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Personaggi:
Sara Tancredi Scofield; Michael Jr. Scofield; Lincoln Barrows; Lincoln Jr. Barrows; Fernando
Sucre; Alexander Mahone
Altri
personaggi: Michael Scofield (sempre
presente nei pensieri)
Raiting:
Arancione
In
proposito: Mi chiamo
Michael Scofield. Ero un ingegnere civile. Sono stato
un carcerato. Sono evaso da due penitenziari di massima sicurezza e ho
coordinato l’evasione di mia moglie da un altro carcere. Sono stato un
fuggitivo e un ricercato. Sono stato un manipolatore e un approfittatore.
Chi è Michael Scofield? In sei flussi di pensieri, sulla scia di cinque
parole impresse su una lapide, l’immagine di un uomo che non si riesce ad
etichettare.
Disclaimer: Prison Break e i suoi personaggi sono del loro creatore
Paul Scheuring per Aldestaine-Parouse
Note: one shot; missing moments; raccolta.
Cose: Qualcuno
lo ha definito un inno all’ingegno umano. Non so se sia vero, ma Prison Break, fra i telefilm di
intrattenimento, è certamente un esempio di narrazione particolare. Serrata;
adrenalinica; a tratti davvero cinematografica. E ricorda anche un videogame.
Non uno dei soliti picchia duro dove, per andare avanti, devi fracassare le
teste di qualche zombie-demone-guerrigliero che ti si
para davanti. No. Un videogame più simile ad una partita di Cluedo
per via telematica; o a Dieci piccoli
indianishekerati per bene con qualche altro
romanzo thriller-noir-giallo-fateunpo’voi.
È anche una serie
maschile, Prison Break. Cioè. Nel senso che è d’azione e
di azione vive. Nel senso che c’è molto cameratismo e, guarda caso, molti
personaggi maschili (diciamo pure quasi solo personaggi maschili). Ho letto da
qualche parte che Prison Break è lo show di Miller. E in un certo senso sono d’accordo. Perché
l’ossatura della storia ruota attorno a Miller. O meglio: ruota attorno al suo
personaggio, a Michael Scofield.
Che senza Miller non
avrebbe avuto probabilmente quel carisma e quello sguardo; o quelle mani che
ossessionano (sì: sono diventata una feticista di quelle mani. Problemi?) o il
modo che ha di sollevare appena un angolo delle labbra, quando sorride. Ma
tant’è che Miller ha presta il viso a Scofield. E
forse allora sarebbe più corretto dire che Prison Break è lo show di Michael Scofield.
Perché è lui che tiene banco. Punto. Per tutte e cinque le stagioni (film
compreso).
E quindi, dopo
essermi divorata la serie (che sì, che ci volete fare? Arrivo sempre in
ritardo, io. Ma forse è stato meglio così. Primo: non ho dovuto restare in
sospeso ad ogni cliffhanger
delle puntare; e secondo. Secondo: l’ho visto che sono adulta. Grande. Perché
quando era uscita, all’epoca, proprio proprio di
primo pelo non ero, ma forse. Forse certe cose non le avrei capite. Non le
avrei. Non so. Analizzate); quindi, dicevo, dopo essermi divorata le prime
quattro serie e film annesso, ed essermi incamminata lungo la quinta, mi sono
chiesta (sai che originalità): chi è
Michael Scofield?
Chi è stato per chi
l’ha conosciuto; chi è stato per chi conosciuto lo ha poco o per nulla. Chi è
stato per Sara, per Lincoln, per L.J., per Sucre e
per Mahone. E chi è stato per quel figlio che ha
amato e non ha mai conosciuto.
L’idea c’era; lo
stimolo si è concretizzato complice un fumetto di Batman che inizia proprio con la frase Gothamè…. Un gioco che ogni tanto viene fatto.
E da lì sono partita. Da lì e da quella lista di identità incise su una pietra,
nell’ultima scena della quarta serie. Quella che, se l’avessi vista a suo
tempo, mi avrebbe lasciato un magone in gola peggio di quanto non sia successo.
Perché era una fine ideale. Così dolceamara che sì, era l’ideale.
P.S.
L’ho scritta prima
di iniziare la quinta serie, con nelle orecchie il trailer rilasciato da Fox
sul primo episodio. E quindi la frase di Sara su Michael. E mi sono immaginata
da lì il rapporto (non rapporto) fra Michael e suo figlio. Adesso che il primo
episodio l’ho visto, so che il piccolo Michael ha una venerazione per quel
padre mai conosciuto. E allora ho deciso di cambiare. Ma all’altra idea, a
quella nata dalla mia fantasia, mi ci sono comunque affezionata. Ecco perché la
troverete in calce. Come piccolo bonus.
Identity
C’è
un gioco. Ogni tanto lo fanno sui giornali.
Un
gioco stupido; ma chissà per quale motivo piace sempre tanto. Forse perché ti
puoi sbizzarrire; forse solo perché puoi sparare le cazzate più grandi che ti
passano per la testa. Forse perché puoi provare a fare lo splendido, anche
quando quello che scrivi è la più grande delle ovvietà.
Ma è
un gioco. E piace. Punto.
Ed è
stupido. Perché solo degli stupidi si fissano su una frase “Xyzè…?”.
Perché
il gioco sta tutto lì. Riassumere in una parola cosa sia quel xyz di turno.
Persona, animale, cosa, luogo o altro che possa essere, che cada sotto le
grinfie di uno stupido gioco.
Come
se l’identità di qualcuno fosse una parola; come se qualcuno lo potessi
rinchiudere, in una parola. E in realtà ci riesci. Ci riesci sempre a trovare
un parola, un aggettivo, un verbo che la etichetti, una persona.
E poi
scopri che di etichette gliene puoi affibbiare tante. Ma davvero tante. A volte
belle; altre brutte. Altre volte sono etichette che nemmeno tu capisci, e ti
trovi a chiederti da dove sia uscita una certa idea di una certa persona.
A
volte scopri che quelle etichette, quelle che non sempre capisci, le hanno
affibbiate proprio coloro che meglio conoscono la persona, animale, cosa, luogo
o altro che sia che hai sbattuto sulle pagine di un giornale. Giusto per farti
quattro risate delle cazzate che qualcuno dirà.
Ma
quando succede. Quando succede che davvero qualcuno quel gioco lo faccia
seriamente; quando succede che la domanda cada sotto gli occhi di chi quel
gioco lo prende sul serio, lo prende sul personale, allora. Allora ti ritrovi a
sbattere contro qualcosa di strano; di complesso. Forse anche di assurdo.
E
vorresti avere fra le mani la persona animale cosa luogo o altro che sia per
chiedergli direttamente quale sia la risposta giusta. E per scoprire che forse
una risposta giusta non c’è.
Perché
sì. È un gioco stupido. Perché solo gli stupidi chiedono “Xyzè…?”. Ma a volte anche gli stupidi sono dei geni.
E se
la fai alle persone giuste, nel momento giusto, una domanda stupida diventa la
chiave per una persona animale cosa luogo o altro che non hai mai voluto
guardare.
E ti
ritrovi a pensare che sì, come gioco è una stronzata. Ma per fortuna che
qualcuno l’ha fatta, quella stronzata. O non ci avresti mai pensato davvero su,
a quella persona animale cosa luogo o altro che sia.
# Marito
Chi
è mio marito?
Davvero
lo volete sapere? Proprio adesso? Perché adesso, vorrei chiedere.
E
mio marito è anche questo. È una domanda che risponde a un’altra domanda. O
almeno all’inizio è stato così. Credevo scherzasse; credevo ci provasse e
basta. Credevo. Non lo so. Che mi prendesse in giro. Perché non mi rispondeva
mai sul serio; perché non mi diceva mai qualcosa che non fosse una bugia o il
silenzio.
Ho
imparato da lui a rispondere ad una domanda con un’altra domanda. Ho imparato
anche da lui a non fidarmi.
Perché
al mondo di cose belle ce ne sono poche, e quelle poche devi essere pronto a
combattere per tenertele strette.
Ecco
chi è mio marito. Un uomo che non si arrendeva. Mai. Davanti a niente. Anche
quando sapeva di avere perso; anche se sapeva che rischiava la vita in cambio
di una speranza.
Era
un uomo egoista, mio marito. Un grande egoista. Perché aveva il cuore più
grande del mondo, e te lo lasciava fra le mani con l’ingenuità di un bambino.
Ed
era intelligente; tanto intelligente. E per questo a volte si comportava da
stupido. A volte sembrava che la sua intelligenza lo isolasse da tutti, e
allora faceva qualcosa di stupido.
Anche
se non se ne accorgeva.
Come
cercare di farmi ridere quando la situazione era brutta. Tanto brutta. Come
raccontarmi che tutto sarebbe andato bene, che saremmo stati bene, anche se mi
stava morendo fra le braccia.
Era
anche malato, mio marito.
Ed
era così egoista e così intelligente che era disposto a morire prima di farsi
salvare. Perché aveva in mente solo una cosa: noi.
Io;
suo figlio; suo fratello. E la libertà.
Mio
marito era ossessionato dalla libertà. Forse perché era convinto di non
meritarsela; forse perché l’aveva rincorsa, l’avevamo rincorsa così a lungo che
ormai ci sembrava solo un miraggio.
Se
l’ho amato, chiedete? L’ho sposato.
E
poi ho accettato di lasciarlo andare; ma non l’ho dimenticato.
E
sì, l’ho amato. Quando l’ho incontrato per la prima volta, mi è piaciuto.
Quando l’ho conosciuto, mi ha affascinato. Quando l’ho spostato l’ho amato.
Forse.
Se ci fossimo conosciuti diversamente; se avessimo avuto esperienze diverse.
Non lo so. Forse non lo avrei amato; forse non lo avrei spostato. Ma mi
piaceva. Mi piaceva come fosse. Perché era diverso. Stonava. In mezzo a tutti
gli altri, lui stonava. E mi ha attirata anche per questo. L’ho amato anche per
questo.
Era
un uomo buono, mio marito.
Un
uomo che non si vergognava a piangere contro il mio ventre; un uomo che mi
abbracciava senza dire niente e mi faceva vedere tutto il suo dolore e la sua
incertezza. Tutta la sua debolezza.
E
sarebbe stato un buon padre; voleva essere un buon padre. Ma non ha potuto
provarci. Provarci davvero. Tenendo suo figlio fra le braccia.
È
morto. Facendo quello che un uomo, un marito, un padre fa. Proteggendo me e suo
figlio. È morto da egoista; perché era troppo buono e aveva sofferto troppo.
Ecco
chi è mio marito: un uomo. Solo un uomo.
Il
migliore che potessi incontrare.
Due cose ancora. Ma
proprio due.
Ho scelto di partire da
Sara perché. Perché semplicemente è suo, il primo ruolo sulla tomba di Michael.
È lei la moglie cui il destino ha tolto subito il marito.
E sì: non c’è nessun
errore nei tempi. Ho voluto passare più e più volte fra passato e presente. Perché
anche se Michael è morto, per Sara resta comunque l’uomo che ha amato. E a modo
suo continua ad amare. Quindi Michael è. Non solo è stato. Il suo comportamento
è stato. Quello che è è. Anche se è morto. Forse
proprio perché è morto. Un po’ come se si fosse posto fuori dal tempo.
Mi
piace il mio papà! Mi porta a giocare a baseball al parco il pomeriggio; e alla
domenica mi compra le patatine e anche il gelato! Anche se la mamma non vuole,
quando andiamo al cinema papà mi compra i pop-corn. Quelli nel secchiello
grande grande! E poi li mangia assieme a me, così se
lo scopre la mamma deve sgridare tutti e due.
Quando
mamma è impegnata viene lui a scuola a prendermi e facciamo i compiti assieme.
Anche se i suoi compiti sono sempre più belli dei miei. Ha sempre tante carte,
quando facciamo i compiti e ogni tanto me le lascia guardare. Mi piace farlo!
Sono strane e a volte provo a capire cosa possano essere. Papà dice che sono
troppo difficili per me, ma io ho capito che sono per il suo lavoro. E che sono
cose segrete. Per questo non lo dico mai alla mamma. È il nostro segreto. Mio e
del mio papà!
No?
Ho sbagliato? E perché?
Ah,
tu vuoi sapere dell’altro. Dell’altro mio papà.
Non
lo conosco, il mio altro papà.
Il
mio altro papà non è mai stato con me. Mamma dice che se n’è andato prima che
io nascessi. E dice anche che mi voleva bene. Tanto bene. E che se n’è andato
proprio perché mi amava tanto.
E io
ci credo, che il mio altro papà mi voleva tanto bene. Ma tanto tanto.
Il
mio altro papà era intelligente. Tanto tanto
intelligente. E ha salvato la mamma; e anche me. Anche se io non c’ero ancora.
Io dovevo ancora nascere. Ma ci ha salvati!
Per
questo penso che il mio altro papà sia una brava persona. Una brava persona che
mi vuole tantissimo bene.
Perché
se vuoi bene ad una persona resti con lei. Giusto? Io voglio bene alla mamma e
sto sempre con lei. E anche con il mio papà.
Il
mio altro papà non è più con me, ma la mamma dice che io gli assomiglio molto.
E mi piace quando lo dice. Mi piace assomigliare al mio altro papà.
A
volte lo dice anche lo zio Linc. Quando mi prende
sulle spalle e mi fa fare l’aeroplano. Dice che rido come rideva il mio altro
papà, quando era piccolo. E dice anche che ho i suoi occhi.
Una
volta li ho visti, gli occhi del mio altro papà.
Era
alla Tv. Parlava alla mamma. E allo zio Linc. E sembrava
triste. E anche contento. Perché sorrideva. E a me piace il sorriso dell’altro
mio papà. Sembra il sorriso di un papà buono.
Se
chiedo alla mamma com’era, il mio altro papà, lei dice che era come una tempesta.
Una di quelle tempeste forti forti che portano via
tutto. E quando se ne vanno lasciano tutto diverso, tutto nuovo.
Io non
ho paura delle tempeste. Mi piacciono molto le tempeste.
Perché
ci sono le nuvole tutte scure scure e poi. Poi arriva
un lampo e diventa tutto bianco. E poi. Poi c’è la pioggia, e la pioggia mi
piace tanto tanto.
Per
questo. Per questo vorrei che questo mio altro papà. Vorrei che lui tornasse.
Come fanno le tempeste. E vorrei che mi prendesse in braccio e giocasse con me.
E se
il mio altro papà era come una tempesta, allora credo che mi sarebbe piaciuto.
E
gli avrei voluto bene. Più bene di quanto gliene voglio ora. Anche se non l’ho
mai conosciuto, il mio altro papà.
Bonus - # Padre – prima versione
# Padre
Il papà?
Perché
mi chiedi di papà?
Mi
piace il mio papà! Mi porta a giocare a baseball al parco il pomeriggio; e alla
domenica mi compra le patatine e anche il gelato! Anche se la mamma non vuole,
quando andiamo al cinema papà mi compra i pop-corn. Quelli nel secchiello
grande grande! E poi li mangia assieme a me, così se
lo scopre la mamma deve sgridare tutti e due.
Quando
mamma è impegnata viene lui a scuola a prendermi e facciamo i compiti assieme.
Anche se i suoi compiti sono sempre più belli dei miei. Ha sempre tante carte,
quando facciamo i compiti e ogni tanto me le lascia guardare. Mi piace farlo!
Sono strane e a volte provo a capire cosa possano essere. Papà dice che sono
troppo difficili per me, ma io ho capito che sono per il suo lavoro. E che sono
cose segrete. Per questo non lo dico mai alla mamma. È il nostro segreto. Mio e
del mio papà!
No?
Ho sbagliato? E perché?
Ah,
tu vuoi sapere dell’altro. Dell’altro mio papà.
Non
lo ricordo bene, il mio altro papà. Non lo conosco.
Il
mio altro papà non è mai stato con me. Mamma dice che se n’è andato prima che
io nascessi. E dice anche che mi voleva bene. Tanto bene. E che se n’è andato
proprio perché mi amava tanto.
Io
non lo so. Non lo capisco.
Se
vuoi bene ad una persona resti con lei. Giusto? Io voglio bene alla mamma e sto
sempre con lei. E anche con il mio papà.
Una
volta l’ho visto alla Tv, il mio altro papà. Parlava alla mamma. E allo zio Linc. Sembrava triste. Non lo so. E la mamma piangeva,
mentre lo guardava. Ma se la fa piangere, perché lo guarda ancora? Io non lo
capisco. Abbiamo il papà con noi; il mio papà non ci lascia mai soli.
Non
come l’altro papà. Quello della Tv.
Lui
se ne è andato.
Mamma
dice che gli somiglio. Ma io non ci credo.
Io
voglio assomigliare al mio papà! O allo zio Linc! O a
L.J., mio cugino.
Io
non voglio assomigliare all’altro papà, quello della Tv. Perché lui sembra
tanto triste, e non sorride molto. E parla piano piano.
E ha delle mani grandi grandi e secche secche. Come le mani dei vecchi. Come le mani della signora
Finn, quella che abita nella casa accanto. È gentile,
ma ha delle mani secche secche come quelle dell’altro
mio papà. E io ho sempre paura che si rompano, quando mi ridà la palla.
Le
mani del mio papà non sono così. Le mani del mio papà sono grandi e forti. E possiamo
giocare a baseball, con le sue mani. Credo che la pallina le romperebbe, le
mani dell’altro mio papà.
Se
chiedo alla mamma com’era, il mio altro papà, lei dice che era come una
tempesta. Una di quelle tempeste forti forti che
portano via tutto. E quando se ne vanno lasciano tutto diverso, tutto nuovo.
Io
ho paura delle tempeste. Ho paura dei tuoni e dei fulmini.
Quando
c’è una tempesta mi nascondo sotto le coperte. Oppure vado da mamma e papà. E
papà ride sempre, perché dice che gli ometti non dovrebbero avere paura della
pioggia.
Ma
io ho paura, uffa! Perché le tempeste urlano, e a me piace quando il mio papà
ride.
E se
il mio altro papà era come una tempesta, allora non credo che mi sarebbe
piaciuto.
Se
lo vorrei incontrare? Non lo so.
Se
incontrassi l’altro mio papà, il mio papà sarebbe triste. Perché penserebbe che
non gli voglio più bene. Ma io gliene voglio! E tanto! Non come all’altro papà.
A lui non voglio bene.
Perché
non l’ho mai incontrato.
E
dopo la madre, il figlio.
E
questa è stata davvero un parto complesso. Gemellare. Perché l’avevo scritta
prima. Prima di vedere la nuova serie e di scoprire esattamente cosa Micky pensasse di suo padre. Come se lo immaginasse. E io,
da buona amante dello zucchero, mi ero immaginata un rapporto angst. Ma proprio proprioangst.
Del
tipo: non ho mai visto il mio papà; mi ha abbandonato; lo odio.
Dell’odio
che possono avere i bambini (anche quelli intelligenti, anche quelli amati)
verso una figura che non hanno mai incontrato. E che potrebbero odiare di
sentirsi sbattere in faccia.
Forse
più che odio sarebbe indifferenza. Perché i bambini non si affezionano a quello
che non conoscono. E quindi non lo rimpiangono.
La
prima versione di # Figlio era così.
Un
non rapporto fra Micky e suo padre.
Poi.
Poi ho visto la prima puntata. Poi ho visto le altre puntate. L’amore di
Michael per quel figlio mai conosciuto; per quel figlio mai abbracciato. L’amore
per quella vita che si era visto strappare quando non credeva possibile avere.
E
allora ho detto no: ho detto che proprio non potevo snaturare così questo
bambino. Anche perché vederlo con indosso la maglietta di calcio e il nome Scofield sulla
schiena, portato come un’armatura, come una copertina di Linus che da tutto
difende era insieme troppo tenero e troppo importante. Come le parole di Sara,
come la descrizione di Sara dell’adorazione di Micky
per quel padre mitizzato.
Mi
dispiace solo che non abbiamo mostrato un vero momento padre-figlio, un momento
di quiete in cui potessero confrontarsi.
Ecco
allora questa flash doppia, con la prima versione in calce, perché è comunque l’idea
che avevo io a scatola chiusa. Banale. Ok. Ma ci ero affezionata.
Inoltre.
Inoltre nulla mi toglierà dalla testa il fatto che per Micky
le figure paterne sono due. Il padre biologico e il padre putativo. Perché anche
se Jacob è il cattivo della situazione, forse di un sadismo estremamente
raffinato e deviato, a quel bambino vuole bene. O almeno gli fa credere di
volergli bene. Quasi facendolo rivoltare contro il suo vero padre, contro
quello stesso padre che Micky idolatra.
Quindi
sì: Micky a quest’età (prima dei sette anni) ha due
padri. Ed entrambi sono importanti per lui.
E
credete che sia una cosa facile, da spiegare. Credete che si possa riassumere
quello che è stato, quello che ha fatto così, con poche parole.
Si
vede proprio che non lo avete mai conosciuto.
Mio
fratello era. Era tutto ciò che ho avuto. Per molto tempo, mio fratello è stato
il centro di tutta la mia vita. Mi sono cacciato nei guai, per lui. Ho fatto
scelte sbagliate, per lui. E l’ho lasciato solo. Più di una volta. Tante volte.
Ma
non me ne sono mai pentito. Insomma. Forse. Forse oggi, con il senno di poi.
Forse oggi non le rifarei più, certe scelte. O forse sì. Non lo so. So solo che
volevo il meglio, per Michael. E non ho mai pensato a quanto sarebbe costato a
me, procuraglielo. Perché sono il fratello maggiore; perché Michael era
intelligente, tanto intelligente, e non se lo meritava di sprecare la vita per
strada. Come me.
No.
Michael si meritava di farla, la strada, di arrivare in alto.
Mio
fratello era. Era un idealista. Uno che crede in quello in cui crede. Sempre e
comunque.
Michael
mi ha ridato la speranza. E la fede. Mi ha insegnato cosa significhi davvero
avere fede. Una fede cieca; assoluta. Una fede così grande che ne hai anche
paura.
Me
lo ha insegnato lui. Lui che non ne aveva molte, di certezze.
Lo
so; lo so.
So
che mio fratello sembra sempre così sicuro; così tranquillo. E lo è. Lo so che
lo è. Ma io. Io ci sono cresciuto, con lui. E lo conosco. Bene. Molto, molto
bene. E so che quando è; quando era così calmo e sicuro e concentrato era perché
era terrorizzato. Era perché le cose gli sembravano sfuggire di mano e voleva
riacciuffarle senza chiedere aiuto a nessuno.
Mio
fratello non è mai stata una persona che chiede aiuto. È stata piuttosto una
persona che l’aiuto lo dà. A chiunque. Senza pensarci due secondi.
Perché
era buono, mio fratello. Era buono e aveva un cuore grande come la sua
intelligenza.
E ha
mandato a puttane la sua vita, per me.
Si è
fatto ammazzare, per me. E io glielo avevo detto, che era meglio se mi lasciava
perdere. Che sarebbe stata la cosa giusta da fare, lasciarmi perdere. Perché
crepare per uno come me non ne valeva la pena. Ma Michael. Michael è sempre
stato un fratello esemplare.
Perché
Michael era quel genere di persona. Michael era quel genere di fratello. Uno
disposto a scendere all’inferno per prendere il tuo posto. Uno disposto a
rovinarsi con le sue stesse mani; a crepare piuttosto che arrendersi. Ma ti
avrebbe tirato fuori dai guai. Forse tirandoti per i capelli, ma se si ficcava
in testa una cosa, mio fratello riusciva a renderla reale. Ci riusciva davvero.
E mi
manca. Cazzo. Mi manca da morire.
Quando
guardo suo figlio; quando guardo me che invecchio allo specchio; quando guardo
il mare. Gli era sempre piaciuta l’idea di vivere in riva al mare. Non ho mai
capito il perché, ma aveva questa fissa. Di vivere sulla spiaggia. Una vita
semplice; una vita senza scossoni e sorprese.
L’ha
immaginata lui, la vita per me. La vita per noi. Dopo. Dopo tutto quello che
aveva deciso di fare. Per me.
E
adesso. Adesso non è qui a godersela, quella vita. Adesso non è qui. E sapete
perché? Perché ha preferito crepare fulminato, e lasciare questa vita a me, a
sua moglie e a suo figlio. Perché Michael. Perché a Michael non restava granché
di vita, ormai. E io. Io avrei fatto qualsiasi cosa per non lasciarlo andare.
Perché restasse ancora un po’ con me.
Ecco
chi era mio fratello.
L’opinione
di Lincoln su Michael è un clichè abusato. Me ne
rendo conto anch’io.
Perché
è normale immaginare lo strazio di un fratello che ha perso il fratello. Soprattutto
in questa serie che sul legame fra questi due ha costruito un’intera stagione
(e un po’ tutta la serie).
Ma
capitemi: quel brothersulla lapide c’è. E non si può ignorare
l’opinione di Lincoln se si vuole arrivare a capo della domanda: chi è Michael Scofield?
E
forse la forza sta tutta qui. In due fratelli agli antipodi che però sono
disposti a morire l’uno per l’altro. In due fratelli che si concedono qualche
sguardo, qualche gesto discreto. E che quando si abbracciano sembrano però
cancellare il mondo, perché in quelle mani che stringono spalle c’è un discorso
tanto grande che ti sembra di esserne travolto. E ti chiedi se sia possibile
davvero che ci sia, un legame così.
Lo
zio Mike è. Era uno tosto. Voglio dire. Uno tosto davvero.
Uno
di quelli sempre pronti a darti una mano. E per me c’è sempre stato, quando
avevo bisogno. E anche quando non ne avevo. O non ne volevo.
È
stato lo zio Mike a pagarmi quel viaggio che volevo fare. A Springfield. A
vedere la tomba di Lincoln. Sì: ridete pure. Ma se porti il nome di un
presidente, lo devi aver pur visto il posto dove è sepolto. No? Tanto più se è
anche nello stato in cui sei nato.
Ecco.
Lo zio Mike mi ha pagato il viaggio. E mi ci ha accompagnato, anche. Perché di farmici andare da solo la mamma proprio non ne voleva
sapere. Ma con lo zio Mike. Con lo zio Michael sì.
Ed è
stato lo zio Mike a tirarmi fuori dai guai. Una volta. Più di una volta, a dire
il vero. Quando papà. Sì; insomma. Quando papà non c’era e io il mio patrigno
non lo reggevo. Proprio per nulla.
Non
era molto affettuoso, lo zio Mike.
Cioè:
non è mai stato tipo da baci, abbracci e moine. Ma ti guardava. Ecco: a volte ti
guardava. Non so. Ti guardava come se ti facesse sentire il centro del mondo. E
quando ti abbracciava. E, giuro, non capitava spesso. Ma. Dio. Quando lo zio
Mike mi abbracciava mi sentivo al sicuro. Davvero al sicuro. Perché era magro;
cazzo se era magro. Non era robusto come papà; e nemmeno come lo sono diventato
io. Ma. Ma era forte. Io lo sentivo forte. Fortissimo. Invincibile. E sapevo
che lì, in quell’abbraccio, ero al sicuro. Che mi avrebbe protetto da tutto. E
da tutti.
Io me
lo ricordo così, lo zio Mike.
Mentre
mi prende la testa fra le mani. Quella mani grandi e nervose che non riusciva
mai a tenere fermo. Me lo ricordo così, che mi prendeva la testa fra le mani e
me la premeva contro la sua fronte. Vicino. Così vicino che ci vedevo doppio e
dovevo chiudere gli occhi. Ma lo faceva. E mi sussurrava che sarebbe andato
tutto bene. Che le cose si sarebbero aggiusta e papà sarebbe tornato. Da noi.
Da me.
Lo
zio Mike ci ha sempre creduto in mio papà. Anche quando era incazzato, ma
proprio incazzato incazzato. Perché mio papà era un
campione nel fare le scelte sbagliate. Anche per i motivi giusti. E di solito
era lo zio Mike che ce lo doveva tirare fuori. Ma anche allora. Anche allora
poi mi chiamava. E mi diceva che le cose da grandi sono complicate. Che a volte
i grandi litigano, ma che io non ci devo pensare.
Perché
papà mi vuole bene. Mi vuole un mondo di bene. E anche lui. Anche lui me ne
vuole. E che per me ci sarebbero sempre stati. Mio papà. E lui.
Ed
era vero. È sempre stato vero.
Quando
succedeva. Quando mio padre finiva nei guai, lo zio Mike c’era, per me. Mi
veniva a prendere e andavamo al parco. Magari restavamo seduti su una panchina
per ore, in silenzio; magari camminavamo un po’. Non parlava molto, ma stava
con me. Stava sempre con me, se succedeva qualcosa a mio padre.
E
poi. Poi mi faceva i pancakes ai mirtilli.
Facevano
schifo. Cioè. Facevano davvero schifo. Lo zio Mike era bravo in tante cose, ma
i pancakes proprio non li ha mai saputi fare. Ma ci
provava lo stesso. Perché sapeva che erano i miei preferiti. E sapeva che mi
ricordavano mio padre.
Non
gliel’ho mai detto. Non gli ho mai detto che quei pancakes
erano orribili, ma che io ero contento lo stesso. E adesso, ogni tanto, quando
succede qualcosa. Quando succede qualcosa di brutto, o sono giù. In quelle
occasioni li vorrei mangiare ancora, i pancakes dello
zio Mike.
E
siamo arrivati al quinto tassello di questo ritratto a mosaico.
Dopo
il marito, il padre e il fratello, arriva lo zio. O meglio: la voce del nipote.
E
devo ammettere che scrivere di L.J. è stato difficile
e stimolante assieme. Perché del rapporto che questi due hanno (e ce l’hanno.
Oh, se ce l’hanno. È certo da alcune frasi) non sappiamo niente. Nemmeno una cippa.
C’è
qualche abbraccio; c’è qualche parola buttata lì per caso. Ma nulla di
definito. Nulla di preciso. Solo molto fumo. Ed è anche un peccato che, di
fatto, a un certo punto L.J. sparisca (manco è
nominato, nell’ultima serie!). Va bene non renderlo il motore dell’azione ma,
dico io! Linc ha fatto i salti mortali per
riavvicinarsi a questo figlio che gli scappava fra le mani; e Michael gli vuole
bene. Lo si vede. Anche prima di finire in prigione gli vuole bene. Per lui è
importante. Eppure. Puff! Finito l’uso, finito il
personaggio.
Un
po’ come è successo con Veronica.
Peccato.
Un vero peccato.
E
allora, visto che comunque la parola uncle sulla tomba c’è (e qualcuno – leggi L.J. – deve aver insistito per mettercela) non potevo
sottrarmi. Via, allora.
Immaginando
questo rapporto di padre putativo-surrogato di
Michael con un ragazzino che va crescendo, che odia suo padre solo perché amare
un padre che non c’è e si mette nei guai una volta sì e l’altra pure è solo
troppo difficile. La rabbia, molto spesso, è più comoda dell’amore. Soprattutto
in un ragazzino; soprattutto in un adolescente.
Quindi:
mi sono divertita ha vedere Michael attraverso gli occhi di un adolescente. Una
specie di eroe salvatore senza spada e con poche parole in bocca. Un eroe con
un’armatura di latta che può diventare la padella di un pancakes.
Forse
con L.J. esce (o almeno a me piace pensare che esca)
il Michael della quotidianità, quello che era prima del carcere, prima di
tutto. Quello che era semplicemente come uomo di tutti i giorni. Troppo
arrabbiato con il fratello per parlare; e troppo legato a lui e alla sua
famiglia per abbandonare un nipote-bambino a se stesso.
E
comunque sì: Michael non sa cucinare! Non si può essere bravi in tutto, no? E
visto che la perfezione non esiste (nemmeno nelle storie) un difetto dovevo
pure trovarcelo! Quindi: è una schiappa in cucina. Roba da lavanda gastrica.
Sarà forse per questo che Linc ama cucinare? E quei pancakes ai mirtilli dovevano avere un ruolo.
Assolutamente! Altrimenti erano un po’ troppo sprecati. Anche se forse sono uno
dei protagonisti dell’episodio di attesa dell’esecuzione.
Cosa
vuoi che ti dica di più? Per me, Michael resterà sempre il mio Papi. Il mio
amico. Quello che si è fidato di me. Anche se non mi conosceva per niente.
Ma
lui era fatto così. Lui non voleva vedere il brutto nelle persone; nemmeno se
ce l’avevano stampato in faccia. Papi era così. Ci doveva credere e basta,
nelle persone.
Me
lo ricordo ancora. La prima volta che l’ho visto.
Credevo
che non sarebbe durato due giorni, in prigione. Papi era magro; e quelli magri
come lui, in prigione, o crepano o diventano la puttanella di qualcuno. E poi
aveva studiato. Cioè. Non studiato come me, che ho piantato la scuola a quindici
anni e me ne sono andato per strada. Lui aveva studiato davvero. Lui aveva una
laurea appesa alla parete. E ce ne stanno, in prigione, di quelli che hanno
quel pezzo di carta appeso alla parete. E per questo si credono fighi. Credono che tutto andrà come vogliono loro. Mi fanno
incazzare, quelli lì. Ma di solito non ce li mettono, con gente come me. Con
gente che ti sbudella per un’occhiata storta.
Papi
invece era finito proprio fra quelli così. Fra quelli che non ci pensano due
volti ad aprirti lo stomaco, se pensi che stai provando a fregarti. E lo ha
chiesto anche, di finirci, in quel carnaio. Ma Papi era papi. E le scelte non
le faceva mai a caso. Le faceva proprio perché voleva farle. Solo che tu non te
ne accorgevi mai prima; solo alla fine. Papi era così.
Comunque.
Papi era magro. E quelli magri e che hanno studiato, in prigione, sono i primi
a crepare.
Credevo
che lo avrei perso presto, il mio nuovo compagno di cella. Non era il primo che
avevo avuto; e non sarebbe stato l’ultimo, mi ero detto. E allora non avevo
avuto davvero intenzione di conoscerlo.
Ci
avevo parlato così. Perché quando passi venti ore al giorno in un buco di sei
metri per due alla fine ci parli, con quello che ha la branda sotto la tua.
Anche solo per scambiare quattro chiacchiere o sentirti mandare ‘fanculo.
Ma Papi.
Papi
era diverso. Papi non era spaventato. Cazzo. Papi era magro. L’ho già detto. E
con la tuta addosso sembrava ancora più magro di quanto non fosse. Eppure.
Cazzo. Sembrava non gli fregasse niente di nessuno e sapesse esattamente a cosa
puntare. Io ci avevo messo due mesi ad abituarmi alla prigione, e ancora non mi
andava giù l’idea di restarmene chiuso lì dentro. Avevo in testa solo di
uscire; e di sposare Maricruz.
Ma
lui. Papi. Papi era tranquillo. Ed era ingenuo.
Credeva
di conoscere la prigione; credeva di sapere come fare ogni mossa in quella
fottuta prigione. E sì, le sapeva fare. Sapeva cosa fare e quando farlo.
Ma.
Ma era troppo ingenuo, il mio Papi.
Così
ingenuo da fidarsi di me. Da fidarsi di uno che conosceva da cinque minuti. Perché,
cazzo, non ci ha mai pensato che potessi spifferare tutto a Bellick.
Ok. Bellick era uno stronzo bastado.
Ma in prigione anche gli stronzi bastardi possono essere utili. E io. io potevo
far saltare tutto. Ma no. Papi a questo non ci aveva pensato. O forse sì. Non
lo so.
A
volte era così ingenuo che avrei voluto ridere. Ridere forte. Se solo non
avessi avuto la paura che me lo facessero crepare davanti. Perché mi ci sono
affezionato, al mio Papi.
Ed è
stato. È stato facile. Perché Papi. Perché Michael ha. Aveva quel modo di fare.
Di farti sentire parte di un qualcosa. Di un qualcosa di importante. Non potevi
proprio dirgli di no. Non ci riuscivi a dirgli di no. Anche quando sapevi che
rischiava grosso e che quello che ti sventolava in faccia era la più assurda e
rischiosa delle trovate.
E
poi. Poi faceva sembrare facile anche una cosa impossibile. Faceva sembrare
reale anche la libertà, mentre eravamo dietro le sbarre.
Mi
ha salvato il culo, il mio Papi.
Me
lo ha salvato tante volte. E non ha mai voluto che gli ricambiassi il favore.
Non ha mai cercato di farmi sentire in debito. Era piuttosto disposto a
cacciarmi a calci, se pensava che sarebbe stato meglio per me. E ci è anche
riuscito, qualche volta.
Perché
per stare vicino a Papi. Perché per stare con lui a volte ci vuole più fegato
che coraggio. Ci vuole più stupidità che forza.
Ma
era il mio Papi. E con lui avevo capito che avrei potuto fare di tutto. Per lui
sono stato disposto a fare di tutto. E se ci fosse. Se fosse ancora vivo. Ecco.
Se fosse ancora qui, sarebbe sempre lo stesso Papi. Lo stesso Michael. Lo
stesso uomo.
E
per quell’uomo sarei ancora disposto a tutto.
E
siamo arrivati al giro di boa.
Dopo
la famiglia, gli amici. Perché Michael ha anche amici. In certi momenti, ha
solo amici. E Sucre è forse l’amico. Quello con la A maiuscola; quello che era
il fattore incognito. Forse nemmeno calcolato. Perché se Sucre non ci fosse
stato; se Sucre avesse parlato. Insomma: Sucre è sempre stato l’ago della
bilancia, nel piano di Michael. E solo un ingenuo come Michael poteva ideare un
piano del genere contando solo sull’appoggio di un compagno di cella che non
aveva nemmeno mai visto.
E
qui il wahtif…? si
potrebbe sprecare.
Comunque.
Sucre non tradisce; anzi! E mi piace l’amicizia che c’è fra loro. Sucre è, di
fatto, la sola altra figura maschile forte con cui Michael si relazioni, oltre
a suo fratello. La sola cui permette di vederlo fragile e in difficoltà. Quello
cui non nasconde di star male e che è disposto a cacciare a calci per non
coinvolgere. Quindi sì: Sucre non poteva mancare. E in fondo mi dispiace che
nell’ultima stagione sia stato un po’ sacrificato. Perché è stato magnifico vederli
abbracciarsi mentre Michael è mezzo morto. Ed è appunto significati che Sucre
sia l’altro con cui Michael scambia abbracci, appunto. Di quei sani abbracci
maschili che sanno di testosterone e parole non dette. Perché sono uomini,
loro. E parlare è così demodè.
Una mente creativa brillante; un uomo
capace di cogliere ogni aspetto di una situazione e di analizzarne ogni
componente, mettendone in luce i dettagli più insignificanti.
Michael Scofield
era un uomo che non poteva essere fermato. Almeno non da un altro essere umano.
E ve lo dice uno che ha passato la vita a rincorrere gente di ogni tipo. Ve lo
dice uno che ha passato mesi a braccare Michael Scofield,
a inseguirlo come il lupo insegue la sua preda.
Scofield, per me, è
stato a lungo una preda; un’ossessione.
Perché non lo capivo. Non lo decifravo.
Un bravo ragazzo che si era fatto
arrestare senza un vero perché. Un bravo ragazzo con la faccia pulita e il
corpo ricoperto di tatuaggi. Un bravo ragazzo a cui io non volevo credere.
Perché i bravi ragazzi non rapinano le
banche e non si ricoprono di disegni gotici il petto e la schiena. Perché i
bravi ragazzi non finisco in prigione; e soprattutto i bravi ragazzi dalle
prigioni non evadono. Portandosi dietro altre sette persone, poi.
Michael Scofield,
invece, era un bravo ragazzo. Forse il miglior bravo ragazzo che abbia mai
incontrato in tutta la mia vita. Uno che è stato disposto a farsi marchiare, a
portarsi sulle spalle il peso di scelte difficili solo perché nessuno gli ha
lasciato altra scelta. Solo perché non ha potuto scegliere.
Ecco chi era Michael Scofield.
Ecco chi era l’uomo che per me è diventato
un amico. Un uomo che mi ha usato più di una volta; un uomo che non si fidava
di me. Ma che quando mi ha dato la sua parola che mi avrebbe tirato fuori dai
guai, c’è stato. C’è sempre stato. Anche se gli avevo ammazzato il padre.
Un uomo che mi ha lasciato in mano il suo
testamento anche se sapeva che avrei potuto tradire. Un uomo che ha messo se
stesso, sua moglie e suo figlio, il fratello che adorava nelle mie mani. Una
volta; più di una volta.
Un uomo così non puoi sperare di fermarlo.
Puoi solo pregare che si decida a lasciarti in pace.
Ha scelto lui di fermarsi. Ha scelto lui
di farsi prendere. Perché l’unica cosa che poteva fermarlo, appunto, era lui
stesso. E la malattia che lo stava mangiando.
E allora. Allora ha fatto una scelta.
Quella scelta che, da padre, posso capire. Quella scelta che avrei fatto
anch’io, se avessi potuto. Ha scelto di morire; perché suo figlio potesse
vivere.
Ecco chi era Michael Scofield.
Pensieri sparsi
Credo di aver fato un nuovo significato al termine
“millanta”.
Ma ho deciso che, negli scampoli di
tempo (più simili a fili sfuggiti al cestino da ricamo ben pigiato nell’armadio
che a brandelli di tessuto), cercherò di chiudere ciò che fino ad ora ho in
sospeso sul web ma terminato nella memoria del computer.
E questa Identity si è presa di prepotenza il primo posto.
Di nostalgia, certo. E una certa
chiacchierata a scuola su Jobs, da Vinci e Michael non ha avuto nessun peso,
sia mai!
Comunque. Eccomi qui. Con il
penultimo tassello.
Un amico. Di nuovo. Mahone.
Ecco: Mahone
è uno dei personaggi che ho amato di più. Come, personalmente, mi piace il suo
punto di vista nella falsh. Uno Scofiel
allo specchio. Perché, inutile negarlo, Mahone è
forse l’unico che può giocare alla pari con Michael. Ma è anche un Michael
disilluso, cinico, nevrotico. Quello che sarebbe potuto diventare Michael,
senza una motivazione a spingerlo e tenerlo concentrato.
Per questo mi piace. È angst. È complesso. E sì: forse è l’unico che davvero può
aver capito chi è Michael Scofield.
Ecco: questa è una bella domanda. Proprio un bella domanda.
Per qualcuno era un genio; per altri era un folle. Perchè solo un
folle prende a calci la sua vita e si fa arrestare per far evadere il fratello.
Per tanti è stato solo una delle facce che ogni tanto passano alla Tv. Un nome
come un altro. Ascoltato in fretta; e in fretta dimenticato.
Per qualcuno è stato un’ossessione; per qualcun altro una spina
nel fianco.
A me piace pensare che è stato solo un uomo.
Un uomo disposto a tutto per non perdere quel poco che aveva. Un
uomo disposto a morire piuttosto che arrendersi a una vita che gli aveva dato
molto e gli aveva chiesto un prezzo troppo alto.
Un uomo che ha perso molte delle sue certezze; e si è aggrappato
con ferocia a poche sicurezze. L’affetto di suo fratello; l’amore per una
donna; la complicità con un amico.
Ecco cosa ha tenuto in piedi Michael Scofield.
Ecco cosa gli ha permesso di andare avanti. Nonostante tutto.
Nonostante ogni traguardo raggiunto si portasse dietro un problema nuovo, un
ostacolo nuovo.
Nonostante una malattia che lo aveva condannato; una malattia che
gli avrebbe rubato anche la vita che avrebbe voluto vivere. In riva al mare.
Con suo fratello e sua moglie. Giocando con quel figlio che non avrebbe potuto
conoscere.
Mi chiamo Michael Scofield.
Ero un ingegnere civile. Sono stato un carcerato.
Sono evaso da due penitenziari di massima sicurezza e ho
coordinato l’evasione di mia moglie da un altro carcere. Sono stato un
fuggitivo e un ricercato. Sono stato un manipolatore e un approfittatore.
Ho lavorato con la feccia dell’umanità, ho aiutato persone che
avrei voluto uccidere. Ho fatto leva sulle paure e sui desideri degli altri per
ottenere quello che volevo. La libertà. Per me e mio fratello.
Sono stato un fratello, un amico, un amante.
Avrei voluto essere un marito più a lungo. Avrei voluto essere un
padre. Quel padre che io e mio fratello non abbiamo avuto. E non ho potuto.
Avrei voluto molte cose.
Ma ne ho ottenuta una soprattutto: la libertà.
Per me. Per mio fratello. Per mia moglie e mio figlio. Per chi mi
è stato amico.
E credetemi. Nulla vale di più. Davvero.
Ecco chi è Michael Scofield.
Un uomo libero.
E siamo
alla fine (forse; che un bonus io ce lo avrei anche, se riesco a limarlo un
po’).
Scofiel che racconta Scofield. Non poteva mancare la voce del
protagonista della storia. Perché su quella lapide Michael c’è: e non sto
parlando del nome, ovviamente.
C’è in quel motto ripreso da Gandhi, in quel Sìì il cambiamento che vuoi essere che riassume quello che è sempre
stato il motore di ogni azione di Michael. Di un protagonista; di un eroe che
non ha mai chiesto di essere un eroe, un modello, un leader.
Perché la peculiarità di Scofield è questa: da gregario della vita si
trova a muovere i pezzi sulla scacchiera della vita stessa. Si trova a far
combaciare azioni piani e pensieri con il solo obiettivo di lasciarsi quel
ruolo di burattinaio alle spalle e tornare a essere di nuovo un semplice, umile
pedone.
Non ha la vocazione dell’eroe, Michael. Ma nemmeno quella del martire. Ha
solo la disperazione dell’uomo che non vuole lasciarsi scivolare fra le dita la
propria vita, e quella delle persone che gli sono care.
Per questo Michael è altruista. Ed è il più grande degli egoisti. Perché
non accetta di mollare. E vuole la libertà. La sua libertà. Come premio più
grande. Anche a costo di non viverla, pur di non farsi piegare.
Qui sta il suo titanismo; la sua solitudine. E la sua “mostruosità”.
Dell’eroe; del grande genio. Del santarellino. Perchè
sì: Scofiel si considerava un puro, un martire.
Pensava di essere migliore di me, di noi.
Pensava di poterci usare.
Ma vuoi saperla la verità? Scofield era
una puttana. La peggior specie di puttana, di quelle che si credono delle gran
signore e che poi aprono le gambe al primo che passa. Perchè
hanno fame, sono stanche o vogliono una dose.
Scofiel era una puttana. E sarebbe potuto essere la mia
puttana. Gliel’ho offerto, sai?
Ma lui no, certo che no. Si credeva diverso lui; si riteneva nel
giusto, lui. Un arrogante figlio di puttana che credeva di sapere come andasse
il mondo, che pensava che il mondo fosse solo bianco o nero.
Ma il mondo, amico mio. Il
mondo è grigio. É sempre grigio. E nel grigio ci stanno quelli come me. E come Scofield.
I rifiuti, quelli che
nessuno vuole, quelli che tutti ignorano. Perchè
siamo fastidiosi, e siamo pericolosi.
Perché siamo dei drogati. Tutti e due. Drogati delle nostre fobie,
delle nostre stesse vite. Drogati di noi stessi e di quello che vediamo quando
ci guardiamo allo specchio.
Io lo so. L’ho sempre saputo. E non me ne è mai importato. Ci puoi
restare da cani, certo. Ma impari anche che a vita ti cuce addosso qualcosa, e
con quel qualcosa puoi solo conviverci e andare avanti.
Io lo sapevo; Scofiel non lo voleva
vedere.
E non mi stava a sentire, quando glielo sussurravo all’orecchio.
Come un serpente, qualcuno avrebbe potuto dire. E la sua testardaggine; la sua
incrollabile certezza di essere un bravo
ragazzo. Dio. Quanto mi faceva venir voglia di farlo crollare.
Lo avrei stuprato volentieri. Nella testa, sì. In quelle sue
patetiche idee di salvatore, di uomo che guarda tutti, che guarda me, dall’alto
in basso.
Dio. Quanto era eccitante.
Sì: Scofield sarebbe stata la mia
puttana ideale. Una di quelle che ti sputa in faccia per farti eccitare e Dio
solo sa quanto mi eccitasse quel ragazzino pelle e ossa. Come quando mi
guardava con disgusto, quasi con orrore. Oh, adoravo quello sguardo. Mi faceva
venir voglia di strapparglielo dalla faccia.
Perché. Vedi. Fottere la
gente era la mia specialità. Ed era anche la sua. E questo. Era questo che Scofield non accettava. Che in fondo, che in realtà io e
lui fossimo simili. Davvero simili.
Solo che io ho il coraggio
di ammetterlo. Ma lui. Lui no.
Ci ho messo un po’, onestamente.
Non perché non avessi in mente di chi scrivere. T-Bag
è l’alter-ego di Scofiel così come Sucre gli è
complementare. Ma gestire T-Bag è difficile. Perché è
uno che le cose te le sibila all’orecchio, mellifluo come un serpente
travestito da anguilla.
Ed è anche un uomo che non ha paura di guardare in faccia se stesso e
riconoscersi per quello che è.
Non ho amato molto come lo hanno reso nell’ultima serie, quasi un
rinnegato di se stesso, benchè sia il motore che fa
partire tutta la narrazione. Non è stata l’idea in sé a dispiacermi, ma come l’hanno
resa.
Quasi per buonismo e politicamente corretto anche T-Bagdovesse
tentare di diventare buono. Ma poi cosa vuol dire “buono”?
Prisonbreack, nel
suo piccolo, ti pone questo interrogativo. E se T-Bag
cavalca la serie come incarnazione del male, perché snaturarlo in un pentito
sulla via del perdono? Perché non può essere semplicemente un personaggio “umano”,
con le sue aberrazioni? Chè, purtroppo, nascondere la
testa sotto la sabbia non impedisce che nel mondo persone del genere esistano.
E con questo, chiudiamo il cerchio. Completamente. E definitivamente.
Grazie mille a chi mi ha letto, a chi mi a commentato e a chi è anche
solo passato di qua, anche se per inciampo.