Hantai nado

di Hitchris
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I - Scontri e incontri ***
Capitolo 3: *** Capitolo II - Il basket non è cosa da donne! ***
Capitolo 4: *** Capitolo III - Una piccola eccezione! ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV - Una questione di punti di vista ***
Capitolo 6: *** Capitolo V - Milkshake e fiori di ciliegio ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI - Hikari scende in campo ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII - Proposte Indecenti ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII - Welcome back America! ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX - Amici ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


“Seirin High School”

 

Un nome, inciso sull'enorme targa che aveva davanti agli occhi.
Seirin High School.


Un semplice nome, un nome che le fece correre lungo la schiena un brivido d'eccitazione e timore.
La sua scuola.
La sua nuova, enorme, scuola.
Hikari se ne stava immobile di fronte alla brillante targa ramata, a contemplare quello che per alcuni era probabilmente diventato quotidianità, e che per altri voleva dire: "Un’altra giornata d'inferno in questo maledetto tugurio". L'edificio si stagliava imperioso davanti ai suoi occhi di anonima studentessa; enorme, in confronto a lei, e intrigante. Un istituto di prim'ordine, piccolo astro nascente, che aveva aperto i battenti solo da una decina d'anni e che ancora non si era fatto un nome, ma che non avrebbe sicuramente problemi a concorrere con altre scuole del paese viste le varie attività che vi erano svolte e alle strutture nuove di zecca che la caratterizzavano.
"Col tempo, la Seirin sarà considerata al pari degli altri licei", aveva detto suo padre dopo aver approvato l'idea che sua figlia frequentasse una semplice scuola di periferia. Scettico, inizialmente, il suo vecchio, tuttavia gli era bastata una veloce gita all'Istituto e la decisione era stata presa.
Ricordava l'entusiasmo con cui aveva comunicato le sue intenzioni a suo padre. Non era stata una decisione ponderata; neanche per un attimo Hikari aveva valutato, aveva preso in considerazione i "diversi fattori" ai quali il suo vecchio era ricorso - d'altronde, su poche cose si trovavano d'accordo, loro due -: il viaggio quotidiano fino all'Istituto, la fama di quest'ultimo, l'idoneità della struttura. Lei era semplicemente corsa a casa, con il volantino del liceo tra le mani, aveva spalancato la porta d’ingresso e aveva urlato:
– Ho deciso, ho deciso: voglio andare alla Seirin!
E dopo una discussione che era durata quasi una settimana, in cui lei era rimasta ferma sulle stesse decisioni che suo padre aveva messo ripetutamente in discussione, lui aveva ceduto. Forse, ora che ci rifletteva, aveva acconsentito perché portato all'esasperazione; forse aveva semplicemente capito la vera ragione di quella scelta, senza che lei dovesse parlare. E, conoscendo suo padre, c'erano alte probabilità che valesse questa seconda opzione.
Ora, imbambolata davanti all'entrata, ricordava quel giorno e si sentiva una perfetta idiota. La verità era che aveva scelto quell'istituto per una ragione precisa , che probabilmente suo padre ignorava ancora, e che non era proprio quella che lui aveva inteso. Non fino in fondo, almeno.
Ora, però, che si trovava davanti alle porte del suo futuro, che era così vicina al raggiungimento dei suoi obiettivi, pensava che forse non era stata proprio una buona idea. Effettivamente, pensandoci, le difficoltà erano molte, ardue da affrontare, e gli ostacoli che le si ponevano davanti gli parevano insormontabili, adesso.
"Non fare la stupida: entra".
Hikari scosse la testa ed entrò.
Basta lagne”, si ripetè, “ormai sei qui e devi fare quello che ti sei ripromessa di fare”.
Percorse il lungo viale circondato da frutteti. Tirava un piacevole vento fresco quella mattina e i pallidi raggi di sole illuminavano il paesaggio di fronte a lei, spazzando via il solito grigiore tipico delle giornate di settembre; Hikari si strinse comunque nel suo giacchetto, in gesto più controllato e abitudinario che sentito. Stava bene: nonostante la lieve preoccupazione che le aveva chiuso lo stomaco, si sentiva pronta per affrontare quella giornata.
Si diresse verso l'entrata, facendo prima correre lo sguardo lungo i campi da calcetto e il verde prato alla sua sinistra, dove studenti e studentesse erano riuniti in piccoli gruppi eterogenei e discorrevano del più e del meno senza prestarle particolare attenzione.
Un nuovo anno per loro, un nuovo anno per lei.
- Seirin High School... - mormorò tra sé e sé. Qualcuno avrebbe potuto sentirla e prenderla per pazza, ma a lei non importò. D’altronde, non era tipo da farsi molti problemi in generale.
 - ...a noi due.
Un sorriso beffardo, un'espressione enigmatica in volto.
Entrò nell'Istituto con lo zaino in spalla e una gran voglia di iniziare la giornata.



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Ciao ragazz*! Eccomi finalmente qui con un'altra FF.
Ho cominciato a scrivere questo testo molto tempo fa - qualche anno, a dire il vero - e ho deciso di riprenderlo in mano. La pandemia e la noia di giornate sempre uguale mi hanno spinta a riprendere in mano l'anime e da qui è ripartita la fissa. E cos'altro fare, se non alimentarla? Bene, ho continuato a scrivere e ho deciso di pubblicare i primi capitoli.
Se tutto andrà bene, pubblicherò un nuovo capitolo a settimana, così da avere il tempo di avvantaggiarmi con la stesura e mettere sempre a disposizione una nuova parte per voi!
Spero vi piaccia (a me sì, raga, c'è Aomine... che dire).

Se volete farvi una chiacchiera, vi lasciamo qui il mio instagram:
Hitchris

Buona lettura

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Capitolo 2
*** Capitolo I - Scontri e incontri ***


– Quest’anno ci saranno un sacco di nuove matricole, sono sicuro che ci sarà da divertirsi.
– Già... e, oh! Ho sentito dire da Nakano e da Harada che c’è una nuova ragazza nella loro classe. Frequenta il terzo anno, a quanto pare si è trasferita qui dall’estero.
– Una nuova? Del terzo anno? Strano. E Nakano ti ha detto com’è? È carina?
– Oh amico. è una vera bom-…
Kagami-kun
Kagami Taiga, studente della Seirin High School, classe I-LC, membro titolare della squadra di basket scolastica, un metro e novanta centimetri d’altezza per ottantadue chilogrammi di peso, si sentì improvvisamente mancare. Il suo cuore perse un battito – forse due –, lo stomaco gli si strinse in una morsa dolorosa e s’irrigidì tutto, lasciando che la faccia gli si contraesse in una smorfia di puro, semplice, genuino spavento. Smise immediatamente di origliare – non lo stava facendo di proposito: era immerso nei suoi pensieri quando erano sopraggiunti i tipi pettegoli alle sue spalle e non aveva proprio idea di come si era ritrovato ad ascoltare la loro conversazione – e si voltò, abbassando di poco la testa per arrivare a guardare la persona che gli aveva provocato quel dannato mezzo infarto.
– Kuroko, bastardo! Si può sapere perché continui a spuntare all’improvviso?! Ti diverti, per caso?!
– Veramente io sono sempre stato qui.
Ribatté in tono pacato il suo compagno di squadra, senza mutare né sguardo né espressione, al che Kagami ricordò che, come sempre, sbraitare contro Tetsuya sarebbe stata fatica sprecata. Tutto inutile: avrebbe continuato a fargli prendere colpi finché non ci sarebbe rimasto secco. Assunse un’espressione solennemente infastidita, Kagami, e non se la scrollò di dosso finché non imboccarono, uno al fianco dell’altro, il lungo corridoio che li avrebbe portati fuori in giardino, dove  finalmente avrebbero pranzato. D’altronde, Kagami aveva – come sempre – una fame da lupi.
–  C’è un sacco di nuova gente, quest’anno.
Proferì a un tratto Kuroko, cercando di intavolare una qualche specie di dotta conversazione con il bestione dai capelli rossi, che non ne voleva sapere di aprir bocca se non per mettere nello stomaco l’enorme panino che si era portato dietro. Non si prese, di conseguenza, la briga di guardarsi intorno per costatare se ciò che aveva appena detto Tetsuya fosse vero oppure no, limitandosi invece a osservare il compagno con la coda dell’occhio. Rispetto a lui, Kuroko sembrava un ragazzino. Formavano una strana coppia: un qualunque estraneo avrebbe potuto benissimo scambiarlo per suo fratello minore, tanta era la differenza di statura fra i due.
Eppure, chi li conosceva avrebbe detto il contrario.
Da quando era entrato nella squadra di basket, Kagami era cambiato. In meglio, certamente: aveva messo da parte la spropositata dose di orgoglio che l’aveva sempre contraddistinto e aveva compreso che cosa significasse per lui giocare a basket. Tutto ciò che aveva appreso, tutti i suoi miglioramenti li doveva a Riko, sì, e agli altri. Tuttavia, se aveva imparato a definire, a codificare tutte quelle sensazioni e quell’energia che provava ogni volta che scendeva in campo era solo grazie a Kuroko. Aveva sempre avuto una passione, un vero e proprio e sconfinato amore nei confronti di questo sport; ma aveva sempre giocato per se stesso, senza nessun particolare fine o scopo. Divertimento, certo… prima. Ora era qualcosa di più serio, qualcosa che non era solo per lui e che non riguardava solo lui.
Era qualcosa di più.
– Kagami-kun
C’era la questione della Winter Cup. C’era la questione che la sua squadra si era classificata per poter arrivare alla vittoria. C’era la questione che loro sarebbero arrivati alla vittoria, spazzando via chiunque si fosse messo tra i loro piedi. Voleva combattere, questa volta, combattere con tutte le sue energie. Dare di più di quanto aveva dato fino a quel momento; diventare più forte, più forte di tutti loro.
– Kagami-kun
Questa volta sarebbe stato diverso. Questa volta non ci sarebbe stato spazio per la sconfitta. Non si sarebbe più sentito così impotente, così impossibilitato a fare niente, ad agire, costretto invece a osservare la sua squadra, e soprattutto Kuroko, starsene immobile al centro del campo con lo sguardo di chi non ce l’ha fatta, di chi non ha potuto fare di più, semplicemente perché questo era il limite che potevano raggiungere.
Questa volta sarebbe stato diverso. Questa volta non ci sarebbe stato alcun limite: li avrebbe distrutti tutti, indifferentemente, e l’avrebbe fatto al fianco della Sei…
Una sensazione strana.
Improvvisamente, una sensazione strana al buco dello stomaco.
Il campo visivo di Kagami si tinse di un acceso e particolare color rosso. Svanì Kuroko, svanirono i suoi pensieri che da quella mattina sembravano tormentarlo, svanirono le persone intorno a lui. Per un momento che durò meno di una frazione di secondo, Taiga non vide altro che il colore rosso. Non fece caso ad altro, neanche al dolore che sopraggiunse qualche istante più tardi, come se qualcuno gli avesse ficcato il gomito tra le costole, finché la morsa non si fece talmente straziante da dover riattivare i neuroni del cervello e decifrare quello che stava accadendo.
– Guarda un po’ dove metti i piedi, bestione.
Il tono di voce della ragazza era palesemente irritato, come la sua espressione. Poco più in basso – per il suo metro d’altezza – si ergeva la figura – per lui minuta – di una giovane. Aveva i pugni chiusi che poggiavano sui fianchi, il viso arrossato e contrariato di chi si è appena ritrovata ad affondare la faccia nel petto di un perfetto sconosciuto perché quello sconosciuto non aveva fatto caso a lei. Occhi verdi smeraldo si piantarono in quelli di Kagami, il quale per un momento si ritrovò atterrito e spiazzato dall’inaspettata faccenda. Capì il perché del colore rosso: quello era il colore dei capelli di lei. Sciolte, le lunghe ciocche cremisi le arrivavano fino alle spalle, incorniciandole un viso che Kagami non avrebbe saputo come definire.
Gli fece un certo effetto, però, tant’è che in un primo momento pensò di scusarsi.
Poi, si ricordò del dolore al fianco.
Quella tizia non gli aveva mica dato una gomitata?!
– E tu guarda dove metti i piedi, rossa.
Io?! Sei tu che mi sei venuto addosso, idiota!
La voce della ragazza si alzò di un tono. Se Kagami avesse dovuto rappresentare graficamente la personificazione dello Sdegno, probabilmente si sarebbe sentito in dovere di disegnare il volto di quella ragazza. Si sentì ancor più disorientato: quella che aveva davanti era una persona dell’altro sesso, eppure stava assumendo gli stessi toni che avrebbe assunto lui durante una rissa di strada… aspetta, gli aveva appena dato dell’idiota?
– Idiota? Come ti permetti, maledetta st…!
– Kagami-kun, dovresti scusarti.
Kuroko non si fece problemi a interromperlo e si protese in avanti, colmando la piccola porzione di spazio che li divideva. Probabilmente Tetsuya non aveva prestato attenzione a lei, e ciò fu confermato dal fatto che Taiga si ritrovò gli occhi del suo giovane amico piantati addosso, a guardarlo con tutta l’espressività di cui Kuroko e solo Kuroko era capace. Sembrava, a dire il vero, contrariato.
– Ma…
– Gli sei andato addosso, Kagami-kun. Ho cercato di chiamarti ma non mi stavi ascoltando.
“Certo che no”, pensò Kagami con irritazione, “hai il tono di voce di un neonato in fasce”.
Seccato e scontento, il ragazzo sospirò pesantemente. Non pensò di aver esagerato, anzi: avrebbe finito la frase se solo Kuroko non si fosse messo in mezzo. È vero, magari stava esagerando – lei era pur sempre una donna –, tuttavia non sopportava di essere insultato o, più precisamente, di essere preso a gomitate – da una donna, appunto. Socchiuse gli occhi, ingoiando l’enorme groppo che aveva in gola e ricacciando indietro l’elevata percentuale d’insulti che gli si erano impiantati nel cervello e, con uno sforzo non indifferente, proferì un: – mi dispiace – talmente sofferto da sembrare totalmente e inevitabilmente fasullo.
Infine aprì gli occhi, e lei non lo stava guardando. Kuroko era ancora girato verso Kagami, con lo sguardo fisso su di lui, e la ragazza dai capelli rossi non pareva neanche minimamente aver ascoltato quello che Taiga aveva appena detto.
Osservava Kuroko.
Osservava Kuroko, il quale non la guardava, e pareva avesse appena visto un fantasma. Assunse un’espressione stupita, attonita e sconvolta che durò meno di un secondo, dopodiché girò i tacchi e tornò da dove era venuta senza aggiungere altro, riappropriandosi del decoro e dell’indifferenza che aveva rivolto, fino a quel momento, a tutti. Quando Tetsuya si voltò di nuovo, lei era già lontana, e Kagami non si azzardò a dire niente. Di solito era l’amico ad accorgersi di certe piccolezze, non lui: lui apriva bocca e dava fiato, senza preoccuparsi particolarmente di quelli che potevano essere gli stati d’animo altrui. Eppure… eppure lo sguardo che quella misteriosa tizia aveva riservato a Kuroko era stato troppo inconsueto, troppo insolito perché non se ne accorgesse.
– Se n’è andata…
Disse il suo compagno, un po’ stupito.
– Tsk, ma che me ne frega.
Kagami scosse la testa e aggiunse:
– Raggiungiamo gli altri e andiamo a mangiare.
Dopo pochi minuti Kagami e Kuroko raggiunsero gli altri membri della squadra di basket. Si accomodarono al loro solito posto, in un angolo di prato colmo di altri studenti che avevano avuto la bella idea di pranzare fuori. Era una bella giornata di sole, un po’ troppo calda per essere settembre, tuttavia piacevole. Salutarono Hyuuga, Izuki, Mitobe, Koganei, Tsuchida, Kiyoshi e chiesero dove fosse finita Riko. Loro risposero che, come al solito, era impegnata con le schede per gli allentamenti di quel pomeriggio, e che avrebbero mangiato senza di lei. Ma quando fu il momento di mettere finalmente qualcosa nello stomaco, Kagami si accorse di non avere poi tanta fame: la rabbia era ormai sbollita, evaporata come acqua al sole quando aveva visto gli altri. Non fece più caso né al dolore né alla spiacevole sensazione che aveva provato litigando con quella ragazza. Diversamente da quanto avrebbe potuto aspettarsi da se stesso, però, la sua mente era ancora focalizzata sull’istante in cui lui aveva osservato Kuroko. I suoi pensieri, prima indirizzati tutti a un pallone e un campo da basket, si accesero improvvisamente di un vivido rosso fuoco.
 
 
 
***
 
 
 
La palestra era enorme.
Hikari entrò silenziosamente e si mise a osservare affascinata la struttura che aveva raggiunto con non poca difficoltà – quella scuola era un labirinto, diamine –, rimanendo imbambolata per un po’ sul posto. Non sapeva se in realtà fosse il fascino suscitato dalla struttura o le emozioni e i ricordi che le riaffioravano alla mente che le stringevano lo stomaco in una morsa non troppo piacevole, ma in quel momento non aveva intenzione di porsi delle domande.
Non c’era nessuno che potesse guardare la sua faccia inebetita, nessuno che potesse chiedersi che cosa ci faceva una studentessa del terzo anno, che a quell’ora avrebbe dovuto essere in giardino, a pranzare e civettare con le sue nuove quattro, cinque amiche di turno di questioni riguardanti shopping, uomini e futuri party cui sicuramente sarebbero andate insieme; nessuno che potesse, insomma, importunarla come quel tipo che aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi tra i piedi poco fa.
Poco fa.
Hikari passò in rassegna all’accaduto, facendo tornare a galla quella scomoda e spiacevole sensazione che si era andata a formare nella sua testa quando aveva posato gli occhi su quel ragazzo dai capelli celesti. Di nuovo, come qualche istante prima, si ritrovò a combattere contro la forza e la spietatezza del passato, che quel giorno proprio non voleva lasciarla in pace. Eppure aveva pensato a tante volte a come sarebbe stato tornare a casa; in un certo senso si era preparata: due anni in Australia sono abbastanza da cominciare a sentire nostalgia della buona e vecchia patria, si era detta.
Sembrava non essere così. Non fino in fondo.
Per un attimo, quando l’aveva visto, il suo cervello aveva smesso di funzionare. Si era ritrovata in balia dello stesso mare di disperazione e risentimento in cui aveva rischiato di annegare spesso, e l’unica parvenza di sollievo le era stata data solo quando aveva fatto le valigie e se ne era andata il più lontano possibile dal Giappone, seguendo suo padre in uno dei suoi interminabili viaggi lavorativi.
Ora era tornata. Dopo due anni era di nuovo a casa: percorreva le stesse strade di quando era più piccola e riconosceva i luoghi familiari dove aveva passato così tanto tempo insieme ai vecchi amici – adesso chissà dove. Si ritrovava, insomma, nel bel mezzo di un ambiente che sentiva suo, finalmente, ma che faceva comunque male. Si era detta molte volte che sarebbe tornata solo ed esclusivamente quando si sarebbe sentita abbastanza forte per non crollare di nuovo, e quando era partita credeva di esserlo davvero: adesso, però, non ne era più così sicura.
Forse devo solo metabolizzare l’idea di essere a casa, si ripeté per quella che fu la millesima volta, ma l’auto incoraggiamento non fece altro che farla ripiombare dritta al momento in cui aveva incrociato il ragazzo. Abbastanza forte, sì, e non l’aveva neanche guardato in faccia. Questo era l’effetto che faceva tutta questa situazione su di lei? Voleva dire che il tempo che era trascorso in fin dei conti non era valso a nulla?
Cazzate.
Erano tutte cazzate.
La verità era solo una, e cioè che era venuta lì per uno scopo preciso. Aveva paura, ovviamente, paura di se stessa e di come avrebbe potuto gestire tutta quella situazione; paura di potersi scoprire più debole di quanto pensasse. Eppure, com’era tipico del suo carattere, la paura scatenava in lei un irrefrenabile, cieco sentimento di rabbia, che riversava inevitabilmente in – quasi – tutto ciò che faceva.
Hikari si guardò intorno per un po’, immobile al centro della palestra, immersa nel filo sconnesso dei suoi pensieri, che riuscì a zittire solo dopo quello che le parve un infinito arco di tempo. Infine, rivolse la sua attenzione verso la persona che si trovava in fondo alla sala, la quale pareva essere tutta presa da una serie di scartoffie che giacevano alla rinfusa sulla scrivania. Da quando Hikari era entrata, non aveva alzato la testa da quei fogli: probabilmente non si era neanche accorta della sua presenza. La rossa si avvicinò, e il rumore dei passi ruppe il silenzio plateale che l’aveva circondata sino a quel momento.
La ragazza china sulla scrivania aveva continuato a porre l’attenzione a quello che stava facendo, nonostante quel ritmico e ciclico suono provocato da Hikari rimbombasse per la sala e risultasse leggermente irritante.
– Se vuoi convincermi a pranzare con voi, Hyuuga, sappi che perdi in partenza: devo preparare le schede d’allentamento settimanali, non posso più rimandare.
Sbiascicò Riko Aida, allenatrice della squadra di basket della Seirin High School. Continuò a scrivere, inconsapevole del fatto che sì, si era accorta della presenza di una persona nella palestra e che no, non aveva esattamente chiaro quale. Hikari tacque, divertita e incuriosita dalla strana reazione della ragazza, che non voleva proprio smetterla di fare una pessima figura. La rossa sorrise: non ne poté fare a meno.
– Questa volta l’allenamento sarà più duro e strutturato. Dobbiamo impegnarci… cioè, dovete impegnarvi se volete arrivare alla finale della Winter Cup nel pieno delle vostre forze e capacità. Sono sicura che ce la faremo… cioè, che ce la farete. L’allentamento inizia alle sedici e trenta, dì agli altri di essere puntali o gli farò fare cinque chilometri di corsa in più.
L’ultima parte del discorso fu caratterizzata da particolare enfasi, per cui Riko si ritrovò ad alzare lo sguardo verso Hikari continuando a parlare come se davanti avesse davvero quel fantomatico Hyuuga con cui pensava di parlare. E finì il discorso nonostante questo piccolo dettaglio, del quale si rese conto solo dopo qualche istante di silenzio, rotto da un urletto acuto e sconvolto, cui seguì un’espressione che a Hikari sembrò tra l’imbarazzato e il sorpreso.
– Ciao –
L’anticipò la rossa, cercando di evitare una raffica di domande spiacevoli e scomode riguardo a chi fosse e che ci facesse in quel posto a quell’ora. Contrariamente da come si era immaginata, Hikari era rilassata e a proprio agio; magari era l’ambiente, si disse, così familiare rispetto a tutte le novità che la circondavano, magari era solo il fatto che stava cercando di convincersi che sarebbe andato tutto bene. Ma le cose non erano poi così semplici.
Rimasero un momento in silenzio: Hikari sorrideva e Riko la guardava con uno sguardo interrogatorio, cercando di capire che cosa volesse quella ragazza, nota discorde rispetto alla melodia silenziosa che fino a qualche minuto prima aveva aleggiato nella palestra.
– Tu devi essere Riko Aida, giusto? –
– Mh? Come fai a…? –
Ma Riko non finì la frase. Le parole le morirono in gola senza un particolare motivo, sostituite da un’altrettanta bizzarra sensazione che si aggiunse a quella, già presente, d’incondizionato e profondo stupore. Per la prima volta da quando la ragazza dei capelli rossi era entrata nella palestra, Riko Aida cominciò a prestare attenzione e a nutrire una strana curiosità nei confronti di Hikari. La guardò, notando il modo in cui spostava elegantemente e con naturalezza il peso del corpo da una parte all’altra, senza dare l’idea che fosse effettivamente tesa o nervosa. Le braccia lungo i fianchi, i capelli rossi che le ricadevano sulle le spalle, un po’ scompigliati e tenuti fermi da una semplice molletta nera in modo che non le finissero sul viso. Non indossava la tipica divisa scolastica: portava dei pantaloni, anziché la gonna, e una camicia a maniche lunghe al posto della maglietta e della giacca. Se non avesse avuto un viso e dei lineamenti femminili, Riko avrebbe potuto benissimo scambiarla per un uomo. Però era bella. Non sapeva dire perché, non c’era un particolare che l’aveva colpita guardandola: eppure aveva come la sensazione che possedesse qualcosa, qualcosa che nascondeva gelosamente sotto quella parvenza di ordinarietà e anonimato. Sicuramente era una persona che non passava inosservata, anche se aveva l’idea che lei desiderasse proprio quello: l’indifferenza altrui.
Lavoro sprecato, se era addirittura una donna come lei ad averla notata e avere fatto tutta una serie di considerazioni oggettive… non osava immaginare quale effetto potesse fare sugli uomini.
Comunque, Riko annuì.
Hikari allungò la mano, in un gesto di cortesia, e sorrise. Riko non si sarebbe mai aspettata di udire quello che avrebbe udito di lì a pochi secondi, parole cui avrebbe ripensato ancora e ancora nei giorni a venire, facendo sorgere domande senza risposta e una, ancor più profonda e disturbante, curiosità. Persino quando si sarebbe – faticosamente – gettata l’episodio alle spalle, schiacciandolo il più profondamente possibile nei recessi della sua mente e ponendovi tutta una serie di pietre sopra, quello avrebbe comunque continuato a bussare alla porta in vari momenti della giornata.
Ma a tutto questo Riko lì per lì non fece caso, perché quando la ragazza parlò, i neuroni del suo cervello andarono in tilt.
– Il mio nome è Hikari. Vorrei entrare nella vostra squadra di basket.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo II - Il basket non è cosa da donne! ***


 
Didn't I tell you already,
that you would not be able to move forward if you hid behind your weakness?
Respiro corto, muscoli che mandavano spasmi continui e dolorosi, il vento sulla faccia e un sudore freddo che le scivolava fastidioso lungo la schiena, appiccicandosi ai vestiti. Queste erano solo alcune delle molte sensazioni che stava provando Hikari in quel momento; sensazioni, pensò, che le parevano così tanto piacevoli e familiari da oscurare e spazzare via la fatica di quel pomeriggio.
Look, my fragile inner self,
no matter how dramatic your stage play is, everyone still remains unimpressed.
Erano passati quattro giorni. Quattro giorni da quando era entrata in quella dannata palestra, aveva parlato con Riko e non aveva risolto assolutamente niente. L’allenatrice, dopo un momento d’intontimento e confusione, aveva iniziato a parlare con voce severa e risoluta, smantellando ogni minima illusione su cui Hikari aveva fantasticato a lungo: – Non possiamo permetterci di accogliere altre persone in squadra –, aveva detto, – e poi le donne non possono gareggiare in una categoria come la nostra. Mi spiace. 
A niente erano servite le parole di Hikari, che si era premurata di spiegare a Riko che in assenza di una squadra femminile di basket nella regione, qualsiasi ragazza avrebbe potuto prendere parte a un qualsiasi club maschile della zona. Non c’era, d’altronde, nessun regolamento che vietava la partecipazione di una donna ai tornei regionali. Certo era che probabilmente nessun individuo del gentil sesso avrebbe mai potuto pensare di essere al livello di una squadra di basket maschile, e di poter giocare contro bestioni del suddetto genere… ma questo era un dettaglio cui Hikari non aveva mai fatto molto caso.
Ad ogni modo, le motivazioni dell’allenatrice erano state, in modo molto più che evidente, una scusa, e questo la rossa l’aveva afferrato a pieno. Certo, non che si potesse biasimarla: come si poteva far entrare in squadra una perfetta sconosciuta, conoscendo perfettamente le capacità e le caratteristiche degli avversari contro cui si sarebbero trovati alla Winter Cup? Riko non era nemmeno sicura che la sua squadra potesse farcela, per quanto fosse conscia dei risultati che avrebbero potuto raggiungere con uno sfiancante allenamento e una precisa tabella di marcia; pensare di poter fare entrare qualcun altro in squadra… una donna, in squadra, era fuori discussione. Era un momento davvero troppo delicato, quello, per rischiare il tutto per tutto.
E Hikari era, appunto, un grande, enorme, smisurato punto interrogativo.
La rossa capiva. Capiva i dubbi dell’allenatrice, comprendeva lo sbigottimento e lo stupore che poteva averle suscitato una richiesta del genere. Non la biasimava, insomma, anche se avrebbe preferito avere un qualche tipo di chance, e forse era proprio per questo che quel pomeriggio di quattro giorni fa se ne era andata con l’amaro in bocca: Riko non aveva voluto metterla alla prova per timore e lei non aveva potuto che darle, in qualche modo, ragione. Non si era rassegnata, questo era certo, ma ora le cose si erano fatte più difficili e non aveva proprio idea di come riuscire a convincere l’allenatrice a farla entrare nella squadra.
 
Even in a night tormented by loneliness, I impatiently await tomorrow's light.
With the strength to admit that my weak self is merely bluffing,
I must get started! 
I can do it!
 
Hikari correva. Correva, ignorando il pungente dolore dei muscoli delle gambe e delle braccia; correva, con la musica che le rimbombava nelle orecchie e si scervellava per trovare una soluzione al problema. La frustrazione dovuta a tutta quella situazione pareva non poter essere risolta con il solo e unico esercizio fisico, ma lei non conosceva altra via se non quella che prevedeva l’affaticarsi fino a non avere più forze, né fisiche né mentali. La conseguenza era che quando arrivava a casa era talmente stanca da avere la testa svuotata e andava a letto senza il rischio di passare una notte insonne. Un espediente efficace, certo, ma destinato a non durare.
La rossa svoltò l’angolo, lo zaino sulle spalle, la tuta scolastica indosso.
Faceva caldo, un caldo tremendo.
Piccole goccioline di sudore le scivolavano lungo le guance, incorniciandole il viso arrossato dalla fatica. Mentre correva, gettò l’occhio sul polso e guardò l’ora: le diciotto e trenta.
Correva da un’ora e mezza.
 
From there, I must face forward,
and start walking! Start running! Never stop!
 
Non sapeva con certezza quanta strada aveva fatto, ma sapeva di essere partita dall’istituto con l’intenzione di arrivare a casa senza ricorrere ai mezzi – prendere il treno era una cosa che aveva sempre odiato, soprattutto perché riteneva superfluo avvalersi di tale aggeggio quando poteva benissimo andare da sé.
Era quasi arrivata.
Decise di imboccare la via principale per dare un’occhiata ai negozi e ai locali che vi si trovavano. I ristoranti fast-food e i Cafè poco frequentati erano ottimi per starsene in pace, senza essere circondati dal lugubre e silenzioso ambiente di casa – e poi, chi avrebbe cucinato tutte le sere quando suo padre sarebbe partito per uno dei suoi viaggi di lavoro? Non lei, no di certo.
Di conseguenza, rallentò il passo e si guardò intorno, scoprendo con poco stupore di avere una fame da lupi. Aveva quasi deciso di fermarsi a mangiare un boccone in uno di quei ristoranti tipici quando la sua attenzione fu catturata da un particolare interessante.
Hikari arrestò immediatamente la corsa, con gli auricolari che continuavano a produrre musica a tutto volume e il fiato corto. Le gambe le facevano un male cane, le braccia tremavano leggermente, ma lei liquidò il tutto senza particolari problemi, rivolgendo lo sguardo altrove. Si avvicinò alla vetrina di un negozio di souvenir, ignorando bellamente il commerciante affacciato all’ingresso che fumava pigramente una delle sue tante sigarette – c’erano almeno una decina di cicche a terra – e allungò la mano verso un piccolo e colorato foglio di carta appiccicato a un angolo dell’enorme finestrone che dava nel negozio. Staccò il volantino senza porsi particolari problemi. La scritta in precedenza stampata su uno sfondo viola era stata cancellata con un pennarello nero, e ora le uniche parole leggibili erano:

                   TORNEO DI STREET BASKET RIMANDATO AL GIORNO SABATO
15 SETTEMBRE CAUSA MALTEMPO.
CIBO, DIVERTIMENTO E COMPETIZIONE: NON MANCATE!
 
Hikari sorrise, per la prima volta durante quella giornata. Le tornò alla mente il modo in cui Riko le aveva parlato, quello che le aveva detto e che conseguenze avevano avuto le sue parole sull’umore di Hikari fino a quel momento: ricordava di essersene andata senza aggiungere una parola, irritata e delusa. Stato d’animo, il suo, che si era portato dietro come un macigno sulle spalle fino a quel perfetto, eccezionale istante.
Rimase a fissare il foglietto per un po’, dopodiché lo accartocciò e se lo ficcò in tasca. L’idea di partecipare era un buon balsamo per ingoiare il rospo dovuto all’episodio con Riko. E poi, chissà, magari il Destino avrebbe voluto che si concatenassero tutta una serie di fortuiti incontri.
Magari.
Di certo, lei non sarebbe mancata.
 
***
 
‒ Kagami-kun, smettila di mangiare o non potrai giocare!
Sbraitò Riko d’un tratto, facendo trasalire tutti i membri della squadra di basket Seirin, escluso Kuroko e il suddetto Taiga, che dal canto suo parve lievemente scocciato dalla proibizione impartita dalla ragazza. Il rosso, infatti, si voltò nella sua direzione, dando le spalle al commesso del piccolo chiosco dove aveva deciso di fare tappa – era già il secondo quella mattina – e borbottò un:
‒ Giogherò do sdeddo, ge da baccio
continuando a ingurgitare avidamente la sua dose giornaliera di yakitori. Riko sospirò rassegnata, così come Hyūga, Hizuki, Mitobe, Koganei e Tsuchida, mentre Kiyoshi si limitò a sorridere, divertito dalla faccenda. Fu proprio lui a mettere una mano sulla spalla di Riko, così piccola e fragile rispetto a tutti gli altri, dicendo:
‒ Lascialo stare, Riko, sai com’è fatto Kagami.
‒ Ehi! Che cosa vorresti dire?!
Ribatté il rosso, ingoiando l’ultimo boccone del suo spuntino.
‒ Eh eh… niente, niente, Kagami. È tutto a posto.
 
Kiyoshi si passò una mano nei capelli e sventolò l’altra al vento, liquidando il discorso in maniera impacciata ma efficace. Con uno sguardo torvo e poco convinto, Kagami scrollò le spalle e si allontanò dalla folla riunita nei pressi del chiosco, affiancando Kuroko e continuando a borbottare tra sé e sé: ‒ Adesso non si può neanche mangiare in pace.
Era una bella giornata. Il sole illuminava l’ambiente circostante, colmo di gente di tutte le età: ragazzi che volevano, come loro, partecipare al breve torneo di quel pomeriggio; madri che avevano accompagnato i figli a fare una passeggiata, fermandosi a consumare quello che era un pasto frugale presso uno dei tanti stand adibiti all’evento; ragazze che non vedevano l’ora che qualcuno di quei maschioni palestrati si togliesse la maglietta per lanciare urlettini di piacere da oche giulive.
Una fauna eterogenea, non c’era che dire.
Riko si guardò intorno mentre camminava, affiancata da Hyuuga e Kyoshi, e pensò che l’idea di passare un sabato pomeriggio assieme, immersi in quello che loro tutti amavano più fare non era stata affatto male. Anche se il primo incontro per arrivare alla Winter Cup era vicino, Riko non poteva dimenticare l’effetto che aveva avuto la sconfitta contro il Gakuen sui membri della squadra. Kagami era forse l’unico che aveva meglio ammortizzato l’impatto, vista il suo inesauribile desiderio di competizione e, in quel caso, rivincita, ma fisicamente era stato provato: le sue gambe ancora lanciavano fitte che gli impossibilitavano l’ottima resa agli allenamenti strutturati da Riko. Per quanto riguardava gli altri, beh… erano questioni cui ora non voleva pensare. Conosceva l’ottica di Hyuuga, la situazione di Kyoshi, l’umore di tutti gli altri e, anche se, di fatto, Kuroko rimaneva per lei un grande mistero, Riko poteva benissimo intuire il suo stato d’animo.
Partecipare al torneo di Street Basket quel pomeriggio sarebbe stato un ottimo modo per distrarsi dalle preoccupazioni che attanagliavano un po’ tutti, e una scusa per passare un po’ più di tempo assieme. Per fortuna, si disse Riko, durante il primo torneo aveva preso a piovere: ora avevano la possibilità di ripetere quella giornata senza che niente e nessuno potesse renderla pessima. Salvo che, ovviamente, non avessero incontrato qualcuno della Generaz…
‒ Kuroko-cchiiii!
Come non detto.
Riko fece appena in tempo a girare la testa nella direzione da cui era provenuta quella voce squillante che si ritrovò nel suo campo visivo la figura statuaria di un giovane dai capelli biondi, che stava scuotendo Kuroko quasi fosse un pupazzo di peluche. Dietro di lui, un altro ragazzo fece capolino, fissando la scena con silenziosa rassegnazione.
‒  Da quanto tempo che non ci vediamo, Kuroko-cchi! Mi sei mancato!
‒ Kise-kun, per favore, lasciami.
Mentre Kise Ryōta stringeva in un abbraccio struggente il vecchio compagno delle medie, Kuroko cercava di toglierselo di dosso facendo una leggera – inesistente, in realtà – pressione sul suo braccio, che si trovava proprio all’altezza del collo del celeste. Nonostante non avesse aria nei polmoni, Tetsuya continuava ad ammonire il biondo in una maniera che solo Tetsuya poteva avere e che, in tutto quel bel teatrino, era l’unico elemento che aveva del comico.
Alla fine Kise lo lasciò andare, senza tuttavia perdere l’entusiasmo che aveva scaturito quell’incontro inaspettato. Kuroko, invece, che stava riprendendo fiato, non sembrava altrettanto elettrizzato dalla cosa.
 ‒ Che bello incontrarvi tutti qui! Kasamatsu-kun ha passato tutto il tempo a rimproverarmi per averlo buttato giù dal letto di sabato. Ah, mi sento così incompreso a volte!
‒ Sei venuto a svegliarmi alle otto di mattina!
Sbraitò il Capitano del Kaijo dietro di lui, ma Kise liquidò il discorso con un gesto della mano.
‒ Suvvia, Capitano, stavo solo…
Un colpo assestato tra capo e collo e Kise si ritrovò a piagnucolare in un angolo, malamente zittito da colui che a Kagami piaceva chiamare “testa pelata”.
‒ Vedi, Kuroko-cchi? Sono sfruttato!
‒ Sfruttato?! Magari è il contrario, razza di idiota!
Sfruttato, ho detto!
Kuroko guardò Kise e Kasamatsu battibeccare senza dire una parola. Quando fu preso in causa, però, aprì bocca e disse semplicemente:
‒ Sembrate una coppia.
La pacatezza con cui lo disse fece sì che scoppiasse una sonora risata generale. Tetsuya non aveva afferrato il senso della battuta, poiché per lui quella non era altro che una sincera e sentita constatazione delle cose, ma non ci fece molto caso e riprese a starsene in silenzio. Per la verità era contento di trovarsi lì, nonostante la piccola parentesi iniziale dello scontro/incontro con Kise. Guardò tuttavia Kagami per cercare nel suo volto una qualche parvenza d’irritazione. Non ve n’era, per cui decise definitivamente di rilassarsi.
‒ Volete iscrivervi al torneo?
Domandò il rosso, che era rimasto sulle sue fino a quell’istante. D’improvviso ebbe una gran voglia di correre a iscriversi all’incontro: finalmente questa giornata cominciava ad assumere una piega davvero interessante. Non giocava contro Kise da un bel po’, ed era curioso di vedere i suoi miglioramenti – soprattutto, Kagami voleva mettersi alla prova, ma questa non era una novità. Stava proprio iniziando a esaltarsi quando Ryōta parlò, senza scollarsi di dosso quell’accattivante sorriso che era suo tipico.
‒ No, oggi ci limiteremo a guardare. Tra qualche ora dobbiamo allenarci, e Kasamatsu non vuole perdere tutta la giornata dietro una “ridicola competizione”, come dice lui.
Le speranze di Kagami evaporarono come acqua al sole. Si ritrovò ad assumere un’espressione contrariata che lo spinse a sbuffare e scuotere la testa. Peccato. Avrebbe potuto vedersela con qualcuno d’interessante, e invece niente. Si sarebbe limitato a giocare al minimo delle sue capacità anche stavolta – non che gli dispiacesse concorrere al fianco dei suoi compagni di squadra, tuttavia quando si trattava della Generazione dei Miracoli le cose assumevano sempre delle pieghe diverse.
‒ E’ vero, dobbiamo allenarci alle quindici e trenta. Ma faremo il tifo per voi fino a quell’ora.
Il Capitano del Kaijo sorrise, beffardo, e Riko ebbe l’impressione che li stesse quasi sfottendo. Non si pentì comunque della decisione che aveva preso: quella sarebbe stata una giornata di riposo, solo quella, dopodiché avrebbero ripreso ad allenarsi come stabilito. Inoltre sapeva benissimo che i suoi ragazzi impiegavano ore extra della giornata per esercitarsi individualmente, per cui non c’era ragione di preoccuparsi.
Non oggi, almeno”, pensò.
‒ Beh, allora noi andiamo a…
‒ Ragazzi, non ci crederete mai!
Una voce interruppe le parole di Riko, la quale era rimasta a bocca aperta nel tentativo di finire di parlare. L’urlo acuto che Hayakawa aveva lanciato li zittì tutti, lasciandoli in sospeso per una frazione di secondo. Si voltarono tutti nella sua direzione, attendendo che si avvicinasse a loro e la finisse di correre come se stesse fuggendo da una banda di teppisti di strada. Quando si fermò era ormai abbastanza vicino da potersi far udire senza il rischio di far girare tutti i presenti nella piazza; poggiò le mani sulle ginocchia, Hayakawa, si piegò e riprese fiato.
‒ Hayakawa, dove diavolo eri finito?
Domandò Kasamatsu, mollando un ceffone tra capo e collo anche a lui. Questione di equità. Lo sfortunato piagnucolò per qualche secondo, giustificandosi nel mentre e dicendo che si era allontanato dal gruppo solo per andare in bagno. Era pura casualità se aveva origliato il discorso di un paio di partecipanti al torneo: lui non si era avvicinato volutamente per farsi gli affari degli altri, assolutamente no, non era mica quello il suo modo di fare. D’altronde aveva sentito una piccola parolina che aveva attirato la sua attenzione e, siccome a volte il cervello fa fare cose strane alla gente, non era colpa sua se alla fine aveva ascoltato.
‒ Arriva al punto, Hayakawa, o giuro che ti mollo un altro pizzone.
Il Capitano del Kaijo incrociò le braccia al petto e storse il viso in una smorfia di fastidio e rabbia, palesando tutto il suo astio nei confronti del giovane che lo aveva lasciato da solo in balia degli impellenti capricci di Kise. Mitsuhiro a quel punto capì di aver introdotto alla perfezione il discorso e, soddisfatto della sua eccezionale dialettica – non capiva perché, se parlava in maniera così sorprendente, le sue tattiche di rimorchio fossero per le donne così scadenti –, riempì il petto di aria e disse, frenando l’eccitazione, che:
‒ Al torneo parteciperà una ragazza!
 Ci fu un lungo, interminabile momento di silenzio. Tra lo sbigottimento generale, solo Riko si ritrovò talmente spiazzata da non riuscire a spiccicare parola per il quarto d’ora successivo, in preda a un’insolita e intima sensazione che le provocò un brivido freddo dietro la schiena. Improvvisamente le ritornò alla mente l’episodio della giovane ragazza dai capelli rossi che, quel pomeriggio in palestra, l’aveva colta totalmente alla sprovvista. Non se ne era andato il pensiero di lei da quel giorno, tuttavia Riko aveva cercato il più possibile di scacciarlo dalla mente, sia perché non aveva tempo per permettersi delle distrazioni del genere, sia perché l’idea di far entrare una ragazza nella squadra le era parsa talmente assurda e improbabile da non essere presa in considerazione neanche lontanamente. Adesso, però… adesso però quel pensiero era tornato a galla con la forza di un uragano, e Riko si era ritrovata a rivivere, in maniera tremendamente vivida, quell’episodio, passando in rassegna alle possibilità, facendo calcoli, soppesando le probabilità, l’idea di una ragazza che forse avrebbe potuto sostenere il confronto con un membro della Generazione dei Miracoli. Tutta questa storia le sembrava assurda. Era impossibile che una donna potesse competere con qualcuno di loro: non poteva, era matematicamente inconcepibile una qualsiasi equazione che permettesse a lei di reggere il ritmo di gioco cui i suoi ragazzi erano sottoposti durante determinate partite. Eppure l’ostinazione di Hikari – sempre ammesso che fosse lei a partecipare al torneo – aveva cominciato a far vacillare le sue certezze. Prima della competizione estiva Riko era sempre stata sicura che i suoi calcoli fossero infallibili, che esistesse un limite oltre il quale i giocatori non potessero arrivare, ma era stata costretta a ricredersi. Il basket era un gioco che si basava prima di tutto sulle capacità fisiche e sulla resistenza di un singolo giocatore, eppure con il tempo aveva capito che solo questo non bastava, non poteva bastare, e si era ritrovata a pensare che ci fosse qualcosa di più della semplice e pura forza bruta. Bastava guardare i suoi compagni per capire che cos’era il basket, che cos’era lo spirito del basket.
‒ U-una ragazza?
Balbettò Kasamatsu, rompendo finalmente l’aura di stupore che aveva animato tutti. Persino Kuroko sembrava spiazzato, il che era tutto un dire. Kise guardava il compagno di squadra con occhi sbarrati e la bocca semiaperta, incredulo di aver udito quello che aveva appena effettivamente udito; così, anche i membri della Seirin.
‒ Una ragazza?
Fece eco Kyoshi, confuso.
‒ Le ragazze possono partecipare ai tornei maschili?
Domandò Hyūga, certo del fatto che “testa pelata” avesse fatto un errore. D’altronde quel tipo era fissato con le donne, quindi era molto probabilmente che avesse confuso la realtà con una sua qualche fantasia erotica.
‒ Stronzate! Le ragazze non possono giocare a basket.
Proferì Kagami, solenne, e a quel punto Kuroko si voltò verso di lui con un’aria vagamente contrariata, quasi fosse stato soggetto a un attacco alla sua persona – d’altronde, Tetsuya era il più esile di tutti loro, quello che aveva meno resistenza e forza fisica: in un certo senso, un po’ meno portato per uno sport di questo tipo.
‒ Che vorresti dire, Kagami-kun? Secondo te le donne non possono giocare a basket?
‒ Dico solo che le donne dovrebbero giocare con le donne, non con gli uom…
‒ Kagami, idiota! Ricorda chi è che ti allena!
Hyūga aveva afferrato malamente l’orecchio destro di Kagami e lo stava tirando con tutta la forza di cui era capace, urlando al contempo. Riko fu riportata con i piedi per terra dalla voce suoi compagni, strappata dai recessi dei suoi pensieri in maniera violenta ma efficace. Arrossì leggermente quando sentì Hyūga parlare, ma il fastidio dovuto all’atteggiamento di Kagami fu maggiore dello pseudo - complimento dell’occhialuto. Kise aveva ricominciato a sorridere, seppur stavolta meno convinto, e si godeva la scena con le braccia incrociate al petto, rivolgendo sguardo tagliente al rosso, il quale ora si era portato una mano all’orecchio e borbottava tra sé e sé.
‒ Suvvia, Kagami-cchi, sarà divertente vederti giocare contro una ragazza. Attento a usare riguardo: con l’istintività che ti ritrovi, potresti farle male senza accorgertene.
Kagami rimase leggermente spiazzato da quell’affermazione, che aveva tutta l’aria di essere una frecciatina bella e buona. E lecita.
Non poté aggiungere altro, però, perché Riko mise solennemente fine a quella conversazione ancor prima che essa iniziasse:
‒ Basta così, andiamo a iscriverci prima che inizi il torneo.
‒ Ma, Riko, forse Kise non ha tutti i tor..
‒ Andiamo a iscriverci, ho detto. E basta fare polemiche.
Il tentativo di Hyūga di far sfuggire la povera, misteriosa ragazza alla furia violenta di Kagami fu troncato sul nascere. Riko diede le spalle ai presenti e cominciò a incamminarsi verso lo stand dove si svolgevano le iscrizioni. Gli altri la seguirono dopo un po’, in preda alla confusione e allo sbigottimento. Sapevano che Riko, chissà per quale strana e assurda ragione, stava pensando qualcosa. Che cosa, però, non era dato saperlo.
 
***
 
Mentre Hikari scriveva il suo nome sul foglio d’iscrizione, compilando tutte le varie parti della scheda, il ragazzo che era seduto dall’altra parte del banco e che gestiva l’organizzazione del torneo la guardava come se avesse visto un fantasma. Un po’ pallido in viso, boccheggiava nel tentativo di cacciar fuori qualche parola, cercando, forse, di ribattere la sua decisione di partecipare a quell’incontro. Dapprima, quando si era messa in fila, aveva ricevuto occhiate torve e interrogative da parte dei presenti; erano tutti più alti e più grossi di lei e, per un momento, Hikari si era sentita intimorita e scoraggiata da tutti quegli sguardi. La sensazione tuttavia era svanita quasi immediatamente, lasciando spazio a una profonda e giustificata irritazione di fondo che non l’aveva abbandonata neanche un momento. Anzi.
Era quasi arrivato il suo turno quando erano cominciati i mormorii e le risatine. Lei si era voltata, aveva lanciato un’occhiataccia generale ai presenti e aveva incrociato le braccia al petto, tentando di ignorare la squallida e ottusa banda di ragazzini dietro di lei.
‒ Lei… ehm… è una ragazza?
Domandò a un certo punto il tizio della gestione, facendosi uscire di bocca le parole con uno sforzo non indifferente. Hikari non alzò gli occhi, nonostante fosse stata riscossa malamente dai meandri della sua rabbia repressa – stava riflettendo sugli schiamazzi di quei quattro piccoli esseri idioti alle sue spalle –, ma continuò a tenere la testa china sul foglio che aveva di fronte.
‒ Non è evidente?
Ribatté, il tono un po’ turbato, senza tuttavia scomporsi.
‒ Ma le ragazze… ecco…
Il giovane malcapitato deglutì, si zittì un minuto cercando di trovare abbastanza coraggio da rivolgersi a un individuo di sesso femminile – anche se Hikari, quel giorno, aveva tutta l’aria di una che si era appena alzata dal letto ed era uscita di casa in pigiama –, dopodiché sbiascicò quelle quattro, cinque parole che servirono alla rossa per vedere definitivamente nero:
‒ …Le ragazze non giocano a basket.
A quel punto la giovane si ritrovò ad alzare la testa di scatto; occhi fiammeggianti s’incollarono alla figura minuta del ragazzo che, per un momento, temette che la ragazza avrebbe scavalcato il tavolo per mettergli le mani addosso. Niente di tutto ciò accadde, ovviamente, anche se per un momento Hikari si ritrovò a pensare che sarebbe stato quantomeno appagante suonargliene di santa ragione. Invece si attenne a un approccio più diplomatico. Sorrise, un sorriso appena accennato, enigmatico, sensuale e incredibilmente sagace.
‒ C’è qualche regola che lo vieta?
La sua voce era un sussurro il quale, accompagnato da un’espressione che poteva apparire lasciva ma che, di fatto, nascondeva una buona dose di astuzia e falsa malizia, ebbe sul ragazzo l’effetto di farlo diventare rosso in viso. Hikari si trattenne dal ridere: “Sono tutti uguali, dopotutto”, e attese l’ovvia risposta di lui.
‒ Beh, no…
‒ E allora non c’è alcun problema, no?
Firmò e si allontanò senza dire altro, disgustata ma soddisfatta di aver mantenuto la calma – almeno per una volta. Era, stranamente, euforica. Quella sarebbe stata la prima partita dopo anni, e non le interessava poi tanto se era un semplice torneo di street basket: almeno avrebbe avuto la possibilità – si sperava – di vedersela con gente qualificata, all’altezza delle sue aspettative. Non sarebbe stata costretta ad accontentarsi, come aveva sempre fatto, o lasciar perdere, come si era imposta di fare quando era partita per l’Australia. Forse era proprio quell’euforia che l’aveva resa fino a quel momento tollerante; faceva caso a tutto e a niente, e le piccolezze che di solito le facevano salire il sangue al cervello sembravano, appunto, piccolezze. Era come se si trovasse dentro una bolla di sapone, o in una campana di vetro: era circondava da persone che osservava ma che non vedeva; sentiva le voci e gli schiamazzi della gente ma non li udiva. Era come trovarsi dietro ad una finestra e guardare di sfuggita fuori per vedere che tempo avrebbe fatto quella mattina. Niente, in pratica, catturava particolarmente la sua attenzione, tant’è che si limitava a compiere gesti regolari e automatici senza impiegare la minima concentrazione, rivolta tutta alla futura, imminente partita. I suoi pensieri erano rivolti a quel momento, non c’era niente che potesse distoglierla da quell’idea.
Avrebbe ripreso in mano una palla da basket per giocare a basket, e non per allenarsi al campetto dietro casa, da sola, come faceva sempre. Si era anche ripromessa, non appena era venuta a conoscenza del torneo di street basket, che una volta arrivata al punto di ritrovo avrebbe cercato in lungo e in largo Riko e i suoi compagni: se si fossero iscritti, anche lei avrebbe partecipato. Altrimenti si sarebbe limitata a guardare.
Le buone intenzioni erano andate a farsi fottere non appena aveva messo piede in quel posto.
Quindi ora avrebbe giocato senza nessun particolare fine, solo per la voglia di farlo, contro dei ragazzi che probabilmente l’avrebbero sottovalutata e sminuita… almeno in un primo momento. Il bello di essere una giocatrice di basket risiedeva anche nel fatto che era sempre, irrimediabilmente divertente osservare le facce stupite di coloro che gli si mettevano contro in maniera del tutto inconsapevole.
Hikari ridacchiò tra sé e sé, facendosi largo tra la folla che si stava andando a formare intorno al campo da basket. Furono richiamati i partecipanti all’attenzione, dopodiché furono annunciate le varie squadre: sarebbe stato un four vs four. La rossa si ritrovò in squadra in altri tre ragazzi mingherlini ma estrosi e con pochi pregiudizi, probabilmente iscrittisi senza particolari aspettative e che avevano tutta l’aria di voler rimorchiarla anziché fare gioco di squadra. Tuttavia, dopo brevi e intense presentazioni, i suoi nuovi compagni capirono l’antifona e non si azzardarono a dire niente che potesse infastidirla – dopo un: – se vi azzardare a mettere le mani dove non dovete, vi spezzo tutte le dita della mano e ci gioco a ramino. Comunque: Hikari, piacere di conoscervi – sarebbe stato da veri idioti rischiarsela ribattendo.
Passò un’altra ora prima che iniziasse il torneo.
La folla, ora radunata tutt’intorno al campo, si esibiva in un maestoso e spiacevole chiacchiericcio continuo, fatto di schiamazzi e risatine che facevano sì che Hikari perdesse continuamente la concentrazione. Quando furono chiamate le prime due squadre a giocare, lei e gli altri suoi – nuovi – compagni si fecero strada attraverso la marmaglia di gente, arrivando in prossimità della rete che delimitava il piccolo terreno di gioco. Osservarono, in prima fila, giocare gli altri, commentando di tanto in tanto le azioni dei giocatori; Hikari rimase tuttavia in silenzio, attenta, limitandosi ad ascoltare ciò che gli altri avevano da dire. Non conosceva nessuno dei partecipanti: erano facce nuove, quelle che ora si esibivano davanti a tutti, e non stavano facendo niente che potesse davvero catturare la sua attenzione. Erano semplici ragazzi cui piaceva il basket, che probabilmente amavano l’idea di ritrovarsi a giocare nei week-end al campetto dietro casa. Niente di speciale, nonostante lei covasse una sorta d’inspiegabile rispetto verso chi praticava quello sport, fosse anche per hobby. Per questo motivo preferiva non giudicare il modo di giocare altrui, né tantomeno si permetteva di definire la loro mediocre tecnica, appunto, mediocre.  Guardava la palla rimbalzare tra le loro mani e pensava che di lì a poco ci sarebbe stata lei, al loro posto.
Questi”, pensò improvvisamente, “saranno i quaranta minuti più lunghi della mia vita”.
 
***
 
Tu?!
Silenzio.
Silenzio intorno e fra loro.
Un silenzio che era calato nell’esatto momento in cui nella visuale dei presenti si era andata a delineare l’esile figura di una donna che tutti sarebbero stati pronti a denigrare, se solo non avessero perso tempo a incontrare il suo sguardo privo di qualsiasi forma d’incertezza o ripensamento. Un silenzio che fu di stupore e sbigottimento e che durò solo qualche frazione di secondo. Una donna in un campo da basket: avrebbe potuto essere il sogno erotico di qualsiasi uomo lì presente, eppure, guardando quella strana ragazza dai capelli rosso fuoco, nessuno si sarebbe sentito di sminuirla o sfotterla. C’era un’aria di solennità e mistero che aleggiava intorno a lei, un mistero che era ardeva nei suoi occhi e nel suo sguardo. Si ergeva al centro del campo, Hikari, ritta di fronte alla figura robusta e possente del giovane Kagami Taiga il quale, confuso, si era ritrovato a fissare – di nuovo, come qualche giorno prima – la chioma e gli occhi ardenti di lei.
Si erano chiamati all’unisono; il tono di entrambi era stato lo stesso: irritazione e stupore erano trasparsi con una facilità e schiettezza che aveva fatto sì che gli altri membri della squadra Seirin rimanessero in silenzio, a fissare la giovane donna in calzoncini e scarpe da ginnastica con un’espressione che Riko avrebbe definito in seguito da “pesci lessi”. L’allenatrice, dal canto suo, non era affatto stupita.
‒ Che cosa ci fai tu qui?!
Di nuovo, parlarono insieme.
‒ Smettila di parlarmi sopra!
L’ironica omofonia fu smorzata dalla rabbia di entrambi.
Kagami si era curvato in giù, verso di lei, che si era quasi alzata in punta di piedi per cercare di arrivargli a un’altezza quantomeno dignitosa, ma che di fatto dignitosa non era – un metro e novanta contro uno e settantacinque non era abbastanza per poter parlare di armi pari. Si fissarono per qualche secondo con occhi fiammeggianti, l’uno convincendosi del fatto che non gli importava un fico secco se era una donna, l’altra imponendosi di non tirargli una seconda gomitata nello stomaco.
‒ Voi due vi… conoscete?
Domandò timidamente Hyūga, trovando il coraggio di rompere quel breve e intenso momento intimo tra i due ragazzi.
‒ Sì!
Sbraitò Kagami, voltandosi di scatto verso il compagno.
‒ No!
Urlò Hikari, tornando verso l’altra parte del campo con una velocità preoccupante e la faccia indignata. Hyūga si zittì, intimorito e rassegnato all’idea di avere come compagno di squadra uno scimmione senza cervello.
‒ Davvero conosci quella ragazza, Kagami?
Chiese Teppei in tono calmo, che tuttavia lasciava trasparire una parvenza di autorevolezza. Taiga stava per aprire bocca quando Kuroko lo precedette, cercando di far evitare a Kagami di alzare troppo i toni e riprendere a litigare con la giovane dai capelli rossi.
‒ Kagami ci si è scontrato il primo giorno di scuola. Non l’ha vista, gli è andato addosso e hanno litigato. È stata colpa di Kagami-kun.
‒ Kuroko, bastardo…!
‒ E’ vero, Kagami-kun.
La perenne calma di Tetsuya gli fece gonfiare la vena del collo, tant’è che per un attimo non ricordò il modo in cui, quel giorno, la Rossa aveva guardato proprio il suo compagno. Ci rifletté solo qualche minuto dopo, quando furono in posizione: fu proprio quel pensiero a calmarlo e farlo distrarre dal gioco di occhiatacce che si stava scambiando con la sua, se così si poteva definire, avversaria. A quel punto venne naturale voltarsi verso Kuroko e chiedere – senza che lui sapesse propriamente perché – se avesse mai visto quella ragazza.
‒ Mh? No, non credo di averla mai vista. Perché me lo domandi, Kagami-kun? Ti sei presa una cotta per lei?
‒ Cos… no! Idiota!
Gli insulti gli morirono in gola, tant’è che Taiga non riuscì a sbiascicare più qualche parola. Chissà per quale assurdo motivo stava provando imbarazzo. Scosse la testa, si concentrò. Doveva ricordarsi di contenere la sua rabbia e irrequietezza durante il gioco, o avrebbe finito per fare male alla ragazza – che, purtroppo, era sempre tale.
Hikari aveva preso in mano la palla, prendendo posto al centro del campo, di fronte a Kagami. Di nuovo, si guardarono.
‒ Mi auguro che, almeno quando giochi, tu sappia dove mettere i piedi, bestione.
Proferì lei, sorridendo in maniera beffarda. L’irritazione era quasi del tutto scomparsa, sostituita da un inconsueto interesse per quel tipo. Era proprio curiosa di vedere che cosa sapeva fare.
Il ragazzo non rispose alla provocazione, ma Hikari sapeva di aver fatto centro. Se aveva anche solo minimamente inquadrato quel ragazzo, era sicura che una volta passatogli il pallone sarebbe andato diretto verso il canestro. Bene. La rossa piegò le labbra in un sottile, enigmatico sorriso e passò. Kagami non se lo fece ripetere due volte: prese possesso della palla, scansò senza problemi due avversari e neanche calcolò il difensore visto che, una volta datosi lo slancio per il salto, i suoi occhi si posarono irrimediabilmente sul canestro. Non ebbe altro obiettivo che segnare.
Lo fece.
La palla entrò violentemente dentro il cerchio, tant’è che per momento si temette la conseguente rottura. Kagami rimise in piedi per terra qualche secondo dopo, il fiato corto e le mani chiuse a pugno. Si voltò. Nessuno si era mosso, neanche i suoi compagni. Gli avversari lo fissavano terrorizzati. Tutti, tranne la ragazza. Lei sorrideva ancora.
‒ Il mio nome è Kagami Taiga, non “bestione”.
Proruppe lui, recuperando il pallone e lanciandolo alla giovane.
‒ E tu, rossa, faresti meglio a passare il tempo frequentando corsi di cucina e tutte quelle cose che piace fare a voi donne. Il basket non è uno sport per femminucce.
Anche se Kagami non pensava veramente tutto ciò che gli uscì effettivamente dalla bocca, non si fece scrupoli e parlò lo stesso. Riprese posizione sperando che la sua affermazione avesse recato abbastanza sdegno e fastidio da spingere la ragazza ad andarsene, ma lei non lo fece. La sua reazione fu animata da una sola, semplice smorfia di scherno; si rigirò il pallone tra le mani e lo allungò verso Kagami, assumendo un’espressione seria e studiata.
‒ Gioca.
Disse semplicemente.
Questa qui non vuole proprio arrendersi”, pensò Taiga, e cominciò a palleggiare. Avrebbe forse dovuto continuare a segnare per farle capire che non c’era speranza? Quella tizia era proprio testarda. Assunse di nuovo la posizione consona: curvò la schiena, allargò le gambe e le braccia, continuando a far rimbalzare la palla a terra.
Fece per scattare, ma non ci riuscì. Non ne ebbe il tempo.
In un attimo, le sue mani si ritrovarono vuote. Non aveva più il pallone tra le mani. Osservava, stupito, un punto vuoto davanti a sé, lo stesso in cui un secondo prima stava ritta la giovane. Era sparita.
Era sparita, il pallone non c’era più.
Istintivamente si voltò. L’aveva superato.
Quella ragazza non stava correndo verso il suo canestro; quella ragazza non aveva evitato, con un semplicemente, elegante movimento del corpo la difesa di Hyūga; quella ragazza non stava andando contro la difesa di Teppei. Quella ragazza… quella ragazza caricò, si diede lo slancio e saltò un secondo prima di Kyoshi. Durante il volo, senza che il gesto fosse minimamente evidente, Hikari passò la palla dalla mano destra a quella sinistra, riuscendo ad evitare che la palla finisse nella mano di Kyoshi e passasse oltre, verso il canestro. Nel canestro, per essere precisi.
Aveva segnato.
Aveva segnato e nessuno sapeva come aveva fatto.
Quella ragazza…
Il silenzio calò su di loro come un macigno. Tutto taceva, tranne Kagami. Lui non avrebbe mai potuto rimanere a guardarla senza dire niente. Non fu rabbia, la sua, né odio che lo spinse ad aprire bocca: quelli erano svaniti improvvisamente, sostituiti da qualcos’altro, una sensazione molto simile a quella provata la prima volta che l’aveva vista, ma più forte, stavolta. Sentiva la gola secca.
‒ Chi… chi diavolo sei tu?
Domandò con un tono di voce che lasciava trasparire molto di quello che Kagami stava pensando. Curiosità, immensa e irrefrenabile curiosità. La guardò, lei sorrideva, gli occhi che brillavano sotto il sole di settembre. Sorrideva, ma nel suo sorriso adesso non c’era malizia, né scherno. Passò di nuovo la palla a Taiga, che la strinse al petto continuando a seguire la Rossa con lo sguardo. Ebbe come l’impressione che la giovane non volesse rispondere, che fosse costretta tuttavia a parlare, e che quelle poche parole pronunciate le costassero una sconfinata, inumana fatica:
‒ Mi chiamo Hikari.
Hikari guardò Kagami, poi Kuroko, poi Kagami.
‒ Hikari è il mio nome, potete chiamarmi così.
Continuò e disse:
‒ E concordo con te, Kagami Taiga: il basket non è proprio roba da femminucce.
Kagami, sconvolto, non trovò il coraggio di rispondere.

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Capitolo 4
*** Capitolo III - Una piccola eccezione! ***


Il silenzio era totale.
Il silenzio pesava.
Un silenzio che venne rotto dal fruscio di un vento che ancora sapeva d’estate. Un brusio sommesso. Domande, quelle di tutti loro, cui Hikari si sarebbe premurata di rispondere in seguito: “Da dove sei spuntata?”, “Ma da dove vieni?”
Taiga, uno dei più promettenti giocatori di basket dopo la Generazione dei Miracoli; colui che aveva visto giocare in qualche precedente partita e di cui si era fatta ormai una prima opinione, la osservava senza parlare. E proprio questa era la sensazione si era impossessata del ragazzo: sbigottimento e stupore lo tenevano inchiodato sul posto. Le parole bloccate nello stomaco, a rigirarsi e contorcersi insieme al resto del cibo ingurgitato poco prima di entrare in campo. Se il suo stato attuale fosse stato derivato dalla sorpresa di scoprire che quella che aveva davanti non era una semplice ragazza, forse si sarebbe scrollato via quel senso di torpore senza molti indugi, tuttavia… l’aveva superato, aveva superato i suoi compagni e aveva segnato.
Nessuno l’aveva vista farlo.
Kagami lanciò uno sguardo a Kuroko, che continuò a fissare la giovane con occhi spalancati e la bocca aperta. Dedusse, senza che ci volesse un vero genio, che neanche l’amico aveva idea di chi fosse quella donna. Per quanto lo riguardava, Hikari aveva avuto l’astuzia di prenderli in contropiede e muoversi agilmente in mezzo al campo.
Questo – e nient’altro – lo smosse dalla convinzione di avere a che fare con qualcosa di più forte di lui.
« Bene » disse a un certo punto, richiamando l’attenzione della sua squadra. Kagami sorrise.
« iniziamo a giocare »
Hikari ricambiò con una smorfia divertita, e attese. Attese, sapendo già benissimo quale sarebbe stato l’esito di quell’incontro; attese, senza mai staccare gli occhi di dosso al suo avversario. Attese fin quando Kagami non scattò: fu allora che si mosse anche lei. Avvicinatosi alla figura esile della ragazza, Taiga scartò di lato, sorpassandola. Si ritrovò tra i piedi un altro membro della squadra avversaria, un tizio che non conosceva e che non gli pareva troppo sveglio. Avrebbe potuto benissimo liquidare il personaggio con una mossa, tuttavia preferì passare, lasciando scivolare il pallone nelle mani di Kuroko.
Kuroko, che nessuno aveva notato e che non sarebbe stato notato neanche nei minuti successivi, sfiorò con le esili dita il pallone, plasmando a suo volere e piacimento la traiettoria della sfera concentrica e ruvida, e lo indirizzò verso Hyūga . La tecnica era semplice, con una traiettoria triangolare: blocco, passaggio, tiro. Questa strategia aveva fatto molte volte acquistare punti alla squadra, in situazioni certo più importanti e sicuramente più indicative, facendo acquistare alla Seirin la scalata di tre punti. Taiga guardò la scena con la coda dell’occhio, ma si voltò solo quando capì che nessuna palla era arrivata nelle mani di Hyūga .
Hikari concorreva alla sua scalata verso il vantaggio. Mentre il capitano della Seirin ancora aspettava che gli arrivasse il pallone per tirare da una distanza considerevole, la Rossa aveva preso possesso e si era ritrovata accerchiata da Kyoshi, che la marcava stretta. Lo sgomento generale, che si aggiungeva a quello dovuto alla sua, crebbe quando la squadra prese consapevolezza che quella donna aveva notato senza la benché minima difficoltà il gioco di Tetsuya. L’aveva visto. L’avevo visto e l’aveva bloccato.
Hikari riuscì a togliersi dalla presa di Kyoshi con una finta a destra; in quell’arco di tempo passò, lo superò e fece sì di riappropriarsi della palla. Taiga, superato un primo momento di sconcerto, scattò e la raggiunse. Così, i due si ritrovarono faccia a faccia, con il fiato corto e i muscoli tesi.
« Fammi vedere… »
Borbottò Hikari, accompagnando la sua affermazione, rotta a metà dal suo respiro, con un sorriso di sfida. La palla batteva ritmicamente a terra, provocando un rumore quasi sgradevole. La rossa avvertiva distintamente il dolore ai muscoli delle gambe, l’indolenzimento alle braccia, il respiro mozzato e i polmoni che richiedevano aria, aria, aria. Amava quella sensazione. Quello era il suo posto: avrebbe potuto anche andarsene in America o dall’altra parte del globo, ma avrebbe sempre cercato ciò che più la faceva sentire a casa.
« Fammi vedere quanto salti in alto, Kagami Taiga »
« …cosa?! »
Hikari lasciò cadere il peso sulle gambe, lasciò che il suo corpo fosse libero di muoversi come lei ritenesse più giusto; si lasciò trascinare giù, prese fiato, lo trattenne e poi si diede la spinta. Kagami fece lo stesso, qualche secondo dopo, irrimediabilmente shockato da quello che stava tentando di fare la ragazza. Pensò a una finta fino all’ultimo secondo: si aspettava di vederla ricadere giù per poi dileguarsi, superandolo mentre lui era in volo. Ma no, quella tipa stava proprio saltando. In volo, Taiga capì che non ce l’avrebbe mai fatta a bloccarlo. D’altronde, come avrebbe potuto? Se il rosso aveva un talento – e ce l’aveva – era quello di riuscire a restare in aria molto più a lungo di qualsiasi altro giocatore; questo, non solo perché possedeva un qualche tipo di capacità innata, ma per questioni fisicche e di resistenza. Lei era così… piccola, rispetto a lui. La massa di capelli informi si sciolse dalla stretta dell’elastico di Hikari, ma questo fu solo un piccolo dettaglio, perché Taiga era troppo preso a farsi montare dentro un’eccessiva e ingiustificata ira.
« Pensi di potermi battere? Cos’è, uno scherzo?! »
Il rosso arrivò all’altezza della palla.
« Sogni troppo in grande, ragazzina! »
E la palla non c’era.
« Cos… »
Il rumore tanto conosciuto del pallone che sbatteva contro il cerchio concentrico del canestro. Taiga poggiò di nuovo i piedi a terra – molto dopo Hikari, visto che non aveva ben controllato la forza che aveva messo nel saltare – e si voltò di scatto, senza prestare la minima attenzione alla ragazza. La palla aveva sbattuto contro il cerchio di ferro arancione ed era finita a terra, senza tuttavia entrare a canestro. Kagami percorse con lo sguardo la distanza che divideva lui dall’obiettivo. Erano a metà campo.
Quella tizia aveva tirato la palla da metà campo. Aveva segnato.
« Cavolo, piove »
I membri della Seirin, la squadra della rossa, Riko, Kise e i componenti del Kaijo rimasero a guardare le minuscole goccioline di pioggia scendere dal cielo, prima rade, poi copiose. In meno di due minuti il campo fu inondato d’acqua e la gente cominciò a disperdersi, portando con sé quegli insopportabili borbottii che Hikari non tollerava. Kagami, per ripararsi dalla pioggia, continuava ad osservare la rossa sollevare le mani al cielo e farsi cadere sui palmi le gocce d’acqua.
« Come… »
« Cosa… »
« Non può essere che… »
Hikari incrociò per un secondo, solo per un secondo lo sguardo di Kuroko Tetsuya, ma su di esso non volle soffermarsi. Guardò invece Riko, la giovane coach che, dall’altro lato della rete, se ne stava immobile, affiancata dall’altrettanto stupito Kise Ryōta, l’ultimo entrato nella Generazione. Hikari conosceva tutti i presenti a quel torneo: bene o male, seppur per vie traverse, le facce di quei ragazzi non lo erano nuove. Eppure, nessuno conosceva lei. Non si aspettava di certo di passare inosservata proprio ora che aveva deciso di farsi avanti, ma tutto questo stupore generale riuscì comunque a metterla a disagio. Non aveva scoperto le sue carte e sapeva che se avesse deciso di fare le sue mosse, al momento giusto, avrebbe avuto buone possibilità di entrare anche lei in quella fantomatica generazione di nuovi talenti; credeva in sé stessa, se non prima almeno ora, ed era certa che tutto il sudore, la fatica di stare al passo con un regime di allenamento totalmente e irrimediabilmente maschile, per così dire, avrebbe dato i suoi frutti.
Era certa di potercela fare.
Lo sentiva nella bocca dello stomaco, nella punta delle dita, nel tremore incondizionato delle gambe. Non era certezza, né si trattava di un’illusione così radicata da sembrare verità: era evidenza. Com’è vero che la Terra girava intorno al sole, com’era vero che esistevano stelle, pianeti e un universo, lei sapeva di poter competere, di essere all’altezza, di vincere. C’era tutta questa… energia, in lei, che aveva sempre tenuto per sé, sempre repressa per svariati motivi, e che adesso premeva contro lo sterno, premeva, chiedendo di uscire, imponendosi al di sopra del suo volere.
E poi c’era Lui.
Ma Lui era solo un granello di sabbia all’interno di una spiaggia vastissima, adesso. Adesso Hikari sentiva gli occhi di tutti addosso e non le sorgevano dubbi, anzi: quest’ultimi furono definitivamente spazzati via quando la rossa fissò Riko dritta negli occhi, finché le minuscole e rade gocce di pioggia non si trasformarono in un insistente tamburellare sull’asfalto del campo.
« Il torneo di Street Basket è sospeso! Ripeto: il torneo di Street Basket è sospeso! Preghiamo le due squadre in gara di uscire dal campo »
La ragazza scrollò le spalle, guardò il punteggio segnato sul tabellone e sorrise leggermente, stavolta senza malizia o parvenza di sfida. Kagami era ancora fermo lì, a guardarla. Aveva mutato espressione: era serio, adesso, di una serietà che quasi lo faceva apparire minaccioso. Tutto ciò fu catalogato da Hikari come assolutamente futile, per cui non si chiese neanche che cosa gli prendesse. Tuttavia, se solo avesse avuto un briciolo o più di confidenza con il bestione dalle strane sopracciglia, Hikari avrebbe capito che Kagami aveva cominciato a sentirsi profondamente minacciato da lei. La cosa gli parve innaturale: lei era una ragazza, perché provare timore? Solo poche volte Taiga aveva provato questa sensazione, una sensazione che aveva sempre ricollegato alla paura di perdere una partita e di non riuscire a portare alla vittoria la sua squadra. Tuttavia, neanche la Generazione dei Miracoli era riuscito a fargli provare un qualcosa di diverso da una profonda e assoluta eccitazione, invece eccola lì, di fronte a lui, una donna che l’aveva palesemente sfidato e che ci era quasi riuscita, a batterlo.
Tutto ciò non aveva il benché minimo sen…
« Scusami »
La voce di lei gli entrò nella testa come un ronzio fastidioso.
La osservò, di nuovo stupito – perché tutto questo stupore, oggi, Taiga? –, grattarsi la testa e sorridere nella maniera più genuina e sincera che Hikari si concesse quel giorno.
« Scusami, sono stata arrogante, non volevo »
La ragazza allungò la mano verso di lui e attese, ancora sorridente, con i capelli fradici e i vestiti zuppi. Senza fretta, aspettò che Taiga ricambiasse la stretta.
« E’ stato un vero piacere conoscerti, Kagami Taiga. E anche voi, ragazzi »
Quella, a ripensarci, fu la cosa più strana di tutta quella giornata. Nella mente di Kagami quel momento, quell’insignificante momento tessuto nella rete di molti altri, gli si impresse come un marchio bollente nella mente. Una strana sensazione, a dire il vero, su cui il rosso non volle riflettere. Stranamente taciturno, insieme agli altri, la guardò afferrare le sue cose, complimentarsi con i compagni della sua squadra e andarsene.
« Kuroko… »
Mormorò Kagami, accorgendosi della presenza del compagno al suo fianco. Senza distogliere lo sguardo dalla figura minuscola in lontananza, il ragazzo continuò a parlare.
« …sei sicuro di non aver mai visto quella ragazza? »
« No, Kagami-kun, non l’ho mai vista prima. Però… »
Gli altri si erano avvicinati a loro due e ascoltavano la conversazione come se si aspettassero che Kuroko rivelasse loro la verità dei fatti.
« Però mi ricorda qualcuno, non saprei dire chi. Ho avuto una strana sensazione. Neh, Kurokocchi? »
Kise aveva fatto capolino a bordo campo: teneva con una nonchalance un grosso ombrello grigiastro, che dondolava avanti e indietro distrattamente, sempre evitando di farsi colpire dalle gocce di pioggia. Il gioco di sguardi degli altri rimbalzò in immediato da Kuroko a Kise e da Kise a Kuroko.
« Strana sensazione? »
Domandò Koganei, confuso; gli altri avevano già intuito la risposta, ma c’era chi – come Kagami – aveva solo bisogno di una doccia fredda per prendere consapevolezza che no, non era solo un brutto sogno.
« Una strana sensazione… »
Quelle furono le ultime parole che Kuroko pronunciò per il resto della giornata.
 
***
 
« Possibile che Riko debba sempre sparire nel nulla? »
Hyūga  attaccò di nuovo il telefono, scocciato. Era la quinta volta che si sentiva rimbombare nelle orecchie le parole metalliche della segreteria telefonica; cominciava ad innervosirsi. Sotto la pioggia, ormai ben lontani dal campo di street basket, lui e il resto della squadra si erano salutati, andando ognuno per la loro strada. Kise si era dileguato poco prima di loro, trascinato via a forza da Kasamatsu.
« Arriverà, arriverà »
Teppei Kyoshi se ne stava con le braccia incrociate al petto, appoggiato placidamente sul muro di mattonato al limitare dell’ingresso del Cafè. Sopra di loro una piccola tettoia spiovente li proteggeva dall’acquazzone che stava venendo giù. Alla vista della pioggia insistente, Hyūga provò una morsa allo stomaco e la preoccupazione per la coach si fece insistente, più acuta.
« Non riesco a capire che tu riesca a rimanere così calmo »
Disse il ragazzo, sistemandosi gli occhiali sul viso e assumendo un’espressione contrariata. Teppei continuava a sorridere, guardandolo con la coda dell’occhio. Hyūga, di rimando, si impose di assumere un atteggiamento che poco dava a vedere il nervosismo che gli stava martellando in testa e così, senza neanche sforzarsi di iniziare una qualsivoglia conversazione, lasciò che Kyoshi parlasse. Come si aspettava, l’amico cominciò ad aprire bocca qualche secondo dopo:
« Credo di sapere dov’è andata »
« Mh? »
Kyoshi sorrise, sovrappensiero.
« L’hai vista, quella ragazza… Hikari, quando ha tirato la palla da metà campo? »
« Sì, e allora? »
Hyūga  non capiva proprio dove l’altro volesse arrivare. Non trovava davvero un filo conduttore che ricollegasse Riko alla giovane; inoltre, il fatto che si parlasse ancora di quella ragazza non faceva altro che aumentare la confusione generale riguardo la situazione. Kagami e Kuroko si erano allontanati insieme. Erano parsi entrambi turbati, quando Hyūga e Kyoshi li avevano lasciati. Taiga, in particolare, sembrava avere la faccia di uno che aveva appena assistito a un funerale.
« Tu ne sai più di me, Hyūga , ma… ma per quanto ne so, quando si tira da lontano la prima regola è guardare il canestro. Prendere la mira »
« Certo, non si può tirare a caso. Questo è anche uno dei motivi per cui, se trovi un avversario che salta abbastanza in alto, sei fott… »
Le parole morirono gli morirono in gola. Guardò Kyoshi e capì dove voleva arrivare. La folgorazione lo colpì come raggi di sole negli occhi: improvvisamente, tutto gli fu chiaro. Improvvisamente, Hyūga  capì. Capì che cos’era successo, capì dov’era andata Riko.
« Eccomi, ragazzi, scusate! »
La giovane si infilò sotto la tettoia, al riparo dalla pioggia insistente che ancora precipitava sopra le loro teste. Con il fiato corto, Riko appoggiò le mani sulle ginocchia e cercò di riprendere fiato. Avrebbe voluto dire qualcosa, Hyūga, qualsiasi cosa che non desse a vedere la preoccupazione che per un po’ l’aveva assalito; qualcosa di sensato, che non sfociasse nel ridicolo. Tuttavia, il ragazzo si ritrovò a fissare la sua coach con una faccia che rasentava lo sconvolgimento più completo.
« Non ha guardato il canestro, vero? »
« Cosa? »
Riko alzò gli occhi, leggermente confusa, ma non appena incontrò lo sguardo di Hyūga  e Teppei capì.
« No » mormorò, alzandosi di nuovo « non ha guardato il canestro »
« Come è possibile? Ha quasi segnato »
Aida concentrò tutta la sua attenzione su Kyoshi, cercando una qualche forma di approvazione da parte sua. Non che ne avesse bisogno, questo no: era lei l’allenatrice, lei decideva che cosa fosse meglio o no per la squadra. Tuttavia, si stava prendendo una responsabilità non indifferente e lo sapeva, lo sapeva benissimo. Sentiva tuttavia qualcosa, come il dubbio che se non avesse fatto qualcosa, se non avesse colto quella possibilità si sarebbe pentita in futuro, o sarebbe rimasta col fantomatico sentore del “avrebbe potuto essere”. Tanto valeva rischiare.
« Guardava Kagami »
Riko ora aveva lo sguardo rivolto a terra, perso, come lei lo era nei suoi pensieri e nelle sue riflessioni.
« Credo… credo che lei conosca la Seirin già da un po’ »
Mormorò la ragazza, senza farsi sentire.
« Eh? »
« Ho detto » Riko alzò la voce, decisa, sicura, anche se di fatto non lo era. Non ancora. La incoraggiò lo sguardo di Teppei, in cui non trovò altro che una profonda approvazione. Chissà se ne sarebbe valsa la pena.
« Ho detto che quella ragazza frequenta la nostra scuola.  Frequenta la Seirin »
Tra loro calò un silenzio pesante. Hyūga, contrariato, la fissava in silenzio.
« Coach, non vorrai mica… »
« L’ho già fatto, Hyuga-kun »
« Ma, Riko… »
« Devi tenere in considerazione che se giocherà con noi, si troverà di fronte alla Generazione, Riko »
Kyoshi interruppe sul nascere il battibeccare dei due, trascinando di nuovo alla realtà sia il suo amico, sia la ragazza. Differentemente da qualche momento prima, il fondatore della Seirin aveva assunto un’espressione seria e ponderata. Non preoccupata, solo seria. Rifletteva sui pro e sui contro della decisione della coach, senza dare tuttavia l’idea che quest’ultima fosse sbagliata. Anche lui aveva avuto le stesse, identiche sensazioni dell’allenatrice mentre aveva guardato Hikari giocare. Certo, c’era ancora da riprendersi dallo shock iniziale.
L’affermazione di Teppei non mise in crisi Riko, che già aveva ben calcolato tutte le probabilità che una donna potesse entrare in squadra; aveva preso in considerazione i rischi.
« Questo » disse, mentre lasciò scivolare sul suo volto la parvenza di un sorriso « è proprio quello che Hikari vuole »
Riko precisò:
« E questo è proprio il motivo per cui ho fatto questa piccola eccezione »
 
 

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Capitolo 5
*** Capitolo IV - Una questione di punti di vista ***


Hikari era fuori forma. Lo sentiva. La squadra, che in confronto a lei era molto più al passo con le direttive impartite da Riko, era molto più preparata, più energica. Sebbene avesse creduto che l’esercizio fisico e le lunghe corse serali e mattutine fossero sufficienti a mantenersi la forma, adesso Hikari non poteva fare altro che constatare che c’era ancora molto lavoro da fare, molto tempo da recuperare. La coach pareva non distinguere il suo corpo di donna da quello degli altri, e la tartassava allo stesso modo con il regime d’allenamento.
Hikari poteva giurare che alla squadra non piacesse l’idea avere una ragazza in squadra, ed era abbastanza sicura che neanche Riko ne fosse del tutto convinta. Ogni tanto la rossa la guardava, con la coda dell’occhio, mentre si allenavano, e notava che la stava fissando; altre volte, invece, non la calcolava neanche, limitandosi a rivolgere la sua attenzione verso qualcos’altro, qualche altro pensiero che la trascinava molto lontano dagli allenamenti e dalla squadra.
Hikari aveva un certo fiuto nel comprendere le emozioni altrui. Era empatica, e questo le permetteva di immedesimarsi nel pensiero e nella mente delle persone che la circondavano. Sospettava che Riko stesse ancora considerando la sua decisione e che la sua entrata in squadra, sebbene fosse cosa fatta, poteva ancora essere messa in discussione.
Nel giro di poche settimane le cose migliorarono: il suo fisico cominciò ad abituarsi, a riprendere familiarità con i movimenti, la pressione e lo sforzo eccessivo. Anche alcuni dei suoi compagni parvero abituarsi alla sua presenza, anche se non le diedero molta confidenza, a parte Koganei e gli altri primini. Hyuga rimase sulle sue, ma solo perché era preoccupato delle intenzioni di Riko. L’ostilità rimase prerogativa di Kagami, mentre Kuroko continuò a guardarla e a scrutare i suoi movimenti senza trovare risposta al quesito di Kise: “mi ricorda qualcuno".
In ogni caso, la difficoltà dell'allenamento le piaceva: le piaceva sudare, digrignare i denti, rimanere senza fiato, sentire il dolore dei muscoli, delle ossa, dell'acido lattico che le dimostrava che sì, il suo corpo era tornato, lo sentiva, era tornata sul campo da basket. E giocava, di nuovo, ancora, finalmente su un vero campo.
Se ci fosse stata una squadra femminile di basket nella scuola superiore Seirin, non avrebbe potuto neanche sperare di giocare con quei giovani spilungoni. Invece la fortuna era stata dalla sua parte, e per questo aveva potuto circoscrivere le regole, cosicché nelle competizioni ufficiali sarebbe comparsa come membro della squadra.
Capiva le remore degli altri. Per loro, probabilmente, una ragazza avrebbe potuto significare una presa in giro, una sorta di scherzo, specialmente per gli avversari. Avrebbero potuto sentirsi umiliati, in qualche modo. Ma quello non era un problema suo, perché l'unico suo scopo era quello di giocare a basket, giocare seriamente, e suonarle a chiunque avesse osato metterle i bastoni fra le ruote.
Hikari aveva un obiettivo. Un obiettivo che non aveva spiegato neanche a Riko. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto dare una motivazione alle sue scelte. Sapeva che, così com’era ora, non avrebbe mai potuto conquistare la fiducia della squadra. Il suo cognome era potente, ma era anche una macchia, un macigno che pesava sulla sua persona e sulla concezione che avevano gli altri di lei. Quando ancora viveva in America, e poi in Svizzera e in Francia, aveva imparato a non dare peso alla cosa. Nessuno la conosceva, nessuno sapeva che cosa si portava dentro. In quell’ultimo anno all'estero aveva assaporato il dolce gusto dell'anonimato, dell'indifferenza: aveva potuto ripartire da zero, senza che i suoi amici la giudicassero o provassero riguardi nei suoi confronti. Eppure quel cognome era sempre rimasto lì, un punto fermo e indelebile del suo passato e della sua identità. Per quanto si sforzasse di rimanere indifferente, di ricacciare indietro il dolore che aveva provato, non c'era stato momento in cui non aveva pensato al suo cognome, a quello che rappresentava per lei. Quando era tornata, aveva deciso che doveva fare qualcosa. Per lei. Per dimenticare. Per andare avanti.
Questa era stata la principale motivazione che aveva mosso ogni sua scelta, e che le faceva sopportare la durezza degli allenamenti e la diffidenza della squadra. Nel corso delle due settimane che seguirono la sua entrata nella Seirin, i miglioramenti di Hikari si fecero ancora più evidenti. Riuscì a star dietro agli altri per gran parte del tempo, anche se il suo corpo risentiva sempre della fatica nei giorni successivi. Sopportava in silenzio, cercando di non mostrare la stanchezza del corpo.
Riko, dal canto suo, aveva osservato Hikari attentamente. Quando, nei camerini, le aveva detto di spogliarsi, non aveva visto niente di particolare. Aveva notato una certa atrofizzazione dei muscoli, segno che non era ancora al massimo delle sue capacità, ma sapeva che non sarebbe potuta andare molto più lontano. Hikari aveva un fisico snello, dalle forme armoniche; era magra, e in quella magrezza spiccavano i muscoli che Riko si sarebbe premurata di farle sviluppare. Inoltre, era alta poco più di Kuroko, dunque abbastanza per poter competere. Tuttavia quel fisico non spiegava come avesse fatto a saltare così in alto, durante il torneo di street basket. Quel giorno aveva deciso di non parlare, perché voleva sondare le sue capacità. L’allentamento era stato duro persino per la squadra, perché Riko aveva volutamente deciso di pressare i giocatori per vedere se Hikari sarebbe riuscita a stargli dietro.
Non ci riuscì, all’inizio, ma Riko ammirò il fatto che non se ne lamentasse. Persino durante le lezioni, la mattina a scuola, quando la vedeva salire le scale con difficoltà, non emetteva un lamento. La vedeva camminare tranquilla per i corridoi, con i suoi pantaloni lunghi e la divisa scelta appositamente con un taglio maschile – nessuno aveva mai visto una ragazza andarsene in giro per la scuola con una divisa da maschio –, indifferente agli sguardi altrui. Hikari sembrava fuori dal mondo, dal contesto; era come una nota storta in una melodia quasi perfetta, che non lasciava indifferente all’errore di chi ascoltava. Eppure a lei quella nota storta donava, la indossava con un’eleganza che non pareva poter appartenere a una ragazza della sua età; Riko provava quasi timore. La coach la guardava, mentre camminava, mentre mangiava da sola, mentre osservava fuori dalla finestra dei corridoi, e percepiva qualcosa, una sorta di autocontrollo ben ponderato, quasi artificioso. Hikari si tratteneva. Tratteneva la sua femminilità all’interno di grandi fasce che le tenevano fermo il seno, durante gli allenamenti; tratteneva la sua vitalità nei panni larghi della divisa scolastica; tratteneva il suo carattere forte, sprezzante, energico all’interno di precisi confini che si era costruita col tempo. Riko lo sapeva, perché l’aveva vista zittire ragazze e ragazzi che borbottavano alle sue spalle, mentre passava, con un solo sguardo. Solo a voce, e in casi particolari, mostrava la vera natura del suo carattere. Kagami, per esempio, era diretto vettore dello sbraitare della rossa. Quei due litigavano sempre, durante gli allenamenti.
In ogni caso, il recupero di Hikari, con grande stupore di Riko, fu impressionante. All’inizio la coach aveva atteso pazientemente, poi aveva cominciato a chiedersi se la sua fosse stata una buona scelta, dopodiché aveva deciso che una donna non avrebbe mai potuto competere al livello cui il Seirin si trovava. Alla fine, però, aveva dovuto rimangiarsi tutto. Hikari si allenava con dedizione, era sicuramente capace, dotata. Non avevano più fatto partite, solo allenamenti di gruppo, perciò non sapeva fin dove potessero spingersi le sue capacità. Era quasi del tutto sicura che quello che aveva fatto quel giorno, durante la competizione, potesse essere usato da Hikari un numero limitato di volte, esattamente come Kagami. Questo, tuttavia, per il semplice motivo che non era allenata.
Quando ormai Riko aveva appurato i progressi della rossa, erano gli inizi di luglio e faceva caldo. La palestra era una fucina, per cui si erano allenati tutti all’aperto. Teppei era uno dei pochi che pareva aver preso di buon occhio Hikari e parlava apertamente con lei: a volte scherzava, a volte l’incoraggiava, a volte riusciva a fare da collante tra lei e gli altri. La situazione sembrava stabile, ma ancora nessuno aveva capito il motivo della scelta di Riko. Inoltre, erano già una squadra affiatata, e non volevano che nessuno potesse minare l’equilibrio che si era creato tra di loro. Oltre alla loro amicizia, ovviamente.
Riko credeva che Teppei capisse la sensazione che provava Hikari, perché anche lui era rientrato da poco e aveva trovato una situazione nuova, persone nuove, un nuovo equilibrio nella Seirin. O forse aveva percepito quello che aveva percepito lei nel vederla.
Quel giorno l’allenamento era durato due ore e ventidue minuti, e Riko li aveva costretti a correre per tutto il tempo intorno alla scuola e per il quartiere. Poi li aveva radunati, sudati, stanchi e con ancora il fiatone. Iniziò a parlare non appena tutti ebbero ripreso un poco di fiato.
« Bene » disse « ora che siamo tutti qui vorrei dirvi alcune cose » esordì, le mani sui fianchi e un sorriso soddisfatto.
Tutti si misero in ascolto.
« Da domani gli allenamenti collettivi dureranno un’ora e mezza. In questo lasso di tempo, lavoreremo sulla resistenza. Dobbiamo riuscire a mantenere il passo e non arrivare spompati a metà partita, come è successo con la Generazione dei Miracoli. La successiva ora e mezza sarà dedicata al lavoro individuale. Hyuga e Hikari lavoreranno sui tre punti; Teppei e Kagami lavoreranno sulla schiacciata, insieme ad Hikari, che si alternerà ».
Kagami non si premurò neanche di nascondere la sua irritazione e anzi esordì con un sonoro:
« Non ha senso tenerla in squadra! ».
Rimasero tutti ammutoliti. Hikari, invece, si grattò la testa, sorrise, alzò la mano e disse:
« Coach, veramente… il tiro dell’altra volta è stato solo un colpo di fortuna. Non sono molto brava a tirare da lontano »
« Cosa? E potevi dirlo subito! » urlò Riko, scocciata, mentre gli altri le guardavano entrambi imbambolati e un po’ atterriti.
« Mi auguro che la tua sia solo modestia, ragazza, oppure… »
La faccia gonfia d’ira della coach fece sì che Hikari si affrettasse ad aggiungere un « sì, sì, certo, mi allenerò con Hyuga… » poco convinto.
« Bene, detto ciò, passiamo agli altri.. » disse Riko, guardando la cartellina che aveva in mano.
« Coach » disse di nuovo Kagami, che non aveva intenzione di far cadere il discorso facilmente.
Lo avevano ignorato tutti, anche se probabilmente condividevano la sua opinione e non la esplicitavano solo perché temevano la reazione di Riko, e certo non volevano mancare di rispetto ad Hikari, che era pur sempre una ragazza. Taiga non sembrava tuttavia disposto a cedere alle regole del buon costume, per cui parlò e lo fece a nome di tutti.
« Una ragazza non può stare in squadra » continuò lui, e stavolta Riko alzò gli occhi e lo ascoltò.
« Dobbiamo essere realisti. Non ho niente contro Hikari, anche se sa essere un’incredibile rompipalle… » Hikari lo guardò male, ma non ribatté « …ma non potrà mai competere con la Generazione dei Miracoli. Sarebbe solo un peso, e noi non possiamo permettercelo adesso. Non importa quanto sia dotata, quanto si impegni, non riuscirà mai a raggiungerci ».
Calò il silenzio.
Hikari non fiatò. Rimase ad ascoltare e ad osservare gli altri. Quelle parole non parvero toccarla, ma in realtà le fecero male. Nella sua testa riecheggiarono le stesse parole che si era sentita rivolgere molto tempo prima. Sentì la vecchia ferita riaprirsi, anche se non le procurava più lo stesso dolore di allora. Per un momento, solo per un momento, si chiese se la sua fosse stata una buona idea: ce l’avrebbe fatta? Sarebbe stata all’altezza? Che senso aveva continuare, se la sua stessa squadra non la voleva?
« Mi spiace, Coach, ma sono d’accordo » intervenne Hyuga d’un tratto « non ho niente contro Hikari, anzi, si è impegnata molto in queste settimane. Ma rischia di farsi male durante le partite. Potrebbe non reggere. Io non credo sia in grado… »
« Basta così ».
Riko alzò una mano e tutti si zittirono. Li guardò uno ad uno, poi fissò Hikari, che la guardava a sua volta con un’espressione indecifrabile.
« Se mi aveste fatto finire di parlare, avreste capito che cosa avevo in mente ».
Quell’affermazione lasciò tutti un po’ stupiti. Riko aveva in mente qualcosa? Aveva già pensato di farla uscire dalla squadra? Si era accorta che non avrebbe potuto competere? Per Hikari fu una preoccupazione, per gli altri una sorta di sollievo. Dovevano rimanere concentrati sulle partite, non dovevano farsi rallentare. Dovevano vincere la Winter Cup.
« Come tutti voi sapete, l’entrata nella squadra di basket non è così scontata. Tutti voi, l’anno scorso, avete dovuto passare una prova per essere ammessi. Quest’anno non ci è stato possibile, perché i professori ci hanno recluso l’accesso sul tetto ». Riko aveva chiuso gli occhi, incrociato le braccia al petto e fatto una breve pausa per riflette.
« Per cui Hikari non è ancora un membro ufficiale della squadra » disse la coach, e già Kagami stava per tirare un sospiro di sollievo.
Riko tirò fuori dei fogli dalla tasca e li sventolò all’aria. Hikari li riconobbe all’istante.
« Qui ho dei documenti che regolamentano la partecipazione di Hikari alle partite ufficiali. Come vi ho detto, in assenza di una squadra femminile di basket lei è ammessa agli allenamenti, ma non è così facile per le partite. Serve l’approvazione del preside e della commissione regionale, che attestano le condizioni fisiche del soggetto e la validità della richiesta. Con questo, Hikari può giocare.
Tuttavia, non è ancora in squadra. Non ha superato la prova. Inoltre, non mi ha dato alcuna valida motivazione per giocare. Amare il basket non basta, Hikari, perché per noi questo non è un gioco. Dobbiamo vincere la Winter Cup, vogliamo vincere la Winter Cup, e non abbiamo bisogno di un membro che potrebbe minare l’equilibrio della squadra. Per cui vorrei che tu ora venissi avanti ed esponessi il motivo che ti ha spinto ad unirti a noi. Vorrei che tu fossi sincera, per favore. Se poi la squadra deciderà di mandarti via, strapperò la documentazione e non potrai più partecipare. Dovrai andartene ».
Rimasero tutti di sasso. Quello non era un atteggiamento tipico di Riko. Per quanto la coach fosse severa, non avrebbe mai compiuto un atto del genere. Era scorretto. Erano tutti stupiti e in difficoltà. Davvero volevano sobbarcarsi la responsabilità di pregiudicare a quella ragazza di giocare? Era una mossa meschina, e la meschinità metteva in dubbio la necessarietà di quell’azione.
Anche Hikari era in difficoltà. Per lei non era facile aprirsi e parlare dei suoi sentimenti e di ciò che la spingeva ad andare avanti. Non voleva parlarne con degli sconosciuti, che tra l’altro neanche la volevano con loro. Riconosceva tuttavia l’esigenza di dare una spiegazione, e in parte capiva le motivazioni e la diffidenza della squadra. Fece un passo avanti, poi un altro e un altro ancora. Affiancò Riko e guardò gli altri in faccia. Rifletté un po’ sulle parole da usare, poi decise che non valeva la pena girarci tanto intorno.
« Sono tornata in Giappone l’anno scorso, e ho avuto il tempo di vedervi giocare durante l’Inter High. Ho visto le vostre partite, quasi tutte: quella con Midorima, quella Aomine. Ho visto le vostre vittorie e la vostra sconfitta. Ho visto la differenza tra voi e gli altri della Generazione dei Miracoli. Ho scelto voi. In qualunque altra scuola fossi andata, avrei sempre giocato a basket. Avrei cercato di arrivare in vetta e di vincere. Tuttavia, per me vincere non basta. Io ho bisogno di una squadra, una squadra vera, e non di persone che giocano e basta. Ho osservato a lungo persone così e alla fine ho deciso che non mi piacciono ».
Hikari stringeva i pugni dietro la schiena, cercando di tenere a freno l’emozione. Tutti tacevano.
« E’ vero, non ho mai giocato in competizioni ufficiali, ma non ne avevo motivo. Amo il basket e mi piace giocare, non importa come e perché. Non mi è mai importato. Ma adesso ho un obiettivo e voglio, devo riuscire a raggiungerlo ».
Hikari guardò tutti, uno ad uno, e tacque.
« Io mi chiamo Hikari Akashi e sono la cugina di Seijuro Akashi, titolare della squadra di basket della scuola media Teiko. Ho intenzione di entrare nella Seirin e scontrarmi con lui, batterlo e vincere la Winter Cup. Le motivazioni che mi spingono a volerlo fare, tuttavia, sono personali, quindi vi pregherei di rispettare la mia decisione. Io non voglio scavalcare nessuno, né minare nessuno equilibrio. Vi sto chiedendo di aiutarmi. Allo stesso modo… »
Hikari guardò Kagami. Lo guardò a lungo, rimanendo in silenzio, quasi volesse far sì che il suo sguardo e tutto ciò che esso portava con sé potesse entrargli nella testa e non lasciarlo più.
« …in cui vi chiedo di non sottovalutarmi. So perfettamente quali sono i livelli a cui giocate, e conosco la Generazione. D’altronde, io sono cresciuta con Seijuro. Il suo basket è anche il mio ».
Questa volta, il silenzio si caricò di un’energia nuova, profonda, che riempì l’aria intorno a loro e fece pesare le parole della giovane molto più di quanto lei si sarebbe aspettata. Il più attonito di tutti, tuttavia, era Kuroko. Hikari poteva intuire quali fossero i sentimenti che smuovevano il suo animo, la preoccupazioni e lo stupore che spingevano i suoi ragionamenti a procedere verso nuove domande, nuovi dubbi e nuove questioni.
Anche Kagami e gli altri, inizialmente stupiti, sembravano ora assorti in un lungo tergiversare. Riko non parlava. Hikari temette che il suo discorso non fosse bastato a convincerli.
« Per me può restare » dichiarò Teppei « anche se non vuoi dirci il motivo che ti spinge a scontrarti con Akashi… quando sarai pronta, se vorrai, potrai parlarne con tutti noi. Per il resto, chi sono io per impedire a un’amante del basket di scendere in campo? Non è vero, ragazzi? ».
Hyuga chiuse gli occhi, sospirò e poi sorrise.
« Va bene, anche per me. Scusami, Hikari, non volevo offendere ».
« Tsk » Kagami incrociò le braccia al petto « fa’ come ti pare ».
A quel punto, oltre a Hikari, sorrise anche Riko.
« Bene, alzi la mano chi vuole che Hikari rimanga in squadra ».
La alzarono tutti, uno ad uno. Sebbene non fossero ancora del tutto sicuri, stavolta la rossa poté notare che la maggior parte della diffidenza nei suoi confronti era scemata. Quasi tutti, almeno, perché Kuroko fu l’unico che non alzò il braccio.
« Kuroko…? »
Riko parve presa in contropiede.
« Scusami, coach. E anche tu, Hikari. Non sono ancora sicuro che questa sia una buona idea. Per favore, datemi del tempo per riflettere ».
La rossa notò l’occhiata di Kagami a Kuroko che, di contro, non lo guardò. Quell’occhiata, seppur breve, fece trasparire attraverso Kagami molte più domande di quante avesse intenzione di mostrare. Perché Kuroko si comportava così? Perché era disposto a impedire che Hikari giocasse? Non era da lui. Di cosa aveva paura?
« Va bene, Kuroko, ma in ogni caso siamo la maggioranza, quindi Hikari giocherà ».
« Grazie, ragazzi » disse la giovane. Kuroko si limitò ad annuire.
 
 ***
 
« Rilassa qui ».
Hikari non voleva colpire lo stomaco di Hyuuga con così tanta forza, ma lo fece. Quando il ragazzo si piegò in due, le lacrime agli occhi, borbottando qualcosa che lei non capì, Hikari dovette trattenersi dal ridere e scusarsi ripetutamente.
« Perché mi hai dato un pugno nello stomaco? » domandò, la voce spezzata.
« Non volevo, scusami. Ero solo concentrata sull’allenamento e non me ne sono resa conto ». Hikari si grattò il capo e chiuse gli occhi, aprendosi a un sorriso che sperò potesse limitare i danni – e gli insulti.
Erano passati pochi giorni da quel fatidico discorso e le acque si erano calmate. In realtà l’atmosfera era più distesa anche e soprattutto perché avevano cominciato a lavorare individualmente e a coppie. Finalmente, Hikari aveva potuto mostrare qualcosa di più di una semplice corsa attorno alla scuola. Riko aveva insistito perché lei e Hyuuga si allenassero insieme, ritardando la sua collaborazione con Kagami e Teppei, che in quel momento si allenavano nell’altra metà del campo. Riko aveva anche insistito per trascinare tutti gli altri fuori, compreso Kuroko, perché diceva che dovevano tutti migliorare nei passaggi con l’altro ex membro della Generazione.
« Dovete essere coordinati » aveva detto « non possiamo permetterci margine d’errore. Faremo a rotazione, di settimana in settimana ».
Dunque, era ancora il turno di Hikari e Hyuuga.
La ragazza era sempre stata capace nei tiri lunghi, in realtà, anche se quel giorno, durante il torneo di street basket, aveva tirato sempre praticamente guardare, sperando che il colpo venisse centrato. Era stata fortuna, quella, e nient’altro.
« Beh, la prossima volta che ti viene in mente di attirare la mia attenzione in questo modo, pensaci due volte ». Hyuuga, scocciato, si aggiustò gli occhiali sul naso.
« Scusami » disse ancora Hikari « volevo spiegarti una cosa » aggiunse.
« Cosa? »
« Devi rilassare qui, essere meno teso sulle gambe ».
Hikari stavolta posò delicatamente una mano sullo stomaco del ragazzo, facendo pressione con due dita sulla bocca dello stomaco. Hyuuga parve a disagio, ma lei non ci fece caso.
« Se sei così teso già a questa distanza, non potrai mai tirare da metà campo » sentenziò Hikari.
« …da metà campo? Non riuscirò mai a tirare da metà campo. Non ho quel raggio di azione » rispose Hyuuga, con una sicurezza tale che Hikari fu quasi presa in contropiede. La sua faccia stupita fece venire al giovane il dubbio di aver detto un’enorme stupidaggine.
Erano a pochi metri dal canestro. Ora al centro, ma avevano tirato anche da altre diverse angolazioni. Hikari le aveva centrate tutte, e Hyuuga anche. Da quella distanza era facile anche per lui, perché era abituato. Tuttavia, Riko gli aveva domandato se potesse tener d’occhio la giovane rossa, e informarla di qualsiasi mossa fosse in grado di compiere. Adesso però gli parve che fosse lei a tenere le redini della situazione e a immergerlo in acque torbide e oscure.
« Non dire così, senpai. Se pensi di non potercela fare, non ce la farai davvero ».
La tecnica di Hikari consisteva nel saltare molto in alto. Non sapeva come una ragazza così piccola potesse elevarsi così tanto, fatto sta che quando tirava raggiungeva quasi la sua altezza in elevazione. Quando Hyuuga glielo aveva fatto notare, Hikari aveva sorriso e aveva detto che, essendo così piccola ma molto alta per essere una ragazza, non aveva problemi a saltare molto in alto. Inoltre, gli aveva fatto notare, i muscoli delle sue gambe erano forti.
« Vieni, ti faccio vedere ».
Hikari si diresse verso la metà campo. Kagami e Teppei, che giocavano molto vicino all’altro canestro, per un momento si voltarono a guardarli, poi ripresero. Hyuuga si domandò che cosa avesse intenzione di fare la rossa, più precisamente se avesse intenzione di tirare a canestro da quella distanza. Aveva visto solo un’altra persona tirare così: Midorima. Se Hikari fosse stata in grado di eguagliarlo, Hyuuga sarebbe stato costretto a pentirsi ancora di più della decisione che aveva preso all’inizio, ovvero quella di cacciarla dalla squadra. Era vero, anche alla partita di street basket aveva fatto una cosa del genere, ma il campo era molto di più piccolo del normale.
Hyuuga raccolse il pallone da terra e la affiancò.
« Tira » disse Hikari.
« Ma… »
« Tira, e poi descrivi le sensazioni del tuo corpo » ribadì.
Hyuuga si prese qualche istante, calibrò il tiro e lanciò. La palla sbatté sull’asse di metallo e uscì fuori dal canestro. Hikari corse a riacchiappare il pallone, raggiunse di nuovo il ragazzo e aspettò che le elencasse i nodi di tensioni che aveva sentito tirando.
« Sono teso sulle gambe, è vero. Credo di non riuscire a salire più di così » sentenziò, ed era vero, perché non aveva sentito altro. Nessuna tensione sullo stomaco.
« Riko mi ha detto che imprechi quando sei concentrato e che così riesci a prendere tutti i canestri » disse Hikari.
« Davvero Riko ti ha detto così? Impreco? » Hyuuga pareva quasi imbarazzato, ma Hikari ridacchiò e riprese il suo discorso.
« Il fatto che imprechi è una buona cosa » cominciò « significa che la tua tensione è anche psicologica. Evidentemente insultare gli altri ti aiuta a concentrarti e a tirare fuori la tua ansia. Tuttavia, non basta ».
Hikari si posizionò vicino a lui, prese il pallone tra le mani e guardò.
« Non puoi saltare più di così, ma non è il salto che cambierà il tuo tiro. Non importa quando salti in alto: se la tua mira è buona, la palla entrerà. Devi coordinare le mani, le braccia, e per questo è importante che rilassi anche il petto ».
Hyuuga era sinceramente colpito dalla spiegazione di Hikari. Possibile che Riko non si fosse mai accorta di tutta quella tensione accumulata?
« Non ti stupire, senpai » disse Hikari, come se gli avesse letto nel pensiero « Queste sono faccende che solo i giocatori di basket possono capire. Forse se avessi giocato senza maglietta, anche Riko se ne sarebbe resa conto, solo perché è lei ».
Hikari saltò, tirò. La palla entrò perfettamente nel canestro. Hyuuga rimase senza parole, e anche lo sfregare dei passi sul legno, dall’altra parte del campo, cessò quando lei lasciò andare il pallone dalle mani.
« Quando tiri, non devi riflettere sul fatto che la palla possa entrare o non entrare. Non devi pensare di sbagliare perché, anche se sbagli, ci sarà sempre qualcuno a coprirti le spalle. Midorima riesce nei suoi tiri perché crede di non poter sbagliare, e questo tanto gli basta per far sì che la palla vada a segno. Ciò che non ha mai considerato, è che il suo pensiero si è costruito e plasmato sulla base di un’unica grande verità: che lui ha sempre giocato con la Teiko, con la Generazione. Se pure avesse sbagliato, uno di loro avrebbe ripreso possesso della partita.
Rilassa il petto, lo stomaco, le gambe, salta quanto puoi e ricorda che, quando sei su, quando stai per tirare, non deve esserci nient’altro che il canestro e la tua squadra ».
Furono tutti sinceramente colpiti da quelle parole. Hikari era riuscita a capire con un solo movimento ciò che Hyuuga provasse, ciò che provava ogni volta che scendeva in campo. Era sicuro che avesse compreso quanto il suo ruolo di capitano gravasse sulle sue spalle; inoltre, la comparazione con Midorima lo lusingò e lo confortò. Era come se lei gli stesse dicendo che non c’erano motivi per cui lui non potesse raggiungere i livelli di Midorima, un membro della Generazione dei Miracoli.
« Ora, riprova. Anche se non senti la tensione sullo stomaco, sforzati di rilasciare la tensione in quel punto. Concentrati, fa finta che nessuno ti stia guardando. Non pensare a come tira Midorima, lancia a modo tuo ».
Hikari gli porse la palla. Hyuuga la prese. Nel mentre, Teppei e Kagami si avvicinarono, spinti ormai dalla curiosità.
Qualche secondo dopo, la palla centrò il canestro. Da metà campo.
Hyuuga rimase in silenzio, stupefatto dal suo stesso tiro. Hikari sorrideva amorevolmente, soddisfatta.
« Vedi? È solo questione di punti di vista, senpai » e gli diede dei colpetti soddisfatti sulla spalla.
Neanche Kagami parlò, limitandosi a guardare Hikari con uno sguardo indecifrabile.
Quella ragazza… era riuscita a spiegare a Hyuuga come fare. Lo aveva spinto a tirare e lui era riuscito, così, con semplicità. Non solo: pareva conoscere anche il modus operandi di Hyuuga e Midorima, come se avesse assistito a molte partite precedenti a quelle della Seirin. Come se avesse assistito a molte partite della Teiko.
« Complimenti, Hyuga-kun » disse Kyoshi, semplicemente, e sorrise senza sapere bene cosa aggiungere. Quando Hikari guardò Kagami, si accorse che la stava fissando. Il ragazzo distolse lo sguardo e tornò verso la sua metà del campo.
« Alleniamoci da metà campo, Hikari. Non sono sicuro di poter riuscire di nuovo a farlo ».
Hyuuga si aggiustò di nuovo gli occhiali sul naso e chiuse gli occhi. Hikari annuì e corse a prendere la palla.
Per quanto la sala fosse illuminata, Hyuuga ebbe l’impressione, per un momento, che Hikari brillasse di luce propria.

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Ciao ragazz*! Come state?
Spero che la FF vi stia piacendo! Io cerco di essere il più puntuale possibile con la pubblicazione, anche se ho poco tempo ultimamente. Per fortuna mi sono avvantaggiata con i capitoli, quindi posso proseguire con la stesura senza troppi intoppi. Rispetto ai primi tre capitoli, che avevo scritto anni fa, credo che la mia scrittura sia migliorata, anche se trovo lo stile molto più semplice rispetto a prima (non so se sia una buona oppure no). Comunque, fatemi sapere che cosa ne pensate. Vi abbraccio!

 

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Capitolo 6
*** Capitolo V - Milkshake e fiori di ciliegio ***


Era una bella giornata d’inverno e il locale non era particolarmente affollato. Anche se nel giro di poche settimane aveva ricominciato a fare freddo, almeno nel tardo pomeriggio, era ancora troppo presto perché gli studenti si riversassero nei locali per scampare al gelo invernale.
Riko, quel giorno, non li aveva fatti allenare. Il giorno successivo sarebbe cominciato il torneo di Winter Cup, e la coach aveva detto che dovevano essere riposati. Le aveva anche detto che lei non avrebbe giocato.
« Per ora starai in panchina. Ti farò entrare in campo solo se lo riterrò strettamente necessario ».
Hikari era delusa e non condivideva l’opinione di Riko, tuttavia non aveva protestato. Il tenerla in panchina poteva voler dire solo due cose: o non si fidava abbastanza di lei o voleva che lei fosse il Jolly della squadra. Hikari era anche abbastanza sicura che Hyuuga avesse parlato con la coach, riferendole ciò che gli aveva fatto fare e ciò che le aveva visto fare. Hikari sbagliava i tiri da lontano solo quando era molto stanca, ma era pur vero che i loro allenamenti si erano protratti molto. Aveva continuato ad allenarsi con il senpai anche dopo aver battibeccato con Kagami per un’ora e mezza di fila, saltando per schiacciare e cercando di evitare che lui andasse a canestro. Litigare mentre si allenava era un’azione aggiuntiva che minava il suo stato mentale per cui, i giorni in cui era molto a contatto con Kagami Taiga, era sempre più stanca del solito. Inoltre per lei bloccare le schiacciate di Kagami era impossibile. Era troppo forte, e Hikari troppo debole. Pur volendo, non avrebbe potuto arrestarlo. Lo stesso valeva per Teppei. Nella difesa sotto al canestro, Hikari non poteva competere con nessuno di loro due. Kagami non pareva voler comprendere i motivi di questa sua debolezza – ovvero il fatto che fosse una donna e che, in ogni caso, non sarebbe stata in grado di incentivare la sua forza oltre quello che il suo corpo permetteva – e, anzi, non perdeva occasione di accusarla. Hikari usciva da quegli allenamenti frustrata: per quanto rispondesse a tono, non c’era modo di placare quel bestione dalla zucca vuota. Qualche volta, però, si prendeva la rivincita. Era veloce e saltava in alto, per cui riusciva a prendere in contropiede entrambi i giocatori e segnava. Doveva cambiare ogni volta tecnica, però, perché ormai loro due avevano capito i suoi movimenti e stava diventando prevedibile contrastarli.
Kagami sembrava intenzionato a non perdonarle neanche questo.
Hikari non capiva il motivo di tanto accanimento visto che, di fatto, non stava facendo niente di male. Tuttavia nelle ultime settimane la tensione tra loro era salita alle stelle e Hikari era stanca di cercare di comprenderlo, preferendo ricambiare la sua ostilità gratuita con altrettante male parole.
Cominciava ad andargli sul cazzo.
Quel giorno aveva deciso di non tornare a casa, preferendo rintanarsi in un bar per studiare. Aveva molti compiti e poca voglia di farli: sapeva che, se fosse tornata a casa, avrebbe perso tempo davanti alla TV o a cucinare per nessun altro fuorché lei. Nel tragitto che la portò verso il bar parlò un po’ al telefono con suo padre. Erano giorni che si sentivano poco e lui sembrò essere preoccupato per la sua salute, visto che Hikari gli diceva sempre che si stava allenando. Dopo le solite raccomandazioni (« mangia », « non ti sforzare troppo », « stai attenta a quei ragazzi »), il padre le disse che era molto fiero di lei, che capiva perché lo stava facendo, che sarebbe tornato a casa presto. Hikari credeva a tutto, tranne a quest’ultima affermazione. Con gli anni avevano imparato a comprendere le parole del suo papà e i significati nascosti dietro le sue decisioni apparentemente innocue.
Sua madre e quella di Seijuro erano morte lo stesso giorno, nello stesso momento, alla stessa ora. L’incidente stradale aveva distrutto la macchina e loro due erano morte sul colpo. Suo padre non sopportava l’idea di tornare nella loro casa, dove vivevano tutti insieme, e trovarsi immerso nel fantasma di sua madre. Semplicemente: non tornava. Per quanto riguardava Hikari, tra i tanti altri eventi della sua vita quello era stato il decisivo: Hikari e Seijuro si erano avvicinati, nel bene e nel male. Il loro dolore era stato lo stesso e la compagnia l’uno dell’altra diventò presto un anestetico per la sofferenza. A distanza di anni aveva capito quanto potesse essere stato tossico quel rapporto. Il distacco era stato atroce, come se le avessero strappato via una parte di sé. Inoltre, non era dipeso da lei. Questa consapevolezza la faceva sprofondare in un vortice di emozioni contrastanti, che ancora non aveva imparato a decifrare. Preferiva scacciarne il pensiero, concentrandosi su altro.
Sapeva perché voleva scontrarsi con Seijuro, ma non era sicura di cosa questo avrebbe potuto significare per lei. Si chiedeva che cosa avrebbe provato, se quel gesto avrebbe potuto spazzare via la sofferenza, il dolore, la delusione. Non lo sapeva e, come detto, preferiva non pensarci.
« Un milkshake al cioccolato, per favore, e anche due anpan, tre sakuramochi, quattro dorayaki… »
Dopo cinque minuti Hikari aveva finito di fare l’elenco dei dolci che aveva scelto. La cassiera aveva cominciato a guardarla un po’ allibita dopo il primo minuto e mezzo, ma la rossa non le diede peso. Una volta preso il vassoio, dovette fare molta attenzione per non rovesciare tutto. Trovò posto a uno dei tavolini vicino la grande vetrata che dava all’esterno. Tra quei posti, intravide Kuroko.
Hikari s’avvicinò e lo salutò.
« Ciao, Kuroko-san. Posso sedermi? »
Kuroko alzò gli occhi e la guardò, in un modo che le fece intendere che aveva interrotto bruscamente la lettura del suo libro. Fece cenno di sì con la testa e Hikari poté sedersi. Cominciò a scartocciare uno dei dolci che aveva preso e, quando addentò uno dei dorayaki, Kuroko parlò.
« Mi hai notato, Hikari-san » disse semplicemente.
La rossa lo guardò sbattendo gli occhi.
« Sì, e allora? »
« Le persone di solito non lo fanno ».
Hikari ingoiò il boccone e sorrise leggermente.
« Non ti avevo notato la prima volta, né a te né allo scimmione, ma dopo un po’ ci si fa l’abitudine. No? »
Kuroko annuì.
Passarono alcuni lunghi minuti. Nessuno dei due parlò. Il silenzio tra loro non era pesante come le capitava in alcuni momenti imbarazzanti, né era carico di tensione. Era, anzi, abbastanza disteso. Hikari immaginava di dover parlare con Kuroko, che era stato più a contatto con la Generazione e che di conseguenza poteva meglio capire la sua storia, oltre al fatto che era stato proprio lui ad avere le maggiori remore su di lei.
« Io non ti ho mai notata, Hikari-san » disse ad un tratto lui « parlo del periodo della Teiko. Non ricordo di averti mai vista ».
Eccolo lì, che sfondava una porta aperta. Sorseggiava il suo milkshake alla vaniglia con calma, parlava con calma, la osservava senza ostilità né malizia, solo con un velo di curiosità. Era all’erta, pronto a una spiegazione o a un diniego. Hikari ingoiò l’ultimo dei due anpan e sospirò.
« Sono venuta a molte delle vostre partite, ma Seijuro l’ho sempre frequentato al di fuori della scuola » disse lei, guardando fuori « dimmi che cosa vuoi sapere, Kuroko-san, e facciamo in modo da non riaprire più questo discorso ».
L’aveva messa a disagio e lo sapeva. Non si aspettava una conversazione così diretta; Kuroko aveva sperato di poterci arrivare gradualmente.
« Hai detto che non ne vuoi parlare, Hikari-san ».
« Non voglio, infatti, ma credo che tu abbia il diritto di andare a fondo alla questione. Sai com’era diventato, a un certo punto ».
Kuroko non poté che assentire.
« E’ per questo che lo vuoi affrontare? »
Entrambi bevvero i loro milkshake. Hikari addentò l’ultimo dolce, finì di mangiarlo, andò a gettare le cartacce, posò il vassoio e si sedette di nuovo. Doveva pensare bene a che cosa dire, ma soprattutto stava cercando il coraggio di dirlo.
« Sì, è per questo » disse alla fine « io non so perché sia diventato così. O meglio: ne ho una vaga idea, ma nessuna conferma. Io e Seijuro siamo cresciuti insieme, siamo sempre stati insieme, sin da piccoli ».
Hikari decise di non parlare delle loro madri ed eclissare la questione. Non voleva fare pena a nessuno, meno che mai voleva che si sapesse.
« Abbiamo iniziato a giocare a basket insieme. Era l’unica cosa che ci permetteva di allontanarci da casa, soprattutto lui, che era sempre pieno di impegni. Suo padre non lo lasciava quasi mai libero. La sera ci mettevamo lì, al campo dietro casa, e giocavamo. Siamo diventati bravi e ci siamo creati una specie di tradizione. Ogni sera, stessa ora, fosse stato anche per dieci minuti, giocavamo a basket.
Ci sono stati eventi che ci hanno portato ad avvicinarci ancora di più, per cui avevamo anche iniziato a seguire insieme diversi corsi. Musica, per esempio. Lui suonava il violino e io il pianoforte. Poi atletica, scacchi e nuoto, che era l’unica disciplina in cui facevo davvero pena. Dopo anni la nostra diventò una competizione, ma rimase sempre in un ambito amichevole. Perdevo sempre a basket, ma gli tenevo testa. Era bello, comunque ».
Hikari guardò fuori.
« Poi, a un certo punto, i nostri incontri si trasformarono in una gara. Sentivo che qualcosa non andava, lo vedevo. Seijuro sembrava… diverso, ma non solo perché era più brusco, intrattabile e disgustosamente superbo, ma anche tormentato. Lo vedevo, non mi permetteva di avvicinarlo.
Poi, da un giorno all’altro, venne a parlarmi ».
Hikari bevve un altro sorso di milkshake, sperando che sciogliesse il nodo in gola che le stava impedendo di parlare. Continuò a guardare fuori, perché era doloroso affrontare quel discorso e perché le mancava il coraggio. Preferiva credere che stesse parlando da sola, che lì non ci fosse un’altra persona che la stava ascoltando.
Era la prima volta che parlava a qualcuno di quello che era successo tra lei e Seijuro.
« Disse semplicemente che non voleva più vedermi. Disse che non aveva senso continuare a giocare a basket, a fare musica, a giocare a scacchi perché io ero debole e questo offendeva la sua persona e tutta la famiglia Akashi. Disse che entrambi sapevano che era una perdita di tempo. Disse che lui mi aveva lasciato vincere molte volte nelle altre disciplie perché gli facevo pietà, perché si sentiva in dovere verso di me in quanto membro della famiglia. Disse che non sarei mai stata forte abbastanza e che se pensavo di poter giocare a livello ufficiale potevo pure scordarmelo, perché non sarei mai stata in grado di reggere la tensione né tantomeno il ritmo delle partite. Disse che non aveva più intenzione di continuare con questa storia, perché non aveva più tempo da perdere ».
Quando Hikari guardò di nuovo Kuroko, lui aveva abbassato lo sguardo e aveva smesso di bere il suo milkshake. La rossa ricordava perfettamente quel pomeriggio. Il campo era dietro casa di Seijuro e Hikari ogni giorno andava a fargli visita. Siccome Seijuro non aveva dovuto allenarsi quel giorno, la rossa l’aveva raggiunto poco dopo la fine delle lezioni. Era primavera, e i fiori di ciliegio avevano cominciato a perdere le foglie, dipingendo l’atmosfera di un rosa pallido, disegnando costellazioni di petali sul terreno. Ricordò di aver avuto l’impressione che l’atmosfera fosse pregna di magia, di pace e tranquillità.
Dopo la loro conversazione Hikari aveva pensato che il destino dovesse averle giocato davvero un brutto scherzo. Aveva visto un universo indifferente al suo dolore e questa consapevolezza l’aveva lasciata attonita. L’aveva fatta sentire infinitamente piccola.
« Ho passato anni a chiedermi se le sue parole fossero vere, a cercare di ignorarle, ma alla fine ho deciso che non potevo continuare in questo modo. Quando sono tornata a casa, quattro mesi fa, mi sono imbattuta in una partita della Seirin. Vi ho visti giocare e ho pensato che questa fosse la mia occasione. Non so ancora se lo faccio per lui, per dimostrargli qualcosa, per salvarlo, per vendetta, o per me. Voglio continuare a pensare che tutto quello che verrà da qui in poi mi aiuterà a capire chi sono senza Seijuro ».
Hikari parlava sinceramente, e stavolta guardava le sue mani intrecciate. Parlava come se Kuroko non ci fosse, in una conversazione che sembrava essere più con sé stessa che con lui. Di nuovo, quelle parole furono accompagnate da silenzio. Stavolta Hikari lo sentì pesare su di sé. Un macigno che si accompagnava a un altro.
« Scusami, Hikari-san » disse infine Kuroko « non volevo essere scortese. Ho avuto solo paura che… »
« Potessi essere come lui? » lo anticipò Hikari, posando il gomito sul tavolo e la mano sotto al mento. Il ragazzo annuì piano.
« No, Kuroko-san, non vorrei mai essere come lui ».
Hikari lo guardò con un’intensità che mise Kuroko a disagio e che gli ricordò, per quanto lei fosse una donna, Kagami. Poi lei sorrise, chiuse gli occhi e quella tensione si trasformò in imbarazzo, quando disse:
« Sai, quando ero più piccola avevo una cotta per te! »
Kuroko non fece in tempo a rispondere, né a giustificarsi, né tantomeno ebbe il tempo di arrossire. Dall’altra parte della sala arrivò una voce.
« Kurokocchi! »
Kise entrò nel loro campo visivo qualche secondo dopo aver salutato il compagno con entusiasmo. La prime cose che Hikari notò furono i capelli biondi, gli occhi dal taglio sottile, la bocca armonica e i lineamenti delicati. Kise era bello come lo era sempre stato. La seconda cosa fu che le ragazzine dall’altra parte del tavolo avevano preso a borbottare.
« Ciao, Kise-kun » salutò Kuroko.
« Ohi, Kise! Sei scemo ad urlare così forte? Siamo in un luogo pubbl… oh »
Kasamatsu aveva mollato, senza tante remore, uno scappellotto sulla testa al compagno. Prima di finire la frase, però, il suo sguardo si era posato su Hikari, che li guardava divertita.
« Kasamatsu-kun, perché mi picchi? Non ho fatto niente! »
« Non vedi, idiota? » il ragazzo assunse un’aria scocciata, e la rossa sospettò che si stesse trattenendo dal picchiare Kise di nuovo.
« Hai interrotto un appuntamento ».
A quel punto, Kuroko si strozzò col milkshake. Hikari ridacchiò e Kise per la prima volta parve accorgersi della sua presenza. Rimase a fissarla in silenzio, sbigottito. I capelli della ragazza erano legati in una crocchia scomposta e alcune ciocche rosse ricadevano distrattamente su un lato della spalla. Indossava una felpa lunga e nera, troppo larga per lei, jeans stretti e un paio di scarpe nere, che Kise vide solo perché era seduta scompostamente sulla sedia. Sorrideva, il braccio sotto al mento, e lo guardava con un’aria scherzosa. Più di tutto, più della sua figura, più del viso, degli occhi verdissimi, della bocca carnosa, lo colpì lo sguardo acceso e vispo.
L’attenzione che accendeva alle ragazze di solito era di natura diversa rispetto a quella: non esagerava nel dire che quella era la prima volta che una donna non desse segno di essere attratta da lui.
« Non avete interrotto niente. Io e Kuroko siamo compagni di squadra. Mi chiamo Hikari, piacere ».
« C-compagni di squadra? »
Kasamatsu non credette alle sue orecchie.
« Ma… che io sappia Kuroko gioca solo a basket » affermò Kise. Subito dopo aver pronunciato quelle parole ricordò di aver visto quella ragazza in un’altra occasione.
« Oh! Ma tu sei la ragazza che ha partecipato al torneo! » esclamò entusiasta, e Hikari annuì.
« Una donna può giocare in una squadra di maschi? » chiese subito Kasamatsu, che si affrettò ad aggiungere: « non che ci sia nulla di male, certo, voglio dire… non si è mai visto ». E arrossì, più per l’imbarazzo della situazione che per lei.
« C’è sempre l’eccezione che conferma la regola. Una Generazione dei Miracoli, una ragazza in una squadra di basket maschile, Kuroko-san che trova squisito il frappé alla vaniglia »
« Ohi » brontolò Kuroko. Tutti ridacchiarono.
« Beh, visto che non è appuntamento, non vi dispiacerà se sediamo con voi? »
Hikari aspettò che fosse Kuroko a rispondere. Il ragazzo fece un cenno di assenso.
« Tetsu-kuuuun! »
Una massa di capelli rosa. Gonna corta, gambe lunghe. Satsuki Momoi si aggiunse alla trafila di persone accanto al loro tavolo. Sorridente, felice, si gettò tra le braccia di Kuroko e affondò la testa del povero ragazzo nel suo seno.
« Momoi-san, non respiro » fu l’unica cosa che riuscì a borbottare.
« Tetsu-kun, mi sei mancato! Che fortuna trovarti qui! »
Momoi stava ancora sorridendo quando incrociò lo sguardo di Hikari. Silenzio. Kise trascinò via Kasamatsu.
« Andiamo a prendere da bere, senpai »
« Kise, cosa… »
« Dai dai, su, andiamo, sbrigati » ripeté mentre lo trascinava verso la cassa.
« Tetsu… tu… » cominciò a mormorare Momoi. Hikari rimase sbigottita di fronte alle sue improvvise lacrime.
« Tetsu! Ti sei fatto una ragazza?! » esclamò, la voce rotta dai singhiozzi. Stavolta fu Hikari a strozzarsi col milkshake.
« Momoi-san, lei non è la mia ragazza » disse Kuroko, con calma. Momoi lo afferrò per i baveri della camicia e lo avvicinò a lei.
« Dimmi la verità, Tetsu-kun! Dimmi la verità! »
« Ma è la verità »
Hikari aveva appena aperto bocca, ma non fece in tempo a parlare.
« Ohi » annunciò Kagami « solo uno stupido potrebbe decidere di fidanzarsi con Hikari. Ora lascialo… » silenzio « …per favore ».
Hikari sospirò.
« Non dovresti andartene a casa, meditare sulla partita di domani, passare il tempo a riflettere sulla tua inutilità? » ribatté Hikari. Kagami, che era appena entrato nel locale perché aveva visto la scena dall’esterno e aveva deciso di salvare Kuroko dalla morbosità della sua improbabile amica, sentì l’impulso improvviso di andarsene e piantarli in asso. Dopo tutte le discussioni avute con la rossa, non aveva proprio voglia di continuare a battibeccare ancora. Poi però pensò ai panini che avrebbe potuto mangiare se fosse rimasto, e questo bastò per piantare i piedi a terra. Non poté tuttavia frenare l’irritazione e, rosso di rabbia come sempre era quando rivolgeva la parola a quella piccola palla al piede, rispose:
« Tu dovresti allenarti, invece, piccola vipera! »
« Ohe, Satsuki, perché diavolo hai voluto trascinarmi in questa topaia? Stavo dormendo tanto bene… »
Aomine Daiki spuntò alle spalle di Kagami. L’aria visibilmente annoiata, per non dire stanca, la mano tra i capelli e l’altra in tasca. Satsuki aveva lasciato Kuroko non appena aveva sentito pronunciare le parole di Kagami e pareva essersi ridimensionata. Ora guardava Hikari con aria indagatrice, sospettosa e leggermente altera. Allo stesso tempo, parve presa dal battibecco con Kagami e probabilmente fu questo, più di tutto, a rincuorarla. L’arrivo di Aomine pose definitivamente fine al suo accanimento verso Kuroko.
« Aomine-kun, andiamo a prendere da mangiare e sediamoci qui. Non vi dispiace, no? » disse Satsuki rivolta a Kuroko, ma fu Hikari a rispondere.
« Certo che no » sorrise.
« Vorrei ben vedere » ribatté la rosa, che le diede altezzosamente alle spalle e trascinò via Aomine, che non aveva la più pallida idea di che cosa fosse appena successo. Kagami sbuffò, borbottò un « ci manca solo lui » e poi « vado a prendere da mangiare ».
Dopo pochi minuti, tornarono tutti. Attaccarono due tavoli al loro. Momoi sedette vicino a Kuroko e cominciò a sorseggiare il suo the freddo senza smettere di fissare Hikari, che si alzò poco dopo per andare a prendere altro milkshake. Arrivarono poi Kasamatsu e Kise, infine Aomine.
« Ohe, ci siete tutti. Che palle » proferì lui, con il vassoio colmo di panini, proprio come Kagami. Fu lui a rispondere.
« Puoi sempre alzarti e andartene, idiota ».
« Ormai sono seduto, idiota » ribatté Daiki. Si scambiarono un’occhiataccia e l’aria si caricò subito di tensione. Kise intervenne, sorridendo.
« Su su, ragazzi, non litigate. Ci sono due ragazze qui con noi, non è carino ».
Aomine si guardò intorno, poi guardò Satsuki e disse:
« Sei cieco, Kise? Ce n’è solo una, di ragazza, anche se le sue tette valgono per due ».
Il colpo di Satsuki arrivò tra capo e collo, e Aomine fu costretto a zittirsi.
« Idiota! » esclamò lei.
« Ha ragione lui, Kise, Hikari vale solo come palla al piede ».
Il colpo arrivò tra capo e collo anche a Kagami, che fu costretto a zittirsi.
« Dillo un’altra volta e passerò il resto della mia vita a infilare la tua testa in ogni singolo gabinetto della scuola ».
Hikari si era messa di nuovo a sedere. Lui trovò quella minaccia così inquietante che non se la sentì di ribattere; non era certo che lei non potesse mantenere la parola, se avesse continuato a provocarla.
Aomine si scoprì attento. Osservò la ragazza sorseggiare la sua bevanda e il suo sguardo cadde sul seno, nascosto tuttavia dalla maglia. Quando la guardò di nuovo in faccia, anche lei lo stava osservando.
« Vale anche per te » disse lei, minacciosa. Prima che Daiki potesse dire qualcosa, Kise si insinuò nella conversazione.
« Hikari-chan! Hikari è il tuo nome o il tuo cognome? Non so come chiamarti »
« Di certo non Hikari-chan » ribatté lei, scocciata, dopo essersi soffocata ancora una volta col milkshake. Kagami rideva sotto i baffi. La rossa gli tirò un calcio da sotto il tavolo.
« Hikari è il mio nome. Potete chiamarmi così »
« Ma il tuo cognome è…? » insistette Kise.
« Non importa » sorrise Hikari « chiamatemi così ».
Kise arrossì senza neanche rendersene conto.
Kuroko capì in quel momento perché Hikari non aveva voglia di far sapere a tutti della sua parentela con Akashi. Lo apprezzò. Il suo farsi chiamare per nome significava che non voleva lasciarsi definire dal suo sangue, né tantomeno dal suo legame con Akashi Seijuro. Comprese appieno la sua sofferenza solo in quel momento. Comprese i motivi che la spingevano ad andare avanti. Comprese il suo desiderio di staccarsi da lui e capire che fosse.
« Quanto ancora la vuoi fissare? » borbottò Momoi all’orecchio del giovane, che si strozzò col milkshake.
« Sai, Aominecchi, Hikari è un nuovo membro della Seirin. Probabilmente ci scontreremo tutti con lei! »
Aomine si strozzò con l’hamburger.
« Già » intervenne Kagami « l’ho pensato anche io ».
Hikari gli tirò un calcio sotto il tavolo.
« La fai finita? » sbraitò il suo compagno di squadra.
« Solo se tu la fai finita » ribatté lei.
« Il mio è un dato di fatto! »
« Anche i miei calci sono un dato di fatto ».
Se la fisica avesse reso possibile lanciare fulmini dagli occhi e carbonizzare l’avversario, Hikari e Kagami l’avrebbero fatto nello stesso istante. A interrompere il loro idilliaco desiderio di darsi fuoco fu Aomine Daiki, che sbottò a ridere. Rise con gusto, per lunghi istanti, e tutti lo guardarono chiedendosi che cosa ci trovasse si così divertente. Hikari ne intuì il motivo.
« Una donna… in squadra… » rise ancora « dovete essere proprio disperati ».
Kagami avrebbe voluto rispondere, ma non lo fece. Aveva ragione, d’altronde. Una donna in squadra era una barzelletta ed era proprio per questo che non la voleva. Non voleva ammettere che Hikari era capace, molto al di sopra degli standard. Preferiva convincersi che era inutile, una perdita tempo, anizché guardare in faccia la realtà: anche se non aveva odore, Hikari emetteva una luce particolare.
« Dai, Aominecchi, non esagerare. Anche se fosse, la vittoria per noi sarà più facile! » esclamò Kise, raggiante « basta che non sia noiosa » aggiunse.
« Sei sessista, Kise » disse Kuroko, calmo « ricorda che Momoi ci ha aiutato molto con i suoi consigli, anche se non era la nostra coach ».
Momoi si voltò a guardare il ragazzo, raggiante, e si sentì in dovere di rispondere. Sventolò un dito all’aria e recitò con aria fiera:
« E’ assolutamente vero. Kise-kun, non dovresti trattare così le ragazze. E neanche tu, Daiki-kun! »
Kise cominciò a grattarsi la testa, nervoso.
« Neh, neh, scusatemi. Non volevo dire questo ». In ogni caso, Kise si beccò un rimprovero anche da Kasamatsu.
« Non si insultano così le ragazze, Kise. Certe volte mi domando come fai a rimorchiartele, visti i tuoi modi ».
« Con il mio charme » ribatté il biondo, aprendosi a un’espressione sensuale. Hikari udì i risolini accesi delle ragazze in fondo alla sala e alzò gli occhi al cielo.
« Basta stronzate. Io non sto insultando nessuno. La mia è verità. Cosa pensate di guadagnarci? Verrete annientati molto più duramente di quanto sia accaduto durante l’Inter-High ».
Aomine stavolta non rideva più. Guardava Kagami, soprattutto Kagami, con aria svogliata. Dal suo sguardo traspariva solo una flebile, esile scintilla. Lo stava provocando. Ci riuscì: Hikari vide il suo compagno di squadra sul punto di rispondere a tono. Non glielo permise.
« La tua non è una verità, è una supposizione. E come tutte le supposizioni, potrebbe essere giusta o errata. Questo lo scoprirai a tempo debito, Aomine Daiki ».
Aomine la guardò a sottecchi, sospettoso. Poi sorrise di nuovo, beffardo.
« L’unica cosa che scoprirò, rossa, è che l’unico che può battermi sono io ».
Hikari ridacchiò a lungo prima di rispondere. Fu un comportamento che lasciò un po’ tutti attoniti e li mise all’erta. Nessuno aveva mai reagito in quel modo alla frase di Aomine, perché nessuno l’aveva mai sottovaluto, o aveva avuto il coraggio di sminuirlo. Daiki si scoprì irritato e un po’ stupito.
« Quando hai cominciato a crederci? » domandò Hikari. Attese davvero una risposta, e quando non la ricevette continuò:
« Fammi indovinare. Quando hai capito che il basket ti annoiava, o che i tuoi avversari erano troppo deboli per te. Così hai deciso di smettere di impegnarti perché nessuno era alla tua altezza ».
Hikari fece una smorfia disgustata, imitando il suo tono di voce.
Sentire quelle parole uscire dalla bocca di un’altra persona lo colpì, ma si sforzò di non darlo a vedere. Nascosto dietro il velo della superbia, come sempre faceva quando qualcosa o qualcuno provava a entrargli nella testa o a colpirlo in qualche modo, Aomine lasciò che questa lo guidasse lungo le linee di quell’assurda e scocciante conversazione.
Hikari sorrise, cogliendo i sentimenti del ragazzo.
« I motivi che ti spingono ad essere così arrogante sono stupidi. Prima o poi arriverà qualcuno in grado di batterti, e sarà allora che rimpiangerai le tue scelte. Sei fortunato, comunque, perché il tuo avversario arriverà presto ».
Anche Kise si era fatto serio. Forse stava ripensando alla sua sconfitta, durante l’Inter High. Tutti erano stati toccati da Aomine, tutti ne erano stati feriti. In tutti loro scoprì essere presente una determinazione che Hikari non poté far altro che ammirare. Aomine, in compenso, sembrava incazzato. Non rise, stavolta, limitandosi ad aggrottare la fronte. L’espressione che assunse, Hikari non poteva negarlo, le mise addosso una certa curiosità. Non era solo irritazione, bensì desiderio. Aomine voleva un avversario che fosse alla sua altezza. Voleva, in un certo senso, essere salvato da sé stesso. Hikari improvvisamente provò molta tenerezza per lui, una tenerezza sepolta in profondità, sotto l’impulso di spaccargli la faccia.
« Dovresti smetterla di fare psicanalisi, rossa, e chiudere la bocca. Sei insopportabile » Daiki sbuffò « la verità è che non potete fare niente, né Kise, né Tetsuya, né tantomeno te. Le donne non giocano a basket e, anche se tu fossi minimamente in grado di tenere una palla tra le mani, non saresti comunque al mio livello. Sei debole, esattamente come tutti gli altri. Basta guardarti ».
Stranamente, la rossa non ribatté. Kagami dovette guardarla per cogliere uno strano luccichio negli occhi, un’accesa consapevolezza in grado di zittire quel fannullone. Aveva pensato di ribattere, di ribadire il fatto che non si sarebbero dati per vinti, lui e Kuroko e la sua squadra, ma immaginò che Hikari avesse ancora molto altro da dire, molto altro da raccontare, cose che neanche lui comprendeva in pieno.
La guardarono alzarti in silenzio, afferrare la sua borsa e passare tra le sedie. Aomine fece una smorfia sprezzante, accompagnata da una risata smorzata. Kagami pensò che se ne sarebbe andata senza aggiungere altro, lasciando lui e Kuroko da soli con quei tipi balordi. Lo fece, in effetti, ma non prima di essersi avvicinata ad Aomine.
Kagami la guardò con curiosità. Hikari sorrideva, mentre poggiava la mano sulla spalla di Aomine e si avvicinava, da dietro, al suo orecchio. L’espressione di Daiki mutò ad ogni parola sussurrata, parole che solo lui poteva sentire. Infine, Hikari guardò Kagami. La ragazza alzò il dito posato sulla spalla del giovane e lo indicò. Aveva i capelli rossi davanti agli occhi ma, quando alzò la testa per guardarlo, a Kagami parve di notare un cambiamento nei suoi occhi, persino nei suoi lineamenti. Kagami lo trovò strano, ma la sua rimase solo un’impressione di cui si dimenticò quasi subito. Fu più colpito dallo sguardo di Aomine e dall’espressione soddisfatta di Hikari.
« Bene, io me ne vado a casa. Domani ho un esame di matematica. Ciao, ragazzi! »
« Ciao, Hikari-san »
Salutarono gli altri. Non servì che la ragazza uscisse dal locale per far sì che l’eco delle sue parole smettesse di rimbombare nella testa di Aomine Daiki.
« Presto sentirai lo stridere dei cardini di una porta. Quando quella porta cadrà, Aomine Daiki, avrai finalmente ciò che tanto desideri ».

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Capitolo 7
*** Capitolo VI - Hikari scende in campo ***


« Le selezioni sono quasi finite… il tempo è proprio volato, neh? »
Koganei si stiracchiò.
Camminavano sul marciapiede che costeggiava la strada principale, la stessa che li aveva portati fino allo stadio. Il sole tramontava, riempiendo il cielo di calde sfumature rossicce e più il sole spariva dietro i tetti delle case, più il freddo cominciava a farsi sentire. Hikari si strinse nella felpa.
« E’ presto per dirlo. La strada è ancora lunga, e poi ricorda che le selezioni sono iniziate la scorsa stagione, con l’Inter High. Questa che state vedendo è solo la punta dell’icerberg. Il nostro lavoro è iniziato con la competizione di quest’estate e non cesserà tanto presto… » sentenziò Riko.
« Comunque, sono stanco » Koganei sbadigliò.
« Ma se non hai fatto praticamente nulla! » esclamò la coach.
« Smettila di lamentarti, Koganei » aggiunse Hyuuga.
Hikari guardò Koganei e non disse niente. Sin dall’inizio erano rimasti seduti fianco a fianco. La rossa aveva guardato tutte le partite dalla panchina e non si era mai lamentata. Aveva osservato i giocatori in campo prima con interesse, poi con noia. Le vittorie della Seirin erano state quasi scontate e, per quanto fosse felice che la squadra avanzasse velocemente e riacquistasse molta della fiducia persa dopo la sconfitta con Aomine, lei non poteva far altro che sentirsi scoraggiata di fronte alla loro assoluta capacità di collaborare e vincere con poco sforzo. Voleva giocare, scendere in campo e dimostrare finalmente che si sbagliavano su di lei.
Sapeva che nella prossima partita sarebbe rimasta in panchina. Midorima Shintaro era affar loro, e Riko non voleva ancora lasciarla giocare con uno della Generazione; non subito, almeno. Hikari sospettava che la coach avesse in mente qualcosa, ma non riusciva a comprendere fino in fondo le sue intenzioni. Sperava solo che, dopo quella battaglia, avrebbe potuto cominciare a giocare.
 
Pareggiarono. Hikari rimase a guardare tutto il tempo, concentrata al massimo. Si sentì trascinata indietro, a quando molti anni prima si allenava con Seijuro al campo dietro casa. Provò un brivido dietro la schiena quando capì che avrebbe rivissuto un’esperienza simile combattendo contro i membri della Generazione. Se durante le altre partite era rimasta piacevolmente sorpresa dalla capacità della squadra di giocare in situazioni di forte pressione, ora era sbalordita dal loro talento. Adesso davvero non vedeva l’ora di iniziare a fare sul serio.
 
Quando sedette di nuovo in panchina, Hikari non poté far altro che continuare a riflettere sulle parole di Hyuga, che non l’avevano abbandonata dalla sera prima. Il Capitano le aveva spiegato che cosa era successo a Kyoshi, un anno fa. Ciò che più la preoccupava non era la partita che si sarebbe svolta di lì a pochi minuti, ma l’agitazione e il fervore del suo Capitano e di Kyoshi. Solo Riko sembrava concentrata, nascondendo molto bene la sua inquietudine dietro un velo di freddezza e determinazione. Kuroko e Kagami e gli altri membri della squadra erano preoccupati che potesse succedere di nuovo qualcosa di spiacevole, e anche lei aveva una brutta sensazione. Hikari si sforzava di prevedere l’esito della partita e, più lo faceva, più quello spiacevole presentimento si faceva strada fino alla sua gola. Cercò tuttavia di mantenere la calma: se anche lei l’avesse persa, per loro sarebbe stata la fine. Hikari si rendeva conto di essere la loro unica alternativa, se le cose si fossero messe male.
I suoi sospetti furono fondati. Allo scadere dei primi venti minuti di partita Kyoshi era pieno di lividi, Hyuga non aveva centrato neanche un tiro e Kagami aveva rischiato l’esclusione dal torneo.
Hikari l’aveva percepito chiaramente. Aveva sentito il sangue scorrerle nelle vene, scendere fino alle gambe per poi risalire verso il cuore, che aveva pompato a ritmo accelerato fin quando non si era resa conto che doveva osservare, nient’altro, solo osservare attentamente i movimenti della sua squadra e quelli degli avversari. Doveva rimanere vigile, attenta; doveva respirare, ricordarsi di respirare, fin quando quel ritmo non sarebbe stato in grado di placare la sua rabbia. Sangue, cuore, testa si fusero in un’unica, precisa macchina il cui fulcro era dato dai suoi occhi, attenti, accesi.
Quando Riko si girò a guardarla, ne fu spaventata. Hikari era curva nella schiena, i gomiti poggiati sulle gambe; due fessure, due lame taglienti schizzavano da una parte all’altra del campo, come un cacciatore che osserva attentamente la preda in attesa del momento più propizio per azzannarla al collo.
Kyoshi si prodigò a difendere i suoi compagni, ma alla fine del secondo tempo era messo male e il ginocchio infortunato ne risentiva. Hikari fece una smorfia quando si rese conto del suo stato e, di nuovo, le parole di Hyuga le riecheggiarono nella testa come uno spiacevole mantra. Si ritirarono in camerino. La rossa si diresse verso quello delle donne, chiamando Riko a sé. La Coach fece cenno alla squadra che li avrebbe raggiunti un attimo dopo e loro due rimasero sole.
« Devi farmi entrare in campo » annunciò Hikari, senza giri di parole.
« Sei impazzita, Hikari? Non metterò a rischio una ragazza contro quei mostri ».
La rossa la guardò e per un istante non disse niente. La guardò e basta, dritta negli occhi.
« Hyuga mi ha detto qual è la situazione di Kyoshi. Se continua così, non potrà andare neanche alla Winter Cup. Lo sai anche tu » ribadì Hikari, e la convinzione di Riko sembrò vacillare. Fece ricadere le braccia lungo i fianchi e sospirò.
« Lo so, ma… lui mi ha chiesto di farlo continuare » mormorò « e poi è troppo pericoloso, Hikari. Rischi di farti male anche tu. Sai che ho deciso di credere in te, tuttavia questa è una situazione troppo pericolosa. La tua costituzione è troppo fragile, se ricevessi un colpo troppo forte potresti finire in ospedale ».
Hikari mise una mano sulla spalla di Riko e sorrise.
« Coach, so che è una decisione difficile, ma devi fidarti di me. Non avete ancora visto niente. Ti assicuro che nessuno mi farà male, anzi… »
Riko la guardò. Aveva i capelli legati in una crocchia molto strana; se l’avessero vista dagli spalti, avrebbero potuto scambiarla per un uomo. Il seno era chiuso in una fascia contenitiva; le sue forme nascoste sotto la tuta. Se non avesse avuto i capelli rossi, avrebbero potuto scambiarla per Kuroko, visto il fisico gracile rispetto agli altri. Riko vide la bocca carnosa della giovane aprirsi a un sorriso quasi folle. Questo, più di tutto il resto, la spaventò.
« …ci devono solo provare ».
 
Qualche minuto dopo erano tutti in camerino e Riko aveva dato la notizia della sostituzione.
« Cosa? Coach, sei impazzita? » Hyuga si era alzo in piedi.
« Hikari, non scherzare! Non puoi scendere in campo, ti faranno a pezzi! » anche Kagami urlava.
« No » sentenziò Kyoshi « è da pazzi. Non lo permetterò. Posso continuare a giocare ». Anche lui sembrava arrabbiato. Riko tacque. Kuroko non disse niente.
« Questa è la mia decisione. Kyoshi, non m’importa se mi odierai. Non sei più in grado di giocare, quindi starai in panchina ».
Hikari intuì che quelle parole erano sofferte, perché sapeva che Riko avrebbe voluto fare tutto tranne privare il suo amico della rivincita. Allo stesso modo il suo istinto aveva prevalso; era disposta a prendersi la responsabilità dell’odio di Kyoshi nei suoi confronti, piuttosto che guardarlo autodistruggersi. Hikari la ammirò.
« Sostituisci Kyoshi, ma non far entrare Hikari » disse Hyuga.
« La ammazzeranno » Kagami assentì.
« Nessuno ammazzerà nessuno » intervenne Hikari, facendo un passo avanti « Senpai, se giochi adesso il tuo ginocchio non reggerà, lo sai pure tu. La Winter Cup è vicina, e non possiamo permetterci di perderti. Devi giocare ».
« Ha ragione, Kyoshi » aggiunse Hyuga.
« Lascia fare a noi, senpai » commentarono gli altri. Anche Kuroko parlò, dandole ragione.
« Rimane il fatto che… » Hyuga si aggiustò gli occhiali sul naso.
« No » intervenne Hikari, alzando la mano « entrerò in campo. È una mia decisione, me ne assumo la responsabilità. Dobbiamo vincere e tutti voi dovete rimanere lucidi, pensare che non stiamo solo giocando per il senpai, ma per arrivare alla Winter Cup. Per quanto mi riguarda, non corro rischi senza aver prima valutato tutti i pro e i contro. Dovete fidarvi di me ».
Hikari era sicura delle sue parole e determinata nello sguardo.
« Distruggiamoli » disse alla fine, e uscì dal camerino.
 
Il fischio dell’annuncio: Seirin, cambio!
Hikari aveva già fatto qualche passo avanti. Era elettrizzata. Non vedeva l’ora di scendere in campo, giocare, sfiorare il pallone con le mani, andare a canestro.
« Ohi, Hikari ».
La ragazza si voltò, le sue fantasie rotte da una voce dietro di lei. Kyoshi era seduto in panchina, l’asciugamano sul capo. Sembrava abbattuto, sconfitto. Notò che si stava sforzando di sorridere, di mantenere un tono pacato.
« Sta’ attenta »
Sapeva che non sopportava l’idea che una donna prendesse il suo posto. Non perché fosse donna, di fatto, ma perché sapeva che sarebbe stato pericoloso. Se avevano ridotto lui in quello stato, non poteva immaginare che cosa avrebbero fatto con lei. Teppei sperò con tutte le forze che, vedendola, vedendo una ragazza in campo, si sarebbero fatti degli scrupoli, che non l’avrebbero toccata. Tuttavia non poteva esserne sicuro: Makoto non era tipo da crearsi certi problemi. Voleva arrivare alla Winter Cup e, più di quello, soprattutto per quello, voleva fare male alla squadra.
« Mi stai sottovalutando, Cuore di Ferro » replicò Hikari con tono spazientito. Kyoshi stava per dire qualcosa, spiegandole che non era affatto così, ma la rossa lo precedette. Gli posò una mano sul capo e sorrise.
« Smettila di preoccuparti per me ».
Non gli diede tempo di rispondere. Si voltò, andò verso gli altri e disse:
« Winter Cup ».
Nessuno replicò, tutti annuirono.
 
« Ma guarda guarda ».
Hikari era di fronte a Makoto, ma non lo stava guardando. Fu stupita quando lui le rivolse la parola, perché non si era accorta della sua presenza, poco distante da lei. L’attenzione era verso le tribune, dove aveva intravisto la capigliatura rosa di Momoi e la figura di Aomine; dall’altra parte, Kise e il suo amico. Salutò entrambi con un gesto della mano, ma Ryouta fu il solo a ricambiare. Fatto questo, si rivolse a Makoto.
« Avevo sentito parlare di te, ma non mi aspettavo la Seirin fosse così disperata da mettere in squadra una donna » il ragazzo si rivolse a Kagami, che strinse i pugni.
« Pensate davvero che cambierà qualcosa? » Makoto si avvicinò a Hikari « Pensi davvero che ci faremo qualche poblema, solo perché sei una donna? ».
Stava per allungare una mano. Hikari lo vide sfiorarle la guancia, sfiorarle i capelli.
« Sei noioso » disse semplicemente. Makoto si bloccò.
« E parli troppo » aggiunse, e se ne andò prima che potesse arrivare a toccarla.
« Bene bene, ha anche la lingua lunga… » Makoto la guardò mentre si dirigeva a centro campo « …vediamo quanto ancora parlerai ».
Entrambe le squadre si presero un momento per parlare fra loro. Kagami disse a Hikari che probabilmente l’avrebbero colpita, se avessero avuto la possibilità, ma la rossa ignorò l’osservazione e disse a Kuroko e Kagami di passarle la palla, nel caso si fossero trovati in una situazione di stallo. Disse poi a Izuki di passare come aveva sempre fatto, non importava se l’avversario riusciva a contrastare il suo occhio; disse anche che Kuroko si sarebbe occupato di sviare Makoto per impedirgli di rubare la palla, come era successo alla fine del secondo quarto. Disse anche a Kuroko di stare all’erta, perché sarebbe stato colpito, prima o poi. Infine raccomandò a tutti di non fare mosse azzardate, e guardò Kagami. La sua faccia era contratta in una smorfia, ma non replicò. Era sinceramente curioso di vedere Hikari all’opera… ma soprattutto quello non era il momento di discutere.
Iniziarono a giocare. Come previsto, Makoto non riuscì più a rubare nessuna palla. Izuki si rilassò, mentre Hyuuga mancò ancora i canestri. Kagami riuscì a recuperare, e dopo dieci minuti avevano recuperato il divario che si era andato a creare. Erano cinque punti sotto. Hikari non aveva fatto niente di speciale, a parte marcare Occhi-da-pesce, il quale era rimasto colpito dalla capacità della ragazza di non farlo minimamente smuovere dalla posizione. A parte questo, Hikari aveva voluto sfruttare la capacità di Kuroko fino all’ultimo, mantenendosi tranquilla. C’era stata una questione, tuttavia, che aveva le aveva impedito di mantenere la calma: Makoto aveva cercato di colpire Kuroko per metterlo fuori gioco. Sebbene l’avesse previsto, vederlo con i propri occhi le aveva provocato un moto di disgusto e rabbia. Hikari non aveva mai visto nessuno giocare in quel modo. Anche Kuroko era furioso.
La questione fu liquidata con poche parole, con le quali Makoto si fece beffa di loro.
Dopo cinque minuti di pausa, la partita riprese.  
« Dobbiamo recuperare cinque punti » disse Hyuuga « state concentrati! »
« Sì! »
La Seirin prese la palla. Hyuuga mancò di nuovo il tiro e la Kirisaki prese la palla al rimbalzo. Yamazaki arrivò fino a metà campo, poi dovette passare la palla a Makoto. Hikari sapeva che avrebbero segnato grazie a Kagami, ma ritenne inutile far arrivare gli avversari fino alla loro metà del campo. Inoltre, non potevano permettersi di aumentare il divario: se, per qualche loro scherzo, avessero segnato ancora, il recupero sarebbe stato pressocché impossibile.
Decise di agire. Smarcò Occhi-da-Pesce senza dargli il tempo di rendersene conto, prese la palla prima di Makoto e saltò quando arrivò a poco più della metà del campo. La palla entrò. Suono. Erano sotto di tre.
Prima di tornare in posizione Hikari guardò Makoto.
« Non segnerai più un punto » disse semplicemente.
Lasciò Makoto con la bocca penzolante, spalancata per lo stupore. Si rivolse a Hyuuga, altrettanto stupito.
« Devi rilassare le spalle se vuoi tirare. E ricordati: non si tratta di Kyoshi. Dobbiamo arrivare alla Winter Cup. Fare mangiare la polvere a questi poveri sfigati è il massimo che tu possa fare ora ».
« Hikari, quando hai cominciato ad essere così volgare? » ribatté Kagami.
« Credo sia arrabbiata » disse Kuroko, un po’ atterrito, mentre la guardava andare verso la metà campo.
Hyuuga non rispose.
La partita riprese. Kagami fu costretto a passare a Kuroko e la palla andò a Hikari. La prese, corse verso il canestro. Fu bloccata da Makoto. Trovò il suo sorriso sgradevole, ma non si chiese che cos’avesse in mente. Hikari saltò.
« Sei stupida? Non riuscirai ad usare questo giochetto per due volte! »
Non sarebbe riuscita a tirare. La mano di Makoto bloccava la traiettoria. L’aveva previsto, quindi guardò alla sua destra. Izuki avrebbe potuto smarcare Frangetta-da-Cane e andare a canestro. La mano che stringeva la palla sviò la traiettoria.
« Una finta? Davvero? Allora sei stupida come credevo ».
Makoto si protese in quella direzione e, trionfante, aspettò che la palla cadesse proprio nelle mani del suo compagno. La palla non arrivò: Hikari aveva passato nella direzione opposta, senza guardare, continuando a tenere gli occhi direzionati verso Izuki.
Hyuuga, questa volta, centrò il canestro.
« Allora sei stupido come credevo » ribatté Hikari, senza battere ciglio.
« Maledetta stronza » borbottò Makoto, il viso imbruttito da una smorfia di rabbia repressa.
Il gioco procedette anche se Hikari fu marcata da due giocatori contemporaneamente. Poco importò a quel punto, perché Hyuuga cominciò finalmente a segnare e recuperarono, portandosi in vantaggio. A quel punto Hikari si limitò a fare da palo, occupando il gioco di due avversari e a contrastare i giocatori che volevano portarsi verso il canestro. Non segnarono più un punto.
Fu in quel momento, quando Makoto si rese conto dell’inutilità di ogni singola sua mossa contro di lei; quando prese consapevolezza che quella piccola vipera maledetta era anche peggiore dell’animo romantico e leale di Kyoshi che decise di contrattaccare. Avrebbero perso, era vero, ma quella stronza si sarebbe ricordata per parecchio tempo quella partita.
Non rimase più imbambolato a guardare la rossa che smarcava gli avversari, veloce tanto da non riuscire a capire come avesse fatto, ma tutti udirono il suo sciocco di dita. Makoto aveva atteso fino a quel momento; non l’avevano toccata, neanche un graffio, perché lei arrivasse esattamente dove volesse lui.
Hikari aveva respinto un gancio dell’avversario, saltando tanto quanto Yamazaki. La gomitata le arrivò dritta sul labbro. La prima cosa di cui si rimproverò, mentre cadeva, fu di non essersi accorta della mossa scorretta. La seconda questione che le venne in mente fu che, se fosse caduta di schiena, probabilmente sarebbe finita all’ospedale. Fece appena in tempo ad atterrare su una gamba, sentire un forte dolore alla caviglia e cadere di fianco. Sentì il sapore del sangue in bocca, e per un secondo non udì niente, solo un forte ronzio alle orecchie e il pulsare della caviglia e della spalla sotto gli indumenti. Nella caduta si erano sciolti i capelli e lei era riversa a terra, immobile, come fosse morta. Rimase così, cercando di riprendere il controllo e ignorare il dolore.
Fece pressione sui palmi delle mani, tirò su la testa e guardò il tabellone. Si sforzò di mettere a fuoco. Mancavano cinque secondi.
« Hikari! »
La squadra era tutta riversa verso di lei. Hikari si mise in ginocchio, si pulì il sangue con il palmo della mano e sentì di nuovo il sapore del sangue.
« Quanti tiri? » domandò.
Gli altri la guardarono stupiti, poi Izuki rispose.
« Due ».
Hikari annuì, sorridendo. Notarono tutti che, nell’alzarsi, non aveva poggiato la caviglia sinistra a terra. Kagami rimase a guardarla imbambolato. Mentre si rialzava, mentre continuava a pulirsi il sangue che le usciva dalla bocca, mentre gli dava le spalle per andare verso l’arbitro per dirgli che stava bene e poteva continuare; mentre intravedeva sotto la maglia della Seirin il grigiore di un livido che si stava formando dietro la spalla capì che quella ragazza faceva sul serio. Si rese conto di aver sbagliato a giudicarla, e si sentì in colpa per averla trattata male per tutto quel tempo.
Nessuno della squadra parlò quando la videro prendere posizione per tirare. Makoto aveva l’aria trionfante, nonostante avesse sperato in qualcosa di più serio. La caviglia però era comunque un risultato decente: ora si sarebbe goduto lo spettacolo che avrebbe portato la Seirin alla sconfitta.
Stava ancora sorridendo quando Hikari tirò e centrò il canestro, calibrando la traiettoria in modo che potesse evitare di scaricare troppo peso sul piede infortunato. Quando Hikari centrò anche il secondo canestro, nascondendo una smorfia di dolore sotto un sorriso compiaciuto, l’arbitro aveva fischiato la fine della partita.
Sorrisero tutti e si complimentarono con lei. Hyuuga le batté il cinque, si sistemò gli occhiali sul naso, si diede un contegno e disse:
« Bel lavoro, Hikari ». Voleva aggiungere che era stata lei ad aiutarlo a concentrarsi sulla partita, ma non ebbe il tempo di farlo né tanto meno il coraggio. Si limitò a sorriderle e a gioire con gli altri compagni.
« Andiamo alla Winter Cup, ragazzi » disse lei, con voce flebile. Sorrideva. Quando si girò, Kyoshi era lì. Le mise una mano sulla spalla e la ringraziò.
Si allinearono e salutarono a Kirisaki Daichi. Kyoshi disse qualcosa a Makoto e agli altri, ma Hikari dovette uscire dal campo e dirigersi nel camerino, trascinata da Riko. Le fece compagnia mentre si faceva la doccia; le urlò di lasciare la caviglia sotto l’acqua bollente e che dopo gliela avrebbe fasciata.
Hikari la mosse mentre era in piedi, sotto il getto dell’acqua, e provò sollievo nel sentire che il dolore diminuiva grazie ai vapori caldi. Quando uscì già la poggiava di più.
« Non credo serva andare in ospedale ora. Andrò dal mio medico domani mattina e mi farò controllare ».
Riko la guardava in silenzio.
« Hikari… »
« Mh? »
« …non far vedere mai a nessuno quelle tette ».
« Ma cosa c’entrano ora le mie tette?! » urlò la rossa, talmente imbarazzata che la sua faccia era diventata dello stesso colore dei suoi capelli. Si coprì ancora di più con l’asciugamano, cercando di non dar a vedere la protuberanza dei seni.
« …nessuno ti prenderebbe più sul serio »
« Ma cosa dici, Riko?! »
« …finiresti per distrarre tutti i ragazzi »
« Coach! »
Riko parve rinsavire solo dopo qualche secondo, scacciando il pensiero della sua seconda scarsa e tornando ai suoi modi abituali.
« Beh, vestiti. Ti medicherò la caviglia ».
Hikari fece quello che aveva detto in silenzio, velocissima, e si infilò la felpa per paura di qualche altra spiacevole considerazione sul suo seno. Alla fine si legò i capelli ancora umidi nella sua solita crocchia scomposta e guardò Riko medicarle il piede.
« Hikari ».
« Non dire altro sulle mie tette, per favore ».
« No, non dirò altro » precisò lei « voglio sapere una cosa ».
Hikari fu sorpresa. Annuì.
Riko aveva un occhio attento e aveva osservato la rossa durante la partita. Le spiegò alcuni movimenti che aveva effettuato, aprendosi a dettagli che neanche Hikari aveva considerato. Per lei era tutto naturale, il naturale susseguirsi di movimenti ponderati, studiati e allo stesso tempo grezzi, animaleschi, impulsivi. Il suo basket si basava sullo sfruttamento delle sue capacità di osservazione e sulla sua attitudine al gioco, che le forniva la possibilità di fare qualsiasi movimento lei volesse.
« All’inizio ho creduto che giocassi secondo lo stile di Aomine, ma non è così » disse Riko « è come se… se riuscissi a prevedere l’avversario ».
La Coach si alzò.
« Ho fatto ».
Hikari si infilò le scarpe e sistemò la borsa. Riko aveva messo una crema sulla caviglia che emanava calore; la fasciatura era stretta ma comoda. Giusto quello che serviva per arrivare fino a casa.
« Akashi ha proprio questa capacità. Prevede le mosse avversarie e agisce prima che essi le compiano. Io in questo caso mi sono basata su un’analisi precedente. Ho osservato attentamente le mosse dell’avversario e ho supposto che si sarebbero comportati in un certo modo ».
Riko era allibita.
« Mi stai dicendo che hai tirato a indovinare? » borbottò, contrariata.
Hikari sorrise e si grattò la testa.
« Non proprio. È una cosa che sento e basta. Non so spiegarlo » si giustificò.
« Quindi… tu non hai la stessa capacità di Akashi » disse Riko.
Hikari stava ora poggiando e alzando il piede a terra per sentire quanto le facesse male. Afferrò la borsa e si coprì con il cappuccio. Il labbro pulsava ancora, ma il sangue si era fermato. Chissà se le sarebbe rimasta la cicatrice.
« Andiamo ».
Riko non ribatté, accettando tacitamente il fatto che Hikari aveva voluto chiudere il discorso. Uscirono dal camerino in silenzio e raggiunsero gli altri.
 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII - Proposte Indecenti ***


Kagami la vedeva tutti i giorni arrivare a scuola. Pantaloni lunghi, capelli legati, felpe larghe e la testa altrove, lontana dagli sguardi indiscreti dei compagni. Per una settimana non si era allenata. Riko aveva comunicato agli altri che doveva stare al riposo e che avrebbe potuto ricominciare gradualmente a sforzare la caviglia dal lunedì successivo.
Era lunedì.
Hikari era rilassata, seppur assente. Parlava poco con i suoi compagni di classe ed era affabile con i suoi compagni di squadra, che incontrava di tanto in tanto per i corridoi. La ferita sul labbro si stava rimarginando, ma era evidente che sarebbe rimasta la cicatrice. Kagami non sapeva dire se le donasse o meno perché, non appena l’idea gli aveva sfiorato la mente, l’aveva cacciata via senza indugi.
Però era lì, che la guardava, indeciso. Quando Hikari passava gli dava il buongiorno e sorrideva, che fosse da solo o con Kuroko. Si stupì di scoprirsi impacciato e in imbarazzo nel ricambiare, ma a Tetsuya non sfuggì il fatto e si premurò di aspettare che la cosa riaccadesse per domandarglielo. Kagami liquidò con un “niente, pensavo” e l’amico non fece più domande.
Un’idea, in realtà, gli ronzava in testa dalla fine della partita. Non faceva altro che ripensare ai movimenti che aveva fatto, alle mosse che era riuscita ad anticipare con una velocità che faceva sembrare tutto naturale, automatico, come se chiunque potesse essere in grado di compiere quei gesti. Non solo aveva fermato la Kiriseki Daichi, ma aveva mantenuto la calma nonostante la rabbia. Aveva mostrato la sua forza senza superbia; l’aveva incanalata nei movimenti delle mani, del corpo, delle gambe e aveva creato una danza armonica, una danza che nascondeva la ferocia che aveva alimentato la sua determinazione.
In un primo momento, Kagami aveva pensato che il suo modo di giocare fosse molto simile a quello di Aomine, ma più rifletteva sull’accaduto più la sua convinzione veniva meno. C’era qualcosa di anomalo in quei movimenti e Kagami non riusciva a capire cosa fosse. Aveva addosso una strana sensazione; si sentiva come se si fosse trovato davanti qualcosa di molto più grosso di lui, di molto più profondo, e non riuscisse a comprenderlo. Per questo non faceva altro che pensare a Hikari e alla partita, ma le sue domande rimanevano senza risposta.
Aveva iniziato a pensare; una fantasia che avrebbe potuto concretizzarsi se solo avesse avuto il fegato per agire prima che fosse troppo tardi. Tra due giorni sarebbe partito per l’America e allora non avrebbe avuto più il tempo di combinare niente. Doveva sbrigarsi, prendere coraggio e mettere da parte l’orgoglio. Sapeva di dover diventare ancora più forte se voleva battere Aomine, e soprattutto sapeva di doversi staccare da Kuroko e pensare a incrementare le sue capacità. Non poteva continuare a fare affidamento sul piccoletto. Doveva pensare a sé stesso e in Hikari vedeva il modo per farlo.
Decise che quel pomeriggio l’avrebbe cercata. Avrebbe aspettato la fine delle lezioni e sarebbe andato da lei. Aveva anche deciso di saltare l’allenamento, cosa che non faceva praticamente mai. Era troppo urgente, però. Doveva capire. Doveva vedere.
 
Hikari si voltò. Cominciava a fare freddo e lei indossava un enorme maglione e una lunga sciarpa blu. Quando Kagami arrivò e le chiese di fare una passeggiata la sua faccia era avvolta per metà nella lana, ma tanto bastò ad evitare di palesare lo stupore che quella richiesta aveva provocato.
Si incamminarono insieme. Hikari non aveva detto una parola e si era limitata ad annuire. Aveva sperato che lui parlasse durante il tragitto, ma siccome non lo fece alla fine fu lei a rompere il silenzio.
« Cosa devi dirmi? »
Vide Kagami irrigidirsi, fare una faccia strana e fermarsi in mezzo al marciapiede. Lei lo guardò senza capire. Per un attimo temette avesse ingoiato un moscerino, o si fosse strozzato con la sua stessa saliva o stesse cercando di non tossire per chissà quale motivo.
« Facciamo un uno contro uno » vomitò le parole talmente in fretta che la rossa ci mise un po’ comprenderne il senso.
« Oh. Tutto qui? Pensavo stessi morendo » ribatté lei.
« Non sfottere, sono serio ».
Kagami aveva assunto un’espressione grave. Hikari continuava a non capire. Non aveva voglia di intavolare una discussione e approfondire la questione, cosa che non avrebbe fatto altro che farli litigare. Sospirò e accettò.
« La mia caviglia si è ristabilita, a quanto pare. Facciamolo ».
Trovarono un campetto da basket in mezzo al nulla. Era in disuso, ma si sarebbero accontentati. Hikari tolse la sciarpa ma tenne il maglione. Si tirò su le maniche e andò a centro campo.
« Tre punti » disse.
« Ok. Gioca seriamente » Kagami era davanti a lei.
« Io gioco sempre seriamente »
Hikari non capì che cosa volesse dire, almeno fin quando non iniziarono a giocare. La rossa fu presa subito in contropiede: Kagami la scartò senza difficoltà e corse verso il canestro. Non appena si voltò per raggiungerlo Hikari capì che non avrebbe fatto in tempo a bloccare il colpo. Saltò in ritardo e il ragazzo segnò senza difficoltà.
« Ti ho chiesto di giocare seriamente… » disse Kagami, cercando di reprimere un moto d’irritazione. Possibile che quella donna non volesse proprio prenderlo sul serio? Si guardarono; Kagami capì che era confusa. Sospirò.
« Per… »
Silenzio.
« P-per… »
Silenzio.
« Per favore ».
Silenzio.
« Hai fumato, per caso? » domandò Hikari. Stavolta Taiga sbuffò.
« A me la palla » aggiunse la rossa, stavolta sorridendo.
Tornarono al centro del campo. Hikari cominciò a palleggiare, a osservare il corpo di Kagami che fremeva, compiva gesti impercettibili. Scattò di lato al momento sbagliato, ma già aveva previsto che lui sarebbe stato troppo occupato a cercare di rubarle il pallone piuttosto che sospettare una finta. Hikari arrestò lo scarto e, nel farlo, fece un dribbling. Spostò l’equilibrio del corpo in modo da essere avvantaggiata nel movimento successivo, che consistette nel ritrarsi e fare un passo indietro. Poi saltò.
Non s’illudeva di poter arrivare più in alto di Kagami, ma fu comunque una sorpresa vederlo elevarsi così tanto. Tirò. La palla finì nelle mani del ragazzo.
« Pensi davvero di… »
Non fece in tempo a finire la frase. Hikari atterrò prima, rubò la palla a Kagami nel momento in cui lui la lasciò per farla rimbalzare e tirò a canestro con un gancio. Kagami non aveva avuto il tempo di reagire: lei era stata più veloce.
« Vuoi giocare seriamente? Allora non sottovalutarmi » disse. Stavolta sorrideva anche Kagami, soddisfatto e concentrato.
La partita durò più di mezz’ora, ma alla fine vinse lei. La caviglia aveva ricominciato a pulsarle. Non era ancora in forma, tuttavia era soddisfatta. Ricominciare a muoversi era una liberazione, una boccata d’aria fresca. Non aveva voluto dare soddisfazione a Makoto, per cui aveva avuto pazienza nel rispettare le direttive del medico. Solo ora che aveva giocato si era resa conto di quanto fosse stato difficile starsene buona.
Quando finirono erano entrambi sudati, col fiatone e i muscoli delle gambe che tremavano. Hikari dovette sedersi, allungare la gamba infortunata e allungarsi. Anche Kagami la imitò e occupò l’altra parte della panchina che arrugginiva a bordo campo.
Rimasero in silenzio entrambi, a lungo. Hikari faceva lunghi respiri per recuperare fiato e ignorava il dolore quanto più possibile; Kagami la guardava a sottecchi, deciso finalmente sul da farsi ma in imbarazzo per quello che le stava per domandare.
« Perché hai voluto giocare? ».
Fu di nuovo Hikari a rompere il silenzio. Leggeva qualcosa nel viso del ragazzo; non sapeva esattamente cosa fosse ma cominciava a sentirsi a disagio anche lei.
Kagami, con lo sguardo rivolto a un punto indefinito dall’altra parte del campo, parlò con una calma che Hikari non si sarebbe mai aspettata potesse appartenergli.
« Giochi come Aomine. Beh, non proprio come lui, ma il tuo gioco è simile al suo. Non so come faccia una donna a giocare come giochi tu » il ragazzo si voltò a guardarla un momento per appurare che non avesse detto qualcosa di sbagliato e quando vide la fronte aggrottata della ragazza si affrettò a continuare:
« Dico solo che sei minuta per gli standard ».
Hikari incrociò le braccia al petto.
« Intendo che non dovresti arrivare a raggiungere certe altezze »
Hikari alzò un sopracciglio.
« Sei intrattabile » borbottò Taiga. Una gocciolina di sudore lungo la schiena, accompagnata dalla consapevolezza di avere il tatto di una suola di scarpe consunta cinquant’anni, il giovane continuò, tentando di ignorare la tensione creatasi.
« Comunque, non so come tu faccia. So solo che ami il basket: si vede. Forse è per questo che non giochi come Aomine. Non dico che a lui non piaccia giocare, e a parte il fatto che stiamo parlando di uno spocchioso pallone gonfiato senza cervello… »
« Stai tergiversando » precisò Hikari.
Kagami sospirò. Decise di parlare senza più giri di parole. Si stava sentendo un idiota e, in più, sapeva che prima o poi avrebbe comunque dovuto dirglielo. La guardò.
« Vieni in America con me, ad allenarti ».
La rossa rimase lì, imbambolata, a fissarlo. Sentì un inaspettato calore alle guance, seguito da una stretta allo stomaco che le impedì di mandare giù saliva. Un momento di imbarazzo a cui si accompagnarono molte altre questioni. La prima fu quella di dover chiedere il permesso a suo padre, che non avrebbe acconsentito molto facilmente. Dopodiché venne la scuola, ma Kagami disse che dove stavano andando c’era un distaccamento della loro scuola, per cui non avrebbero dovuto perdere neanche un giorno. Udì queste parole distrattamente, come se provenissero da un luogo molto lontano e a lei arrivasse solo una eco poco chiaro. Si rese conto del fatto che prima di riflettere sui pro e i contro di quella proposta aveva già acconsentito. Il diniego non si era neanche formato nella sua mente.
« Se ti mette in imbarazzo, lo capisco » diceva Taiga.
Perché? Perché non ci aveva pensato neanche un attimo? Aveva giudicato Kagami sin dall’inizio, quando l’aveva visto giocare nella Seirin. Era rimasta incantata a guardarlo e aveva avuto l’impressione che loro due fossero molto simili: la determinazione, la passione e anche la rabbia che Taiga portava sul campo erano le stesse che avevano spinto a lei a giocare a basket e che, col tempo, l’avevano portata ad affinare la sua tecnica, a controllare i suoi istinti mentre giocava. Aveva visto in Kagami materiale grezzo su cui poter lavorare e allo stesso tempo aveva intuito la sua forza, il suo potenziale.
Kagami l’aveva affascinata e aveva continuato a farlo sebbene i loro battibecchi e i pregiudizi nei suoi confronti l’avessero spinta quasi al limite della sopportazione. Il fatto che ora la rivalutasse la lusingava e la sollevava allo stesso tempo, perché finalmente avrebbero potuto eliminare quella cortina di ferro che si era creata e che aveva limitato, a lungo, i loro rapporti.
« No… cioè sì… Ok, verrò » disse Hikari, ancora un po’ tesa.
« Devo solo sistemare delle cose » aggiunse.
« Se non hai un posto dove stare posso… »
« Mio padre ti ucciderebbe »
« …chiedere ad Alex »
« Ah » Hikari sperò di non essere diventata rossa come un peperone « e chi sarebbe Alex? »
Kagami si alzò in piedi e la ragazza lo seguì. Afferrarono le borse e uscirono dal campo.
« La mia vecchia coach » rispose il ragazzo « allenerà entrambi ».

 

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII - Welcome back America! ***


« Va bene, papà. Sì, ti chiamerò non appena arrivo. Grazie, papà. Ti voglio bene ».
Hikari attaccò. Sorrideva. Spense il telefono e se lo infilò in tasca. Rivolse lo sguardo fuori dal finestrino: erano ancora sulla pista e i passeggeri entravano lentamente e sedevano al posto assegnatogli, accompagnati dalle hostess.
Kagami era visibilmente a disagio. Hikari gli aveva domandato se avesse paura di volare, ma lui le aveva risposto che no, non era per quello. Ora continuava a muoversi, cambiare posizione, stendere le braccia, incrociarle, in una guerra spietata all’ultimo sbuffo di impazienza. La ragazza cercò di ignorarlo finché poté, ma alla fine dovette intimargli di darsi pace.
« Ti hanno messo una patata bollente sotto al sedile? » chiese, cercando di mantenere un tono pacato e tranquillo.
« Non dire cavolate. È che questi posti sono… » fece una pausa. Hikari lo vide cercare le parole adattate « …troppo comodi ».
Appunto, adatte.
« Troppo comodi » ripeté lei.
« Sì »
« E ti lamenti per questo? »
« Non mi sto lamentando » ribatté lui, scocciato « dico solo che non c’era bisogno che tuo padre pagasse per entrambi la prima classe ».
Hikari sorrise leggermente.
« E’ questo che ti mette a disagio? Non ti preoccupare, mio padre l’ha fatto volentieri »
Kagami la guardò di sottecchi, ancora più in imbarazzo.
« Non sono a disagio » disse.
« Sì che sei a disagio » ribatté la rossa.
« No »
« Sì »
« Avevo già il biglietto per me. Ti dico che non c’era bisogno »
« Ma così possiamo stare vicini con i sedili »
« Non c’era bisogno »
Hikari sbuffò e guardò di nuovo fuori dal finestrino per nascondere l’irritazione.
« Pensala come ti pare, ma ora smettila di muoverti. Sembri un gorilla con le coliche ».
« Cosa sembro…?! »
L’annuncio delle hostess interruppe bruscamente la loro conversazione. Hikari rifletté seriamente sulla sua decisone, presa di getto, di qualche giorno prima. Pensò che ormai era fatta e le sarebbe toccato partire, anche se era abbastanza sicura che sarebbe tornata con la gastrite.
Prima di imbarcarsi in quella che sarebbe stata una fervida avventura, aveva parlato con Kuroko e poi con Riko. Aveva messo al corrente entrambi della decisione di partire con Kagami, e a entrambi aveva detto che non avrebbe giocato nella prima partita di campionaoa. Questo avrebbe dato modo a Riko di strutturare delle strategie senza che lei ne fosse coinvolta.
La decisione era stata sua e, quando alla coach aveva spiegato il motivo, si era trovata d’accordo. Quella non era la sua battaglia; lei non c’entrava niente con la Too e con Aomine Daiki. Vincere con il suo aiuto non avrebbe giovato all’umore della squadra, per quanto adesso la accettassero. Era una questione in cui lei non voleva entrare. Ovviamente sarebbe scesa in campo, se fosse stato strettamente necessario. Voleva lasciare la vittoria alla Seirin, ma non voleva rinunciare a scontrarsi con suo cugino.
Aveva un buon presentimento, però. Di solito il suo istinto non sbagliava, per cui si era sentita abbastanza sicura quando aveva rassicurato Kuroko. Gli aveva detto che avrebbe aiutato Kagami a migliorare, e che doveva pensare anche lui a qualcosa che potesse agevolarlo nella tecnica. Si erano salutati con la certezza che, tra un mese, sarebbero stati più forti.
Hikari non ne aveva parlato con Kagami. Aspettava di arrivare in America e allenarsi, appurare i suoi miglioramenti e quelli dell’amico. Avrebbe atteso un momento tranquillo e gli avrebbe spiegato perché quella non era la sua battaglia; era abbastanza certa che, nonostante gli screzi che avrebbero sicuramente avuto, lui avrebbe capito.
La rossa prese le cuffie dentro lo zaino e se le mise intorno al collo. Si voltò verso la hostess che le chiese di allacciare le cinture e guardò Kagami di conseguenza. Era ancora imbronciato, ma adesso pareva aver trovato pace. Entrambi si scambiarono un’occhiata. Si accorsero di avere lo stesso modello di auricolari. Dello stesso colore.
Fecero entrambi una faccia strana, tra l’allibito, l’imbarazzato e l’irritato. Entrambi guardarono dalla parte opposta.
Dopo mezz’ora, finalmente, l’aereo decollò.
 
« Kagami-kun… ».
La voce rotta, soffocata. Le mancava il fiato. 
« Ka-Kagami-kun ».
I muscoli del suo corpo si tesero; una scarica d’energia le inondò il corpo, convergendo proprio nel punto in cui il ragazzo la stava toccando. I polmoni reclamavano ossigeno, ma non poteva averne. Seguiva i movimenti di lui, lenti e impacciati, e non faceva altro che essere in balìa dei suoi gesti.
« E’ troppo stretta ».
Inerme.
« Kagami… è… troppo stretta ».
Incapace di reagire.
« Kagami, brutto idiota, non mi farai circolare il sangue se non la smetti di stringere quella stramaledetta fasciatura! »
« Fasciatela da sola la tua stramaledetta caviglia, allora! »
Taiga, che fino a quel momento era stato talmente concentrato sul suo lavoro con le bende da non fare caso a quello che stava dicendo Hikari, aveva rischiato di perdere qualche anno di vita quando, improvvisamente, la ragazza aveva urlato e l’aveva colto alla sprovvista. La reazione era stata sbraitare, cosa che faceva da più o meno una settimana.
Le uniche volte in cui non battibeccava con Hikari era quando giocavano a basket e si allenavano con Alex. Persino lei, che era stata subito calorosa – fin troppo – con Hikari aveva notato l’attrito che c’era fra due; allo stesso modo, aveva fatto presente a Kagami l’incredibile sintonia che si andava a creare quando giocavano o si allenavano. Avevano smesso di accapigliarsi durante il training perché erano entrambi proiettati in avanti, verso gli stessi obiettivi. Spesso collaboravano, e Hikari si ritrovava spesso a far notare qualche aspetto interessante delle giocate di Kagami, incentivandolo al miglioramento. Di contro, e a modo suo, Taiga la stimolava a fare sempre meglio e a dare sempre il massimo, in ogni occasione. Ovviamente la sua caviglia ne aveva di nuovo risentito, per cui aveva dovuto rallentare la durata delle partite e del tempo che passava a correre o a saltare. Alex le aveva dato precise direttive e Hikari non aveva potuto fare altro che rispettarle. Una di queste comprendeva fasciarsi la caviglia prima e dopo il training, cosa in cui di solito l’aiutava Taiga.
« Non rispondere in questo modo, piuttosto cerca di controllarti! » urlò di contro Hikari.
« Sei veramente acida. Uno cerca di essere gentile e tu gli urli contro! »
« Gentile non significa amputarmi una caviglia, idiota »
« Hikari… ripetimi perché ti ho chiesto di venire in America con me… » borbottò Kagami, indecentemente inferocito.
« Perché sei una pippa » risposte Hikari, con calma.
Alex intervenne qualche secondo più tardi, evitando che i due si accapigliassero davvero.
« Va bene, guys, per oggi basta così. Hikari, se la caviglia non ti fa molto male tra due giorni potrai seguire di nuovo lo stesso allenamento di Taiga. In questo arco di tempo, starai ferma, così la caviglia si riprenderà una volta per tutte. Che ne diresti di affiancarmi durante il training delle mie squadre? E tu, Kagami… » Alex incrociò le braccia al petto e guardò il suo allievo con durezza « …tu dovresti imparare a trattare meglio le ragazze ».
« Ma… cosa?! Adesso la difendi anche? »
Visibilmente provato dalla solidarietà femminile delle due donne, Kagami non trovò altre argomentazioni con cui far valere la sua parola. Decise di girare i tacchi e andarsene, allontanarsi il più veloce possibile. Hikari e Alex rimasero da sole. La coach la guardò prepararsi, infilarsi la felpa con lentezza e stiracchiarsi con altrettanta pigrizia.
« Tu e Kagami siete tremendi, ma giocate molto bene insieme. Siete molto affiatati, anche quando vi ritrovate ad essere rivali ».
Alex esordì, seria ma con l’aria bonaria di chi era soddisfatta di ciò che vedeva. Hikari si limitò a sorridere leggermente, attendendo che continuasse.
« E’ strano che lui abbia preso il coraggio di chiederti di venire » aggiunse « di solito con le ragazze è un disastro »
La rossa si ritrovò a grattarsi la testa, in un gesto che faceva spesso quando era imbarazzata. In questo caso si aggiungeva anche uno strano senso di disagio.
« Non credo che mi consideri proprio come una ragazza normale » sbiascicò.
« Non lo sei, infatti » ribatté Alex « non ho mai visto niente di simile in tutta la mia carriera. I ragazzi del campo non riescono a tenere il passo di Kagami, ma tu sì. Sei fossi stata una mia avversaria quando giocavo nella sezione professionistica femminile, mi sarei chiesta se fosse umanamente possibile raggiungere i tuoi risultati ».
Alex aveva ponderato le parole, le aveva scelte con cura, tuttavia Hikari non aveva la più pallida idea di dove volesse andare a parare. Quello che aveva detto le sembrò quasi un complimento, ma lo sguardo serio e attento di Alex tradiva una preoccupazione e un’apprensione che le chiudeva lo stomaco.
« Se ti stai chiedendo come faccio, la risposta è che non lo so. Lo faccio e basta » esordì Hikari, alzando le spalle. Alex non tradì lo stupore che provò al sentirla pronunciare quelle parole; decise di continuare il suo discorso.
« No, non era questo ciò che intendevo » rispose « volevo solo dirti di stare attenta ».
« Attenta? »
« Sei giovane, hai talento, sei decisamente fuori dal comune. Tuttavia, temo che quando raggiungerai il tuo limite, quando sarai in grado di arrivare alla vetta e giocare al pieno delle tue potenzialità, il basket non avrà più nulla da offrirti ». Alex si aggiustò gli occhiali sul naso.
« Il fatto è che se puoi giocare nella sezione maschile è solo grazie a un colpo di fortuna. Nella sezione femminile saresti troppo al di sopra delle altre giocatrici. Oserei dire che sarà quasi impossibile trovare un’altra donna al tuo livello. Se tu continui a giocare ora, rischi di non trovare più nulla di interessante nel basket in futuro. Potrai annoiarti, non trovarlo più stimolante »
Hikari era seria, mortalmente seria. Alex si sentì in colpa, pensò di aver detto troppo. Si affrettò dunque ad aggiungere:
« Questo non vuol dire che devi mollare o che andrà sicuramente nel modo che ti ho esposto. La mia era solo una considerazione… tuttavia ho creduto fosse doveroso metterti al corrente della questione ».
Hikari rimase immobile, gli occhi puntati in un punto indefinito vicino ai suoi piedi. Rifletté, poi afferrò la borsa e sorrise.
« Non preoccuparti, Alex. Rinuncio volentieri a diventare una professionista, se vuol dire andare avanti con la squadra. E poi il basket non potrebbe mai annoiarmi, e sono sicura che non lo farà. Ho chi mi tiene testa. ».
Se ci fu una cosa che stupì Alex, al di delle parole pronunciate da Hikari, fu l’assoluta naturalezza con cui le proferì. Anche se la sua espressione risultò un po’ tesa e sicuramente poco allegra, riconobbe in lei lo spirito sincero di chi possiede la certezza lampante, chiara, logica che si esplicita solo quando si è presa una decisione definitiva. Sebbene fosse circondata da un’aura di mistero e chiunque la vedesse provasse una strana sensazione, come una calamita che attrae verso il proprio centro, come se fosse circondata da una forza impalpabile che spingeva le persone a temerla o a provare affetto, attrazione e curiosità, Alex comprese in quell’istante che tipo di persona fosse Hikari e l’apprezzò.
« Bene bene » disse alla fine, sorridente « allora tra due giorni inizieranno i giochi ».
Hikari ricambiò il sorriso e annuì.
« Oh cacchio! » esclamò subito dopo, dandosi un colpetto sulla fronte « mi sono dimenticata di dare una cosa a Bakagami ».
Frugò velocemente nella borsa e ne tirò fuori un dischetto. Si disse che forse, se avesse si fosse sbrigata, avrebbe potuto raggiungerlo prima che prendesse l’autobus per tornare a casa. Salutò velocemente Alex, uscì dal campo e cominciò a correre. Almeno, quella fu l’intenzione; invece s’imbatté in Kagami subito dopo essere uscita dal campo e aver svoltato l’angolo. Per non rendere le cose troppo piacevoli, ci andò a sbattere contro. Non cadde a terra solo perché aveva un buon equilibrio.
« Aia. Mi sono schiacciata il naso » borbottò « ma non te ne eri andato? ».
« Aspettavo che venissi a prendere l’autobus » rispose borbottando.
« Non c’era bisogno » disse lei, cercando di non sembrare brusca.
« E’ sera. Se ti molestano, tuo padre mi uccide » rispose.
Si stavano guardando. O meglio, Kagami la guardava. In modo strano. Continuava a fissarla con aria assorta, riflessiva.
« Hai sentito tutto? » chiese lei.
« No »
« Ok »
« Andiamo »
« Ok »
Si incamminarono verso la fermata. Hikari si ricordò dei dvd solo perché lo stringeva tra le mani: la sua testa aveva viaggiato, compiuto giri infiniti e poi era tornata alla realtà.
« Ah, a proposito. Questi sono per te ».
La ragazza li porse a Taiga, che li prese.
« Cosa sono? » chiese, confuso.
« I video delle vostre precedenti partite, compresa quella contro Aomine. Riko mi ha detto di darteli e vederli. E questi, invece » Hikari gli passò altri due dischetti « sono alcuni video della Teiko e di altre partite dei membri nelle squadre attuali. Guardali ».
Kagami si rigirò i DVD tra le mani, poi se li ficcò in borsa. Girarono l’angolo della strada e videro entrambi l’autobus in lontananza. Hikari aveva preso in affitto un appartamento a pochi metri dalla casa del ragazzo, cosicché potessero andare insieme sia a scuola sia agli allenamenti. I mezzi erano scomodi e Hikari, all’inizio, era sembrata visibilmente a disagio nel farne uso; Taiga aveva pensato che probabilmente non ne aveva mai preso uno bus e l’idea di perdersi la spaventava. In verità non la dispiaceva averla intorno perché, la maggior parte delle volte, la rossa si limitava a parlare del più o del meno, o a scambiare qualche parola sui compiti o sulla partita che avevano fatto durante gli allenamenti. Per il resto del tempo, quando si accorgeva di aver esaurito tutti gli argomenti di conversazione, se ne stava in silenzio, e tanto meglio così. Non c’era imbarazzo fra loro e Kagami si era ritrovato quasi ad apprezzare quei momenti: soprattutto perché non discutevano, si era detto.
« Dovrei guardarli solo io? » esordì poi, ricongiungendo il filo rosso dei suoi pensieri al momento presente.
« Guardali prima tu, poi li guarderò io » rispose Hikari. Erano arrivati alla fermata. La ragazza si era seduta sulla panchina sotto al gabbiotto, mentre Kagami aspettava in piedi e guardava verso destra, sul fondo della strada. Passarono dieci minuti, e della corsa successiva non c’era traccia.
Kagami guardò per l’ennesima volta l’ora sul telefono. Non sembrava spazientito dall’attesa; pareva piuttosto avesse un’urgenza e non potesse perdere tempo.
« E’ ancora presto. Guardiamoli insieme » esordì.
Hikari guardò l’ora a sua volta in un gesto che voleva avere l’obiettivo di prendere tempo per pensarci. In verità avrebbe voluto guardarli insieme a Taiga per discutere della visione mentre le idee e le osservazioni erano ancora fresche, cosicché non svanissero nel corso dei giorni; d’altra parte, non si sarebbe mai aspettata che glielo domandasse davvero, specialmente dopo il battibecco del giorno.
« Ok » disse « ma è quasi ora di cena ».
« Cucinerò io »
« Ti aiuterò » rispose Hikari.
« Solo se non cucini come la coach » borbottò Kagami, timoroso di scoprirlo.
La rossa non lo sentì, ma non ebbe modo di chiedergli di ripetersi. L’autobus arrivò, salirono e trovarono posto in fondo. Venti minuti dopo erano arrivati sulla via di casa. Un’ora dopo, Hikari suonò al campanello di Taiga.
 
« E’ buonissimo! »
La voce di Hikari risuonò squillante e dolce, riecheggiò per tutta la casa e si spense subito dopo, quando si riempì la bocca di zuppa, manzo e riso. Kagami continuava a guardarla sconcertato.
Lei gli aveva detto che, prima di venire da lui, sarebbe passata a casa sua per farsi una doccia e cambiarsi, cambiare la fasciatura alla caviglia e chiamare suo padre per dirgli che andava tutto bene. Kagami aveva fatto lo stesso. Sotto la doccia, mentre l’acqua lo puliva dal sudore e dalla polvere del campo, aveva ripensato alla conversazione che aveva udito poco prima.
« Rinuncio volentieri a diventare una professionista, se vuol dire andare avanti con la squadra ».
Non si era mai premurato di scoprire quali fossero gli obiettivi di Hikari al di fuori della Winter Cup. Tuttavia, sapeva che Alex non era solita fare discorsi del genere. Se aveva deciso di dirle la sua e affrontare un discorso così delicato era perché aveva colto una scintilla, un pericolo che si annidava proprio dietro l’angolo. Ora la cosa cominciava a preoccuparlo.
Neanche lui aveva ben chiaro che cosa avrebbe fatto dopo il liceo. Era ancora presto per pensarci e, per ora, i suoi pensieri erano tutti rivolti all’immediato futuro. Di una sola cosa era certo: se avesse avuto la benché minima possibilità di dedicare la sua vita al basket, di diventare un professionista, l’avrebbe fatto. Sapeva che non si sarebbe mai annoiato, che non sarebbe mai diventato come Aomine Daiki. Non era nella sua natura annullarsi, attaccarsi alla speranza che un giorno sarebbe arrivato qualcuno più forte di lui, rinnegare l’amore per il basket.
« …E poi il basket non potrebbe mai annoiarmi, e sono sicura che non lo farà: Kagami mi terrà sempre testa, e questo tanto basta per avere un avversario stimolante con cui confrontarsi ».
Hikari la pensava come Kagami. Non solo accettava con serenità il fatto che il basket, probabilmente, non sarebbe stato il suo futuro, ma dava per scontato il fatto che tra lei e lui ci sarebbe sempre stata competizione. Una persona che conosceva da così poco, con cui giocava da così poco, che riponeva in lui una fiducia totale nelle sue capacità. Hikari era strana e Kagami continuava a non capirla. Ponderata, calma, logica nei suoi ragionamenti, basava la vita sulle emozioni che provava, sui sentimenti che nutriva nei confronti degli altri e li analizzava, li sviscerava e dava loro una coerenza. Sapeva empatizzare, comprendere l’ottica dell’altro senza che nessuno le dicesse niente: ne coglieva l’emotività e giungeva alle sue conclusioni persino prima che la persona in questione ne fosse consapevole.
Era strabiliante, a modo suo. Nonostante tutto. Nonostante…
« Non ci posso credere, non è possibile… »
« Cosa? » la rossa alzò la testa dalla scodella. Non aveva minimamente sentito le parole di Kagami, che aveva continuato a borbottare per tutto il tempo senza prestare attenzione al cibo.
« Niente. Metto i DVD ».
Il ragazzo si alzò e quasi fece cadere tutto a terra. Hikari non ribatté solo perché era felice e soddisfatta della zuppa dell’amico. Quando Kagami era uscito dalla doccia, si era asciugato e vestito; subito dopo era arrivata lei e avevano iniziato a cucinare. Hikari si era limitata a tagliuzzare le verdure, lui aveva fatto il resto. Non avrebbe mai pensato che…
Infilò il DVD e lo avviò. La TV era poco distante dal basso tavolino su cui stavano mangiando, per cui avrebbero potuto guardarlo senza smettere di cenare. Inoltre, sarebbe stato un ottimo modo per riprendersi dallo shock.
Non poteva immaginare, se lo avesse saputo…
Le empiriche riflessioni cui aveva dato vita sotto la doccia erano sfumate di fronte alla consapevolezza, ritrovata, che Hikari fosse una donna. Ora non pensava più che ci fosse qualcosa di male in questo, perché lei gliene aveva dato larga dimostrazione, tuttavia non aveva potuto fare a meno di rimanere scosso. Durante gli allenamenti non aveva mai dato l’idea…
« Vuoi rimanere impalato di fronte al televisore per tutto il tempo o vuoi sederti e mangiare? »
Kagami strinse forte il telecomando tra le mani e tornò al tavolo con aria funerea, pallido e sconvolto. Non si era mai sentito così. Non era mai stato distratto da una cosa del genere, differentemente dalla maggior parte dei suoi amici. Le uniche questioni che lo interessavano erano il basket, il cibo, e a periodi alterni gli esami. Le ragazze, in generale, non avevano mai catturato la sua attenzione.
« Kagami, ti senti bene? »
La voce di Hikari lo riportò alla realtà. Il ragazzo si sforzò di guardare avanti, verso la televisione.
« Hikari » esordì con tono grave.
« Mh? »
« Infilati la felpa »
« Cosa? » Hikari era confusa.
« Rimettiti la felpa » ribadì Kagami.
La ragazza non disse niente. Si alzò e si indossò di nuovo il largo felpone nero che aveva usato per coprirsi dal freddo.
« Così morirò di caldo » borbottò, scocciata.
« Apriremo la finestra » rispose Kagami.
Lei si risedette e lo guardò solo quando il suo imbarazzo fu scemato e non sentì più le guance in fiamme. Continuò a guardarlo anche quando si alzò per andare a socchiudere la finestra del salone, e lo stava ancora guardando quando cominciò a mangiare, finalmente più rilassato.
Hikari non aveva mai avuto grandi problemi con il suo corpo, ma preferiva indossare abiti larghi e tute per una questione di comodità. Il suo abbigliamento variava con il suo umore, ma da quando era entrata nella squadra di basket aveva preferito non dare nell’occhio e confondersi con i suoi compagni. Tuttavia, ora che faceva freddo e che giocavano all’aperto, aveva smesso di indossare la fascia che le costringeva il seno preferendo sudare dentro la felpa. Se l’era tolta senza pensarci, perché davanti ai fornelli faceva caldo e la stanza aveva finito per riscaldarsi. Non indossava abiti succinti, solo una cannottiera smanicata, comoda. Hikari non aveva riflettuto riguardo alla possibilità di poter turbare Kagami semplicemente perché non aveva mai mostrato interesse per nessuna, neanche a scuola, neanche per l’amica di Aomine, Momoi, per la quale tutti davano di matto. E poi…
« Pensavo fossi gay ».
Kagami si strozzò con il riso. Hikari dovette soccorrerlo passandogli dell’acqua e dandogli piccoli colpetti sulla schiena.
« Sei… veramente… » tossì lui « una… »
« Bellissima, affascinante, irresistibile donna di mondo? »
Dopo aver ascoltato il ragazzo che la insultava tra un colpo di tosse e l’altro e dopo aver riso fino alle lacrime per il tentativo di lui di cercare aggettivi coloriti per descrivere la sua persona, Hikari e Kagami cominciarono a vedere i DVD.
Il primo raccoglieva alcune delle partite ultime partite della Teiko. Giocavano tutti, compreso Kuroko, che nel video venne inquadrato poco e niente. Kagami guardava assorto, tant’è che per i quaranta minuti successivi nessuno dei due parlò, e continuarono a mangiare finché non finì tutto quello che c’era sul tavolo. Alla fine della partita si spostarono sul divano: stavolta fu Hikari a togliere il DVD e a scegliere quale partita vedere.
« Non capisco, perché mi hai fatto vedere questa partita? Non ho trovato nulla di diverso da quello che ho visto sul campo quando abbiamo giocato contro la Generazione » esordì il ragazzo, incrociando le gambe sui cuscini e piegandosi in avanti con la schiena, in una posizione che a Hikari ricordò quella di un vecchio saggio dall’aria meditabonda.
« Non hai visto proprio niente? » chiese lei, infilando il DVD.
« Cosa avrei dovuto vedere? »
Hikari non rispose alla domanda.
« Guarda questa, poi ne parliamo ».
La partita successiva fu quella tra la Shutoku e la Seirin. Per Kagami, guardarsi di nuovo fu quasi imbarazzante; Hikari era invece rilassata, concentrata sulla visione. Taiga si chiese che cosa dovesse cogliere: che cosa aveva in mente Hikari? Su che cosa voleva farlo riflettere?
Alla fine della visione fu lei ad alzarsi di nuovo e cambiare DVD, scegliendo tra quelli a disposizione.
« Questa è tra la Too e la Seirin » disse, e si sedette di nuovo. Prima di avviarlo, però, decise di intavolare una discussione con Kagami.
« Allora? »
« Allora cosa? »
Hikari lo vide confuso. Sospirò.
« La partita della Teiko è stata girata poco prima della fine del loro ultimo anno. Quella tra la Seirin e la Shutoko è stata girata sei mesi dopo. Hai notato il miglioramento di Midorima? »
Kagami rifletté, poi annuì. Ricordò che anche Kuroko gli aveva detto che tutti i membri della Generazione erano migliorati, da quando li aveva visti l’ultima volta. Se l’aveva notato anche Hikari, a cui era bastata la semplice visione di un DVD, allora non aveva più dubbi al riguardo. La questione che gli appariva davanti agli occhi riguardava il dover mettersi di fronte a uno scoglio fondamentale.
« Il tuo problema non finisce solo ad Aomine. Se Midorima è migliorato così velocemente, allora ciò che si prospetta alla Winter Cup sarà una battaglia ancora più impegnativa di quella che hai affrontato finora. Tu sei l’asso, Kagami, e in caso di difficoltà la squadra conta su di te. »
Taiga abbassò gli occhi. Sentì il peso di una responsabilità che in quel momento gli pareva molto più grande di lui. Hikari capì e sorrise.
« Non sto dicendo di caricarti tutto sulle spalle » disse « ma non dovresti concentrarti troppo su Aomine. Tu e lui siete molto più simili di quanto pensi. Lui non mi preoccupa, e non dovrebbe preoccupare neanche te ».
Kagami la guardò. Hikari poggiava la testa sul dorso della mano; il braccio posato sullo schienale del divano; le gambe accavallate l’una sopra l’altra. Era rilassata, sorridente, sicura di quello che diceva.
« Come fai a esserne certa? » domandò Taiga. Nel suo tono non c’era ombra di scherno: la sua era pura e semplice curiosità.
« Tu hai una cosa che lui non ha, Kagami, ed è la voglia di vincere per la squadra. Arriverai a raggiungerlo nella tecnica, ma non è questo che ti porterà a superarlo. Sarà la determinazione a farlo, e la determinazione sarà data dall’affetto che provi per la squadra ».
Hikari alzò un dito quando lo vide aprire bocca.
« Se avete perso una volta contro Aomine è stato solo perché ti era superiore nella capacità e nella mente. Sei stato troppo impulsivo, non hai riflettuto sulle mosse che hai compiuto e non sei riuscito ad anticiparlo. Lui gioca a basket con naturalezza, riflette su quello che fa in modo automatico, perché ha anni di esperienza alle spalle e perché considera il basket un’estensione di sé »
La ragazza guardò Kagami seria.
« La tecnica si raggiunge, Kagami-kun. Hai tutte le capacità per farlo. Tuttavia, devi cambiare atteggiamento ».
Il giovane fu turbato dalle parole di Hikari.
« In che senso? » chiese, quasi seccato.
« Intendo che non ti devi far prendere troppo dalle emozioni. So che questo è il tuo punto forte, ma devi riuscire a controllarle, incanalarle ed esprimerle attraverso azioni che sono frutto di ragionamento. Devi valutare Aomine, studiarlo, osservarlo e infine… » Hikari unì le mani e intrecciò le dita « …bloccarlo e sconfiggerlo ».
« Parli come se fosse facile » disse Kagami, ma le parole suonavano lontane e recondite nella sua mente, che era occupata da una questione più pregnante: da dov’era spuntata fuori quella ragazza?
« E’ molto più facile di quanto pensi. Raggiunto Aomine, la vostra sarà solo una guerra di resistenza. E tu combatterai, ne sono sicura »
Hikari sorrise.
« Domani, dopo l’allenamento con Alex, ti farò vedere ».
Hikari aveva una strana luce negli occhi, quel desiderio febbricitante di scendere in campo. Taiga ne intuì la natura e, per la prima volta da quando la conosceva, sentì che erano molto più simili di quanto si sarebbe mai aspettato.
 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo IX - Amici ***


**Nell’anime, le partite della Winter Cup sono giocate tutte nell’arco di pochi giorni. In questa sede saranno invece dilazionate settimanalmente, per dare il tempo agli eventi di svilupparsi secondo un arco temporale più lungo e coerente con la trama**

 
Respiro corto. Gocce di sudore le scendevano lungo la fronte e le bruciavano gli occhi. La maglietta incollata al corpo; il calore asfissiante della felpa che aveva deciso di non togliersi. Hikari era davanti a lui, le gambe piegate, il petto che faceva su e giù e uno sguardo che metteva paura. Gli occhi erano due linee sottili, lame acuminate che coglievano ogni suo movimento, ogni sua intenzione.
Alex gli aveva suggerito di assumere una postura rilassata e questo aveva migliorato notevolmente la resa delle sue giocate. Non era bastato, comunque.
Da due settimane giocavano tutte le sere, nello stesso campo in cui si allevano durante il pomeriggio, con Alex. A volte riuscivano a prendere l’ultimo autobus per pura fortuna, si riducevano a correre a perdifiato verso la fermata. Avevano sfruttato tutto il tempo che avevano avuto a disposizione da quando a Hikari era passato il dolore alla caviglia: non si erano risparmiati nemmeno per un secondo.
Alla fine, i consigli di Hikari si erano rivelati preziosi. Avevano continuato a vedere i DVD delle vecchie partite e lei gli aveva fatto presente i punti deboli dell’avversario, oltre che i suoi. Aveva avuto l’accortezza di sviscerare i suoi errori, suggerire correzioni, ipotizzare posizioni e mosse. A Kagami aveva molto ricordato Alex, in un certo senso, con l’unica differenza che Hikari riusciva a cogliere al volo i sentimenti delle persone che la circondavano, e basava le sue supposizioni anche tenendo presente la componente emozionale.
« Il basket non è solo mettere la palla in buca » aveva detto un pomeriggio « il basket lo devi sentire nelle vene ».
Kagami dalle loro serate passate al campo aveva capito due cose su Hikari: era una donna totalmente fuori dal comune e non giocava affatto come Aomine Daiki. Aveva ascoltato con attenzione la conversazione tra lei e Alex e aveva riflettuto sulle parole della coach, sul fatto che se avesse continuato a giocare non avrebbe avuto più possibilità di stimolo nella sezione femminile. Col passare delle settimane Kagami si era convinto che lei non avesse già alcuna possibilità nel basket femminile. Non aveva mai visto una persona sfruttare il proprio corpo nel modo in cui faceva lei. Era un mostro.
« Vuoi muoverti? »
La voce spezzata di lei lo spinse ad agire. Si mosse senza pensarci, scartandola a destra, ma Hikari riuscì ad intercettare la palla e a togliergliela di mano. Kagami avvertì immediatamente la sensazione di non stringere più niente tra le dita e, quando si voltò, scattò subito per raggiungerla. Saltò dopo di lei e la superò in aria; Hikari riuscì comunque a segnare, più veloce e agile nei movimenti.
Toccarono terra proprio quando la palla aveva cominciato a fare su e giù al suolo, abbandonata a sé stessa in una parte del campo. Hikari era piegata in avanti, le mani sue fianchi, la voce spezzata per riprendere fiato. Si voltò verso Kagami.
« Sei… diventato… veloce » disse lei, sorridendo un secondo per poi tornare a incanalare aria nei polmoni. Era esausta, e anche lui.
« Mi hai comunque battuto. Di nuovo »
Kagami si pulì il sudore con la felpa. Hikari annuiva.
« Sì… avevi dubbi? »
Lui alzò gli occhi al cielo.
« E’ tardi. Dobbiamo andare » aggiunse la ragazza.
Presero le loro cose e si incamminarono verso la fermata dell’autobus.
Il giorno dopo Kagami e Hikari sarebbero ripartiti per il Giappone, giusto in tempo per l’inizio della Winter Cup. Lei era emozionata, euforica e preoccupata allo stesso tempo. Kagami condivideva i suoi sentimenti, tuttavia riusciva a tenerli a bada e a rimanere concentrato. Era strano che, in questo caso, fosse proprio lui a mantenere il sangue freddo: si era aspettato che fosse proprio Hikari a calmarlo e a ripetergli di non distrarsi troppo, invece negli ultimi giorni l’aveva vista perdersi nei suoi pensieri e stare con la testa per aria. Si animava solo quando giocavano; a scuola e durante le pause sembrava presa da altro, ammutoliva e guardava il nulla. Kagami intuiva quale fosse la fonte della sua preoccupazione, ma non si aspettava che Akashi Seijuro rappresentasse un così grande scoglio per lei. Sebbene fosse stata irritante e scorbutica sin da quando l’aveva conosciuta, era rimasto stupito dalla sua allegria e determinazione.
Allo stesso modo, Hikari rimaneva un’incognita cui Kagami non riusciva a dare una risposta. Quelle tre settimane passate insieme gli avevano fatto capire quanto in realtà fosse tormentato il suo animo, quanto profonda fosse la sua voglia di giocare a basket e vincere. Perché? Quell’accanimento per Seijuro Akashi non poteva essere solamente frutto di un profondo affetto; quel suo rincorrerlo, cercando di trovare una soluzione, per lui non era nient’altro che un gesto folle e insensato, e Hikari non compiva gesti folli e insensati.
« Sei distratta » esordì lui mentre si dirigevano verso la fermata dell’autobus.
« Mh? Credi? » la ragazza guardava avanti, la testa rivolta al marciapiede « sto pensando alla valigia e al viaggio ».
« Sei distratta da una settimana » precisò Kagami.
Hikari lo guardò corrucciata, poi si distese. Davvero lo era stata? Trovò strano che Taiga se ne fosse accorto, visto che non le prestava mai attenzione all’infuori del basket.
« Pensavo alle partite » disse.
« Hai detto tu che vinceremo contro Aomine, di che ti preoccupi? »
« Ho detto che vincerete contro Aomine, io non giocherò domani »
Kagami si fermò improvvisamente e Hikari fu costretta a voltarsi per guardarlo. Era paonazzo.
« Cosa?! E me lo dici ora?! »
Nonostante avesse alzato la voce, la rossa rise, mascherando la tensione. Era arrivato il momento di dirgli ciò che aveva detto a Riko e Kuroko prima di partire.
« Riko mi ha detto che andava bene, e Kuroko pure »
« Anche Kuroko lo sapeva?! » Kagami urlò più forte.
« Tranquillo, Kagami-kun. Quello che ti ho detto vale ancora: vincerai contro Aomine, il mio aiuto non vi serve »
« Lo so che vinceremo » precisò lui, offeso « ma… se ci trovassimo in difficoltà? »
Le parole gli morirono in gola. Ripensò alla sua partita contro Aomine e, per un attimo, ebbe paura di non essere all’altezza. Fu una sensazione spiacevole che si affrettò a scacciare dalla testa.
« Non entrerò » ribadì lei, dura « devi renderti conto della tua forza e Aomine è la persona perfetta per aiutarti in questo. Non entrerò neanche se steste perdendo ».
Kagami fece una smorfia.
« La mia forza? Anche se sono venuto in America per allenarmi e migliorare, io non gioco da solo. Io voglio vincere per la Seirin, ma questo a te non interessa. A te non interessa della squadra. Ti basta arrivare ad Akashi ».
Si pentì di quelle parole non appena le ebbe pronunciate. Non solo perché si rese conto da solo di aver buttato sale su una ferita non del tutto rimarginata, ma soprattutto per l’attimo che ne seguì. L’aria si fece pesante. Il silenzio si fece pesante. Una scarica elettrica gli sfiorò la pelle, attraversò il suo corpo dalla punta dei capelli alla punta delle dita. I suoi occhi, sfumature smeraldine che riflettevano la sua immagine, erano animati da emozioni indecifrabili. Il suo occhio, il destro, si tinse di un’ombra minacciosa. Un attimo, solo un momento, poi quella sensazione svanì, lasciando dietro Kagami solo una vaga scia di inquietudine.
« Io questa squadra l’ho scelta, Kagami Taiga. L’ho scelta e voi avete dovuto accettarmi. Anche tu mi ha scelta, quando mi hai chiesto di venire con te. » Hikari corrugò la fronte.
« Non ti permetto di dire che a me non interessa di voi. La battaglia tra la Seirin e la Too non è altro che un conto in sospeso che prescinde da me, perché io sono arrivata dopo, non c’entro niente. Tu devi affrontare Aomine per renderti e rendervi conto di cosa siete capaci di fare »
Hikari fece un passo avanti, poi un altro e un altro ancora. Arrivò proprio sotto di lui e, anche se fu costretta ad alzare la testa per guardarlo in faccia, fu Kagami quello intimorito.
« Se perdeste, sarebbe uguale. E sai perché? Perché la vittoria non è tutto, Kagami. Anche fallire va bene; anzi, va più che bene: permette di migliorare, di accrescersi, di diventare più forti. Se domani vincerai contro la Too, è solo perché ieri hai perso contro Aomine Daiki ».
Taiga sembrava ora aver completamente sbollito, e anche Hikari. Rimasero comunque lì, immobili, a soppesare le parole che avrebbero detto di lì a poco, in un gioco di botta e risposta che avrebbe definito il litigio o la resa di una delle due parti.
« Io… »
« L’autobus! »
Kagami fece appena in tempo ad alzare la testa. Videro il bus frecciare di fianco a loro e voltare l’angolo un secondo dopo. Le parole del ragazzo morirono così, ancor prima di nascere. Cominciarono a correre verso la fermata, ma non fecero in tempo a salire a bordo. Si ritrovarono col fiatone, di nuovo sudati, con la consapevolezza di aver lasciato a metà una discussione che se non fosse stata ripresa li avrebbe messi in imbarazzo, oltre a creare attrito. Kagami, in ogni caso, non aveva la benché minima intenzione di lasciare cadere il discorso così. La vicinanza di lei, il suo sguardo, le sue parole e il suo respiro addosso l’avevano confuso, e per tutto il tempo che erano rimasti così non ci aveva capito più niente; le parole erano rimaste lì, ferme, così come l’irritazione e il pentimento per quello che aveva detto. Non gli piacque quella sensazione, perché non gli apparteneva. Hikari cominciava a confonderlo in un modo nuovo, che non conosceva e che lo spaventava.
« Scusami, non volevo offenderti. È che sono preoccupato » disse, sedendosi sulla panchina sotto al porticato della fermata.
« Non devi esserlo. Andrà bene » Hikari si sedette poco distante.
« Sono preoccupato per te » precisò lui « cosa succederà quando te lo ritroverai di fronte? »
La rossa arrossì un po’, ma si premurò di nascondere il viso tra i capelli. Cosa sarebbe successo, quando sarebbe stato il momento? Avrebbe mantenuto la calma, dato in escandescenze, giocato come suo solito o sarebbe stata troppo distratta per concentrarsi? Cosa avrebbe provato? Cosa le avrebbe detto?
« Io… non lo so » mormorò a un certo punto « non lo so cosa proverò. So solo che dobbiamo vincere: per me, per Kuroko, per la squadra e per dare dei grandi calci nel culo alla Generazione dei Miracoli »
Hikari chiuse gli occhi e sorrise, un sorriso talmente profondo da mostrare tutta la dentatura. Più che sincero, era simpatico. Kagami ridacchiò beffardamente.
« Hai ragione » disse « l’importante è giocare insieme e divertirsi »
Hikari annuì.
« Hikari »
« Mh? »
La ragazza lo guardò. Capì che stava per dire qualcosa, qualcosa di importante, ma alla fine rinunciò.
« Niente »
« Kagami »
Taiga la guardò.
« Siamo amici? »
« Sì »
« Ok »
 
 
« Ma dove si è andato a cacciare? »
Hikari continuava a guardarsi intorno. La massa di persone che circondava lo stadio somigliava a una vera e propria marea umana: giocatori, staff e pubblico vorticavano intorno al palazzetto attendendo di entrare, o ronzavano intorno all’edificio aspettando il momento della partita cui avrebbero assistito. Hikari si sentiva a disagio come sempre le capitava quando si trovava in mezzo alla folla, era frastornata al punto che pensò di lasciar perdere la ricerca insensata di Kagami e chiamare Riko per dirle che erano proprio lì, erano arrivati e presto li avrebbero raggiunti.
Allo stesso tempo, temeva che Kagami la stesse cercando a sua volta e non riuscisse a trovarla, esattamente come stava capitando a lei. Hikari continuava a chiamarlo al telefono, invano. Quando sentì per l’ennesima volta il suono della segreteria telefonica, aveva iniziato a spazientirsi e lasciò perdere. La cosa migliore che potesse fare era continuare a camminare e dirigersi verso lo stadio. Per sentirsi a posto con la coscienza e non dover ammettere di avere scaricato Kagami senza neanche provare a cercarlo, decise che avrebbe fatto un giro intorno allo stadio sperando in un colpo di fortuna. Scettica, si incamminò.
Cercò di frenare l’irritazione. Perché si era allontanato? O forse era stata lei che, persa nei suoi pensieri, non aveva ascoltato le sue ultime parole? Non lo sapeva, ma in quel momento era troppo agitata per pensare lucidamente: trovò che insultare Kagami fosse molto il metodo più efficace per distrarsi. Se incanalava l’attenzione su di lui, l’agitazione spariva! Lo trovò quasi divertente.
Stava finendo di fare il suo giro quando li vide in lontananza. Prima che potesse ringraziare la sua sfortuna sfacciata, i suoi occhi avevano messo a fuoco la scena. Si fermò.
Lui era lì. Lì, in piedi, la figura slanciata, fiera come sempre. Lì, molto lontano da lei, abbastanza per evitare che la vedesse ma non sufficiente perché lei non sentisse la sua aura investirla in pieno. Sentì un colpo al cuore. Quanto tempo era passato? Un anno? Un anno e mezzo? Due? Hikari pensò che fosse un’infinità di tempo e allo stesso tempo sentì come se non fosse passato neanche un minuto. I suoi viaggi insieme al padre, le sue lezioni private, i suoi giri intorno al mondo, la sua vita da nomade, i suoi sforzi per andare avanti cercando di dimenticare non erano serviti a niente. Lo capì in quel momento, quando il dolore tornò a farsi sentire, acuto e grave. Aveva cercato di dimenticare per tanto tempo, aveva cercato di voltare pagina e lasciarsi alle spalle di parole di Akashi convincendosi che tutto quello che le aveva detto non era altro che una menzogna. Una parte di sé sapeva che, di fatto, era così: non aveva creduto alle sue affermazioni, non l’avevano messa in discussione come persona, non avevano intaccato la sua autostima, perché il suo carattere si basava sulla sua voglia di migliorare, sul desiderio di competizione e sui rischi che quest’ultimo comportava. La sconfitta era prerogativa fondamentale del gioco a cui Hikari aveva scelto di giocare. Perdere non la spaventava.
Ciò che l’aveva annientata emotivamente era stata la consapevolezza di dipendere da Akashi. Quando se ne era andato aveva capito quanto in realtà fosse attaccata lui e quanto le sue giornate, i suoi pensieri e la sua vita girasse tutto intorno alla sua persona. Si era sentita come se avesse avuto in mano un pugno di mosche e nient’altro. Le sue giornate erano di colpo diventate grigie, sciatte, noiose.
Non aveva avuto modo e non si era data il tempo di metabolizzare il dispiacere e di piangere, urlare e sfogarsi. Aveva tenuto tutto quel carico emozionale rinchiuso in una piccola parte del suo cervello, a inacidirsi e saturare fino a diventare un tarlo che continuava a trapanarle il cervello. Era tornata per cercare di risolvere la situazione con sé stessa, per trovare pace o vendetta o chissà che altro. Ancora non capiva cosa voleva, ma sapeva che doveva muoversi.
Si avvicinò con ritrovata determinazione. Hikari Akashi non era il tipo che si faceva mettere i piedi in testa, né tantomeno poteva lasciare che qualcuno si arrogasse il diritto di controllarla, o influenzarla, o scalfire la sua indole selvaggia.
« Kagami-kun »
Sbucò da dietro la figura del bestione. Si era avvicinata senza l’intento di nascondersi, ma nessuno l’aveva notata: erano presi dalla conversazione, a quanto pareva.
Kagami si girò di colpo, spaventato.
« Dove diavolo eri finita?! »
« Dov’eri finito tu, idiota »
Hikari era calma. Rispose a tono, con una sorta di automatismo che le permise di incentrare tutta l’attenzione su ciò che aveva intorno. Mise una mano sulla spalla dell’amico e lo invitò a scansarsi con un gesto. Kagami, stupito dalla freddezza della giovane e con il sospetto che fosse presa da ben altro – immaginava chi –, si tirò indietro senza controbattere e guardò i due Akashi.
Hikari aveva di nuovo quello sguardo tagliente. Pareva non aver affatto l’intenzione di nascondere il suo riserbo; allo stesso tempo, aveva il sospetto che si stesse contenendo.
« Seijuro »
Akashi la guardò dalla cima della scalinata. Se Hikari fosse arrivata solo qualche momento dopo, il loro incontro non sarebbe avvenuto. Akashi aveva già parlato e si stava allontanando, ma quando lei aveva fatto il suo ingresso aveva deciso di aspettare. Adesso la guardava con la stessa espressione folle di poco prima, quando aveva graffiato Kagami con le forbici. Kagami lo vide sorridere.
« Hikari » disse « finalmente hai deciso di tornare. Mi chiedevo quanto tempo avresti impiegato per prendere la giusta decisione e smettere di vagabondare ».
« E’ stato un lungo viaggio di riflessione, ho speso il mio tempo in maniera preziosa. Puoi considerarlo un pellegrinaggio » ribatté calma.
Seijuro si aprì ad un sorriso più palese.
« Intento ammirevole. Sappiamo tuttavia entrambi quali sono stati i reali motivi della tua partenza » disse il cugino.
« Non è da Akashi scappare » aggiunse dopo una breve pausa.
Hikari si impose di non perdere la calma, né di lasciar trasparire nessuna emozione. L’aria si era fatta pesante, e il silenzio cui tutti partecipavano era pregno di sgomento e tensione. Seijuro continuava a guardarla dall’alto della sua incontenibile superbia, con una presunzione che intimidiva tutti, persino i membri della Generazione.
« Non sto scappando » replicò.
« Continuare a negare ti metterà solo in cattiva luce, Hikari. Ai miei occhi, sei chi eri due anni fa, identica a quei giorni ».
Mi senti?
Un tremito alla mano.
Lasciami uscire di qui.
La rossa contenne l’irritazione scaricandola in una lenta salita verso Seijuro. Superò i membri della Generazione per trovarsi sotto di lui.
Smettila di respingermi. Fammi uscire di qui.
 Un gradino sotto Akashi.
« L’illusione è il miele degli stolti e la superbia il veleno dei perdenti » Hikari sorrideva. Da lì nessuno poteva vederla: se avessero potuto, probabilmente tutti avrebbero asserito alla stretta somiglianza tra i due.
« La mia vittoria è un dato di fatto. Anche contro di te, Hikari. Non importa quanto tempo lascerai passare ».
Aveva fatto centro.
Seijuro non aveva mosso un muscolo: non l’aveva toccata, non l’aveva istigata. A suo modo, l’aveva trattata come una minaccia. L’aveva intravista, aveva intravisto l’ombra di un fastidio, un impercettibile tremito nel suo sguardo.
Quando Akashi si allontanò, salutando con poche parole i presenti, non le rivolse il benché minimo sguardo. Dunque, anche lui la temeva.
« E così Akashi ha una sorella ».
Fu Kise a rompere il silenzio. Occhi socchiusi, sorriso beffardo, stava per dire qualcosa che avrebbe certo fatto effetto. Socchiuse le labbra, prese fiato…
« Shin! »
Hikari strinse tra le braccia Midorima Shintaro, voltandosi di scatto e quasi volando verso il ragazzo che se ne stava in piedi a qualche gradino di distanza.
« Cosa? Vi conoscete?! » Aomine e Kagami avevano parlato in coro, entrambi stupiti da quella scena.
Midorima aveva prontamente alzato le mani al cielo per evitare il contatto con la ragazza, che di contro lo stringeva incrociando le braccia intorno al petto del giovane, visibilmente a disagio. Fu con voce rotta e alterata che esclamò:
« Ohi! Hikari! »
« Sei più alto dell’ultima volta che ti ho visto » disse lei, sorridendo senza lasciarlo.
« Ma se ci siamo visti un mese fa! » ribatté lui, sempre con le mani all’aria.
« Ma non ci siamo neanche parlati un mese fa! »
« E’ uguale! »
Hikari cominciò a stringerlo più forte.
« Certo che potevi almeno avvicinarti… »
Lo strinse ancora più forte.
« … per salutarmi ».
Sentì le costole sotto la carne.
« …idiota ».
« Non… non respiro… »
Adesso le braccia rivolte verso l’alto non erano più per sfuggire all’abbraccio di Hikari, ma per chiedere aiuto. La rossa lo lasciò quasi subito, facendo un passo indietro. Si prese tempo per fare entrare aria nei polmoni, dopodiché si aggiustò gli occhiali sul naso e riassunse la sua espressione calma e riflessiva.
« Ero preso dalla partita » disse « ho un conto in sospeso con quello lì ». Midorima indicò Kagami.
« Oe! Io non sono “quello lì”! » replicò Kagami.
« Non è una giustificazione » Hikari e Shintaro lo ignorarono.
« Midorimacchi! Perché non ci hai mai detto che Aka-chin ha una sorella? » Si lamentò Kise.
« Non è sua sorella. Sono cugini » Midorima si aggiustò nuovamente gli occhiali sul naso.
Hikari si voltò verso i presenti. Riconobbe tutti, e in tutti lesse lo stupore che sempre avvolgeva chi aveva intorno quando rivelava il suo cognome.
« Io e Shintaro siamo amici da molti anni. Non ve l’ha mai detto perché è molto geloso »
« Non è affatto vero! »
Mentre Hikari ridacchiava, Midorima arrossiva e alzava la voce di qualche tono.
« Ahh, tutta questa storia comincia ad annoiarmi »
Murasakibara guardò dentro la scatola di snack che teneva in una mano, cercando di capire se ci fosse ancora qualche residuo di bastoncini al cioccolato. Appurato che non ce ne fossero più, decise di tornare da dove era venuto.
« Perché finiscono sempre subito? » borbottò. Non salutò.
Hikari si chiese come l’amico di Kagami, Himuro, potesse avere la pazienza di sopportare quel bestione. Da come l’aveva descritto Taiga mentre erano in America, Tatsuya doveva avere un’indole molto simile a quella di Kuroko, ma Hikari sapeva che neanche al sesto uomo fantasma Murasakibara ispirava simpatia. Considerando il risvolto che aveva preso nella vita di Seijuro, neanche a lei piaceva molto. Hikari aveva passato molto tempo a chiedersi se fosse colpa di Murasakibara: aveva saputo del suo episodio di insubordinazione da Akashi stesso, molto tempo prima, e aveva notato subito il cambiamento che questo aveva provocato in lui. Riflettendo approfonditamente era poi giunta alla conclusione che quel bestione non era altro che la goccia che aveva fatto traboccare il vaso per cui, pur sentendo il desiderio di scaricare le colpe su qualcun altro che non fosse Akashi stesso, non poteva accusarlo di niente. La sua indifferenza, tuttavia, la irritava parecchio.
« Bene, direi che è ora di andare » Kise aveva seguito con gli occhi Murasakibara e aveva cominciato a dirigersi verso lo stadio, seguito dagli altri. Hikari aspettò che Kagami e Kuroko la raggiungessero, dopodiché si incamminarono tutti e tre insieme.
« Ohi, Tetsu »
Si voltarono tutti in contemporanea, e nel loro campo visivo si delineò la figura slanciata di Aomine Daiki.
« Spero che questa volta tu abbia qualche asso nella manica »
Kuroko rimase in silenzio per un momento, e Aomine continuò.
« L’ultima volta sono rimasto molto deluso » disse.
« Dovresti piantarla di sottovalutarci » esordì Kagami, già largamente irritato dalla strafottenza dell’altro ragazzo. Aomine sbuffò in segno di scherno.
« Questa volta vinceremo, Aomine-kun »
Hikari capì, guardando Kuroko, che doveva essersi allenato molto. La determinazione che aveva negli occhi non era solo frutto di una ingenua illusione, bensì la consapevolezza di essere migliorato a tal punto che, se non ce l’avesse fatta in quell’occasione, allora non avrebbe potuto vincere mai più.
« Dici sempre cose senza senso, Tetsu » mormorò Aomine, indirizzando all’ombra un’occhiata tagliente.
Vi fu un momento di silenzio, un momento carico di una tensione che provocò a Hikari un brivido lungo la schiena.
« La bionda non cambierà la cose, anche se è la cugina di Akashi » esordì infine Daiki.
Hikari si irrigidì tutta, e la tensione si tramutò istintivamente in collera. Strinse i pugni e fece una faccia che palesò lo stupore e lo sdegno.
« Sono rossa naturale » mormorò, tagliente.
Kagami e Kuroko vollero ignorare il fatto che Hikari se la fosse presa più per il colore dei suoi capelli che per il senso della frase, la quale designava chiaramente l’opinione di Aomine nei confronti della giovane.
« Non avremo bisogno di Hikari. Basteremo noi » precisò Kagami « stavolta perderai ».
Aomine Daiki socchiuse gli occhi e fece per allontanarsi, sventolando la mano in aria come a voler scacciare un moscerino
« L’unico che può battermi sono io » disse.
Stavolta la ragazza non ribatté, preferendo che la sentissero solo i due suoi amici. Sorrise e disse:
« Non credo proprio ».
Tutti, in silenzio, acconsentirono.
 
 
Fu una partita affascinante. Persino Hikari, che pure aveva previsto che Kagami entrasse nella zone, rimase sbalordita da quello che aveva fatto durante il gioco. Guardandoli tutti giocare, in quell’occasione, capì di aver sottovalutato il potenziale della Seirin.
Vi furono momenti in cui pensò che non potevano farcela, nonostante gli sforzi. Fu tentata di rimangiarsi la parola ed entrare in campo, ma resistette e si convinse che non sarebbe stato necessario. Non lo fu, alla fine: la sintonia tra Kagami e Kuroko era qualcosa che non avrebbe potuto spiegare a parole, e funzionò. Si scoprì invidiosa di loro due, perché avevano un legame che non aveva mai sentito neanche con Seijuro, un rapporto diverso e privo di quell’ombra di competizione che c’era sempre stato tra lei e suo cugino. Pura e semplice amicizia che si stava lentamente insediando anche tra i suoi compagni, e che vedeva lei sempre come l’ultima arrivata. La scoraggiò un po’ vedere quei cinque ragazzi in campo mossi da una intesa che lei probabilmente non avrebbe mai avuto con loro, o che si sarebbe costruita solo col tempo, non sapeva con chi. Allo stesso tempo, man mano che li guardava, la voglia di giocare si fece sempre più preponderante, tant’è che uscì dalla sala frustrata e pronta per una sessione dall’allenamento.
In corridoio, Kagami la affiancò subito. Non avevano avuto il tempo di parlare perché l’euforia del momento li aveva colti tutti e aveva impedito che si parlasse di nient’altro che non fossero questioni frivole e allegre. La gioia del momento non era ancora passata e aveva invaso totalmente pure Taiga che, quando arrivò vicino a lei, le mise una mano una testa e cominciò a carezzarla con la delicatezza di una ventosa.
« Ohi! Avevi ragione, alla fine! »
Hikari fece una smorfia dal sapore bambinesco, imbronciata e stizzita.
« Lo so che avevo ragione. Non toccarmi i capelli » disse.
Camminavano verso l’uscita insieme a tutta la squadra. Lei aveva Kyoshi davanti, che si voltò a guardare la scena. In realtà si voltarono tutti a guardare la scena, ma Teppei fu l’unico che posò la sua manona sulla testa della rossa, nello stesso modo di Kagami.
« Non ti preoccupare, Hikari. Ti avremmo fatto entrare in campo, se lo avessi voluto »
« Sì, ma smettetela di toccarmi i capelli! » sbraitò lei.
« Grazie, Hikari-san. Non so come tu abbia fatto a calmare Kagami, ma hai compiuto un miracolo ».
Kuroko le mise una mano sulla spalla.
« Ohi! Che vuoi dire, Kuroko?! »
« Un vero miracolo, Hikari-san » ribadì il ragazzo, tranquillo.
Hikari non poté fare a meno di ridere, e la sua agitazione scemò un poco. Uscirono dal palazzetto tutti insieme e, quando si salutarono, Kagami e gli altri si ritrovarono a fare la strada insieme, mentre la rossa si incamminò da sola. Sospettò che Kagami volesse parlare alla squadra di Himuro, che avevano già incontrato in un’altra occasione cui Hikari non era presente. Lei sapeva solo perché, negli ultimi giorni in America, sia Taiga sia Alex gliene avevano parlato. Ciò che li aspettava non sarebbe stata solo una rivincita, ma un vero e proprio scontro tra fratelli. C’era anche da dire che la sua posizione nei confronti di Murasakibara non era delle migliori. Sapeva cos’era successo alla Teiko, ormai tanto tempo fa, perché Sejiuro e Midorima glielo avevano raccontato e da lì aveva appurato che Murasakibara non gli piaceva per niente.
Era eccitata, arrabbiata e impaziente che arrivasse il weekend per scendere in campo e questo fu il sentimento che la accompagnò per tutto il tragitto verso casa.
Quasi non si accorse di aver imboccato la via sbagliata. Aveva continuato a perdersi nelle sue riflessioni e a pensare alla partita cui aveva appena assistito; un vorticare elettrizzante di sensazione l’aveva pervasa fino a farle dimenticare ciò che la circondava. Quando si rese conto di non aver la più pallida idea di dove fosse si fermò e si voltò, consapevole di non aver fatto caso alla strada che aveva battuto e di non poter tornare indietro. Aveva paura di peggiorare la situazione e finire in una stradina secondaria, dove non avrebbe girato anima viva. In realtà, guardandosi intorno, neanche lì c’era anima viva. Però era ancora su una delle vie principali.
Hikari guardò l’ora, cercando di frenare il panico che aveva cominciato a chiuderle la gola e pensando che, se proprio non avesse ritrovato la strada, avrebbe potuto chiamare un taxi. Decise di proseguire ancora un po’: magari avrebbe capito in che zona era.
« Ma perché ho sempre la testa per aria? » mormorò.
Non arrivò a svoltare l’angolo. Camminò per qualche minuto costeggiando la strada e gli alti palazzi, lo sguardo rivolto alla fine della via, lì dove l’asfalto si diramava in due direzioni diverse. Fu la presenza di un campo da basket a distrarla per un attimo. La rete che correva tutt’intorno era spaccata in qualche punto; le reti del canestro erano aperte e le panchine erano mangiate dalla ruggine. Fu una persona ad attirarla verso l’entrata: Hikari riconobbe, alla luce dei lampioni che proiettavano una flebile luce nella zona circostante, una scompigliata capigliatura blu.
Aomine Daiki era curvo sulla panchina, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e uno sguardo assorto a guardare tutto e niente. Quando la ragazza entrò, lui non si accorse della sua presenza, segno che la sua testa era altrove, molto lontana da lei e da sé stesso.
« Ciao » disse, e furono le sue parole a far sì che ritornasse con i piedi per terra. Non parve felice di vederla.
« Che ci fai qui? »
Aveva l’aria stanca, per non dire stravolta. Hikari intuì che la sconfitta dovesse pesargli molto più di quanto avesse dato a vedere in campo, ma la cosa non la stupì. La rossa si limitò a sorridere, imbarazzata, e come faceva sempre quando era a disagio cominciò a passarsi le mani tra i capelli.
« Credo… di essermi persa ».
Aomine la osservò basito, senza sapere bene cosa dire.
« Come hai fatto a perderti? »
« Ero sovrappensiero » rispose lei, ignorando il tono di voce con cui le aveva posto la domanda. Probabilmente la stava prendendo per una stupida.
Daiki sbuffò.
« In fondo alla via c’è una fermata dell’autobus. Passano tutti per il centro della città » bofonchiò, poi la guardò a sottecchi « puoi arrivarci da sola » puntualizzò.
« Grazie ».
Hikari capì che voleva stare da solo, però non si mosse. Aveva sempre provato sentimenti contrastanti per Aomine Daiki, sin dalle medie. Anche se non aveva avuto mai contatti diretti con lui, sia Midorima sia Seijuro gliene avevano parlato molte volte. Lei aveva sviluppato una sorta di silenzioso rispetto nei suoi confronti, rispetto che era andato sfumando quando aveva avuto l’occasione di parlarci la prima volta. Ora, però, vederlo lì le provocava una strana sensazione. Le faceva tenerezza. Non era pietà, solo tenerezza. Era una cosa che non aveva quasi mai provato per nessuno, a parte Seijuro. Aomine le dava l’idea di essere tremendamente solo: adesso, dopo aver perso, era consapevole di essersi fatto terra bruciata intorno. Lo sapeva e probabilmente non aveva idea di come fare per rimediare. O forse ancora non voleva.
« Senti » sbottò lui a un certo punto « se sei qui per farmi la paternale, puoi pure lasciar perdere. Vattene ».
Hikari rimase immobile, trascinata via dalle sue riflessioni. La sua aria di strafottenza le provocava sempre un brivido di stizza. Continuò a guardarlo.
« Credo che tu ti sia detto abbastanza da solo » replicò.
Lui la osservò con la coda dell’occhio.
« Dov’è la fermata? Sulla destra o sulla sinistra? » chiese poi la rossa.
« Destra »
« Ok »
Hikari si voltò, si sistemò la borsa in spalla e si diresse fuori dal campo.
« Ohi »
La voce di Daiki la spinse a volarsi nella sua direzione. Si era alzato in piedi: ora la guardava con le mani nelle tasche, la postura svogliata e impigrita che cozzava con gli occhi attenti e accesi.
« Perché non hai giocato? » domandò.
Hikari ricambiò il suo sguardo, aggrottando la fronte.
« Perché vuoi saperlo? »
Vuoi davvero saperlo?
Pensò, ma non lo disse.
« Perché sì. Eri lì e non hai giocato, nonostante avessi voglia e la situazione fosse drastica. Non sei entrata, hai preferito sacrificare la tecnica di Kuroko anziché intervenire. Perché? »
Hikari non rispose subito. Rifletté sull’ironia di quel momento, sulla conversazione che stavano avendo. I ruoli parevano essersi invertiti: ora Aomine era curioso, Aomine era aperto alla discussione, mentre lei impersonava il ruolo della figura saccente e presuntuosa a cui non serviva parlare. Hikari non era sicura di poterlo battere in un uno contro uno, ma era certa che, insieme a Kagami e Kuroko, loro tre sarebbero stati inarrestabili. Almeno contro Aomine Daiki.
« Perché la vittoria sarebbe stata troppo sicura, e io non voglio scoprire subito tutte le mie carte » rispose semplicemente.
Un momento di stupore precedette una risata svogliata, cinica e senza allegria. Aomine si portò una mano al viso, a coprirsi gli occhi.
« Guarda che mi tocca sentire » disse.
La rossa rimase in silenzio.
« Mi hai additato come un arrogante fino a qualche ora fa, e ora sei tu quella che dice cose senza senso ».
« Non voglio essere arrogante: il mio è un dato di fatto. E comunque non sarei entrata in campo in ogni caso, non era la mia battaglia »
« Stai dicendo che non ne valeva la pena » borbottò lui, fra i denti.
Hikari fece qualche passo avanti e incrociò le braccia al petto.
« Sì » disse « in questo caso, sì. Ciò non vuol dire che non possa essere interessante giocare con te, in un altro contesto ».
Aomine la osservò per un lungo momento. La guardò dritto negli occhi, con aria contrariata. Ripensò al fatto che quella ragazza era la cugina di Akashi Seijuro e, per un istante, esitò a mettere in discussione le sue parole. Forse aveva ragione, forse era davvero più forte di lui. Questi pensieri gli parvero strani, sembravano non appartenergli. Capì che la sconfitta lo aveva profondamente cambiato, e si sentì quasi male.
« Bene. Allora ti faccio vedere quanto possa essere interessante ».
Mentre pronunciava quelle parole, Aomine si sfilò la felpa di dosso. Scoprì di non sopportare l’arroganza di quella ragazza, ma ancora più di quello non tollerava di sentirsi debole, di essere stato visto sconfitto di fronte a tutta quella gente, compresi i suoi ex compagni della Teiko, compresa lei.
« Cosa? Ora? Io devo… » Hikari non finì di parlare che Aomine le lanciò la palla tra le mani « gioca ».
La rossa sospirò, ma fu contenta che la loro conversazione avesse preso quella svolta. In questo modo avrebbe potuto scaricare la tensione accumulata standosene seduta senza fare niente: finalmente la serata subiva una svolta inaspettata.
« Credo che io e te diventeremo amici, Aomine Daiki » disse Hikari, posizionandosi di fronte al ragazzo. Con un ghigno, l’avversario rispose:
« Puoi pure continuare a sognare, rossa ».

 

 

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