quella domanda, poi scoppiò a ridere.

«Ma che ti salta in testa? Ma figurati!»

«E allora, la scrivania…?»

«Non è niente, sto solo decidendo cosa portare a casa e cosa non mi serve più… metto un po’ d’ordine prima di andarmene. In ferie, Harry. Ferie

«Tu, delle ferie?»

«Me le sono meritate, no?» fece lui sorridendo, e ripose gli oggetti nello scatolone più pieno. «È stato un caso impegnativo, sono successe così tante cose… appena il procuratore mi dirà che non gli serve altro salto su un autobus e vado dai miei parenti in West Virginia.»

«Oh! Che bella cosa, Crowley, fai bene a staccare un po’!»

«Ferid lo sa già?»

Crowley si girò verso De Stasio, seduto alla scrivania dietro la sua, fino a quel momento assorto nel suo cappuccino e pastarella, qualsiasi cosa fosse quel dolce che lui chiamava in quel modo.

«Certo che lo sa. In verità aspettiamo un po’ a partire anche per lui, vuole essere sicuro che il suo capo si rimetta prima di andare via.»

«Cosa? Andate via insieme?!» fece Harry, con un gran sorriso. «Andate dai tuoi parenti insieme?!»

«Già.»

Non provò nemmeno a mascherare l’orgoglio concentrato in quella sillaba: non ci sarebbe mai riuscito.

«Mh, porti Ferid dai tuoi parenti… sei quasi pronto per il matrimonio.»

«Ah, chi lo sa… può darsi!»

«Congratulazioni, Crowley!»

«Harry, ho solo vagamente prospettato l’ipotesi, è un po’ presto per le congratulazioni…»

De Stasio produsse un accenno di risata che di norma usava strategicamente per gli interrogatori.

«Manca solo la proposta. In fondo, vivete già insieme, dormite già insieme e lui decide quello che devi bere e mangiare…»

«Cosa? Ma non è vero.»

«Ma guardati, scusa!» intervenne un altro suo collega, Sutter. «Insomma, tu eri una macchina che andava a cibo ipercalorico e caffè, che cosa diamine stai bevendo da un mese a ora?»

Il quarantenne Sutter indicò la tazza sulla scrivania di Crowley con un gesto melodrammatico del braccio. Lui osservò la sua vecchia tazza con l’etichetta della bustina che penzolava dal manico e sinceramente non comprendeva dove volesse andare a parare.

«È una tisana al mirtillo, perché?»

«Che diamine è, sul serio?»

«Fa molto bene… rallenta l’invecchiamento delle cellule, aiuta contro la ritenzione idrica e soprattutto abbassa la glicemia nel sangue. Visto che mio padre ha il diabete è una cosa che devo controllare.»

Per le facce che vide intorno a sé nell’ufficio si chiese se avesse parlato gaelico senza accorgersene.

«Beh? È vero. Non voglio prendere il diabete e passare i prossimi quarant’anni a farmi iniezioni nella pancia.»

«Ferid è una brava moglie.» sentenziò De Stasio con un brindisi a quest’affermazione con la tazza di cappuccino. «Lunga vita e figli maschi.»

«Per quelli la vedo dura… e poi, io vorrei delle femmine.»

«Davvero? Come mai?» gli domandò Harry quasi deluso. «Pensavo che tutti i padri volessero un maschietto, così gli insegnano lo sport, il loro lavoro, o cose del genere…»

«Se avessi una figlia di sicuro non le impedirei di giocare a rugby, di fare arti marziali o di diventare una poliziotta, se lo volesse.» replicò lui scrollando le spalle. «Semplicemente, mia nipote Desirée è una delle creaturine più tenere che abbia mai visto, quindi se potessi scegliere…»

«Beh, io ti auguro di avere tutto quello che desideri dalla vita! Maschi, femmine, cani, galline!»

Crowley rise a quell’assurdo augurio di Harry. Aveva sempre la grande capacità di farlo ridere, in un modo o nell’altro.

«Galline, hai detto?»

«Beh, sei cresciuto nel West Virginia, pensavo che le galline facessero parte del corredo di nozze!»

«Molto divertente, Harry, ma nel West Virginia il corredo di nozze sono stivali di gomma, un trattore e un minimo di dieci mucche da latte.»

«Sul serio?!»

Rise di nuovo davanti a quell’ingenuità così infantile da risultare tenera. Prima che ci si potesse lanciare in una conferenza istruttiva sugli usi e costumi delle cittadine rurali del West Virginia il sergente Naziri entrò e requisì Harry e Sutter per dare loro delle direttive per un nuovo caso.

Sebbene a Crowley la chiusura del caso del Vampiro potesse sembrare la fine della storia un lavoro come il suo non avrebbe mai avuto fine.

«Quanto starete via dai tuoi?»

Crowley guardò De Stasio, che finita la colazione aveva rimasto solo un goccio di schiuma di cappuccino nel fondo della tazza. Appoggiato al bordo della scrivania, la sua espressione aveva un qualcosa di triste.

«Vedremo se riusciremo a partire prima del Ringraziamento, ma comunque non torneremo prima di gennaio. Perché me lo chiedi?»

«È possibile che io sia già tornato alla mia squadra quando rientrerai.»

Si era quasi dimenticato, in tutto quel caos e quei nuovi felici progetti, che De Stasio non era una presenza fissa e che sarebbe tornato alla narcotici non appena chiuso il caso ed educati a sufficienza i nuovi arrivati. Improvvisamente si sentì perso all’idea di rientrare in centrale e non trovarlo lì. Gli sembrò che gli si annodasse la gola e prese un sorso della sua tisana.

«Immagino che non abbia senso chiederti di restare.»

«No, non ne ha, infatti.»

Il suo tono non era affatto duro, sembrava piuttosto dispiaciuto.

«Qui ti hanno preso tutti in simpatia… Gabe ti ammira molto, e ieri mi ha detto che vuole restare nella omicidi ancora un po’.»

«Lo so. Farò del mio meglio per lasciargli buoni insegnamenti nel tempo in cui rimarrò qui, ma non posso lasciare la narcotici… non finché quel capitolo non sarà finito. Non riesco a cominciare un libro senza finire quello prima, sai.»

«Mi mancherai, De Stasio.»

Lui si sorprese di tanta schiettezza, anche perché Crowley era sempre stato in un certo modo intimidito dal suo mentore. Troppo per mostrargli tanto platealmente le sue emozioni, specie al suo riguardo.

«Sei diventato parecchio diretto, eh?»

«Gli ultimi mesi mi hanno insegnato duramente che non sappiamo mai quante occasioni avremo di dire quello che sentiamo alle persone che ci sono care.»

De Stasio abbassò gli occhi verdi sul fondo di schiuma della sua tazza per poi annuire.

«È vero. È assolutamente vero.»

«Perciò, se davvero te ne andassi mentre sono via, tanto vale che te lo dica adesso… grazie per il tuo aiuto. Averti al mio fianco in questo periodo così difficile è stato di grande conforto e ti sono ancora più grato perché so quanto seriamente prendi il tuo lavoro alla narcotici. Grazie di aver pensato che aiutarmi fosse più importante.»

«Cielo. Mi stai quasi mettendo in imbarazzo.» borbottò lui. «Che cosa credevi che io fossi, scusa? Un automa? Sei pur sempre l’insubordinato moccioso che ho trasformato in un detective… in un ottimo detective. È naturale che tu sia importante.»

Era la prima volta che De Stasio si dimostrava orgoglioso di essere stato il suo primo insegnante sul campo e di certo era la prima volta che Crowley si sentiva elogiare: quando aveva lasciato la narcotici per la omicidi cavalcando l’onda di gloria di un’operazione difficile dall’esito oltremodo positivo De Stasio si era ben guardato dal dirgli qualcosa di personale o dal fargli capire che dopo due anni gomito a gomito avrebbe sentito la sua mancanza. Si era limitato a stringergli la mano e intimargli un “fatti onore” come volesse minacciarlo di non azzardarsi a fare una figuraccia.

«Anche se non partiremo subito, le mie ferie iniziano comunque domani… possiamo salutarci adesso?»

Crowley fissò gli occhi verdi di De Stasio, allungando la mano verso di lui. Lui sembrò sollevato di avviare quella discussione alla fine e fece un sorriso mentre gli dava una vigorosa stretta.

«Beh, stammi bene, Cro…»

Crowley passò il braccio sinistro dietro la sua schiena con la stessa determinazione che ci avrebbe messo se fosse stato un incontro di arti marziali miste e l’obiettivo fosse stata una presa fatale, ma non fece altro che stringere il suo collega un tempo maestro in un abbraccio che sentiva il bisogno di dargli a ogni costo.

Dopo un momento di disagio e un accenno di protesta, De Stasio sospirò e gli diede qualche pacca sulla spalla con la mano libera.

«Sei veramente un bambinone, Crowley. È incredibile che tu sia irlandese, affettuoso come sei.»

«Sono del North End.» disse lui a mo’ di scusa, alludendo alla forte percentuale di etnie italiana e spagnola di quel distretto.

«Okay, okay… adesso basta.» fece poi, liberandosi dall’abbraccio con un certo impaccio. «Io ho da fare, e anche tu… porta via le tue cianfrusaglie, riordina questo porcile di scrivania!»

«Oh, andiamo, porcile è una parola grossa… è solo disordinata, non è sporca.»

«Ci sono aloni di caffè su tutto il tavolo.»

Crowley guardò i due aloni appena accennati sullo spigolo della scrivania, accigliandosi.

«Ce ne sono solo un paio, e poi non sono stato io. Non bevo più il caffè.»

«Pulisci tutto prima di andartene in ferie!»

De Stasio si abbottonò la giacca e prese la tazza vuota prima di infilare la porta per riportare al bar di fronte la preziosa tazza in vetro temperato.

«Sei un burbero, Dante De Stasio!»

Lui non fece cenno d’averlo sentito mentre usciva. Crowley sorrise mentre chiudeva uno dei cartoncini per portarlo via e si premurò di pulire la scrivania con cura prima di salutare tutti i colleghi e il capitano; per ultimo salutò Manny che come sempre era al suo centralino all’ingresso.

Aveva le chiavi in mano, la scatola sul sedile del passeggero e stava per chiudere la portiera quando vide che De Stasio era fermo accanto alla porta del bar di fronte. Non aveva la tazza, quindi l’aveva già riconsegnata, ma continuava ad aspettare lì fuori. Dopo averlo visto salire in macchina si avvicinò lentamente al passaggio pedonale e in un momento favorevole attraversò a passo svelto. Appena prima di entrare Crowley lo vide guardare dalla sua parte attraverso lo specchietto laterale.

Aveva aspettato che lui uscisse prima di rientrare in ufficio, a riprova che trovava detestabili i saluti struggenti… e che avrebbe trovato quel saluto troppo toccante per poter celare del tutto le sue emozioni.

Sì… mi mancherai davvero, Dante De Stasio.

 

*

 

Nelle successive due settimane, nonostante le ferie di Crowley, lui e Ferid si videro molto poco durante il giorno. Il Magick aveva riaperto, anche se solo per tre giorni la settimana, e Ferid passava in ospedale con Krul tutto il tempo che l’orario di lavoro e quello delle visite gli consentissero.

Anche se Crowley non aveva osato accennare neanche una volta un lamento perché comprendeva il senso di colpa del suo fidanzato, fu felice quando il lunedì di due settimane dopo rientrò a casa dal supermercato e lo trovò sul divano con la gatta in braccio.

«Ferid, già a casa?»

«Sì… Krul è stata dimessa stamattina.»

«Oh, una bella notizia! Ora può cavarsela da sola?»

«Camminare le riesce ancora difficile, dovrà usare le stampelle finché non finisce la fisioterapia… ma a casa con lei c’è suo fratello adesso. Starà con lei finché non si riprenderà del tutto, ma starà bene presto, ora che può rimettersi a trafficare con le pozioni e i suoi cristalli.»

«Ha intenzione di curarsi con quelle sue cose da strega?» domandò Crowley incuriosito, posando la spesa sul tavolo. «Ma davvero funzionano?»

«Io non ci credo, ma lei sì, quindi per lei funzioneranno.»

Scrollò le spalle e sistemò rapidamente ciò che andava nel frigorifero.

«Questo significa che possiamo decidere quando partire? La nonna avrebbe avuto piacere di averci a casa per il Ringraziamento, se riuscissimo a trovare un paio di posti sull’autobus di domani faremmo ancora in tempo…»

Ferid non rispose, ma ultimamente succedeva spesso che evitasse di discutere di quel viaggio. Lui aveva attribuito questi silenzi al suo nervosismo e finora non aveva insistito, ma era pronto ad attingere a una lunga serie di argomenti e tattiche che si era minuziosamente preparato per sciogliere tutti i suoi timori.

Solo quando Crowley si avviò verso la camera per prendere la tabella delle corse notò la presenza di una grossa valigia viola vicino alla libreria.

«Oh… hai già fatto la valigia, Ferid? Pensavo fossi nervoso all’idea di andare dai miei e che ti avrei dovuto quasi costringere!»

Purtroppo però l’espressione di Ferid restava piuttosto cupa e intuì che qualcosa non andava. Tornò al divano con una tremenda sensazione addosso.

«Ferid… mi dici che cosa succede?»

«In effetti sto per partire… ma non verrò in West Virginia con te, Crowley. Mi dispiace dirtelo all’ultimo momento.»

La sensazione era quella di sentirsi cadere le viscere per terra e fu così vivida che Crowley si portò la mano sull’addome.

«Spiegati.»

«Non voglio che tu fraintenda, mio caro… tu sei un uomo meraviglioso, nemmeno nei miei sogni più sfrontati avrei mai potuto immaginare di incontrare un uomo con così tante virtù… però, proprio perché tu sei così, io non posso restare lo stesso che sono stato finora.»

La bocca si era fatta asciutta come non bevesse da giorni. Tutti gli spettri della sua mente, tutte le paure che aveva avuto su quanto sarebbe successo quando il caso si fosse chiuso si stavano concretizzando proprio nel momento in cui si era creduto al sicuro.

«Perché non puoi? Io ti amo così come sei.»

«Lo so bene.»

«E allora perché? Ferid, se osi rifilarmi un altro dei tuoi piagnistei su quanto sei indegno di me ti prendo a schiaffi, lo giuro su Dio.»

«Beh, non è un piagnisteo, e non è questo il punto… quello che intendo dire è che non sono degno di me.»

Certo quella risposta lo sorprese. Non seppe che cosa replicare.

«Se un uomo come te mi ama tanto… se così tante persone dai doni meravigliosi, compresa la piccola Samara, vedono in me tanto buono significa che c’è… ma non vivo la vita di un uomo che vale tanto da ricevere tutte le vostre premure e i vostri sentimenti.»

«Che… diavolo vorrebbe dire?»

«Ascoltami senza arrabbiarti, mio caro, e cerca di capirmi, anche soltanto un po’.»

Ferid lasciò scendere la gatta e si alzò in piedi, avvicinandosi a lui. I suoi occhi celesti erano tristi, ma anche insolitamente risoluti.

«Partirò, perché ci sono cose che devo fare… per me. Per sistemare i miei affari, chiudere dei conti, e liberarmi dai pesi che mi sto portando dietro da molto tempo. È una cosa che andava fatta da tempo, e che va fatta ora.»

Crowley temeva il giorno in cui Ferid si sarebbe reso conto di questo. Lui stesso si era reso conto di avere molte questioni da regolare, con i suoi genitori, con Sean, con i suoi parenti O’Brian… ma le sue questioni erano di poco conto, con persone vicine a lui, e con cicatrici molto meno vistose. Temeva che un giorno Ferid avrebbe avuto il coraggio di affrontare i suoi fantasmi e che sarebbe stato abbastanza forte da volerlo fare da solo, ma non si aspettava che sarebbe successo così in fretta.

«Non è giusto… proprio adesso che ci capiamo veramente, che ci rispettiamo… che ci… amiamo… è… proprio necessario che tu vada ora, subito? I tuoi sono morti, non è che tu possa parlarci…»

Ferid gli strinse la mano, ma scosse la testa.

«So che è difficile, Crowley… è difficile anche per me, lo sai? Non ho mai avuto un posto in cui mi sentissi veramente al sicuro, un posto in cui essere me stesso senza condizioni… e quel posto sei tu. Non è tanto facile ora lasciarlo.»

«Non farlo, allora… tuo marito non c’è più, i tuoi genitori nemmeno, e adesso anche Bobby è scomparso… qualsiasi altra cosa non è che polvere, non c’è bisogno che tu vada…»

In realtà Crowley aveva ben poche idee di quali potessero essere le questioni ancora sospese di Ferid, ma in quel momento avrebbe detto qualsiasi sciocchezza pur di non vederlo partire.

«Devo farlo. Non vorrei, ma io devo… non si inizia un nuovo libro senza aver finito quello precedente, per quanto possa essere deludente…» disse Ferid, e gli diede una carezza sul viso. «Mi dispiace, Crowley. Quel mio vecchio libro sta ancora aspettando e nessuno può chiuderlo al posto mio.»

«Invece lascialo lì… non è vero che un libro va sempre finito. Se non ci piace non dovremmo sprecare il tempo.»

«Non vale lo stesso per i libri della vita.»

Purtroppo Crowley lo sapeva. De Stasio era della sua stessa opinione.

E anche lui, preso dal suo vecchio libro, mi vuole abbandonare… non è giusto!

«Tu stai solo scappando… stai di nuovo scappando, perché hai paura di essere felice!»

Ferid sussultò a quello scatto d’ira del quale Crowley si pentì immediatamente. Era disperato, era frustrato, ma non voleva urlargli addosso. Un’immagine irascibile di lui era l’ultima cosa che avrebbe voluto lasciare a Ferid prima di una partenza che ormai sembrava inevitabile.

«Oh, sì… essere felice è qualcosa che non conosco che in minima parte. Ho paura di essere felice per molto tempo, dimenticare cosa significhi provare dolore, e poi vederlo tornare.» ammise Ferid, con l’espressione seria. «Sì, ho paura, ma non è per questo che me ne vado. Devo imparare a vivere da solo.»

«Ancora con queste assurdità?»

«No, intendo dire che devo davvero imparare a vivere da solo… a incoraggiarmi da solo. A sostenermi da solo. Non posso contare soltanto su di te… so che ti prenderesti questo incarico per tutta la vita, ma non è giusto affidarti questa responsabilità.»

Tutta la vita? Oh, sì. Sì che la prenderei per tutta la vita.

Avrebbe voluto dirglielo, ma si trattenne con tanto sforzo da stringere i pugni. Non avrebbe fatto che renderlo più determinato a partire, inseguendo un miraggio di indipendenza. Crowley si rendeva conto che era esattamente ciò di cui quell’uomo speciale aveva bisogno, ma era tremendamente difficile da accettare.

«So che è difficile, e che soffrirai… ma so che capirai… quel giorno sarai felice di avermi lasciato andare.»

Nel silenzio che seguì Ferid gli diede un bacio molto delicato sulle labbra.

«Ho il volo fra poche ore… mi dispiace di avertelo detto così, ma passare altri giorni insieme dopo questa discussione sarebbe stato ancora peggiore…»

Ferid gli strinse la mano con entrambe le sue, poi la lasciò e prese la sua gatta. Anche il suo trasportino era pronto accanto al divano, segno che aveva pensato a tutto. Con la sensazione di essere un sacco svuotato si sedette scomposto sul bracciolo del divano.

Ferid andò alla porta per infilarsi il cappotto. La cascata di capelli argentati che liberò sulla schiena gli riportarono alla mente i ricordi della notte passata, una fantastica notte, che però ora assumeva tutto un altro gusto. Era stato il regalo di commiato, l’ultima bella memoria da lasciare a qualcuno prima di andarsene…

Si portò la mano al petto.

«Hai salvato il mio cuore quel giorno solo per essere tu a farlo a pezzi?»

Ferid si voltò a guardarlo, ma dalla sua espressione dolce e sofferente insieme capì che si aspettava da lui dei commenti aspri, forse anche crudeli, come reazione alle sue decisioni. Questo se possibile fece sentire ancora peggio l’irlandese.

«Perdonami, Crowley… avrei dovuto capire che cosa mi mancava e cosa dovevo fare prima che tu ti innamorassi di me. Ora è più difficile per tutti e due, ma non toglie il fatto che non posso evitarlo. Nessuno di noi due può.»

Si avvicinò a lui e tese le mani, ma Crowley non gliele prese.

«È una prova di fede. Di fede in noi. Di fede in me. Hai fede in me?»

Davanti alla colossale ingiustizia di quella decisione avrebbe voluto sfogarsi dicendogli quanto di peggio gli poteva passare per la mente, per fargli capire anche solo una decima parte del dolore che gli stava arrecando, ma sapeva bene che era sciocco, infantile e crudele.

Fede in quello che c’era tra loro? Fede nelle possibilità di Ferid di scoprirsi l’uomo straordinario che era? Aveva creduto in concetti molto più astratti e in colpi di fortuna assai più improbabili di questi.

«Sì.» rispose allora, in un soffio.

«Allora devi lasciarmi andare. Io tornerò quando sarò pronto… tu puoi aspettarmi, oppure no.»

Questa volta fu la voce di Ferid a mancare per un attimo. Crowley sapeva che cosa stava per dire e gli fu di conforto che lo trovasse così difficile.

«Se… troverai un’altra persona che può riempire il vuoto che ti lascerò con la mia partenza tienila stretta, e lascia che sia così… vuol dire che i nostri destini si dovevano toccare e poi lasciare per proseguire separati.»

«È orribile anche solo che tu lo pensi.»

«Lo hai detto tu, no? Dio voleva che tu mi guarissi e hai fatto la tua parte… il resto, è mia responsabilità. Era inevitabile che se avessi avuto successo nella tua missione io avrei iniziato la mia, ma nessuno di noi due può sapere dove mi porterà.»

Incapace di articolare anche soltanto un altro fonema né di guardarlo, con gli occhi pieni di lacrime che gli offuscavano la vista, Crowley restò silenzioso e immobile.

«Non ti ringrazierò mai a sufficienza per quello che hai fatto per me, Crowley… oh, non piangere, mio caro.»

Quando non poté più evitare di sbattere le palpebre le lacrime scesero e le asciugò subito con il dorso della mano. Prima di allora non gli era mai successo di piangere per la fine di una relazione, ma era anche vero che nessuna relazione era mai diventata tanto importante in così poco tempo.

«Non ho mai detto che questo fosse un addio… anche se dovesse esserci qualcun altro, se non potremo più essere una coppia, resteremo comunque amici, vero? L’hai detto tu che era una bella combinazione. È difficile smettere di essere entrambe le cose.»

Crowley non replicò ma lo strinse tanto forte e improvvisamente da farlo barcollare. Dopo quell’attimo di smarrimento lui lo ricambiò con il suo stesso trasporto e così a lungo che Crowley si convinse che in verità partire per trovare se stesso fosse l’ultima idea che avrebbe voluto assecondare.

Fu quello il momento in cui decise davvero di lasciarlo andare. Fu l’assoluta certezza che Ferid soffrisse della sua decisione, che dentro di sé potesse maledire quella presa di coscienza e che fosse assolutamente certo che quel viaggio fosse un bene per entrambi loro, come coppia, che lo persuase a lasciarlo partire.

«Vuoi che ti accompagni in aeroporto?» gli sussurrò all’orecchio.

Ferid si liberò con delicatezza da quel confortante abbraccio e sorrise. Anche i suoi occhi erano diventati lucidi.

«Prenderò un taxi… devo passare a casa a West End prima di andare in aeroporto.»

«Capisco…»

«Avevo accennato a Mikaela della mia decisione di partire, ma non gli ho detto quando… saluta tu i ragazzi per me.»

Ferid si voltò, prese la sua valigia e la gatta e uscì dall’appartamento. Era evidente che avesse altre mille parole da dirgli, ma se avesse cominciato non sarebbe stato possibile prevedere come sarebbe andata. Richiuse la porta senza che si scambiassero un vero saluto, ma Crowley preferiva il silenzio che l’illusione di un “a presto” e l’orrore di un “addio”.

Si lasciò cadere indietro sul suo divano scomodo con un sospiro gravido di sensazioni, tutte sgradevoli; si passò il braccio sugli occhi e lasciò uscire tutte le lacrime che aveva a stento trattenuto in presenza di un uomo che, allo stato dei fatti, era diventato molto più forte di lui.

 

*

 

«Pensavo di trovarti in negozio.»

«Magari. A casa mi annoio a morte e sono tornata da due ore.»

Ferid tenne aperta la porta mentre Krul ne usciva, ancora goffa nell’uso delle stampelle. A complicare l’operazione ci provò Pandora, che facendo fusa da fuoribordo si strisciò contro la gamba offesa della sua comare umana.

«Dora, togliti di torno, stupida gatta.»

«Non preoccuparti, non mi dà fastidio. Con questi cosi infernali vado talmente piano che non potrei inciampare anche a farlo apposta.»

«Davvero non ti disturba tenerla?»

«No, Pandora è una gatta tranquilla… mi terrà un po’ compagnia, immagino che quello schiavista di Ash mi chiuderà in casa per settimane.»

Ferid non aveva mai visto il giardino sul retro della casa di Krul, ma davvero non era niente di speciale: coltivava anche lì qualche pianta in vaso, c’era un giovane albero di prugno selvatico dalle foglie rossastre e delle pietre di fiume segnavano il cerchio che la ragazza usava per le sue pratiche magiche all’aperto. La vista non era granché, dato che lo steccato era alto e si intravedeva a malapena la casa che dava sulla strada parallela.

«Come mai mi hai portato qui, Krul? In un altro momento avrei creduto volessi farmi secco e seppellirmi in questo minimale fazzoletto di prato, ma non sei nelle condizioni di scavare…»

Fu allora che vide la ragazza avvicinarsi all’albero e notò che alla base del suo tronco c’era una curiosa pietra stretta e alta, piantata nel terreno. La piccola stele non riportava iscrizioni.

«Che cos’è, Principessa?» domandò con la sensazione di saperlo già.

«Una tomba, per così dire. Un ricordo. E una chiusura.»

«Caspita, quanto sei ermetica oggi, piccola.»

Krul non si lamentò del nomignolo e prese un sospiro. Era visibilmente a disagio e Ferid seppe che era arrivato il momento, quello che aveva cercato di cogliere per tutto il tempo in cui erano stati soli in ospedale. Avrebbe preferito evitarle l’imbarazzo e la sofferenza, ma sembrava che non potesse più tenersi quel segreto; ormai già da quando le sue conchiglie le avevano predetto l’infausto accadimento con Robert.

«L’anno scorso… in ottobre, quando…»

«Krul.»

«Lasciami finire, Ferid! Quando mi sono sentita male per quei due giorni, io…»

«Lo so già.»

Ferid non la guardò, puntando gli occhi dritti sulla piccola tomba. Si sentiva il suo sguardo carico di stupore addosso ma non voleva aumentare il suo disagio. Aveva cercato di dirglielo già nella sua cucina, mentre lei si scusava con la disperazione di chi sa di essere agli ultimi istanti, ma non avevano avuto modo di chiarirsi a sufficienza.

«Lo so… so perché sei stata male.»

Lei si morse il labbro nervosamente.

«Mi dispiace, Ferid.»

«Non essere ridicola, non è certo colpa tua se è successo.»

«Volevo dirtelo, alla fine. Era scaduto il tempo, non potevo più farci niente… volevo dirtelo il giorno prima, ma…»

«È stato quando abbiamo litigato… per che cosa, poi?»

«Non me lo ricordo.»

«Già, neanche io… assurdo aver litigato tanto per qualcosa che dopo appena un anno nemmeno ricordiamo, vero?»

Ferid si chinò sulla piccola lapide, osservandola con tanto presunto interesse da sembrare un bambino affascinato da un acquario. Preferiva evitare di guardare Krul; avrebbe fatto qualsiasi idiozia pur di non incrociarle lo sguardo durante quella discussione e darle modo di cogliere anche solo una vaga delusione.

«Ero sconvolta quando l’ho scoperto. I medici da cui sono stata mi hanno sempre detto che sarebbe stato così difficile per me concepire che avrei fatto meglio a non sperarci.» gli confessò lei, che ancora sembrava sorpresa che quella circostanza si fosse verificata. «Non ci volevo nemmeno credere, sono stata in sei diversi consultori prima di convincermene… e poi, tra tanti uomini che potevo anche non rivedere mai più, proprio tu.»

«Perdonami la schiettezza, ma mi sono sempre chiesto come fossi sicura che fossi io.»

«Un dubbio legittimo, non mi offende.» fece lei, tornando al suo tono sbrigativo. «Senza scendere in imbarazzanti dettagli, ti basti sapere che i miei due ragazzi precedenti non avrebbero potuto essere candidati, e dopo… beh… ti avevo scaricato in modo crudele, e non te lo meritavi… il mio modo di chiederti scusa è stato non uscire con nessun altro per un po’ di tempo e darti modo di… guarire, per metterla così.»

«Sai, Principessa… in qualche maniera non avere più questo dubbio mi dà un po’ di sollievo.»

Ma aveva usato le parole sbagliate.

«Ti pesa così tanto?»

«Ah… no, non era quello che intendevo… non c’è niente che non va, davvero… semplicemente è andata così, non c’è motivo di sentirti in colpa. Non è una tua scelta che il tuo corpo non sia ancora capace di procreare… ma se proprio devo recriminare qualcosa…» aggiunse Ferid, decidendosi a guardarla. «Avresti dovuto dirmelo, anche se l’avevi appena perso. Almeno non avresti dovuto rimuginarci su tutta da sola.»

Lei non sembrava affatto convinta e pensò di capire perché avesse messo su quell’aria da bambina capricciosa.

«Krul… non devi fare tutto da sola per forza… tu non sei come me, tu hai forza e testardaggine abbastanza per conquistare il mondo anche da sola, ma lo hai visto che cosa succede a provarci. A tenere il negozio da sola per un lungo periodo, a sopportare i pesi da sola… non è stato terribile?»

«Ah, sì. Lo è stato.» ammise lei mestamente.

«Quindi non farlo più… hai tuo fratello qui con te per un po’. Comincia a condividere con lui i tuoi bisogni. Sono sicuro che gli farà piacere. Ai fratelli fa sempre piacere sentirsi in grado di sostenere e proteggere le sorelle.»

Krul prese a rimuginare su chissà che cosa, ma la sua faccina passò da incerta a irritata fino all’imbarazzo in pochi secondi. Ferid non poté non sorridere, ma all’improvviso ricordò il suo volo e controllò l’orario: era in ritardo sui tempi che aveva stabilito e se avesse trovato traffico sarebbe potuto arrivare troppo tardi per imbarcarsi.

Facendole presente l’orario del suo volo si congedò da Krul e dalla sua affezionata Pandora. Krul gli promise di fargli sapere quando si fosse ristabilita abbastanza da tornare al lavoro e come stesse la gatta; le due erano già insieme sul divano quando lui lasciò la casa.

Non avevo dubbi che si sarebbero trovate bene insieme… sono due piccole, pigre, viziate, adorabili creaturine.

Ora, valigia al seguito, non avrebbe dovuto fare altro – chiamarla impresa facile sarebbe stata ingenuità – che trovare un taxi per raggiungere l’aeroporto a South River. La sua fortuna pregressa in questa specifica operazione tuttavia lo scoraggiava non poco.

Si piazzò sul ciglio della strada e lasciò scorrere lo sguardo sulle automobili per strada, non molte invero, ma il primo taxi che cercò di fermare aveva già un passeggero. Aveva appena sospirato alla sua sfortuna proverbiale che una bella macchina sportiva rossa accostò davanti a lui con un stridio di gomme e il finestrino fumé dal lato del passeggero si abbassò.

«Serve un passaggio, Pepper?»

Basito a rasentare lo shock si chinò appena e incrociò gli occhi verdi di Connor, mentre lui abbassava gli occhiali da sole con le lenti rosse esibendogli il solito conturbante sorriso.

«Connor Maguire, che diavolo ci fai qui?»

«A quanto vedo, il salvatore della provvidenza.» fece lui accennando alla valigia. «Buttala dentro e salta su.»

«Non serve, stavo cercando un taxi.»

«L’hai trovato, ed è anche gratis, meglio di così che altro vorresti?»

Connor gli lanciò un’occhiata maliziosa, sfilando gli occhiali e mordicchiando la stanghetta.

«Potrei avere anche un extra, se dovessi volerlo…»

«Il taxi basterà.»

Ferid spalancò lo sportello posteriore e caricò la valigia, avendo cura che le rotelle non sporcassero i lussuosi interni, e poi salì al posto del passeggero. Connor parve soddisfatto di aver concluso l’affare e si rimise in strada al primo spiraglio nel traffico.

«Dove la porto, signore?»

«Devo andare all’aeroporto Chambers, ma lo riterrò già un grande favore se mi accompagnerai a una stazione di taxi.»

«Non essere ridicolo, ti porto io fino al Chambers.»

«Ti ringrazio molto, Connor, ma è parecchio distante da qui… e tu non abiti a Satbury vicino al porto?»

Approfittando di un incrocio al quale dovettero fermarsi lui posò la mano sul suo ginocchio per un attimo, pur senza guardarlo.

«Per niente al mondo mi perderei un viaggio da solo con te, Pepper… specie se tu lo considererai un favore da restituirmi prima o poi~»

Ferid si preoccupò un po’ per quel favore che gli avrebbe chiesto indietro, ma concluse che quello potesse essere più un tentativo di stuzzicarlo che un monito a tenere a mente un debito.

«Al Chambers, uh…? Stai andando dalla famiglia di Ginger in Carolina?»

«Stanno in West Virginia… ma no.»

«No? E dove te ne vai solo soletto?»

Non ha molto senso nasconderglielo… e poi, lui forse potrebbe aiutarlo…

Ferid fissò il profilo di Connor con intensità inedita.

È l’unico che potrebbe aiutare Crowley in questo distacco doloroso.

«Vedi, Connor, in realtà io e Crowley abbiamo appena preso una… pausa di riflessione, in un certo senso.»

«Oh? Questo mi sorprende. È per il tuo ex, quello che è passato alla pagina più bassa e triste della storia come Vampiro di West End?»

«No, Bobby non c’entra… sono stato io a prendere questa pausa. Che tu mi creda o no, l’ho fatto perché mi serve del tempo e dello spazio per crescere… senza che lui sia sempre dietro di me a proteggermi.»

Con suo stupore Connor annuì con espressione seria.

«Certo che ti credo. Molto ammirevole da parte tua riconoscere la tua immaturità emotiva, trovo davvero commovente che tu voglia crescere invece di aggrapparti a Ginger come l’edera.»

I complimenti e la comprensione di Connor avevano sempre lo strano effetto di rinforzare le convinzioni di Ferid, e lui non sapeva spiegarsi perché la sua opinione gli risultasse tanto importante.

«Quindi dove stai andando a crescere, Pepper?»

«Ah… ecco… sto tornando in Inghilterra… ci sono delle questioni che devo chiudere… cosa farò e dove andrò dopo non lo so ancora. Non ho deciso, ma penso dipenderà dal finale del libro della mia storia inglese.»

«Che metafora soave~ per questo mi piace uscire con gli amanti della letteratura, tirano fuori certe perle che arricchiscono davvero i miei ricordi di loro!» commentò lui con un’aria nostalgica, come se fosse perso nei ricordi di lontane relazioni romantiche. «Beh, ti serve un compagno di viaggio?»

«Ti ho appena detto che vado in Inghilterra, non è proprio dietro l’angolo.»

«Sono un tipo avventuroso… e poi si accompagnano sempre gli amici quando serve.»

«Se la pensi così, occupati di Crowley mentre sono via… ha bisogno di qualcuno come te, adesso. Qualcuno che lo sappia curare con le parole giuste.»

Connor frenò repentinamente, tanto da far bloccare le cinture di sicurezza. Ferid si guardò intorno col cuore in gola per lo spavento, chiedendosi se avesse visto qualche animale in mezzo alla strada, ma non vide nulla. Si accorse che Connor guardava lui con aria sgomenta.

«Da dove ti viene una così alta considerazione della mia persona?»

«Che stai dicendo? Si vede lontano un miglio che sei una persona gentile, nonostante i tuoi orrendi modi di presentarti, di porgere un invito e di toccare le persone.» ribatté Ferid, vagamente seccato. «E di guidare, aggiungerei.»

Connor sembrava aver perso le parole per la prima volta da che lo conosceva. Ripartì con l’aria più austera che gli potesse immaginare.

«Devo fare qualcosa per rimediare a questo tragico malinteso.»

 

*

 

Crowley si era addormentato sul divano e dopo ore era circa nella stessa posizione in cui vi si era sdraiato. La prima serie di colpi sulla porta non la udì, ma la seconda gli fece spalancare gli occhi come un urlo nell’orecchio.

Si issò seduto, trovandosi spaesato nel buio della casa; si alzò a tentoni e aprì la porta senza nemmeno pensare allo spioncino. Era così convinto che si trattasse di Mikaela o di Yuu che non spiccicò una parola quando la luce del pianerottolo gli rivelò la figura di Connor.

«Ehi, Ginger, stavi dormendo?»

«Uhm… in realtà, sì…»

«Saggia mossa, amico mio! Allora, le tue valigie?»

Connor entrò in casa e accese la luce. Crowley, ancora intontito, lo guardò senza neanche rimproverarlo e chiuse la porta.

«Di che valigie parli, Connor…? Cosa fai qui, comunque?»

«Quali valigie, dice! I tuoi parenti ti volevano a casa per il Ringraziamento, vero? Allora partiamo subito, arriveremo comodi comodi domani mattina, così posso conoscere i tuoi familiari prima e fare amicizia.» sentenziò lui, e arrivato in camera aprì la valigia sul letto come fosse casa sua. «Tu prenditi mutande, calzini e spazzolino, i vestiti te li prendo io.»

«Connor. Resettati e spiegami cosa diamine fai qui.»

Connor si piantò le mani sui fianchi con così tanta ostentazione che non gli passò neanche per l’anticamera del cervello che non stesse cercando di fargli notare anche nelle nebbie del risveglio il corpo che gli suscitava sempre tanto desiderio.

«Non è ovvio? Pepper mi ha detto che partiva, quindi ora sei da solo… e a te non fa bene. Io non ho niente da fare e i tuoi aspettavano te e un altro, no? Mi autoinvito.»

Crowley, confuso, scosse la testa e lo bloccò mentre cercava di infilare un paio delle sue scarpe nella valigia.

«Aspetta, aspetta… come fai a saperlo?»

«Te lo racconto strada facendo!»

«E vuoi venire fino in West Virginia con me in macchina solo perché non hai niente da fare?»

«Sai che io preferisco persino dolore e morte alla noia. Nulla mi fa soffrire più della noia.»

Con un sospiro iniziò a raccontare di come i suoi progetti per il Ringraziamento e una settimana bianca in Colorado fossero andati a rotoli improvvisamente, ma Crowley non era né così ingenuo né tanto addormentato da non capire che erano tutte bugie.

Tuttavia dopo la partenza di Ferid e con un lungo periodo di ferie davanti avrebbe di certo sentito la solitudine, specie dopo quell’ultimo periodo di convivenza. Inoltre il suo macinino difficilmente sarebbe arrivato tanto lontano ed era improbabile trovare un posto last-minute proprio alle soglie del Ringraziamento, e se voleva essere con la sua famiglia e i suoi nipotini per le festività non aveva molte opzioni…

Bloccò il polso di Connor mentre riponeva alcuni suoi vestiti.

«Connor, possiamo andarci, ma tu devi promettermi di comportarti nel modo più noioso ti venga in mente quando sei in presenza dei miei parenti.»

Connor lo guardò con quegli occhi verdi così birbanti che temette molto le conseguenze di avergli imposto quella condizione. Lui fece un sorrisetto e gli stampò un bacio sulla bocca.

«Tranquillo, non gli dirò che scopiamo~»

«Quello è il primo dei segreti che devi tenere!»

«Uhm? Pensavo che il primo dei segreti fosse quanto ti piace il nodo scorsoio~»

«Devi tenerli tutti e due!»

«Davvero?» fece lui, con aria preoccupata. «Oh, spero di ricordarmi di mantenere tutti questi segreti…»

«Non raccontare niente che non possa venir detto in un programma televisivo per bambini.»

«Ma io non ho bambini, non so cosa guardano…»

«Se non me lo prometti non vado da nessuna parte.»

Connor fece una risatina e sospirò: lo faceva sempre quando cedeva su qualcosa, e difatti alzò le mani.

«D’accordo, d’accordo. Mi arrendo. Te lo prometto, sarò un noiosissimo bellissimo uomo tuo amico che non ha neanche abbastanza confidenza da entrare in bagno insieme a te.»

«Perfetto. Ricordati bene questo ruolo e non ci scapperà il morto.»

«È chiaro, è chiaro. Farò finta di essere te prima che qualcuno ti svezzasse~»

Crowley gli lanciò un’occhiataccia mentre sceglieva la biancheria da portare.

«Oh, sì, ridi pure… prima o poi troverò chi ha svezzato te e gli farò raccontare tutto, e allora vedremo chi riderà.»

«Sprechi tempo, li ho uccisi apposta perché non potessero mai parlare.»

Scosse la testa e si dedicò a radunare i suoi effetti personali nella valigia, ma non poteva fare a meno di sentirsi malinconico.

A fare le valigie con lui per quel viaggio doveva essere Ferid, era lui quello che a casa sua stavano aspettando. L’idea della loro delusione offuscava la sua felicità di essere a circa nove ore da casa.

 

*

 

Era la prima neve dicembrina quella che cadeva sulla strada mentre Ferid guardava dal finestrino. L’automobile si fermò davanti a un piccolo cottage con il cancello di legno lasciato aperto sul giardino e un gazebo, coperto di neve, grande appena per fare ombra in estate a un tavolino per due.

«È questo, signor Bertrand?»

«Sì, signore.» gli rispose l’uomo sulla sessantina al volante. «Questo è il Marigold Cottage.»

«È sicuro?»

«Lo sono, signore, certamente.»

«Bene.» rispose Ferid, nervosamente. «Allora la ringrazio.»

Ferid prese un profondo respiro di incoraggiamento e aprì lo sportello.

«Signore, volete che vi aspetti?»

«Ah…»

Guardò il cottage con una certa apprensione, ma poi scosse la testa e scese.

«Grazie, non serve… prenda una stanza in paese, alla locanda che abbiamo visto arrivando… la chiamerò lì per aggiornarvi sul da farsi.»

«Farò come volete voi. Buona fortuna, signore.»

Il maggiordomo di casa Cosworth si allontanò a velocità moderata sulla strada imbiancata di neve e Ferid si strinse di più nel cappotto foderato di pelliccia grigia, indugiando sulla casetta.

Aveva un unico piano e una finestrella sul tetto lasciava immaginare l’esistenza di una soffitta. Le tendine ricamate alle finestre, la neve sui bordi dei davanzali e della tettoia e gli scuri marroni contro le pareti giallo crema coronavano l’impressione generale che quella casa fosse un enorme diorama di marzapane e glassa, impreziosito da decorazioni natalizie come la ghirlanda dorata sulla porta.

Le luci dentro la stanza di sinistra erano accese e dal vetro intuì una sagoma nera muoversi.

Indugiare proprio ora non ha alcun senso.

Risalì il corto vialetto e bussò tre volte sulla porta usando il battente, con il cuore che sembrava palpitargli direttamente in gola.

«Mi perdoni, signora…»

«Non fa nulla, Meg, sono già qui.»

La porta gli venne aperta da una signora dall’aria venerabile, con i capelli bianchi raccolti in uno chignon impeccabile, un velo di trucco rosato sulle gote e orecchini di topazio giallo ai lobi. Avvolgendosi il braccio nello scialle di lana trapunto di perle lo guardò con profondi occhi grigi.

«Posso aiutarvi, giovanotto?»

«Buonasera… io… ho l’onore di parlare con la signora Cosworth?»

La signora parve sorpresa, ma si raddrizzò quasi volesse mostrare ancora orgoglio nell’appartenere a una casata ormai decaduta.

«Sì.»

«Lady Nancy Kingston Cosworth?»

«Sì, giovanotto, ma come mai mi cercate?»

L’emozione tolse la voce a Ferid, ma tra quella anche il nervosismo: non era facile come pensava apparire un giorno davanti a un’anziana signora e rivelarle che era quel nipote che non vedeva da quando appena gattonava.

Tuttavia Nancy cambiò espressione, studiando il suo volto con stupore; arrivò addirittura ad accarezzarglielo.

«Santo cielo… sei Ferid, vero? Ferid Bathory…»

«Sì» fu la sola cosa che riuscì a replicare.

«Oh… oh, caro… non posso credere che proprio tu sia qui alla mia porta! Meg, Meg! Svelta, fai il tè e prendi gli scones!» ordinò la signora con urgenza. «Svelta!»

«Sì, signora, sì!»

La signora Meg era una cameriera o governante con tanto di grembiulone, di bassa statura e rotonda, che però zampettò in cucina con un’agilità insospettabile. Nancy afferrò le mani di Ferid come avesse ritrovato il più tenero amore della sua giovinezza e lo invitò a entrare per non indugiare al freddo.

«Eri un bambino che aveva appena imparato a correre l’ultima volta che ti ho visto, mio caro nipote… eri scomparso dal giorno alla notte un giugno di tanto tempo fa e in verità tutti pensavamo fossi morto.»

«No, nonna…»

Che effetto strano gli fece pronunciare quel nome, ma finché fosse vissuto non avrebbe mai dimenticato lo sguardo pieno di amore che quella signora, per lui come sconosciuta, gli rivolse nel sentirsi chiamare in quel modo.

«Siediti vicino alla stufa, Ferid, hai le mani gelate…» disse, e prese a strofinargliele con delicatezza. «Vederti qui, dopo tutto questo tempo… dopo aver perso mio marito, mio fratello, e mio figlio con sua moglie, credevo di essere ormai sola al mondo. Sia ringraziato Iddio per questo miracolo!»

«Nonna… mi dispiace di essere scappato di casa e di non essere mai tornato… di non aver mai provato a scriverti, anche se tu mi scrivevi ogni anno.»

«Avrai avuto le tue ragioni, caro… so bene che la situazione in casa tua era tremenda, e di certo ti sarai arrabbiato perché ti scrivevo un biglietto ma non facevo nulla per te. Avrei io da scusarmi per aver dato retta a mio marito così testardo… ma l’importante è che tu sia vivo, e, cielo, quanto bello sei diventato!»

Ferid sorrise e le fece presente che a parte il differente colore degli occhi si somigliavano. La sua ultima parente in vita passò i venti minuti seguenti a ringraziare il cielo e a bearsi di ogni singolo centimetro del viso che aveva davanti.

Pur pensando che dopo pochi giorni Crowley già gli mancava terribilmente, Ferid non rimpianse la sua scelta e quel viaggio davanti alla felicità di quella donna, e godette senza alcuna remora di ogni goccia di quel profondo e avvolgente amore familiare come una pianta dopo una lunga, lunghissima siccità.

 

*

 

Anche a Eanverness, West Virginia, il primo dicembre nevicava. Crowley risalì le scale di legno cigolanti con una coperta aggiuntiva sotto il braccio, e accennò un saluto con la mano mentre sua cognata Florence – la moglie di suo cugino Nathaniel – lasciava la casa di Gideon e Susan per tornare alla sua fattoria, cinquecento metri più avanti, dopo essere rimasta a parlare con lui per ore dopo la cena. Lei sorrise senza parlare per non rischiare di svegliare qualcuno e uscì richiudendosi la porta alle spalle.

Crowley percorse il corridoio in punta di piedi e raggiunse la stanza in fondo, quella che era sempre stata sua quando viveva dai suoi nonni, e a memoria trovò la lampada sul comodino per accenderla. La camera era rimasta esattamente identica, con le medesime tendine e il letto di ferro che per fortuna era già allora di una misura per adulti. L’unica modifica era stata fatta un giorno prima del Ringraziamento, infilando in un angolo un altro letto.

Crowley sorrise nel vedere Connor che dormiva come un sasso, raggomitolato come un bambino. Aveva voglia di scattargli qualche foto compromettente da usare come arma nel caso gli fosse servito un favore, ma si sforzò di essere superiore a questi bassi mezzi e si limitò a stendere sul suo compagno di viaggio la coperta aggiuntiva. Lui non si mosse né fece alcun verso.

Raggiunto il suo letto si tolse gli scarponi e si cambiò per mettersi a dormire, dato che erano quasi le due di notte, ma quando vide la neve cadere lentamente contro il vetro esitò. Invece di infilarsi subito sotto le coperte recuperò qualcosa da una tasca frontale della valigia e solo dopo si infagottò sotto molteplici strati di coperte fatte a uncinetto da nonna Susan.

Si trattava di un libriccino di poesie che aveva scovato quando era andato a ripescare il rasoio e lo spazzolino da denti che aveva frettolosamente ficcato in quella tasca. Lo aveva trovato la sera dopo il loro arrivo a Eanverness e da allora lo aveva tirato fuori almeno una volta al giorno.

Era l’ultimo messaggio di Ferid lasciatogli evidenziando le due strofe, con una fotografia di un certo professor Trobiano a segnare la pagina, in una tasca che avrebbe controllato solo al momento di partire per il West Virginia. Per farglielo leggere solo quando lui sarebbe già stato lontano.

Ancora una volta trovò le strofe sottolineate di rosso e le rilesse con la medesima emozione della prima volta.

 

“Il vero amore è come una finestra illuminata in una notte buia.

Il vero amore è una quiete accesa

 

Ancora una volta sorrise e la rilesse, mormorando così piano che quasi non la udì lui stesso, e sentì un po’ meno la mancanza di Ferid. Era quasi come averlo vicino quando mormorava piano piano nel sonno.

Ripose il libro nel cassetto del comodino e fece per spegnere la lampada, ma non lo fece. Sorrise, questa volta con una certa malinconia, mentre si girava sul fianco e chiudeva gli occhi.

Non dubitava che un giorno sarebbe successo, ma avrebbe tanto voluto sapere esattamente quando lui e Ferid avrebbero potuto tenere la loro quiete di nuovo accesa.

 

*
*
*

E così, un altro viaggio finisce.
Sì, è vero che Il Vampiro di West End è una storia pensata per essere la prima di tre parti, tutte di per sé autoconclusive, ma al momento solo un primo capitolo della seconda parte è finito. Ci vorrà tempo per il seguito.

Quello che posso dire è che questa storia non sarebbe finita e non sarebbe neanche a metà, probabilmente, se non fosse stato per il lockdown dovuto al Covid: buttai giù il primo capitolo e una traccia della trama nell'agosto 2019, poi ho preso a lavorarci a febbraio 2020. L'ultimo punto è stato scritto il nove agosto dello stesso anno. Senza lockdown non avrei mai avuto tanto tempo per finire tanto in fretta. Che dire? Non tutto il male viene per nuocere, e pare sia vero sebbene ritrito.

Non ho ricevuto molti commenti come un tempo, ma le visualizzazioni sono tante e so che siete un gruppetto nutrito a seguirla, e ringrazio profondamente te che fai parte di questo gruppetto e che hai continuato fino alla fine.
Come ogni volta spero di aver lasciato qualcosa, anche una sola frase, che possa accompagnarti nel tempo.

Come ultima perla, vorrei dirvi che dove vivo io la neve è una rarità che non si vede che per pochi giorni e neanche tutti gli inverni... eppure, proprio oggi che pubblico quest'ultimo capitolo nevica.
Un degno finale.

Arrivederci al prossimo viaggio.

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