radici nella polvere

di An13Uta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1



Che sia discendente del Capitano, dell'eroe di guerra, non vi è dubbio. Ha il suo viso, il suo fisico, il taglio degli occhi, il colore dei capelli, la stazza, lo spirito.

Gli assomiglia in tutto e per tutto, fino alla fine - fino al destino.

Fino alla lotta contro lo stesso nemico.

È morto - morto tempo fa.

Nessuno, al villaggio, si ricorda di averlo mai visto vivere, lì - ma lo hanno visto, visto sì; e tutti annuiscono e concordano, sì, che è tale e quale a lui.


Come il riflesso di uno specchio.


È suo padre: molto probabilmente è suo padre. Lo deve aver avuto avanti negli anni; ma deve essere suo padre. Nessuno lo ha mai visto vivere lì, ma tutti si ricordano sua madre. Povera donna. Povera, povera donna.

Morire così presto, senza vedere neanche i denti del suo bimbo.

Senza vedere il marito ritornare.

Povera, povera donna.


Non è stata sua madre.


Non è chiaro.


Nessuno lo ha visto vivere, al villaggio - ma i suoi uomini, loro sì; e nei loro quaderni scrivono, Il Capitano sogna.


Il Capitano sogna, e quando sogna a volte parla. Si agita appena e a volte mormora. Parla con il suo sposo. Gli dice, sei bellissimo. Gli dice, mi manchi. Chiede del bambino nel suo grembo. Tenta di abbracciarlo. Sogna.


Scrivono anche: Il Capitano ha una moglie. Ha moglie, e tra poco figlio. Le manda lettere veloci, che firma con ogni affetto. La ama. La ama con tutto il cuore. Gli manca.


I soldati parlano alle donne e agli uomini che si prendono cura di loro; e le donne e gli uomini parlano tra loro, e con altri. Il Capitano ha uno sposo. Uno sposo e una sposa. Presto avrà un figlio. Due figli? Solo uno. Chi dei due lo porta? Non è chiaro. Sono due? Sono una persona sola? No; due. Si conosce la moglie; non lo sposo. Com'è fatto? Non è chiaro. Non ne parla. Sogna. Chiedete. È chiesto: non risponde. Chi ha il figlio? Non è chiaro. Dov'è lo sposo? Non è chiaro. Non ne parla. Sogna. Chiedete. È chiesto: non risponde. C'è davvero? È solo un sogno? Non è chiaro.

Sogna e mormora: sei bellissimo.


Il Capitano piange quando il figlio ha tre settimane. La moglie muore quando ha tre mesi. Povero bimbo.


Era incinta? Forse. Non è ricordato. C'era un uomo con lei? Non si sa. Forse si è visto qualcuno entrare. Non è chiaro.


Il Capitano sparisce nel bosco per tre giorni. Torna coperto di terra, con gli occhi arrossati. Sogna. Piange nel sonno.


Muore in battaglia.


Lui è suo figlio.

Quello è certo.

Chi lo ha dato alla luce - non è chiaro.


Ma è suo figlio.


La Foresta è quieta.


Le rovine del tempio gli raccontano di anni passati. Anni e anni. Dicono che il Capitano fosse più di vecchio di quel che sembrava. Che il Capitano sembrasse più vecchio di quello che era. Chissà quante volte avrà visto la facciata del tempio. Ora è solo grigia pietra sbocconcellata dalla vegetazione.

La spada dorme sul suo piedistallo. La Foresta si è allungata - piano, verso l'alto, verso il basso, attorno a sé stessa. Si espande a macchia d'olio, adagio, adagio, e mangia piano ciò che incontra. La spada dorme; muschio si arrampica sul piedistallo.


L'ha mai tenuta in mano, il Capitano? L'ha mai brandita?

Non è chiaro.


Ne accarezza l'impugnatura. La afferra appena - qualcosa, dietro di lui, ne sente lo sguardo sulla schiena, il palmo si chiude attorno al metallo e lo libera dalla roccia mentre si volta fulmineo pronto all'assalto e non c'è. Le sue ginocchia si piegano, le dita si allentano, la spada è pesante, il corpo si abbassa, come fosse un bambino, e guarda con occhi grandi e confusi.


Non ha un viso - o forse sì; ma è tutto così confuso, e non riesce a riconoscerne i tratti.


Gli si avvicina senza paura e allunga la mano: in essa raccoglie la sua guancia, con una tenerezza infinita. La sua bocca si muove con suoni di una lingua che non ha mai sentito prima. Lo chiama per nome, sorridendo con tutto l’amore del mondo, e lo chiama per nome in quella lingua che non conosce. Lo chiama per nome, e lo chiama: Crepuscolo.


Osserva la persona davanti a sé come se fosse immensa. Ha contorni sfocati - per quanto ci provi non riesce a concentrarsi su di essa.


La sua bocca si apre e chiede, in quella lingua che non comprende: Chi sei?


Un altro palmo gli cinge il capo, e due pollici accarezzano le sue guance, soffici, gentili, coperti di vecchi minuscoli solchi lasciati da graffi e cicatrici. Dita scure passano attraverso i suoi capelli biondo sporco, li arricciano, li lisciano, li tengono.

Ha un sorriso dolcissimo.


Io sono Oitesch, dice in quella lingua che non può aver mai conosciuto, E tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo.


Come acqua fredda sulla pelle.

Sbatte le palpebre veloce, più e più volte; barcolla indietro, quasi inciampa nel piedistallo - il braccio si torce per tenere salda la spada.

Non c’è nessuno.

È solo.


Solo.


Il fogliame bisbiglia nelle sue orecchie.

Tutto ciò che mi rimane al mondo.

La spada sfila nel taglio della roccia senza un rumore. Se ne va in fretta.


La Foresta si allunga piano, piano, piano.





(piccola nota - avendo vaghi ricordi del fatto che ogni Zelda sia diviso dagli altri da circa 100 anni, dubito che in realtà il Link di Twilight Princess possa effettivamente essere il figlio dell'Eroe del Tempo. Ho comunque deciso di ignorare questo dettaglio per questa storia, anche perché, alla fine, sempre fanfiction è; e io scrivo anche per sentirmi un po' miyamoto nell'anima ogni tanto.)

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Capitolo 2
*** 2 ***


2



Deve essere oltre le montagne.
 

Dei Goron sono venuti dall'altro lato, negli anni - parlando uno stretto dialetto che non sa di hyliano sulla lingua, con un accento limpido eppure impastato di polvere.

Hanno la pronuncia spezzettata dei vicini di nazione; vendono polvere d'oro. Parlano appena della loro patria.


Quando è menzionata per la prima volta, sente uno strano turbamento.

Una specie di rimescolio nel petto.


Parla piano al Goron che siede vicino a lui, in modo che capisca meglio - chiede notizie della sua casa; le sue mani sono levigate come ciottoli di fiume mentre si aiuta nel suo racconto gesticolando.

Descrive un monte che cade in cristalline gabbie di ghiaccio ogni inverno, e un mare dalle acque tiepide mantenute limpide da correnti meccaniche; parla di una palude le cui fronde piangenti fanno da muri a un palazzo, e di una città che tiene il tempo per il mondo intero. Menziona appena un vecchio canyon che è solo un antico cimitero a cielo aperto.


Ci pensa senza sosta.


Non è mai uscito da Hyrule. Non ha idea di come possa essere il mondo fuori dalle mura della sua culla.


Si chiede come possa essere, quella pianura.

Circondata da un regno acquitrino, un monte d'oro, un oceano sconfinato.

Da un deserto di roccia e ossa dimenticate.


-Conosco una scorciatoia.


Per un secondo sente che il cuore esplodergli nel petto come un pallone colpito in pieno da una freccia.


Enormi occhi arancioni lo fissano, mezzi nascosti dalla corteccia di un albero colossale. Giurerebbe che insieme alla loro vocina sottile ha sentito un soffio di vento glaciale spirare all’altezza del suo orecchio con parole di una lingua che non dovrebbe riuscire a comprendere.


-Conosco una scorciatoia,- ripete il filo di rame che esce da fauci di legno.


Si osservano in silenzio. Ogni fibra del suo corpo è tesa fino a logorarsi. Le foglie stormiscono appena nonostante non ci sia vento.


-Vuoi tornarci, sì?- gli chiede. Non ci è mai stato. -La scorciatoia, c’è ancora. Possiamo andare al Carnevale.

Te lo avevo promesso, la voce inesistente sorride dietro di lui.
 

Una mano sottile che somiglia orribilmente a un rametto secco, sul punto di sbriciolarsi in cenere si allunga verso di lui, chiedendogli in prestito il palmo.


-Possiamo andare al Carnevale insieme,- la vocina insiste senza malizia o inganno. Tende verso di lui, come animata da una qualche speranza.

-Conosco una scorciatoia.


Sente dita che si chiudono amabilmente sulla sua spalla, e altre che premono leggere sulla sua schiena per spingerlo, incoraggiarlo verso il bosco dietro all'albero. Si volta per un secondo solo: nessuno.

La mano tende ancora verso di lui.


-Conosco una scorciatoia.- ripete ancora.


L'aria è immobile.


Le sue dita scivolano nel palmo silvestre lentamente, come quelle di un sonnambulo che inizia appena a svegliarsi.

Due mani minuscole si stringono intorno alla sua con una morsa repentina che non può far male nemmeno ad una mosca e tirano, tirano, tirano, per trascinarlo nell'ombroso verde lussureggiante alle sue spalle.


-Vieni!- dice la voce sottile mentre lo tira, -Vieni!

Vai, dice l'assenza di voce mentre lo spinge, Vai!


Si volta ancora. Non c'è nessuno; non sembra mai esserci nessuno. Lacci di rami insistono, lo fanno inciampare nei suoi piedi per cercare di tenere il passo con loro, lo fanno inciampare nelle radici che si alzano a vedere, i suoi occhi ancora febbricitanti mentre si voltano in continuazione verso la strada che si lascia alle spalle nella speranza di vedere qualcuno, qualcosa.


-Non pensarci.- la vocina di rame mormora acuta come quella di un bambino, e tira, tira, impaziente, e non riesce a capire se ha fatto bene a fidarsi (si è fidato?), se lo stia portando al macello o in paradiso, se una differenza ci sia tra le due destinazioni.

Una brezza gelida corre appena sotto il suo mento con il suono di una risata che non può esistere.

Si volta.

Niente.

Nessuno.

Inciampa in una radice.


-Non pensarci,- lo spiritello insiste, e tira, -Gli alberi bisbigliano: non pensarci.


Non c'è vento; le foglie stormiscono.

La Foresta bisbiglia.

Una voce inesistente ride.

Si volta.

Nessuno.


-Gli alberi bisbigliano. Non pensarci.


Non riesce a smettere di pensarci.


La luce filtra tra foglie e nebbia. Passano un ceppo; riesce a intravedere appena un disegno graffiato su di esso tanto sono veloci. Tira, tira, tira – una radura. Tronchi tagliati che si piegano su sé stessi, divorati da muffe le cui escrescenze sono simili a petali. I loro resti si abbandonano e si mescolano al terreno, diventano la pelle ingorda e instabile di una piccola collina. Un grosso albero lo attende: il tappeto rossastro di un fungo colossale lo invita.

La bambola di legno si infila in un arco a sesto acuto tra le antiche radici – e tira, tira, tira.


-Vieni!


Il buio fagocita la gamba sottile.


-Vieni!


In un attimo il busto sparisce.


-Vieni!


I grossi occhi arancioni mandano un ultimo bagliore.


-Vieni!


La morsa di legno gli abbandona il polso, e si rende conto di essere sull'orlo di un precipizio.


Stivali scalpicciano per fermarsi, un grido muore a metà tra i denti: si aggrappa alla parete di corteccia, occhi blu fissati sul vuoto, un tremore incontenibile scuote le sue falangi.

È completamente solo.


Dov'è? Dov'è finito? Era qui un secondo fa. Dove si è nascosto? Dove potrebbe mai essersi nascosto? Controlla febbrile le pareti: neanche un angolo, una rientranza, un buco. Dov'è? Perché lo ha portato qui? Sente la natura che mormora dietro di sé. Non c'è vento. L'albero scricchiola tutt'attorno a lui. Osa volgere lo sguardo al pozzo senza fine a cui è stato offerto come vittima sacrificale: è nero. Più nero dell'assenza assoluta, completa, di luce.


Non riesce a muoversi.


Un sibilo.

Un filo di rame.


-Vieni.


Non riesce a muoversi.


Dal fondo dell'abisso.

Una voce più sottile della polvere.


-Ti prendo io.


Non riesce a muoversi.

Non riesce a respirare.


Due mani si spandono sulle sue scapole, fredde quanto l'abbraccio di uno spettro vendicativo.

Si gira di scatto, le suole scivolano.


Un sorriso dolcissimo.

Labbra senza contorni si schiudono.

Vai!



Cade.



Non sa più dove sia il suo corpo – lo ha perso nel nero totale. Tiene le gambe strette al petto, il mento nello sterno, le braccia a coprire il cranio. Non c'è vento che lo graffi nella sua rovinosa discesa. Aspetta il rumore sordo di ossa spezzate, il dolore lancinante – prega arrivi, perché lo conosce; e non sentire niente lo spaventerebbe molto, molto di più.

Una mano passa tra i suoi capelli – per un momento è tiepida, e ruvida, e screpolata, e confortante.


Si raffredda fino a cristallizzare le sue ciglia.


Un tonfo ritmico, e uno sciabordio...


A fatica, apre gli occhi.

La mano non è calda né fredda.


La bambola di legno lo fissa con i suoi occhi di ambra.


-Siamo qui.- sussurra.


La sua voce ha le dimensioni di un filo.


Giace illeso su un tappeto di muschio fine; poco lontano, alimentata da un piccolo ruscello artificiale, incanalato in un corridoio chiuso da inferriate, una ruota gira lentamente. Delle scale tradiscono l'esistenza di un piano superiore il cui pavimento è della stessa pietra grigia del soffitto.


Riprende a respirare, piano.


Fuscelli secchi si stringono attorno al suo palmo. Lo aiutano ad alzarsi. Sbatte le palpebre: sul viso di legno ora è stretta una maschera cornuta.


-Vieni.


Lo spiritello lo trascina gentilmente.


Salgono.
 

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Capitolo 3
*** 3 ***


3


Chi li ha fabbricati li deve aver amati.

Precisi organi di metallo e legno hanno scandito con il passaggio di decenni, se non di secoli; ma mani devote li hanno strappati, anno dopo anno, dal cadere in una trascuratezza assassina, per salvare la loro ineguagliabile percussione costante per il piacere della quale il mondo stesso alterna il giorno alla notte.

Un'ascia luminosa spacca il suo occhio in due.

Alza la mano per proteggerlo, e la quieta frescura tra pareti di rocce soccombe.
 

Brulica di vita.

Come un formicaio.

Il rumore lo fa barcollare.

La corrente della folla in pieno lo travolge.


Dozzine di persone urlano, bisbigliano, blaterano, chiacchierano, cantano in una lingua che capisce a malapena. Alcuni uomini portano sulle spalle grosse travi con cui innalzare torri di tessuto colorato gridando più di tutti. Un piccolo stuolo di cani bastardi abbaia incessantemente nel frastuono rincorrendo bambini sfortunati; una specie di sottile tubero antropomorfo strilla (che voglia vendere il mondo alla ragazza che gli passa accanto) mezzo affondato in quello che pare essere un grosso fiore avvizzito.

Si volta per osservare meglio il mare di gente compreso in queste mura – e voltandosi prende coscienza, finalmente, del colossale orologio alle sue spalle, il moto armonico dei cui ingranaggi ha sentito appena prima di uscire dalla porta di legno della torre.

Non vi sono lancette a muoversi, bensì il quadrante stesso gira con scatti sordi e solenni; l'intricato disegno su di esso si inclina senza sbilanciarsi.


Piccole dita si stringono attorno al suo palmo.


Lo tira, lo tira, lo tira – e per la confusione lui si lascia tirare docile tra la gente indaffarata, che somiglia tanto a visi noti nei tratti e nel colore, e registra solo per sbaglio il cenno della guardia al portale.


Passano attraverso l'arco, e qui si bloccano: perché la folla non è diminuita per niente, anzi, e la sua guida di legno ha le unghie conficcate nel suo palmo dal terrore, ed è persa quanto lui.

Le voci salgono, gridano, urlano, chiamano, e la testa gli gira mentre cerca in tutti i modi di ascoltare, di capire ogni singola parola la miriade di voci che gli saltano addosso da ogni direzione.


Non è hyliano quello che parlano – ma ci assomiglia abbastanza; la lingua arriva alle sue orecchie come la parlata di bambini troppo grandi per essere infanti e infanti troppo piccoli per essere bambini, quando nella bocca le parole nuotano molli quanto meduse in un mare di sillabe inventate, perline infilate in una collana senza alcuna logica a dettarne gli accostamenti, e lo sconvolge, lo frastorna, lo colpisce nel vano delle ginocchia per forzarlo a crollare in una nuvola di polvere e sabbia.


Una parola lo riscuote.


Forse perché, nella strada che ora va liberandosi di gran fretta, l'urlo è indirizzato solamente a lui.


Dita silvestri lo stritolano, stivali di stoffa spingono contro il lastricato per scappare dalla traiettoria che intende travolgerli.


Ma rimane fermo, ghermito già dalla fredda solidità di nervi che lo assale quando il panico lo azzanna. Ripete i movimenti ed i pensieri: i piedi si spostano in una posizione solida, le mani pronte a guizzare, alza le braccia per poter afferrare le corna più semplicemente. Stringi forte, ribalta sulla schiena; si spaventerà, ma calmarlo sarà più semplice.



I cavalli non hanno corna.



Abbassa testa e braccia appena in tempo. I suoi palmi si scontrano le spalle della bestia; le sue, ben più piccole, tentano di schizzare fuori dai trapezi (manca il suono schioccante che segna la loro uscita, e a meno che non sia diventato sordo all'improvviso tira un sospiro di sollievo), ma il galoppo si arresta con un nitrito contro un ragazzo contadino che ha passato la sua infanzia a prendere cornate ricurve nello stomaco da capre (che ha provato sulla sua pelle graffiata cose che spera nessun altro abbia dovuto, debba o dovrebbe mai affrontare).


Abbraccia il collo enorme e lo accarezza nello scalpiccio degli zoccoli confusi, mormora scuse e rassicurazioni come fosse la puledra con cui è cresciuto.

Un altro urlo, e si ritira spaventato.

Dietro alla criniera, in piedi sul carro, una ragazza. Inveisce contro di lui: una tra le parole simile gli pare essere 'impazzito'.


Ha i capelli rossi.


Li ha già visti.


Crede.

Non è sicuro.

Così, di fuoco d'arancio – li ha già visti.

Crede.


Lisci, come i suoi – che cadono sulla sua fronte.

Un'aureola dietro a un sorriso dolcissimo.


Non è sicuro.


Un altro insulto mentre lei scende e impreca, controllando le grosse taniche di latte che trasporta – la strada è ancora libera e ramoscelli secchi ancora incastrati nel suo polso lo prendono a forza e lo trascinano in una corsa pazza attraverso una marea bassa di persone che torna ad alzarsi e fuori.


Finalmente, fuori.


La città, così claustrofobica all'interno delle sue due cinta di mura, occupa buona parte della pianura circostante.

Una nuvola d'oro e porpora attrae la sua attenzione.

Lo spiritello, forse sfiancato, non reagisce quando comincia a camminare. Come un pupazzo penzola dalla sua mano contro erba alta in cui si nascondono piccoli e utili tesori. Rinviene quando riconosce l'odore... l'odore di acque che stagnano, ma non abbastanza da rimanere perfettamente immobili.


Una palafitta malmessa si erge sulla sponda. Il legno marcio rimane in piedi grazie alle radici di grossi fiori avvizziti; un'insegna scritta in due alfabeti sbiaditi pende appena.

Deve essere stato un qualche negozio, un'attrazione per visitatori.

Sembra abbandonato.


Gambe di legno si rialzano di scatto mentre gli occhi che le hanno trascinate fino alle sponde della palude spiano incuriositi attraverso le spesse radici degli alberi dalle chiome spioventi.


Si sporge appena, attento perché l'acqua non arrivi a lambirgli gli stivali: è certo di aver scorto, tra il fogliame di tonalità calde, mura altrettanto colorate che penetrano profonde nell'acqua, nella sabbia di limo e fango di cui è fatto lo scialbo fondale.


Dita di rovi afferrano il suo polso.

-No,- scuote la testa di legno, -No. Non di là, no.

Tira.

-Non di là,- insiste, -Non di là, non di là.

Tira più forte.

Lui si impunta, confuso.

Pupille di occhi arancioni tremano.

-Non gli piacciono gli altri.- mormora con un fil di voce.


Non capisce.


Tira ancora, con i calcagni che scavano buche nel terreno appiccicoso.

-Via.- con un fil di voce -Via, via, via.

Trema.


Un suono, un tuono: un roboante concerto di ottoni lignei dietro di loro tradisce e annuncia un arrivo importante (per sbaglio accompagnate da una piccola percussione di ossa silvestri che tremano, tremano contro gambe di carne), e molte lunghe gambe di radici frusciano veloci contro lunghe vesti di foglie e attraverso il fango, per immergersi, sollevarsi sulle acque – ma la musica si arresta con orrende grida furibonde: collari si alzano fremendo minacciosi, occhi di acquosa brace si assottigliano adirati, bocche lunghe e strette come cannucce di cerbottane inalano, si caricano, pronti a sparare, e per un momento solo sente la paura venirgli iniettata in vena dalle unghie grigie che si infilano nel suo polpaccio e allunga il braccio, per coprire il corpicino -

Uno strillo acutissimo; una manica lunga, che sfuma da un rosso intenso al rosa al bianco spuma, si erge da sotto il baldacchino della portantina.


Silenzio.


-Straniero.- comincia.

Parla in hyliano. Lentamente. Scandisce le parole con cura.

-Le. Vostre. Vesti.


La tunica.

Non se la è mai tolta, mai tolta, dopo tutto quello che è passato. È una seconda pelle, ormai – sporca e verde sotto la sua panciera.


-Abbiamo. Ragione. Di. Immaginare. Siano. Ricordo. Di. Un. Vostro. Antenato?

Annuisce piano.

Da sotto petali di foglie appare, una treccia di fogliame che fatica quasi a misurare la sua intera altezza: e se non avesse appresso il suo seguito, se fosse anche a piedi, ugualmente un singolo sguardo alla sua persona sarebbe colpito dalla sua assoluta regalità.

Abbassa la testa e gli occhi. Lei (qualsiasi cosa sia) allunga una mano (le dita sono rami finissimi, con unghie appuntite) verso i suoi indumenti.

-A. Quella. Tunica. La. Nostra. Stirpe. Deve. La. Vita. E. La. Salubrità. Delle. Nostre. Acque.

Tiene la testa bassa.

-I. Nostri. Cugini. Hyliani. Non. Ve. Ne. Hanno. Mai. Parlato?

Scuote la testa.

-Ah. Capisco. Siete. Nato. Troppo. Tardi.

Immagina debba essere così.


Scende dal baldacchino piano: gli offre il polso. Prima che lei possa dire qualcosa, di riflesso, sperando sia la cosa giusta, le fa un baciamano. Il risolino sorpreso che scappa dalla sua bocca non è ostile, né oltraggiato.


-Un. Galantuomo...

Ringrazia le Dee.

-Voi. E. La. Vostra. Progenie. Sarete. Sempre. Benvenuti. Nel. Nostro. Regno.

La ringrazia appena, con un inchino.

Non osa guardare, mentre ritorna sul suo trono ombreggiato, e con un ordine silenzioso riprende la sua processione.


-E. Speriamo.- aggiunge, piano, sibilando, -Che. La. Piaga. Maledetta. Dietro. Le. Vostre. Ginocchia. Sia. Grata. Della. Nostra. Clemenza.


La bambola trema attaccata alle sue gambe.

Non risponde.


La regina sparisce con un fruscio dietro il tanfo inebriante della palude.


I pantaloni si inumidiscono.

Guarda in basso.

Occhi d'ambra piangono resina senza nemmeno un bisbiglio.

Le dita strette attorno a lui tremano ininterrottamente.


Un tonfo lontano, le urla rispettose di quello che sembra un gruppo di scimmie: la porta del palazzo mezzo affondato si apre, e la portatrice della corona è fatta entrare, mentre primati dal pelo ispido e bianco la salutano da rami simili ai suoi regali arti.

È aperta.

Anche per lui.


Un soffio appena sale alle sue orecchie.

Denti di legno riescono a malapena a parlare.

Singhiozza: via.

Trema ancora.


Stacca le manine da bambola dalla sua gamba, tenendo gentilmente i suoi polsi. Si abbassa; copre con il suo corpo la palude. Lo afferra piano, lo tira su. Fa attenzione che la sua testa sia ben appoggiata al suo petto.

Se ne stanno raggomitolati, nel fango, mentre trema.

La percussione delle gambe sottili ha un ritmo senza ritmo.

Trema.

Tira su col naso.

La sua mano è così grande, rispetto alla sua schiena, che a malapena deve muoversi per accarezzarla.

È un bambino.

È solo un bambino.

Lo guarda.

Trema ancora.

È solo un bambino.


-Via.- pigola.


Prova a poggiarlo a terra: le gambe si piegano senza sostenerlo.

Si alza piano, tenendolo al petto.

È solo un bambino.


Vanno.

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Capitolo 4
*** 4 ***


4


La neve è sciolta. È strana, una montagna senza neve. Pare quasi nuda senza la pelliccia gelida in cui si tiene stretta stretta, nascondendovi con un po' di vergogna il naso che cola.

L'aria è fresca, e gli solletica il collo, e le braccia nude.


Un brivido percorre un corpo di legno: dalle sue braccia emerge una breve melodia (a orecchie esperte suonerebbe simile alla musica di una marimba).

Una risatina minuscola.


La bambolina sta meglio.

Se ne felicita.


Il fiume scorre con un gorgoglio sereno. Braccia di legno cinereo si allungano verso il corso d'acqua, come a nuotarvi incontro: lo asseconda, e si siedono assieme sulla sponda.

Ci sono grosse ninfee senza fiore. Attorno ad esse nuotano controcorrente girini e ranocchie – rientranze nella roccia offrono loro un riparo certo.


Un gorgoglio riverbera nella gola di legno, come un gracidio.


Una rana salta su una ninfea e risponde in tono.


Osserva questo strano dialogo: da una parte, un anfibio pacato; dall'altra, una bambola con un viso di avorio cornuto sopra un ghigno troppo largo.

La gola di legno gracida ancora, più volte, in rapida successione, come stesse cercando di intonare una canzone. La ascolta una, due volte; poi, dita alle labbra, fischia quelle che crede siano le note giuste.


La rana canta il secondo verso.


Sobbalza appena la sente; sobbalza ancora quando un'altra rana si unisce al coro, e ancora, e ancora, man mano che le creaturine gracidanti balzano ognuna su una foglia per cantargli contro, con gli stessi movimenti confusi di un cagnetto spaventato davanti a ciò che non conosce. Allunga perfino il naso verso gli animaletti scivolosi con fare guardingo, come per annusarli, per identificarli meglio.

La bambola al suo fianco ride. Il corpicino traballa con ogni sghignazzo: la testa ciondola in ogni lato come quella di un pupazzo a molla.

Mani di legno afferrano una raganella nell'acqua, tirandola fuori. Premono appena sul suo posteriore, senza farle male, e con un guizzo sguscia via dalla presa per tornare nel torrente.


La terra trema.


-Rotolano.- fauci silvestri dicono candidamente.


Guarda indietro. Un vociare confuso arriva da lontano, lontano, oltre il prato ormai sgelato, oltre il grosso chalet da cui vengono i tuoni e i lampi del fabbro al lavoro, ma prima degli isolotti che portano al villaggio di roccia, attutito come fosse dentro la montagna. Sembrano schiamazzi da stadio.

Immagina il premio del vincitore: fosse un boccone prelibato, forse quella polvere fine, tanto preziosa, che vendono oltrepassato il monte.


C'è una grotta oltre il fiume, di fianco alla cascata. La parete è troppo ripida e liscia per arrampicarvisi.

Reclina la testa.

La fissa.

Chissà cosa c'è lassù.


-Hai mai visto il mare?


Si volta. Lo spiritello è in piedi.


-Hai mai visto il mare?- ripete la sua vocina di rame.


Scuote la testa.


-Andiamo a vederlo.- gambe di fuscelli decidono.


Sembrano aver gran fretta di andarsene.

Quelle falangi di dita scheletriche gli afferrano il gomito per tirarlo su a forza. Non si oppone, anzi: si abbandona completamente a braccia senza muscoli, lasciando che si carichino del peso di ossa e carne spessa come un mulo che tenta testardo di spostare con una catena il fondale di un lago. Lo ascolta con un sorriso sornione mentre uffa e sbuffa per smuoverlo, prima trascinandolo, poi spingendolo, con versetti sempre più frustrati – ha fretta, ha fretta, e non sembra starsi divertendo per niente, anzi, da come digrigna i denti e inumidisce le perle d'ambra, ognuna con un rotondo taglio nero di pupilla, nelle cavità del teschio ligneo.

Si lascia vincere: si stira verso il cielo al canto delle rane, e si lascia trainare dalle mani ansiose.


-Vieni,- insistono, -Vieni!


Guarda indietro. La grotta inaccessibile ha un silenzio particolare.


-È morto.- la vocina lo trafigge rapidissima.

E tira.


Cerca i suoi occhi, costernato, cerca una qualche spiegazione; ma la testa lignea è voltata verso la sua meta, nascondendo quella che sarebbe la sua faccia, nascondendo il perché della sua fretta così ansiosa, del suo panico improvviso, del suo desiderio di scappare.


-Vieni!


Il vento gelido preme sulla sua schiena nella forma di una mano.

Un soffio simile a una risata senza voce arriva al suo orecchio.



Il mare è... grande.

Non sarà una gran scoperta, ma è semplicemente così... così immenso.


C'è qualcosa di profondamente diverso tra guardare il lago e guardare il mare. Non lo capisce, ma lo sente.


Le onde si spiaggiano sulla sabbia, e corpuscoli d'oro falso, color della paglia, dopo innumerevoli tentativi trovano il modo di infilarsi nei suoi stivali.

Un altro paio di stivali è abbandonato vicino a lui.

Riesce solo a intravederlo – scorge per un momento piedi da bambola, di legno scarno senza alcun dettaglio – e poi splash, splash, e un gran baccano di schizzi! E la marea riporta il corpo di legno a riva.


La schiena ora bagnata si raddrizza tutta d'un colpo, e mentre tra gli scricchiolii si alza di nuovo si volta verso il volto incorniciato di biondo.


-Guarda!- gli dice come un bambino che chiami il genitore, -Guarda ora!


E le gambe ripartono, rimbalzano sul pelo dell'acqua con l'agilità di ciottoli lanciati, si sbilanciano quando affondano troppo e mandano la maschera senza faccia a schiantarsi sulle onde – che piano, piano, lo riportano indietro. Gorgoglia una risata nella bocca aguzza.


-Hai guardato?- gli chiede: ride ancora quando annuisce.


Palmi silvestri raccolgono un sorso: glielo offre, sperperandolo mentre salta per raggiungergli la bocca. Mani di carne formano una coppa per l'elisir tiepido del mare. Lo porta alle labbra – troppo tardi si accorge di come brucia su di esse, e paga cara la sua ingenuità. Un concerto di ridenti legnetti dispettosi si rotola nella sabbia dall'ilarità mentre cerca di togliersi il sale dalla bocca.

Gli riserva un'occhiataccia, di quelle con cui si fulminano bambini scapestrati, ma lo spiritello è già andato.


-Guarda!- ripete ridendo, -Guarda!- saltellando sulle onde finché non cade.


Lo porta via, l'acqua, su una piattaforma un poco lontana, e il corpicino fa capriole più o meno ben venute. Il largo cappello abbandona la testa tonda, sospinto dalla brezza marina ritorna sulla sabbia; lo afferra e se lo calca sulla testa (e da quando è grosso quasi sembra fatto apposta per lui).

Il teschio di legno si issa sulla piatta isola artificiale e gli soffia contro con un'ira giocosa; lui risponde mostrandogli la lingua. È una lotta senza conflitto.

Il piccolo salta indietro, nell'acqua.


Un'ombra lascia la curiosa palafitta dietro la piattaforma.


Si alza di scatto.


Per un momento, tutto è quieto.


-Hylià?


Non ha neppure visto gli schizzi dell'acqua con il sollevarsi della testa.

Ha gli occhi tanto scuri da apparire neri, le iridi così grandi da non lasciare spazio alla sclera – per un istante solo riconosce le pupille, due spilli minuscoli.


-Hylià?- chiede ancora, mostrando i denti aguzzi da far paura. La sottile cresta semi trasparente sulla sua testa si spiega leggermente.


Annuisce molto lentamente.

Lo Zora (non assomiglia per niente a quelli che conosce se non per dettagli inconfondibili) salta fuori dal mare senza creare neanche un'increspatura; in un secondo gli è davanti. Allunga verso di lui le lunghe mani semi palmate con cui afferra i suoi polsi con entusiasmo, raggi di luce riflessi in grosse forme azzurrine nelle iridi.


-Vedo!- quasi grida con un accento un po' goffo, -Bello, bellissimo – vederti, conoscere, sì? Conoscere dici, sì? Capisci, sì? Non parlo bene...


Gli stringe la mano e la scuote, assolutamente meravigliato, ammaliato, rapito da lui, con un sorriso che va da pinna a pinna (le scaglie della sua mano sono tiepide e umide e lisce, quasi soffici, e sente il viso bruciare come se il sole avesse concentrato tutto il suo calore solo su di lui, e all'improvviso pensa a quanto debba sembrare ridicolo, con un cappello da strega in testa e una tunica sporca sotto una panciera ancora più lurida e una faccia da idiota, e le fiamme si alzano a lambirgli le guance ancora di più) e intontito non può che annuire e annuire con piccoli scatti della testa.


-Ricordi me, sì? Ricordi – ah, no, era... era piccolo piccolo, sì?, piccolo, era...- molla la presa (cerca di farsi riprendere i polsi, ma si blocca, imbarazzato) per modellare una sfera nell'aria, -Novu? Novu, capisci, sì? Piccolo, tondo... capisci, sì? Parola, non so, parola Hylià, non la so... Novu, capisci, sì?


Uovo? Intende uovo?

Annuisce.


-Capisci, sì! Novu, era, sì?, e baba, mio baba, ricordi, sì?, aiuti baba, ricordi, sì? E fai, fai, fai... fai – aspetti, aspetti, parola, parola, quale...


Suo padre?


-Sapelckere!- esclama, -Sapelckere, capisci, sì? Aiuti baba, prendi me e fratelli, sì?, e poi, poi – ricordi, sì? Aiuti, e dopo, quando baba passa, sì?, fai sapelckere, ricordi, sì? Per baba?


È perso.

Completamente perso.

Cerca qualcosa nella viso azzurro, qualcosa che non trova, e si irrigidisce come se gli stesse venendo addosso un toro. Scuote la testa appena; gli occhi scuri si spalancano sorpresi. Per un attimo teme di sprofondare al loro interno.


-Sapelckere,- ripete, e gli prende la mano (è soffice soffice soffice oh Dee è così soffice e calda e bella e lunga oh Dee) e punta con un dito più in là, in un affranto della spiaggia, -Non ricordi? Non ricordi – aiuti baba, non ricordi?


Non lo tira, lo invita: per un attimo guarda indietro, cerca tra le onde un corpo grigio e beige.

La lapide è fatta di pietra e legno. Per un momento pensa sia la lisca di un pesce grosso quanto lui.

Lunghe dita squamate passano sulle costole grigie.


-Tu fai con la chitarra di baba,- prova a spiegare, -Ricordi, sì? Porti a vava chitarra, quando tutto finisce, sì? Per ricordo. E con chitarra fai sapelckere.


Non ricorda.

Perché non lo ha fatto.


La mano che tiene ancora la sua è tiepida e umida e soffice e gli ruba le parole.


-Ricordi, sì?


Boccheggia, annaspa, affoga; alza gli occhi azzurri, colpevole.

Occhi senza sopracciglia si aggrottano rattristati (lo sente come un pugno in pancia), ma si distendono subito: raccoglie nel palmo libero la guancia (soffice umido tiepido squame lisce e brucia brucia brucia la faccia), la tira appena col pollice, la testa sotto i polpastrelli – pupille in mari neri si allargano.

Si volta sulla tomba del padre e dalla bocca esce una qualche esclamazione Zora che suona volgarmente colloquiale. Quando rivolge lo sguardo sul viso rosato ha un sorriso mortificato.


-Colpa mia! Colpa mia, non ricordi, non tu!- si scusa, tenendogli le mani strette per consolarlo, -Non tu – dimentico, non Zora – se aiuti baba quando io era novu, ora vecchio sei! Non tu – perdono, perdono, sbaglio, non vedo Hylià mai – capisci, sì?...


Ride e scuote la testa, facendo ondeggiare la cresta che cade sul lato del viso.


-Perdono, perdono, non tu, io, come dici – scemo! Scemo sono!


Ha una risata che ricorda un mulinello.

Ha un bel suono.

Gli occhi lo scrutano curiosi; sente il viso cuocersi sotto il suo sguardo.


-Ma somigli, sì?- gli dice, -Vava dice come era, e tu come lui sei, come riflesso! Capelli giallo, occhi blu, vestito verde... come riflesso!


Ride ancora un poco, e si scusa ancora. Gli stringe la mano per fargli capire che non è niente: ha un sussulto simile a un piccolo infarto quando gli viene stretta di rimando.


Unghie scavano nella sua gamba.


Lo sguardo magnetico dello Zora blocca ossa di legno zuppe di sale mentre stanno per trascinarlo via a forza. La cresta pende curiosa dalla testa reclinata; sfere d'ambra la fissano, attraversate da brividi.


-Ciao!- dice semplicemente lo Zora.


Da fauci ugualmente aguzze viene un mugugno.


-Amico?- chiede a occhi azzurri.

-Ghe.- risponde per loro una voce appena udibile.

Lo Zora si stupisce.

-Termìni, de?


Una mano di legno si stacca appena dal polpaccio: ondeggia a mezz'aria, per dire: un po' entrambi, un po' nessuno.


-Si macara pulra de. Se fade se?

Non risponde.

Lo Zora ride appena: -Timade, de. Nade?

-Galiga.

-Galighe?

-Vema.- e tirandoli entrambi via dalla lapide prende la rincorsa verso l'acqua: non tenta neanche di prendere terreno, rimbalza solo sulla superficie. Galleggia perfettamente, aperto come una stella.


-Ma ve?- chiede tornato a riva.

-Se va!- ride lo Zora senza malizia.


Qualcosa si rischiara, si illumina, nel volto coperto da un teschio cornuto.



La sera arriva troppo in fretta: le spalle bruciano e si spellano, e arti di legno sono pregni di odore salmastro.


-Per il Carnevale sei qui, sì?- chiedono occhi senza fondo affondati nell'acqua della baia, mentre cerca di scuotersi la sabbia di dosso.


Possiamo andare al Carnevale, aveva sussurrato lo spiritello.

Te lo avevo promesso, aveva ricordato nessuno.

Annuisce.
 

-Hai macara?- la mano palmata si muove come a coprire il viso.

Scuote il capo.


-Ah! Brutta fortuna, a Carnevale senza macara.- commenta lo Zora. Un'idea gli fa alzare la cresta: -Prendo io per te, sì? E do domani di domani, a Carnevale. Vava canta a bar, a Laikmieta – città là, sì? - a Carnevale. Vedi me lì, sì? Se non trovi da solo, do macara io. Se trovi... do uguale. Ricordo mio, sì?

I denti aguzzi brillano di luce morente in un sorriso. Un altro sussulto al petto.

Annuisce timidamente.

Stringe la mano liscia e squamata: l'appuntamento è suggellato.


È notte quando tornano in città.

Non c'è nessuno; la guardia ha un sobbalzo quando li vede avvicinare, ma non si scompone. Fa un cenno col capo. Lo stridio del metallo è attutito dalla totale assenza di altri rumori. Il crepitio delle fiaccole non si sente nemmeno.

Passano attraverso il parco giochi deserto, superano una banca incavata nella torre dell'orologio. La manina lo tira, lo tira, lo tira, fino a sopra una tettoia di legno davanti una pensione, un albergo. Fanno attenzione a non spingere la campana: entrano dalla porta del balcone.

Lo tira, lo tira, lo tira per scendere le scale senza farle scricchiolare, per entrare in un cunicolo usato solo dai dipendenti. Si acquattano contro il muro quando piccoli tacchi danno un ultimo giro di chiavi e salgono, sonnolenti, verso la loro camera; scappano nella cucina quando i passi scompaiono dietro una porta.


C'è ancora qualcuno.


Alza la testa quando li sente arrivare: la volta completamente, per permettere all'unico sano dei due occhi rosso rubino di vederli. Un vago sorriso increspa il pallido volto rugoso.


-È un po' tardi.- dice soltanto. Parla un hyliano un po' vecchio, ma pulito.


La brodaglia nella larga padella non bolle; ravviva appena il fuoco, sovrappensiero, senza crucciarsi degli intrusi.


-Mia nipote dorme un po' troppo profondamente...- continua, -Se usciste alle sette e mezza, non saprebbe neanche che siete stati qui.


Si volge di nuovo verso i due estranei. Abbassa lo sguardo; sorride alla bambola pietrificata, con la manina terrorizzata che stritola dolorosamente un palmo molto più grande.


-Che bella maschera,- commenta.

Non ottiene risposta.


Si appoggia ai suppellettili mentre cerca di uscire dalla cucina. Braccia giovani, di riflesso, vanno a sostenere i suoi passi futuri: ringrazia a bassa voce.

Dita silvestri tirano per scappare.


-Non temere,- rassicura quella voce tanto vecchia, tanto familiare, -Il tuo papà torna tra un momento.


Districa le falangi rosa da quelle cineree. Occhi d'ambra lo fissano claudicare lento, lento, alla porta della camera affianco.

Un dito nodoso bussa. Nessuna risposta. Apre.

Lo accompagna fino al letto; lo aiuta a distendersi, a riprendere fiato.

Ravviva appena il fuoco del camino.


-Grazie ancora...- ansima appena il vecchio. Tra i capelli bianchi ne spiccano ancora alcuni blu, forse violacei.


Gli rivolge uno sguardo strano. Nostalgico.


-Tuo padre, sai...


Si blocca. Ascolta.


-Era solo un bambino... Anni fa, quando stavo per sposarmi... Mi dispiace solo non ci fosse stato... Al nostro matrimonio. Un bravo ragazzo... Dev'essere nel sangue... E ora, dev'essere un vecchietto come me!...- ridacchia appena.

Un colpo di tosse.

Inala profondamente, dalla bocca, come un rantolo concitato: -Non dirglielo... Non dirgli che l'ho riconosciuto, il piccolo... Ha fatto un grosso guaio, tanti grossi guai... Ma era solo un bambino... Era solo un bambino solo. Non ho la forza di odiarlo. È solo un bambino...


Allunga una mano verso il comodino. Abbandona il focolare per precederlo: gli offre la foto su di esso. Lo ringrazia piano.

Guarda la donna nella foto. Le appoggia sopra un bacio.

La adagia di fianco a sé, sul cuscino.


-Grazie ancora.- sussurra.


Il vecchio dli augura la buonanotte; la augura anche alla sua sposa.

Lui chiude la porta piano per non disturbargli il sonno.


Occhi d'ambra lo aspettano davanti alla cucina. Stringono le mani di legno in pugni come se dovessero spezzare le loro stesse ossa.


Il fuoco fornello crepita appena, e qualche pesce nuota nel canaletto.

Lo spiritello gli si acciambella sul petto.

Si addormentano piano.

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Capitolo 5
*** 5 ***


5



La radura è circondata da alberi familiari.

Li ha già visti. Sono quelli della Foresta.

Non sa quale sia quello al centro della radura.

Qualcuno è raggomitolato sotto alle sue fronde.

Lo raggiunge come un fantasma, quasi volando.

È un pupazzo verde, rosa, giallo, grande come un bambino.

Non ha volto.

Giace su un fianco.

Lo volta.

Occhi blu – dello stesso colore dei suoi, dello stesso taglio – lo fissano.

All'improvviso il corpo è molto più grande. All'improvviso è adulto.

Un volto troppo simile al suo lo scruta. Una mano di cicatrici lo accarezza.

Una voce che ha sentito uscire solo da denti senza labbra né lingua.

Sei uguale a lui.

Apre gli occhi.


Non sussulta, non sobbalza, non ansima madido di sudore freddo. Si sveglia: apre gli occhi.

La luce mattutina comincia a entrare dalla finestra.

I tizzoni sono ormai spenti – solo alcuni brillano, rossi di fuoco.

La bambola di legno guaisce, si agita nel sonno, rattrappita in sé stessa; sussurra febbrile parole del luogo. Mormora una ninna nanna nelle sue lunghe orecchie, cullandolo come fosse un bimbo piccolo. Lo adagia sulla panciera, davanti al focolare. Il calore rimasto addolcisce la tensione del brutto sogno.


Silenzioso, si osserva nelle acque instabili del canaletto.

La sua immagine tremola e si distorce.

Per un momento si plasma nel volto che ha sognato.


Come un riflesso.


Aveva questi occhi, il Capitano? Aveva queste guance e queste ciglia? Aveva, nascosto dietro una lunga cicatrice che gli spaccava a metà un occhio, questo strano viso ancora da bambino?


Ma il Capitano, nel suo sogno, gli ha accarezzato lo zigomo con affetto paterno, dicendo: Sei uguale a lui.

A lui.


Infila la mano nell'acqua. È fredda; un pesce scivola tra le sue dita.


A lui.


Le onde tagliano l'immagine del suo viso in più punti; ne annullano i dettagli.

Qualcosa emerge sulla superficie dell'acqua, alle sue spalle.

Non ha dettagli oltre ad un'aureola di bronzo.

Appoggia una guancia al suo braccio.

È freddo.


Gli somigli tanto, sussurra schiudendosi un sorriso dolcissimo.


Si volta.

Non c'è nessuno.

L'acqua è fredda.

Un tonfo viene, regolare, da poco lontano.


Le piastrelle sono appena tiepide; le travi di legni scricchiolano piano. Apre uno spiraglio nella porta prima di entrare nell'androne: il camino è spento; il vecchio dorme con respiri profondi. La richiude senza far rumore.

L'ingresso completamente vuoto della locanda ha un che di sovrannaturale.

L'orologio al muro ruota con un colpo secco ogni minuto.


Lo fissa in silenzio.

Sette e quarantacinque.


Solleva delicatamente lo spiritello da terra, senza spostarlo dalla fascia su cui è adagiato, e se ne va senza un rumore.


Escono dalla porta principale, come è normale che esca chi ha prenotato una stanza d'albergo per una notte; alla luce ancora debole del mattino risponde il fagotto di legnetti nelle sue braccia con un verso particolare, simile a quello di un gatto svegliato da una coccola.

Braccia di rami di betulla si stirano e si chiudono in un abbraccio ai lati del suo collo. La maschera gli preme contro il petto mentre da sotto di essa viene mugugnata un'invettiva sonnolenta al Sole.


Non c'è ancora molta gente.


Cerca di leggere un'insegna vicina. L'alfabeto è abbastanza familiare, simile a quello con cui è cresciuto: a quanto pare un bar è sempre un bar sia ad Hyrule che a... ovunque questo posto sia.


Si vergogna all'improvviso.

Non ha idea di dove si trovi.

Non può chiederlo agli abitanti del posto. Non dopo averci passato un giorno intero. Guarda sotto alla larga falda del cappello di foglia; lo spiritello sta ancora dormendo. Chiederà a lui quando si sveglierà.


Un viso scompare dietro una coppia di lavoratori. Non aveva nemmeno notato che fosse lì finché non lo ha visto svanire.


Una sfera di luce crepuscolare sfuma nel muro illuminato prima che riesca a fissarla nella memoria.


Un piede nudo si mescola con le ombre mattutine in un angolo della strada.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno. È una voce che non esiste.


Dietro ad una guardia, un gioiello d'ambra senza sclera.


Un'altra via.

Ha oltrepassato la prima cinta di mura.

Quando si è mosso?


Una risata senza suono.

Un braccio senza contorni.

Una mano senza sfumature.


Si volta con agitazione febbrile.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno.


Dov'è? Dov'è? Chi parla?

Si fa strada tra la gente che comincia ad affollare la strada lastricata.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno.


Il verde primaverile della pianura lo osserva.

Un tracciato sterrato scricchiola sotto i suoi stivali.

Quando è uscito da Laikmieta?

Visi mostruosamente grotteschi gli mostrano la lingua, fusi per l'eternità a pilastri troppo antichi per avere un'età.

Il cammino verso cui guidano si addentra tra alte pareti di roccia.

Un baluginio lontano.

Come una risata di rame.


Crepuscolo!, lo chiama qualcuno.


È una voce che non esiste.

I suoi piedi si muovono senza che li riesca a controllare.


Mani lignee afferrano molli le sue braccia.

Un calcagno affonda nella sua carne.


Lo spiritello scivola dalla sua presa; punta i piedi nelle sue cosce e si stira proprio come un gatto, tenendosi forte, con uno scoppiettare di ossicini come rametti secchi – pop pop pop pop, uno dietro l'altro.

Denti aguzzi lo salutano con uno sbadiglio mal contenuto sotto un viso d'osso falso. Il corpicino da bambola penzola dall'incavo dei suoi gomiti. Non pesa nulla, e non capisce se sia perché è lui stesso abituato agli sforzi, o se sia perché il guscio di corteccia è vuoto al suo interno.

Sfere d'ambra osservano il mondo attorno a loro.


-Non c'è niente là.- dice piano un filo di rame.

Il suo sguardo torna alla fine del canyon.

Non c'è nulla.

Un braccio senza pelle lo tira.


-Vieni,- lo tira, ma non riesce a staccargli gli occhi azzurri da quella distesa infinita di roccia e polvere e ombre e sabbia in cerca di qualcosa (qualcuno) che non può esistere, -Vieni.


Lo tira, lo trascina a calpestare teneri fili di smeraldo primaverile tutt'attorno la città del tempo.


-Vieni,- lo tira, lo incita, lo trascina, -Vieni.


Si ferma piano, immerso fino ai fianchi in erba alta.

Iridi d'ambra fissano segni sbiaditi su corteccia vecchia.

Occhi azzurri puntano lontano, lontano, verso un cimitero.

Non parlano.


-È bello oggi.- mormora la vocina di rame, sovrappensiero.

Stringe appena la mano di carne.


È bello oggi, commenta la voce inesistente in una lingua incomprensibile.

Il fiato d'aria gelida sul suo collo lo fa rabbrividire.


Visioni effimere macchiano il paesaggio.

Un'aureola di luce morta.

Un corpo scuro, lontano.

Un occhio arancione.

Un sorriso dolcissimo.
 

Crepuscolo!


Corre.


Corre corre corre corre corre corre corre corre senza volerlo, come un pazzo (una mano o invita a correre, una mano senza dettagli, una figura d'ombra).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e sente appena le esplosioni di roditori troppo sorridenti sfiorarlo (denti bianchi senza viso ridono, ridono).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e la terra gli scivola liquida e ruvida sotto le sue suole (abiti di stoffe che non riconosce scappano, saltano).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e a malapena sente la roccia che gli graffia le mani (Crepuscolo!, chiama da sopra la ripida parete, Crepuscolo!).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e l'acqua gelida lo intorpidisce terribilmente (un occhio tondo, un gioiello d'ambra, lo fissa, lo fissa, lo fissa).

Corre corre corre corre corre corre corre corre e sempre davanti a lui corre beffarda una gamba senza dettagli, come quella di una bambola grezza, e una voce che non è mai esistita ride, ride, ride, come se si prendesse gioco di lui mentre se lo trascina dietro nella scalata di roccia infida, liscia, lavorata per anni ed anni dal fiume, e le mani sono sporche di sangue e le unghie graffiate quando scopre di non avere più aria nel petto neanche per trascinarsi solo un po' più avanti sull'altopiano polveroso.


Ansima forte.

La canzone d'un carillon e lo scorrere di un fiume. Alza la testa: quella deve essere la casa più curiosa che abbia mai visto.

Respira.


Crepuscolo!


Un'ombra.

Un'ombra soltanto.

Dietro l'angolo della casa.

La sua mano sporge, si aggrappa al muro.

Una sfera d'ambra sul nero più puro – pezzi di tramonto come aureola.


Crepuscolo!, chiama, e per un momento lo vede sorridergli.


Per un momento, riesce a vedergli il viso.


Per un momento, ride.


Corre.


Si trascina sulle quattro zampe, schiuma alla bocca, madido di sudore, disperato disperato disperato, verso quella risata che non può aver mai sentito eppure gli sembra così familiare, e più si avvicina più quel viso che scorgeva così lontano sorride e sorride e sorride fino a diventare un ghigno e le mani artigli e poi via! Sparito! Sparito! Via! Dov'è? Dov'è? Lo chiama per nome, lontano, (Crepuscolo!), oltre l'acqua che guada senza pensare, stremato, e quella cosa, quell'ombra salta e scappa e ride con una voce di fil di rame e lo chiama, lo chiama! (Crepuscolo!) E si beffa di lui che corre e graffia il terreno quanto ne viene graffiato! E cerca di urlare, urlare, fermo, cerca di urlare, fermo, fermo, fermo, cerca di urlare, fermo, e la sola risposta al suo rantolare senza parole è quella risata lontana e sottile e quel nome che chiama, quel nome in una lingua incomprensibile (Crepuscolo!) con cui lo guida verso di sé senza mai permettergli di avvicinarsi, e gli sorride, gli sorride dolcissimo, con una dolcezza che gli sembra così maledettamente sprezzante, così irrisoria – e si allunga verso quel sorriso, si allunga, cercando di alzarsi in piedi e fallendo dalla fatica, dalla stanchezza, tentando di sputare dalle labbra anche solo una singola parola, fermo, fermo! La mano scivola nel vuoto, il petto si sbilancia, e la pietra si scontra contro pelle e ossa e muscoli.
 

Alza gli occhi.

Un vacuo grido senza suono risponde al suo sguardo con le sue vuote orbite di roccia e pietra.

Fissa le piattaforme che lo dividono dalla grottesca entrata.

Ascolta.

Silenzio.

Non c'è anima viva.


Urla.


Urla come un folle.


Urla, piangendo a dirotto.


Urla fino a raschiarsi la gola.


Urla nel nulla; il nulla non risponde.


Urla dopo che la voce gli si è ormai consumata.


Urla.


Sussulti di singhiozzi lo scuotono disperatamente.

Perché? Perché piangere ora? Dopo tutto quello che ha passato, perché ora?


Urla.


Si tiene stretta la pancia come un bambino a cui faccia male.


Urla.


Quando non riesce più a urlare, piange.

Piange.


Si accorge tardi del fruscio che arriva al suo fianco. Riesce a malapena a voltare il volto ancora coperto di lacrime che scendono, ancora ansante nel tentativo di riprendere fiato.

L'uomo gli sorride.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.


-Qualcosa non va.


Non è una domanda.

Tira su col naso.


L'uomo aiuta a rialzarsi senza dire null'altro. Sporca le vesti viola purpuree di sangue; l'uomo sorride senza mostrare i denti, calmando le sue scuse gracchiate con gesti rassicuranti. Lo porta via da quella torre maledetta, liberata, illuminata.

Siedono lontano dal tempio, in una specie di accampamento. L'uomo lo fa scivolare sul suo grosso zaino vuoto. Gli offre qualcosa; forse una specie di tè. È freddo, ma non aspro. Le mani gli tremano attorno alla tazza. Si rannicchia in sé stesso. Ha i piedi umidi di graffi.


Beve in silenzio.


-Se posso...- la voce dell'uomo è strana. Parla bene; ma c'è qualcosa che non va. -Perché sei qui?


Cerca nei polmoni i rimasugli di una frase, di una risposta.

-Carnevale.- riesce a tossire.


L'uomo sorride.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.


-Il Carnevale è laggiù, nella pianura.- dice semplicemente. -Perché sei qui, in queste terre desolate?


Non capisce quanti anni possa avere.

Cerca di buttar giù saliva.

La gola fa male.


-Cerco.- soffia.


-Cosa cerchi?


-Chi.- corregge. Porta una mano al collo – lo sente bruciare, lacerare. La tazza nelle sue mani è riempita di nuovo.


-Chi cerchi?- l'uomo sorride.


Non lo sa.

Non lo sa.

Non lo sa.

… e tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo.


-Oitesch.


Silenzio.

Il vento non soffia più.

L'uomo lo osserva attraverso i suoi occhi stretti.


-Ah.- mormora.


Lo conosce?

Lo conosce.

Alza gli occhi azzurri verso di lui.

Non deve aprir bocca perché l'uomo senta la sua domanda.


Parla lentamente.


-Temo che la risposta che posso offrirti non migliorerà il tuo umore.


-Non importa,- gracida graffiando la gola con la sua voce. Sente le linee del pianto scricchiolargli sulle guance.


L'uomo lo fissa a lungo.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.


-Nessuno.- risponde piano, sorridendo.


Non parlano.

La polvere del canyon spira attorno a loro.

Un'ombra passa sul viso appuntito.


-La persona che cerchi non esiste più.- l'uomo sorride senza mostrare i denti. -Non era che un bambino solo e rancoroso, abbandonato a sé stesso, succube di forze che non poteva comprendere. Non gli fu concesso di crescere.


Non esiste più.

Non esiste più.

Non può essere vero.

Non esiste più.


Come può non esistere più?


Non gli fu concesso di crescere.


-Quando?- gracchia.


Non può essere stato molto tempo fa – non è vecchio, non è vecchio per niente, non può avere così tanti anni, no? - non può essere stato così tanto tempo fa. Forse se ne è andato da qui, ancora bambino, forse è sparito così; forse non è cresciuto lì, forse è scappato, e ha vissuto più di quanto l'uomo crede di sapere. Forse è scappato attraverso i boschi così lontani, e ha incontrato in qualche modo il Capitano. Non può essere stato così tanto tempo fa.


L'uomo, piano, piano, sorride.

Ha qualcosa di strano nei tratti del viso.

Non risponde.


Come in un numero di magia, appare una lunga fila di maschere – scivolano fuori dal suo palmo vuoto simili a carte su un tavolo un po' malmesso.


-È malasorte partecipare al Carnevale senza avere una maschera.- l'uomo devia sapientemente il discorso.


Gliele indica con un singolo gesto, come un venditore esperto.


-Scegli quella che preferisci.


Esita: non ha rupie. Non sa neppure se le rupie valgano qualcosa, qui.


L'uomo ridacchia.

Ha qualcosa di strano nella sua voce.


-Pagherai un'altra volta,- l'uomo sorride, -Se ci vedremo ancora.


Osserva le maschere. Sembrano troppo per una singola persona.

Allunga e ritrae la mano senza toccarne neanche una.

Sono di stoffa, di legno, di metallo, forse di carta ispessita; una persino pare essere fatta di vetro, un'altra ha incastonate gemme preziose. Molte nascondono completamente il volto, ma vi è un certo numero che arrivano solo a coprire fino al naso. Alcune rassomigliano, macabre, a maschere funerarie, altre a musi animali.

Sono troppe.

Non sa scegliere.


Le dita gli cadono su una vecchia, vecchia maschera, un po' tonda, graffiata dal vento e con la pittura sbiadita. Non è sicuro a cosa debba somigliare – forse l'età ne ha cancellato i dettagli. Non è della miglior fattura.


La afferra con premura.


-Ah... La maschera della bambola.- sorride l'uomo.

Ha qualcosa di strano nella sua voce.


-In tempi andati, gli abitanti di Ikana usavano dipingerne il volto secondo il gusto dei figli.


Ne accarezza la superficie con il pollice.

È ruvida.


-Dimmi...


Non è dipinta.

Apparteneva ad un orfano?


-Non hai dimenticato qualcosa nella pianura?


Scatta in piedi all'improvviso, scivola sulla nuda roccia. I piedi sono nudi – deve aver pero gli stivali, eppure non se ne è nemmeno accorto.


L'uomo ridacchia.

Ha qualcosa di strano nella sua voce.


Si volta, lo cerca con lo sguardo. Sparito.


Stringe la maschera nella mano – la bambola, la bambola, la bambola!

Quando ha abbandonato la sua mano di legno, quando ha smesso di tenerla? La ha trascinata nella sua corsa disperata? No, la ha lasciata gettandosi alla folle ricerca dell'ombra di un dolcissimo sorriso – la ha lasciata, abbandonata nell'erba alta, e le ombre del pomeriggio si allungano ormai verso quelle più nere della sera.


Corre ancora, cercando di riconoscere la via da cui è venuto nel paesaggio vuoto e arido, e nella sua ricerca le gambe doloranti ignorano rovi spinosi mentre vi si avviluppano attorno, tirando, tirando, tirando, famelici e rancorosi e aspri, trappole di lignee unghie affilate che lacerano le carni fino a farlo cadere, quasi a mischiarlo nella polvere – e vede un diavolo, un diavolo, un fantasma, uno spettro maligno, viso di osso a nascondere grigio di Luna dagli occhi infuocati, strabici, a nascondere una bocca spalancata di denti mal messi e mal fatti, a presagire dita folli e sanguinarie come frecce conficcate con astio nella pelle, ad accompagnare MAI PIÙ, MAI PIÙ,MAI PIÙ, gridato con tutta l'aria di un corpo vuoto, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ, con odio che rassomiglia tanto al pianto di un cucciolo lasciato cadere nelle fauci del mondo, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ, sanguinando resina dagli occhi come lacrime tradite e traumatizzate, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ, mentre braccia colpevoli, braccia redente, braccia di viva carne che ulula di dolore cercano di offrire scuse, di offrire conforto, di offrire promesse, MAI PIÙ, MAI PIÙ, MAI PIÙ.
 

L'aria che gli soffia contro, ansante dal tanto urlare, è fredda come quella che esca da un morto.

Si fissano, piano, senza dire nulla.


Un tremito improvviso.


Pupille nere nell'ambra riconoscono dove affondano le loro piccole falangi.

Piangono.


Piangono in fretta lacrime tonde, grosse, lacrimone da bambino, estraendo le dita tremanti dalle ferite per raccogliere le gocce dagli occhi, e prima che la sua voce riesca a uscirgli dalle labbra i piccoli palmi le spalmano febbricitanti sui graffi – il sottile filo di rame sibila senza posa qualcosa mentre piange, mentre si affretta tremolante a mettere tutto a posto, e ansima, ansima, rantola, senza lasciargli un momento per chiedere scusa, per dare una carezza, e rantola e piange e singhiozza e promette, promette piano, non lo faccio più, terrorizzato, non lo faccio più, non lo faccio più, non lo faccio più... Non lo faccio più, non lo faccio più, come un bambino, come un bambino che non vuole essere punito... Non lo faccio più, come un bambino che non vuole essere chiuso nello scantinato... Non lo faccio più...


La resina si rafferma veloce, gli inzacchererà la tunica contro cui lo tiene stretto: è un sacrificio che può sopportare.

Lo tiene stretto al petto mentre ansima forte e piange.


Sussurra nelle orecchie cineree: non lo faccio più.


Il corpicino si blocca: gli occhi d'ambra lacrimano senza una parola. Abbraccia piano la sua schiena ampia.


Non lo faccio più.



Le ombre della sera scivolano in quelle della notte.




(mmmm. non sono molto soddisfatta di questo capitolo.)

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Capitolo 6
*** 6 ***


6




Una canzone senza musica.

Da dove arriva?

Apre gli occhi a fatica, le palpebre ancora impastate di sonno.


Una canzone senza musica.

Il braccio gli fa male. La terra su cui è sdraiato è secca, screpolata, come labbra desiderose d'acqua.

Si alza a fatica, indolenzito.


Una canzone senza musica.

È una canzone soldatesca, allegria ripetuta a passo sostenuto per non piangere (non è di quelle felicemente sconce - e meno male, perché seppure un contadino e praticamente adulto lui comunque un ragazzo è, o almeno così si sente, e certe cose non ha proprio voglia di sentirle), e si avvicina.

Ascolta immerso nel dormiveglia, incapace di capire cosa gli sembri così strano.


Una canzone senza musica.

I soldati cantano in una lingua estinta.

Ascolta.


Estinta.


Gli occhi azzurri si risvegliano con ricordi di mostri senza pelle lucidi e limpidi nella pupilla, la mano va a scuotere il corpicino di bambola acciambellato al suo fianco.

Alza solo un po' di polvere.


Dov'è?


Urla raccapriccianti si levano dalla terra poco lontana: bende emergono dal pozzo insieme ai corpi consunti che nascondono, accompagnate da corvi che beccano la stoffa avvizzita e quasi putrescente; fantasmi e spiriti appaiono nella notte, chi con lanterne, chi ardente di fiamme infernali accese dentro la forma spettrale, e strillano, stridono assordanti verso la canzone morta che sale dallo strapiombo del fiumiciattolo.

Ed ecco i soldati, vede mentre cerca con lo sguardo un'arma, un nascondiglio, soprattutto la sua piccola guida tra i lumicini di spettri (possibile che nemmeno uno sia lambito da una luce azzurrina?) - eccoli che arrivano: scheletri! Nulla di più! Zampe affilate che scavano appigli per scalare la parete di roccia, capitanati da un colosso dalla voce potente, alto la metà della scarpata che risale! E a precederlo un altro spirito, un fantasma che dirige la melodia, a cui vola incontro un'altra apparizione, tanto simile eppure diversa, come fossero fratelli!

Fraterno è il loro abbraccio, e fraterne saranno le parole che si staranno scambiando e che lui non può udire.


Un corpo senza pelle o muscoli si stacca dal plotone - corre con gran fracasso d'ossa ad afferrare il corpo fasciato che gli viene incontro con passo lento e instabile, e si afferrano in un modo che farebbe intenerire se ancora qualcosa di vivo avessero...

Una porta si apre dalle case abbandonate: un'ombra vestita ne esce, e chiama un nome; e altre ombre appaiono, e chiamano, gridano, esultano, in una lingua che appassì senza lasciare che un seme germogliato troppo lontano dalle materne radici; e altri scheletri abbandonano la vita di sacrificio e sangue che li ha condotti alla morte per tornare a famiglie ormai sepolte anch'esse; e il mondo intero in questa landa desolata acclama, Keeta! Keeta! Keeta!, alzando le mani al gigante d'avorio, coprendolo di gloria riconoscente - e i suoi enormi artigli si congiungono alla fronte mentre si abbassa, si abbassa, giace inchinato a terra, e forse nelle sue orbite vuote ha una qualche lacrima rimasta, e mormora qualcosa che nessuno sente.

E salgono, salgono, salgono dalla terra, morti risorgono a riportare vita passata nel loro villaggio marcente.


Non dovrebbe essere qui.


I redivivi odiano invasioni di cuori pulsanti nelle loro terre; se non trova una qualche arma, ragiona nella freddezza del suo panico, subirà l'iniziazione al freddo rito della morte.

Non ha nulla nelle mani; e indietreggia, tenendo d'occhio le carcasse rianimate, in un vicolo cieco, nella speranza di nascondersi.


La parete che colpisce con la schiena gli solletica il collo, soffice. Si volta di scatto: un bagliore di giallo accecante, interrotto solo da sottili pennellate nere.

Folte code lo ghermiscono prima che riesca a muoversi. Una zampa (sulla pelle è velluto senza artigli) gli raggiunge il viso: il movimento è tanto fluido da non permettergli neanche di pensare di reagire.

Legno ruvido gli graffia gentile il volto mentre ne prende il posto. Dalle orbite della maschera fissa gli occhi confusi su quelli stretti, strettissimi della volpe a tre code.


La volpe sorride.

(Scorge per un momento i denti.)

(Gli sembrano troppo dritti.)

Ha qualcosa di strano nei tratti del muso.


Un fruscio di code, come una carezza beffarda, e la linea sinuosa del colore di un lampo sparisce tra ombre viventi sempre più numerose.


Qualcosa di freddo nel petto.

Una mano lo trapassa.

Lo spettro avanza senza badargli, come se non gli avesse fluttuato attraverso.

Un cadavere che perde bende lo ignora per raggiungere la folla.


Sente la testa come un pallone gonfio d'aria.


Una canzone senza musica.


Oh Sera, cantano mille voci in una lingua morta, Porta al macello questo vecchio anno stanco: con esso banchetteremo fino all'arrivo di quello nuovo.


Un disco largo, arancione come il sangue d'un albero.

Il punto al suo centro è una pupilla o una testa?


Con la maschera vecchia e scarna calata, stretta sul volto, si addentra nella foresta di redivivi.


Fa un sibilo quieto e schioccante verso la terra mentre la melodia antica sale, sale – è il sibilo dei gatti sconosciuti, quella specie di baciare che li incuriosisce abbastanza da farli avvicinare – mentre i soldati si mettono a danzare dando affondi al terreno come stessero combattendo, unendo le percussioni dei loro sottili tamburi d'avorio ai cori spettrali.

Fa un sibilo quieto e schioccante, il sibilo dei gatti, nella speranza che la sua piccola guida dalle orbite color tramonto lo senta, che lo raggiunga – deve essere la sua piccola guida quella sfera arancione che ha scorto e che ora è scomparsa, deve essere la sua piccola guida...

Attorno a lui il gelo ha presagi di festa.


Le ombre lo urtano, quasi lo calpestano, e parlando in nella lingua tanto vecchia che non dovrebbe riuscire a capire c'è chi lo insulta e chi lo spintona, chi gli premura di guardare dove mette i piedi, e un occhio d'ambra in una cornice di osso di legno accucciato tra gambe che cadono a pezzi.

Lo insegue a pancia rasente la terra, come un lupo.


Non è un viso con corna di legno che gli si para davanti, ma ossa vere, vere e vecchie, vecchie come la polvere sotto i suoi stivali, vecchie e grosse come monti infiniti, e scivola per non scontrarsi con la mandibola a terra.

Orbite vuote in cui brucia ardita un'anima da capitano lo osservano sorprese.

Lo sorregge con il grosso artiglio, apre la bocca aguzza che sembra ricoprirsi all'improvviso di un viso vero, come fosse una maschera.


Piccolo, tuona gentilmente, con una voce che viene dal fondo delle costole vuote e non ha idea di come possa capire la sua lingua defunta se non l'ha mai neppure sentita nominare, Dove sono i tuoi genitori?


Vorrebbe saperlo anche lui.


Dita come il ghiaccio si chiudono sulla sua spalla.


È voltato di scatto, trascinato via nelle danze ormai aperte – una mano d'ombra, ombra di cannella, e se gira appena la testa vede anche un braccio e una spalla e l'inizio forse di una faccia – e via, si ritrova a girare come una trottola, come un manichino colpito troppo forte, e incespica nei calcagni e cade e non cade, una mano lo tiene, un piede mezzo nudo si scontra con il suo per bloccare la sua caduta, e mentre non riesce a vederlo quel palmo sconosciuto lo tira su, e ride (l'ha già sentita questa risata, l'ha già sentita, nella Foresta, e nella sua corsa, o almeno è simile) e lo tira su, scattando alle sue spalle senza farsi mai vedere; e intanto le canzoni sono cambiate, e spiriti e mostri e cadaveri e ombre ora portano i loro vecchi abbandonati sorrisi, vividi e vivi, di pelle, quasi umani, come maschere, e se il suo naso non è influenzato dal suo stomaco riesce quasi ad annusare qualcosa nell'aria gelida, un sentore di cibi che non conosce, di bevande che non ha mai assaggiato; e ancora tra i travestimenti di maschere non ne trova uno di avorio ligneo, o un paio di sfere d'ambra scintillante nel buio; e intanto viene fatto ballare dal suo cavaliere troppo timido per farsi vedere, che a giudicare dalle sue risate si sta divertendo come un pazzo, come un pazzo.

I danzatori!, sente gridare, I danzatori reali!; e da lontano arrivano cadaveri secchi ed essiccati anch'essi, le crude ed anonime maschere funerarie sostituite dai volti che avevano accompagnato le loro mosse in tempi andati, e le loro movenze si uniscono alla folla, ricavano al suo interno un palco acclamato a gran voce, e ballano, ballano, ballano! Un'eternità di morte molle e quasi immobile passata finalmente, ballano! Ballano!

(Spia occhi brillanti, lucignoli maligni sulle più alte sporgenze del canyon, che osservano intensamente nel buio senza muoversi, forse timidi, forse estranei, nemici al rito che chiama a danzare un anno buono.)

E viene fatto girare, girare, girare, girare da palmi gelidi, ancora, ancora, ancora, nel frastuono di odori e suoni e movimenti, finché non ne ha abbastanza: punta i talloni nella terra, scrolla le spalle, alza le braccia per afferrare le corna che gli vengono incontro.


Occhi tondi, grandi, arancioni lo fissano.


Lo fissano dalle orbite di una maschera di finto osso.


Un'aureola di rame aperta come la coda di un pavone dietro ad essa.


È leggermente più alto di lui.


Si fissano.

Immobili nel roteare attorno a loro.


Domande.

Domande vorticano con la sabbia disturbata dai balli.


Sei tu?, pensa; non riesce ad aprire la bocca.

Il suo sposo?, pensa; non riesce a muovere la lingua.

Sei tu?, pensa; non riesce a spingere l'aria nella gola.


Oitesch?


Alza un braccio di nebbia nera e compatta; con fare teatrale si inchina, si inchina, si inchina, piega la gamba fino a giacere quasi a terra.

Il teschio ligneo si inclina appena: lo osserva, come ad invitarlo.


Con un movimento ben più goffo tenta di imitare la sua discesa fino a terra.


La mano d'ombra si allunga sotto il suo mento (la pelle attorno alle unghie è ruvida) e spingendo da sotto lo fa rialzare.

Lo osserva con gli occhi perfettamente tondi nelle loro orbite (non hanno sclera, sono solo iride e pupilla). Hanno un colore familiare.


E poi lo afferra – ha i palmi freddi, poi caldi, poi gelidi, ha i palmi di carne e di nulla e di nebbia e per un momento gli sembrano fatti di un legno strano che lo ha già tirato – e lo tira, lo tira, lo tira! Rientrano nelle danze sfrenate, e questa volta il volto di osso non lascia la sua visuale un istante, e ballano maschera a maschera. Segue i suoi passi come riesce; quando sbaglia una risata senza voce lascia le sue orecchie libere dalla derisione, e gli insegna come fare le mosse giuste. La musica cambia, gli odori cambiano, le danze cambiano – e prima di ogni canzone c'è un coro unanime che invoca la sera in quella lingua morta, che le offre un sacrificio di giorni per un calendario nuovo.


Silenzio!

Tutto è fermo.


Il re!, annuncia qualcuno da lontano, lontanissimo: da oltre le mura di un palazzo. Il re!, annuncia qualcuno, Il re Luna!


Le danze sono interrotte definitivamente: spettri e cadaveri con maschere vive accorrono verso un palanchino che si intravede all'orizzonte.


Il suo cavaliere lo ferma prima che possa partire anche lui: ripete il lungo inchino fino a terra – eppure non sembra così basso, ora, o sbaglia? La maschera di finto avorio raggiunge il suo viso senza neanche ergersi in piedi.

La mano d'ombra screpolata e segnata come corteccia d'albero scivola sotto la maschera della bambola, gli ghermisce appena il naso come per fingere d'averlo rubato: sotto i denti di finto avorio emerge un sorriso dolcissimo.

Lo afferra da sotto le braccia e lo solleva. Lo solleva! Si avvinghia al suo collo di riflesso, guarda confuso il terreno: è tanto lontano...

Le braccia d'ombra lo prendono in braccio, lo stringono al panciotto marrone, unica cosa a nasconderne il petto. Aggiustano la presa per non farlo cadere, e via! Le gambe di nebbia corrono come il vento nei loro pantaloni larghi.

Si tiene stretto, stretto, non per paura – in qualche modo sa che non lo lascerà; si tiene stretto, stretto, perché i bambini a volte traducono l'adrenalina in abbracci forti abbastanza da spaccare ossa.


Il re!, acclamano le folle, Il re Luna!


Siede sul suo trono trasportato, affiancato da guardie sulla cui maschera di pelle ne siede una seconda, simile a quella dei piccoli di un'aquila.

Siede con la corona fissa sulla sommità del capo, sopra sbuffi di capelli.

Sul viso che gli copre le ossa porta l'immagine della Luna, della Luna piena, la Luna che si avvicina sempre di più alla sommità del cielo.


Il re!, acclamano le folle, Il re Luna!


Dalle braccia di nebbia lui osserva, la bocca aperta appena. Non ha mai visto un re così vicino.

Con un tintinnio d'osso il re si alza.

Nessuno fiata.


Oh Notte, canta il re, con la voce profonda come il centro della terra. A te abbiamo immolato questo anno stanco: portaci dalle sue ceneri quello nuovo!


Silenzio.

Silenzio di tomba.

La Luna raggiunge l'apice del firmamento.

Lontano, nella pianura, esplodono fuochi d'artificio.


Oh Notte!, si alzano le voci dimenticate di un regno maledetto tre volte, Beviamo ora al tuo dono; a te sarà sacrificato ancora, in onore della Luna!


Una voce inesistente si alza più alta ancora mentre la musica ritorna, mentre il re torna a sedersi, mentre le festività vengono riprese. Canta: canta più forte di qualsiasi cosa a orecchie sorde al suo suono.

Sente la canzone riverberagli addosso attraverso il petto di nulla.


Al sicuro nelle braccia di bruma balla ancora, ancora, ancora, finché il cielo non comincia a confondersi con il giallo ocra del canyon – e un giallo più intenso, una saetta, sguscia silenzioso tra le rocce – e la testa comincia a girare, girare, girare. Stringe il collo tra le braccia (le dita sfilano nell'aureola d'ambra: è fatta di ricci, ricci arrotolati stretti, soffici, densi, ed hanno una luce soffusa come raggi attraverso resina indurita), appoggia la testa al petto di polvere, di nebbia, di ombra.

Lotta contro la chiusura delle palpebre.

Una voce inesistente ride appena della sua stanchezza. Scivolano via; il caos della celebrazione comincia a svanire sottoterra nel giallo dell'alba insieme ai corpi non-vivi a cui è ancorato.


Oh Giorno, canta ancora la canzone in lingua morta, A te offriamo questo anno nuovo; con te lo cresceremo, sotto lo sguardo della Luna.


Adagiato sul corpo di nulla combatte con un sonno da bambino.

Una risata gentile, senza voce, mentre la forma di bruma si sdraia a terra.

Quelle dita screpolate, ruvide, tanto simili alla corteccia, accarezzano e giocano con i suoi capelli. Labbra che non vede gli baciano la fronte.


Allunga una mano: gli sembra pesantissima.


A tentoni cerca il mondo sotto la maschera di finto legno, il mondo ruvido coperto di segni e polvere; sente sotto i polpastrelli il contorno di due labbra...


Alza a fatica il capo. Guarda negli occhi arancioni. Alza l'avorio di legno.




Apre gli occhi.

La bambola gli dorme accanto.


Li chiude.

La luce è troppo forte.


Li riapre, coprendoli appena con la mano. È giorno inoltrato.

Ha i muscoli indolenziti e i piedi gli fanno terribilmente male.


Alza la falda del cappello di foglia.

Manine grige se lo calcano più giù. Quando ritenta protestano con un mugugno.


Punzecchia il corpicino una, due, tre volte prima che la testa si alzi e dentini aguzzi impastati di sonno tentino di dargli un morso. Dita scheletriche si aggrappano a lui, si stiracchiano con uno scricchiolio e uno sbadiglio mentre si stropiccia gli occhi.

Ridacchia divertito: è proprio un bambino.


Grossi occhi d'ambra lo guardano per un attimo. Spostano l'attenzione sulle sue suole nude, coperte di graffi: piangono ancora, grosse lacrime tonde, e i piccoli palmi si affrettano a spalmarle sulle piante ancora un po' sanguinanti.


Tenta di flettere il braccio: un largo bracciale d'ambra blocca il movimento.

Piega il gomito fulmineo: il bicipite manda in pezzi la resina.

Occhi tondi spalancati di sorpresa fissano il muscolo.

Lo fissano per un po'.

Fa un fischio: lo sguardo d'ambra si rialza.

Solleva le sopracciglia biondo sporco, come a chiedere cosa non vada.

Il viso sotto la maschera si interessa improvvisamente all'interno del suo grosso cappello. Un braccio secco vi si infila: come nel trucco di un mago esperto, ne trae un paio di stivali troppo grossi per sé,


-Li hanno trovati le bambole.- sussurra il filo di rame.


Se li infila. Il ricordo di unghie di legno che si infilano nelle carni di un lupo gli bloccano la bocca in un sorriso amaro.

Si alzano. Mani piccole stringono le sue.


-Ti porto io.- assicurano, -Ti porto io. Tieni forte...


Un giro: il fiume scorre al suo fianco, ma sono sotto all'altopiano.

Si volta, confuso. Ricordi di sparizioni improvvise: è così che faceva?


-Ti porto io, ti porto io – tieni forte...


Un giro: sono fuori dal canyon.

Colonne grottesche li salutano.

Dalle mura della città vengono rumori di festa.


Un ruggito.


Gli viene dallo stomaco.


Quando ha mangiato?


Dee. È imbarazzante.


La manina ride.


-Vieni!- dice tirandolo, eccitata: -Vieni, hanno, hanno – hanno il pesce fritto, e il pane con il latte, e sciroppo di pesca, e polpette con il miele, e poi qualcos'altro che non ricordo, ma è buono – vieni!


Infila la maschera della bambola mentre entrano nella cinta di mura.


La confusione della strada stracolma ha un che di entusiasta, di ilare. Ovunque si volti c'è un'aria di festa: musiche, grida gioiose, corse di bambini, . Solo il suo palmo è stretto forte da dita tremanti, spaventate dalla moltitudine del tutto sebbene tentino di forzarsi a camminarvi attraverso. Afferra il corpicino gentilmente, se lo issa sulle spalle; continua a tenergli la mano fino a che il tremore non comincia a quietarsi.

Un odore, un odore dolce nelle narici della maschera, di miele sul fuoco... Un uomo gli chiede qualcosa. Siede dietro un piccolo banco con davanti a sé una serie di sferette caramellate d'oro e ancora tiepide.

Si è fatto portare fin qui dal naso...


Dita sottili come ramoscelli si allungano verso il cuoco e si espandono: dieci! L'ometto li prende e li infila in un sacchetto: dice il prezzo mentre glielo offre; lui non lo capisce. Le dita di fuscello frugano all'interno del cappello di foglia, lo salvano con una rupia viola, tirano al suo scalpo per andare via. Fa un cenno di ringraziamento con la testa al venditore sbigottito prima di immergersi nell'agitazione vivace della folla.


Passa la prima polpetta allo spiritello, in segno di riconoscenza. La seconda gli sparisce in bocca, il miele indurito sotto i denti fa crack!, e sarà perché ha fame ma gli sembra troppo deliziosa per durare solo un morso.


Si guarda attorno mentre mangia la seconda, lasciandosi trasportare dal flusso umano. Passa attraverso un arco, arriva nel centro della città: la torre dell'orologio è la maestosa scenografia per uno spettacolo circense sospeso tra alte torri di tessuti colorati.


-Hylià!


Mani di legno gli fanno voltare il capo: sorridendo e sventolando la mano come una bandiera, la metà inferiore del volto nascosta in un cappuccio di porpora e una specie di lungo becco d'oro issato sul capo, lo Zora che gli aveva dato appuntamento corre verso di lui.


-Hylià!- chiama ancora, e la vista dei suoi denti tanto aguzzi gli fa sobbalzare il petto e bruciare la faccia, -Ricordi me, sì?


Annuisce, grato alla maschera che copre il suo rossore.

Lo spiritello saluta con la mano. Lo Zora gli dice qualcosa: annuisce.


-Trovi macara!- punta il dito semi palmato al rozzo viso di legno. Annuisce di nuovo. -Bene, bene! Anche io trovo, per te, come ricordo, sì? Aspetta, aspetta...


Dalla bisaccia sfila orgoglioso la metà di un magnifico muso, legno colorato di platino e d'oro, una cicatrice intagliata attraverso l'occhio destro, completamente nero, mentre il sinistro ha un'iride rossa.


Un magnifico muso di lupo.



Ironia del destino.



-Ti piace?


Annuisce piano. Poi più velocemente, per non dare l'impressione che non sia così: perché davvero gli piace, davvero.

Il sorriso aguzzo gli fa perdere un battito.


-Bene! Oh bene, bene – felice sono! Trovo ieri – venditore strano era, con una, una...- la mano squamata aleggia davanti al viso dello Zora, -Keaton carà, faccia da Keaton, capisci, sì? Come volpe, sì? Dice, se porti a Hylià non faccio pagare – tipo strano, strano, era. Felice sono, che ti piace!


Mentre gli parla mani di legno hanno girato la maschera della bambola in modo che copra i capelli biondo sporco, alzando il nastro che la stringe al capo sulla fronte rosata, e hanno cercato di afferrare l'effige di legno ferino: gliel'ha porta sovrappensiero, troppo occupato ad osservare il volto marino, e gli è stata calata sugli occhi dalle sottili dita grigie.

Lo Zora ride.


-Stai bene!


Le guance gli prendono fuoco.

Guarda le mani mezze vuote: delle polpette al miele ne è rimasta solo una.

Gliela offre quasi con forza, guardando in basso.

Una risata come un mulinello.


-Grazie,- sussurra attraverso i denti aguzzi prima di dare un morso.


Non si guardano. Lo Zora deve aver alzato il bavero del cappuccio.


-Comu pa ta iara.- interviene a rompere l'imbarazzo un filo di rame.


Occhi senza fondo si spalancano allibiti.


-Pa ta iara?- ripete lo Zora.

-Pa ta iara.- ripete lo spiritello.

-Pa ta iara?- ripete lo Zora, guardando questa volta in occhi azzurri, -Tutto ieri non mangi?


Ritira la testa nelle spalle; annuisce imbarazzato.


-Ah! Illegale!


Un palmo di squame tiepide e soffici e morbide e gli ha preso la mano gli ha preso la mano gliela sta tenendo oh Dee oh Dee oh Dee prega oh Nayru onnipotente raffreddami il viso prima che mi bruci completamente oh Dee oh Dee la sua mano gli sta tenendo la mano oh Dee gli sta tenendo la mano e intanto gli dice qualcosa che ha a che fare col pesce e che paga lui e che possono tornare a vedere lo spettacolo dopo e oh Dee gli sta tenendo la mano gli sta tenendo la mano per davvero e la testa gli gira e si rende conto che ha smesso di respirare da un po' e dovrebbe riprendere prima o poi e non ci riesce perché gli sta tenendo la mano e non gli ha neppure chiesto come si chiama e non si è neppure presentato e gli sta tenendo la mano – e braccia di rami gli abbracciano la testa.


-È bello oggi.- mormora la vocina di rame.


In qualche modo, lo calma.

Inala.

Esala.

Stringe appena le squame azzurre.


Dividono il fritto di mare in tre, ed è assolutamente delizioso.


Il tempo passa in fretta quando ci si sveglia dopo le cinque del pomeriggio.


Il declino del pomeriggio verso la notte lo saluta con l'ultimo inchino dopo l'ultimo numero della troupe circense mentre termina il suo spettacolo tra applausi fragorosi, ed è come una rivelazione il realizzare che è stato seduto qui per quasi tre ore, a mangiare con le mani pesce fritto, senza capire una parola di quello che fino ad ora ha gridato il capobanda.

Ha le dita coperte d'olio.

E dentini di legno che le morsicchiano sovrappensiero.

Meno male che non fanno saliva.


Lo Zora si alza – dalla borsa prende una bottiglia piena d'acqua che versa culle mani di tutti e tre, per lavarle almeno un po'. Alza lo sguardo completamente nero verso il grande quadrante dell'orologio: stanno scoccando le nove meno un quarto.


-Vava suona!- esclama. Gli prende la mano (si concentra sul sollievo di averla pulita per non rientrare in quel tunnel di imbarazzo senza fiato) e lo tira, lo solleva quasi di peso: -Dico due giorni fa, sì?, vava suona! Al bar, sì?


Afferra la mano di legno che si allunga per non essere lasciata indietro, se la porta in braccio con il resto del corpicino attaccato ad essa.


La porta del bar è pesante e riccamente intarsiata. C'è già un discreto numero di persone che vociferano, chi in piedi, chi seduto: riconosce forse una decina di Goron, e alcuni degli strani abitanti delle paludi. Ci sono anche diversi Zora. Ognuno ha in viso una maschera.

Su un palco sul fondo alcune persone stanno portando e preparando un paio di strumenti particolarmente grossi, un insieme di tamburi e una tastiera di pianoforte senza pianoforte. Un vecchio Zora sta lavorando su una chitarra dalla forma strana. Alza lo sguardo nascosto da due pinne che gli cadono proprio sugli occhi: saluta con un sorriso nella loro direzione. Il suo gentile accompagnatore alza la cresta semitrasparente e sventola la mano per salutarlo di rimando.


Unghie grige lacerano la tunica verde.

Lo spiritello sta tremando.


-Tu siedi, sì? Io dico una cosa e torno, sì?


Annuisce. Lo Zora gli sorride, e scompare nel mare di folla.

Cerca di attutire il tintinnio di ossa lignee accarezzandone la schiena.

Ci riesce solo per metà.


Trovano un posto a sedere, lontano dal palco.

Lo Zora ritorna quando un grosso, grasso pesce prende parola tra l'entusiasmo generale per annunciare qualcosa.


-Ora suonano,- traduce sommariamente il ragazzo marino prendendo posto affianco a lui, -Ora arrivano e suonano – vava con la voce, e zii attorno e Lulu,- (per un momento dita di rami si stringono forte con un brivido) -Lulu, mia sorella, lei suona la chitarra!


Passano ancora alcuni minuti. Uno scroscio di applausi: i musicisti prendono poto, una figura un poco anziana emerge sul palco, coperta in un lungo abito indaco. Fa un inchino, ringrazia.

Un arpeggio vocale.

Il locale si silenzia.


Canta. Canta, e il resto del gruppo segue in tono.

È una ballata bellissima.


La ascolta rapito. Appena si accorge quando cambia la melodia e passano alla prossima, e a quella dopo, e a quella dopo ancora.


Nelle sue braccia il corpicino di bambola si è finalmente calmato.


Lo Zora dietro la tastiera si stiracchia come un vecchietto che si lamenti della propria schiena: fanno una pausa. Se guarda l'orologio scopre che è già passata un'ora.


Ora la folla si divide in due: un folto gruppo si accalca sotto il palco, schiamazza per ottenere l'attenzione dei loro idoli; uno egualmente folto si sparge invece sul bancone e inizia ad ordinare, come se non avesse aspettato altro. Alcuni preferiscono uscire un momento. Scorge la chitarrista prendere dal vecchio Zora ai tamburi qualcosa, un berretto bianco e nero.


-Ti piace?- chiede il sorriso aguzzo di fianco a lui. Durante il concerto ha appoggiato il becco dorato sul tavolo.

Annuisce entusiasticamente, più volte.

-Ghe,- mormora anche la testa di bambola nelle sue braccia.


Si ricorda ora che ha ancora pezzi d'ambra avviluppati al bicipite.

Lo contrae un momento, senza pensarci. L'arancione prezioso si spezza.

Lo Zora sgrana gli occhi; la cresta gli si rizza in testa. Sembra aver smesso di respirare. E sta diventando sempre più grigio. Come se arrossisse.


-Sotu du.- dice candidamente il viso sotto la maschera di teschio.

-Sotu du.- annuisce l'altro con un fil di voce.


Occhi azzurri saltano tra loro due, confusi.


-Sei molto forte.- ripete in hyliano la bambolina.


Lo Zora si abbassa la cresta con le mani. È molto, molto, molto imbarazzato.


Lulu, la chitarrista, si fa strada fino a loro. Sorride: in mano ha due bicchieri e una bottiglia piena di quello che sembra latte.

Suo fratello la chiama a gran voce, la ringrazia battendo le mani. Tenta di afferrare la bottiglia; lei respinge il sangue del suo sangue, abbassando sul tavolo solo i bicchieri, e si focalizza su di lui.


-Hylià sei, no?- chiede con lo stesso strano accento forte che devono avere gli Zora oceanici.

Annuisce.

-E un nome hai, no?- e mentre lo domanda ha un ghigno divertito, come stesse prendendo in giro qualcuno.


Quel qualcuno è suo fratello, a giudicare da come la spinge via mentre lei ride, il viso di un grigio ancora più intenso, e intanto le dice qualcosa che lui non capisce. Lei gli risponde a tono, e si mettono a litigare nel modo in cui due fratelli fanno quando si mettono a darsi fastidio apposta, e lo Zora sembra assolutamente sul punto di essiccarsi in una pallina minuscola (lo sa perché Ilia era maestra nel torturarlo in quel modo, e se da una parte prova pena per il poverino, dall'altra vuole ridacchiare almeno un po').


-Lade mu!- la riprende il vecchio Zora alla tastiera, -Ce trafanto tu.

-Trafanto de pa!- gli urla dietro lo Zora, e la sua voce racconta della sofferenza immane data dall'imbarazzo di parenti.


Il palco si scuote con grasse risate.

Lulu poggia la bottiglia sul tavolo e scappa sghignazzando. Una mano rosata va a dare pacche incoraggianti sulla spalla squamata dello Zora che, accucciato a terra, si copre il viso bollente.


-Perdono,- guaisce il poverino, -Perdono, stupidi sono! Stupidi!


Lo tira su dal pavimento, trattenendo a stento un paio di risate.

Una volta ripresosi dalla tremenda esperienza familiare, riesce a stappare con le lunghe dita semi palmate la bottiglia.


-È latte speciale,- spiega mentre lo versa nei bicchieri, -Chateau Romani. Fa solo la fattoria vicino qui. Vuoi anche tu? Poco?


Offre il suo bicchiere alla bocca carica di denti aguzzi. Ne prende un sorso: gli occhi arancioni si chiudono subito, e con lunghi brividi la schiena lignea si inarca; la bocca sotto la maschera di finto avorio si strizza in una smorfia simile a quella di chi abbia addentato un limone.


Lo Zora ridacchia, con la sua voce di mulinello.

-Forte, de?


Una lingua di legno fa capolino dall'assenza di labbra.

Beve anche lui un sorso cauto, vedendo la reazione della bambolina. Si ricrede immediatamente, perché è buono! È buonissimo! Si asciuga la bocca con la mano, sorpreso. È buono! Un po' alcolico, ma buono!

Glielo si deve leggere in faccia: la bocca di pesce sorride soddisfatta.


Il concerto riprende.


Dita grigie cercano di bere ancora un paio di volte. La reazione non cambia.


Le canzoni si susseguono a ritmo serrato.


Nel bel mezzo di una sente piccole squame aggrapparsi al suo polso. Si volta: lo Zora ha uno sguardo un po' nebuloso. Hanno finito l'intera bottiglia.


-Io torno,- comincia, un po' a fatica, -Io torno a casa, sì? Tu, tu resti, vuoi?


L'orologio segna quasi mezzanotte. Scuote la testa.


-Ah,- annuisce un poco. -Vieni? Facciamo... Un passeggio. Facciamo un passeggio assieme, fino a mare? A casa? Vuoi?

Il corpicino di legno gli dorme in grembo. Lo prende in braccio.


Escono insieme e camminano, piano, piano, fuori dalla città, fino alla spiaggia.


Lo Zora si siede sulla sabbia invece di tuffarsi. Gli si siede accanto.

C'è una bella Luna.

Lo Zora respira.


-Nome,- boccheggia imbarazzato, -Neanche dico... Neanche chiedo... Perdono – dimentico, dimentico.


In sua difesa, anche lui se ne era dimenticato.


-Io Sehel sono.- gli sorride.


È un bel nome.

Un nome da cuorcontento.


-E tu...?

-Link.- sussurra.

-Link.- mormora Sehel. Chiude gli occhi scurissimi: si rigira il nome nella bocca, piano. -Link... Bello, bello è. Come, come... parola, parola... Conchiglie, sì? Quando colpisci conchiglie... Link. Bello è.


Lo ringrazia a bassa voce.


-Ti piace Sehel? Nome Sehel.


Annuisce.

Sehel sorride.


-Grazie.


Siedono assieme.

La bambolina fa respiri profondi nel sonno.


-Torni, sì? Qui?- chiede Sehel, -Per Carnevale, o... O solo per tornare. O vengo! Imparo bene lingua, e vengo. Tu vivi a...?

-Ordon.

-Ordon. Imparo bene, e chiedo, Ordon dov'è?, e vengo. Saluto. Io suono, sì? Porto mio hara garì, così senti. O prendo ora... A casa torni, ora, sì?


Immagina di sì.


-Allora quando torni. O quando vengo. Trovo strada, e vengo...


Silenzio.

Sehel si stropiccia gli occhi.


-Vado.- dice. Non si muove.


Guardano la Luna ancora un momento.

È proprio bella.

Sehel lo guarda.


-Tao pulru de.


Prima che possa rispondere, Sehel sparisce tra le onde.

La baia sospira.

È una bella notte.


-Ha detto che sei molto bello.


Ride appena sotto il muso di lupo.

Lo spiritello si stiracchia.


-Vieni.- incita raddrizzandosi.


Lo tira su, su, su.


-Conosco una scorciatoia.- sbadiglia.


Cominciano a camminare verso la pianura.

Gli scappa dalla bocca un fischio che riprende una delle melodie del concerto. Fauci di legno canticchiano insieme a lui. Palmi silvestri gli tengono le mani in una danza da bambino: lo asseconda per un po'.


-È stato bello oggi.- dice con la sua voce di fil di rame.


Gli occhi ambrati lottano per non chiudersi.

Annuisce mentre lo prende in braccio.


La guardia al portale dorme in piedi, come un cavallo.

Non c'è nessuno.

Chi c'è ancora, non fa alcun rumore.


Si infilano tra le pesanti porte della torre dell'orologio.


La bambolina si è già riaddormentata.

Gli ingranaggi ruotano, precisi, costanti: la loro percussione è simile ad un'antica ninnananna.


Si sfila le maschere.

Si appoggia al muro. Scenderanno domani.


La luce lunare filtra tra il legno e il metallo.

La osserva in silenzio, sentendosi pesante.


È stato bello oggi.


Un movimento armonico, gentile, come quello di una culla.

Un sorriso dolcissimo.


Dormi ora, sussurra, Sei tanto stanco.


Si rannicchia nelle braccia di nulla.



È stato bello, oggi.








(Piccole Note:
il nome di Sehel è stato creato 
da LostRequiem, dalla cui fic "Will my soul ever find rest?" ho poi preso l'idea per la maschera del lupo che Sehel regala a Link. Lulu la chitarrista ha preso il nome della madre come è tradizione nella loro famiglia.
L'hara garì di Sehel è il termine 'terminiano' per l'hurdy gurdy, uno strumento medievale simile ad un violino meccanico.

"Lade mu ce trafanto tu." si traduce come "Lascialo stare che ha un appuntamento."
"Trafanto de pa!" si traduce come "Non è un appuntamento!")

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Capitolo 7
*** 7 ***


7



La Foresta si allunga piano.

La luce filtra attraverso le foglie.

Da quando sta camminando?


Oltrepassa uno scheletro dormiente.

Una radura assolata.

Da dove viene quell'albero?


Un corpo giace alle sue radici.

Lo osserva.

Sembra morto.


Rimane in piedi.

Un occhio si apre.

È color d'ambra.


Spira il vento.

Silenzio.

E ora?


L'occhio d'ambra sembra tanto, tanto stanco.

Tanto, tanto morto.

Non si muove.


Lo guarda.

Gli si siede accanto.

L'erba si piega contro la brezza.


Sei uguale a lui.


Lo guarda.

È così...


Giace su un fianco.

Gli arti abbandonati.

Nessun volto.


Quanto è grande?

Come un bambino.

Come un adulto.


Ha un corpo di fumo.


Sei uguale a lui.


È così...


L'occhio d'ambra non si muove.

Lo guarda.

Il suo sguardo lo trapassa come fosse un fantoccio di nebbia.


Ha la mano aperta.

È una mano d'ombra.

Se la guardasse da vicino vedrebbe graffi.


L'occhio d'ambra sembra tanto, tanto stanco.

Afferra piano il palmo di nulla.


Sei uguale a lui.


Gli tiene la mano.

Silenzio.

E ora?
 

Spira il vento.

Non si muove.

La Foresta si allunga piano.


Gli tiene la mano.

L'occhio d'ambra sembra tanto, tanto morto.


Sei uguale a lui.


Le dita senza corpo si stringono attorno al suo palmo.

Sono fredde.

Come quelle di un morto.


Lo guarda.

Ne è guardato.

Uno scheletro sogna.


Una lingua sconosciuta.

Una voce di fil di rame.

Parole inesistenti.

Labbra di vetro.



Tutto ciò che mi rimane al mondo.



-Siamo qui.

Apre gli occhi.

La Foresta risponde al suo sguardo con un tetto di fronde impenetrabili.


Gira il capo.

La bambolina lo guarda fisso, già in piedi. Mani di fuscelli stringono la maschera di finto osso. I segni sul viso quasi piatto sono madreperla sulla cenere.


Il muschio sotto la sua schiena scricchiola mentre si mette a sedere.


Si osservano.


-È stato bello.

Annuisce.


Non si muovono.

La Foresta vive attorno a loro. Gracchia, gracida, scoppietta, si spezza.

Gli alberi bisbigliano.


Un indice come un rametto secco punta alla maschera della bambola che pende, scarna, vecchia, dalla sua cinta.


-Te la coloro io.- mormorano fauci di legno. -Te la dipingo di arancione e verde. Se vuoi.


Gliela presta volentieri.

Falangi da marionetta la afferrano molto piano, molto gentilmente.


-Di arancione e verde.- ripete piano. -Arancione e verde.


Gli sorride appena.

Palmi di betulla cominciano a disegnare già sulla superficie ruvida. Dall'assenza di labbra bubbolano piano le note di una canzone; fronde si muovono per mormorare la melodia.

Non c'è vento.

Annusa l'aria: c'è odore di pioggia.


I polpastrelli gli scivolano su un muso lungo e familiare.

Stringe la maschera del lupo.


Guarda dritto nell'unica iride rossa.

La fissano entrambi.


-Non sei tu.- soffia piano.


Silenzio.


-Lo sapevo già. Non sei tu.


Silenzio.


-Ma volevi andare al Carnevale. E io volevo tornare con lui, e essere con lui. Ancora un po'. Almeno per un po'. Solo per un po'.


Occhi d'ambra si fissano sul suo viso.

Sono abbastanza vicini perché lo veda.


-Hai il suo stesso odore.- pigola. -E gli somigli. Un po'. Solo un po'.

Solo un po'.


Gli alberi bisbigliano.

Tra le voci delle fronde sente quella del Capitano.

Sei uguale a lui.


Fissa il volto di bambola.

Per un momento pensa di alzarlo; di infilare un dito sotto il mento, e spingere via l'effigie di legno; di vedere finalmente quel viso nascosto da finto avorio che non è riuscito a scoprire nel suo sogno.


La mano che ha proteso verso la testa tonda accoglie nel suo palmo una guancia segnata.


Orecchie lunghe e grigie si alzano turbate, solo per un secondo; si calmano presto, e manine di bambola si chiudono piano attorno al suo polso, mentre le maschere pendono da gomiti scricchiolanti.

Asciuga con il pollice una grossa lacrima d'ambra.

Un'altra cade troppo in fretta per essere intercettata.


La bambolina si accuccia sull'erba.

Gli offre la grossa sfera arancione.

I raggi del Sole che le filtrano attraverso creano giochi di luce sul muschio.

Gliela mette in mano.


-Tieni.


Accetta il regalo.

È proprio bella.


Dita come ramoscelli secchi gli indicano un passaggio tra due tronchi. La nebbia oscura appena la via dietro ad essi: riconosce le silhouette di altri alberi.


-Per andare a casa.


Si alza in piedi.

Il viaggio di ritorno sarà lungo.

Pazienza.


-Una volta torniamo, se vuoi.- propone la vocina di rame.

È sottilissima. Quasi timida.


Le sorride; annuisce volentieri.

Orecchie bucate da anelli d'acquamarina si alzano, come quelle di un cucciolo.

Un sorriso aguzzo emerge da un'assenza di labbra.


Fa alcuni passi verso l'uscita.

Si ferma.

Si volta.

Guarda a lungo lo spiritello.


-Chi sei?- chiede piano.


Occhi d'ambra lo guardano fisso.



Io sono Oitesch, soffia roca, lontana, astiosa, una voce andata persa da millenni, E non ho nessuno al mondo.



Io sono Oitesch, sorride lontana, dolcissima, una voce che non è mai esistita, E tu sei tutto ciò che mi rimane al mondo.



-Skull Kid.- risponde, con la semplicità di un bambino.


Il ragazzo gli sorride.

I denti aguzzi di Skull Kid gli sorridono di rimando.
 

Con un ultimo saluto (agita la mano; una ben più piccola imita il suo gesto) passa attraverso i tronchi, attraverso la spessa coltre di nebbia.


È fuori.

Fuori.

Riconosce la radura.

È sulla strada di casa.

È fuori.

Fuori.


Guarda indietro.

Lo spazio tra gli alberi è oscuro, profondo, lontano, quasi spaventato.


Le fronde frusciano.

Non bisbigliano.

Aspetta.


Alcuni cinguettii lontani.

La Foresta è ferma.

Aspetta.


Respira.

Stringe la maschera.

La guarda.

Aspetta.



Con il muso dorato di legno ferino che gli ondeggia alla cinta, rigirando la sfera d'ambra nel palmo della mano, Link si incammina verso casa; dalle labbra gli scappa di fischiettare la melodia di una canzone straniera di cui non sa né capisce le parole, mentre ripensa alla bella risata a mulinello di Sehel.


Qualcuno suona nella Foresta.











Una risata inesistente abbraccia, in un sogno, uno scheletro antico.

Il teschio sfasciato sorride al viso senza volto.

È uguale a te, mormora.









Grazie mille per avere letto questa storia! E' tipo la terza storia a capitoli che riesco a completare, ahah
Come piccola nota, pubblicherò alcuni disegni inerenti a questa serie sul mio tumblr, randomwriteronline, sotto il tag #radici nella polvere! Non saranno molti, ma spero siano un piccolo bonus gradito  - An13Uta

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